The Other One

di Zury Watson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** «Sa cos'è successo all'altro» ***
Capitolo 2: *** «Accetto il caso» ***
Capitolo 3: *** Sussex ***
Capitolo 4: *** Riflesso ***
Capitolo 5: *** La prova. Il dettaglio. ***
Capitolo 6: *** Cinque meno Una ***
Capitolo 7: *** Trick or Treat ***
Capitolo 8: *** H.W.H. ***
Capitolo 9: *** Circus ***



Capitolo 1
*** «Sa cos'è successo all'altro» ***



«Sa cos'è successo all'altro»

Il batacchio al 221B di Baker Street era stato raddrizzato e Sherlock Holmes capì che suo fratello Mycroft era in casa. Ciò che né lui né il suo amico John Watson sapevano è che Mycroft non era solo.
Compostamente seduta ad un’estremità del divano nero c’era una donna.
Il taglio sbarazzino dei suoi capelli neri era indice, insieme all’abbigliamento comodo ma non privo di una certa eleganza, della praticità che la caratterizzava. Fasciata dal candido cotone dei suoi pantaloni, i polpacci stretti negli stivali di un marrone tendente al rossiccio, ancora avvolta nella giacca di pelle dello stesso colore degli stivali, era perfettamente immobile e teneva gli occhi rigorosamente chiusi all’appartamento e a Mycroft.
Lui, dal canto suo, ne ignorava la presenza standosene in piedi, mani giunte dietro la schiena, davanti alla finestra, lo sguardo fisso sullo scorcio di Londra che riusciva a vedere da lì.
In attesa.
A nessuno dei due sfuggì il rumore dei due che rientravano.
Sherlock e John incontrarono Mrs. Hudson alla base della rampa di scale che conduceva al piano superiore.
«Ci sono visite», informò con il consueto tono di voce di chi la sapeva lunga riguardo le visite di Mycroft a suo fratello. Non disse altro e John si sentì in dovere di ringraziarla, senza capire lui stesso bene per cosa precisamente.
Sherlock era già mentalmente proiettato altrove, guardava davanti a sé senza notare niente di preciso, apparentemente attento a non mettere in fallo i piedi sugli scalini e in realtà ancora concentrato su qualcosa che John non era riuscito a indovinare durante il viaggio in taxi.
Mycroft si voltò nel momento esatto in cui suo fratello fece ingresso nella stanza e fissò lo sguardo su Sherlock. Lui, invece, aveva immediatamente voltato il capo verso quella sconosciuta entità che occupava una parte del suo divano.
Lei non mosse un muscolo, continuando a nutrirsi solo di un respiro lento, come di chi è profondamente addormentato. Ma naturalmente non dormiva.
«Sherlock, Dottor Watson», salutò Mycroft senza tradire alcuna emozione e senza ricevere alcuna risposta.
John si spostò leggermente a sinistra, inserendosi di fatto tra Sherlock e Mycroft ma restando qualche passo dietro l’amico. Continuava a spostare lo sguardo dall’una all’altra delle tre figure presenti nella stanza, confuso dalla giovane donna e in imbarazzo per il silenzio dei due fratelli.
Sherlock la guardava con insistenza, quasi volesse trapassarla per carpirne informazioni. Per essere una cliente era davvero insolita. Non era facile studiarla: sembrava non portarsi dietro nulla a parte i vestiti freschi di bucato e quindi privi di qualunque indizio. Si concentrò sul volto e capì che, benché non l’avesse mai vista prima, i tratti di lei gli ricordavano irrimediabilmente qualcosa. Quindi entrò nel palazzo mentale e cominciò a cercare.
Intorno a lui non si muoveva una mosca.
Gli occorsero una ventina di secondi per capire che la donna non gli ricordava qualcosa, ma qualcuno.
«Sono curioso di sentire cos’hai da dirmi», disse infine guardando finalmente Mycroft, che rilassò le spalle e riprese a respirare, ma lasciando intendere che la curiosità era rivolta tanto a lui quanto a lei.
Mycroft aveva per un attimo temuto che suo fratello minore potesse scoprire tutto prima ancora che lui provasse a spiegare.
Appena la giovane donna sentì la voce di Sherlock aprì gli occhi, ma lui non poté vederli perché le aveva già dato le spalle con l’intenzione di sprofondare nella sua poltrona preferita.
John, invece, li vide e ne rimase sconvolto.
Lei non gli badò e seguì i movimenti di Sherlock. Poi, di nuovo chiuse gli occhi e rimase in silenzio.
Il dottore non riusciva a mettere le parole una in fila all’altra per chiedere qualcosa, così decise di imitare l’amico e sedersi anche lui in poltrona, di fronte a Sherlock.
Mycroft tornò a guardare fuori dalla finestra e il silenzio piombò nell’appartamento.
Al piano di sotto, Mrs. Hudson si aspettava da un momento all’altro che Sherlock sbattesse fuori casa il fratello.
«Come ben sai», esordì infine Mycroft, «Ogni famiglia nasconde dei segreti».
Silenzio.
Lei ancora gli occhi chiusi.
Sherlock i gomiti sui braccioli, le mani intrecciate sopra le labbra, gli occhi fissi su John.
John sempre più confuso, il cuore in gola, in attesa di una qualche rivelazione.
Mycroft le mani di nuovo giunte dietro la schiena.
Lei cambiò posizione e riaccavallò le gambe.
Sherlock se ne accorse, ma non si voltò.
John iniziò a fissarla, poi si disse che non era educato.
Mycroft ancora non parlò.
Non era trascorso più di un minuto, ma a tutti parve un’eternità.
«La nostra non fa eccezione», concluse Mycroft.
John Watson ebbe un brivido e socchiuse le labbra manifestando lo stupore che lo invase.
Sherlock non si mosse.
La giovane donna sollevò le lunghe ciglia scure, unico segno visibile di make-up sul viso acqua e sapone. Guardò Mycroft senza voltare il capo. Poi si alzò, rivelando gambe lunghe e sottili, un corpo ancora più snello di quanto non fosse sembrato a John Watson. Un piccolo ciuffo di capelli sfuggì alla massa dei corti ricci, spostandosi sulla fronte e coprendole in parte l’occhio sinistro. Si alzò, ma non si mosse né parlò.
Mycroft le restituì lo sguardo. Poi guardò Sherlock.
Lei lo imitò.
Per la prima volta da quando era rientrato a casa, trovando suo fratello Mycroft in compagnia di una sconosciuta, Sherlock incontrò gli occhi della donna. Anziché sconvolgerlo, la cosa gli confermò l’ipotesi che aveva maturato nel palazzo mentale: quella giovane donna gli ricordava qualcuno. Qualcuno che lui conosceva molto bene.
I due si guardarono per quindici interminabili secondi.
Poi John scattò in piedi.
«Qualcuno può spiegarmi cosa sta succedendo?». Finalmente era riuscito a mettere insieme le parole nel modo più corretto. Il tono tradiva tutta la sua confusione.
Tutti si voltarono verso di lui, tranne Sherlock che manteneva lo sguardo fisso su di lei.
«Siediti, John», disse. E lui lo fece.
Lei provò un brivido alla voce di Sherlock e sollevò impercettibilmente il sopracciglio sinistro quando vide il Dottor Watson riprendere docilmente posto sulla poltrona. Non che i lineamenti di John avessero perso lo sconvolgimento, comunque.
Vi fu un altro momento di silenzio che servì a Mycroft per riordinare i pensieri.
L’ultima volta che aveva ricordato ad alta voce il segreto della famiglia Holmes – segreto che era tale soltanto per Sherlock in effetti – prima di aver parlato con la giovane donna una settimana prima, era stato quando suo fratello minore aveva ucciso Charles Augustus Magnussen. Era stato necessario vestire i panni del fratello senza cuore, mettere Sherlock su un aereo e farlo partire per l’Europa dell’est. Solo per quattro minuti, certo, ma era stato necessario.
In quell’occasione gli era stato fatto notare quanto mancasse di solidarietà fraterna e lui aveva risposto «Sa cosa è successo all’altro».
Mycroft tornò al presente, chiuse per un attimo gli occhi, poi fece un salto più lungo indietro nel tempo.
Poche settimane erano passate da quando la signora Holmes era rientrata dall’ospedale insieme al signor Holmes e a due piccoli fagotti. Mycroft era rimasto ad attendere sulla porta mentre i suoi genitori si avvicinavano a lui, brillando di una felicità ultraterrena: sua madre non gli era mai parsa tanto bella.
Il piccolo Mycroft sentiva di avere una nuova responsabilità da quando i due fagottini avevano fatto ufficialmente ingresso nella sua vita. Mycroft era diventato il fratello maggiore di due gemelli, un maschietto ed una femminuccia.
Erano passate una manciata di settimane, ma ci vollero sedici anni da quel momento prima che a Mycroft venisse detta la verità su quella storia.
Una mattina si era svegliato e aveva trovato una sola culla nella stanza dei gemelli. E un solo gemello, Sherlock. I genitori non gli raccontarono che era morta, non ebbero il cuore di mentire fino a quel punto, ma gli dissero che la piccolina non poteva più vivere con loro a causa di una gravissima malattia che la costringeva a restare sempre in ospedale, al sicuro.
Al sicuro.
Nessun rumore al 221B di Baker Street.
Mrs. Hudson, al piano inferiore, aveva iniziato a pensare che Sherlock avesse addormentato gli ospiti.
Mycroft fece un altro salto nel tempo.
Sedici anni più tardi sia lui che Sherlock non abitavano più con i genitori e Mycroft aveva deciso che era arrivato il momento di scoprire la verità.
Una verità che stava per condividere con suo fratello Sherlock.




N.d.A.
Nella traduzione italiana della battuta di Mycroft nella 3x03 è chiaro che Holmes senior parla di un terzo fratello e non di una sorella. Nonostante questa evidenza, da quando ho cominciato a fantasticare sulla battuta in questione, quella che dà il titolo alla mia storia, ho sempre immaginato una gemella di Sherlock. Considerata la stravaganza che contraddistingue gli Holmes, non mi stupirei se questa fantomatica sorella si fosse finta uomo per anni, perciò spero con tutto il cuore che mi abbiate assecondata arrivando alla fine del racconto.

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Capitolo 2
*** «Accetto il caso» ***


L'altra


«Accetto il caso»

Non era facile per Mycroft avere una donna in giro per casa, per quanto silenziosa e riservata fosse.
Tre settimane prima, Sherlock non aveva preso bene la rivelazione. Non che prima dell'incontro con sua sorella gemella lui e Mycroft si sentissero spesso comunque, ma quest'ultimo lo conosceva abbastanza da aver capito che non si sarebbe fatto vivo presto.
Lui, Mycroft, aveva deciso di ospitarla a prescindere, sentendo che in qualche modo glielo doveva. E questa sensazione lo stava facendo impazzire. L'unico punto di incontro tra i sentimenti e Mycroft era sempre stato Sherlock, sebbene il loro fosse un modo davvero strano di volersi bene.
John Watson aveva impiegato un po' per capire davvero i fratelli Holmes.
La sorella gemella di Sherlock, invece, comprendeva ogni cosa con grande facilità. Non perché fosse estremamente intelligente... Sì, anche per questo, ma soprattutto perché era una Holmes lei stessa. Evidentemente era una questione genetica. Come Sherlock, anche lei viveva al di sopra di molte righe.
Mycroft aveva la metà inferiore del corpo fasciata in un'aderente tuta che ne risaltava i muscoli e il lato b.
Lei lo stava osservando, in assoluto silenzio, dalla soglia della porta.
In quelle quattro settimane di soggiorno a casa di suo fratello maggiore, lei non aveva parlato granché, anche se aveva raccontato a Mycroft un mucchio di cose ogni volta che i due si erano guardati negli occhi per più di cinque minuti. Era certa che qualcosa lui l'avesse afferrata. In caso contrario, non le importava poi molto.
In fin dei conti erano estranei.
Mycroft correva veloce calpestando ad ogni passo il nastro scuro che gli scorreva sotto i piedi. Non si muoveva di un millimetro, naturalmente.
Non era più giovanissimo, ma conservava un fascino tutto suo.
Con la coda dell'occhio la vide e la distrazione fu immediata.
Non era facile per Mycroft avere una donna in giro per casa, per quanto fosse sua sorella.
«Noto con piacere che sei solita indossare l'intimo», commentò saltando giù dall'attrezzo.
Lei non fece una piega e non gli rispose.
«Sherlock ha avuto l'ardire di presentarsi nudo, avvolto solo da un lenzuolo, a Buckingham Palace», aggiunse.
Mycroft non avrebbe mai pensato di dover provare a fare conversazione, eppure era ciò che faceva da circa un mese.
Quando si voltò verso la porta, lei non c'era già più. Sospirò e raggiunse il bagno per farsi una doccia prima di andare al Diogenes Club.

Quello stesso giorno, a Baker Street, Sherlock Holmes aveva appena inviato un sms a John Watson con l'unico intento di farlo piombare quanto più velocemente possibile nell'appartamento.
John conosceva Sherlock da anni, ma ci cascava sempre.
Aveva il fiatone e la paura dipinta sul volto a causa di quel messaggio terrificante. Aveva cominciato a capirci qualcosa nel momento in cui aveva sentito Mrs. Hudson canticchiare in cucina.
Sherlock Holmes era comodamente seduto in poltrona e con l'archetto del violino indicava all'amico di raggiungerlo e accomodarsi.
John sentì la rabbia montargli, ma prima ancora che potesse dire qualcosa, Sherlock parlò.
«Ho bisogno di te».
La rabbia svanì per lasciare spazio alla sorpresa. John era completamente immerso nel tentativo di elaborare. Sapeva bene che nulla è come sembra quando si ha a che fare con Sherlock Holmes, ma non sapeva come interpretare ciò che aveva appena sentito.
Decise che il modo migliore per essere utile ad un uomo come Sherlock era sedersi di fronte a lui e ascoltarlo.
Ci prese in pieno.
In fondo lo conosceva più di quanto egli stesso credesse.
Il consulente investigativo pizzicò le corde del violino per un quarto d'ora prima di iniziare a raccontare.

I coniugi Holmes, rincasati da poco, avevano ascoltato già tre volte il messaggio-fiume registrato in più parti dalla segreteria.
L'inconfondibile velocità con cui dall'altro capo di un telefono l'uomo parlava bastava di per sé a sconvolgerli: lui non telefonava mai, figurarsi lasciare messaggi vocali.
La voce registrata di Sherlock continuava a parlare dicendo cose che i due faticavano a mandar giù.
Non l'avevano mai dimenticata, ne avevano seguito di nascosto gli spostamenti finché era stata una bambina. Poi qualcosa era cambiato, sembrava essere sparita nel nulla e loro non erano più riusciti a rintracciarla. Ora il loro figlio minore stava dicendo che Mycroft l'aveva trovata quattro settimane prima e che lui stesso l'aveva incontrata tre settimane addietro. E voleva spiegazioni dettagliate e convincenti.

Mycroft non andò al Diogenes Club.
Il suo cellulare squillò prima che potesse mettere piede fuori casa.
La giovane Holmes stava stappando una bottiglia di vino rosso quando Mycroft la raggiunse. I due si guardarono e lei prese un secondo bicchiere: l'espressione di Mycroft la diceva lunga su quanto fosse stata problematica la telefonata.
Erano al terzo bicchiere quando lei ruppe il silenzio.
«Ci vado a nozze con le situazioni complicate».
Era il suo modo di dire che l'avrebbe ascoltato, qualunque cosa avesse da dirle.
Mycroft non si era ancora abituato a lei. La somiglianza fisica con Sherlock era impressionante. Anche nel carattere avevano dei punti in comune, ma c'era una sostanziale differenza tra i due. Lei appariva delicata anche quando era scontrosa e gentile anche mentre ti confidava che di lì a poco ti avrebbe ucciso. Mycroft non aveva mai assistito alla seconda situazione, ma era così che vedeva sua sorella.
Il modo in cui lei sollevò soltanto un angolo della bocca lo fece infine cedere mentre si chiedeva se quello che aveva appena visto fosse davvero un accenno di sorriso oppure un movimento muscolare involontario.
«I nostri genitori...», cominciò.
«Tuoi», lo corresse lei, interrompendolo. «E di Sherlock», aggiunse.

Quattro settimane prima, al posto della solita avvenente donna che diverse volte aveva trascinato in auto il dottor Watson, era apparsa, a sorpresa, dinanzi a Mycroft la versione femminile di suo fratello Sherlock.
Era stato lui a mettersi sulle tracce di lei e dove non erano riusciti ad arrivare i coniugi Holmes, era invece arrivato Mycroft.
Non sembrava avere intenzioni amichevoli quando era entrata dichiarando di aver addormentato la donna che lavorava per lui prendendone momentaneamente il posto, ma poi qualcosa nello sguardo sconvolto di Mycroft l'aveva indotta a sedersi e parlare con lui.
Era stata la conversazione più lunga che avessero avuto e alla fine lei aveva accettato di incontrare anche Sherlock, il suo gemello.

A Baker Street John Watson era in piedi e stava dando i numeri.
Sherlock non aveva preso in considerazione l'ipotesi che i suoi genitori fossero all'oscuro di tutto. Era stato Mycroft ad illuminarlo, con un sms ad alto contenuto acido, dopo aver ricevuto la telefonata dei coniugi.
«L'hai combinata grossa, Sherlock!», lo accusò Watson, puntandolo con l'indice.
Silenzio.

Mycroft si prese un paio di minuti dopo quella puntualizzazione.
Lei sorseggiò lentamente il vino.
«Vogliono un incontro», disse. Un leggero tremolio nella voce diede modo a lei di capire che qualcosa in Mycroft non andava.
«No».
Mycroft allungò il bicchiere per farselo riempire.
Lei gli sorrise, apertamente stavolta ma in un modo che Mycroft giudicò strano e forse un po' inquietante. Poi disse che se voleva bere, avrebbe dovuto prima fornirle tutti i dettagli.
Mycroft non voleva cedere, ma sapeva che lei sarebbe arrivata comunque all'ovvia conclusione perciò decise di darle ciò che voleva. Poi allungò di nuovo il bicchiere.
Per tutta risposta lei gli porse il proprio e si alzò.
Lui rimase immobile a fissare il bicchiere mezzo pieno, a pensare. Il solo fatto di avere decine di punti interrogativi che gli galleggiavano nella mente lo rendeva insicuro e quindi nervoso. Era diventato un bersaglio facile.
In quella stessa abitazione, sua sorella si stava vestendo. Il suo essere molto pratica riduceva moltissimo i tempi da questo punto di vista, perciò impiegò poco a raggiungere l'appendiabiti dove giaceva inanimato il cappotto di Mycroft. Lo prese e tornò in cucina.
Sebbene la domanda fosse rimasta incastrata da qualche parte nella gola di Mycroft, lei l'afferrò ugualmente.
«221B, Baker Street. Accetterà il caso».

