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[Storia nominata agli Oscar EFPiani 2016 nella categoria "Migliore attrice non protagonista" (voce narrante). Quarta
classificata al contest “Le notti bianche di San Pietroburgo” indetto da Primavere rouge sul
forum di EFP e vincitrice dei premi "Best
place: Miglior ambientazione" e "Best Tear: Storia più commovente" nel contest “Tragic and Epic Love” indetto da Jo_gio17
sullo stesso forum.]
Note:
Mi rendo conto di aver inserito parecchie note a piè di pagina nel corso della
storia, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti geografici. Ciò è dovuto al
fatto che per rendere al meglio l’ambientazione, tanti dettagli della città di
San Pietroburgo vengono dati per scontati durante la storia, affinché il testo
non sia appesantito da spiegazioni continue. Eppure io stessa, per scrivere di
questa città, ho dovuto fare diverse ricerche su aspetti tutt’altro che scontati,
così, per fornire le dovute spiegazioni al lettore senza appesantire la
lettura, ho utilizzato le note.
La mietitrice
di San Pietroburgo
PROLOGO
Quella notte di metà
febbraio, l'inverno regalò a San Pietroburgo i fiocchi di neve più delicati
della stagione. Volteggiavano in balia del vento fino a posarsi sulla cattedrale
di san Pietro e Paolo, coronando di bianco l’angelo dorato sulla sua sommità.
Le strade ghiacciate serpeggiavano tra gli edifici come cicatrici argentate sul
volto pallido della città, attraversandola da parte a parte.
Vera Volkov[1],
sulla sua utilitaria blu zaffiro, aveva senza dubbio sottovalutato lo strato di
ghiaccio sull'asfalto o sopravvalutato le proprie abilità alla guida, perché
aveva perso il controllo del veicolo, finendo con la macchina acciambellata
attorno a un semaforo in un letale abbraccio di metallo accartocciato.
Seguendo un istinto più
antico di qualunque civiltà, più intimo di qualsiasi riflessione umana, mi
avvicinai a lei come le tante persone che si trovavano nei pressi del luogo
dell'incidente, desiderose di aiutare la poveretta o curiose di sapere cosa
stesse accadendo.
Nessuna di quelle
intenzioni era anche la mia. Seguivo semplicemente un percorso stabilito dalla
mia natura, che mi attirava irrimediabilmente verso di lei, attraverso la folla
che la accerchiava accalcandosi attorno al mezzo, fino ad appannare i vetri
posteriori dell’automobile con il calore del loro fiato.
Vera Volkov non era
ancora morta e non sembrava voler morire.
Pareva invece una
ragazza desiderosa di vivere, che aveva ancora tanto da scoprire, tanto da
ricevere, tanto da dare.
E, incredibilmente, io desiderai
che non morisse.
Guardai il suo corpo
compresso tra i rottami della macchina, la gabbia toracica schiacciata dal
volante, la testa china contro il parabrezza in frantumi, e sentii i soccorsi
che arrivavano a sirene spiegate, pronti a salvare la vita a una creatura
fragile ma preziosa come solo un essere umano poteva essere.
Fu in quel momento che
decisi che Vera Volkov non sarebbe morta quella sera: avrebbe vissuto almeno un
altro po' e io l'avrei osservata mentre lo faceva.
Una volta un uomo
saggio aveva detto che una persona viva è sempre meglio di una persona morta[2].
Aveva ragione. I vivi possono ancora morire, mentre i morti non possono tornare
a vivere.
[1] In russo, il
cognome Volkov attribuito a una donna dovrebbe diventare Volkova, ma ho
preferito lasciarlo così com’era perché lo ritenevo più adatto a un testo in
italiano, in modo che fosse anche più semplice associarla alla sua famiglia,
quella dei Volkov.
[2] “Un uomo vivo è meglio di qualsiasi uomo
morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto migliore di qualsiasi altro uomo
vivo o morto”, è una citazione tratta da “L’urlo e il furore” di William
Faulkner.
La camera di Vera
puzzava di disinfettante e medicinali e i corridoi dell'ospedale in cui era
stata ricoverata in seguito all'incidente erano animati da un continuo viavai
di gente. Suo padre e alcuni altri uomini erano costantemente impegnati a
liquidare le domande dei medici, che si interrogavano sull'inspiegabile
rapidità con cui la ragazza stava guarendo.
A Vera, infatti, non
era rimasto che qualche graffio e un paio di lividi dopo sole due settimane di
convalescenza e i dottori non riuscivano a comprendere come avesse potuto
riprendersi così in fretta.
«Non preoccupatevi»,
continuava a ripetere uno degli amici del padre di Vera, «conta solo che stia
bene.»
Isey era un uomo alto e
grosso, di quelli che mettono paura agli altri con la loro sola presenza, senza
fare niente in particolare. Di conseguenza, aveva la preziosa capacità di
mettere a tacere le persone senza il minimo sforzo, inclusi i dottori di Vera.
Ronzava attorno alla ragazza come una guardia del corpo in piena regola,
vegliando su di lei e sopportando pazientemente le sue vane proteste.
«Hai intenzione di
farmi da baby-sitter ancora per molto?», gli chiese Vera irritata.
«Solo finché tuo padre
lo riterrà necessario», replicò lui tranquillamente.
«Sono un lupo», ribatté
lei offesa. «So cavarmela da sola.»
La prima volta che
sentii quella risposta, pensai a un gioco di parole sul suo cognome[1].
In un secondo momento, mi convinsi che la ragazza si riferisse ai Lupi di
Tambov[2].
Non mi parve difficile immaginare il padre di Vera, un uomo imponente e
dall’aspetto autoritario, a capo di una banda. Lo stesso Isey sembrava
perfettamente in grado di essere un membro di qualche organizzazione criminale.
Questa teoria avrebbe spiegato l’enorme quantità di persone che andavano e
venivano dall’ospedale: se Vera era realmente la figlia del capo andava
protetta a ogni costo.
Ci vollero solo pochi
altri giorni prima che Vera avesse il permesso di lasciare l’ospedale.
«Credi che papà mi
lascerà qualche ora di libertà adesso che sto bene?», chiese Vera a Isey. Suo
padre andava a trovarla spesso, ma solo per pochi minuti, giusto il tempo di
ricordarle di restare sempre vicina alla sua guardia del corpo.
«Potrai chiederglielo
quando sarai tornata sana e salva a casa», replicò tranquillamente Isey.
Vera parve non
ascoltarlo neanche, impegnata com’era a ticchettare sulla tastiera del
cellulare.
«Facciamo così»,
iniziò. «Va’ a casa e di’ a mio padre che tornerò tra un paio d’ore. Se dovesse
arrabbiarsi troppo inviami un SMS e vedrò di tornare il prima possibile.»
Isey la guardò con un
sopracciglio sollevato. «Tu vuoi farmi ammazzare, signorina.»
