Il Tesoro di Ulmo

di Thiliol
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: so close no matter how far ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: There's no place I can be since I found Serenity ***
Capitolo 3: *** I've been around for a long, long year ***
Capitolo 4: *** I don't see what anyone can see in anyone else but you ***
Capitolo 5: *** Sailors fighting in the dance hall ***
Capitolo 6: *** Lost in a verse of a sparrows carol - parte 1 ***
Capitolo 7: *** Lost in a verse of a sparrows carol – parte 2 ***
Capitolo 8: *** We can roll ourselves over when we’re uncomfortable ***
Capitolo 9: *** But in the end it doesn't even matter ***
Capitolo 10: *** Love is clockworks, and it’s cold steel ***
Capitolo 11: *** I sit and watch as tears go by ***
Capitolo 12: *** Hold your breath and count to ten (parte prima) ***
Capitolo 13: *** Hold your breath and count to ten (parte seconda) ***
Capitolo 14: *** Touching you makes me feel alive ***
Capitolo 15: *** We need water and maybe somebody's daughter ***
Capitolo 16: *** I don't feel right when you're gone away ***
Capitolo 17: *** Silence is all you'll be ***
Capitolo 18: *** I think I thought I saw you try ***
Capitolo 19: *** Reminds me of childhood memories ***
Capitolo 20: *** You see I'm falling in the vast abyss ***
Capitolo 21: *** I’ve killed a million pity souls ***
Capitolo 22: *** To what you receive is eternited leave ***
Capitolo 23: *** Take my hand now, be alive ***
Capitolo 24: *** 'Til then I walk alone ***
Capitolo 25: *** If I had a heart ***
Capitolo 26: *** Epilogo: don't you know this tale ***



Capitolo 1
*** Prologo: so close no matter how far ***


1 Salve a tutti, come va?
Questa storia prende il via, oltre che il suo personaggio principale, da una serie di storie che ho scritto qualche tempo fà e a cui sono particolarmente affezionata. Silevril, protagonista di questa storia è proprio il figlio dei due protagonisti della mia serie precedente, ovvero Alatariel ( parente di Feanor e invischiata in tutta la faccenda dei Silmaril ) e Aeglos ( del polopo di Olwe di Alqualonde, a cui nè Feanor nè i Silmaril hanno portato proprio quello che si dice giovamento). Dopo svariate vicende, parecchio rancore, un numero imprecisato di fughe e rincorse, nonchè due esili, i due sono riusciti a capire come stare insieme conciliando il loro grande amore con la voglia di sgozzarsi a vicenda, facendo pure un figlio che porta lo stesso nome del Gioiello di Feanor.
Ecco, questa è la storia di Silevril, con nuovi personaggi e pochi o nessun rimando particolare alla serie "madre", quindi potete leggerla tutti, anche senza conoscere il resto (nessuno vi vieta però di fare un salto sul Narn o Alatariel ar Aeglos ).
Spero di ritrovare vecchie conoscenze e di farne di nuove, con l'invito sempre di dirmi tutto ciò che non funziona e/o eventuali errori.
La Terra di Mezzo e i personaggi tolkeniani non appartengono a me, scrivo senza scopo di lucro e bla bla bla, mentre invece Silevril e gli altri sono interamente miei quindi se volete usarli chiedetemelo e ne possiamo parlare con piacere. Buona lettura!







Prologo: So close no matter how far [1]




Silevril sospirò pesantemente, guardando la porta di casa sua come se fosse un Drago dei Tempi Remoti. Probabilmente, si disse, un Drago sarebbe stato decisamente più facile da far ragionare rispetto a sua madre.
Avevano avuto un'altra, violenta, lite quella mattina e ormai non ne poteva più di lei, della sua arroganza e di quell'invisibile, eppure inespugnabile, laccio che lei aveva legato al suo polso. Si sentiva stanco di lottare ogni giorno con la donna che l'aveva messo al mondo, stanco di quello scontro di volontà che nessuno dei due riusciva mai a vincere, stanco di essere ancora in balia di lei e delle sue lacrime e delle sue suppliche.
Prigioniero di quella casa da troppo tempo, come un bambino tenuto in punizione per una marachella, solo che lui, ormai, non era più un bambino da molti anni.
Alla fine si costrinse a girare la maniglia e ad aprire la porta, entrando accompagnato dai raggi del sole morente.
Alatariel era lì, seduta su una piccola sedia di legno e paglia, le mani strette a pugno ed il volto rigato di lacrime. Non si mosse quando lo sentì, ma Silevril riuscì a scorgere molto chiaramente il suo sguardo indurirsi.
< Non avevi detto che non saresti mai più tornato? >
Eccola, la voce sprezzante e acida che aveva imparato ad associare al dolore. Credeva di poterlo ingannare, ma si sbagliava: nessuno, nemmeno il suo sposo Aeglos, la conosceva profondamente quanto lui, nessuno era stato più legato a lei di quanto lo fosse stato lui. Aveva memoria di essere stato nel suo grembo, ricordava i pensieri di lei nella sua testa ancora prima di avere coscienza di sè, ne aveva sentito la paura e il dolore per tutto il tempo e anche ora, pur non essendo più connessi mentalmente ma due individui distinti, ne percepiva sempre l'anima come nessun altro.
< Le mie intenzioni non sono mutate, madre, > le disse, < ma io non sono te e non scompaio nel nulla, lasciando coloro che mi amano nello sconforto e nel dubbio. >
La vide tremare e seppe che quella freccia, seppur lanciata a malincuore, aveva colto nel segno.
Aveva soppesato a lungo quel sentimento di rancore che provava verso di lei, non avrebbe voluto arrivare a tanto, ma tutti quegli anni passati senza di lei, senza sapere dove fosse, se sarebbe mai tornata erano ancora impressi a fuoco nella sua memoria... era solo un bambino, all'epoca, e tutto ciò che aveva desiderato era l'abbraccio di sua madre.
Alatariel si voltò verso di lui, le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure.
< Non hai nessun diritto di dirmi questo, Silevril! > sibilò quasi, furiosa < Non capisci e non capirai mai, non sei come tuo padre. >
< No, > sospirò < ma non è vero che non capisco. >
Si sedette accanto a lei e la guardò dritta negli occhi.
< Nessuno ti ha mai capita quanto me, ma è per questo che devi lasciarmi andare. Lasciami andare. >
< Oh, Silevril > Alatariel trattenne un singhiozzo e si tappò la bocca con una mano. < Ho trovato la pace solo grazie a te, tu mi hai riportato alla vita e se vai via, in quale abisso ricadrò? Tornerò ad essere quella di un tempo? >
< No, perchè non sono stato io a liberarti, non vi è mai stata alcuna catena. Sei ciò che sei, Alatariel. >
L'elfa lo guardò intensamente, soppesando le sue parole alla ricerca di un significato più profondo, nascosto sotto la superficie, ma non ve n'era alcuno. Probabilmente, e Silevril ne era quasi certo, Alatariel non avrebbe mai accettato il suo desiderio di lasciare quella casa, troppo egoista per ammettere che suo figlio ne aveva un disperato bisogno. Era sempre stata quella la sua maledizione, sua e di coloro che la circondavano: lei amava di un amore possessivo ed insano, un'esclusività morbosa che la portava ad odiare la compagnia di chi tanto agognava... allora andava via, spariva per anni, solo per poi ritornare come se niente fosse successo, con un sorriso ed una lacrima.
< Ascolta, madre, > sispirò, cercando di affrontare l'argomento con quanta più calma possibile, < non vado via per colpa tua, o almeno non solo per colpa tua. Sai cosa vuol dire desiderare qualcosa di più, desiderare di poter viaggiare e impegnare la propria mente in qualcosa! >
< Lo so, > appariva sconfitta, quasi rattrappita, eppure il suo sguardo era alto e fiero, lo trafiggeva in un modo che gli ricordava la sua lontana infanzia, < e non voglio fermarti, non davvero. Hai vissuto qui per trecento anni ed io... io non sono sempre stata con te e so che non riesci a perdonarmelo, così come tuo padre. Avete tutto il diritto di accusarmi e, credimi, io stessa mi accuso di cose ben peggiori, ma sono fatta così ed Aeglos ha imparato a conviverci. > Si bloccò e gli prese la mano, stringendogliela talmente forte da fargli male.
< Ho paura, Silevril, > disse, < ho paura perchè prima che arrivassi tu la mia vita stava scivolando pericolosamente in un abisso di oblio e disperazione. >
< Non accadrà di nuovo. > Ne era assolutamente certo. Suo padre aveva parlato a lungo della loro storia, in quei giorni desolati in cui lei non c'era, aveva tentato di spiegare ciò che un bambino non avrebbe mai potuto comprendere, ma adesso era diverso, adesso sapeva e capiva ed era sicuro di una cosa: lo spirito infuocato che animava sua madre era ancora potente, nonostante tutto, ed era forgiato dello stesso fuoco che albergava anche detro di lui e non si sarebbe mai enstinto.
< Come lo sai? > sbottò e lui sorrise.
< Non riesci a sentirti, madre? Sei forte e nulla ti abbatterà. Hai Aeglos con te, vedrai che riuscirai a farlo impazzire ancora a lungo. >
Allora rise; era cristallina ed allegra, la stessa risata che aveva accompagnato i suoi giorni più felici e fu come un buon augurio.
< Pace fatta tra noi, mio adorato Silevril? >
< Pace fatta, madre > rispose, sporgendosi ad abbracciarla.

***

Aeglos era stato tentato di entrare non appena suo figlio aveva varcato la porta di casa, ma si era trattenuto. Non era giusto intromettersi, doveva lasciare che le cose si spiegassero tra loro due soli, anche se probabilmente si sarebbero offesi e picchiati. Gli veniva quasi da ridere a quel pensiero: sua moglie era l'essere più testardo di Arda, questo lo sapeva bene, ma suo figlio, pur nella sua calma controllata e in quella disinvolta spacconeria, non era da meno.
Per questo si sorprese non poco quando lo vide uscire sorridendo appena, chiudendosi la porta alle spalle e traendo un gran sospiro.
Non appena lo vide, Slevril gli andò incontro e si sedette al suo fianco, con la chiena poggiato contro il largo tronco di pino che cresceva d'avanti la loro casa.
< È stato più facile di quel che pensassi. >
< Davvero? Questa mattina ho sentito le vostre grida fin sul ponte del Giuramento e adesso mi dici che è tutto risolto? In un lampo? >
L'elfo più giovane sorrise di sbieco, chiudendo gli occhi e inclinando la testa all'indietro per poggiarsi di più all'albero. Aveva sempre un'espressione austera, come quella di Alatariel, ma quando sorrideva Aeglos riusciva a rivedere se stesso negli angoli della bocca che non si sollevavano mai abbastanza, pur trasmettendo uno scintillio di sincera gioia agli occhi chiari.
Non l'aveva mai confessato a nessuno, ma era grato ai Valar che suo figlio non avesse gli occhi scuri e impenetrabili di sua madre, occhi inquietanti e freddi; Silevril gli somigliava intensamente nell'aspetto e nel carattere più di quanto non si rendesse conto egli stesso... no, non avrebbe mai smesso di ringraziare i Valar e il grande Iluvatar per quello.
< Non riesci mai a capire come prenderla, ada. > Lo spiegò come se fosse un dato di fatto. < Bisogna lusingarla, dirle che è forte e meravigliosa e che tutto si risolverà per il meglio. >
< Credimi, Sil, ho passato mille e mille anni lusingando tua madre, ma non è servito a molto. La verità che tu sei l'unico che riesce a farla cedere e a sapere cosa dire. A volte, mi sembra di rivedere Finarfin, anche lui era l'unico a riuscire a farla ragionare. >
Risero insieme. Era una cosa a cui Aeglos si era abituato e a cui sarebbe stata dura rinunciare: suo figlio gli aveva regalato la pace, una felicità troppo profonda che mai avrebbe potuto immaginare, aveva riportato Alatariel da lui, aveva quietato il suo tormento e allontanato i fantasmi di un passato che entrambi erano stati incapaci di lasciarsi alle spalle prima del suo arrivo.
Avrebbe sentito così tanto la sua mancanza!
Il pensiero di non vederlo ogni giorno, di non prendere il mare con lui la mattina per poi tornare al tramonto o di non sentirlo più cantare d'avanti al fuoco le sere d'inverno, era doloroso.
Lo guardò e strinse le labbra.
< Non temere, padre, > Silevril si era accorto del suo turbamento e aveva smesso di sorridere < non è un addio! >
< No? >
Le parole erano amare, ma era arrivato il momento di pronunciarle perchè sapeva, anche se Silevril non aveva detto nulla, che il mare era il vero motivo per cui lasciava quella casa... lo sapeva perchè aveva visto la chiamata nel mare nei suoi occhi e l'aveva riconosciuta... lo sapeva perchè il mare chiamava anche lui ad un viaggio che non avrebbe mai potuto compiere ma che Silevril poteva e doveva affrontare presto.
Dovette leggergli quei pensieri chiari come in un libro perchè lo fissò negli occhi, serio.
< Non lascerò la Terra di Mezzo, adar, senza essere tornato da voi prima. Lo giuro. Non me ne andrò senza aver detto addio a te e ad Alatariel. >

***

L'alba faceva capolino attraverso la tenda sottile e bianca che copriva la vetrata affacciata sul mare. Il Golfo di Dol Amroth si stendeva placido e appariva quasi incendiato dai raggi rossi del sole.
Silevril stava davanti alla porta e teneva per le briglie un bel cavallo grigio, alto e slanciato, figlio di quello che sua madre gli aveva portato da Rohan molti anni addietro. I suoi genitori erano in piedi di fronte a lui e si tenevano per mano; Alatariel sembrava quasi aggrappata al braccio di suo marito, ma non piangeva e i suoi occhi erano duri e freddi come sempre, nonostante un lieve sorriso le increspasse le labbra.
< I miei pensieri saranno rivolti costantemente a te, mio amato Silevril, > disse.
Non riuscì a fare a meno di posarle un bacio sulla guancia: lei appariva così fragile, un cristallo pronto ad infrangersi, ma sapeva che non era così.
Aeglos stava al fianco della donna che amava e i suoi occhi erano lucidi, eppure sorrideva anche lui.
< Aa’ menle nauva calen ar’ ta hwesta e’ ale’quenle, ion nin,[2] > sussurrò, < namaarie. >
< Namaarie. >
Salì a cavallo e lo spronò al galoppo.
Fu felice che nè Alatariel nè Aeglos lo avessero visto piangere.










Note:
[1]primo verso della meravigliosa "Nothing else matters" dei Metallica
[2]possano le tue strade essere verdi e possa il vento accompagnarti, figlio mio


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Capitolo 2
*** Capitolo 1: There's no place I can be since I found Serenity ***


2.

Capitolo 1: There's no place I can be since I found Serenity 



< Dieci pezzi d'argento, è la mia ultima offerta. >
Galmoth si voltò appena di lato e sputò in terra, per poi tornare a guardare l'uomo che gli stava di fronte.
< Dieci pezzi, Lannon? > ringhiò, afferrandolo per la collottola, < Maledizione! Lo sai da dove viene questo tabacco, eh? Lo sai? Erba pipa, Lannon, capisci quello che ti sto dicendo? Maledetta erba pipa dalla terra dei maledetti Mezzuomini! Ho dovuto risalire l'Anduin fino a Osgiliath, pagare i carovanieri e ritornare qui, il tutto sotto gli occhi di maledettissimi soldati di Gondor... e tu mi vuoi dare solo dieci pezzi d'argento? >
Lo strattonò e l'uomo cadde, ma si rialzò subio dopo, un ghigno stampato sulla bocca storta.
< Potrebbe persino dispiacermi per te, Galmoth, ma in realtà non me ne frega niente. Inoltre, se non ti liberi subito della merce, qualcuno potrebbe iniziare a fare domande scomode. >
Galmoth strinse i denti. Lannon aveva il coltello dalla parte del manico e lo sapeva, facendoglielo pesare in maniera sfacciata e palesemente compiaciuta.
Si voltò verso Laer alla sua destra, spostata un po' indietro, in una domanda silenziosa, anche se sapeva perfettamente cosa poteva passare per la mente della ragazza: cacciagli un coltello, in gola, Galmoth, e facciamola finita. Avrebbe potuto farlo facilmente, in fondo gli scagnozzi di Lannon lo odiavano e probabilmente l'avrebbero persino aiutato con il colpo di grazia. Sarebbe potuto fuggire e tornare alla Stella portandosi dietro ben più di dieci pezzi d'argento e forse anche qualche uomo.
< Sta bene, Lannon, > disse infine, a denti stretti, < dammi i tuoi schifosissimi soldi e prenditi la merce. >
Potè sentire lo sguardo di Laer puntato sulla sua nuca, uno sguardo che lo avrebbe incenerito come l'alito di un Drago, se solo avesse potuto.
Due uomini si avvicinarono alla cassa aperta, la chiusero e la portarono via, in una specie di retro bottega, mentre Lannon allungava una mano e gli porgeva un sacchetto sudicio, tintinnante di monete: le dieci monete d'argento.
Misero prezzo per aver quasi rischiato la vita, si disse.
Fece un cenno, e Laer si fece avanti, prese il denaro e lo nascose nella camicia.