Mycroft raddrizzò il batacchio.
Mrs. Hudson li accolse con i suoi consueti modi gentili e li invitò a salire informandoli della presenza del dottor Watson.
Lei non aveva mai assistito all'arrivo di un cliente nell'appartamento di Sherlock Holmes, ma sapeva esattamente cosa doveva fare: ciò che i fratelli Holmes non avevano messo in conto, neanche Mycroft, è che lei non si era rigirata i pollici negli anni. Li aveva cercati, trovati e osservati silenziosamente e mai direttamente.
Fratello maggiore e sorella entrarono senza dire una parola. Lei prese la sedia dei clienti, la posizionò tra le due poltrone e si accomodò sotto lo sguardo confuso di John Watson.
Sherlock iniziò a muovere piuttosto velocemente le lunghe dita affusolate, toccandosi il palmo e sfregando l'indice contro il pollice. Ma sul viso nessun muscolo tradiva quello stesso nervosismo.
Lei accavallò le gambe, si cinse la vita incrociando le braccia e fissò gli occhi in quelli di lui dando il via a un dialogo muto.
«Accetto il caso. Lasciateci», disse senza smettere di guardarla, parecchi minuti più tardi.
Non si può dire che Watson sprizzasse gioia da tutti i pori.

Al piano inferiore, Mycroft e John presero la tipica bevanda inglese insieme a Mrs. Hudson parlando del più e del meno. In verità era più che altro Mrs. Hudson a parlare e Watson a interagire.

Erano entrambi abituati a leggere la gente anche se per motivi diversi e in virtù di questo trascorsero i primi nove minuti a raccogliere ed elaborare informazioni. Lo facevano ormai quasi per una sorta di incontrollabile abitudine.
Lei non ne aveva mai fatto un lavoro vero e proprio come invece era stato per Sherlock. Se anche le fosse venuto in mente, comunque, i continui spostamenti avrebbero trasformato l'idea in un nulla di fatto.
Lui aveva voluto restare solo con lei senza conoscere con esattezza i motivi che l'avevano spinto a mandar via Mycroft e John. Lei comunque non si era scomposta a quell'eventualità. Aveva sentito da Mycroft, tre settimane prima, il racconto di come erano andate, a grandi linee, le cose poco tempo dopo la loro nascita. Nulla però conosceva di lei e per qualche motivo ancora sconosciuto, l'argomento suscitava il suo interesse.
Lei cambiò posizione sulla sedia. Aveva raccolto per anni informazioni su Sherlock Holmes e questo l'aveva resa consapevole del tipo di persona che si sarebbe trovata davanti quando, quattro settimane prima, aveva deciso di incontrarlo di persona. La consapevolezza non era bastata, tre settimane prima, a esonerarla dall'effetto che Sherlock aveva sugli altri. Ci stava facendo i conti anche in quel momento con quello sguardo penetrante che sembrava poter raggiungere ogni angolo della sua mente.
Allo scattare del decimo minuto, il silenzio fu rotto.
«Non ti ho mai incontrata prima, me ne sarei ricordato, eppure tu sai che chi viene qui a propormi un caso siede esattamente lì». Non era una domanda, era un'affermazione. «Questo apre due strade la più banale delle quali, e per questo improbabile e quindi trascurabile, prevede che tu abbia chiesto a Mycroft. Resta, di fatto, un'unica soluzione ovvero una vasta rete di conoscenze. Un'ipotesi approssimativa mi porta a credere che almeno una decina tra i miei clienti siano o siano stati in qualche modo collegati con te. Il che mi fa credere che tu, a differenza mia, fossi a conoscenza di ciò che a me è stato rivelato soltanto tre settimane fa. Indubbiamente questo crea qualche problema al mio ego, ma ci sono cose più interessanti adesso. Posso passarci sopra». Sherlock era un fiume in piena. «La domanda a questo punto è "perché?". Perché agganciare qualcuno solo in quanto mio cliente? Se non avessi risolto la maggioranza dei casi inizierei a pensare che ci sia tu dietro. Un altra domanda è "come?". Come facevi a sapere chi si rivolgeva a me?». Si fermò per guardarla attentamente negli occhi, poi proseguì con la serie di deduzioni. «Il tuo aspetto, fisico asciutto e capelli corti, mi suggerisce che non hai la stessa predilezione di Mycroft per le scrivanie eppure non hai avuto l'ardire di mettere piede in questo appartamento prima di tre settimane fa. Hai preferito studiarci da lontano e devi averci messo un bel po' di astuzia dato che né io né Mycroft ci siamo accorti di nulla, il che significa che non hai lasciato tracce evidenti e che non hai mai interferito. Volevi restare nell'ombra. Sono troppo spesso così scontate, le conclusioni, dopo che le hai tirate. In effetti è abbastanza ovvio che per trovare i miei clienti utilizzassi i miei stessi mezzi: annunci sui giornali. Da un certo momento in poi, però, mi sono appellato prevalentemente alla mia casella di posta, il che significa che i clienti in questione risalgono a un bel po' di tempo fa. Ed ecco un altro bivio: dopo hai smesso oppure ti sei ingegnata in altra maniera? No, non ci siamo. Occorre spostare il problema... Ritengo che tu abbia appreso una buona parte delle tue informazioni dal blog di John, alcuni dettagli dai miei clienti arrivando ai loro racconti attraverso amici di amici, e un'ultima parte dai giornali locali, dai comunicati di Scotland Yard e...».
«E dalla donna che tu chiami La Donna», concluse lei prima che lui potesse aggiungere altro.

Al piano inferiore Mycroft e John erano riusciti a porre termine alle chiacchiere di Mrs. Hudson che si era infine dedicata alle faccende di casa.
Mycroft fingeva disinteresse nel suo fare posato: gambe accavallate, un braccio attorno alla vita e l'altro sollevato quel tanto che bastava a sfiorarsi il volto con i polpastrelli.
John lo osservava impaziente, invidiando la calma che Holmes ostentava e continuando a cambiare posizione sulla sedia. Quando ne ebbe abbastanza si alzò e prese a camminare nevroticamente.
Mycroft decise di ignorarlo.
«Adesso basta, io salgo», disse infine il dottor Watson.
Ma non ci fu bisogno di un'irruzione. Con un tempismo perfetto Sherlock chiamò, senza scomodarsi, l'amico e il fratello invitandoli a raggiungerli.

La sedia era tornata al suo posto.
La giovane Holmes aveva invece raggiunto la finestra e guardava fuori, con aria distratta.
«Oh, eccoti qui John. Sono felice che tu non abbia impegni», esordì Sherlock alzandosi dalla poltrona.
Fu inutile anche soltanto provare a muovere una protesta.
«Abbiamo un caso su cui indagare», concluse trascinando l'amico fuori dall'appartamento, tra le strade pulsanti di una Londra nuvolosa.




N.d.A.
Si sa come va con queste cose: inizi a scrivere una scena e poi succede che nei momenti più impensabili spuntano fuori nuovi dettagli che pretendono di essere messi nero su bianco. L'idea della gemella di Sherlock mi ha intrigata fin dall'inizio, perciò eccomi di nuovo qui con un'altra one shot in tema che ho deciso di inserire in una raccolta.
Ringrazio anticipatamente gli eventuali lettori per il silenzioso passaggio e ancor più per le sempre gradite recensioni.

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Capitolo 3
*** Sussex ***


The Other One


Sussex

Se Sherlock Holmes era innegabilmente il miglior segugio che la Terra avesse mai avuto l'onore di ospitare, Irene Adler era tutt'altro che una facile preda da cacciare.
L'ossessione di Sherlock per la sorella gemella stava portando John all'esasperazione. Non passava giorno in cui il più giovane dei fratelli Holmes non cercasse di mettersi sulle tracce della Donna coinvolgendo l'amico dottore nella sua personale ricerca di informazioni.
I suoi tormenti nascevano da una semplice domanda: Irene Adler, che a quanto pareva aveva frequentato la gemella di Holmes, ne conosceva la reale identità?
Se la risposta a quella domanda fosse stata positiva, molte cose avrebbero assunto tutto un altro senso.
I tentativi di scucire qualche dettaglio alla giovane Holmes si erano dimostrati vani. La ragazza era un osso duro.
Non aveva ceduto neanche quando Sherlock aveva fatto irruzione a casa di Mycroft sapendolo al Club...


Distesa sul comodo letto della stanza che ormai aveva iniziato a considerare davvero sua, a casa di Mycroft, suo fratello maggiore, la ragazza stava facendo delle ricerche in internet sfruttando il portatile messole a disposizione.
Se fosse perché Mycroft si sentiva in qualche modo responsabile o perché semplicemente era ricco sfondato, le cose non cambiavano: in quella casa non le mancava davvero nulla.
Inoltre da quando aveva ritrovato quella che di fatto era la sua famiglia biologica, i nemici che le avevano dato la caccia per anni sembravano essere scomparsi nel nulla. O, più probabilmente, si stavano riorganizzando. Essere sotto la protezione degli Holmes aveva molti vantaggi. Sapeva, però, che prima o poi avrebbe abbandonato Mycroft e Sherlock. Quella consapevolezza creava in lei un disagio mai provato prima.

Sherlock non fu tanto sciocco da entrare dalla porta principale. Si era detto che se davvero sua sorella aveva avuto a che fare con la Donna ed era piombata nel cuore del Diogenes Club senza farsi scoprire, non le sarebbe certo sfuggita una serratura che si apriva ad un orario molto più che sospetto.
Fece quindi il giro dell'abitazione per verificare se tutte le finestre fossero chiuse dall'interno. Constatato che non c'era via d'accesso facile, attuò uno dei suoi tanti trucchetti imparati negli anni e si introdusse quasi del tutto in silenzio.

La ragazza non impiegò più di una manciata di minuti a capire di non essere più sola in casa. Sherlock Holmes piombò nella sua stanza avvolto dal lungo cappotto che lo contraddistingueva e accompagnato da una maschera inespressiva dietro la quale si celavano, ne era certa, soddisfazione e un pizzico di strafottenza. Era come se i suoi occhi le urlassero "Io sono Sherlock Holmes e per me impossibile è solo una voce sul dizionario". Avrebbe fatto saltare i nervi a chiunque, ma non a lei.
Facendo in modo che lui non la vedesse, nascose il pugnale che non teneva mai tanto lontano da sé da non poterlo raggiungere in caso di necessità.

Uno dietro l'altro e senza alcun preambolo, Sherlock iniziò a snocciolare una serie di piccoli segreti appartenuti esclusivamente a sua sorella fino a quel preciso momento, stuzzicandola nel chiamare in causa Mycroft e chiedendole se il maggiore degli Holmes sapesse realmente chi ospitava in casa.
La verità era semplice quanto inaccettabile per Sherlock: Mycroft era al corrente di molte più cose e aveva attinto direttamente alla fonte.
La gemella non mostrò alcun segno di tensione sebbene la presenza di Sherlock la inquietasse. Ogni volta che aveva modo di guardarlo era come vedere se stessa con connotati maschili. Non sapeva dire esattamente quali sensazioni questo scatenasse in lei.
Al punto numero sei dell'elenco, accadde che fu Sherlock a essere spiazzato.
«Non essere timido, siediti pure. Vuoi un tè? Offre Mycroft», si inserì la giovane donna come se stessero amabilmente discutendo del più e del meno, come se lui di fatto l'avesse interpellata o stesse in qualche modo tenendo una conversazione bidirezionale con lei.
Ora era lei a fare la strafottente.
La smorfia sul viso di Sherlock tradì irritazione e lei rimase nuovamente sola in casa.


Il fatto che né Mycroft, né John fossero a conoscenza di quell'episodio aveva arricchito di un elemento la lista di segreti stilata da Sherlock.
Il risultato fu che Sherlock e la sua gemella facevano del proprio meglio per evitarsi e ci riuscivano alla perfezione.

Una mattina, prima che Mycroft uscisse di casa, sua sorella lo aveva fermato per comunicargli che sarebbe partita per qualche giorno.
Fu come una doccia fredda per il maggiore degli Holmes, tanto più perché la sorella aveva già preparato i bagagli e noleggiato un'auto cogliendolo del tutto di sorpresa. Ormai aveva iniziato a dare per scontata la presenza di lei nella sua vita.
Errore umano, l'avrebbe chiamato non molto tempo addietro.
Quando le chiese ulteriori informazioni, la risposta di lei si rivelò, però, una carta vincente.
Non è che Mycroft si adoperasse volontariamente di rimettere insieme i cocci di una famiglia, ma di fatto era ciò che stava facendo: considerato che per qualche motivo ancora sconosciuto la ragazza voleva relazionarsi soltanto con lui e considerato che i genitori attendevano ancora un incontro mentre con Sherlock un incontro non era neanche in programma, Mycroft aveva deciso di affrontare un problema per volta.
«Tu hai una tenuta nel Sussex», rifletté sentendo di avere un possibile punto di svolta praticamente a portata di mano. «Sherlock adora il Sussex», aggiunse.
Il fatto che Sherlock potesse adorare qualcosa la fece ridere fino alle lacrime. Commentò quel comportamento appellandosi al pessimo carattere del fratello, ma era un attacco isterico in piena regola: anche lei adorava il Sussex.
Le proteste dei gemelli, che per una volta furono pienamente d'accordo, non valsero a nulla. Mycroft fece in modo che partissero insieme, viaggiassero insieme e abitassero insieme per i tre giorni di soggiorno.
La testardaggine, la determinazione e il carisma erano doti di famiglia.
John era un po' scettico e temeva che i due si sarebbero azzuffati ancor prima di mettere piede in casa, ma alla fine si convinse che forse allontanandosi un po' da Londra Sherlock si sarebbe dato una calmata.
L'occhiataccia che si scambiarono i due gemelli quando si trovarono davanti all'auto, per i saluti, non prometteva niente di buono, ma Mycroft era stranamente fiducioso.
«Le chiavi», disse Sherlock tendendo la mano.
«Puoi scordartelo», rispose lei infilandosi nell'abitacolo, al posto di guida. Mise in moto e minacciò di partire senza di lui, cosa che a Sherlock avrebbe sicuramente fatto piacere, ma Mycroft e John non lasciarono scampo al giovane Holmes che fu costretto a entrare in macchina.
Per un attimo Holmes senior e il Dottor Watson non furono certi che il ruggito provenisse dal motore e non dai gemelli.
Trascorsero gran parte del viaggio in assoluto silenzio e questo, alla fine, mitigò l'umore di entrambi.
Di tanto in tanto Sherlock sbirciava in direzione di sua sorella.
Aveva i lineamenti meno pronunciati di lui e gli occhi più grandi ma dello stesso incredibile colore, le sopracciglia più sottili, le labbra carnose ma con una forma diversa, i capelli ricci, neri e corti. Le dita diafane e sottili sfioravano con delicatezza il volante, come se fosse di cristallo. Nessun segno di make-up sul viso di lei, tranne una generosa dose di mascara a rendere lo sguardo ancor più penetrante. Lo sguardo fisso sulla strada neanche quest'ultima fosse una preda da braccare. L'unico vocabolo che venne in mente a Sherlock per descriverla fu "letale".
Lei sentiva addosso lo sguardo di suo fratello, ma non disse nulla. Pensava invece a come e quando Mycroft avrebbe raccontato l'intera storia a Sherlock.
Ciò che gli aveva detto il giorno del loro primo incontro a Baker Street era soltanto la piccola parte di una serie di circostanze complesse.
La giovane donna non aveva impiegato molto a capire di essere stata adottata e ottenute tutte le informazioni utili era scappata di casa, aveva fatto perdere le sue tracce, era volata a Londra dalla Finlandia - sede dei genitori adottivi - e aveva trascorso diversi anni nell'anonimato totale. Era una bambina, ma sapeva il fatto suo. Una volta assicuratasi che nessuno la stesse più cercando, si era messa a raccogliere informazioni sugli Holmes.
Non aveva mai saputo perché esattamente i genitori avessero deciso di liberarsi di lei, motivo per cui non aveva ancora voluto incontrarli, e per questo seguì con molto interesse le vicende riguardanti un terzo Holmes. Qualcuno - che lei sapeva rispondere al nome di Charles Augustus Magnussen - aveva fatto pervenire a Mycroft un articolo anonimo in cui si raccontava di come il mezzano degli Holmes, rinnegato dalla famiglia, si divertisse a seminare orrori in tutta l'Inghilterra. Mycroft non aveva neanche avuto il tempo di pensare al da farsi che quello stesso articolo era arrivato a persone di spicco della società e del Governo Britannico.
Perché Magnussen ce l'avesse così tanto con gli Holmes, restava un mistero. Perché fosse a conoscenza di una parte di verità, restava un mistero. Perché avesse scelto l'anonimato era invece un'ovvietà.
Come lei fosse venuta a conoscenza di quell'informazione era un segreto anche per Mycroft che nulla sospettava in merito. Ma in fin dei conti sarebbe stato sufficiente cercare un po' al di sotto della superficie per comprendere ogni cosa.
Come Mycroft fosse invece riuscito a mantenere segreto a Sherlock l'episodio era semplice: accadde negli anni in cui suo fratello era alle prese con la messa in scena della propria morte. Un vero colpo di fortuna. O forse soltanto un avvertimento.
A quel punto, Mycroft - che sapeva di avere una sorella in giro per l'Inghilterra - fu costretto ad inventarsi una storia. A tutti quelli che avevano ricevuto l'articolo raccontò di essere da anni alle costole di quell'inesistente fratello criminale infine catturato e rinchiuso in un carcere di massima segretezza in un posto lontano da ogni forma di civiltà.
Questo quanto era successo all'altro.
Ma la verità era tutt'altra.
E con ogni probabilità era lei la causa di quell'articolo.