«In realtà no», replicò
tranquillamente lei. «Se avessi voluto questo sarei già scappata.»
Isey sospirò. «Hai
intenzione di dirmi dove vai?», chiese rassegnato.
Vera scosse la testa.
«Questo è esattamente il genere di informazione che ti farebbe ammazzare.»
«Perché dici questo?»
Isey, che di solito
sembrava saperla lunga quando parlava con Vera, questa volta pareva davvero
sorpreso.
«Perché secondo mio
padre l’ambasciatore porta pena, quando porta un brutto messaggio.»
«Non ti seguo.»
«Lascia perdere»,
tagliò corto Vera, prendendo la propria giacca dalla sedia e infilandosela. «Ci
vediamo a casa tra un paio d’ore.»
«A meno che tuo padre
non mi faccia a pezzi prima.»
«Sei il mio eroe», concluse
schioccandogli un bacio sulla guancia. Lui le sorrise.
Geograficamente,
Alexander Park era esattamente al centro della città, nel cuore di Petrogradskaja[3].
Vera aveva corso fino al parco il più velocemente possibile, passando per
strade secondarie e voltandosi di tanto in tanto per controllare che nessuno
l’avesse seguita. Quando finalmente arrivò a destinazione, entrò nel parco e si
sedette su una panchina, su cui era già seduto un ragazzo, più o meno della sua
stessa età. I due non si scambiarono neanche un’occhiata e rimasero in silenzio
per diversi minuti.
«Ti hanno seguita?»,
mormorò lui dopo un po’, senza voltarsi a guardarla, come se stesse parlando
tra sé.
«No», replicò secca
lei. «Ne sono certa.»
«Bene», rispose lui. La
tensione abbandonò finalmente le sue spalle.
Il ragazzo seduto su
quella panchina aveva l’aria di chi sta aspettando qualcosa e non sta più nella
pelle. I suoi occhi verdi fissavano il vuoto, ma il tremolio della sua gamba
tradiva la sua impazienza. Vera, al contrario, sembrava perfettamente a suo
agio, come se sedersi su quella panchina fosse per lei la più quotidiana delle
azioni.
«Uscita dal parco gira
a sinistra e procedi per un centinaio di metri», prese a dire lui. «Sulla
destra c’è una stradina che solitamente è deserta.»
«Ho capito», disse
semplicemente lei.
Lui si alzò senza
ancora degnarla di uno sguardo e si diresse verso l’uscita del parco. Vera
rimase seduta per qualche altro minuto a contemplare i fiocchi di neve che si
posavano sui rami spogli degli alberi, poi si avviò anche lei verso l’uscita,
seguendo le impronte già sbiadite lasciate nella neve dal ragazzo.
Seguì alla lettera le
sue istruzioni e dopo cento metri sulla strada principale, svoltò in un vicolo
abbastanza stretto. Improvvisamente, una mano la afferrò per il braccio e la
trascinò al riparo dagli occhi dei passanti.
Il ragazzo del parco la
strinse in un abbraccio soffocante e lei emise qualche mugolio di protesta,
ancora ammaccata dopo l’incidente. Poi lui le prese il viso tra le mani e la
baciò. Lei sorrise contro le sue labbra, poi mise le proprie mani sopra le sue
e ricambiò il bacio.
I due ragazzi si
baciarono per alcuni interminabili istanti, immersi in un mondo tutto loro,
così personale e lontano dalla realtà da rendere quasi magico quel vicolo
nascosto di San Pietroburgo, al punto che mi sentii in colpa a osservarli in un
momento tanto intimo. Eppure, un’inspiegabile forza mi impediva di distogliere
lo sguardo da quello spettacolo straordinario, magnetico, scaturito dalla
potenza di un sentimento così profondo che, mi resi conto, doveva essere una
delle ragioni per cui valeva davvero la pena vivere.
«Stai bene? Non sai
quanto sono stato in pensiero per te», disse il ragazzo. «Sono stato più volte
sul punto di telefonarti.»
«Così ci avrebbero
scoperto subito», replicò lei. «Sai che il massimo che possiamo concederci sono
SMS privi di informazioni.»
Vera sembrava piuttosto
tesa e continuava a lanciare occhiate indagatrici in giro.
«Lo so», disse lui, «ma
quando ho saputo dell'incidente sono andato nel panico. Se oggi non avessi
ricevuto il tuo messaggio per incontrarci al parco avrei sicuramente fatto
qualche sciocchezza.»
Lei si addolcì,
tradendo il suo profondo affetto per lui. «Per fortuna ti ho preceduto», disse
sorridendo. «Sto bene, Liev. Ma adesso dovremo trovare un altro posto dove
incontrarci. Il parco non è più sicuro.»
«Controllano i tuoi
messaggi?», chiese lui preoccupato.
«Non ancora, ma ho il
sospetto che mio padre inizierà presto a farlo. Isey non può coprirmi per
sempre.»
Liev sospirò. «C'è una
cosa che devo dirti, Vera.»
La ragazza si irrigidì,
probabilmente temendo il peggio, ma la sua voce non tradì alcuna emozione. «Dimmi.»
«Mio padre vuole che io
mi avvicini a te. Mi ha chiesto di... conquistarti.»
Vera emise un risolino
nervoso. «E tu gli hai detto di no, vero?»
Fu il turno di Liev di
ridere. «Mio padre ti sembra una persona a cui si può dire di no?»
Vera deglutì. «Perché
vuole che ti avvicini a me?»
«Non lo so ancora. Ma
so per certo che non permetterò che qualcuno ti faccia del male. Però possiamo
volgere la situazione a nostro vantaggio.»
«Non vedo come», disse
Vera scoraggiata.
«Potremmo vederci nella
zona ovest della città. Nessuno dei tuoi si avventurerebbe in territorio nemico
senza un motivo valido e invece gli uomini di mio padre potrebbero confermargli
di averci visti insieme. Noi non dovremmo più nasconderci, saremmo liberi di
stare insieme.»
«E se tuo padre ti
chiedesse di sfruttare il tuo collegamento con me ai danni della mia famiglia?»
«Faremo il doppio
gioco. Possiamo cavarcela.»
Vera sospirò. «Non
abbiamo molta altra scelta, vero?»
Liev fece un sorriso
amaro e la abbracciò. «Io cercherò sempre il modo di stare con te, Vera. Non
importa quanto mi costerà.»
Lei lo baciò di nuovo.
Quando si separarono,
Liev si tolse il giubbino e lo lasciò cadere a terra. Poi afferrò il collo
della propria maglietta e se la sfilò con un gesto elegante.
Vera lo guardò e
sorrise, poi lo imitò e si tolse la giacca.
Devo confessare che
conoscendo la passione che i vivi hanno per il sesso, il mio primo pensiero fu
che i due ragazzi si sarebbero accontentati anche di quel vicoletto, pur di
stare insieme. Per questo pensai che avrei dovuto lasciarli soli e rispettare
la loro privacy, anche se l'imbarazzo era uno di quegli stati emotivi
tipicamente umani che non mi appartenevano. Fortunatamente, le mie
elucubrazioni furono interrotte da un luccichio che catturò la mia attenzione.