< Maledetto te e il tuo onore, Galmoth! >
Laer doveva trattenersi per non urlargli contro in mezzo alle strade affollate del porto di Dol Amroth. Aveva le guance rosse di collera e la lunga treccia di capelli castani fremeva come se fosse un prolungamento della ragazza stessa, come se avesse vita propria.
< Potevamo farlo fuori e quelli ci avrebbero anche detto grazie! >
< Sì, sì, lo so, ma... >
Sbuffò senza lasciarlo continuare e accelerò il passo, balzando poi agilmente sul piccolo camminatoio improvvisato e infine sul ponte della Stella Marina.
Galmoth la seguì più lentamente, senza riuscire a nascondere un soorriso. Quella ragazza era davvero impossibile, nonostante fosse il miglior  primo ufficiale che chiunque potesse mai desiderare: era efficiente e precisa, cresciuta praticamente in mare e con un'eccellente senso degli affari. Era perfetta, se si evitava di soffermarsi troppo su quanto fosse bisbetica e saccente...ma a lui andava bene così, dopo tutto, anzi, ne era diventato quasi dipendente da quando, tre anni prima, a soli vent'anni, l'aveva presa con sè. Laer era stata il primo membro del suo nuovo equipaggio, il modo che aveva trovato per ricominciare daccapo e le voleva bene come a una figlia.
La raggiunse sotto coperta e la trovò seduta al tavolo nella sua stretta cabina. Gli dava le spalle e non si voltò quando lo sentì entrare, ma continuò imperterrita a scrivere qualcosa su un foglio.
< Non potevo ucciderlo, lo sai. >
Lei sospirò pesantemente, posò la penna e si voltò a guardarlo, lo sguardo addolcito.
< Lo so, l'onore, il Re e bla bla bla, cosa credi, che non ti conosca? >
Galmoth rise di gusto e lei lo seguì, finchè non ebbero entrambi le lacrime agli occhi.
< Ascolta, > disse Laer dopo una pausa di silenzio, < non posso essere in collera con te perchè non hai ucciso un uomo, come potrei? La mia è stata una reazione esagerata, scusami. >
< Sei fatta così, > fece un gesto come a dire che non gli importava, < perchè credi che continui a portarti con me ovunque, Laer? Mi diverti e sei imprevedibile, in più non hai tutti i torti. > Gamoth ghignò, < Lannon è un bastardo è glie li avrei dovuti far ingoiare i suoi pezzi d'argento. >
Laer scrollò le spalle, tornando a srivere sul suo foglio.
< La prossima volta, Galmoth. >

***

Aveva percorso, in poco più di due ore, a cavallo la Via che attraversava tutta la costa fino a Dol Amroth e che passava proprio accanto alla casa in cui aveva vissuto per tutta la sua vita. Era andato molte volte a Dol Amroth, per lo più aveva camminato per le vie del mercato e ammirato lo splendente porto che, a detta di suo padre, era tanto simile a quello di Alqualonde da far male, ma quella volta attraversare l'arco di pietra che costituiva la porta principale della Città, fu come entrarci per la prima volta.
Si sentiva strano, giovane e fragile, ma anche pieno di una strana sensazione di euforia. Aveva pianto e riso, durante la via, e non sapeva più quale altra emozione far affacciare per prima. Era sopraffatto e impaurito come un bambino.
Smontò dal cavallo e lo condusse per le briglie attraverso le strade affollate, il cappuccio grigio argenteo calato sul capo.
Si diresse direttamente al Pescatore una locanda piccola e accogliente che aveva frequentato molte volte ma in cui non si recava da quasi cinquant'anni.
L'insegna raffigurava un uomo su di una piccola barca stilizzata e la scritta era verde e azzurra. Una giovane donna bionda e carina serviva ai tavoli e gli sorrise dolcemente non appena entrò e si scoprì il capo.
< Salute a te, sire. > Disse gentilmente, avvicinandosi, < posso portarti del latte e del pan di spagna? Il tavolo vicino alla finestra è libero se desideri sederti. >
Silevril le sorrise a sua volta, scuotendo appena il capo.
< Nessun "sire", nè latte. Solo dell'acqua e un buon posto per il mio cavallo, resterà qui molto a lungo. >
La ragazza lo lasciò e lui si avvicinò al bancone, dove un ragazzo gli diede un grosso bicchiere colmo d'acqua.
Era così tanto tempo che non si trovava tra gli uomini che si sentiva quasi spaesato! Gli sembrava di essersi svegliata da un lungo sonno, fatto di sogni stellati e opprimenti, un mondo che non era quello reale.
Riusciva quasi a capire il desiderio che spingeva sempre sua madre a fuggire via da loro, eppure non poteva fare a meno di chiedersi perchè avessero scelto quell'isolamento. Non c'era nessuno nei pressi della loro casa, se non il mare e i prati, nulla se non il sentiero che si immetteva sulla Via e su cui quasi nessun viaggiatore si incontrava.
Suo padre viveva nella malinconia, nel continuo rimpianto per la sua patria perduta, degli amici lontani e dei suoi fratelli morti e sua madre... sua madre non aveva bisogno di nessuno se non di se stessa e dello sposo che cercava in modo così ossessivo.
Ma lui sarebbe presto morto, ne era certo ormai.
Bevve tutto d'un fiato ed espirò, lasciando che la sua vita passata scivolasse via da lui come acqua piovana.
La stalla era appena di fianco alla locanda. Pagò due monete di rame allo stalliere e poi si avvicinò a Laurel, suo amico da ormai molti anni.
< Namarie, mellon nin, > lo salutò, baciandolo sul muso vellutato, < qui sarai accudito e amato e avrai una buona vecchiaia. Non ci rivedremo, ma sappi che ti ho voluto bene. >
L'animale strusciò il muso contro di lui, in segno di saluto e Silevril lo baciò di nuovo.




Ok, eccomi qui. Primo capitolo mini, in realtà volevo inserirsci anche l'incontro tra Silevril e Galmoth, ma non mi piaceva e ho preferito tenere il capitolo così, seppur breve. Questa volta il titolo del capitolo è un verso della bellissima "Ballad of Serenity", la sigla di Firefly. La Stella Marina e il suo equipaggio sono ispiati infatti alla Serenity e al suo equipaggio, protagonisti di questo telefilm magnifico del maestro Whedon. Se l'avete visto avete tutto il mio appoggio e sappiate che vi sono vicina (sfogatevi pure), se non l'avete visto VERGOGNATEVI.
Detto questo, vi lascio, abbracciando Hary e Saralasse che hanno recensito (grazie ragazze!)

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Capitolo 3
*** I've been around for a long, long year ***


3.


I've been around for a long, long year



Camminare per le vie del porto  gli stava mettendo addosso una sensazione inaudita di nostalgia: sentiva ora più che mai la mancanza di Aeglos, gli sembrava quasi di sentire la sua voce bassa che gli chiedeva un parere su un certo tipo di fune, o su una rete, oppure che esprimeva ad alta voce apprezzamenti su una nave che aveva catturato il suo sguardo. Non si era mai recato lì da solo e aveva quasi paura (o forse una segreta speranza) che gli bastasse voltare la testa per scorgere Il Giuramento ormeggiata poco distante.
Silevril sospirò pesantemente e si tolse il cappuccio, lasciando che i raggi luminosi del sole gli accarezzassero il viso. Era piacevole, quel calore estivo, non troppo caldo ma avvolgente. Nell'aria c'era l'odore del mare, il forte sentore di salsedine, quello acre di pesce che sempre si può percepire nei porti... amava quell'odore e in quel momento lasciò che lo inebriasse, portando via con sè quei sentimenti con cui non voleva avere a che fare.
Erano passati molti anni da che era stato lì l'ultima volta, ma il porto di Dol Amroth non era cambiato affatto: un ampio piazzale bianchissimo e affollato di botteghe sembrava quasi allungarsi, come qualcuno che si è appena svegliato da un lungo sonno, verso il mare, protraendosi in lunghe banchine illuminate dal sole a cui erano ormeggiate imbarcazioni di tutti i tipi, dalle piccole barche a remi di isolati pescatori, a pescherecci dalle immense vele, fino ai maestosi velieri da guerra con il grande cigno di Dol Amroth dipinto sulla fiancata.
E poi, improvvisamente, la vide.
Era una nave abbastanza piccola e compatta, simile a un peschereccio, con lo scafo scuro e le vele ingiallite dal tempo; se ne stava un po' in disparte, come se non volesse farsi notare o come se gli altri la isolassero.
"Contrabbandieri" si disse e sorrise tra sè.
Eppure non gli importava a chi appartenesse, non gli importava se infrangeva la legge o se era un peschereccio come tanti altri, non gli importava cosa commerciava o se semplicemente era una nave di pirati.
Era la nave più bella che avesse mai visto, più bella del Giuramento che aveva lasciato dietro di sè, ormeggiata nella piccola baia dietro casa sua, semplicemente il suo cuore era rimasto intrappolato tra le vele di quell'imbarcazione malridotta.
Suo padre avrebbe detto che era un colpo di fulmine e avrebbe avuto ragione, non aveva mai desiderato qualcosa più ardetemente.


Galmoth tirò un'altra boccata di fumo dalla sua pipa e sospirò. Quei mezz'uomini ci sapevano fare, nonostante la loro erba pipa fosse stato probabilmente il peggior affare della sua vita. Era di pessimo umore, come ogni volta che si ritrovava a dover aspettare la marea giusta al porto di Dol Amroth, circondato dalle grandi navi del Principe. Era una specie di tortura guardarle, splendide e maestose nel sole del sud, con il cigno bianco sulla fiancata e le vele spiegae al vento. Sbuffò e una nuvola di fumo salì sulla sua testa per poi dissolversi immediatamente nella brezza marina.
< Ehi, Galmoth! >
Laer lo chiamò e lui si riscosse, voltandosi leggermente verso la ragazza.
< Guarda lì. > Indicò con il dito il molo poco distante  e lui la seguì con lo sguardo, rimanendo basito.
Un ragazzo era dritto immobile proprio davanti alla Stella e la guardava intensamente. Anzi, non un ragazzo, ma un elfo!
Non c'erano dubbi, nonostante non lo vedesse poi benissimo: solo gli elfi avevano quel modo di stare in piedi, quasi piegandosi al vento, e solo gli elfi avevano quella corporatura slanciata nonostante fossero maschi.
< Cosa vorrà? > Laer era incuriosita almeno quanto lui. Si limitò ad alzare le spalle e ad avviarsi verso il camminatoio improvvisato, scendendo infine sulla banchina proprio accanto all'elfo.
< Cosa vuoi? > gli domandò, un po' bruscamente.
L'elfo smise di guardare la sua nave e si voltò verso di lui, investendolo con uno sguardo brillante e magnetico. Galmoth vacillò, ma non lo diede a vedere, limitandosi a stringere un po' di più la presa sulla pipa.
< Questa nave è tua? > chiese l'elfo.
< Puoi scommetterci che è mia. >
< Allora, > l'elfo si aprì in un sorriso cordiale, < suppongo che debba rivolgermi a te. Il mio nome è Silevril. >
< E quindi? >
< Voglio che tu sia il mio capitano, se questa nave è tua. >
Galmoth osservò con sguardo inquisitore l'elfo che gli stava di fronte: era nato e cresciuto a Dol Amroth e lì non era raro imbattersi nei Priminati e conoscerne anche qualcuno, ma quel Silevril aveva qualcosa di diverso, come un fuoco latente in lui. Non era come i Silvani che sempre più spesso salpavano da lì, diretti alle loro terre al di là del mare, riusciva a percepirlo chiaramente: riconosceva un elfo di alto lignaggio, quando lo vedeva.
< Dici che vuoi metterti al mio servizio? >
< Desidero solo il mare e la compagnia degli uomini, inoltre, la tua nave è meravigliosa. >
Galmoth rise, strofinandosi il mento sporco di barba non rasata.
< Sei un elfo ben strano, Silevril. >
< Strano? Forse, anche se ho avuto come metro di paragone solo mia madre e mio padre. Credimi, loro sì che sono strani. >
Silevril si voltò di nuovo a guardare la nave che gli stava di fronte e per un secondo non si mosse, rapito.
< Io sono Galmoth. > Disse l'uomo all'improvviso e gettò uno sguardo fugace al ponte, dove Laer li stava osservando con interesse. L'elfo seguì il suo movimento e scorse la ragazza poggiata al parapetto con le braccia incrociate.
< Quindi? >
Galmoth si riscosse improvvisamente.
< Quindi cosa? >
< Sono parte del tuo equipaggio? >
Gamoth lo guardò stralunato, gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta. Era sfacciato, con quel modo di porsi come se ogni cosa gli fosse dovuta, come se sentisse che nessuno poteva negargli niente, eppure lo affascinava per quella strana sensazione di ineluttabilità che aveva accompagnato l'intero loro incontro.
< Ci serve un timoniere, > gli disse semplicemente e il sorriso dell'elfo si fece ancora più ampio.

Laer osservava dal ponte senza riuscire a sentire molto di quello che i due si dicevano. Galmoth la preoccupava, si muoveva in modo strano ed era piuttosto evidente la curiosità che l'elfo suscitava in lui, ma la cosa peggiore era che la cosa era ricambiata. L'elfo si sporgeva in avanti, oscillando verso l'uomo impercettibilmente, come se volesse ascoltare meglio e, ogni volta che guardava la Stella, sembrava tremare.
< Ci serve un timoniere, > sentì dire a Galmoth e lei si riscosse improvvisamente.
< Ehi, Galmoth! > gridò per avere la sua attenzione, < Sono io il timoniere! >
Con uno scatto e un balzo si ritrovò sulla banchina, accanto ai due.
Galmoth le mise un braccio attorno alle spalle e ghignò.
< No, mia cara, tu sei il primo ufficiale. >
< Ma ho sempre guidato io questa nave! >
< Da oggi la porterà lui. Si chiama Silevril. >
Laer alzò leggermente il capo per poter guardare l'alta figura dell'elfo che le stava davanti per la prima volta. Notò subito che aveva gli occhi chiari, dello stesso azzurro del mare estivo, limpido e pulito, con impercettibili sfumature smeraldine. Erano occhi profondi e sinceri, quasi incastonati nel viso spigoloso e leggermente abbronzato e che sembravano ancora più chiari per contrasto con i capelli corvini. Era bello, pensò, bello come nessun altro uomo lei avesse mai visto a Dol Amroth o da nessun'altra parte e per un attimo non seppe cosa dire e serrò le labbra.
Galmoth si accorse del suo turbamento e sghignazzò, ricevendo subito una gomitata in pancia.
< Bene, > disse infine, ritrovando la lucidità, < allora che si muova, la marea si avvicina e siamo pronti alla partenza. > Guardò l'elfo e sorrise sarcastica, < non riusciremmo a lasciare il porto, senza timoniere. >
Voltò le spalle ai due e tornò sulla Stella.