Chi più di Charles Augustus Magnussen poteva esserle utile nelle sue ricerche sugli Holmes? Quell'uomo era una fonte inesauribile di informazioni e la giovane Holmes era abbastanza determinata da voler correre il rischio. Armata di lenti a contatto marroni e assunta l'identità di un giovane ragazzo dal tipico cognome londinese con documenti in regola ed un passato convincente, chiese ed ottenne un incontro con il giornalista. La sua fisicità le permetteva di trasformarsi in un esile ragazzo ogni volta che ne aveva bisogno ed era così, tra l'altro, che aveva fatto perdere le proprie tracce anni addietro. Le fu subito chiaro, da quell'incontro, che lui la credeva un giovane omosessuale probabilmente per il timbro di voce e la traccia di delicatezza nelle movenze. E le fu subito chiaro quanto squallido fosse quell'uomo.
Nonostante questo non mollò la presa e cercò altri incontri dichiarando di voler apprendere l'arte del giornalismo dal migliore sul mercato e come asso nella manica sfoggiò una buona dose della sua intelligenza. 
Fu così che venne a conoscenza dell'esistenza di Appledore.
In prima battuta aveva creduto che fosse qualcosa di materiale, di realmente esistente, e già aveva iniziato a elaborare un piano per introdurvisi, ma poi, osservando il modo in cui Magnussen succhiava via informazioni dalle persone soltanto guardandole per poi riutilizzarle nei momenti più opportuni - o meno opportuni a seconda dei punti di vista - aveva capito che Appledore era un archivio immaginario. E che Magnussen era una persona molto più pericolosa di tutti i serial killer che spargevano sangue per le strade di Londra.
L'uomo sembrava nutrire una buona dose di fiducia nei suoi riguardi, o meglio nei riguardi del giovane ragazzo omosessuale che interpretava e che non osava mai contraddirlo, che pendeva dalle sue labbra e che nutriva un'ammirazione immensa nei suoi confronti; la giovane Holmes, però, teneva tutti i sensi all'erta quando lo incontrava, non fidandosi affatto di quell'uomo.
Ciò di cui aveva bisogno erano tutte le informazioni a disposizione sulla famiglia Holmes, ma forzare la mano sarebbe stato da stupidi così pazientò. Incontro dopo incontro, confronto dopo confronto, menzogna dopo menzogna, confidenza dopo confidenza, venne a sapere che uno degli antagonisti più fastidiosi di Magnussen si chiamava Mycroft Holmes.
Le sembrò di essere ad un passo dalla vittoria.
Doveva aver sbagliato qualcosa, però. Forse aveva fatto qualche domanda più del dovuto su Mycroft o forse Magnussen le aveva tenuto il gioco per poi colpirla alle spalle dal momento che non molti giorni più tardi del loro ultimo incontro il giornalista aveva messo in circolazione quella voce sul terzo fratello con il doppio intento di infangare il nome degli Holmes e dare un chiaro avvertimento al suo oppositore. Ai suoi oppositori.
Non aveva mai risolto il rebus e non aveva mai capito se sul serio Magnussen fosse riuscito a individuare un collegamento tra lei e i fratelli Holmes. Le sembrava strano però, in tutto ciò, che avendo capito la parentela non avesse invece notato che lei non era affatto un uomo. Poteva una mente infallibile come la sua lasciarsi ingannare da ciò che i suoi occhi vedevano? Poteva una mente infallibile farsi prendere gioco da ciò che forse il suo subconscio voleva vedere?
Che fosse un uomo incline alla perversione in ogni sua forma, lei aveva avuto modo di appurarlo in diverse occasioni eppure... In ogni caso la faccenda si avviava verso una complessità che presto si sarebbe rivelata ingestibile e che richiedeva un intervento immediato.
Aveva fatto in modo che si sentissero ancora, ma senza più vedersi: riteneva che fosse troppo pericoloso per lei e alla fine, così come era comparsa nella vita del giornalista, aveva deciso di scomparire riappropriandosi della propria identità femminile, mantenendo un basso profilo e facendo perdere per l'ennesima volta le proprie tracce. Aveva affinato la tecnica ormai.
Poi Sherlock aveva risolto tutto uccidendolo.



Senza preavviso, nell'abitacolo di quell'auto, più vicina a lei di quanto lei stessa si aspettasse, Sherlock parlò.
«Come conosci la Donna? E come sai che la chiamo così?», chiese con voce neutra, frutto di una precedente impostazione. «E perché hai una tenuta nel Sussex?», aggiunse riportando alla realtà sua sorella.
Lei si voltò soltanto per rivolgergli un sorriso di inequivocabile interpretazione: non avrebbe detto una sola parola riguardo la Adler.
«Mi piace», rispose con tono basso, quasi seducente. «Il Sussex, ovviamente».
Quel sorriso, lo sguardo e la vaga malizia nella sua voce fecero sorridere Sherlock che infine accettò di avere davanti a sé non una comune cliente, né una cliente appena fuori dal comune, ma una donna dotata di intelligenza, fascino e Dio solo sa di quali altre qualità in grado di mettere K.O. qualsiasi essere umano.
«Che io sappia hai il suo numero di telefono», disse poi decidendo di stuzzicarlo. «Perché non domandi a lei?».
Sherlock si fece serio, strinse gli occhi e contrasse le labbra. «Perché non conosco il tuo nome», ammise con disappunto e forse sperando che lei finalmente glielo avrebbe rivelato semplificandogli le cose.
La gemella scoppiò in una risata armoniosa, spontanea e divertita che risuonò in un modo splendido in tutto l'abitacolo. «Oh, nemmeno lei in effetti», commentò infine.
Imboccò la strada che li avrebbe condotti alla sua tenuta e nell'auto piombò nuovamente il silenzio. Nel giro di dieci minuti arrivarono alla piccola ma graziosa villa. La giovane donna spense il motore e si voltò verso il fratello con aria seria. «Io non esisto, Sherlock».
La domanda sorse spontanea sulle labbra del consulente investigativo: «E allora a chi è intestato tutto questo?».
Di nuovo quel sorriso. Di nuovo quello sguardo.
Ipnotico e indecifrabile.
«Alla Donna».




N.d.A.
Le parti scritte in corsivo altro non sono che flashback. Spero di non essere stata troppo macchinosa. Al contempo spero di esserlo stata abbastanza.
Ringrazio in anticipo tutti i lettori e chiunque deciderà di lasciare una recensione.

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Capitolo 4
*** Riflesso ***


The Other One


Riflesso

Mycroft Holmes non amava trascorrere del tempo con la gente. E nemmeno tra la gente, in effetti. Per sua sorella, però, aveva deciso di fare un'eccezione perché sì, i sentimenti sono una condanna e ti rendono vulnerabile, corruttibile. Soprattutto corruttibile. Bastava una parola detta nel modo giusto e al momento giusto per cambiare le sorti di una giornata, di una conversazione, di una situazione scomoda. Mycroft lo sapeva bene. Del resto faceva lui stesso leva sui punti deboli delle persone per risultare convincente. Ma non poteva dire no a lei. Sua sorella sembrava avere una dote naturale non solo nel portare alla luce eventuali episodi su cui far leva, ma anche nel convincerlo a fare cose che normalmente e da solo non avrebbe mai fatto.
Passeggiare nel pieno centro di Londra, ad esempio. Passeggiare. Non muoversi in un'auto che nemmeno guidi, soltanto per spostarti da un luogo chiuso ad un altro.
La giovane donna al suo fianco si muoveva con sicurezza in mezzo alla distrazione delle persone, passando attraverso la loro fretta di arrivare, di tornare, di non essere scoperte, di nascondersi, di sparire, di sottrarsi a qualcosa o di gettarvisi dentro a capofitto. Lei, perfettamente padrona dei propri muscoli, fluiva passo dopo passo nel cuore della capitale britannica trascinando con sé suo fratello più grande perché non aveva voglia di stare sola anche se non aveva nemmeno voglia di parlare.
In fin dei conti volevano la stessa cosa lei e Mycroft: silenzio. 
Poco importava se attorno c'era il caos. Ciò che la gente avrebbe visto, guardandoli, era una coppia di figure lente, mute e affascinanti nei loro abiti raffinati e nel portamento elegante. Avrebbero detto di loro, i passanti, che senza alcun dubbio lei era la giovane e in cerca di soldi amante di un facoltoso e meno giovane uomo d'affari. Avrebbero pensato che certamente, se avessero spulciato una di quelle stupide riviste di gossip, avrebbero trovato una foto di quell'uomo potendo così soddisfare il misero desiderio di intrufolarsi nell'altrui vita tirando ognuno le proprie conclusioni. Che queste fossero completamente errate era un'altra storia. La giovane Holmes non amava indossare abiti troppo appariscenti o troppo scomodi. Aveva voluto sempre trovarsi pronta nell'eventualità in cui fosse stato necessario scappare via di corsa e dissolversi per le vie della città, qualunque essa fosse. Per suo fratello, però, aveva deciso di fare un'eccezione perché sì, un abito corto e aderente è una condanna e ti rende vulnerabile, visibile. Soprattutto visibile. Bastava un movimento del bacino troppo audace in presenza di una persona troppo stupida per cambiare le sorti di una serata, di una conversazione, di una situazione già di per sé scomoda. Lei lo sapeva bene. Del resto si era vista costretta lei stessa a mettersi in situazioni simili per ottenere qualcosa. Ma non poteva dire no a lui. Suo fratello sembrava avere una dote naturale non solo nella scelta di abiti quasi indecenti in termini di scollature, ma anche nel convincerla a fare cose che normalmente non avrebbe mai fatto.
Indossare quel micro vestito rosso vivo che a stento le copriva il fondoschiena e che si apriva prepotentemente sulla schiena, come una ferita al contrario, ad esempio. Non il solito paio di stivali con un piccolo e comodo tacco, giusto per produrre rumore ad ogni passo. Non i comodi e freschi pantaloni di cotone e niente t-shirt.
L'uomo che le camminava di fianco sfruttava un grande ombrello per sentirsi meno esposto in mezzo alla distrazione delle persone, a quella fretta che nel suo andare, venire e temere rischiava di travolgerlo. Lui, un po' incerto fuori dal proprio ambiente naturale, evitava ad ogni passo ogni possibile contatto con le persone che scorrevano veloci nel cuore della capitale britannica, accompagnando sua sorella più piccola perché non aveva voglia di lasciarla sola anche se non aveva nemmeno voglia di parlare.
In fin dei conti volevano la stessa cosa lui e sua sorella: silenzio.
Certo il fatto che attorno a loro dovesse esserci tutto quel chiasso quando avrebbero potuto starsene in silenzio comodamente seduti sul divano, a casa o al Diogenes Club, era un dettaglio che lo infastidiva non poco. Ciò che la gente avrebbe visto, guardandoli, era una coppia di entità non propriamente identificabili come persone, ma l'ottusità degli osservatori non avrebbe permesso loro di comprendere la complessità degli Holmes, perciò avrebbero inventato pessimi racconti elucubrando su cose che neanche immaginavano potessero esistere. Se per pura casualità fosse passato di lì qualcuno capace di vedere davvero la gente, qualcuno come Sherlock Holmes, ad esempio, ecco se qualcuno come quel consulente investigativo che era loro fratello fosse passato di lì per caso e si fosse fermato a guardarli, ciò che avrebbe visto davvero lo avrebbe mandato dritto al manicomio.
Per quanto impossibile potesse essere, ciò che Sherlock avrebbe visto se avesse incontrato la sua gemella e Mycroft quel giorno sarebbe stata un'inusuale immagine speculare.
Non era Mycroft il gemello della ragazza e infatti non si poteva di certo dire che i due si somigliassero fisicamente. Ma se solo qualcuno fosse riuscito a vederli davvero, quei due, quel giorno... Avrebbe visto che erano l'uno il riflesso dell'altra.
I tacchi vertiginosi della ragazza annullavano la differenza di altezza che ci sarebbe naturalmente stata tra i due. La falcata era in una perfetta non voluta sincronia. Lo sguardo sfuggente ma molto attento, quell'espressione che non si riusciva a capire se fossero arrabbiati, concentrati o semplicemente intenti a sfidare il mondo intero per verificare che non esisteva persona capace di scalfire la superficie della loro essenza. La delicatezza nelle movenze. Quell'aria sofisticata, raffinata ed elegante.
Se per uno strano scherzo del destino Sherlock Holmes fosse passato di lì e avesse visto il preciso istante in cui sua sorella ruppe l'armonia per attorcigliare un braccio attorno a quello di Mycroft senza proferir parola, se per lo stesso strano scherzo del destino Sherlock Holmes fosse stato lì quando Mycroft anziché ritrarsi al contatto la lasciò fare, non si sarebbe lasciato ingannare e avrebbe visto, per quanto impossibile e assurdo, sua sorella fondersi a Mycroft e poi separarsene e ancora fondersi a lui, come due persone che si specchiassero nell'acqua del mare in un riflesso rotto di continuo dal lento andare e venire delle onde.
Come due fratelli uniti da un legame di sangue rotto e poi ricomposto dall'imprevedibile andare e venire degli eventi.




N.d.A.
Ringrazio in anticipo tutti i lettori e chiunque deciderà di lasciare una recensione.

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Capitolo 5
*** La prova. Il dettaglio. ***


Gemelli


La prova. Il dettaglio.

Sherlock e la sua gemella erano seduti a terra, spalle contro il muro, al primo piano del 221B di Baker Street.
Fianco a fianco, immersi nel buio. Il respiro ancora un po' affannato.
Mrs. Hudson non si era accorta di nulla. Dormiva, al piano inferiore.
Senza preavviso, Sherlock Holmes iniziò a ridere di gusto.
Fu strano. Non tutti i giorni si sentiva una risata tanto profonda. Non tutti i giorni si poteva sentir ridere Sherlock Holmes.
Suonare il violino sì. Fare strani esperimenti sì. Rimuginare su qualcosa sì. Ma ridere...
Sua sorella, in prima battuta spiazzata, si lasciò infine contagiare.
L'episodio riportò Sherlock indietro ai primi tempi con John Watson: qualcosa di simile era accaduto anche all'epoca.
La risata si spense gradualmente, ma la stanza non era più la stessa quasi avesse conservato l'eco di quel suono di cui troppo raramente si riempiva.

Sherlock Holmes ha appena violato la privacy di un uomo introducendosi nel suo appartamento dalla finestra.
La sua gemella gli copre le spalle e lo segue come un'ombra.
«John, hai portato la pistola?», domanda in un sussurro.
«Non sono John. Concentrati. E non ci serve nessuna pistola», risponde sua sorella sfiorando l'impugnatura del coltello che porta sempre con sé.
Il consulente investigativo resta interdetto per un istante. «Dettagli», commenta volendo sempre l'ultima parola. Una leggera ma decisa spallata lo spinge all'interno della sala principale di quel modesto appartamento. E' stata sua sorella, naturalmente. Anche lei vuole sempre l'ultima parola.
Sherlock sta indagando sul caso da due giorni ed è ad un passo dalla soluzione, così le ha detto.
Lei gli crede, decide di accompagnarlo ed ora è lì con lui alla ricerca della prova che, a detta di Sherlock, incastrerà l'uomo. Il dettaglio fondamentale della vicenda è che lei non sa in cosa consista esattamente questa prova. Conosce il caso, però, e ovviamente ha tratto le proprie conclusioni.
Si muovono con cautela, senza produrre alcun rumore, senza spostare nulla.
Secondo Sherlock il proprietario di casa non rientrerà prima delle ventitré. Sono le ventidue e quindici minuti e qualcuno è appena entrato nel palazzo.
- Sale le scale. Si ferma davanti alla porta, intende aprirla. Impiega un po' a trovare le chiavi. L'appuntamento gli è andato male e ha deciso di fare un salto al bar per una birra. Una è diventata quasi certamente quattro. Accende la luce, interruttore alla sua sinistra. Si accorge degli intrusi e più o meno prontamente telefona alla polizia. Una bella rogna -
Fare previsioni è la specialità di Sherlock Holmes, nonché la sua salvezza.
C'è sempre, però, un margine di errore.
L'uomo si è fermato a parlare con il portiere, e questo allunga di un poco il tempo a disposizione dei gemelli. Sanno entrambi di averne in ogni caso meno di quanto avessero calcolato.
Soltanto ora che la cerca Sherlock si rende conto che sua sorella non è più nei paraggi.
«Dobbiamo andare! Muoviti!», sussurra con urgenza nella voce e il corpo già in direzione della finestra. I muscoli pronti a scattare. Detesta le persone più lente di lui.
Lei è nella stanza accanto, sa dell'uomo e sa che entrerà in casa di lì a poco. Ma ha trovato una cosa.
«Non vorrai andare via senza questo», dice trionfante, sapendo di avere in mano la prova per cui Sherlock l'ha trascinata lì. Se la sventola soddisfatta davanti al naso.
L'uomo è dietro la porta. La apre.
Lei sorride a Sherlock.
L'uomo accende la luce.
La finestra è aperta anche se lui ricordava di averla chiusa. Nell'appartamento regna il silenzio.
Un uomo e una donna si sono appena calati dalla finestra, nella notte, e scappano per il solo gusto di sentire l'adrenalina scorrere libera nelle vene, per godersi l'aria fredda di una Londra dormiente e tanto, tanto accattivante.