Gli occhi di Vera
divennero gialli e brillarono nel buio.
Mentre finiva di spogliarsi,
la ragazza si piegò in avanti, allungando le braccia verso terra. Gli arti le
si ricoprirono di una folta pelliccia bianca, che a poco a poco raggiunse il
busto e la schiena e la rivestì completamente. Le orecchie divennero più
appuntite e il muso si allungò. Con un ululato, Vera completò la sua
trasformazione in lupo.
«Shh», la zittì Liev, mentre anche i suoi occhi diventavano di un
arancione brillante. «Ci sentiranno», la ammonì con dolcezza. Poi, molto più
rapidamente di Vera, si trasformò in un grosso lupo dal pelo grigio, decisamente
più grande di lei, ma altrettanto aggraziato.
Giocando come due
cuccioli liberi da ogni preoccupazione, i due innamorati si addentrarono ancora
di più nel vicoletto nascosto, percorrendo le strade segrete di San Pietroburgo.
[1] Il cognome di
Vera, Volkov, molto diffuso in Russia, può essere tradotto anche come
“lupo”.
[2] La Banda di
Tambov o Lupi di Tambov è una grande banda di San Pietroburgo, molto
attiva in Asia centrale per i suoi traffici di eroina, da dove si
approvvigiona, in direzione dei paesi dell'Unione europea. Tra le altre
attività sono state individuate le frodi finanziarie e il riciclaggio di
denaro. Ha rapporti di collaborazione con l'organizzazione criminale russa
Solntevskaja.
[3] L’isola Petrogradskaja
si sviluppa lungo la riva nord del fiume Neva ed è il quartiere centrale di San
Pietroburgo; è collegata alla città dal ponte della Trinità.
Realizzai, in quei
giorni, di essermi sbagliata. Quelle persone, quando parlavano di lupi,
intendevano proprio forti e pelosi lupi che ululavano alla luna. Non erano due
clan nemici, ma due branchi di lupi mannari: quello della famiglia di Vera, che
controllava il territorio a nord-est del fiume Neva, e quello della famiglia di
Liev, dall’altra parte, nella zona sud-ovest di San Pietroburgo.
Vera Volkov, la
ragazzina scampata per un soffio alla morte, non era una comunissima umana,
bensì un lupo mannaro, non altrettanto fragile, ma comunque mortale.
Nel corso dei secoli,
avevo visto arrivare nella mia città le più strane creature soprannaturali.
All'epoca dello zar Nicola II, San Pietroburgo aveva ospitato una colonia di upyr[1],
vampiri dall'aspetto umano perfettamente integrati nell'alta società, che erano
riusciti addirittura a entrare nella Duma. Durante l'invasione dell'armata
tedesca, invece, avevano varcato le porte di Leningrado[2]
alcuni krayl, demoni capaci di trarre
energia da luoghi in cui sono avvenuti massacri.
Per moltissimi anni,
coloro che erano riusciti a guardare al di là della banalità del mondo degli
umani e a riconoscere l’esistenza di creature soprannaturali, avevano
annoverato anche me tra queste ultime. Eppure c’è una differenza sostanziale
tra quelli come me e quelli come loro: le creature soprannaturali muoiono,
seppur con tempi molto diversi da quelli umani. Per di più, i mortali, quando
vengono da questa parte, sono tutti uguali. Dalla notte dei tempi, la morte ha
livellato le anime di umani e non, rendendole nient’altro che soffi di vite
passate che, prima o poi, sarebbero svaniti tra i venti del tempo. Ha privato
di ordine e bellezza antiche gesta[3],
collocate in una storia irrilevante di fronte all'oblio. Da questa parte, le
anime non sono altro che anime, specchi vacui di una corporeità insignificante.
Tuttavia, in quei
giorni Vera Volkov iniziò a farmi credere che la vita poteva non essere
insignificante.
Quando tornò a casa
dopo l'incontro con Liev, Isey la stava aspettando con impazienza.
«Tuo padre ha giurato
di uccidermi lentamente se ti lascio andare via di nuovo», dichiarò non appena
lei ebbe varcato la soglia di casa.
«Non preoccuparti, gli
sei sempre stato fedele», lo rassicurò Vera. «Non ho dubbi che ti concederà una
morte rapida e indolore.»
«Ti spiacerebbe lasciarmi
continuare a vivere?»
Vera non rispose e si
diresse verso la sua camera. Isey la seguì.
«Vuoi dirmi dove sei
stata?»
«No», rispose
semplicemente. «Mi dispiace tenerti all'oscuro, ma è meglio così, credimi.»
«Maledizione, Vera! Sto
già rischiando tutto per te!», sbottò alla fine. «Ho il diritto di sapere per
che cosa lo sto facendo.»
Lei sostenne il suo
sguardo furioso per qualche secondo, poi si ammorbidì. «Non per che cosa. Per
chi», disse lei. «Mi sono innamorata.»
Isey la guardò a bocca
aperta. «Stai scherzando, spero.»
«Per niente.»
Isey la scrutò per
qualche altro secondo, aspettandosi forse che lei ritirasse ciò che aveva appena
detto, ma Vera non lo fece. «È un umano, vero?», disse lui. «Se fosse uno dei
nostri non avresti motivo di incontrarlo di nascosto. Sei la figlia dell'alfa,
potresti avere chiunque tu voglia.»
Lei non rispose, in
modo da non confermare né smentire le sue ipotesi.
«Mio padre non deve
saperlo», disse invece. «Altrimenti siamo morti entrambi», concluse guardandolo
con aria seria.
«Lui ti ama?»
Vera sussultò,
evidentemente non si aspettava quella domanda.
«Se non fosse così»,
rispose, «non rischierebbe così tanto per me.»
Nei giorni successivi,
il padre di Vera passò a controllare di tanto in tanto che la figlia non
andasse in giro senza permesso. Si assicurò che riprendesse a frequentare la
scuola e affidò a Isey l’incarico di accompagnarla e andare a prenderla in auto,
visto che quella della ragazza era distrutta.
Alla fine, Vera si
decise a chiedere di nuovo l’aiuto di Isey.
«Domani devo
incontrarlo», dichiarò. «Se invece di accompagnarmi a scuola mi dai un
passaggio fino a Petrogradskaja mi risparmierai un sacco di tempo e potrò
tornare per la fine dell’orario scolastico.»
«L’ultima volta che sei
stata da quelle parti sei finita con la macchina contro un semaforo», osservò
Isey.
«Per mia fortuna questa
volta guiderai tu», dichiarò Vera.
Isey sospirò. «Ti
accompagno fin lì solo se mi prometti che non attraverserai il ponte della
Trinità.»
Il ponte della Trinità
collegava Petrogradskaja alla sona sud-ovest di San Pietroburgo, territorio del
branco di Liev.