< Quell'adorabile creatura è Laer, il mio primo ufficiale. >
Silevril rise tra sè, seguendo Galmoth sul ponte della Stella Marina . La ragazza sembrava più giovane di quanto in realtà non fosse ed era particolare, con quella lunga treccia castana e le lentiggini ancora visibili nonostante il sole. E gli ricordava sua madre con quel fare indisponente.
< Questa, > cominciò l'uomo con un ampio gesto della mano, < è la Stella Marina, è una nave piccola e siamo solo in sei, compreso te, e siamo... commercianti. >
Silevril sorrise all'esitazione del capitano. Aveva sentito un'istintiva fiducia nei suoi confronti e sapeva che anche per lui era stato lo stesso.
< Siete contrabbandieri. > Affermò con naturalezza.
L'uomo scoppiò in una fragorosa risata e Laer al suo fianco invece lo guardò sospettosa. Un ragazzo accorse sul ponte e guardò la scena interrogativamente.
< Capitano? > domandò perplesso, pulendosi le mani su di un panno lercio.
< Non preoccuparti, Beregond, > disse Galmoth tra le risa, < l'elfo sa il fatto suo. Sarà il nostro timoniere e nel frattempo scoprirò qualcosa di più su di lui e sul perchè mi abbia praticammente puntato e quasi obbligato a prenderlo a bordo. Silevril, lui è il nostro guaritore. >
Il ragazzo agitò la mano in segno di saluto e Silevril gli sorrise. Gli stava già simpatico, con quel bel volto sincero e acceso di stupore di chi è convinto che la vita sia sempre e solo meravigliosa. Un sognatore, si disse, come e più di quanto non lo fosse egli stesso dopo i lunghi anni della sua vita.
< Salpiamo allora? > Laer li interruppe sbuffando. < Devo ricordarti che più a lungo rimaniamo qui più a lungo rischiamo la forca? Timoniere, cosa ne dici di farci vedere se effettivamente sai usarlo, un timone? >
Galmoth lo condusse sul cassero, piccolo ma abbastanza rialzato, da cui si aveva una buona visuale sia della prua che dei lati. Un'ottima posizione da cui governare una nave piccola e veloce come quella. Appena toccò il timone, la nave rispose immediatamente e, una volta mollati gli ormeggi, la Stella virò completamente e Silevril la fece voltare, volgendo la prua al mare aperto. Non vi erano molte altre navi nelle vicinanze, tutte ormeggiate nella parte più interna, e l'imboccatura del porto era ampia e costruita perchè vi passassero anche i velieri più massicci.
Silevril lo aveva fatto decine di volte, ma la Stella rispondeva al suo tocco come mai Il Giuramento aveva fatto e con il vento a favore si ritrovò fuori in pochi minuti.
La risata di Galmoth fu fragorosa e la pacca che gli assestò sulle spalle lo fu ancora di più.
< Incredibile! > esclamò.
< Non ho fatto altro negli ultimi trecento anni. > rispose lui.
Lo guardò scendere, ancora ridendo, e affiancarsi a Laer che stava poggiata a prua.
Silevril respirò a fondo, lasciando che la brezza marina, ora più forte di quella che si poteva percepire sulla terra ferma, gli scompigliasse i capelli che si riversarono in avanti a nascondere il viso.
< Non ho intenzione di fare altro per il resto della mia vita, > affermò e le sue parole si persero nel vento.





Eccomi qui, nuovo capitolo e inizio ufficiale dell'avventura per il nostro Silevril e per l'equipaggio della Stella del Mare! Abbiamo avuto l'incontro tra Galmoth e Silevril, tra Silevril e Laer e anche una prima occhiata a Beregond, il dottorino a cui sono piuttosto affezionata. Un bacio a Elothiriel, Hary e Saralasse che hanno commentato, ragazze fatemi sapere cosa ne pensate eh. Devo davvero dirvi da quale canzone è presa la frase del titolo? No, dai, è troppo facile! Una action figure di Silevril a chi indovina.

Adesso faccio un po' di pubblicità e vi invito ad andare a leggere la drabble pubblicata nel fandom di Sherlock(BBC), nuova di zecca! The clock ticks life away. It's so unreal.

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Capitolo 4
*** I don't see what anyone can see in anyone else but you ***




I don't see what anyone can see in anyone else but you





Laer aveva passato gli ultimi quattro giorni facendo un'unica cosa per tutto il tempo: aveva fissato ininterrottamente il nuovo arrivato.

Aveva la sgradevole sensazione che l'elfo, oltre ad averle irrimediabilmente rubato il ruolo di timoniere – e, francamente, quello era sempre stato il suo ruolo preferito – trovasse anche estremamente divertente far finta di non averla vista mentre lo fissava.

Era bravo, questo doveva ammetterlo, guidava la Stella con una leggerezza incredibile e la nave rispondeva a ogni minimo tocco, come se lui riuscisse a leggerle nella mente. Aveva ragione quando diceva di aver passato tutti la sua vita in mare, l'elfo sembrava molto più a suo agio, più se stesso, lì piuttosto che quella mattina sulla banchina del porto.

Laer ne era affascinata e indispettita allo stesso tempo... e lo trovava vergognosamente attraente, cosa che la indisponeva ancora di più.

< Dannato elfo! > borbottò, facendo trasalire Beregond che stava poco distante, chino su un pesante tomo pieno di figure di erbe e fiori.

Si voltò per scendere sotto coperta e passò accanto al ragazzo, urtandolo e buttandolo quasi in terra.

< Scusa, Laer! > mormorò quello, ma la ragazza non lo degnò di uno sguardo, lasciando il ponte in un ondeggiare ostinato della sua treccia castana.

Galmoth aveva osservato la scena da lontano, sghignazzando. Si avvicinò al ragazzino, aiutandolo a raccogliere da terra le sue cose, e il suo sguardo sembrò per un attimo animarsi di gioventù.

< Stai tranquillo, Barry, vedrai che le passerà. >

< Signore? >

< Le donne, Barry! Sono come spiriti maligni e, credimi, nessuno spirito è peggio di Laer! >

< Beh, > Beregond sorrise e il suo viso da impacciato si fece furbo, < mio zio diceva che nulla rende l'uomo una nullità più di una bella donna, signore. >

< E la nostra Laer lo è, anche se, e i Valar mi siano testimoni, farebbe impazzire chiunque anche se fosse brutta. >

Galmoth si raddrizzò e porse l'ultimo rotolo di pergamena che aveva raccolto al ragazzo di fronte a lui.

< Vai, Barry, e portami una bottiglia di vino. >

Guardò il giovane allontanarsi, appesantito dai rotoli e dai libri che portava in braccio. Scosse le spalle e si avviò lungo il ponte, salendo infine i pochi gradini che lo portavano sul cassero e affiancandosi all'elfo.

Silevril sorrideva appena, le mani fermamente posare sul timone come se non si fosse accorto dell'uomo.

< Credo che non dorma la notte pensando a te, elfo. >

< Ho sempre avuto un notevole fascino > commentò serafico Silevril e Galmoth scoppiò a ridere.

< Sai cosa intendo, > disse l'uomo tra le risa, < è convinta che tu ci stia nascondendo chissà quale segreto e tu ti diverti a stuzzicarla. >

Silevril si voltò, puntando quegli occhi esageratamente chiari su di lui. Si sentiva sempre a disagio, sotto quegli occhi, forse l'unica cosa di lui a non essere spigolosa e dura.

< Mi piacete, voi Uomini, Galmoth. Sono solo pochi giorni che sono qui, ma non posso fare a meno di sentimi vicino a te e agli altri... e Laer mi affascina. >

< Laer è impossibile! >

L'elfo rise di gusto, tornando a guardare il mare davanti a sé.

< Tranquillo, amico mio, non intendo corteggiarla né sposarla, se è questo che ti preoccupa. >

Non era affatto questo a preoccuparlo, anzi, era convinto che sarebbe stato molto più auspicabile rispetto a ciò che stava avvenendo realmente.

Galmoth conosceva Laer da quando era solo una bambina, da quando il padre di lei era ancora vivo e lui non aveva ancora perduto il proprio onore. Non era cambiata affatto e sotto quell'aspetto capricciosamente mascolino, riusciva ancora a scorgere la ragazzina... e la ragazzina si era presa una cotta per l'elfo.

Ovviamente non lo avrebbe detto a Silevril e, per tutti i Valar, tremava al solo pensiero di farne parola con la diretta interessata. No, doveva ignorare quella stupida vocina che lo spronava a fare una scenata da padre geloso e far finta di nulla.

Avevano ben altre cose da fare.

< Bene così, > diede una pacca sulla schiena dell'elfo, < ceneremo dopo il tramonto, Conn sta preparando pesce arrosto e patate. >

< Non vedo l'ora! > rispose sorridendo ancora.

Quell'elfo sorrideva davvero in modo strano.



La sala da pranzo della Stella Marina era in realtà una stanzetta appena più ampia della cuccetta del Capitano, l'unico ad averne una oltre a Laer. Al centro, sotto un lampadario polveroso, vi era un vecchio tavolo traballante, ma tutto sommato in buone condizioni, contro cui erano disposti degli sgabelli e qualche sedia. Su un lato, non molto distante, una porta chiusa da una tenda sottile dava sulla cucina, il regno incontrastato di Conn.

Beregond scese gli scalini che dal ponte portavano sotto coperta e poggiò rumorosamente i suoi libri sul tavolo, beccandosi un'occhiata infastidita da parte di Laer seduta poco distante.

< Devi proprio fare tutto questo chiasso, Barry? >

< Non saprei, signora, non sono capace di fare altrimenti! >

< Tze! > la ragazza roteò gli occhi, accompagnando così lo schioccare della lingua. Barry sapeva diventare l'essere più dispettoso della Terra di Mezzo, ingannando tutti con quell'aspetto da bambino impaurito.

< Che ci fai qui? Lasciami sola! >

< Il Capitano vuole del vino. Hai visto Conn? >

Laer non rispose, limitandosi a chinarsi maggiormente sul diario su cui stava scrivendo. Beregond aveva notato che negli ultimi giorni il suo primo ufficiale stava lunghe ore a scrivere su quel quaderno decrepito, riempiendolo di una scrittura fitta che non riusciva mai a decifrare.

Moriva dalla voglia di sapere cosa c'era scritto, ma non glie lo avrebbe chiesto nemmeno sotto tortura.

Alzò le spalle e la lasciò sola, entrando in cucina. Subito l'aria satura di ogni tipo d'odore, dall'aglio all'olio sfritto, lo inebriò, stordendolo leggermente.

Conn se ne stava in un angolo, strofinando vigorosamente una pentola e fischiettando un motivetto.

< Ehilà, Conn! >

< Mae govannen, Barry! Come andiamo? >

L'uomo gli rivolse un gran sorriso al di sotto dei lunghi capelli scarmigliati. Conosceva qualche parola di elfico e non perdeva mai occasione di ricordarlo a chiunque, persino all'elfo e quando si era complimentato per l'ottima pronuncia, le orecchie di Conn avevano assunto un'accesa colorazione rossa.

< Il Capitano chiede del vino, ne hai rimasto un po'? >

< Vino? Riferisci al capitano che dovremmo bere birra, non vino come dei maledettissimi signorotti di corte! >

< Lo sai che al Capitano piace il vino. >

< Le abitudini son dure a morire vero? E non si può cancellare ciò che si è semplicemente cambiando compagnie. >

Beregond annuì pensieroso. Conn gli era sembrato sempre molto, molto saggio.



Galmoth si accese la pipa, scrutando pensieroso l'orizzonte: entro quella notte sarebbero arrivati ad Umbar, sfruttando il favore delle tenebre per attraccare senza troppe domande. Non che nella terra dei Corsari si usasse sottoporre degli onesti marinai ad un interrogatorio, ma lui preferiva evitare del tutto gentaglia come pirati, corsari e guardie corrotte. Sperava solo che il suo carico lo stesse aspettando già al porto, così da poter ripartire subito.

Si strofinò il mento, tirando una lunga boccata.


Galmoth non se n'era accorto, ma Silevril lo stava osservando. Era affascinato, quasi irretito dall'espressione a volte allegra a volte malinconica che intravedeva sul volto dell'uomo, era affascinato dalle righe che gli attraversavano il volto, così diverse dalla pelle liscia e morbida di Laer, o da quella riarsa dal sole di Beregond e dagli altri strani tipi che facevano parte dell'equipaggio.

Non era mai stato a così stretto contatto con i Mortali e non poteva fare a meno di sentirsi emozionato come un bambino e doveva ammettere di apprezzare la loro presenza quasi più di quanto apprezzasse quella di suo padre.

Erano diversi, erano gioviali anche se apparivano anziani e spesso si era ritrovato a chiedersi quanti anni avesse Galmoth... o Laer.

Irrimediabilmente i suoi pensieri andavano a Laer. Si era divertito nel far finta di nulla mentre lei lo osservava guidare la Stella con cura e maestria, percependo la di lei invidia come se fosse una lama puntata nei suoi reni.

Quella ragazza lo divertiva immensamente e in un certo senso gli ricordava sua madre, come forse era stata un tempo.

La verità è che non si era mai sentito più felice, mai come in quel momento, mentre Galmoth faceva anelli di fumo e Laer, con la lunga treccia castana che ondeggiava ad ogni suo passo, si faceva stringere nell'abbraccio del capitano.





Non so proprio che altro dire se non che mi scuso: mi scuso perché dopo che vi ho fatto aspettare un'eternità vi ritrovate con un capitolo di sole due pagine e mezzo dove non succede niente di niente. Scusate, ma il blocco dello scrittore misto alla sessione estiva alle porte mi ha infilato in un vicolo cieco da cui non riesco a uscire. Spero almeno che non faccia tanto pena.


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Capitolo 5
*** Sailors fighting in the dance hall ***


Sailors fighting in the dance hall





Il porto di Umbar, sudicio e stracolmo, era costantemente pattugliato da soldati di Gondor, intenzionati a mantenere una parvenza di ordine in quello che era stato per anni ritrovo di pirati.

Galmoth si guardò intorno con circospezione, cercando di nascondersi il più possibile e diede un segno di intesa in direzione di Laer. La ragazza annuì e indicò con la testa un punto alla sua destra in cui Galmoth riuscì a scorgere l'uomo che stava aspettando.

Accanto al suo primo ufficiale, l'elfo incappucciato sembrava ancora più alto di quanto già non fosse e spiccava come se fosse stato illuminato da una torcia. Non era stata una buona idea portarlo con loro, ma Silevril aveva insistito con un cipiglio inflessibile e, per qualche strana ragione, lui non era riuscito a dirgli di no.

< Tirati più su quel cappuccio, maledizione! > l'apostrofò in un sibilo roco, < Sei troppo riconoscibile e un elfo in mezzo al porto di Umbar attirerebbe l'attenzione su di noi. >

Silevrl sorrise, serafico.

< Non temere, Capitano, so essere silenzioso come un alito di vento, tanto da diventare invisibile. >

< Sì, ma brilli al buio come una maledettissima lucciola. >

< Smettetela voi due! > Laer era stizzita e fremeva di irritazione. < Il nostro cliente si avvicina. >

Galmoth si voltò e vide l'uomo, basso e tarchiato, che gli si avvicinava. Non appena fu arrivato a pochi passi abbassò il cappuccio, lasciando che una massa di capelli neri e sporchi gli ricadessero sulle spalle, incorniciando una faccia dalla pelle scura e il naso storto.

< Sei Galmoth? > chiese con voce gracchiante.

< Sono io. Ho ricevuto il tuo messaggio, sei giorni fa' a Dol Amroth. >

< Ne sono sicuro, il mio signore è sempre efficiente. >

< Ebbene? Mi era stato promesso qualcosa. >

L'uomo ghignò, scoprendo i denti stranamente bianchi, nonostante alcuni mancassero. Aveva un ghigno malefico, pensò Silevril, e strinse il pugnale che portava sotto il mantello, ma l'uomo non sembrava avere cattive intenzioni.

< Niente Rum, Ammiraglio, c'è altro di cui parlare. >

Galmoth arretrò di un passo, come se l'uomo l'avesse schiaffeggiato, Laer invece estrasse una corta daga che teneva legata alla cintura e la puntò alla gola dello sconosciuto.

< Chi sei tu? > domandò, la voce gli uscì simili a un ringhio.

Galmoth fu rapido nel riprendersi e afferrò il braccio della ragazza, facendole abbassare la lama.

< Non qui > , disse piano, guardandosi intorno circospetto.

< Chi è il tuo Signore? > domandò poi.

< Lo chiamano Il Falco Bianco, ma mi ha detto che forse tu lo conosci meglio come Baran. >

Galmoth spalancò gli occhi.