Sherlock si voltò a guardare sua sorella. Il volto di lei vagamente illuminato dalle luci provenienti dall'esterno.
Anche lei lo stava osservando. Gli aveva appena messo in grembo la prova che avrebbe fatto piombare Scotland Yard a casa di quell'uomo l'indomani.
La lieve spigolosità degli zigomi, gli occhi grandi e le labbra piene, i capelli ricci e neri, le capacità intellettive di quella donna non gli lasciavano alcun dubbio riguardo la sua identità. Ogni volta che la guardava gli veniva istintivo cercare nel proprio palazzo mentale la presenza di lei nella sua vita. Una frase di troppo, un commento scappato di bocca, un oggetto, un particolare, un'abitudine, una qualunque traccia che testimoniasse quel legame biologico così evidente. Ogni volta non trovava nulla.
«Io non esisto, Sherlock», gli aveva detto durante il soggiorno nel Sussex e sembrava essere proprio così.
La taciturna gemella di Sherlock Holmes, le gambe allungate sul pavimento, incrociò le caviglie lasciando diffondere nella stanza il rumore di stoffa che struscia. Suo fratello era immobile accanto a lei, perfettamente a suo agio al buio ed in silenzio.
Tutto ciò che sapeva su di lui, tutte le informazioni che con fatica e astuzia aveva raccolto negli anni, non valevano quel momento insieme a lui.
La notte è un mantello perfetto per ogni cosa. Per i tormenti, per i sentimenti, per gli amanti, per i segreti, per una fuga, per il divertimento, per entrare in confidenza.
Entrambi in quel frangente, avvolti dal mantello della notte, si sentivano al sicuro.
Accadde in un attimo.
La testa di lei si inclinò leggermente per raggiungerlo. La tempia gli finì sul braccio.
«Io non credo che sia...», commentò al contatto. Neanche il tempo di poterne sentire il calore.
«Sta' zitto», gli rispose. Neanche il tempo di lasciargli finire la frase.
Lui chiuse gli occhi e abbandonò il capo contro la parete. Un sorriso nascosto nel buio.
Trascorsero non più di dieci minuti prima che Sherlock parlasse di nuovo.
«E' stato divertente», mormorò nella sua immobilità.
«Il termine più corretto è eccitante», puntualizzò lei.
Qualche istante di silenzio.
«Usi uno shampoo all'aceto di more. L'assenza di make-up sul viso, cosa che la mia camicia confermerà domattina, potrebbe portarmi a credere che non ami prenderti cura di te, ma le sopracciglia perfettamente definite dimostrano il contrario. E il mascara... Il mascara è importante. Rende il tuo sguardo ancora più penetrante. E' la tua arma di seduzione, la via che usi per ottenere ciò che vuoi. Quando le cose si complicano, però, e questo deve essere accaduto spesso, tiri fuori un'altra arma. Non ti allontani mai dal tuo coltello, non è vero? Sì, controlla pure se è ancora lì. E poi l'abbigliamento. Sempre sobrio, sempre comodo. Chissà come ti sei sentita la prima volta che sei stata costretta a fuggire con un abito da sera addosso e dei micidiali tacchi a spillo ai piedi».
Espresse con un'inusuale delicatezza le sue deduzioni. La voce composta, gli occhi ancora chiusi, fermo nella stessa posa. Non un muscolo del suo corpo si era mosso ad esclusione di quelli facciali. Inaspettatamente, il contatto con il corpo di sua sorella non lo infastidiva.
Lei lo ascoltò senza battere ciglio. Il suo era uno strano modo di essere sorpresa, difficile da spiegare. Conosceva indirettamente le doti deduttive di Sherlock Holmes, sapeva quanto fosse intelligente e quante cose sapesse tirare fuori da un solo, minuscolo dettaglio, eppure vivere quell'esperienza in prima persona era tutt'altra cosa. Non si sentì offesa o messa a nudo. Ciò che provava era un misto di soddisfazione e ammirazione. Quel tipo di sentimento che spinge i fan ad applaudire e sostenere il proprio idolo a qualunque costo, qualsiasi cosa dica o faccia. Una specie di adorazione.
«Però! Complimenti», commentò, «Ma, ahimé, hai corso troppo con la fantasia».
Se gli occhi di Sherlock avessero potuto risplendere di luce propria, in quel momento la stanza si sarebbe illuminata. Li spalancò e per la prima volta si mosse, con il disappunto di sua sorella che tornò ad appoggiarsi alla parete.
Un altro dejà-vu.
«Dove ho sbagliato?», chiese guardando la sua gemella nel buio dell'appartamento.
«Stavo più comoda», rispose lei prima di accontentarlo. «Non è mai capitato che io sia dovuta fuggire in abito da sera e tacchi a spillo», mormorò dopo mezzo secondo, lasciando libera interpretazione alle proprie parole.
«Interessante», fu il suo unico e sintetico commento.
Poi di nuovo silenzio al 221B di Baker Street.
Londra dormiva.
John Watson dormiva.
Mycroft Holmes dormiva.
L'Ispettore Lestrade dormiva.
Mrs. Hudson dormiva.
Molly Hooper dormiva.
Molto più tardi anche i gemelli Holmes si addormentarono, spalla contro spalla, testa contro testa.




N.d.A.
Se evito di parlare di Mary è per il semplice fatto che non so ancora quale destino hanno scelto per lei Gatiss e Moffat, perciò faccio il possibile per non inserirla.
Come sempre grazie per la lettura e per le eventuali recensioni.
Alla prossima.

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Capitolo 6
*** Cinque meno Una ***


Natale


Cinque meno Una

Sono mesi che Mycroft condivide la propria abitazione con sua sorella.
L'essere estremamente silenziosa e riservata di lei la rende una coinquilina perfetta per lui.
Ciò non significa, comunque, che sia una ragazza tranquilla.
Mycroft l'aveva vista uscire di casa in piena notte per rientrare all'alba più di una volta. Capitava anche che non rientrasse affatto. Oppure capitava che uscisse che non sembrava neanche più lei. Lui non le stava con il fiato sul collo, ma come faceva con Sherlock, cercava di osservarla per poterla proteggere a suo modo. Da cosa esattamente neanche lui lo sapeva. Sua sorella, a differenza di Sherlock, era per lui un totale enigma. Mycroft aveva avuto modo di vivere gli anni della fanciullezza e dell'adolescenza di suo fratello minore e in virtù di questo poteva permettersi di affermare di conoscerlo in buona parte. Con la sorella era tutta un'altra storia. Era certo, comunque, che non avesse dipendenze da droghe o alcol. Aveva invece una spiccata inclinazione per le situazioni stimolanti, che nel linguaggio degli Holmes significa "potenzialmente pericolose".
Sono mesi che la bella Holmes si muove, lieve presenza in punta di piedi, nella vita dei due fratelli ed è infine arrivato il Natale.
Natale significa trascorrere del tempo con i genitori. E' così per ogni famiglia. Perfino per gli Holmes.
Lei non era molto entusiasta. Aveva sempre evitato di incontrarli, gli Holmes, ma adesso aveva entrambi i fratelli contro e sarebbe stato difficile sottrarsi a loro. Uno, forse, sarebbe riuscita ad imbrogliarlo, ma entrambi... Era fuori perfino dalla sua portata.
Iniziò a chiedersi cosa sarebbero stati capaci di fare tutti e tre insieme.

A casa di Mycroft, la giovane donna era chiusa in bagno da ore.
Si era concessa un lunghissimo bagno rilassante che le era servito soprattutto a calarsi nella parte. Una parte molto più semplice di quella della figlia ritrovata.
Sherlock lavorava all'ennesimo caso insieme al fedele compagno di avventure, John Watson. Poi, un giorno, aveva chiesto la partecipazione di sua sorella.
Uscita dalla vasca aveva messo a riscaldare la piastra per capelli ed era andata a recuperare ciò che le occorreva.
Sull'uomo che teneva impegnato Sherlock Holmes pendeva un'accusa di omicidio e violenza sessuale a danno di alcune giovani donne. Si trattava di una tipologia molto particolare di persone. Erano, infatti, tutte appartenenti al mondo dark, goth ed emo. Scotland Yard non era riuscita a trovare prove concrete che potessero incastrare definitivamente l'uomo, ma Sherlock Holmes aveva un'idea.
Rientrata in bagno ci si era chiusa di nuovo e quando ne era uscita, per poco a Mycroft non era preso un colpo.
I capelli lisci mettevano in risalto i lineamenti spigolosi della ragazza e il nero risultava accentuato dal nuovo look. Abituato a vederli senza un filo di trucco, Mycroft rimase accecato dagli occhi di sua sorella. Pozze di luce in tutta quell'oscurità.
Grazie alle giuste conoscenze, negli anni aveva imparato più per esigenza che per mestiere l'arte del trasformismo ed era diventata una maga del make-up pur preferendo evitarlo nella vita di tutti i giorni: non truccarsi aiutava a renderla irriconoscibile quando invece lo faceva. Davanti allo specchio si era riempita le palpebre di nero, sfumando ad arte con diverse tonalità di grigio. Aveva abbondato con la matita, sulla palpebra a ridosso delle ciglia, - allungando entrambe le estremità dell'occhio - nell'interno e anche sotto, vicino alle ciglia inferiori. Dove non era arrivato il mascara, erano arrivate le ciglia finte. Un fondotinta cadaverico rendeva la sua pelle molto pallida. Pallide anche le labbra, sapientemente schiarite con i giusti prodotti. Jeans neri come fossero una seconda pelle, strappati dalla coscia alla caviglia orizzontalmente in più punti, infilati in pesanti anfibi. Una maglietta utile appena a coprirle i seni, larga a dispetto dei jeans, colma di piccole croci gotiche. Un'enorme felpa dotata di un enorme cappuccio serviva a nasconderle braccia ossute e polsi con eloquenti cicatrici, riprodotte alla perfezione sulla pelle immacolata. Un'espressione che stava in una zona imprecisa tra depressione, sconforto, malessere, malvagità, ribellione e solitudine rendeva l'opera completa.
«Chi sei questa volta?», aveva domandato l'uomo.
«L'esca».
Poi era uscita. Si era lasciata apparentemente adescare dall'uomo, adescandolo lei in realtà. Aveva lasciato che la situazione arrivasse al limite e infine aveva tirato fuori un'arma e una piccola videocamera che aveva usato per immortalare il tutto. Al resto avevano pensato Sherlock e John prima, l'Ispettore Lestrade dopo.


Nonostante Mycroft si fosse proposto di finanziarle qualsiasi spesa natalizia, sua sorella non aveva voluto saperne di mettere piede in un negozio di abbigliamento a qualche giorno dal Natale.
Mycroft era l'ultima persona che potesse permettersi di biasimarla per questo.
Non era la paura di essere travolta dalla gente impegnata negli acquisti dell'ultimo minuto, però, a trattenere la giovane Holmes.
Mancavano di fatto due giorni alla Vigilia quando, di ritorno da Baker Street, aveva voluto mostrare un maglione a Mycroft. Non un maglione qualunque. Disse che era perfetto per lei, ma Mycroft sapeva perfettamente che non era vero. Conosceva piuttosto bene il guardaroba di sua sorella, vivendoci insieme, e non aveva mai visto niente di simile saltare fuori dall'armadio. Non impiegò molto a capire che sua sorella intendeva depistare qualcuno. Di nuovo.
«L'ho trovato», aveva spiegato quando Mycroft le aveva chiesto come fosse entrata in possesso di quel capo d'abbigliamento di discutibile eleganza.
Lo stile era inconfondibile e la taglia rivelava abbastanza chiaramente chi fosse il proprietario dell'indumento. John Watson. Era un tipico, voluminoso, geometrico maglione natalizio appartenente a John Watson.
Appartenuto a John Watson.
Non è che Sherlock e John glielo avessero lasciato prendere. Semplicemente non sapevano che lei l'aveva preso.
Fu con quel maglione che si presentò a casa Holmes la mattina della Vigilia. E con la miglior non-espressione di sempre.
Durante il viaggio in auto con Mycroft si limitò a guardare oltre il finestrino.
Suo fratello non seppe dire se fosse arrabbiata perché lui e Sherlock l'avevano incastrata. Guardandola non riuscì a ricavare la benché minima informazione su di lei e in quel momento comprese perfettamente il perché della scelta del maglione non suo: non sarebbe stata lei in quell'incontro. In realtà Mycroft ancora non aveva capito chi lei fosse veramente. Sembrava che tanto i fratelli Holmes fossero bravi a leggere, quanto lei lo era a vestirsi di fogli vuoti.
Se Mycroft e Sherlock l'avessero vista per la prima volta quel giorno, con indosso quel maglione, senza conoscere assolutamente nulla di lei, avrebbero tratto conclusioni completamente errate sul suo conto. E questo era esattamente il gioco che aveva tenuto in vita la gemella Holmes negli anni.

I coniugi Holmes erano sulla porta d'ingresso, incapaci di restare ad aspettare dentro casa, impazienti di rivedere un insieme di combinazioni genetiche meglio definito con il nome di "figlia". La cosa buffa è che nessuno dei due avrebbe dovuto domandarsi da chi avesse ereditato cosa. Se avevano osservato bene Sherlock avevano in mano tutte le risposte che gli occorrevano.
Quando lei scese dall'auto l'impassibilità regnava sovrana sul suo volto.
«Loro sono...», tentò Mycroft.
Lo fulminò con lo sguardo. Uno sguardo di ghiaccio. Come un iceberg che, inesorabile, colpirà la tua nave e la affonderà. Senza cattiveria, ma semplicemente perché è così che va quando un'imbarcazione si avvicina ad un enorme blocco di ghiaccio galleggiante. «Niente convenevoli», disse e fu come se avesse detto "Inutile che ci presentiamo, voi sapete chi sono, io so chi siete. Non fingiamo che questo incontro sia voluto da tutti e assolutamente perfetto, perché non è così".
Sherlock, arrivato per conto suo, non intervenne verbalmente, ma l'accompagnò all'interno e le fece fare il giro della casa.
Mycroft approfittò per parlare ai genitori del carattere della ragazza e li avvertì di non aspettarsi una grande interlocutrice.
Come a testimoniare quanto aveva appena detto il maggiore degli Holmes, Sherlock e sua sorella non ebbero bisogno di parole: ogni stanza dichiarava da sé la propria funzione, senza che qualcuno sprecasse fiato per dire inutili ovvietà.
Alla fine si installarono tutti in cucina, piccola ed intima.
Alla giovane donna bastò un rapido sguardo per capire l'essenziale dei coniugi, di quelle due persone che l'avevano messa al mondo e poi data via apparentemente senza alcuna motivazione. La signora Holmes era evidentemente la colonna portante di quella famiglia, quella che prendeva e portava avanti le decisioni, quella che si era preoccupata dell'istruzione dei figli, quella che aveva il quoziente intelletivo più elevato. Quella dalla quale aveva ereditato il colore degli occhi. Il signor Holmes era un uomo tranquillo, uno che per una vita intera aveva affiancato, assecondato, confortato e accomodato una moglie e dei figli dalle incredibili potenzialità. Sembrava essere l'unico normale là dentro, per quanto normale possa essere un uomo che sceglie di vivere insieme ad una moglie così, riuscendoci. Le ricordò il Dottor Watson: normale se paragonato a Sherlock, ma completamente fuori dal comune se paragonato alla maggioranza delle persone là fuori.
Il pranzo venne consumato per lo più in silenzio.
Lei lo trovò ottimo, ma non si complimentò affatto. Si era accomodata accanto a Sherlock e di fronte a Mycroft, consapevole del fatto che ogni sguardo da parte dei signori Holmes sarebbe stato una coltellata al cuore data la somiglianza tra lei e Sherlock. I due, a differenza dei figli, sembravano essere inclini ai sentimentalismi. O forse era colpa dell'età: nessun sentimentalista avrebbe dato in pasto al mondo la propria figlia neonata separandola, tra le altre cose, dal proprio gemello.
La maschera impassibile ancora perfettamente dipinta sul volto della ragazza. Non una grinza.
Nessuno osò chiamarla per nome, anche se i signori Holmes sapevano come si chiamava. Le avevano dato loro quel nome che lei teneva segreto al mondo intero, ma non avevano idea di come si fosse fatta chiamare in tutti quegli anni di assenza.
Anche Mycroft lo ricordava eppure mai lo aveva pronunciato ad alta voce, né in presenza né in assenza della ragazza.
Sherlock ne era completamente all'oscuro.
Il signor Holmes la guardava con pacata curiosità, aspettandosi forse che prima o poi lei avrebbe parlato.
Lei provò per lui un po' di quello strano interesse che Sherlock aveva nutrito nei confronti di John Watson quando lo aveva conosciuto. Si domandò quante persone esistessero come il signor Holmes e il Dottor Watson.
La signora Holmes, invece, si teneva occupata con i piatti: aveva voluto per forza lavarli in quel preciso momento.
Tutta quella emotività rivelò ai fratelli Holmes, i due maschi, un lato di lei che non conoscevano.
«Ma dove ho messo il centrotavola?», domandò probabilmente più a se stessa che ai presenti, o forse più per riempire la cucina di un suono che non fosse quello di acqua e stoviglie.
Neanche due secondi da quel punto interrogativo. «Il ripiano a destra».
I gemelli. In sincrono.
Un sorrisetto soddisfatto sulle labbra di Mycroft.
Un'occhiataccia di lei, in risposta.
Lo stupore della donna a colmare ogni spazio della stanza.
Dalla sedia occupata dal signor Holmes proveniva una calma quasi disarmante, come se fosse abituato ormai a queste cose.
La signora Holmes recuperò il suo centrotavola, lo sistemò esattamente dove voleva che stesse e prese di nuovo posto a tavola.
«Perché sei sparita?».
Diretta. Fredda. Implacabile. Non era il giusto approccio.
Silenzio.
«Ti abbiamo osservata costantemente quando vivevi in Finlandia, perché non avremmo mai voluto arrivare a tanto», continuò la signora Holmes. La sua voce era ancora dura, come se fosse arrabbiata. Non esattamente per qualcosa o con qualcuno in particolare, semplicemente arrabbiata.
«La piccola Annukka ha scoperto di essere stata adottata. Alla piccola Annukka non piacciono le bugie. La piccola Annukka è una bambina sveglia e scappa di casa. La piccola Annukka è morta», risponde la gemella di Sherlock parlando in terza persona della versione finlandese di se stessa. Nessuna particolare inclinazione nella voce. Lo sguardo in un punto oltre Mycroft, sulla parete.
Silenzio.
La giovane donna non intendeva aggiungere altro a quelle parole. Sentiva gli occhi di Sherlock addosso come una lama sottile in attesa di bucare la pelle dell'avversario, assetata di sangue. Aveva gli occhi di Mycroft puntati nei propri, erano di una limpidezza straordinaria. La stessa limpidezza che l'aveva convinta ad ascoltarlo la prima volta che l'aveva incontrato.
«Sarebbe più corretto dire che Annukka ha smesso di esistere per far spazio ad altri». Era stato proprio Mycroft a parlare.
Sua sorella annuì solo con una smorfia delle labbra piene. «Te lo concedo», rispose.
In quel momento, la signora Holmes capì che Mycroft riusciva in qualche modo a farsi strada tra le mille barriere che sua sorella innalzava.
«A chi?», intervenne Sherlock. Il suo bisogno di conoscere predominava su ogni altra cosa.
Lei continuò a guardare Mycroft negli occhi.
Lui non si mosse.
I presenti capirono che in un modo tutto loro quei due stavano parlando.
Mycroft annuì come se sua sorella gli avesse posto una domanda che nessuno tranne lui aveva potuto sentire.
Avevano in effetti appena sigillato un patto: se necessario lui l'avrebbe portata via da lì immediatamente.
«Annukka è stata molte altre persone», disse infine, «La recita più bizzarra è stata quando ha impersonato due gemelli, il giovane Sherwood e la giovane Sherilyn». Rise a quel punto. E di gusto anche. L'assonanza con il nome del suo gemello era evidente, e comico era quanto nessuno si fosse mai accorto di nulla sebbene molti in quella stanza sostenessero di averla cercata per tanto tempo. La disarmante verità era che la donna aveva lasciato piccoli indizi che solo chi la stava davvero cercando avrebbe potuto cogliere. Il fatto che nessuno avesse unito i fili era la chiara testimonianza che chiunque avesse provato a mettersi sulle sue tracce non si era mai impegnato abbastanza oppure non sapeva esattamente chi stava cercando. Sherlock era impietrito, immobile mentre viaggiava nel proprio palazzo mentale: se il caso di quei gemelli era in qualche modo arrivato a lui, se una qualunque delle molteplici trasformazioni di sua sorella era in qualche modo arrivata fino a lui, doveva averne memoria.
I due gemelli erano orfani, come la maggior parte dei suoi alter ego, e scomparsi, come tutti i suoi alter ego.
A dirla tutta non rivelò niente a parte le molteplici identità che aveva assunto negli anni per sparire, non lasciare tracce, evitare di essere trovata da persone diverse dai fratelli Holmes, evitare di essere ammazzata.
Fu Mycroft a raccontare ai genitori come aveva fatto a scovare la giusta pista e come lei gli era sempre sfuggita fin quando non aveva deciso di presentarsi spontaneamente da lui.
Ciò che i tre fratelli volevano sapere, a quel punto, era perché i coniugi Holmes avessero deciso di sbarazzarsi di lei.
Era una storia, quella, che affondava radici in eventi accaduti molto prima della nascita di Mycroft.
L'unica ragione per cui la signora Holmes non era pienamente convinta di dover tacere era un evento accaduto anni addietro, in quello stesso periodo dell'anno. Eppure qualcosa le bloccava la lingua, le serrava le labbra e le impediva di liberarsi di quel segreto.
Fu suo marito a parlare. «Magnussen», disse.
Quattro paia di occhi chiari lo fissarono istantaneamente.
Non c'era persona in quella stanza che non conoscesse quel nome.
L'uomo spiegò che quando aveva conosciuto quella che sarebbe poi stata sua moglie, lei era stata promessa ad un tale che di cognome faceva Magnussen. Erano altri tempi e se anche il marito aveva quasi il doppio degli anni della sposa non importava a nessuno. Il signor Holmes, però, non si era lasciato intimidire e aveva infine conquistato la futura signora Holmes che tutto era tranne una persona avvezza al rispetto delle regole, specie se assurde. I due, non senza la benedizione dei genitori di lei, si innamorarono. La promessa fu sciolta e la futura signora Holmes libera di sposare l'uomo che amava. Magnussen, però, non digerì mai l'affronto e giurò eterno odio alla coppia. Il desiderio di vendetta non lo abbandonò mai. Anche lui si sposò non molto tempo dopo e sua moglie gli diede un figlio che chiamarono Charles Augustus Magnussen. I coniugi Holmes non avevano ancora avuto Mycroft quando Magnussen fece in modo che loro sapessero del nuovo nato e fu in quell'occasione che l'uomo promise a se stesso e agli sposini che nel caso in cui il loro matrimonio avesse generato una bambina, quella avrebbe sposato suo figlio Charles Augustus ad ogni costo.
Mentre raccontava, il signor Holmes guardava esclusivamente sua moglie.
Sul volto di entrambi erano ben visibili l'angoscia e l'orrore di quei momenti di tanto tempo prima.
La signora Holmes era sempre stata una donna dal carattere forte e deciso, così quella minaccia non l'aveva scoraggiata e non aveva messo in crisi l'amore che nutriva per suo marito. Quando scoprì di essere incinta lo annunciò con gioia a quest'ultimo. Sapeva del rischio che correvano, ma non avrebbe permesso ad un uomo così meschino quale era Magnussen di condizionare la sua esistenza.
Magnussen era un giornalista e questo gli forniva le chiavi d'accesso a moltissime informazioni, compresa la gravidanza della signora Holmes. Venuto a conoscenza che si trattava di un bambino, sembrò sparire nel nulla. E invece era lì ad osservare, come uno squalo, paziente, in attesa della preda, di un suo errore.
Gli Holmes ne ebbero la prova quando ricevettero le congratulazioni per il nuovo nato da parte dell'intera famiglia Magnussen.
La seconda volta che la signora Holmes rimase incinta, aveva già in mente di fare in modo che la notizia non raggiungesse quell'essere spregevole. Non lo disse ad anima viva, quando la pancia cominciò a vedersi si tenne lontana dai luoghi pubblici e si affidò alle cure di persone estremamente fidate. Andò tutto bene. La signora Holmes scoprì di essere in attesa di due gemelli e quando seppe che si trattavano di un maschio e di una femmina, fece tutto quanto era in suo potere per tenere nascoste quelle informazioni. Ci riuscì. Partorì assistita dalle persone che lei stessa si era scelta e tornò a casa con i bambini. La mente della signora Holmes lavorava, instancabile, ad una soluzione che le permettesse di tenere quella bambina per sempre senza che Magnussen ne venisse a conoscenza o potesse ricattarla e attuare la propria vendetta. Sembrava una missione impossibile da compiere, ma la signora Holmes non era una semplice donna e vedeva oltre alle cose, sapeva scegliere le mosse vincenti.
La quiete però, purtroppo, durò molto poco.
Magnussen venne infine comunque a sapere dei gemelli e, cosa ancor più drammatica per gli Holmes, seppe che uno dei due era una femmina, così rinnovò quanto aveva detto anni addietro. In verità Magnussen non aveva mai avuto la certezza che uno dei due fosse una bambina prima che gli Holmes lo confermassero. Aveva però basato le proprie deduzioni su un semplice ragionamento: se fossero stati entrambi maschi, perché fare tutto in gran segreto?
Magnussen non era solo un giornalista. Era una delle persone più intelligenti che i coniugi avessero mai incontrato.
I coniugi Holmes non avevano dubbi che Magnussen fosse assolutamente deciso a portare avanti quella sua assurda, insensata, vendetta. Incapaci di tollerare una simile situazione, dovettero prendere una decisione drastica che avrebbe cambiato la vita di tutta la famiglia. Il loro primo pensiero andò a Mycroft che era grande e intelligente abbastanza da essere consapevole di avere una sorella oltre che un fratello e in virtù di questo ricordo avrebbe fatto domande prima o poi, avrebbe cercato di capire. Lasciarono quindi credere a lui e a chiunque fosse interessato all'argomento che la bambina era gravemente malata, questo grazie alla complicità di intimi amici; diedero invece in adozione la gemella di Sherlock, mandandola in Finlandia e procurandole tutta la documentazione necessaria a distruggere il suo breve passato e a crearle un presente ed un futuro completamente nuovi. Per quando Magnussen fosse astuto ed influente non aveva occhi in ogni dove e non aveva certo a che fare con degli sprovveduti. Alla famiglia che decise di adottarla venne raccontato che la bambina era stata abbandonata in ospedale dalla giovanissima donna che l'aveva generata.
L'impossibilità di muoversi liberamente, costrinse i coniugi Holmes a stare alla larga dalla loro bambina e così era stato facile perderne definitivamente le tracce una volta che lei aveva deciso di allontanarsi in un momento del tutto inaspettato.
«La bambina gravemente malata alla fine morì e Magnussen non riuscì mai a scoprire la verità o comunque non riuscì mai a dimostrare concretamente che quella storia non era del tutto vera», terminò la signora Holmes che aveva infine trovato il coraggio di intervenire.
La giovane Holmes era una statua bellissima nella sua immobilità. Stava rivivendo mentalmente i momenti trascorsi a diretto contatto con Charles Augustus Magnussen e si chiedeva quanto quest'ultimo conoscesse di tutta quella faccenda. Sentì il panico assalirla.
Sherlock seppe di aver ucciso non solo qualcuno che minacciava la tranquillità del suo amico John Watson, ma anche il figlio di chi aveva tormentato la sua famiglia.
Mycroft ci aveva messo un secondo a capire quale rischio tutti avessero corso, non dimentico della storia di un terzo Holmes che Magnussen figlio aveva cercato di diffondere per il solo gusto di minacciarlo e fargli capire con chi avesse a che fare. Si convinse che entrambi i Magnussen erano arrivati infine a conoscere la verità e che se Sherlock non avesse ucciso Charles Augustus, lui prima o poi sarebbe arrivato alla gemella di Sherlock prima di tutti.
Non aveva idea che era stata proprio sua sorella a gettarsi in pasto a quell'uomo.
Mycroft osservava adesso i suoi genitori con una strana luce negli occhi. Qualcosa di molto simile al disappunto, ma meglio identificabile con il nome di rabbia, albergava in lui. Menzogne e segreti inimmaginabili gli avevano impedito di arrivare al nocciolo della questione e questo lo infastidiva.
L'uomo aveva un autocontrollo non indifferente e questo faceva di lui una persona insopportabile ma anche una pentola a pressione pronta a scoppiare in qualunque momento.
Il momento era arrivato.
Mycroft saltò in piedi senza preavviso e l'assoluto silenzio di tutte le parole che non disse esplose in un pugno sul tavolo di quella cucina.
Sua madre sobbalzò.
Sua sorella fissò gli occhi nei suoi.
Suo fratello rimase immerso nei propri pensieri.
Suo padre gli rivolse uno sguardo sereno, come a volegli dire che comunque lui la pensasse era così che stavano le cose e ormai non ci si poteva fare più nulla. Senza contare che il peggio era passato dal momento che i Magnussen erano morti.
Le conseguenze di quella separazione, però, erano tutte lì e bruciavano come benzina su ferite aperte.