«Te lo prometto», mentì
lei.
La mattina dopo, Isey
lasciò Vera vicino ad Alexander Park, raccomandandole di tornare in tempo. Vera
lo ringraziò e lo salutò, poi aspettò che si allontanasse e aggirò il parco per
dirigersi verso il lato est della fortezza di Pietro e Paolo.
Nonostante fosse già
marzo, la neve non accennava a smettere di cadere delicatamente dal cielo,
imbiancando costantemente la città.
Liev era appoggiato
pigramente a un cartello che segnava la fermata degli autobus e il sottile
strato di neve accumulata sulle sue enormi spalle dimostrava che era stato
fermo ad aspettare in quella posizione almeno per un po’.
Vera gli si avvicinò
mentre lui la seguiva con lo sguardo. Era evidentemente difficile reprimere
l’istinto di nascondersi, eppure la gioia sul volto di entrambi era più che
eloquente quando Liev prese la mano di Vera e strinse a sé la ragazza su un
marciapiede affollato della città.
«Siamo ancora in
territorio neutrale», sussurrò lei cercando invano di sottrarsi alla stretta di
Liev.
«Allora andiamocene
subito», tagliò corto lui.
La trascinò attraverso
le strade di Petrogradskaja che costeggiavano il margine settentrionale della
Neva, fino al ponte della Trinità.
«Non avevo mai
attraversato il ponte», dichiarò Vera mentre lei e Liev percorrevano gli oltre
cinquecento metri che separavano Petrogradskaja dalla zona meridionale di San
Pietroburgo. «E non sono mai stata dall’altra parte della città.»
«Allora ti sei persa un
grande spettacolo», dichiarò Liev. «Vedremo di rimediare.»
Lei gli sorrise
riconoscente.
Camminarono lungo la
prospettiva Nevskij per circa due ore. Vera era affascinata da quasi tutti gli
edifici storici che incontravano percorrendo quella strada. Aveva sentito tante
volte le storie della sua città, i racconti delle grandi guerre patriottiche,
ma vedere con i suoi occhi la Strada del 25 ottobre[4]
era tutta un'altra storia.
Alla fine, i due si
sedettero su una panchina di un piccolo parco e Liev colse l'occasione per
proporre a Vera di andare a casa sua.
«Ti confesso che mi
sento a disagio», disse lei. «Essere qui mi rende vulnerabile e venire
addirittura a casa tua non mi pare una buona idea.»
«Vera, sto parlando di
un piccolo appartamento vuoto in cui vivo da solo, non della casa di mio padre»,
disse lui. «Non ti porterei mai lì, lo sai.»
«Non vivi con tuo
padre?», gli chiese lei sorpresa.
«No. Qui sono vicino
alla scuola e libero di tenermi fuori dagli affari di mio padre, anche se lui
continua a trascinarmi nella direzione opposta», spiegò.
Vera si alzò e si mise
di fronte a lui, con le mani tese per suggerirgli di alzarsi. Pallidi raggi di
sole filtravano dal cielo arrabbiato e le illuminavano i capelli scuri. Anche
le sottili lastre di ghiaccio che rivestivano l'asfalto, sembravano brillare
sotto la coraggiosa luce di marzo. Il Generale Inverno[5]
stava chiaramente perdendo la sua battaglia contro la primavera.
«Andiamo», dichiarò
lei. Lui le sorrise.
L'appartamento di Liev
era piuttosto piccolo, ma c'era spazio a sufficienza per una persona sola. Era
insolitamente ordinato per essere abitato da un ragazzo che viveva da solo, ma
c'erano qua e là i segni della personalità di Liev: sul tavolo della cucina
c'era un portatile di ultima generazione, nella camera da letto, le cui pareti
erano tappezzate di poster, un enorme impianto stereo occupava un terzo dello
spazio della stanza.
Vera si guardava
intorno affascinata, come se potesse cogliere aspetti sconosciuti di Liev anche
solo guardando le sue cose. Poi si sedette sul suo letto, testandone la
morbidezza.
«Mi piace», disse
lanciando un'ampia occhiata alla stanza.
Liev sorrise e la
baciò.
Questa volta, mentre si
toglievano i vestiti, a nessuno dei due gli occhi cambiarono colore, sebbene
brillassero comunque per ragioni puramente umane.
«Devo tornare a casa»,
dichiarò Vera. «Si è fatto tardi.»
Liev, steso pigramente
accanto a lei, con un braccio sotto la sua testa e l'altro attorno alla sua
vita, mugolò in segno di protesta. Le stava baciando dolcemente la fronte, con
il naso affondato nei suoi capelli.
«Dico sul serio», disse
lei staccandosi da lui e guardandolo negli occhi. Poi sorrise.
«Devo dirti una cosa,
prima», dichiarò Liev. Il sorriso di Vera si spense e il suo sguardo divenne
improvvisamente duro.
«Ho scoperto perché mio
padre vuole che mi avvicini a te. Secondo lui, in questo modo, mi sarà più
facile ucciderti quando verrà il momento di prendere il suo posto», disse Liev
in tono grave.
Vera sospirò. «Lo
sospettavo.»
«Io ho il diritto di
succedergli come alfa del branco in quanto suo figlio, ma per dimostrare di
essere meritevole del ruolo devo uccidere un lupo mannaro. E naturalmente è
preferibile che non sia un membro del mio branco. Ma suppongo che tu sappia già
queste cose.»
Vera annuì. «Mio padre
me le ha spiegate. Vale lo stesso per me, ovviamente.»
Liev chiuse gli occhi. «Troverò
il modo di fargli cambiare idea. Altrimenti gli dirò che mi hai scoperto e non
accetterai più di incontrarmi da sola. Io comprendo la necessità di una prova
di forza, ma non posso accettare che sia tu a farne le spese.»
Vera rise amaramente. «Se
non io, sarà un mio fratello o una mia sorella a pagare le conseguenze di
questa concezione arcaica del potere dell'alfa. Ma d'altra parte, se ci
rifiutassimo di provare la nostra forza, un altro lupo si sentirebbe
autorizzato a sfidarci e ci ucciderebbe senza dubbio contando su un'esperienza
che noi non abbiamo, quindi non abbiamo molta scelta. In più, tuo padre vuole
che tu uccida me per colpire anche mio padre.»
«Già. Perché tuo padre
ha ucciso mia madre», osservò, ma non c'era accusa nella sua voce.
«Dopo che il tuo aveva
dato ordine di uccidere la mia. Non si tratta di colpe da distribuire, Liev, ma
di vecchi rancori che sono così radicati da non poter scomparire neanche con il
passare delle generazioni.»
Lui sorrise. «Io
credevo che noi fossimo l'esempio lampante che si può mettere una pietra sopra
agli eventi passati e guardare avanti. Perché dobbiamo pagare per le colpe dei
nostri padri?»