< Baran? >

< Così dice, ma a me sembra un nome molto stupido. Il Falco gli si addice di più, lui vede lontano e più di chiunque altro. Lui è praticamente la legge, a Umbar. >

Galmoth serrò le labbra, pensieroso. Non credeva che avrebbe mai più sentito quel nome, nella sua vita, eppure il destino lo portava ancora una volta sulla strada da cui era dovuto fuggire. Poteva essere una trappola, si disse, attirarlo lì a Umbar promettendogli affari vantaggiosi per poi rivelarsi...d'altronde doveva ammettere che se avesse saputo prima chi avrebbe dovuto incontrare non ci sarebbe mai andato.

Una piccola parte di lui, però, desiderava rivedere il suo vecchio amico con tutto il cuore.

< Portami da lui. >

< Ma che fai? > sbottò Laer, < Non vedi che è una trappola? >

< No, non lo è. >

La voce di Silevril era tranquilla, come se si fosse limitato a commentare il tempo.

< Cosa ne sai tu? >

< Perchè credi abbia insistito tanto nel venire oggi? > l'apostrofò l'elfo, < pensi che mi piaccia il puzzo di Umbar? Leggere nelle menti degli uomini e nei loro cuori, ecco cosa posso fare. >

La spinse leggermente in avanti, imponendole di seguire il Capitano per le vie del porto. Laer era contrariata e non lo nascondeva, ma in un certo senso Silevril ne era divertito.

< Leggi la mia mente, elfo? >

< Certo che no, cosa ti salta in testa? Non posso sapere cosa stai pensando, nessuno può farlo, ma le emozioni degli uomini come l'odio, o l'inganno, sono facili da vedere per chi ha avuto centinaia di anni per studiarle. >

La superò, sfiorandole un braccio appena prima di entrare nella locanda al cui interno erano appena spariti Galmoth e l'altro uomo. Laer tremò appena, ma Silevril se ne accorse e il sorriso gli morì sulle labbra.





Baran era seduto a un tavolo in disparte e sorseggiava birra da un boccale incrostato di sporcizia. Galmoth gli era seduto di fronte, in silenzio.

Era l'uomo più strano che Silevril avesse mai visto, con i capelli biondissimi tanto da sembrare bianchi, il viso perfettamente rasato e un unico occhio azzurro e penetrante. Portava una benda bianca, perfettamente pulita, a nascondere la cavità oculare vuota ed ogni aspetto della sua persona era curato. Poteva sembrare un principe, se si fosse premunito di bere da un bicchiere di cristallo e in una stanza più ordinata.

Gli puntò addosso l'occhio non appena si fu avvicinato a Galmoth, ma lo spostò subito su Laer al suo fianco, studiandola attentamente. Lo trovò fastidioso, tanto che avrebbe voluto strapparglielo a mani nude, quell'occhio brillante e arguto.

< Sei cresciuta, piccola Laer, dall'ultima volta che ti vidi. Eri una bambina, ma ora sei una donna. >

< Non mi ricordo di te, Falco. >

La ragazza sembrava tremare di rabbia repressa e Silevril si sentì stranamente orgoglioso di lei, della sua furia e di come riusciva ad apparire superiore.

Baran rise, una risata allegra.

< Sì, eri una bambina impertinente anche allora. Avevo due occhi ed ero un cavaliere, uno di quelli di cui forse qualcuno canterebbe. > Spostò nuovamente lo sguardo su Galmoth che era rimasto immobile per tutto il tempo, senza dire una parola. < Mi sei mancato, amico mio. >

< Non avrei mai creduto di rivederti un giorno, Baran. Avevo giurato che ti avrei ucciso, che avrei vendicato il tuo tradimento. >

< E invece eccoti qua, un rinnegato che si guadagna da mangiare con il piccolo contrabbando. Rum ed Erba-pipa? Quando mi hanno detto cosa facevi non potevo crederci. >

< Molte cose sono cambiate > Galmoth sospirò pesantemente.

< Ma non io. >

< No, non tu, e nemmeno io. Sono quello di un tempo. > Ghignò. < Non credevo però che ti saresti portato dietro la tua figlioccia, né un elfo! >

Silevril non si scompose. Aveva osservato attentamente quello strano uomo, studiato i suoi lineamenti longilinei e l'unico occhio chiaro, che sembrava brillare alla luce rossastra della taverna.

< Mi piace l'avventura, > asserì, serafico.

Baran rise ancora, talmente forte da far girare un paio di marinai seduti ad un tavolo poco distante, ma che subito tornarono a parlottare tra loro.

< Mi piaci, elfo. Ho sempre apprezzato la tua gente, i secoli vi rendono saggi, ma non vi tolgono l'impudenza della giovinezza. Avevo degli amici come te, qualche anno fa', anche se > lo squadrò, < non erano proprio come te. Tu sei diverso. >

< Mi piace pensare di essere più bello. >

Laer si rilassò, permettendosi un sorriso a quella battuta.

Galmoth però rimase serio, adombrato.

< Cosa vuoi, Baran? >

< Mi chiamano il Falco Bianco adesso, non ti sembra un bel nome? > Prese un sorso di birra e si pulì con la manica. < Hanno il senso dell'umorismo, qui a Umbar e apprezzano chi ha perso un occhio in battaglia, così come chi sembra conoscere le cose in maniera soprannaturale. Ho informatori, naturalmente, piccoli uccellini che mi portano notizie da ogni angolo di Gondor, mentre io gestisco il traffico della merce. Sono sempre stato bravo, nel comando. >

< Parli veramente troppo, Falco, per essere un pirata e un ladro, > sbottò Laer, spazientita.

< E tu parli troppo in ogni caso! Ascolta, > continuò rivolgendosi a Galmoth, chinandosi leggermente in avanti, < mi sono arrivate delle voci, voci da Dol Amroth e dal palazzo del Principe. Alphros potrebbe darci una grande ricompensa se gli riportassimo ciò che ha perduto, potrebbe persino decidere che, tutto sommato, tu non sei un traditore. >

< Ciò che ha perduto? >

Baran si fece indietro, distendendosi sulla sedie, la schiena poggiata e le gambe allungate sotto il tavolo. Non aveva perso il suo sorriso inquietante per tutto il tempo, ma in quel momento esso si fece più aperto.

Silevril sentì Laer che gli si avvicinava, un piccolissimo movimento quasi impercettibile che la portava verso di lui. Avrebbe voluto prenderle la mano e stringerla, ma non lo fece. Entrambi trattenevano il respiro.

< Cosa sai di ciò che chiamano Il Tesoro di Ulmo? >





Il silenzio era opprimente, mentre la Stella ondeggiava placida sulle acque calme del porto. Conn e Beregond erano seduti uno di fronte all'altro al vecchio tavolo sgangherato, mangiando una minestra densa e calda. Al loro fianco, Forlond, se ne stava a braccia conserte. Era un uomo dalla pelle scura e silenzioso, inoltre – questo Beregond l'aveva sempre giudicato spaventoso – non aveva mai messo seriamente piede a terra. Sulla nave era chiamato “il mercenario”, ma Beregond aveva il sospetto che nessuno avesse mai avuto il coraggio di dirglielo in faccia.

< Quindi, Forlond, > disse Conn tra un boccone e l'altro, < non ci aspettavamo che fossi già di ritorno, ma va bene, ci servono sempre braccia forti. >

L'uomo grugnì in risposta, ma Conn non si scoraggiò, posò il cucchiaio nel piatto vuoto, si ravviò i lunghi capelli biondi e sporchi e prese una mela.

< Il Capitano sarà contento di rivederti, soprattutto se le notizie che porti dall'entroterra sono buone come sembrano a me. Abbiamo un nuovo arrivato, un elfo. >

Forlond spalancò leggermente gli occhi, unico segno di stupore che mostrò.

< Non mi piacciono gli elfi. >

< Un tipo strano, > continuò il cuoco, < ride più di chiunque altro io abbia mai visto ed è ancora più strano perchè la sua faccia sembra di marmo, seria come una maledetta statua. >

< Al capitano piace > si intromise Beregond, dimenticandosi per un attimo il timore che il piglio severo dell'uomo gli incuteva.

Forlond rise e prese un sorso di vino.

< Già. Scommetto che anche il nostro grazioso primo ufficiale apprezza. >

Si alzò strisciando rumorosamente la sedia sul pavimento di legno e si avviò verso la scala che portava sulponte senza aggiungere altro.

Conn finì di mangiare la sua mela, bagnandosi la barba rada con il succo che gli colava dalle labbra. Era sempre stato divertito da Forlond e dai suoi modi da guerriero misterioso. In realtà riusciva a vedere l'uomo semplice e opportunista dietro quell'apparenza... non vi era da temere da lui finchè si poteva pagarlo.





Silevril trattenne Laer per un braccio, costringendola a rallentare l'andatura e affiancarsi a lui, mentre Galmoth quasi correva per le vie del porto, puntando sulla Stella a ritmo di marcia.

< Di cosa parlava il Falco Bianco? > le chiese, chinandosi leggermente verso di lei per poterle parlare all'orecchio.

< É solo una voce che circola da secoli sui Principi di Dol Amroth. >

< Ma Galmoth ci crede, a giudicare da come ha reagito alle parole di Baran. >

Il Capitano era rimasto impietrito, come se qualcuno l'avesse trafitto con una lama al cuore, per poi alzarsi di scatto e fuggire dalla Taverna mentre lui e Laer non avevano potuto fare altro che corrergli dietro, inseguiti dalla risata del Falco Bianco.

< Senti, Silevril, > sibilò la ragazza, costringendolo a fermarsi per poterlo guardare negli occhi. Doveva tenere il collo piegato e la testa all'insù mentre lui guardava in basso, tanto era minuta. A Silevril pareva una bambina. < Conosco Galmoth sin da quando avevo sei anni e quando mio padre è morto, lui mi ha presa con sé nonostante fosse pericoloso per entrambi. Eppure non mi ha mai parlato del Tesoro di Ulmo, né di ciò che potrebbe significare al di là delle antiche leggende. >

< Quali leggende? >

Laer interruppe il contatto visivo, tornando a guardarsi intorno, a disagio.

< Te lo dirò, ma non ora e non qui. Non è un buon posto, il Porto di Umbar, e noi dovremmo affrettarci, vieni. >

Lo prese per mano e si avviò verso le banchine, senza rendersi minimamente conto di quanto quel gesto lo avesse turbato.











Eccomi qui, sono tornata! Finalmente si etra nel vivo della vicenda e dovrei veramente imparare a fare meno capitoli introduttivi... alla fine però non ci riesco a mi piacciono le storie che se la prendono comoda. Inoltre ben due nuovi personaggi in questo capitolo: Baran, detto il Falco Bianco, e Forlond, l'ultimo membro dell'equipaggio, nonché il mercenario che ogni nave di contrabbandieri deve avere, nonché versione riveduta del mitico Jayne di Firefly che, come vi ho già detto, è lo spunto per la mia Stella Marina.

Mille grazie a Morwen_Eledhwen e alla cara Hareth che hanno recensito (anche se per il momento Hary s che ha il mio affezionato e imperituro odio XD).

Prossimo aggiornamento probabilmente a settembre perchè me ne vado in cavanza dove non c'è internet, perciò haloa, arrivederci, namarie!



P.S il titolo del capitolo scorso non l'ho detto ma era preso dall'omonima canzone che si trova nel film Juno, mentre il presente capitolo prende titolo da un verso di Life on Mars? di David “dio” Bowie.

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Capitolo 6
*** Lost in a verse of a sparrows carol - parte 1 ***


Lost in a verse of a sparrows carol – parte 1



Se avesse potuto avere una moneta per ogni occhiata fugace lanciata da Laer alla sua volta, Silevril sarebbe diventato ricco, ne era certo. La ragazza era sempre stata strana, ma negli ultimi giorni sembrava addirittura impazzita, anche se non poteva certo dire che raggiungeva i livelli di follia del loro Capitano.

Galmoth era tornato sulla Stella come una furia, sbraitando l'ordine di spiegare la vela e allontanarsi, senza minimamente rendersi conto della presenza di Forlond. Il Mercenario aveva grugnito e poi aveva eseguito l'ordine, senza mai smettere di masticare foglie amare.

Non avevano fatto che poche leghe, quando si erano nuovamente fermati. La costa era ancora in vista, vicina e tangibile, ed il mare era piatto come una tavola quasi volesse facilitare la loro permanenza lì.

Il Capitano aveva guardato pensieroso il porto che si erano lasciati dietro, per poi chiudersi nella sua cabina sbattendo la porta.

Erano passati tre giorni e non era mai uscito, limitandosi ad aprire appena la porta quando Conn gli portava da mangiare.

Silevril passava tutto il giorno sul ponte, a volte scherzando con Beregond, più spesso osservando il mare aperto che pareva chiamarlo ogni giorno di più. Si sentiva inquieto, lì bloccato, e la cosa che lo inquietava maggiormente erano le occhiate di Laer.

Lo guardava intensamente per ore, qualsiasi cosa lei stesse facendo, poi, all'improvviso, scuoteva la testa e un lampo di ostilità attraversava i suoi occhi castani.

Senza contare che ogni qualvolta lui nominava il Tesoro di Ulmo, lei lo apostrofava stizzita: “Ti ho detto che te ne parlerò, elfo, ma non qui. Smettila di chiederlo, è un ordine!”

Sospirò e si andò a sedere accanto a Beregond, intento a leggere un pesante volume sulle erbe curative.

< Interessante? > chiese.

< Non particolarmente, > il ragazzo scrollò le spalle e lo chiuse con un tonfo sordo, < a Dol Amroth non si trova mai niente di decente. Quando vivevo a Minas Thirith, mi bastava adare alla biblioteca delle Case di Guarigione per avere i libri che mi servivano. >

< Sei gondoriano, Barry? > era sorpreso.

< Sì, nato e cresciuto nella Cittadella, > Beregond sorrise, facendo risaltare i denti bianchi sul volto abbronzato.

< Sono nato anch'io a Minas Thirith, lo sai? >

< No! Davvero? >

< Davvero! Mia madre si trovava lì perchè vi erano numerose incursioni di Orchi, all'epoca, e il rifugio degli Elfi Silvani nell'Ithilien era stato distrutto, così nacqui alle Case di Guarigione. >

< E tua madre era fuggita dall'Ithilien? >

< No, lei era arrivata da nord e fu attaccata nei pressi del Pelennor. Per fortuna Finrod Felagund arrivò a salvarla, altrimenti io non sarei qui. >

< Conosci Finrod Felagund? >

La voce di Laer, roca e leggermente seccata, li fece voltare entrambi.

< No, mia signora, ma mia madre era stata sua amica nei Tempi Remoti, prima delle Guerre del Beleriand. >

< Sei uno degli Alti Elfi dell'Ovest! >

Era impressionata e non riuscì a nasconderlo. Silevril sorrise, compiaciuto.

< Mio padre è uno dei Sindar dei Porti, mia madre una Noldo. >

Parlare di lei era facile, come non avrebbe mai creduto, nessuna fitta dolorosa, nessun rimpianto, solo affetto, ed Alatariel era una persona infinitamente facile da amare.

< Ne parli come una grande donna, > Laer gli si sedette accanto.

< Ho molte cose da fare, > scattò su Beregond, allontanandosi con espressione sorniona, espressione che a Silevril non sfuggì...ma Laer era così vicina, spalla contro spalla, che proprio non gli importava di cosa pensasse Barry o nessun altro.

< Mi piacerebbe conoscerla. >

Il momento finì e Silevril scoppiò a ridere forte, tanto che i suoi occhi si riempirono di lacrime.

< Ti odierebbe! >

L'espressione di Laer si corrucciò, piccata.

< Perchè dovrebbe odiarmi? >

< Perchè sei impertinente, dici sempre ciò che ti passa per la testa, le risponderesti per le rime e soprattutto perchè hai messo gli occhi sul suo unico figlio. >

La ragazza avvampò, ma la sua espressione si fece ancora più tirata.

< Anzi, no, > riprese Silevril tra le risa, < vorrei davvero vedervi, faccia a faccia. Valar, probabilmente vi uccidereste a vicenda oppure, e tremo al solo pensiero, potreste persino diventare amiche. >

< Non sono io a essere impetinente, elfo, ma tu. Hi dimenticato che io sono il tuo superiore nel momento esatto in cui hai messo piede sulla Stella e hai continuato a tartassarmi di domande. >

< Domande del tipo “cos'è il Tesoro di Ulmo?” > tornò seriò.