N.d.A.
Non so se e quanto tutta questa faccenda sia credibile, perciò ora più che mai mi aspetto il vostro parere.
Il punto è che nel preciso istante in cui mi sono chiesta cosa possa aver portato i coniugi Holmes a separarsi dalla propria figlia, ma di nessuno dei due maschi mi sono detta che non poteva essere nulla di banale o facilmente spiegabile. E quando mi sono interrogata riguardo al movente mi è subito venuto in mente Magnussen. Negli episodi della terza stagione abbiamo avuto modo di conoscere piuttosto bene il personaggio di Charles Augustus e abbiamo appurato che la sua non è semplice cattiveria. E' un'ossessione, una malsana inclinazione a raccogliere segreti per poi tormentare le persone. Allora mi sono detta che questo Charles Augustus avrà pur avuto un padre... e da qui la storia come l'avete appena letta.
Rinnovo il mio bisogno di conoscere il vostro pensiero in merito e mi auguro che tutto sommato questo racconto non sia un disastro.
Vi ringrazio infinitamente per essere arrivati fin qui con la lettura e a maggior ragione vi ringrazio se deciderete di recensire.
A presto.

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Capitolo 7
*** Trick or Treat ***


The Other One


Trick or Treat

Piccole gocce scivolavano con grazia dalla tempia al mento della donna che aveva attirato su di sé lo sguardo di un uomo taciturno intento a correre sulla solita striscia scura, al sicuro dagli sguardi indiscreti dei comuni mortali iscritti ad una qualsivoglia palestra londinese.
Lui era Mycroft Holmes e la palestra ce l'aveva in casa. Così come sua sorella, la quale aveva deciso di restare.
La schiena imperlata di sudore e il top più scuro di una tonalità rispetto a quando aveva iniziato ad allenarsi, due ore e mezza prima.
Mycroft non aveva mai dato sfogo davvero alla rabbia esplosa in lui il giorno di Natale, quando era venuto a conoscenza di dettagli che fino a quel momento non aveva colto o, più credibilmente, non aveva voluto cogliere. Perché in fin dei conti era umano pure lui, fosse anche in minima percentuale rispetto al resto della popolazione mondiale.
Chi non lo conosceva davvero - e quindi tutte le persone alle sue dipendenze, nonché i frequentatori del Diogenes Club - non si sarebbe mai accorto del profondo turbamento che lo teneva sveglio fino a tarda notte e che quotidianamente pretendeva una buona fetta della sua attenzione.
Nonostante questo lui era impeccabile. Tutti i giorni manovrava, come un abile burattinaio, le sorti dell'Inghilterra senza mai sbagliare un colpo.
Dopo quel pugno sul tavolo, fratello e sorella non ne avevano parlato.
Non avevano più parlato di nulla.
La suoneria di un cellulare disturbò il silenzio di quell'ambiente e distrasse entrambi.
Mycroft smise di guardare sua sorella e focalizzò le cifre in movimento sul display del tapis roulant.
Lei diminuì gradualmente il numero di pedalate senza tradire alcun segno di irritazione per l'imprevisto, - ammesso che quella telefonata lo fosse - con naturale eleganza ricongiunse una gamba con l'altra e abbandonò, in totale silenzio, l'attrezzo ginnico.
Il numero che lampeggiava convulso sullo schermo del telefono non lasciava spazio ad equivoci.
«Sono impegnata», esordì in tono distaccato e sbrigativo, sperando di chiudere in fretta la conversazione mentre con un candido, soffice e profumato asciugamano si detergeva il sudore.
«Sicuramente non per me», mormorò una voce suadente all'altro capo.
Silenzio.
«Bene», soffiò con una punta di malcelata malizia. «Ho bisogno che tu mi raggiunga al solito posto».
«Hai appena commesso un errore», fece notare la giovane Holmes senza trarne alcuna soddisfazione.
In risposta una risata le riempì un timpano.
«Non più tardi delle cinque. Prendiamo un té insieme», disse infine. «So che ti piace». Ancora quel tono quasi indecente.
La Holmes riagganciò rapidamente prima di abbandonare con stizza il cellulare sulla scrivania di Mycroft. Ne aveva una quasi in ogni stanza, quasi che fosse un'indispensabile appendice del suo corpo. Poi si dileguò.

John Watson ed il suo coinquilino/folle genio/migliore amico - non necessariamente in quest'ordine - Sherlock Holmes scivolavano veloci per le strade umide di una frenetica Londra all'ora di punta, la prima delle tante nel corso di una giornata.
Il medico era ben contento di aver rinunciato al suo turno di lavoro quella mattina. Il consulente investigativo, infatti, aveva trovato un nuovo caso su cui lavorare, il che significava una momentanea tregua alla pericolosissima noia di Sherlock. John, difatti, riteneva più probabile che il suo amico si facesse del male annoiandosi che dando la caccia a criminali di fama internazionale. Senza preavviso, la sottile figura svoltò alla propria sinistra e solo una decina di passi più avanti John si rese effettivamente conto che Sherlock era sparito, così imprecò a bassa voce, fece dietro front e imboccò la traversa quasi correndo per raggiungerlo.
«Sherlock!», urlò sussurrando il nome in una sorta di rimprovero. L'ultima cosa che desiderava era attirare l'attenzione di qualcuno che non fosse lui, tanto più perché nei vicoli in cui entrambi si stavano inoltrando non regnava un'atmosfera molto rassicurante. Sherlock non faceva altro che imboccare traverse, ora a destra e ora a sinistra, facendo girare presto la testa a John che si spingeva al limite pur di stargli dietro. Quest'ultimo era così concentrato che sobbalzò emettendo un acuto, seppur strozzato, gridolino quando un grosso topo gli tagliò velocemente la strada. Rise di se stesso, ma non per molto. Notò che qualcosa era cambiato, o meglio aveva cessato di esistere e impiegò una manciata di secondi a capire che Sherlock si era fermato e che il grande assente della scena era l'eco ritmato dei suoi passi. Quando John lo raggiunse, Sherlock aveva lo sguardo attento fisso sul punto esatto da cui sapeva che John sarebbe apparso. Lo guardò e non gli chiese se tutto fosse a posto, ma John ebbe la sensazione che l'avesse fatto e quindi annuì.
Il consulente investigativo si arrestò dopo aver percorso circa un'altra trentina di metri, intimò a John il silenzio assoluto portandosi l'indice alle labbra piene e guardò in direzione del punto esatto in cui si trovava la persona che l'uomo stava cercando. Era uno dei suoi collaboratori di strada che ne sapevano una più del diavolo, ma almeno una decina in meno di Sherlock, e che costituivano il canale più veloce per le indagini incrociate di cui spesso Holmes necessitava.
Ad una prima occhiata John ritenne che l'uomo non dovesse avere più di trenta, trentacinque anni, ma trasandato com'era non gli fu possibile determinare con certezza la sua età. Perché avrebbe dovuto farlo poi? Eppure riuscì a smettere di pensarci soltanto quando iniziò a guardarsi attorno accorgendosi che non erano affatto soli. Poco distante da loro, un gruppetto di adolescenti tutti occhiaie scure e felpe lunghe interagiva senza alcun entusiasmo dando l'idea che anche solo sollevare una mano per gesticolare costituisse uno sforzo troppo importante, insostenibile perché valesse la pena impegnarvisi. Un paio di abitazioni più in là, affacciata ad una vecchia finestra stava una donna di mezza età dall'espressione torva. John si disse che la signora era lì per caso - del resto era libera di starsene alla finestra della propria casa, no? - e che non c'era da temere perché era con Sherlock. Oppure forse proprio per questo motivo era necessario preoccuparsi?
Mentre Watson si lasciava condizionare dall'ambiente attorno, l'uomo di Sherlock si alzò barcollando come fosse ubriaco e con la stessa andatura ciondolante si mosse verso di loro.
Al dottore sembrò un atteggiamento del tutto naturale e comprese in fretta che era proprio quello il segreto. Gli uomini che lavoravano per Sherlock erano tutt'altro che dei semplici senzatetto sprovveduti.
Il finto ubriaco passò loro accanto e sembrò ignorarli completamente, ma uno dei suoi sbandamenti lo portò a sfiorare accidentalmente il cappotto scuro di Sherlock e grazie a quel fortuito contatto quest'ultimo poté fornire le dovute indicazioni a chi di dovere.
Un quarto d'ora più tardi medico e consulente investigativo avevano abbandonato i cupi vicoli della malavita e procedevano a passo meno spedito.
«Devi metterci dentro qualcosa se vuoi che la smetta», constatò Sherlock riferendosi allo stomaco di John che brontolava a intervalli regolari da diversi minuti.
Watson non ebbe neanche il tempo di rispondergli che l'amico lo prese per la manica della giacca a vento e lo trascinò nel bar più vicino.