«Non lo so», rispose
Vera alzandosi dal letto. «Quel che è certo è che dobbiamo adattarci alla
situazione attuale. Ed essere pronti a reagire.»
[1] L’upyr è
il vampiro russo per eccellenza. Secondo il folklore russo ha un aspetto
particolarmente disgustoso e un’indole crudele e aggressiva, ed è immune alla
luce del sole. In questo caso, l’upyr è descritto come una creatura
dall’aspetto umano, molto più civilizzata e perfettamente in grado di
integrarsi nella società.
[2] La città di San
Pietroburgo assunse il nome di Leningrado dal 26 gennaio 1924 al 6
settembre 1991. L'assedio di Leningrado, durante la seconda guerra mondiale,
durò dall'8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944.
[3] Questa frase
riprende una citazione di Galimberti (“infonde
ordine e bellezza ad antiche gesta”) in cui si riferisce alla poesia,
spiegando come sia in grado di trascendere il tempo, la storia e la morte.
[4]Durante i primi anni dopo la Rivoluzione
d'ottobre, la prospettiva Nevskij venne chiamata anche Strada del 25 ottobre.
[5] Il Generale
Inverno è l'inverno particolarmente rigido tipico del clima della Russia.
L'espressione nacque in occasione della Campagna di Russia napoleonica, quando
una lettera del maresciallo Ney affermò che l'Armata francese era stata
sconfitta dal clima rigido più che dalle armi. (Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Inverno_russo)
Quando Vera salì in
macchina con Isey, aveva il fiato corto per la corsa che aveva fatto da
Petrogradskaja alla sua scuola.
«Sei in ritardo», disse
Isey in tono piatto.
«Solo di cinque minuti»,replicò lei.
«Mi ha telefonato tuo
padre. Ha chiesto se fossi andata a scuola.»
Vera deglutì. «E tu
cos'hai risposto?»
«Ho detto di sì»,
rispose placidamente, mettendo in moto la macchina. «Ma non penso mi abbia
creduto.»
Vera si incupì. «Isey…»
«Non si tratta di me,
Vera», la interruppe lui. «Ma dei rischi a cui tu continui a esporti.»
Lei non ebbe il
coraggio di replicare. Attraversarono in silenzio le strade del distretto di Primorsk
fino alla dimora storica dei Volkov.
La casa era isolata dal
resto del quartiere a causa dell’enorme giardino che la circondava. Si trattava
di un grande spazio verde ricco di alberi, dove si tenevano anche le riunioni
del branco e dove i lupi mannari potevano trasformarsi senza dare nell’occhio.
Ricordavo perfettamente
la volta in cui avevo attraversato il giardino per andare a prendere Dana, la
madre di Vera. Il suo cadavere era ricoperto di sangue, ma a quel tempo non avevo
notato che i segni che aveva sul corpo erano in realtà morsi di lupo. Diversi
uomini la circondavano come per proteggerla, aspettando l’arrivo del marito. A
pochi metri, giaceva il corpo di un ragazzo, Ivan Golubev, che era appena stato
ucciso, probabilmente dagli uomini di Volkov. A giudicare dalle parole che Vera
aveva detto a Liev, il padre di quest’ultimo doveva aver mandato Ivan a
uccidere la madre di Vera, nonostante l’impossibilità di uscire vivo dalla casa
dei Volkov.
Le due anime, quella di
Dana e quella di Ivan, si erano guardate per un secondo, prima di avvicinarsi a
me. Non c’era rancore in quello scambio di occhiate, né alcuna emozione.
Adesso, la dimora dei
Volkov sembrava molto più vuota. Se l’ultima volta decine di persone avevano
affollato il giardino, quando Vera scese dall’auto di Isey nessuno le venne
incontro.
Attraversò il vialetto
d’ingresso seguita da Isey a pochi passi di distanza e varcò la sogna di casa a
testa alta. Suo padre, insieme ad altri due uomini, la stava aspettando in
soggiorno. Quando lei e Isey entrarono, lui si alzò dal divano bianco su cui
era seduto, torreggiando con i suoi due metri di altezza sugli altri due, e
guardò la figlia con espressione dura. Ma quando aprì bocca si rivolse a Isey.
«Credevo di averti
chiesto di tenerla d’occhio», gli disse in tono duro. Isey non rispose, ma
sostenne il suo sguardo.
Vera si schiarì la gola
per attirare l’attenzione di suo padre. «Quando avrai finito di prendertela con
lui che non c’entra niente», disse, «mi piacerebbe che ascoltassi quello che ho
da dire.»
Lui la guardò con un
sopracciglio inarcato. Poi cedette e sorrise. «Dove sei stata?», disse ancora
in tono severo.
«A Petrogradskaja.
Dovevo incontrare una persona. Ma prima che tu possa arrabbiarti vorrei che mi
lasciassi spiegare come stanno le cose», replicò lei.
«Hai attraversato il
ponte?», le chiese ignorando la sua richiesta.
Vera intuì
probabilmente che non era il caso di mentire. «Sì. Sono stata sulla prospettiva
Nevskij», ammise, «insieme a una persona.»
Isey dietro di lei si
irrigidì. Suo padre la guardò attentamente, soppesando ogni parola. «Chi?»,
chiese infine.
«Liev Sidorov», rispose
senza esitare.
Nella stanza calò il
silenzio. I due uomini che affiancavano il padre di Vera guardarono la ragazza
come se fosse impazzita. Isey era pietrificato.
«Tu mi hai sempre
detto», disse Vera anticipando qualsiasi risposta del padre, «che un vero lupo
trova sempre il modo di dimostrare quanto vale e che se avessi voluto seguire
le tue orme avrei dovuto imparare a farlo da sola», dichiarò. «È esattamente
quello che ho fatto. Avvicinare il futuro alfa dei Sidorov è il modo migliore
di mettermi in condizioni di dimostrare che merito di seguire le tue orme come
alfa, uccidendolo quando verrà il momento di provare la mia forza.»
Uno dei due uomini
imprecò, l’altro sgranò gli occhi. Isey rimase in silenzio, così come il padre
di Vera, che non staccava gli occhi da sua figlia.
«Sarei stato io a
metterti in condizioni di provare la tua forza», disse lui infine, «non avresti
dovuto esporti in questo modo.»
«Quale alfa si fa
catturare il nemico dal suo branco per poi arrogarsi il merito di averlo
ucciso?», disse in tono deciso. «Dovevo farlo da sola. Volevo farlo da sola. E ti prego di lasciarmi proseguire con il mio
piano senza interferire.»
«È un’idea folle»,
intervenne Isey.
«Non è il caso di
preoccuparti di queste cose, Vera», disse uno degli uomini di suo padre. «Sei
ancora molto giovane, avrai tempo per…»
«D’accordo», dichiarò
improvvisamente suo padre, riportando il silenzio nella stanza. «Purché il
branco sia presente quando deciderai di portare a termine il tuo piano. Come ben sai», aggiunse poi, «c’è
bisogno di testimoni.»