Il tornare così bruscamente sull'argomentò la spiazzò e Laer non seppe cosa dire.

< Perchè tanto mistero? Immagino sia una storia di pirati, di dobloni d'oro e fanciulle rapite, ma il Capitano sembra averla presa male e tu non vuoi dirmi niente. >

La ragazza si alzò e cercò di andare via, ma Silevril fu più veloce e la afferrò per il polso, bloccandola.

< Sono stufo, mia signora, dopo tre giorni fermo qui potrei diventare pazzo o pericoloso, perciò per favore parlami. >

< Va bene, va bene! > si liberò con uno strattone e si risedette.

< Dato che sei così intelligente e colto, saprai sicuramente le storie che si raccontano sulla Casa di Dol Amroth, di come una delle ancelle dell'elfa Nimrodhel abbia sposato i signori del luogo e che quindi sangue elfico scorre nelle vene dei Principi. >

Silevril annuì. Conosceva la storia perchè era sempre stata una delle sue preferite e suo padre gli aveva cantato molte volte la triste vicenda di Nimrodhel e Amroth. Glie l'aveva insegnata Legolas Verdefoglia, diceva, e cantarla gli ricordava il suo amico lontano. Era solo un bambino, ma aveva amato la voce di suo padre e le tristi note di quell'amore tragico.

< Nimrodel fu perduta e Amroth si gettò in mare, gridando il nome della fanciulla che amava con tutto se stesso. Un triste racconto. >

< Vero, ma si dice anche che Amroth diede alla sua amata un pegno, un gioiello di grande bellezza e potere proveniente direttamente dal lontano Ovest e che Nimrodel affidò a Mithrellas, la sua più fidata amica e sua dama di compagnia, la stessa che giunse presso il mare e che sposò il Principe Imrazor, dando origine alla Stirpe. >

Silevril guardò Laer sorpreso, una nuova luce sembrava illuminare la ragazza che lui aveva considerato sì affascinante e piacevole, ma anche di poca cultura.

< Sei piena di sorprese, mia signora, > disse, < non credevo che conoscessi così profodamente l'antica storia. >

< Fu Galmoth a insegnarmi, quando mio padre era ancora in vita. >

La ragazza distolse lo sguardo, imbarazzata da quell'inatteso complimento. Silevril si era ritrovato ad amare queste sue contraddizioni, come riusciva a essere timida e insolente allo stesso tempo, sempre pronta alla risposta rude quanto all'arrossire.

< E quel gioiello è il Tesoro di Ulmo, vero? >

< I marinai lo chiamano così perchè è dello stesso colore del mare e perchè si dice che sia stato forgiato con le acque del grande Mare stesso. >

Silevril si voltò: i passi del Capitano, nonostante fossero stati silenziosi, erano per lui perfettamente udibili. Galmoth si era avvicinato a loro e se ne stava con le braccia conserte e l'espressione sofferente, una barba vecchia di tre giorni nascondeva il mento e lo faceva apparire vecchio.

< Non è una leggenda. >

Parlò con voce roca, una voce che non veniva usata da un po', si disse Silevril. Si sentiva spaesato in quel momento, tra l'imponente figura dell'uomo, capelli e barba neri striati di grigio, e la ragazza minuta al suo fianco, con la lunga treccia castana e piccole lentigini sul naso, come un estraneo tra loro.

Non sapeva nulla degli Uomini e non capiva le loro leggende, perchè per gli elfi vi erano sempre stati solo fatti...storia antica, guerre, amori e gioielli donati da qualcuno che avrebbe saputo la verità con certezza.

< Non capisco > disse, ed era vero.

< Esiste davvero il Tesoro di Ulmo, elfo, ha la forma di una goccia d'acqua e se lo guardi la vastità degli abissi ti si presenterà avanti agli occhi, e chi lo possiede può governare il mare. >

< No, Capitano, questo è solo ciò che voi credete. >

Laer si accigliò, balzando quasi in piedi e affiancandosi a Galmoth. I suoi occhi scintillavano di rabbia repressa e delusione.

< Vedi perchè non volevo dirti niente? Voi elfi siete così, credete di possedere la verità assoluta perchè siete nati mille e mille anni fa. E tu, Silevril? Tu quando sei nato? >

Senza aspettare risposta girò i tacchi e andò via, lasciandolo impietrito come se l'avesse schiaffeggiato.

< Donna impossibile, > mugugnò Galmoth, scuotendo il capo senza però sorridere.

< Ascolta, elfo, tu sei libero di credere ciò che vuoi, ma io ho visto quel Gioiello, io ho navigato con il Principe e quando lui lo indossava non vi erano mareggiate, né tempeste o bonaccia, solo il giusto vento con la giusta marea. Ed ora siamo qui, bloccati senza un alito di vento, mentre Baran si fa beffe di me. Sa perfettamente che io andrò a recuperare il Gioiello, così come io sono certo che lui conosce il luogo in cui si trova. >

L'uomo sospirò pesantemente.

< Vieni, andremo io e te, ma devo vedere Baran, devo sapere cosa ha visto l'occhio del Falco Bianco. >

***





Eccomi qui dopo le vacanze che spero voi tutti abbiate passato piacevolmente. Questo capitolo ed il successivo dovevano essere una cosa sola, ma poi ho deciso di rivedere il seguito, quindi intanto vi posto la prima parte.
Il titolo è un verso di Swanheart dei Nightwish.






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Capitolo 7
*** Lost in a verse of a sparrows carol – parte 2 ***




Lost in a verse of a sparrows carol – parte 2



Baran era ancora una volta seduto a sorseggiare birra scura, interamente vestito di bianco e con un sorriso smagliante e leggermente storto. A Silevril, quell'uomo piaceva ancora meno dell'ultima volta che l'aveva visto. Strinse le labbra in un cipiglio severo, le braccia lungo i fianchi ed i muscoli tesi, pronti a scattare.

< Lo sapevo che saresti tornato, Ammiraglio, > stava dicendo a Galmoth, seduto anch'egli con una birra di fronte.

L'uomo era teso come la corda di un liuto, Silevril lo capiva chiaramente, ma sfoggiava comunque un sorriso affascinante e cordiale, lo stesso che aveva riservato a lui.

< Non mi hai detto tutto, Baran, e lo sai. Chi ha rubato il Tesoro di Ulmo? E come fai tu a sapere dove si trova? >

L'unico occhio del Falco Bianco brillò e per una frazione di secondo si spostò su Silevril, prima di tornare a concentrarsi sul Capitano, ma quel movimento non sfuggì all'elfo.

Chiunque egli fosse, quel Baran era scaltro, probabilmente manipolatore e infido, un tipo di cui non ci si poteva fidare, nonostante le apparenze.

Avrebbe preferito che Laer fosse con loro, la ragazza era un'ottima osservatrice ed era lesta con il pugnale.

< Non hai ancora capito, Galmoth? Io ho orecchie in ogni taverna, in ogni antro, in ogni strda di Umbar e da Umbar partono molte navi, così come molte navi approdano. Sento tutto ciò che devo sentire e il mio occhio vede qualsiasi cosa ci sia da vedere...ed ho molto denaro. >

Si fermò per bere un lungo sorso, per poi leccarsi le labbra, un gesto che a Silevril fece venire la pelle d'oca.

< Il Tesoro si trova a Minas Tirith. >

< Perchè qualcuno dovrebbe portare quella pietra a Minas? Non c'è il mare. >

< Diciamo che è un ottimo posto per nascondersi, anche perchè nessuno andrebbe mai a cercare un ladro nella Città, meno di tutti un ladro marinaio! Inoltre il controllo del Mare, a discapito del Principe di Dol Amroth, è un grosso vantaggio quando si sta programmando un colpo di stato. >

Galmoth posò il suo boccale, il respiro trattenuto.

< Capisco. >

< Io no. >

Silevril si avvicinò al tavolo, incrociando le braccia al petto.

< Quanto sai di politica, elfo? >

Silenzio.

< Come immaginavo. Non tutti sono d'accordo con la politica del Re, soprattutto per quanto riguarda il non sfruttamento dei territori a ovest delle Montagne Nebbiose. L'Erba Pipa dei Mezzuomini può essere importata, ma non piantata qui da noi, con l'effetto che i suoi costi sono proibitivi, lo sai, il contrabbando di erba pipa è remunerativo, soprattutto per quanto riguarda il contrabbando dei suoi semi. Molta gente crede che questo divieto sia stupido e che i Mezzuomini in fondo possano venire a contatto con gli Uomini come tutte le altre razze. >

< Re Estel non lo permetterebbe mai, fu suo nonno a promuovere questa legge e lui intende rispettarla. >

Baran sorrise e il suo sorriso sembrò scintillare di una luce sinistra.

< Per questo c'è chi crede che un nuovo Re che abbia a cuore gli interessi dei mercanti sia necessario. >

< Immagino che tu sia uno di loro! > la voce di Silevril vibrò di rabbia repressa.

< Io? Oh, no, certo che no. Non mi importa chi siede sul trono di Gondor, né certamente mi interessano mere questioni d'oro e argento. Ciò che voglio è riportare la preziosa gemma nelle mani del suo legittimo proprietario, Alphros di Dol Amroth...e ovviamente ottenere qualcosa in cambio. >

Galmoth si mosse, a disagio, sulla sedia, ma Silevril si fece più vicino, abbassandosi per trovarsi faccia a faccia con Baran, il Falco Bianco di Umbar.

< Chi ha rubato il Tesoro di Ulmo? >

< Sono stato io, naturalmente, chi altri? >







Laer odiava sentirsi osservata, era una sensazione che le aveva sempre procurato uno spiacevolissimo senso di colpa, come se in lei vi fosse qualcosa di profondamente sbagliato, o come se avesse appena fatto qualcosa di indescrivibilmente grave.

Sotto gli occhi del suo equipaggio, occhi che la scrutavano o semplicemente la guardavano senza vederla realmente, si sentiva nuda.

C'era Beregond, con un'espressione indecifrabile sul volto giovane e Conn, con i capelli biondo sporco e i lineamenti duri da Rohirrim.

Infine Laer posò lo sguardo su Forlond: il mercenario era l'unico che la fissava direttamente, gli occhi scuri che parevano brillare alla luce del sole.

Deglutì pesantemente e si costrinse a parlare, tentando di assumere una voce sicura di sé.

< Sapete meglio di me che il Capitano non riuscirà a dire di no. >

< No, non ci riuscirà, che lui sia maledetto! > esclamò Conn.

< Io lo seguirò, accada quel che accada, voi siete liberi di andare, ma dovrete farlo prima che lui torni. >

< Andrà su tutte le furie. >

< Sì, ma gli passerà, Silevril saprà calmarlo. >

< L'elfo? > Forlond rise, un suono gutturale che le mise i brividi. < Cosa può saperne un elfo del Tesoro di Ulmo o di Galmoth? L'ho osservato e sono certo che quell'elfo è uno sprovveduto con una gran puzza sotto il naso. >

Laer si irrigidì.

< Galmoth si fida di lui e anch'io. Sarà anche un petulante pallone gonfiato, Forlond, non lo nego, ma c'è qualcosa in lui che smuoverebbe le montagne... credimi, tu non c'eri quando è arrivato. >

< No, ma me l'hanno detto, che il Capitano sembrava una verginella alla sua prima cotta, tutto paroloni e moine... >

< Basta così. >

Laer si alzò in piedi, le mani strette a pugno e le guance infuocate dalla rabbia.

< Non so nulla più di quanto vi ho detto, ma al suo ritorno il Capitano saprà il dove e il perchè. Andate via ora se non volete avere nulla a che fare con il Principe di Dol Amroth e il Tesoro di Ulmo. >

Nessuno si mosse.

< Dove dovrei andare? > Beregond scrollò le spalle, < non ho altra casa che questa, altra famiglia che voi. >

< Ed io, > soggiunse Conn, < ormai sono abituato a questa cucina. Inoltre, mia signora, non riuscirei mai a privarmi della tua dolce presenza. >

Laer sorrise al Rohirrim, grata dei suoi modi galanti. Aveva davvero bisogno di queste frivolezze in quel momento.

Prese un respiro profondo, per poi voltarsi verso Forlond.

< Allora? Sei arrivato da poco dopo una lunga assenza, rimarrai? >

L'uomo si alzò e le andò vicino, sovrastandola con la sua altezza.

< Finchè sarò pagato, io sono l'uomo di Galmoth. >







Silevril sentì una cieca furia montare dentro do sé, quasi un fuoco che gli bruciava nelle vene. Quell'uomo era un essere viscido e infido, un manipolatore e un assassino della peggior specie... come potevano lui e Galmoth essere amici? Avrebbe voluto ucciderlo con le sue mani.

< Ti disgusto, elfo? > Baran era divertito.

< Più di quanto possa esprimere a parole. >

Baran rise, una risata gelida che sapeva di disprezzo.

< Conosco quelli come te, quelli della tua razza. Credete di essere puri e saggi, credete che chiunque sia al di sotto del vostro livello, ma sapete cosa vi dico? Vi macchiate le mani di sangue come chiunque altro. Sei stato concepito nel sangue, elfo, riesco a vederlo chiaramente come vedo che hai i capelli neri. >

Silevril rabbrividì, ma non lasciò che quello stato d'animo trasparisse da lui. Si accigliò, perchè Baran pareva scrutargli dentro e conoscere le sue più segrete paure.

< Non mi interessa cosa pensi del mio timoniere, Baran. > La voce di Galmoth era pacata, leggermente roca. L'uomo sembrava invecchiato di molti anni, stanco, ma attento.

< Come trovo il Tesoro? E cosa ci guadagno? Questa è la domanda che ti pongo. >

< Il gioiello si trova a Gondor, nascosto. Potrai arrivare alla Città via fiume fino alla Piana del Pelennor, una volta lì dovrai entrare a piedi. >

< Come? >

< Chiunque può entrare a Minas Tirith in tempo di pace, inoltre > gettò un'occhiata a Silevril, < hai con te un elfo e questo potrebbe rivelarsi utile. Il Capitano delle Guardie della Cittadella è Finrod Felagund, uno degli Alti Elfi dell'Ovest, è pericoloso e scaltro e non dovrà sapere assolutamente nulla di ciò che accadrà. >

Galmoth annuì e Silevril represse a stento uno sbuffo. Quella faccenda non gli piaceva affatto e l'ultima cosa che voleva era favorire un colpo di stato sotto gli occhi del grande Finrod Felagund. Sentiva come una voce nella sua testa che continuava a ripetergli quanto quello fosse sbagliato.

< Và a Minas Tirith, > continuò il Falco Bianco < e aspetta, un mio uomo che conosce la tua faccia ti contatterà. Di lui puoi fidarti, è lui che custodisce il Tesoro di Ulmo e lui te lo consegnerà, allora non dovrai fare altro che riportarlo da me. >

< Non hai risposto alla mia seconda domanda. >

Baran si sporse in avanti, gli occhi chiarissimi fissi in quelli scuri di Galmoth. Silevril si ritrovò a trattenere il respiro senza nemmeno accorgersene.

< Io e te, amico mio, riporteremo il Tesoro di Ulmo al Principe e in cambio avremo di nuovo il nostro titolo e le nostre navi, nonché la grazia per il tradimento di cui ci siamo macchiati. Cosa te ne pare? >

Galmoth rimase qualche istante in silenzio, infine iniziò a ridere, dapprima piano, poi sempre più forte, finchè la sua risata diventò fragorosa.

< Oh, Baran, sei sempre stato il più furbo, ma questa volta hai superato ogni mia aspettativa. Amico mio, riavrai le tue navi ed io le mie. >

Strinse la mano dell'uomo vestito di bianco e uscì.

Silevril si affrettò a seguirlo, calandosi il cappuccio sulla testa.

Camminava al suo fianco per la strada affollata, stringendosi nel mantello per proteggersi dall'aria fredda e dalla sensazione di gelo che lo attanagliava.