La giovane Holmes sapeva che "il solito posto" si trovava nel Sussex e quella volta, più precisamente, a Brighton.
Non era stato necessario ricorrere alla tecnologia al fine di rintracciare la telefonata per essere certa che fosse davvero quella la sua meta. Sapeva con sicurezza che la persona che le aveva telefonato possedeva più immobili nella storica contea, il che avrebbe potuto costituire un problema di non indifferente rilievo se nel corso della conversazione la sua mente non avesse percepito, registrato ed immagazzinato un dettaglio rivelatore: l'inconfondibile sciabordìo del mare.
Sotto la doccia si preparò mentalmente a quell'incontro consapevole che soltanto due persone potevano aver attirato il suo interlocutore nuovamente nei dintorni di Londra. E nessuna delle due opzioni la entusiasmava particolarmente. Ancor meno le piaceva l'idea di dover indossare capi d'abbigliamento con cui non si sentiva propriamente a suo agio, ma dal momento che rifiutare l'invito non era una possibilità degna di essere presa in considerazione, si arrese alla necessità di calarsi nei vecchi panni della donna in carriera.
Quando uscì dall'abitazione di Mycroft collant color carne le fasciavano le gambe lasciate scoperte dal ginocchio in giù, lo sguardo color ghiaccio aveva lasciato spazio ad un rassicurante marrone intenso e, sorretto gentilmente dal naso, regnava sul suo viso uno stiloso finto paio di occhiali da vista.
Se gli fosse stato possibile, il tassista l'avrebbe accompagnata fin dentro l'abitazione e sarebbe rimasto ad attenderla lì fuori per riaccompagnarla a Londra, ma dovette accontentarsi di una risatina civettuola accompagnata dalla speranza di rivederla prima o poi.
Una volta all'interno dell'elegante casa sull'oceano, appese la corta giacca all'appendiabiti a sua disposizione e camminò fino al grande salotto. Mancavano dodici minuti alle cinque.
«In orario perfetto», mormorò la voce familiare, soddisfatta.
«Era davvero necessario per un banalissimo té?», domandò retorica la Holmes indicando con un gesto leggero il non-abbigliamento della figura dinanzi a sé.
«Nascondere il mio naturale fascino sotto strati di inutile stoffa non è nei miei programmi, mia cara, non quando sono a casa. Accomodati», rispose con calma, sorridendo.
Ma la giovane donna era già sprofondata volentieri in una grande poltrona, accavallando le gambe con naturalezza. Non le rispose.
«Gli ho chiesto di cenare assieme», continuò.
«Di nuovo?», fece lei con una punta di scetticismo, senza chiedere di chi stesse parlando. Inviare sms ad una persona nella consapevolezza di non ricevere alcuna risposta era segno di una spiccata inclinazione al masochismo, ma forse in un caso così particolare la perseveranza avrebbe prima o poi ripagato il mittente. Dopotutto Sherlock le aveva salvato la vita.
Una sonora, musicale, risata riempì ogni angolo attorno alle due figure e solo quando si affievolì fino a spegnersi una ragazza spinse nella stanza il carrello su cui aveva precedentemente sistemato, su di un vassoio, due tazze, una teiera, un'alzatina su più piani ricca di pasticcini e una zuccheriera.
«Mrs Adler, il té».
Erano le cinque in punto e il reggicalze della ragazza le copriva una porzione di pelle più ampia in confronto allo striminzito completino intimo del tutto trasparente che indossava con la stessa grazia che usava per spostarsi sui vertiginosi tacchi a spillo che aveva ai piedi.
La Holmes alzò gli occhi al cielo.
Sorseggiarono la bevanda in silenzio, come in preghiera, e la gemella di Sherlock ne approfittò per concentrarsi sul proprio ruolo nelle vicende che coinvolgevano Irene Adler.
«Quando mi rivelerai il tuo nome?», chiese la Donna alzandosi in piedi. Iniziò a camminare lentamente - mostrando senza alcun pudore le sue grazie celate soltanto da un sottile strato di nylon nero che la ricopriva per intero come una sorta di muta da sub particolarmente sexy - fino a raggiungere il bracciolo della poltrona su cui era comodamente seduta la Holmes.
«Non fa parte dei nostri accordi», fece lei, lapidaria.
Irene Adler distese le labbra rosso rubino in un sorriso malizioso mentre allungava l'indice verso la guancia sinistra della gemella di Holmes, dettaglio a lei completamente sconosciuto.
«La tua pelle è così vellutata», soffiò melensa. «Avrei voluto esserci io con te nella mia tenuta di campagna, qui nel Sussex», aggiunse con l'intento di spiazzare la sua ospite.
Ma lei non si scompose né si ritrasse al contatto, anche se istintivamente avrebbe voluto farlo.
«Sei con me adesso», replicò ostentando calma.
La Donna si stese sul bracciolo appoggiandosi con un braccio allo schienale e accavallando le gambe. Perfettamente in equilibrio.
«Ne approfitterò più tardi. Parliamo del tuo biglietto adesso»
.
Le pupille della Holmes si dilatarono per la sorpresa che non raggiunse mai i lineamenti perfetti del suo viso. Tese invece prontamente le dita, il palmo verso l'alto, in direzione di Irene. Era certa di non aver lasciato, volutamente o meno, alcun biglietto nella tenuta in cui era stata insieme a suo fratello Sherlock diverso tempo prima su suggerimento - o meglio obbligo - di Mycroft e John, per una volta davvero coalizzati, quindi l'unico modo per saperne di più era farsi dare quel fantomatico biglietto, leggerlo e comportarsi di conseguenza.
Per tutta risposta la Donna le prese la mano, si alzò - costringendo anche la Holmes ad abbandonare la sua comoda posizione - e con atteggiamenti sensuali le indicò quella che entrambe sapevano essere la camera da letto, due stanze più avanti.


Sherlock Holmes aveva messo piede nella tenuta di sua sorella - della quale ancora non conosceva neanche il nome - appartenente in realtà ad Irene Adler con il pensiero fisso di scoprire perché le due si conoscessero senza che lui ne sapesse niente, come mai sua sorella possedesse le chiavi di una tenuta nella campagna del Sussex intestata alla Donna e in che modo quest'ultima fosse coinvolta nei giochi della fotocopia femminile di se stesso. Così aveva messo in moto un meccanismo.
Assicuratosi che sua sorella fosse impegnata in altre faccende, si era messo a scrivere con grafia anonima una lettera molto sintetica che poteva essere facilmente attribuita ad una persona intelligente e dedita al trasformismo quale era sua sorella. Nel biglietto esprimeva la necessità di un incontro e lanciava un'esca particolarmente appetitosa: alcune informazioni strettamente personali, come ad esempio il suo nome.





N.d.A.
Dopo veramente tanto tempo dall'ultimo aggiornamento, eccomi di nuovo qui alle prese con "l'altra".
Prima di dire qualunque cosa voglio ringraziare di cuore Amalia che non solo si è sorbita la OS in anteprima e a puntate, mi ha dato una spinta a continuare approvando il lavoro precedentemente svolto e ha trovato il titolo per questo capitolo, ma - ultimo non certo per importanza - mi ha anche aiutata ad arricchire le generalità della gemella di Sherlock. Sì, finalmente potrete presto chiamarla per nome. Grazie, sei indispensabile.
Inoltre un ringraziamento speciale va Relie Diadamat che ha pazientemente letto e recensito tutti i capitoli a disposizione dicendomi di volta in volta la sua, consigliandomi e stimolandomi a non fermarmi qui.
Spero di essere stata credibile, di non avervi annoiati troppo e di non aver deluso eventuali aspettative. In quanto al paragrafetto conclusivo è nient'altro che un flashback che fa riferimento alla OS/capitolo "Sussex".
Vi sarei davvero grata se condivideste con me le vostre impressioni.
Alla prossima!

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Capitolo 8
*** H.W.H. ***


The Other One


H. W. H.

La giovane Holmes si svegliò molto presto, non fece colazione, non salutò Mycroft e uscì nei panni di se stessa.
Arrivò al 221B di Baker Street a bordo dei suoi rollerblade scuri, un mezzo di trasporto meno comodo di un taxi, ma più funzionale nel traffico di città e sicuramente più divertente del banale e comune jogging. Con un gesto sicuro azionò il meccanismo delle rotelle a scomparsa, potendo così salire senza alcuna difficoltà gli scalini antistanti il portone d'ingresso dal batacchio perennemente storto salvo intervento di Mycroft.
Si imbatté subito in Mrs Hudson e si fermò con piacere a salutarla. Quella donna le piaceva.
«Buongiorno cara», fece lei gentilmente. «Hai già fatto colazione? Ho appena sfornato dei deliziosi cookies... Una ricetta molto speciale!». Qualcosa nel tono di voce ricco di entusiasmo suggerì alla giovane donna che tra gli ingredienti di quei biscotti ci fosse qualcosa di non propriamente legale, qualcosa di speciale appunto. Del resto chi se non un tipo come la signora Hudson sarebbe stata disposta ad ospitare uno come suo fratello Sherlock?
«Magari più tardi», rispose con cortesia ed un sorriso. La ringraziò e fece per salire, ma la voce della padrona di casa richiamò nuovamente la sua attenzione.
«Sei qui per Sherlock? Oh, lui non è...».
Prima che potesse terminare la frase, la gemella Holmes intervenne.

«Proverò lo stesso ad aspettarlo di sopra», mormorò e si diresse decisa al piano superiore.
«Ti conservo una manciata di quei biscotti!», esclamò allegra.

John Watson uscì dalla sua camera da letto sbadigliando rumorosamente e si diresse in cucina grattandosi distrattamente la testa. Non si rese subito conto che il té era stato preparato e tenuto in caldo nell'apposita teiera, pronto per essere servito, ma quando mise a fuoco la strana realtà dei fatti - strana perché il suo coinquilino non era davvero il tipo che si esibiva in simili cortesie a meno che non avesse qualcosa da farsi perdonare o da chiedere in favore - si voltò istintivamente verso le due poltrone, sistemate come al solito l'una di fronte all'altra con la propria che dava le spalle alla cucina. Fu allora che incappò nel secondo fatto strano della giornata per lui appena cominciata: una testa ricciuta occupava proprio la sua poltrona. C'era, però, qualcosa di sbagliato in quella scena, qualcosa che aveva a che fare con le proporzioni, qualcosa che John non era in grado di determinare correttamente di prima mattina, con i neuroni ancora mezzi tramortiti e senza aver assunto almeno una dose di caffeina.
«Sherlock...?», domandò istintivamente.
«Ben svegliato, John», fece lei alzandosi.
Un inebetito John Watson la guardò per un minuto buono prima di riuscire a rimettere definitivamente in moto il cervello. L'aveva riconosciuta subito, naturalmente, solo non si aspettava di trovarsela in casa dal momento che, fino a prova contraria, la gemella di Sherlock abitava con Mycroft.
«Accidenti... sei tu. Buongiorno...», le rispose infine in evidente imbarazzo, lasciando la frase in sospeso.
«Hortensia. Serviti pure, non è molto che ho tolto il té dal fuoco», disse in tono neutro come neutra era l'espressione sul suo viso.
«Che... Come hai detto?».
«La colazione. Hai un evidente bisogno di zuccheri», rispose con naturalezza, fingendo di non aver notato lo stupore negli occhi del medico.
«No... Intendevo... Hortensia?», e la indicò nel tentativo di fare la corretta associazione mentale per quanto gli sembrasse assurdo che dalla sera alla mattina la gemella di Sherlock piombasse in Baker Street e si confidasse con lui senza un apparente motivo. Ed ecco che John ebbe l'illuminazione: gli Holmes non facevano mai nulla senza un reale motivo, che non sempre era un buon motivo.
«Hortensia Holmes. È il mio nome».
E intendeva dire "quello vero". Non l'aveva espresso ad alta voce, ma John sentiva che era così. D'altra parte anni trascorsi accanto a Sherlock dovevano pur avergli insegnato qualcosa su quella stramba specie forse-umana-oppure-forse-no catalogabile sotto il nome Holmes.
John Watson era sveglio da pochi minuti e si era visto coinvolto in ben tre stramberie holmesiane: la giornata non prometteva niente di buono.



Hortensia approfittò di un momento di distrazione di Irene per portarsi un fazzoletto alla bocca e vaporizzare il narcotico che teneva in borsa per qualunque evenienza. La Donna le rivolse uno sguardo sconvolto - come di chi è stato tradito dalla persona più improbabile - prima di cadere, profondamente addormentata, sull'ampio letto matrimoniale. La Holmes era certa che la Donna non le avrebbe tenuto il muso troppo a lungo per quel tiro mancino: lei stessa aveva tentato di giocargliene diversi nel corso della loro inusuale frequentazione.
In passato, Hortensia aveva perfino assecondato i giochi di Irene posando completamente nuda per lei senza mai esserlo veramente, - non si sarebbe privata delle lenti a contatto marroni per niente al mondo - lasciandosi fotografare per un personalissimo calendario sexy che la donna aveva appeso in bella mostra nella stanza da letto della sua abitazione dell'epoca, la stessa in cui avevano messo piede Sherlock e John la prima volta che l'avevano incontrata. Quel giorno, però, la missione della gemella di Sherlock aveva faccende più importanti da sbrigare.
Setacciò a fondo la stanza della Adler fino a trovare il misterioso biglietto scritto, ne era certa, da suo fratello al fine di ottenere informazioni su di lei. Fu in quel preciso istante che elaborò il piano di vendetta nei suoi confronti.
Prima di andarsene si colorò le labbra con il rossetto di Irene, le lasciò un "Ti bacio... Un'altra volta" sull'enorme specchio che usava per truccarsi e infine le stampò sulla guancia la perfetta riproduzione, in tonalità rubino, della propria bocca.


La giovane Holmes si rigirò tra le dita un biglietto piuttosto sgualcito - segno che il precedente proprietario doveva averlo letto e riletto diverse volte portandolo, con ogni probabilità, sempre con sé - prima di posarlo delicatamente sul basso tavolinetto tra le due poltrone.
«Sherlock sarà molto felice di conoscere il mio nome», mormorò lasciando spazio ad un mucchio di sottintesi.
John pensò che la ragazza avesse ragione dato che tutto ciò che la riguardava era diventato per Sherlock una malsana ossessione che lo spingeva ad immergersi in lunghe riflessioni silenziose alternate a picchi d'ira e frustrazione, digitazione frenetica di messaggi indirizzati a solo Dio sa chi e cerotti alla nicotina. Quindi il dottore pensò che forse sarebbe stato consono invitare Hortensia a fermarsi e provare a intrattenere una conversazione con lei fino al ritorno di Sherlock il quale, era ormai evidente, non si trovava in quell'appartamento da prima che la donna vi arrivasse. Per un momento John si sentì nuovamente in preda all'impaccio perché lei era stata in casa mentre lui dormiva e, sebbene Hortensia non avesse bisogno di un invito e sembrasse a proprio agio in quell'appartamento, gli parve che la situazione avesse un che di imbarazzante. Infine decise che sentirsi continuamente fuori luogo quando aveva a che fare con un Holmes che non fosse Sherlock non gli rendeva giustizia, perciò dirottò i propri pensieri indietro alla questione principale, ovvero la rivelazione da parte di Hortensia del proprio nome. A quel punto si accorse di aver già formulato un'ipotesi in merito e si diede dello sciocco per essersi lasciato distrarre; si ripeté che non poteva affatto essere un caso se la gemella aveva parlato in sua presenza chiamando poi in causa Sherlock: se voleva metterlo a conoscenza del proprio nome perché non l'aveva detto direttamente a lui?
Watson comprese e le sue
labbra formarono una O. Sembrava un bambino che assisteva allo spettacolo di un illusionista o un adulto cui veniva svelata una verità sconvolgente.
«Io non... No», balbettò sollevando entrambe le mani dinanzi a sé volendo estraniarsi completamente dalla questione.
Lei sorrise e lui ebbe un sussulto impercettibile.
«Certo che lo farai. E ti assicurerai anche che nessuno che non sia lui tocchi questo biglietto, te compreso». Detto ciò lo oltrepassò, recuperò quella che certamente era la sua tazza, la riempì e tornò indietro per porgergliela gentilmente in un'innegabile offerta di pace.
«Non puoi usarmi come un burattino per le tue faccende in sospeso con lui». Era più semplice replicare degnamente se quell'affascinante donna non si trovava a qualche centimetro da lui. «Grazie», aggiunse accettando di buon grado la tazza fumante. Preferì non domandarsi come avesse fatto a indovinare proprio quella che usava ogni mattina, tra le altre.
Improvvisamente determinato, l'ex soldato John Watson si mise sulla difensiva e guardò Hortensia dritto negli occhi.
Pessima mossa.
Lei si fece più vicina e quegli occhi quasi color ghiaccio, così familiari, così irresistibili e fin troppo simili a quelli di Sherlock, confusero John rendendolo più vulnerabile che mai.
Hortensia sapeva quel che faceva e non intendeva esattamente sfruttare John o prendersi gioco di lui che chiaramente era il miglior amico di suo fratello, anche se lei - e non era la sola - era convinta che fosse un rapporto molto più complesso di un'amicizia profonda il loro.
Trovarsi ad un soffio dalla bocca della versione femminile di Sherlock non era di alcun aiuto a John mentre tentava di non perdere completamente il controllo della situazione. Del resto si era abituato ad aspettarsi di tutto dagli Holmes, - era davvero necessario ricordare a se stesso di quando Sherlock aveva iniziato una relazione con Janine soltanto per arrivare a Magnussen? O ancora di quando aveva sparato a quest'ultimo rischiando di essere mandato lontano da Londra e dall'Inghilterra? O di quando aveva inscenato la sua morte? - anche se questa consapevolezza non gli era utile a capire cosa esattamente aspettarsi di volta in volta. Per quel che ne sapeva, Hortensia avrebbe potuto piantargli un coltello nel fianco, addormentarlo, andarsene senza alcuna spiegazione, baciarlo... "Baciarmi? John, concentrati!", si riprese mentalmente. La scomoda e inopportuna domanda che sorse spontanea da chissà dove fu: "Stai pensando davvero a lei?". John scosse il capo per scacciare quel pensieri e Hortensia interpretò il gesto come un ulteriore diniego alla sua non-richiesta.
«Il biglietto. Non dimenticartene», gli sussurrò all'orecchio prima di dirigersi verso la porta. «Mrs Hudson ha preparato dei biscotti», aggiunse uscendo.
Con un delizioso fagotto colmo di speciali cookies tra le mani, Hortensia decise di raddrizzare il batacchio soltanto per indispettire suo fratello e, sorridendo soddisfatta, si dileguò.