Vera deglutì.
«Non puoi lasciarglielo
fare», intervenne Isey. «È ancora una ragazzina!»
«È mia figlia, ha la
mia forza nel sangue», tagliò corto lui. «E ha anche la testardaggine di sua
madre. Se ha deciso, non c’è niente che io possa fare per impedirle di portare
a termine il suo progetto. Tuttavia», aggiunse, «voglio che tu mi prometta che
eviterai di correre rischi inutili. Isey ti accompagnerà quando dovrai
incontrare quel ragazzo. E qualche altro lupo ti terrà d’occhio in modo da assicurarsi
che tu non corra alcun pericolo.»
Vera annuì e si
costrinse a borbottare un assenso.
Dieci minuti dopo, Vera
era in camera sua, con Isey pallido come un cadavere.
«Hai mentito a tuo
padre inventandoti la peggiore delle storie possibili», dichiarò sottovoce.
«È andata bene»,
replicò lei.
«Dici?», chiese lui in tono ironico. «Io credo che tu sia nei guai
fino al collo. Cosa ti inventerai quando arriverà il momento in cui ti toccherà
uccidere il tuo fidanzatino?»
Vera gli si avvicinò
affrontandolo con lo sguardo. «Non osare sminuire i miei sentimenti relegandoli
a cotta adolescenziale», disse in tono duro. «Farò in modo di sfruttare la
situazione per avvicinare il nostro branco a quello dei Sidorov. Sarà una buona
occasione per riconciliare le nostre famiglie.»
«Questa è pura follia.»
«È una speranza»,
replicò lei. «Debole, ma è tutto ciò che abbiamo. Non m’interessa diventare
l’alfa, Isey. Io voglio fare di più e questo è il mio proposito. Sarà il
successo o la morte.»
Lo disse senza
esitazione. Capii davvero che Vera non aveva paura di morire per quello in cui
credeva. Non sapeva, come la maggior parte degli umani, che non contano il modo
o la ragione per cui si muore. Nella morte, tutte le anime sono uguali. Eppure,
chiaramente, lei credeva che quel suo obiettivo fosse qualcosa per cui valesse
la pena lottare, anche se il rischio era quello di perdere la vita nel farlo.
Mi resi conto che quello era il modo in cui gli esseri umani si distinguevano
gli uni dagli altri. Quel che contava non era l'eguaglianza nella morte, ma la
diseguaglianza nella vita[1].
Quando due giorni dopo
Vera incontrò Liev a Petrogradskaja, Isey rimase nei pressi di Alexander Park.
I due ragazzi si sedettero sulla loro panchina, non sufficientemente vicini da
toccarsi, ma abbastanza da poter parlare sottovoce. Vera spiegò a Liev ciò che
era stata costretta a dire a suo padre e il ragazzo ascoltò senza tradire
alcuna emozione. Alla fine, Vera gli si avvicinò e gli sfiorò un braccio con la
mano.
«Faremo in modo che
capiscano quello che proviamo l’uno per l’altra», disse lei convinta.
Liev sospirò, poi le
prese la mano tra le sue e se la portò alle labbra. Ne baciò delicatamente il
palmo e poi guardò vera dritto negli occhi. «Non c’è tempo», disse con un
sorriso triste. «Mio padre mi ha dato un ultimatum. Vuole che io ti dia
appuntamento per dopodomani notte qui ad Alexander Park e ti uccida di fronte
al branco.»
Vera sussultò. «Così
presto?»
«Secondo lui è inutile
aspettare», spiegò. «Non possiamo più vederci, Vera», dichiarò triste, «almeno
per un po’.»
«Che stai dicendo?»,
disse lei senza fiato.
«Dovrò dire a mio padre
che hai capito le mie intenzioni e che non vorrai più incontrarmi. Poi dovremo
lasciar passare un po’ di tempo prima di rivederci, in modo che non sospetti
nulla.»
«Ci sarò», disse Vera.
«dopodomani notte qui al parco. Verrò con la mia famiglia e ci opporremo ai
nostri padri. Insieme. Non avranno altra scelta se non quella di accettare le
cose come stanno.»
«Sei impazzita?»,
chiese Liev in preda al panico. «Credi di poter dire a tuo padre che sei
innamorata di me senza che lui voglia uccidermi? Speri forse che per amore tuo
metterà da parte tutto il suo astio? Io non credo», disse. «Io penso che tuo
padre, così come il mio, non farà altro che infuriarsi e giurare chissà quanti
altri anni di ostilità al branco nemico.»
«Io non penso che…»
«Tu hai troppa fiducia
nei nostri padri, Vera», la interruppe Liev. «Non venire. Sparisci. Inventati
qualche bugia e fa’ in modo di stare lontana dalla mia famiglia il più a lungo
possibile. Sta’ lontana anche da me, se servirà a tenerti al sicuro.»
«Detesto quando credi
di potermi dire cosa fare», dichiarò lei furibonda.
«Non ci sono
alternative», replicò lui. «Adesso va’ via, inventati quello che vuoi. Di’ che
abbiamo litigato, che io non voglio vederti più e che non hai possibilità di
convincermi a incontrarti di nuovo. Io dirò a mio padre che ti ho convinto a
venire qui dopodomani e quando non verrai lui si deciderà a mettere da parte
quest’idea folle.»
Vera s’intristì. Rimase
in silenzio per qualche istante, poi lo baciò. Fu un bacio profondo e
disperato, carico di tutta la tensione che aveva animato quegli ultimi minuti.
Liev, che in un primo momento era stato colto alla sprovvista, si riscosse e
ricambiò quel bacio con la stessa urgenza.
Quando si separarono,
tutti e due avevano lo sguardo carico di angoscia.
«Adesso non potrai dire
che abbiamo litigato», osservò Liev con un sorriso debole. «Ci avranno
sicuramente visto.»
«M’inventerò
qualcos’altro», replicò Vera. Gli diede un ultimo rapido bacio e poi si
allontanò in direzione dell’uscita del parco.
«Ho organizzato un
incontro per dopodomani notte ad Alexander Park», dichiarò Vera quella sera,
mentre cenava con suo padre.
Lui posò la forchetta,
che tintinnò rumorosamente sul piatto di ceramica. «Di già?», chiese sorpreso.
«Non vedo perché
aspettare», rispose lei. «Io sono pronta. Tu e il resto del branco ci sarete?»,
chiese tranquilla, come se stesse organizzando una serata tra amici. Eppure,
sotto il tavolo, la sua gamba non smetteva un secondo di tremare.
«Certo», rispose lui.
«Ma sei sicura di non correre rischi?»
«Assolutamente»,
replicò lei.
«Sono fiero di te,
Vera», disse finalmente suo padre. «Sono orgoglioso del modo in cui dimostri,
con ogni tua azione, di essere un lupo degno del nome dei Volkov.»
Vera sorrise debolmente
e riprese a mangiare.