Non voleva rovesciare il Governo di Gondor, non voleva favorire i piani ancora non troppo chiari di Baran, eppure voleva con tutto il cuore aiutare Galmoth... ma in fondo, lo sapeva cosa voleva davvero? Si sentiva svuotato e fragile, frastornato da tutta quella vita che non aveva mai conosciuto, dai complotti politici di un Re a cui non doveva alcuna fedeltà, dalla volubilità degli Uomini, dai sentimenti constrastanti che lo facevano dubitare di se stesso.

Tutto ciò che aveva chiesto era poter andare per mare, sentire la brezza tra i capelli e il sapore salmastro sulle labbra, essere libero dal giogo di Alatariel e vivere la sua vita prima che il richiamo dell'Ovest lo costringesse a lasciarsi tutto alle spalle.

Aveva amato la Stella Marina sin dal primo istante, nonostante fosse poco più che una barca per pescatori con un solo albero, nonostante la sua vela sporca e il fatto che fosse una nave di contrabbanderi... l'aveva amata e amava il suo equipaggio, la risata burbera del capitano, Beregond e i suoi libri sulle erbe, Conn che conosceva l'elfico, persino Forlond e la sua aria truce...e Laer, bisbetica, permalosa e adorabile.

Si strinse ancora di più nel mantello.

< Cosa stai pensando, Silevril? >

La voce di Galmoth era talmente bassa che solo lui avrebbe potuto udirla.

< Pensavo a noi e alle scelte che mi hanno condotto qui, pensavo al fatto che non mi fido di Baran. >

< Ah. > Galmoth sospirò. < Non devi preoccuparti di questo. Baran è sempre stato un personaggio eccentrico, a cui piace apparire inquietante e misterioso, ma è un uomo d'onore ed è un mio amico. >

< Beleg fu ucciso dal suo migliore amico Tùrin per un errore, mio padre vide con i suoi occhi un elfo di nome Mornon uccidere suo fratello. Non fare questo errore, Galmoth, non fidarti di Baran solo perchè si proclama tuo amico. >

Erano arrivati al Porto e si riusciva già a vedere la Stella ormeggiata un po' in disparte. Galmoth aumentò il passo per raggiungerla più velocemente, ma Silevril non lo fece e rimase indietro, avvicinandosi più lentamente.

Poteva tornare a casa quando voleva, sarebbe bastato dirlo. A Umbar poteva comprare un cavallo o, se non fosse stato in grado di pagarlo, sarebbe comunque potuto tornare a piedi. Immaginò casa sua, piccola e accogliente, con il grande pino che si ergeva lì davanti e il mare sotto lo strapiombo, con la Giuramento ormeggiata nella baia. Suo padre l'avrebbe portata fuori per andare a pesca e avrebbero cantato insieme, mentre sua madre probabilmente avrebbe pianto

Sarebbe potuto essere Silevril lì, ancora un po', in pace, prima di andare all'Ovest e nessun intrigo l'avrebbe mai fatto dubitare di se stesso.

Silevril oltrepassò la banchina, arrivando alla Stella Marina quando Galmoth era ormai sotto coperta.

Laer era seduta sul cassero e non appena lo vide lo salutò con la mano, sorridendo.

Ricambiò il suo saluto e gli parve che quello fosse il momento in cui la sua vita veniva decisa, come all'interno di una vecchia storia dei Tempi Remoti, in cui si trovava al bivio tra l'andare avanti e il tornare indietro.

< Ehi, Silevril! > gridò Laer < Conn ha cucinato uno sformato di verdure fresche, se non ti sbrighi a salire mangerò anche il tuo piatto! >

Con un sorriso, Silevril salì a bordo.











Oddio santissimo, ce l'ho fatta! Questa seconda parte è stato un parto tra il fatto che non avevo mai tempo per scriverla e il fatto che non sapevo come scriverla!

Comunque, credo che riuscirò ad aggiornare più spesso ora dato che la sessione d'esami è finita, non vi prometto un capitolo a settimana perchè non so se riuscirei a tener fede, ma almeno un capitolo ogni quindici giorni dovrei farcela.

Ok, allora, detto questo buona giornata e lasciate una recensione!

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Capitolo 8
*** We can roll ourselves over when we’re uncomfortable ***




We can roll ourselves over when we’re uncomfortable







Laer chiuse il suo diario e uscì sul ponte, strizzando appena gli occhi a causa della luce abbagliante del sole mattutino.

La Stella Marina avanzava lentamente, lasciandosi trasportare dal vento che non riusciva a contrastare del tutto la corrente impetuosa dell'Anduin. Alcuni gabbiani seguivano la nave, gridando e a volte scendendo in picchiata accanto alla prua, tornando poi a librarsi in aria con la loro preda nel becco.

Erano ormai due giorni che risalivano il fiume ma Minas Tirith sembrava ancora lontana miglia e miglia, tanto si muovevano con lentezza.

Laer sospirò, chiedendosi quanto ancora sarebbe riuscita a sopportare la vista delle due rive spoglie. Si scosse leggermente e si avviò verso il cassero dove Silevril se ne stava, simile a una statua antica, con le mani sul timone e lo sguardo perso nel vuoto. L'elfo la vide avvicinarsi ma non si mosse, limitandosi a sorridere di sottecchi, atteggiamento che a Laer faceva venire una gra voglia di schiaffeggiarlo; sembrava sempre sapere qualcosa che lei ignorava e in più i suoi occhi si animavano incredibilmente, rendendo il contrasto con i lineamenti impassibili e affilati ancora più inquietante... eppure non poteva fare a meno di trovarlo bello, misterioso e affascinante.

Si accigliò, irritata da quei pensieri infantili e ben consapevole che Silevril era riuscito a leggerglieli tutti in faccia come se lei li avesse scritti a chiare lettere in un libro.

< Oggi la corrente è particolarmente forte, > disse cercando di assumere un tono naturale e di riprendere il pieno controllo del suo corpo.

< Già, > Silevril la guardò < ma il vento sembra essere aumentato ed è una buona cosa. Potremmo arrivare alla Città domani, o al massimo dopodomani, se continua così. >

< Vorrei avere un veliero, come quello che portò Re Elessar alla Battaglia del Pelennor. >

Non sapeva perchè avesse detto una cosa del genere e se ne vergognò. Non era una bambina ma la sola presenza dell'elfo la faceva sentire piccola e insignificante. Troppe sciocchezze uscivano dalla sua bocca.

< La nave di mio padre è simile a questa, > le rispose Silevril, < e non vorrei mai qualcosa di diverso. I grandi velieri sono utili per andare in battaglia, ma sono piccole navi come questa che permettono di passare inosservati ed è proprio ciò che noi dobbiamo fare. >

Laer annuì, rimanendo in silenzio.

Guardò per qualche minuto Beregond seduto a prua, intento, come sempre, a leggere qualche grosso tomo.

Forlond se ne stava poco distante, in piedi a fumare.

< Avevo pensato di andarmene > disse improvvisamente Silevril, interrompendo il silenzio. < Mi ero detto che tutto questo non mi riguardava, che non volevo immischiarmi in situazioni che comprendono un colpo di stato e un finto furto. >

Laer alzò la testa per poterlo guardare in faccia.

Sembrava pensieroso, anche se era sempre difficile dirlo con certezza quando si trattava di interpretare le emozioni sul viso di Silevril.

< Ma hai cambiato idea, > asserì.

< Sì. Ho cambiato idea. > Silevril si voltò e un ghigno apparve sul suo volto fino a quel momento serio. < Non mi vedi per caso? >

Laer sbuffò, infastidita.

< Ti ricordo che sono il tuo superiore su questa nave, stupido elfo indisponente! Non ti è permesso prendermi in giro. >

Silevril rise a quelle parole, allegro.

< Scusa, mia signora, > disse, < non ti mancherò mai più di rispetto. >

Lei gli diede un pugno sula spalla, offesa, e scese dal cassero, buttandosi dietro la schiena la lunga treccia con un gesto stizzito.

Odiava quel suo modo di fare, il disprezzo per le regole e l'autorità, il suo essere continuamente beffardo anche quando lei tentava di avere una conversazione seria con lui.

Non riusciva veramente a capire se il suo fosse uno scherzo o se davvero la considerava solo una bambina da burlare... in fondo, quanti anni aveva lui? Non glie l'aveva chiesto, ma per quanto giovane potesse essere rispetto a quelli della sua razza, sarebbe sempre stato troppo vecchio per lei.







Silevril la guardò andare via innervosita e ridacchiò tra sé: non aveva intenzione di offenderla, anzi, trovava estremamente divertente parlare con lei, si sentiva a proprio agio come mai gli era capitato con nessun altro. Laer era schietta, semplice, vera e adorava il modo che aveva di mettere il broncio per un nonnulla.

Anche se lo preoccupava che gli facesse così tante domande senza rendersi conto che invece alcune di queste lo mettevano a disagio... non voleva dirlo che era rimasto perchè l'aveva vista là sul ponte della Stella, perchè lo aveva chiamato assolutamente certa che lui sarebbe risalito a bordo.

No, davvero, non voleva proprio dirglielo perchè si era accorto del modo in cui lei lo guardava, di come la sua presenza la mettesse in agitazione ma di come cercasse comunque la sua compagnia.

Non avrebbe mai permesso a se stesso di darle una falsa speranza, un'illusione di qualcosa che non poteva e non doveva assolutamente essere, perchè Laer era solo una fanciulla di ventiquattro anni e non doveva pensare a lui come ad altro che un amico.

Silevril non voleva l'amore e non voleva che altri si innamorassero di lui, perchè se c'era una cosa che aveva imparato è che l'amore è sofferenza.

Non avrebbe permesso a Laer di fare questo a se stessa, non a lei che aveva imparato a considerare la sua più cara amica.

Serrò le labbra, scacciando quei pensieri dalla testa: non era da lui farsi tante domande e non era da lui non trovare le risposte

Probabilmente era solo uno stupido che si era sopravvalutato per tutta la sua vita.







Laer scese sotto coperta e trovò Galmoth esattamente dove pensava che fosse: il Capitano era seduto al tavolo e fissava una cartina di Minas Tirith come se lì ci fosse scritto il più grande mistero della Terra di mezzo.

Si sedette di fronte a lui e l'uomo alzò lo sguardo, riservandole quel sorriso che lei aveva sempre amato.

< Sei turbata,Galmoth? > gli chiese.

< Ci sono cose che avrei dovuto dirti prima e che ho paura di dirti. >

Allungò una mano a toccare il braccio della ragazza.

< Il vero motivo per cui mi accusarono di tradimento e... il mio rapporto con Baran. >

Laer trattenne quasi il respiro, una spiacevole sensazione di disagio le attanagliava le viscere.

< Silevril non si fida di lui e io nemmeno, ma non hai voluto portarmi con voi e ora fai ciò che lu ti ha chiesto. Non capisco. >

Galmoth le prese la mano, stringendola tra le sue... mani enormi che l'avevano sempre fatta sentire protetta.

C'era un'espressione strana sul volto dell'uomo, un'espressione che la spaventò.

< Baran è sempre stato il mio migliore amico ed io credevo che fosse morto. Ho sacrificato tutto per lui, mia cara, il mio onore, la mia famiglia, la mia flotta... tentò di uccidere Alphros di Dol Amroth, ma io lo fermai facendolo fuggire. Fui accusato per quel crimine, come sai, e persi tutto. In seguito seppi che il mio amico, Baran, era morto...ma ora lui torna e mi parla del Tesoro di Ulmo. >

Galmoth la guardò negli occhi, un fuoco latente che covava nel suo sguardo. Laer si sentì tremare d'impazienza.

< Come posso dirgli di no? Questo è ciò che ho sempre desiderato e forse...forse se riportassi il Tesoro di Ulmo al Principe potrei riavere indietro il mio buon nome e smetterla con questa vita. >

La ragazza si scostò bruscamente, facendo scivolare via la mano da quella di lui. Lo guardò come si guardano i pazzi, con gli occhi sgranati e la bocca aperta.

Era incredula.

Galmoth le aveva sempre detto che non sarebbe mai tornato da coloro che l'avevano disprezzato, le aveva detto che l'unica nave che avrebbe mai voluto comandare nella sua vita era la Stella.

Si sentiva tradita e adirata, piena di risentimento.

< Mi stai davvero dicendo che ti mischierai con traditori meschini che complottano per rovesciare il Re? Solo per un uomo che ti aveva fatto credere di essere morto, un uomo per il quale hai perso tutto, per il quale anch'io ho perso tutto! O te ne sei dimenticato, Galmoth? Non ti ricordi che anche sulla mia testa pende una taglia da fuorilegge perchè mi hai portato con te? Cosa farò io, eh, me lo dici? >

< Laer... >

< No! > si alzò di scatto, rovesciando la sedia. < Non mi fidavo di Baran e ora non mi posso fidare nemmeno di te! Aveva ragione Silevril aveva ragione a voler andare via. >

< Allora andatevene! > Galmoth sbottò, alzandosi in piedi e alzando la voce. Sulla nave cadde il silenzio sulla prima litigata tra Capitano e Primo Ufficiale che chiunque dell'equipaggio riuscisse a ricordare.

Con una sferzata della mano destra Laer gettò in terra la mappa che Galmoth stava esaminando, gli diede le spalle e salì le scale per uscire sul ponte.

Non era quello che avrebbe voluto sentire.

Silevril le si avvicinò, cercando di farla ragionare, ma lei lo spinse via con un grido.

Non poteva accettare nulla di tutto quello che Galmoth le aveva detto. Le sembrava passato un secondo da quando era bambina e Galmoth era l'Ammiraglio della Flotta del Principe, da quando aveva indossato quell'armatura scintillante bianca e argentea, con il cigno fiero sul petto. Si ricordava come l'aveva protetta quando si era ritrovata da sola, dopo che suo padre era morto e si ricordava anche di come fosse stato accusato da tutti di aver complottato per uccidere il principe... ed ora veniva a sapere che era stato solo per proteggere un essere infido come Baran.

Non riuscì a trattenere le lacrime e scoppiò in singhiozzi. Cos'avrebbe fatto se Galmoth fosse morto? O se avesse davvero riportato il Tesoro di Ulmo al suo legittimo proprietario, rientrando così nelle sue grazie? Lei sarebbe stata comunque la ragazzina che era fuggita con lui, una donna di malaffare, la ladra... e sarebbe stata sola.

Nemmeno si rese conto del momento esatto in cui Silevril l'aveva abbracciata, ma lo strinse, agrappandosi a lui e bagnando le sue vesti di lacrime. Voleva essere una bambina per un po', non le importaca più di cosa lui potesse pensare.

Era caldo quell'abbraccio, si disse, rassicurante come non credeva possibile. Lui sapeva, ovviamente, aveva sentito tutto, non aveva dubbi in merito, ma stranamente glie ne fu grata.

< Non preoccuparti, Laer, > le sussurrò all'orecchio, < le tue sono le paure di una figlia e lui è il padre che non vorresti perderere. >

Erano soli sul ponte. Aveva l'impressione che fossero tutti fuggiti da lei, per non vederla piangere, come se li avrebbe scottati.

Silevril, invece, era rimasto e la sua presenza era come un porto sicuro.

< Mi ha nascosto così tante cose. >

< Reagisci in modo violento alle cose, te l'ha mai detto nessuno? >

L'elfo si allontanò leggermente e si abbassò un po' per guardarla in faccia. Aveva un sorriso tenero e gli occhi gli brillavano.

Era talmente bello che Laer non riusciva a ragionare.

< A volte è difficile rinnegare una vecchia amicizia, anche se quell'amico si è comportato in modo meschino. Galmoth non può serbare rancore, per questo- >

Ma non lo lasciò continuare. Si alzò sulle punte dei piedi e lo baciò, aiutandosi a farsi più vicina mettendogliuna mano dietro la nuca.

Lo costrinse a dischidere le labbra, a lasciare che le loro lingue si toccassero. Sentiva il sapore delle lacrime che aveva versato, ma anche quello di lui.

Se doveva sentirsi per forza così ferita, che almeno ci fosse qualcosa di positivo in quella faccenda, poi, una volta a Minas Tirith, sarebbe andata via per la sua strada e avrebbe detto addio a Galmoth e alle sue bugie... ma si sarebbe portata dietro il ricoro delle labbra di Silevril e, maledizione, ne sarebbe valsa la pena.