Quando Sherlock Holmes rientrò in Baker Street rivolse una smorfia al batacchio raddrizzato e, come faceva tutte le volte, lo spostò a suo piacimento.
Se uno psicologo decidesse, in un momento di pura follia, di mettersi a studiare quello che passerebbe certamente alla storia come "lo strano caso dei fratelli Holmes", finirebbe lui stesso in cura da uno psichiatra e alla fine entrambi, dopo accuratissime analisi, notti insonni e crolli nervosi, sceglierebbero in comune accordo di mollare tutto e trascorrere il resto della vita seduti ad un bar a bere e rimorchiare. In fin dei conti, però, a pensarci bene, la soluzione al rompicapo è davvero semplice.
Tutti i dispetti e il continuo punzecchiarsi altro non erano che la testimonianza di un sentimento che entrambi si ostinavano a negare, ma che sapevano di provare l'uno per l'altro.
Si volevano bene.
Che poi avessero un modo originale, a tratti forse anche piuttosto infantile, di dimostrarselo era un altro paio di maniche e, a dirla tutta, non c'è neanche da stupirsi considerato che stiamo parlando degli Holmes. E in effetti Hortensia, pur non avendo avuto alcun contatto diretto con la sua famiglia d'origine si portava comunque dietro un bagaglio genetico che la rendeva molto simile ai suoi fratelli dal punto di vista comportamentale.
Probabilmente il nostro psicologo di poco prima concluderebbe che gli Holmes non sono così come appaiono a causa di chissà quali traumi infantili o adolescenziali, - oppure qualora ne abbiano subìti, questi incidono soltanto in parte sulla loro riluttanza a frequentare altre persone - ma manifestano una spiccata sociopatia per cause da ricercarsi quasi eslcusivamente nell'eredità genetica ricevuta e, più in particolare, nelle evidenti doti intellettive che, essendo decisamente sopra la media, fanno dei fratelli Holmes degli esclusi a priori in quanto diversi dal resto della popolazione sulla base di un campione di coetanei e forse anche un po' più inquietanti di un qualsiasi soggetto problematico.
Dopo aver stilato una simile diagnosi sulla cartella di riferimento, si presume che lo psicologo abbia allentato la cravatta, si sia buttato la giacca sulla spalla, abbia lasciato il proprio studio e si sia recato dal suo amico psichiatra.
Fortunatamente John Watson era piuttosto resistente dal punto di vista psicologico.
Passeggiava lentamente attorno alle due poltrone, quasi fosse sul serio a guardia del biglietto, con ancora la tazza ormai vuota tra le mani, suo unico appiglio alla realtà che lo circondava. I suoi pensieri, infatti, erano molto lontani da quell'appartamento e somigliavano molto ad un campo di battaglia. Benché fossero trascorse circa due ore da quando Hortensia l'aveva lasciato solo con il piccolo foglio ripiegato di cui lui non conosceva neanche per sbaglio il contenuto, John Watson non era riuscito a stabilire quale fosse il modo migliore per informare Holmes di quanto era successo. Non si era neanche ricordato di vestirsi, così quando Sherlock rientrò lo trovò in pigiama.
I due si guardarono per un attimo prima che il consulente investigativo sottoponesse l'intera stanza ad un'ispezione profonda in cerca di quel dettaglio che aveva evidentemente turbato l'amico. I suoi occhi chiari si fissarono sul tavolinetto tra le due poltrone. Sherlock si chinò sulle ginocchia e inspirò a pieni polmoni diverse volte prima parlare senza staccare lo sguardo dal cartoncino.
«È stata qui mentre io non c'ero», mormorò più a se stesso che a John prima di annusare nuovamente l'aria. «Si è seduta qui prima che tu ti svegliassi visto l'attuale stato in cui ti trovi. La vostra conversazione ha riguardato sicuramente me. È evidente che se non l'hai invitata a fermarsi è perché sei tu il custode di tutte le informazioni che devo avere».
Detto ciò
sollevò le iridi verso l'alto per cercare un contatto visivo con Watson.
Quest'ultimo si mise a riflettere su quanto la mania di Sherlock di radiografare qualsiasi ambiente e persona gli stesse tornando utile in quella situazione: non era stato necessario rivelargli alcunché della visita di Hortensia, almeno per ora, perciò - ritenendo che se la donna gli avesse raccomandato di far avere a Sherlock quel pezzo di carta doveva pur esserci una ragione - decise di tentare la fortuna.
«Sì. Hai ragione. Ho custodito per voi questo prezioso rettangolino e ora mi faccio una doccia», disse con ironia e un pizzico di timore, desiderando soltanto sparire dalla circolazione.
Non aveva neanche finito di dirlo che lo sguardo di Sherlock era già incollato sul misterioso contenuto.
John non riuscì a muovere un passo così come il volto del suo amico parve farsi d'un tratto di cera.
Il biglietto, oltre al vecchio messaggio scritto da Sherlock, recava un'aggiunta dal tratto bello e sottile.

H.W.H.
Chiedi al dottore.

«H.W.H.», scandì il consulente investigativo dopo mezzo minuto di totale silenzio. «Perché dovrebbe significare qualcosa per te?», chiese.
«Sherlock... Io proprio non ne ho idea», gli rispose John, confuso, facendo scattare in piedi l'amico.
«E allora perché c'è scritto di chiedere a te?», fece lui mostrandogli la bella grafia di sua sorella.
John sbiancò. Avrebbe dovuto aspettarselo da una come Hortensia.
Evidentemente era più scaltra di quanto sia lui che Sherlock pensavano se, pur non conoscendo da molto Watson, era stata in grado di non prendere sul serio in considerazione l'eventualità che lui avrebbe assecondato il suo gioco costringendo, però, contemporaneamente John a credere che lei contasse esclusivamente sulla sua partecipazione al piano. Invece si era affidata ad astuto giochetto psicologico che avrebbe presto mandato fuori di testa sia Sherlock che John, il quale infine avrebbe ceduto pur di sfuggire all'insistenza del primo.
Sherlock non si aspettava certo una risposta dal momento che la sua domanda era retorica, eppure l'irritazione fu palese. Si cacciò il biglietto nella tasca del cappotto e quasi si lanciò di peso sul divano in pelle, diede le spalle a John in un gesto decisamente infantile e mise il broncio.
«Tu sai il suo nome e non vuoi dirmelo», piagnucolò.
Sembrava un bambino.
John sospirò e si lasciò cadere sulla poltrona: la tortura era appena iniziata.





N.d.A.
Nel caso in cui qualcuno di voi si stesse interrogando su una possibile liaison Hortensia/John, la risposta è no. Non intendo commettere lo stesso "errore" (mi perdoneranno gli eventuali fan) commesso in Elementary. Se proprio una relazione Holmes/Watson deve essere esplicitata, che sia la Johnlock e nessun'altra.
Quindi perché ho creato questa sorta di tensione tra la Holmes e il dottore? Semplice. Lei è pur sempre la molto somigliante versione femminile di Sherlock e ha su John un effetto decisamente strano.
Ancora una volta ringrazio di cuore la mia amica Amalia, senza il cui supporto mi sentirei persa.
E naturalmente grazie a voi che siete arrivati fin qui, che abbiate o meno deciso di lasciare traccia del vostro passaggio.
Alla prossima!

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Capitolo 9
*** Circus ***


The Other One


Circus

La notte era più nera che mai senza la tonda Luna a dare un'idea dei contorni della bella City, ma questo non intimoriva Hortensia la quale, anzi, aveva trovato più volte salvezza lasciandosi inghiottire dal buio per sfuggire ai suoi inseguitori.
Eppure quella sera era inquieta. La Adler le aveva inviato diversi messaggi dal loro ultimo incontro e lei li aveva ignorati tutti. Quelli di John Watson erano velatamente minacciosi, ma lei non si era offesa e gli aveva inviato un sms ogni tre ricevuti. Sherlock, invece, non si era ancora fatto vivo preferendo far impazzire il suo coinquilino anziché semplicemente ammettere di non avere l'informazione che voleva e di non sapere come reperirla se non torturando l'amico medico. Testardo. Forse anche più di lei.
Hortensia spense il portatile, stufa di leggere online cose che già conosceva e si alzò dalla scrivania preferendo uscire da quella stanza e, possibilmente, anche dai propri pensieri.
A piedi nudi, per non fare rumore ed essere in linea con la personalità di Mycroft, sempre così silenzioso da dare la sensazione di non essere reale, prese a gironzolare per casa dimenticando quasi la presenza di suo fratello all'interno dell'abitazione. Era rientrato dal Diogenes Club circa tre quarti d'ora prima, ma i due non si erano incontrati, né avevano quindi parlato. Parlare era un'azione che aveva sempre compiuto poco, ma ultimamente stava toccando i minimi storici a causa delle persone che le ruotavano attorno, o alle quali lei ruotava attorno. Questo ancora non l'aveva capito. In compenso aveva aggiunto nuove informazioni ai dossier catalogati con il nome di Fratelli Holmes. Si trattava di una corposa cartella, contenente a sua volta due sottocartelle rinominate "Mycroft" e "Sherlock", custodita nient'affatto nel suo pc, né in un hard disk esterno o in un microscopico supporto digitale. Tutte le informazioni si trovavano nella sua mente oltre che nel caveau situato nel cuore del Gottardo, uno dei luoghi ritenuti più sicuri al mondo. Si trattava di un bunker a tutti gli effetti, perfettamente nascosto tra le aperture naturali del massiccio, e Hortensia lo aveva scelto non soltanto per la massima sicurezza offerta, ma anche perché le era stato possibile depositare la parte virtuale della documentazione in una preziosa e super protetta banca dati elettronica a prova di hacker. Ne aveva testato personalmente l'efficacia. L'intera sua esistenza era quindi secretata nel bel mezzo dell'arco alpino e a meno che qualcuno non ideasse un metodo efficace per estrapolare informazioni dalla mente umana contro la volontà del legittimo proprietario, nessuno sarebbe mai arrivato a quell'archivio. Neanche Mycroft Holmes. Neanche Sherlock Holmes.
Si fermò nel grande salotto, accese solo una delle quattro alte abat-jour sistemate agli angoli della stanza lasciandosi avvolgere da una calda luce soffusa che ricordava quella delle candele o di un caminetto, e si servì un bicchiere di Cider-Brandy del Somerset1. Suo fratello sceglieva sempre il meglio per se stesso.
«Burrow Hill. Hai la sensazione di essere lì, non è vero? Tra meli e barili di sidro».
Un repentino tremore della mano, che rischiò di far traboccare il liquido dal prezioso cristallo lavorato, tradì la sorpresa di Hortensia quando l'inconfondibile voce vellutata, in perfetta armonia con l'ambiente, riempì la stanza.
«E dimmi, Mycroft, da quando sei così romantico?», gli chiese dissimulando abilmente lo spavento.
Lui sospirò e Hortensia fu certa che avesse alzato gli occhi al cielo, che si fosse appoggiato alla poltrona in pelle, avesse spostato il peso su una gamba sola e avesse incrociato l'altra dietro la prima. Quando si voltò, trovando conferma alle sue deduzioni, la donna reggeva un secondo bicchiere che offrì a suo fratello.
«Poetico», le rispose. «È diverso», precisò sorseggiando il delizoso liquido.
Hortensia annuì. «Ma cambia comunque poco. Tu sei Mycroft Holmes e le emozioni scappano via urlando quando ti vedono».
Nella penombra del salotto poté vederlo aggrottare le sopracciglia e contrarre le labbra, come se disapprovasse ciò che lei aveva appena detto oppure, forse, come se semplicemente non si aspettasse quella naturale confidenza da parte sua. Più la seconda, probabilmente.
«Tuttavia non sono una macchina», mormorò a mezza voce, con le labbra già ad avvolgere il bordo del bicchiere.
Hortensia lo trovò affascinante in un modo tutto suo. Mycroft non era quello che comunemente si definisce un bell'uomo, eppure non si poteva fare a meno di cadere nella sua ragnatela se si aveva a che fare con lui. Non aveva smesso di guardarla dritto negli occhi neanche per un istante costringendola, infine, a cedere e abbassare le palpebre per concentrarsi apparentemente sulle proprie dita strette attorno al bicchiere. Non era da lei un atteggiamento del genere e sapeva che se dinanzi a lei non ci fosse stato suo fratello ma un pericoloso nemico come Magnussen o Moriarty, quel comportamento le sarebbe costato caro. Per due volte nel giro di pochi minuti si era lasciata condizionare. Qualcosa in lei era cambiato da quando aveva iniziato ad interagire con i suoi fratelli e si rendeva conto che quel qualcosa rispondeva al nome di sentimenti e che questi erano alla base della sua irrequietezza.
«Esattamente perché ti sei messo sulle mie tracce?». Era il suo turno di spiazzare l'interlocutore.


Nelle settimane successive alla visita di Hortensia in Baker Street Sherlock aveva messo a dura prova la pazienza di John. Non era trascorso attimo in cui il consulente investigativo non avesse tartassato il suo amico con il solito, insistente, ossessionante quesito: "Qual è il suo nome?". E non era trascorso istante in cui il medico non avesse usato violenza su se stesso al fine di tacere, ritenendo più opportuno che i gemelli se la sbrigassero tra loro. Non era di suo gradimento essere il mezzo attraverso cui perpetrare dispetti di sorta. Nonostante la sua ferma convinzione e l'atteggiamento mai stato più ferreo di così nei confronti di Sherlock - il suo passato da militare svolgeva un ruolo chiave in questa circostanza - l'uomo aveva ceduto all'istinto di inviare alcuni sms alla donna. Non era stato gentile da parte sua rubare il cellulare di Sherlock e segnarsi il numero di sua sorella: si era sentito estremamente stupido, al pari di un ragazzetto che fa il cretino con la sorella del proprio amico. Ma non era per corteggiarla che aveva voluto il suo numero di telefono, perciò decise che poteva smetterla di rimproverarsi. E poi Hortensia non gli era sembrata offesa benché non avesse risposto a tutti i messaggi. Non che lui si aspettasse un comportamento diverso, anzi, era certo che lei lo avrebbe completamente snobbato. Ogni tanto, nel tentativo di ignorare l'irritante insistenza di Sherlock, i pensieri di John erano corsi indietro a quell'incontro e più precisamente a quando Hortensia gli si era fatta vicina.
Avrebbe potuto esibirsi nel pessimo tentativo di distrarla e destabilizzarla baciandola, - se anche caratterialmente somigliava a Sherlock, un contatto di quel tipo avrebbe mandato in tilt il suo cervello, John ne era certo - ma a guardare le labbra piene della donna gli erano venute in mente quelle di Sherlock e per qualche perverso scherzo della sua mente, le aveva trovate più attraenti di quelle della gemella. Sì, era riuscito ad ammetterlo a se stesso anche se questo non l'aveva affatto rassicurato spingendolo invece a formulare le ipotesi più disparate tra cui la faceva da padrona quella del dèjà-vu, ovvero il suo cervello aveva avuto un guasto momentaneo a causa di quella strana visione che aveva per protagonista la fotocopia femminile del suo coinquilino. Una qualche parte della sua mente non meglio precisata aveva suggerito qualcosa in merito a certi meccanismi del suo subconscio, ma John non le aveva dato retta preferendo non credere che Hortensia avesse avuto quell'effetto su di lui in quanto era un corpo femminile con fattezze del tutto simili a quelle di Sherlock il quale costituiva il reale oggetto del desiderio. "Ma di che desiderio stiamo parlando? Per favore! Io non sono gay", si era detto scacciando via quei pensieri con un gesto veloce della mano come si fa con il carrello della macchina da scrivere.
Si stava radendo quando Sherlock aveva fatto irruzione nel suo bagno ed esordito con un
«Hailey Wendi Holmes». Per poco John non si era tagliato sul mento.
Era invece intento a studiare i risultati di alcuni esami per un suo paziente quando Sherlock fece capolino dalla cucina, con una provetta in mano, e disse
«Hope Winona Holmes». John Watson si alzò e si chiuse nella sua camera da letto senza proferir parola.
Appena rientrato dal lavoro, nel tardo pomeriggio, aveva trovato ad accoglierlo uno Sherlock seduto a gambe incrociate sulla poltrona e non aveva fatto in tempo a varcare la soglia che il consulente investigativo lo aveva tempestato di nomi possibili inducendolo a tapparsi le orecchie con le mani.
«Non ti dirò niente! Smettila, ti prego!», gli aveva detto, esasperato. Ovviamente Sherlock non intendeva mollare la presa.
Aveva appena aperto il frigo e aveva avvicinato una bottiglia di acqua fresca alle labbra quando Sherlock era comparso, lateralmente allo sportello, facendolo sussultare. «Heather Winnie Holmes», aveva mormorato fissando i suoi occhi chiari in quelli del medico, osservandone le pupille per verificarne la reazione. E una reazione era arrivata, sebbene non fosse quella che Sherlock si aspettava. John, infatti, gli aveva sputato l'acqua in faccia, aveva chiuso il frigo e pensato di usare il suo blog per sfogarsi. Era al limite della sopportazione e Hortensia non intendeva andargli incontro.
Era notte fonda, ma a John non era concesso dormire.
«Hortensia Willow Holmes», fece Sherlock balzando letteralmente sul letto del coinquilino che per poco non urlò per essere stato svegliato in quel modo. Fortunatamente per lui era buio e Sherlock non si accorse di averci preso, né John glielo disse nei giorni successivi, così come evitò di dirgli che nulla sapeva riguardo alla "W" del biglietto.
Quando John perse definitivamente le staffe aveva la febbre. Se in altre circostanze sarebbe stato contento dell'opportunità di dedicarsi a poltrire una volta tanto, quel giorno ritenne di vivere un incubo a causa di Sherlock che non lo lasciava respirare.
«Hamish Watson Holmes!», urlò in preda ad una crisi isterica. «Okay? Ora lo sai! Lasciami in pace!», aggiunse avvampando.
Sherlock lo guardò come se avesse appena visto un composto chimico reagire in modo inaspettato: con interesse e timore al tempo stesso. Poi si voltò e non parlò più per tutto il giorno con grande sollievo di John.



Mycroft si concesse un sospiro e scosse il capo.
Hortensia rimase in attesa sebbene avesse già capito che suo fratello non avrebbe parlato.
«Lo scoprirò comunque».
«Mi sottovaluti», mormorò Mycroft.
«Per nulla, ma è un dato di fatto che possiedo più informazioni io su te e Sherlock di quante non ne abbia raccolte tu su di me», constatò lei con naturalezza, senza provocarlo.
«Irrilevante. Io ho le informazioni giuste».
«Ovvero?». Dal suo tono traspariva la sicurezza di chi sa che chi ha di fronte è un abile e intelligente bugiardo.
«Tu e Irene Adler avete vissuto a stretto contatto per il tempo necessario a te per guadagnarti la sua fiducia, così da poterla spiare senza che lei sospettasse alcunché. Sapevi che lavorava con Moriarty e sapevi che l'obiettivo di quest'ultimo era Sherlock, quindi hai sfruttato la tua... amicizia?». Un sorrisetto malizioso si disegnò sul suo volto mentre parlava. «Con la Adler per arrivare tu stessa a lui».
«Supposizioni. Non puoi dimostrarlo», fece lei mandando giù un sorso di brandy.
Il suo sorriso si aprì di più rivelando rughe d'espressione che Hortensia non pensava potessero appartenergli considerato l'atteggiamento sempre serio di suo fratello.
«L'auto che tu e Sherlock avete preso per la vostra gita nel Sussex era dotata di un dispositivo GPS che mi sono preoccupato di attivare prima della partenza. La tenuta è a nome di Irene Adler. È una prova», commentò tranquillo.
«Il dettaglio dice solo che la conosco», replicò lei.
«No, non direi. Che la tieni in pugno, piuttosto», precisò Mycroft reclinando il capo leggermente.
«Perché ti sei messo sulle mie tracce?». La voce era ferma, le emozioni un po' meno.
«E tu perché ti sei messa sulle mie?», chiese a sua volta.
Fu il suo turno di sorridere. «La domanda giusta è quando. Quando ho capito che Sherlock non aveva idea della mia esistenza».
«La domanda giusta è perché. Perché sei riuscita ad accedere al mio ufficio privato del Diogenes Club senza che nessuno dei miei uomini ti fermasse?».
In un flashback Hortensia si rivide mentre entrava nell'ambiente dove regnavano sfarzo e silenzio in egual misura, si vide passare dinanzi agli uomini della sorveglianza che non mossero un dito sebbene lei fosse pronta ad ogni evenienza, quasi che la aspettassero, ricostruì l'espressione poco convincente della donna che John chiamava Anthea mentre la guardava sconvolta prima che lei l'addormentasse come aveva fatto con la Adler. Fissò le iridi chiare in quelle di Mycroft, che annuì intendendone i pensieri.
«Sei arrivata a me perché volevo che arrivassi a me», concluse.
«Mi hai presa in giro», constatò con una punta di irritazione.
«È un vizio di famiglia. Dovresti dirlo, a Sherlock».
«Dirgli cosa?», chiese fingendo di non aver capito.
«Che ti chiami Hortensia», soffiò con una nota velatamente dolce nella voce.
Poche volte Mycroft aveva pronunciato apertamente quel nome e la maggior parte risaliva a molti anni addietro quando lo sussurrava accanto alla culla della sua sorellina mentre questa dormiva. Sembrava essere trascorsa un'eternità.
«Lo farà il Dr. Watson», rispose lasciando il bicchiere su un vassoio, dopo averlo svuotato, intenzionata a chiudere la conversazione.
«Non lo farà», e la sicurezza nella sua voce riuscì a convincerla che aveva ragione.
Tuttavia si congedò con un «Lo vedremo».