[1] Questa frase
riprende una citazione di Sergio Luzzato (“Quel
che conta non è l'eguaglianza nella morte, ma la diseguaglianza nella vita”),
che egli propone in occasione di una sua analisi delle lotte partigiane
antifasciste in Italia.
Un mietitore sa sempre
quando qualcuno sta per morire nella sua città. Un istante prima che la vita
abbandoni un corpo, quando ormai è troppo tardi per salvare la persona in
questione, quelli come me sentono che un’altra anima sta per raggiungere il
limbo e deve essere traghettata dall’altra parte. I mietitori, sospesi
eternamente tra la vita e la morte, non fanno altro che tenerle in costante
collegamento, in modo che si completino l’un l’altra. È l’esistenza della morte
a dare valore alla vita. Senza quelli come me, al servizio di un equilibrio più
antico del tempo, la vita e la morte non avrebbero alcun senso.
Eppure, dopo aver
passato tanto tempo con Vera Volkov, dopo aver seguito i vivi nelle loro
vicende, ben più profonde di quei pochi attimi prima della loro morte che ero
solita osservare, avevo sviluppato un nuovo istinto, una capacità quasi
soprannaturale di percepire non solo una morte imminente, ma anche il profondo
segno che quest’ultima avrebbe lasciato sui vivi.
I meccanismi naturali
che governano la vita sono molto più profondi e complessi della placida
tranquillità della morte. Eppure, quell’impeto e quella forza necessari a
concentrare nel breve spazio di una vita tutto ciò che un essere umano è in
grado di fare e provare, animavano i vivi in un modo che quasi invidiavo.
Quella notte, Alexander
Park aveva l'aspetto di un cimitero deserto. Col favore delle tenebre,
l'inverno tornava a esercitare il suo dominio su San Pietroburgo, rafforzando
le lastre di ghiaccio sul terreno freddo e profumando l'aria di nevischio.
Liev passeggiava tra
gli alberi spogli con aria inquieta, calpestando le poche foglie secche rimaste
a terra. Suo padre, dietro di lui, attendeva impassibile, circondato da una
quindicina di uomini e donne, tutti lupi mannari.
Quando Vera arrivò,
insieme al suo branco, Liev sgranò gli occhi rivelando la sua sorpresa, mista a
un'angosciante paura. Lei gli rivolse un debolissimo sorriso, cercando di
mostrarsi più fiduciosa di quanto fosse in realtà.
I due alfa, Volkov e
Sidorov, si scambiarono un'occhiata truce.
Il padre di Vera
sembrava furioso, quello di Liev infastidito. Nessuno dei due, però, pareva
sorpreso dall'accoglienza ricevuta.
«Che cosa ci fai qui?»,
chiese Sidorov con un sorriso beffardo sul volto.
«Potrei farti la stessa
domanda», ribatté Volkov.
Un vento impetuoso si
levò sul parco, raccogliendo le foglie secche da terra e facendole turbinare in
circolo nello spazio tra i due branchi.
«Avrebbe dovuto essere
la prova di mio figlio», replicò Sidorov. «Avrebbe dimostrato al branco di
essere un degno alfa», concluse indicando con un ampio gesto del braccio tutte
le persone intorno a lui.
«Lo stesso vale per mia
figlia», disse Volkov mettendo una mano sulla spalla di Vera.
La ragazza guardò Liev
impassibile. Lui ricambiò il suo sguardo, come se volesse comunicarle qualcosa
con gli occhi.
«Suppongo allora che
dovremo farci da parte», suggerì il padre di Liev. «Se entrambi vogliono la
stessa cosa, lasciamo che lottino per ottenerla.»
Volkov guardò il suo
nemico di sempre e parve riflettere sulla sua proposta. Ovviamente, il piano
originario era quello di trovarsi in una situazione di vantaggio, in modo che
se Vera fosse stata in difficoltà, avrebbe potuto contare sull’aiuto del suo
branco. Lo stesso Liev, di fronte a un branco intero, anziché affrontarla
direttamente, avrebbe cercato semplicemente di sopravvivere all’agguato e
scappare. Sidorov doveva aver fatto lo stesso ragionamento per quanto
riguardava suo figlio, ma trovandosi in quella situazione, proporre uno scontro
diretto tra i due ragazzi, alla presenza di entrambi in branchi, significava
lasciare che i due combattessero ad armi pari fino alla morte. Evidentemente,
era fiducioso che suo figlio sarebbe riuscito a battere Vera. Lei, però, era
tutt’altro che debole e lo sguardo esitante di Liev contribuì a far sì che
Volkov accettasse la proposta.
«E sia», dichiarò. «Non
ci saranno interferenze da parte dei branchi, né ripercussioni dovute all’esito
dell’incontro.»
«Concordo
assolutamente», disse l’altro.
Nessuno dei due era
andato in quel parco con l’idea di dover combattere una guerra aperta.
Io, allo stesso modo,
non mi aspettavo di dover traghettare dall’altra parte un gran numero di anime,
come invece era successo in altri momenti, in occasione di scontri o battaglie.
«Papà», sussurrò Vera.
«Io invece credo che dovremmo cercare un’altra soluzione.»
«Non c’è niente da
risolvere», dichiarò lui. «Volevi la tua prova e adesso l’avrai. Dimostra
quanto vali e rendimi orgoglioso di te.»
Dal suo sguardo, intuii
che Vera capì solo in quel momento che Liev aveva ragione riguardo ai loro
padri. Neanche il rischio che Vera perdesse quello scontro rimanendo uccisa era
un valido motivo per cercare un compromesso con il branco di Liev.
Vera lanciò un’occhiata
alle sue spalle in direzione di Isey, che si teneva a qualche passo di distanza
da lei e suo padre insieme al resto del branco. Nei suoi occhi, vide soltanto
la disperazione di chi riconosce che non c’è altra via d’uscita se non quella
di lottare. Lei gli sorrise, poi si voltò di nuovo verso Liev e senza degnare
di uno sguardo suo padre, si mosse in direzione della zona libera che si era
formata tra i due branchi.
Liev, dall’altra parte,
rimase immobile qualche istante. Poi suo padre gli diede una pacca sulla spalla
e lo spinse verso di lei. Lui si costrinse a muovere le gambe. Le si avvicinò
al punto da poterle parlare sottovoce senza che le loro famiglie li
ascoltassero.
«Perché sei venuta?»,
le chiese. Nei suoi occhi mi pareva di aver letto una scintilla di rabbia, immediatamente
offuscata dalla disperazione nella sua voce.
«Mi dispiace», rispose
lei semplicemente. «Credevo di poter gestire la situazione, ma mi sbagliavo.»
«Non c’è via d’uscita»,
commentò Liev in tono piatto. Sembrava distrutto.
«Certo che c’è», disse
Vera piano. «Combattiamo. Almeno in questo modo uno di noi due diventerà un alfa
e potrà fare in modo che cose di questo genere non si ripetano mai più.»