Sono abbastanza soddisfatta di questo capitolo e alla fine non ce l'ho fatta a non farli baciare. Ok, diciamo che Laer gli è zompata addosso e possiamo darle come scusante che era un po' sconvolta perchè Galmoth è un cazzaro (ma io ti voglio bene lo stesso, Galmy, anche se sei lo zerbino di Baran).

Insulto libero per Galmoth nelle recensioni, si prega però di contenere l'ormone, c'è ancora da vedere come va a finire qui, che io son sadica mica poco! Lo sapete, no, che il mio cuore è raggrinzito come quello del Grinch!

Recensite che poi mi sento sola (anche se lo so che tanto l'unica a seguire sta storia è Hareth, ma solo perchè io faccio parte dello Zaal fan club)


P.S. Questa volta il titolo del capitolo è un verso di Paradice Circus, dei Massive Attack che io amo troppo per non inserirli un po' ovunque.

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Capitolo 9
*** But in the end it doesn't even matter ***


but in the end it doesnt even matter


But in the end it doesn't even matter

 

 

 

Minas Tirith si ergeva imponente e candida, adagiata sul fianco del Mindolluin come se vi fosse placidamente abbracciata. I sette livelli sembravano continuare fino all’infinito e la Torre di Echtelion, modellata a immagine della prua di una nave, contribuiva a quel fascino insieme maestoso e intimo.

Silevril avrebbe potuto rimanere con l’immagine di quella città negli occhi fino alla fine del mondo, berla come acqua di montagna, ma Galmoth era impaziente e lo occhieggiava nervoso ogni volta che si fermava sulla via che attraversava la piana del Pelennor fino al Cancello.

< Maledetto Elfo, > lo sentiva borbottare tra sé, spazientito. L’uomo era stato a Minas Tirith decine di volte e non riusciva a capire la meraviglia di chi invece non ne conservava memoria alcuna.

< Non crucciarti, capitano, continua per la tua strada. >

< Rimarrai indietro! >

< La Città è ben visibile, > Silevril rise, < non mi perderò di certo. >

Galmoth borbottò e aumentò l’andatura.

Era nervoso e Silevril credeva che avesse addirittura pianto, ma non pensava fosse una buona idea farglielo presente. Avevano aspettato che il sole fosse ben alto sull’orizzonte, prima di sbarcare e attraversare la strada che portava al Cancello dal piccolo, e poco usato, porto della Città.

Laer era sparita, andata via durante la notte, e Galmoth voleva essere sicuro che fosse ormai fuori dalla loro portata quando fossero arrivati davanti alle guardie del Cancello. A nulla erano valse le preghiere di Silevril, la ragazza si era inferocita anche con lui quando si era detto convinto delle scelte di Galmoth.

Ripensare a ciò che era successo lo metteva a disagio, ancora gli sembrava di sentire le labbra di Laer su di sé, il sapore salato delle sue lacrime ma anche la sensazione morbida del suo corpo minuto che lo stringeva. Non aveva ricambiato, non ne era stato capace e adesso se ne pentiva amaramente… aveva la sensazione che l’ira della ragazza ne fosse uscita accresciuta da quel rifiuto e che l’andare via fosse una fuga anche da lui.

Si sentiva come svuotato, era rimasto per lei, ma ora era andata via e lui si ritrovava incastrato con Galmoth nei suoi loschi affari… per cosa? Non era davvero riuscito ad abbandonare il Capitano… si sentiva confuso.

Aumentò il passo per raggiungere finalmente le porte. Il grande Cancello di Minas Tirith, in Mithril con rifiniture d’argento, era aperto e due guardie lo sorvegliavano, una lunga lancia in mano ma l’espressione distesa.

< Salute a voi, viaggiatori > dissero nell’accoglierli, < siete liberi di entrare. >

Improvvisamente videro Silevril e i loro occhi si aprirono di stupore: < Molti anni sono passati da quando uno degli Eldar è venuto a Minas Tirith, ne siamo lieti. >

Silevil sorrise.

< Siamo davvero pochi, ormai, a Est del Mare ed io non ero mai venuto a visitare la più splendida delle città degli uomini. Sono nato qui, però, e ne sono felice. >

< Il nostro Capitano della Guardia è un elfo, > disse la guardia, < il grande Finrod Felagund che di sicuro conoscerai. >

L’uomo si inchinò leggermente, scostandosi per farli passare, < Due volte benvenuti, stranieri. >

Silevril entrò, seguito da Galmoth, che gli si avvicinò e lo prese per un braccio.

< Sei un maledetto ruffiano, elfo, adesso non passeremo mai inosservati. >

< Oh, andiamo, Capitano, ogni giorno uomini e donne attraversano quei cancelli, ma un elfo? Non sarei mai potuto entrare non visto, così almeno sarò benvenuto. >

Scosse la testa, con fare saccente.

< E poi ciò che ho detto è vero, voglio visitare la città in cui sono nato mentre tramiamo colpi di stato. >

Galmoth lo zittì bruscamente, guardandosi intorno circospetto, ma nessuno stava ad ascoltare: donne si affrettavano lungo le vie e tra le botteghe, uomini erano seduti sugli usci chiacchierando allegramente, bambini giocavano nei cortili… nessuno badava a loro, solo, a volte, qualcuno guardava sbalordito Silevril, per poi passare oltre.

< Baran ha detto che un suo uomo ci avrebbe contattati una volta arrivati a Minas > sussurrò Galmoth, senza smettere di guardarsi intorno.

Era agitato, nervoso, e sudava copiosamente. Sembrava aspettarsi un colpo improvviso alle spalle.

< Stai calmo, Capitano. > Silevril sbuffò appena, < Baran segue ogni nostro passo da quando abbiamo lasciato Dol Amroth, lo sento. Non riusciremo a trovare il suo contatto nemmeno se cercassimo in ogni bettola della città, nel frattempo ti consiglio di godere della bellezza del luogo. >

L’elfo aumentò il passo, seguito da Galmoth.

Il marinaio avrebbe davvero voluto essere furioso per la sfacciataggine e il sangue freddo dell’altro, ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era che lo trovava stranamente rassicurante. Stava sviluppando una pericolosa forma di amicizia nei suoi confronti e il fatto che si fidasse così di lui fin dal primo istante era inquietante ai suoi occhi.

Lo seguì mentre camminava spedito per le vie affollate della capitale di Gondor, incurante di essere alto e splendente nella luce del mattino, oggetti di sguardi increduli e mormorii. Maledetto lui, maledetto il suo stupido egocentrismo! Gli aveva detto di tenere il cappuccio, di nascondersi, di non attirare l’attenzione, ma lui sembrava al contempo ignaro e vanitoso.

Si fermò improvvisamente e per poco non vi sbattè contro.

< Perché siamo venuti qui? >

< Qui è dove sono nato, Galmoth. >

Lo aveva chiamato per nome, riflettè, ma no gli dava fastidio. Guardò il portone delle Case di Guarigione e il volto sereno dell’elfo mentre era perso in ricordi lontani.

< Avevo raccontato a Laer della mia nascita, > mormorò, come a se stesso, < speravo quasi di trovarla qui.. speravo… >

Improvvisamente si riscosse e lo guardò, un nuovo sorriso sul suo volto eternamente giovane.

< Nulla. >

Fece per incamminarsi di nuovo, ma Galmoth lo bloccò.

< Grazie > disse.

< Per cosa? >

< Volevi andare con lei, credi ancora che Laer abbia ragione, che io sia uno stupido a seguire Baran, che lui mi abbia solo usato in passato e che sia stato crudele a non dire nulla a lei quando decise di venire con me. >

Silevril tacque, attendendo che l’uomo continuasse.

< Sono egoista, Silevril, anche adesso vorrei che Laer non avesse mai scoperto nulla, che continuasse a credere che io sia solo stato vittima di un complotto… >

L’elfo sorrise, riprendendo a camminare, salendo ancora verso il settimo livello della Città.

< Forse sono un egoista anch’io > disse infine con una scrollata di spalle, < hai difeso il tuo amico, anche se sapevi che non lo meritava. Io avrei fatto lo stesso.  E sono rimasto perché amo la Stella Marina e non voglio lasciarla, anche se questo comporta aiutare un assassino a manovrare un colpo di stato. >

Oltrepassarono l’ultima porta e furono nella grande piazza, al cui centro l’Albero Bianco era in fiore.

Due guardie erano in piedi ai due lati, mentre alcuni cittadini si fermavano a guardare prima di continuare i loro affari.

Silevril si diresse verso le mura e si appoggiò al parapetto: la Piana del Pelennor si stendeva tutta davanti a lui e in lontananza sul Fiume, alcune piccole imbarcazioni fluviali se ne stavano placidamente alla fonda.

Silevril aguzzò lo sguardo, cercando di distinguere  la Stella, ma era difficile anche per lui esserne sicuro da quella distanza.

Galmoth gli si accostò, guardando anche lui verso il fiume lontano, ma i suoi occhi non riuscivano a scorgere altro che figure indistinte sull’acqua.

Poco distante da loro, una delle guardie della cittadella, con l’elmo d’argento in testa e un mantello bianco agitato dal vento, sembrava persa nella contemplazione del paesaggio.

Galmoth la guardò per un po’, poi si volse verso l’elfo al suo fianco.

< L’ho capito subito, non appena ti ho visto: sei davvero strano. Pensavo che quelli della tua razza fossero tutti dediti alla giustizia, impegnati al massimo per essere il più eterei possibile, ma tu hai una concezione di bene e male del tutto personale. >

< Non posso dirti molto degli altri “della mia razza”, ma ciò che so su coloro che mi hanno dato la vita propende più sul fare ciò che si ritiene giusto in quel momento, anche se forse non lo è. >

Galmoth rise, dandogli una pacca sulla spalla.

< Ascolta, Silevril, > disse < c’è una locanda al primo livello, una di quelle bettole che invoglia solo marinai e vagabondi, vado a vedere se hanno un posto per noi e attenderemo insieme, egoisticamente. >

Galmoth lo lasciò solo e lui si chinò leggermente in avanti, appoggiando le braccia conserte al piano di pietra chiara.           

Ripensò a come era cambiata la sua vita in così poche settimane, a come era fuggito da qualcosa per poi ritrovarla dentro di sé e accettarla completamente. Gli sembrò di poter finalmente capire sua madre, ma più di ogni altra cosa capiva perché suo padre aveva sempre atteso: non gl’importava che Laer fosse lontana o vicina, sentiva che quella ragazza gli era entrata dentro senza possibilità di tornare indietro.

Avrebbe davvero dovuto ricambiare quel bacio, si disse, e infischiarsene di qualsiasi remora morale sulla loro diversa natura e altro. Se ne stava pentendo amaramente e, quando chiudeva gli occhi, la sua fantasia volava, costruendo immagini allettanti di come sarebbe potuta finire là  sul ponte della Stella se lui si fosse lasciato andare.

Con un sospiro si rimise dritto e fece per andarsene, ma per poco non andò a sbattere contro la Guardia che prima guardava la Piana.

Si era avvicinata silenziosamente e ora lo guardava da sotto l’alto elmo coronato d’ali bianche, i lunghi capelli agitati dal vento e il volto sporco di barba appena accennata e gli occhi penetranti di una luce antica.

< Non ho potuto fare a meno di udire il tuo amico chiamarti Silevril, > disse la guardia con uno sguardo stranissimo che a Silevril mise tristezza, < e ho dovuto conoscerti. Sono Finrod Felagund, figlio di Finarfin. >

La bocca di Silevril si aprì in un sorriso sghembo che sembrò deformargli i lineamenti in qualcosa di infantile.

< Lo so. >

 

 

 

 

 

 

Non ci speravate più, vero? E invece rispunto quando meno ve l’ spettate, giusto in tempo per rovinarvi il Natale! No, dai, la verità è che ho avuto che fare con l’incubo di qualsiasi persona si diletti in questo passatempo lavoro, ovvero il temibile BLOCCO DELLO SCRITTORE e non c’era davvero verso per fortuna Tolkien è venuto in mio soccorso e tra la rilettura annuale del la Trilogia e la visione de Lo Hobbit (l’avete visto vero? Non è un capolavoro? Sì, sì, lo è!) sono riuscita a uscirne e qu eccomi qui! Buon Natale a voi tutti che mi leggete (v ho visto, voi, piccoli numeretti nella mia pagina di gestione storie) e soprattutto a quelle gran donne di Morwen_Eledhwen, Elfa e Hareth che mi recensiscono anche, per tutte voi anche una foto di Silevril nudo che si copre le pudenda con un cappellino da Babbo Natale, fatene buon uso!

 

      * Il titolo del capitolo è un verso di In The End dei Linkin Park

 

 

 

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Capitolo 10
*** Love is clockworks, and it’s cold steel ***


Ad Hareth, che mi ha praticamente stolkerato per farmi riprendere questa storia, 
ma che ha creato la saga di Alagos e quindi come faccio a non perdonarla?






Love is clockworks, and it’s cold steel





Laer si era svegliata all'alba, mentre tutti ancora dormivano, e si era avviata a passo svelto verso Minas Tirith. Ci aveva messo più di quanto avesse ipotizzato per arrivare ai cancelli della Città e il sole iniziava a farsi caldo, costringendola a boccheggiare leggermente. Si sentiva stanca, nonostante tutto, e le dolevano i piedi come se avesse camminato per miglia e miglia. Gli occhi le bruciavano e se li sentiva gonfi, come sul punto di esplodere. Era furiosa con se stessa perché aveva pianto fino ad addormentarsi, perché si era comportata come una bambina stupida, perché stava scappando da Galmoth anche se non avrebbe voluto, perchè la sensazione di tradimento era talmente forte da farle male al petto. A questo si sommava la vergogna per ciò che era accaduto con Silevril, quel bacio che non era riuscita a trattenersi dal dargli a al quale l'elfo non aveva risposto, rimanendo lì fermo come un pezzo di legno.

Si diede mentalmente della stupida per aver pensato, anche solo per un attimo, che uno come Silevril avrebbe mai potuto provare qualcosa per lei e la fastidiosa sensazione di essere una ragazzina immatura si acuì.

Ora si trovava per le strade tortuose e bianche di Minas Tirith senza la più pallida idea di cosa fare o dove andare, dato che era stata nella capitale di Gondor solo un'altra volta in precedenza e in compagnia di Galmoth, senza comunque fermarsi lì che poche ore.

Mangiare qualcosa, si disse, sì, butta giù un boccone e cerca un passaggio. Già, ma per dove? Dol Amroth era stata la sua patria, quando suo padre era vivo e lei era una bambina che giocava ad essere la principessa degli elfi. Ricordava casa sua, piccola e accogliente, in una delle vie acciottolate che conducevano al porto, non troppo distante dal Palazzo perchè suo padre si occupava delle stalle e dei cavalli del Principe. Ma poi suo padre era morto e lei era andata ad abitare nella grande casa di Galmoth, quell'amico che era diventato un grande Capitano e poi Ammiraglio, che le aveva insegnato ogni cosa, che l'aveva portata con sé sul ponte di quella imponente nave dalle vele bianche dove lei aveva giurato eterno amore al mare. Era sembrato così ovvio, così naturale, fuggire con lui, che era così nobile e ingiustamente accusato.

Si asciugò rabbiosamente una lacrima dalla guancia.

Galmoth le aveva mentito, Galmoth aveva difeso un essere spregevole e le sue malefatte, Galmoth aveva meritato la condanna e l'aveva trascinata nel baratro assieme a lui, l'aveva fatta diventare una reietta e una ladra.

Non sarebbe mai più potuta tornare a Dol Amroth e rivedere le strade acciottolate della sua casa d'infanzia, non da donna libera.

Si sentiva sola al mondo e senza futuro, non sapeva dove andare e non riusciva a trovare nemmeno l'ombra di una taverna in cui mangiare qualcosa.

Svoltò l'angolo e si ritrovò in una piccola piazza di mattoni bianchi. Su di un lato vi erano alcune bancarelle che vendevano tessuti colorati e molte donne vi si affollavano, chiacchierando allegramente, al centro stava una piccola fontana tonda, e l'acqua vi zampillava da una statua a forma di drago posta nel mezzo.

Laer si sedette sul bordo e si limitò a fissare la vita che scorreva sotto i suoi occhi: donne e uomini intenti alle loro occupazioni quotidiane, bambini che giocavano, alcune guardie di ritorno da qualche turno di guardia che si dirigevano verso le loro case.