Qualche giorno più tardi, una donna incinta si presentò allo studio medico del Dr. John H. Watson dopo aver preso appuntamento.
I lunghi capelli biondo perla scendevano a onde sulla schiena perfettamente dritta, fatta eccezione per una ciocca che dalla tempia si gettava sul petto generoso e poi sul pancione. Aveva l'aspetto di una donna di classe, una di quelle mogli di imprenditori o primari che amano prendersi cura di sé e hanno la possibilità di farlo. La pelle del viso era rosea e omogenea grazie a prodotti di qualità capaci di donare un effetto del tutto naturale. E se anche lo sguardo, che pure doveva essere affascinante, era celato da grandi lenti da sole raffinate, le labbra erano magnetiche come fossero occhi nella loro tonalità rosa naturale. Entrò portandosi dietro un profumo delizioso, non eccessivamente dolce, non troppo sfrontato, per nulla aggressivo, piuttosto fresco nella fragranza floreale e senza dubbio perfetto all'immagine di sé che quella donna voleva dare. Avvolta in un comodo, caldo e lungo cappotto in lana rasata e fasciata fin sotto le ginocchia da un abito che le faceva da seconda pelle salutò Watson con un musicale
«Buongiorno».
«Buongiorno Signora Chapman», rispose lui sorridendo gentile, «Prego, si accomodi».
E lei lo fece, con una naturalezza che non appartiene alle donne all'ottavo mese di gravidanza, perennemente preoccupate che qualcosa possa accadere a loro o al nascituro.
Il dottore aggrottò le sopracciglia mentre la osservava e per un attimo lei pensò che Watson avesse capito. Ma subito dopo lui si mise a parlare in merito alle condizioni di salute sue e del bambino leggendo vecchie radiografie - reperite da Hortensia grazie ai suoi molti agganci e di certo non appartenenti a lei - e facendo sospirare la donna che si tolse gli occhiali da sole.
John Watson stava spendendo frasi rassicuranti prima di proporle una nuova ecografia quando la voce gli morì in gola.
«Tu?!», esclamò a bassa voce, come quando rimproverava Sherlock senza volersi far sentire da altri.
«Ciao John», disse, abbagliandolo con un sorriso.
«Ma cosa sei? Una truccatrice?», domandò in preda allo sconvolgimento.
«Non è importante», disse e accompagnò le parole con un'alzata di spalle. «Questi sono per il Circus2, a Covent Garden. Per te e Sherlock, naturalmente», aggiunse poi, allungandogli due pass che avrebbero garantito loro accesso e qualsiasi consumazione avessero voluto ordinare.
«Hortensia, senti ti chiedo scusa per la mia schiettezza, okay? Ma potresti mettere da parte la tua ostinazione tipica degli Holmes e parlare con Sherlock?». Nello sguardo c'era tutto lo sfinimento di quei giorni.
«Stasera. Non mancate», rispose semplicemente lasciando spazio a diverse interpretazioni, gli strinse la mano e si alzò. «La ringrazio infinitamente Dottor Watson, la sua professionalità è degna di lode. Consiglierò certamente il suo studio alle mie amiche», continuò a voce più alta per farsi sentire dai pazienti in attesa. Gli fece l'occhiolino, poi indossò nuovamente gli occhiali e con la leggerezza con cui vi era entrata lasciò la sala.

Il racconto concitato di John, che manifestava una velata ammirazione verso il trasformismo di Hortensia, convinse immediatamente Sherlock a presenziare al Circus quella sera. Il sorrisetto compiaciuto sulle labbra di quest'ultimo, invece, convinse John che aveva bisogno di un bagno rilassante prima di lasciarsi coinvolgere dai gemelli in quella che probabilmente sarebbe stata l'ennesima avventura. Watson non era uno a cui piacevano monotonia e dolce far niente, ma stare dietro agli Holmes lo sfiancava tutte le volte, fisicamente e psicologicamente, sebbene lo divertisse e lo facesse sentire vivo più del lavoro con cui si manteneva.
John non aveva idea di come e perché Hortensia possedesse pass di quel tipo e avesse deciso di darli a lui e Sherlock, ma quest'ultimo aveva una teoria che condivise solo in parte con il suo amico dicendogli che senza ombra di dubbio c'entrava Mycroft; in ogni caso i due raggiunsero Covent Garden con largo anticipo.
Senza fretta, i due amici si diressero verso il club scelto da Hortensia per il loro presunto incontro e dal momento che John non c'era mai stato, Sherlock evitò di lamentarsi con lui perché si fermava ad ogni passo. Tutto di quel locale, infatti, suscitava la meraviglia e la curiosità del visitatore a partire dall'assenza di una qualsivoglia insegna. Non era necessario arrivare all'interno del raffinato, ma estroso locale per restare con la bocca aperta: il corridoio d'ingresso, infatti, era costituito da una serie di specchi sistemati in modo da riflettere più parti dell'interno, così da dare un'aria surreale all'intero ambiente. Essendo esclusivamente un ristorante di classe fino ad una determinata ora, l'atmosfera era accogliente e sofisticata nonostante la stravaganza degli arredi e fin da subito si aveva la sensazione di trovarsi in un posto tutt'altro che volgare anche se si sarebbe tramutato in un club in piena regola. John Watson ebbe subito il sentore che non avrebbero assistito a donne mezze nude che ballavano sensualmente attorno ad un palo quella sera.
Il dottore sollevò istintivamente lo sguardo accedendo alla sala del ristorante e fu colpito dalla presenza di sfere di diversa grandezza con superficie a specchio appese su tutta l'ampiezza del soffitto. Lo spazio era riempito da tanti tavoli bianchi e tondi con al centro una candela accesa e con attorno sedie in perfetta armonia di stile. Le pareti circostanti erano abbellite da una sorta di mosaico moderno che a seconda della posizione in cui ci si trovava appariva nero oppure scintillante e sfaccettato a richiamare le sfere sul soffitto, ma bastava proseguire per avere la sensazione di aver cambiato locale. Poco più in là, infatti, troneggiava una lunga tavola bianca rettangolare la cui peculiarità era la presenza di una piccola scalinata al posto dei due capotavola. John comprese presto che quel tavolo sarebbe stato parte integrante dello spettacolo cui sperava di poter assistere prima che uno dei due gemelli decidesse che era il momento di andare via. Per quel che ne sapeva lui, era possibile che non riuscisse neanche a mettere un boccone sotto i denti - cosa che capitava spesso quando era in giro con Sherlock visto che le sue intuizioni non conoscevano le buone maniere e arrivavano così, senza avvisare. Anche le pareti cambiavano stile mostrando un motivo a rombi gialli e neri, così come le sedie, nere stavolta e con un lungo e sottile schienale. Lateralmente a questa tavola bizzarra erano sistemati alcuni tavoli scuri, dalla forma quadrata e anch'essi con una candela al centro.
Fu osservando questi ultimi che John si rese conto di non essere solo nel locale: altre persone avevano già preso posto e chiacchieravano tra loro ignorando sia lui che Sherlock. L'uomo ebbe la sensazione di vivere uno strano, incomprensibile e assurdo sogno.
«Ci aspettavano», mormorò Sherlock tenendo lo sguardo fisso davanti a sé.
Il personale, infatti, a differenza degli altri clienti teneva d'occhio i due ospiti da quando erano entrati, come fece notare Sherlock un secondo più tardi. Un uomo dal portamento impeccabile si fece loro vicino, diede il benvenuto e indicò un posto riservato proprio a quel tavolo lungo con i gradini.

«Mycroft è da diversi anni alle costole di un importante uomo d'affari svizzero che sta mettendo disordine nel sistema economico di tutta l'Europa, apparentemente senza lasciare traccia. Si tratta di Lars Elias Moser, avrai certamente letto di lui sui giornali», mormorò Sherlock dopo che entrambi avevano ordinato la cena su personale invito di Hortensia la quale aveva fatto affidamento su un convincente sms inviato a Sherlock in cui diceva che se non si fosse comportato da uomo normale quella sera, se non avesse mangiato, bevuto e se non fosse stato cordiale con John, lei non gli avrebbe mai rivelato il proprio nome. In un'interessante postilla suggeriva di non perdere di vista l'uomo che si sarebbe seduto di fronte a loro, qualche postazione più a destra. «E qualora non avessi idea di chi sia, lo conoscerai a breve visto che quelli sono i posti riservati a lui e ad un suo collega. O forse farei meglio a dire complice. Amante in effetti», concluse il consulente investigativo indicando con un gesto casuale una sedia che John credette di aver identificato.
«E cosa c'entra... tua sorella?», chiese e per poco non si lasciò scappare il nome di lei.
«Conosci Mycroft, sono sicuro che ci arriverai da solo. Oh, ma guarda, il nostro uomo», gli rispose.
John aggrottò le sopracciglia esprimendo confusione mentre guardava Moser sedersi proprio su una delle sedie nere indicate da Sherlock in precedenza.
«Nos... Nostro uomo?!», esclamò sbigottito. «Sherlock io credevo fossimo qui per...».
«Divertirci? Oh, John, perché tanta monotonia?», lo interruppe Sherlock.
John inspirò prima di riprendere da dove era stato fermato.
«Per incontrare... lei». Evitare di pronunciare quel nome gli costava uno sforzo non indifferente quella sera.
«Lei?».
«Non ci provare». Nel dirlo lo guardò negli occhi e fu il cameriere a salvarlo dallo stordimento che l'intensità di Sherlock gli avrebbe certamente causato.
«Buon appetito, signori», mormorò l'uomo ben vestito che li aveva accolti, per poi congedarsi.


Durante la cena, dopo aver rivelato a John di essere al corrente del furto del numero di sua sorella - che aveva naturalmente memorizzato sotto il nome "H.W.H." - e dopo avergli confessato di aver letto tutti gli sms che le aveva inviato con la convinzione che avrebbe così trovato ciò che cercava e di essere invece rimasto con un pugno di mosche, Sherlock diede evidenti segni di noia che il dottore cercò di arginare come meglio poté finché il signor Moser fece qualcosa di molto interessante.
«Guarda, John!», soffiò il consulente investigativo. Improvvisamente divenne un unico fascio di nervi in tensione protesi verso la preda e ciò che aveva in mano.
Un altro pregio di quel club era la riservatezza: nessuno del personale avrebbe mai osato chiedere informazioni in merito ai documenti che Lars Elias Moser consultava liberamente con il proprio amante, senza neanche provare ad essere discreto mentre indicava quelli che potevano essere nomi o somme di denaro, frodi assicurative o appalti vinti illegalmente stampati sui fogli, perché al direttore poco importava di cosa discutessero i suoi ospiti all'interno del locale, fosse anche la pianificazione di un attacco terroristico, a patto che non mettessero in alcun modo in cattiva luce il Circus che offriva loro assoluta discrezione. Ecco il perché dell'assenza di un'insegna e l'utilizzo di un sistema di pagamento molto particolare.

«Cosa dovrei vedere esattamente?», domandò lui mentre luci e musica cambiavano nella sala.
Lo spettacolo stava per iniziare.
«Il reale motivo per cui siamo qui!», esclamò Sherlock affilando lo sguardo, senza staccare gli occhi neanche per un secondo dallo svizzero.
Il volume imposto dal celebre dj impedì ai due di parlare senza rischiare di non capirsi a vicenda, ma a entrambi fu chiaro che quei documenti dovevano finire nelle mani di Mycroft il quale  - ormai era palese pure per John - si era rivolto a sua sorella minore che, a sua volta, aveva coinvolto il proprio gemello - noto per essere tutt'altro che stupido - e il suo amico medico, capace di fare pressione nei punti giusti per far perdere eventualmente i sensi ad una persona senza ucciderla.
Naturalmente Hortensia non intendeva scaricare tutte le responsabilità sui due uomini, ragion per cui era la Guest Star della nottata. Saper modificare il proprio aspetto a seconda delle esigenze non era l'unica abilità della donna la quale non solo si muoveva con assoluta padronanza sui rollerblade, ma era anche brava nella ginnastica artistica. Quella sera il suo nome era Svetlana Vasil'evna Khorkina3, aveva corti capelli biondi e indossava un colorato costume da ginnasta.
Insieme a lei numerosi altri ballerini professionisti diedero vita ad un indimenticabile spettacolo di figure complesse, salti acrobatici individuali e in coppia, numeri con fuoco, cerchi e nastri, il tutto amplificato grazie al gioco di specchi creato dalle sfere di metallo pendenti. Hortensia sapeva di avere su di sé gli occhi di tutti i presenti, compresi quelli di suo fratello che lei reputava l'unico in grado di riconoscerla, ma questo non la intimidì affatto e anzi, essere l'ospite d'onore della serata le dava una libertà di azione di cui altrimenti non avrebbe disposto. Non a caso lei e Mycroft avevano orchestrato quella serata fin nel più piccolo dettaglio.
Mentre si esibiva nelle sue evoluzioni non si lasciava distrarre dagli applausi, pur gradendo molto il consenso dei presenti e ringraziando sempre con gentilezza, e teneva ben fisso nella mente il proprio obiettivo: appropriarsi delle carte di quel truffatore e consentire a Mycroft di sistemarlo come più riteneva opportuno. Con ogni probabilità ne avrebbe distrutto - o, per essere più precisi, ne avrebbe fatto distruggere - l'immagine pubblica, ma questa parte delle vicende non riguardava affatto Hortensia la quale si era offerta volontaria per quell'incarico in cambio di ulteriori dettagli in merito alle vicende che riguardavano lei e la famiglia Holmes.
Quello che ad un esterno occhio critico poteva sembrare il gioco dispettoso di adulti mai cresciuti mentalmente, era in realtà un'articolata rete di compromessi che avrebbe condotto alla soddisfazione di tutte le parti coinvolte attivamente.
La donna capì che Sherlock l'aveva individuata quando il suo sguardo non si schiodò da lei per due interminabili minuti prima di tornare a Lars Elias.
Il resto accadde molto velocemente sotto gli occhi attenti di Hortensia.
Sherlock e John lasciarono la sala e vi rientrarono abbigliati esattamente come il personale del locale; mentre il primo interagiva con la coppia seduta alla sinistra di Moser, John distraeva proprio quest'ultimo e il suo accompagnatore così che Sherlock potesse sostituire i fogli di interesse con pagine del menù in un gesto fluido ed invisibile, risultato di anni ed anni di pratica e di un'innata sfacciataggine. Poi entrambi si dileguarono, si riappropriarono dei propri abiti e lasciarono il locale per evitare che qualcuno collegasse la sparizione di due uomini con la comparsa di due camerieri successivamente svaniti nel nulla in corrispondenza del ritorno dei due uomini.

Il cielo si stava lentamente schiarendo e i contorni della bella Londra apparivano con maggiore nitidezza con il trascorrere dei minuti, ma John e Sherlock non si erano mossi da Covent Garden preferendo attendere lì Hortensia anziché darsi appuntamento più tardi in Baker Street. Lei arrivò che il sole era già sorto, avvolta in una felpa e con parte del viso nascosta da un cappuccio nettamente più grande della sua testa.
«Non si è accorto di nulla», esordì. «Ha continuato a godersi lo spettacolo bevendo come una spugna insieme all'amante».
John strabuzzò gli occhi nel sentir pronunciare a Hortensia la stessa deduzione cui era arrivato Sherlock diverse ore prima, aveva perso il conto ormai e a stento si reggeva sulle proprie gambe tanta era la stanchezza che lo invadeva. A dirla tutta desiderava solo stendersi in un morbido letto e dormire per almeno otto ore filate.
«È andato via poco prima della chiusura portando con sé... il menù?», continuò e sorrise a suo fratello il quale le porse i documenti necessari a Mycroft.
«Ti ringrazio anche da parte sua», disse lei accettandoli e dando per scontato che Sherlock avesse intuito che dietro a tutto c'era il loro fratello maggiore. «È stato un piacere collaborare con voi», concluse. Tese la mano ad un assonnato John Watson che la strinse con una certa esitazione e poi a Sherlock la cui presa fu più decisa e non comunicava affatto l'intento di lasciar andare via la donna.
Lei sospirò e si protese verso il viso di Sherlock fino a raggiungere l'orecchio. «Hortensia Winnifred Holmes», sussurrò. «Sei l'unico a conoscere il mio secondo nome e ti sarei grato se non ricorressi più alla Adler per ottenere informazioni sul mio conto. Basta saper chiedere».
Un'auto scura si fermò vicino alle tre figure e Hortensia salutò nuovamente i due uomini prima di salire a bordo e sparire tra le strade della City.




Note:

1
Si tratta del brandy di sidro, una bevanda alcolica ottenuta attraverso la fermentazione delle mele. La bevanda è diffusa in tutta l'Inghilterra, ma il cider prodotto nel Somerset è particolarmente pregiato.

2
 È un esclusivo ristorante che nelle ore notturne si trasforma in un club la cui caratteristica peculiare è la presenza di numerosi artisti, tra cui ballerine mangia-fuoco, che si esibiscono per i clienti. (N.B.: Non ci sono mai stata personalmente; tutte le informazioni nel testo le ho reperite online attraverso recensioni e fotografie; se ci sono imprecisioni vi prego di segnalarmele).

3
 È un'ex ginnasta russa più volte medaglia d'oro.





N.d.A.
Questo capitolo è decisamente più corposo dei precedenti e affronta più o meno direttamente, per la prima volta, qualcosa che somiglia ad un caso.
Il nome del locale, - che come avrete letto nelle note esiste davvero - anche titolo del capitolo, capita come non mai a fagiolo perché costituisce un appropriato richiamo alla versatilità di Hortensia.
Come tutte le volte, spero di non aver fatto danni. Un parere è quindi sempre gradito, positivo o negativo che sia, purché non mi si offenda gratuitamente.
Vi ringrazio per avermi dedicato del tempo.
Alla prossima!

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