«Sappiamo entrambi come
finirebbe, amore mio», replicò lui con dolcezza. Era la prima volta che lo sentivo
chiamarla così.
«Certo», disse lei. «Tu
sei più bravo di me. Sei sempre stato più bravo di me in tutto e io sono
convinta che sarai un alfa eccezionale. Ho fiducia in te.»
«Non deve essere per
forza così», disse lui. «Potresti vincere tu.»
«Mio padre non ti ha
mai visto trasformarti, per questo crede che io possa farcela, ma si sbaglia.
Non appena vedranno quanto sei più forte di me, sarà chiaro a tutti l’esito
della battaglia. E se le cose non dovessero andare come si aspettano,
nascerebbero dubbi che nel migliore dei casi metterebbero in discussione il tuo
diritto a diventare alfa e nel peggiore scatenerebbero una guerra», rispose
lei. «Io non ho paura, Liev. Ti prego, non averne neanche tu.»
Lei gli sfiorò un
braccio in un movimento abbastanza rapido da non essere visto, poi indietreggiò
di qualche passo. Probabilmente avrebbe almeno voluto baciarlo, prima di
iniziare quello scontro, ma non poteva permetterselo.
Così, quando gli fu
sufficientemente lontana, gli sorrise e iniziò a trasformarsi.
I suoi occhi gialli brillarono
nel buio e la pelle le si ricoprì di un candido pelo bianco, proprio mentre
cadeva a quattro zampe. La ragazza-lupo ululò alla luna, ma più che un ululato
di sfida, il suo sembrava un pianto disperato.
Liev la imitò e si
trasformò, senza mai staccare gli occhi arancioni dalla sua amata. Nell’esatto
istante in cui il branco di Vera vide l’enorme lupo grigio in cui si era
trasformato, un mormorio si levò nel parco. Lo stesso Volkov s’irrigidì.
Liev ululò insieme a
Vera, gridando la sua disperazione al vento di Alexander Park.
Tutto, nella città,
parve tremare. La terra sembrò raggelarsi, il vento accanirsi sugli alberi. Mi
domandai se sarei stata in grado di percepire tutto quel dolore se mi fossi
trovata altrove, se non avessi seguito la storia di quei due ragazzi.
Alla fine, quando a
entrambi sembrò mancare la forza di ululare ancora, si fissarono come avrebbe
fatto qualsiasi altra coppia di predatori nemici e iniziarono a muoversi in
circolo.
Vera fece un paio di
finte e poi si lanciò su Liev a denti scoperti. Lui scartò agilmente di lato,
poi cercò di colpirla a un fianco, ma lei fu abbastanza veloce da evitarlo. Si
allontanarono di qualche metro l’uno dall’altra e ripresero a studiarsi,
limitandosi a qualche finta. La loro danza durò parecchi minuti, ma nessuno dei
due branchi mostrò segni di impazienza. Liev e Vera, al contrario, sembravano
entrare sempre di più nell’ottica dei predatori, al punto che Vera riuscì a
ferire Liev al fianco con un morso. Lui guaì e se la scrollò di dosso, poi si
voltò verso di lei e la attaccò. Vera schivò il primo assalto, ma al secondo
tentativo, Liev le addentò in pieno una spalla.
Vera cadde di schiena a
terra e ritornò umana, nuda e tremante, coperta del suo stesso sangue.
Liev le si avvicinò,
come se volesse proteggerla dal vento con il suo corpo caldo. Lo sentii guaire
mentre leccava la ferita che aveva provocato a Vera. Il suo sangue macchiava di
rosso la neve candida, proprio mentre alcuni fiocchi ricominciavano a scendere,
segno che l’inverno, a San Pietroburgo, non si era ancora arreso.
«Liev», disse Vera
ansimando per il dolore e per il freddo. «È ora.»
Liev mugolò in protesta
e riprese a leccarle la ferita.
Vera sollevò il braccio
sano da terra e gli prese delicatamente il muso, avvicinandolo al suo viso per
costringerlo a guardarlo negli occhi.
«Se non mi uccidi tu»,
disse, «sarà qualcun altro del mio branco a farlo. O qualcuno del tuo. Se non
lo fai, le nostre vite saranno comunque costantemente in pericolo e non avremo
mai la possibilità di cambiare le cose.»
Liev le sfiorò una
guancia con il naso umido e lei sorrise tra un brivido e l’altro. Poi gli diede
un bacio leggero e lasciò cadere il braccio nella neve. Chiuse gli occhi,
aspettando il momento in cui tutto sarebbe finito.
Liev lanciò un ultimo
ululato carico di disperazione. Poi la azzannò al collo.
In rari casi, capita
che un’anima che ha appena lasciato un corpo si volti a guardarlo. Vera Volkov,
si girò lentamente verso il proprio cadavere disteso nella neve. Vide il
proprio volto pallido, le labbra chiuse e l’espressione serena, a dispetto del
resto del corpo lacerato dalle ferite. Come tutte le anime, rimase impassibile
di fronte allo spettacolo del passaggio dalla vita alla morte. Eppure potrei
giurare che nell’esatto istante in cui aveva visto Liev tornare in forma umana
e stringere il suo corpo tra le braccia, una scintilla aveva animato lo sguardo
di Vera. Forse, pensai, se avesse passato più tempo nel limbo, se come me
avesse provato a osservare da vicino i vivi, avrebbe potuto provare ancora
qualcuna di quelle emozioni che fino a poco prima le erano appartenute.
Invece, lei diede le
spalle a quella scena e si voltò verso di me.
Io le tesi la mano,
pronta ad accompagnarla. Ma non mi pentii di non averlo fatto qualche tempo
prima, in occasione del suo incidente d’auto. Pensai, invece, che Vera aveva
avuto la possibilità di combattere per ciò in cui credeva e di morire alle
proprie condizioni.
Per morire davvero,
bisognava aver vissuto. E Vera Volkov, per la sua giovane età, aveva già
vissuto pienamente ed era morta senza rimpianti tra le braccia del suo amore
travagliato.
Quando lei fu sparita
dall’altra parte, riportai il mio sguardo sul mondo dei vivi. Era Liev, invece,
che più di Vera sembrava aver perso la vita. Sul suo volto spento le lacrime
erano finite e il dolore aveva lasciato spazio a un'espressione vacua. Se la
morte è davvero l'assenza di vita, quel ragazzo le si stava pericolosamente
avvicinando, a mano a mano che ogni emozione spariva dal suo volto. La vera
domanda era dunque se lui avrebbe ripreso a vivere, o se si sarebbe lasciato andare
tra le braccia della morte, tra le mie braccia.
Io ci sarei stata per
vederlo, per seguirlo, non più solo per aspettarlo.
Realizzai quanto
meravigliosa potesse essere la vita. Perché i vivi, ormai era chiaro, sono
meglio dei morti; non perché possono ancora morire, ma perché hanno ancora da
vivere.