Le sembrava di vedere Galmoth in ogni angolo, in ogni volto che incrociava. Era scappata via da lui, voleva essere certa che non si sarebbero incontrati e voleva andare via da Minas Tirith il più velocemente possibile perché sapeva che lui era diretto proprio in città. Aveva il terrore di incrociarlo per caso.

E improvvisamente pensò a Silevril, quello stupido elfo che l'aveva fatta sentire una sciocca, che la guardava ogni volta con quell'aria di quieta supponenza ma che sapeva esattamente cosa dire in ogni momento.

Forse, se fosse stata meno impulsiva e meno accecata dalla sua stessa attrazione fisica, avrebbe potuto avere in lui, se non un alleato, almeno un confidente.

Silevril dava l'impressione di riuscire a far ragionare chiunque, di portare solo ragionevolezza. Chissà, forse sarebbe riuscito a trovare una soluzione, tra lei e Galmoth.

Invece gli era praticamente saltata addosso. Il ricordo la faceva ancora tremare di vergogna e, con suo grande disappunto, di desiderio.

Scosse la testa. Doveva scacciare questi pensieri, doveva smettere di ricordare Silevril e i suoi incredibili occhi azzurri, ancora più chiari sotto i capelli corvini e i lineamenti come scolpiti nella pietra...

Si alzò di scatto, facendo volare via spaventati alcuni piccioni. Seguì le guardie lungo una strada che aveva l'aria di essere una via importante, arrancando dietro di loro, scendendo sempre di più verso l'anello più esterno, finché non le vide infilarsi in un piccolo locale seminascosto, in una traversa laterale.

Laer entrò e rimase un momento come imbambolata sulla porta. Era in una piccola osteria accogliente, con una quindicina di tavoli di legno decorati con tovaglie colorate e un bancone con alti sgabelli. Due cameriere, giovani e graziose, facevano su e giù portando vassoi carichi di cibo e boccali, sorridendo ai clienti e rispondendo ai loro saluti. C'era un'atmosfera familiare e gioiosa, molto diversa da quella delle bettole in cui era solita frequentare nei porti di Umbar o Dol Amroth, piene di sporcizia e uomini ubriachi.

Si avvicinò cautamente al bancone e una donna dalla pelle chiara e i capelli nerissimi raccolti in una crocchia le sorrise.

< Ciao, tesoro, cosa ti porto? > le chiese con una vocina acuta e squillante.

< Ehm... > Laer si guardò intorno, arrampicandosi sull'alto sgabello e lanciando occhiate intorno. < Voglio quella, > disse indicando una zuppa densa e profumata al tavolo dietro di lei, < e un bicchiere di vino. >

La donna le fece l'occhiolino e si mise le mani sui grossi fianchi.

< Non sei un po' giovane per il vino, cara? >

< Forse, > rispose sorridendo a sua volta, < ma lo berrò ugualmente. >

La locandiera scrollò le spalle e si allontanò, per tornare poco dopo con una coppa di vino rosso che posò di fronte alla ragazza.

< Non sei di Minas Tirith, vero? > domandò. < Hai un accento del sud molto marcato, ragazza mia, > aggiunse in risposta all'occhiata interrogativa di Laer.

< Sto cercando un passaggio, sapete dove posso trovarne uno? >

< Un passaggio per dove? >

< Non è importante > Laer aggitò una mano distrattamente, < un posto qualsiasi andrà bene. >

La donna posò i bicchieri che stava asciugando e lo straccio, avvicinandosi un po' di più a lei con piglio deciso. A Laer piaceva l'espressione che aveva assunto, ma se ne sentiva anche un po' spaventata senza sapere bene perché.

< Ascolta, sei solo una ragazzina e mi ricordi tanto mia figlia, perciò ti darò un consiglio spassionato: hai l'aria di una che sta scappando, non negarlo lo vedo che è così, non sono nata ieri sai? >

Laer sbuffò.

< La locandiera che dà consigli di vita è un luogo comune > disse < e nemmeno dei miei preferiti. >

Quella alzò le mani, senza smettere di sorridere.

< Come vuoi, bambina, io volevo solo dirti che scappare non serve a niente di niente, che l'unica via è andare dal bellinbusto che ti ha spezzato il cuore e fargli rimpiangere di essere nato. >

Laer la guardò sbattendo le palpebre qualche secondo, prima di realizzare di cosa stessero parlando, infine scoppiò a ridere.

< No, no, non si tratta di questo... per i Valar, non ho il cuore spezzato... >

< Mmmm... >

< Non per amore, almeno. >

Laer tornò seria e si mise in bocca la prima cucchiaiata della zuppa che, nel frattempo, la locandiera le aveva messo di fronte; sapeva di funghi, patate e rosmarino, un sapore malinconico e meraviglioso. Deglutì e bevve un po' di vino.

< L'uomo che ha infranto i miei sogni era molto più che il mio innamorato. >




Finrod Felagund aveva creduto che tutte le sue ansie, i suoi rimpianti e le sue paure appartenessero ormai al passato, aveva creduto di essere come rinato, che il suo spirito fosse di nuovo sano.

Ma stava fissando il fantasma di un qualcosa che aveva sperato di poter seppellire per sempre e gli sembrava ingiusto... ingiusto e crudele.

Silevril.

Sorrideva alzando solo un lato della bocca, ma non appariva sardonico, quanto piuttosto infantile, di un'innocanza disarmante e affascinante. I capelli gli ricadevano sulle spalle scompigliati e lui sembrava sapere esattamente quale fosse l'effetto che facevano, una consapevolezza evidente e sfacciata che Finrod non aveva mai visto né in Alatariel, né in Aeglos.

Eppure Silevril era come la copia vivente di entrambi, con quegli occhi chiarissimi e azzurri ereditati da suo padre, ma freddi e distanti sotto i capelli corvini e i lineamenti affilati.

Avrebbe seriamente potuto perdersi in lirismi... ah, Finarfin avrebbe riso nel sentirlo parlare così.

Ma non riusciva davvero a evitare di studiare quel volto tremendamente familiare, anche se sconosciuto, e di averne paura, perché quello che stava accadendo era che avrebbe voluto abbracciarlo per l'eternità.

Era facile innamorarsi di Silevril, pensò, come d'altronde lo era innamorarsi di Alatariel.

< Sai, > disse infine, < io ti ho visto nascere. >

< Mia madre me lo ha detto. >

Silevril si inchinò leggermente.

< Desideravo molto conoscerti, Finrod Felagund, ho amato le storie che narravano delle tue gesta e sapere che tu eri presente alla mia nascita, che grazie a te sono sopravvissuto, mi fa sentire onorato. >

Parlava lentamente, come se improvvisamente si sentisse incerto.

< Tua madre... ah, Silevril, ho pregato con tutto me stesso di non rivederla mai più, ma poi tu arrivi e parli di onore, delle mie gesta ed io non so come reagire. >

Improvvisamente lo abbracciò. Era stato improvviso e inaspettato, ma quando lo fece seppe di non aver aspettato altro fin da quando aveva sentito il nome Silevril: voleva abbracciarlo, come un tempo aveva abbracciato Alatariel.

Quando infine si allontanò, il giovane elfo che aveva di fronte gli apparve diverso, più reale, più simile a quel piccolo fagotto che non aveva mai tenuto tra le braccia, un bambino aggrappato a sua madre e che era per lei unico appiglio. Ma rimaneva comunque irraggiungibile, ed era questa la sua maledizione: desiderava amare Silevril ma non ci sarebbe mai riuscito.

Lui lo stava fissando in silenzio, soppesando, forse studiando le sue espressioni. Vi era tenacia in quello sguardo e per la prima volta vi scorse l'immagine di Aeglos chiara e nitida, come se fosse proprio lì al posto del figlio.

C'era sempre quel vago sorriso sulle labbra dell'elfo.

Finrod sospirò. Tutto era troppo spaventoso, maledettamente affascinante e incredibilmente doloroso, ma qualcosa lo spingeva verso Silevril.

Masochismo, ecco cos'era. Istinto autodistruttivo.

< Bevi un boccale di vino con me, Silevil. >

< Speravo me lo chiedessi. >




















Mamma mia, è passato più di un anno da quando ho pubblicato l'ultimo capitolo di questa storia, spero davvero che non mi abbiate abbandonato tutti (me lo meriterei, effettivamente). Comunque, sono di ritorno, perché Silvril non è mai uscito dai miei pensieri e perchè non potevo lasciare incompiuta la prima storia interamente su di lui, quindi eccomi qua con questo nuovo capitolo, un po' cortino vero, ma devo riprendere la mano e trovare il tempo tra i vari impegni che la VitaVera mi impone.

A questo punto, dopo tutto questo tempo, le vicende probabilmente prenderanno una piega diversa da quella che avevo immaginato all'inizio, non saprei dirlo con sicurezza, la scaletta è ancora in fase di revisione ed è piena di cancellature, in ogni caso vedremo. Grazie a tutti voi che siete rimasti fedeli.



P.S. il titolo del capitolo è un verso di Love is Blindness degli U2 (ma ultimamente sono in fissa con la cover di Jack White che è altrettanto splendida).

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Capitolo 11
*** I sit and watch as tears go by ***



I sit and watch as tears go by





Non si ricordava di quanto potesse essere intensamente meravigliosa Minas Tirith al tramonto, quando le sue case e le sue mura candide si tingevano di rosso, come se l'intera città andasse a fuoco, e le persone diventavano improvvisamente frenetiche, correndo di qua e di là, cercando di sbrigare i loro affari prima che fosse buio. In quei momenti la capitale di Gondor sapeva essere magica, quasi che il retaggio della sua discendenza elfica la trasformasse in qualcosa che normalmente non era.

Galmoth si ritrovava ad amare quella città non sua, a desiderare di potersi fermare lì, di avere una piccola casa in uno degli anelli più esterni, confortevole e non troppo grande, con un caminetto in pietra e una finestra che dava sulla strada, una moglie amorevole ai fornelli che inondava le stanze con i profumi della cena... e Laer. Non riusciva a immaginare la sua vita senza di lei, senza la sua lunga treccia castana e le sue lentiggini, senza la sua voce squillante da bambina che rispondeva stizzita a qualche provocazione o che lo rimproverava. Sentiva un vuoto dentro di sé e aveva paura di poterci precipitare dentro e perdersi.

Sentire la sua voce, osservarla senza essere visto, era troppo dolce per non approfittarne, rimanendo nell'angolo più isolato di quella piccola osteria, mentre la ragazza stava seduta al bancone e rideva con la proprietaria, come se non ci fosse alcun problema.

Chi era lui per pretendere che Laer fosse triste? L'aveva tradita, le aveva mentito, non poteva avere il suo dispiacere, non se lo meritava.

Persino quella piccola gioia, spiare da lontano, era un piacere per cui si sentiva in colpa, ma non glie ne importava nulla. In quel momento voleva solo riempirsi gli occhi con l'immagine di lei per un'ultima volta.

L'indomani sarebbe andato in cerca degli emissari di Baran, si sarebbe preparato a macchiare definitivamente il proprio onore per riprendersi la sua vecchia vita, ma ora importava solo la ragazza che era tutto il suo mondo.




< Quindi, > disse Finrod osservandolo intensamente da sopra il bicchiere, < cosa ti ha portato a Minas Tirith? >

Silevril bevve un sorso di vino. Si sentiva trafitto dallo sguardo dell'elfo che gli stava di fronte, dalla potenza del suo spirito millenario.

< Volevo vedere le Case di Guarigione, > mentì, < il luogo in cui sono nato. >

Felagund posò il bicchiere lentamente, con una strana espressione negli occhi, come se sapesse che qualcosa non andava, ma questo pensiero non gli si era ancora affacciato in maniera chiara alla mente.

< Vuoi dire che intendi vederle prima di lasciare la Terra di Mezzo, > disse infine.

< Volevo attraversare il Mare, sì, ma ora non ne sono più sicuro. >

Finrod alzò un sopracciglio, sorpreso.

< No? Eppure hai lasciato tua madre e tuo padre per questo. >

< Non è destino di tutti? >

< Non sai con chi stai parlando, forse? La mia famiglia è tutto per me, e nella mia famiglia i legami di sangue sono sempre stati importanti... mio padre ha sacrificato tutto per suo padre e suo fratello, nonostante ciò che poi ne è seguito. >

< Andarmene non è stato un abbandono. Ma non potevo più rimanere. >

< Ah! >

Finrod sospirò pesantemente.

< Ecco, è come temevo. È sempre così, con lei, e lo temevo. Ascoltami, Silevril, so cosa si prova a voler fuggire da Alatariel e so cosa si prova a non riuscire a farlo. >

< No! > Silevril gridò quasi. Non credeva che Finrod Felagund potesse travisare le sue parole a quel modo, era stato così impegnato a non tradirsi, a non tradire Galmoth e il vero motivo per cui era a Minas Tirith, da aver dato un'impressione sbagliata. La cosa lo turbava più di quanto avrebbe pensato perchè desiderava ardentemente l'amicizia e la stima di quel potente signore degli elfi, ma non ne avrebbe potuto sopportare una dettata dall'incomprensione.

< No, sire, non è come credi. Io amo mia madre, la amo più di quanto si possa spiegare a parole, ma non è lei il motivo che mi spinge a dubitare. >

< Ah, Silevril, non ti rendi conto di quanto tu sia simile ad Aeglos. Appena ti ho visto mi sei sembrato la versione maschile di Alatariel, mi sei sembrato esattamente come lei era in Aman prima che l'oscurità piombasse su di noi e lei era giovane e allegra... ma mi sbagliavo e di lei non hai il colore dei capelli e una certa freddezza nei lineamenti. Ti guardo negli occhi e scorgo Aeglos, lo sento quando parli, sei lui nel modo in cui ti muovi e osservi il mondo intorno a te, nel modo in cui sei combattuto tra la volontà di essere onesto con me e il dovermi nascondere la verità. Hai la forza incredibile di tuo padre e come lui non capisci perchè quando parlo di Alatariel non riesco a parlarne bene. Mi dispiace, Silevril, ma ci sono cose che non sai e tua madre mi ha ferito più di quanto io possa perdonare. >

< Mia madre fa del male a coloro che ama e non se ne rende conto. >

< No, lei lo sa benissimo, ma non le importa. >

Questa volta fu Silevril a sospirare.

< Non se ne rende conto, non davvero. Non sa quanto profondamente riesce a far male perchè non sa quanto profondamente è amata. Perdonami, sire, ma non hai mai capito Alatariel se credi che lei sia crudele, no, lei è fragile e sola e fugge da coloro che ama perchè, da qualche parte dentro di lei, pensa che sia l'unico modo per farsi amare.

Naturalmente queste cose lei non le comprende, ma io sono stato in lei e il suo spirito è dentro di me, ricordo i suoi pensieri quando ancora non ero nato e tra noi due vi è un legame che non riesco a spiegare. Ed io sono lei e sono Aeglos, eppure non sono nessuno dei due. >

< Lo so, percepisco loro due in te, ma Aeglos è più forte in te e tu non pensi ad altro che al mare. >

< Sì, ci penso, ne sono quasi ossessionato. Il mare ha popolato i miei sogni per troppo tempo, ma ora non più. >

Improvvisamente Finrod rise e la sua risata parve strana a Silevril: era roca, esitante, come se non ridesse spesso. Era bella, pensò.

< E così siamo tornati al punto di partenza, mio caro Silevril. Perchè non vuoi più andare a ovest? >

< La mia situazione è cambiata. Ho conosciuto gli uomini, mi sono legato ad alcuni di loro... non lo credevo possibile, eppure li amo come non ho mai amato prima. Ho guardato quella nave e ho sentito che era per me, che era il mio destino, che era la cosa più bella che - > si interruppe improvvisamente.

Finrod si era chinato in avanti e lo stava fissando. Si sentì invadere da quello sguardo e non poteva sottrarsi. La voce dell'elfo gli rimbombava nella testa.

Quale nave, Silevril?



Galmoth era così intento a osservare ogni più piccolo movimento di Laer, cercando contemporaneamente di non farsi vedere da lei, che non si accorse della donna che gli si era avvicinata, non prima che questa sbuffasse sonoramente.

< Non ho tutta la sera, tesoro. >

Le rivolse lo sguardo, come svegliato improvvisamente. Era una bella donna, nonostante non fosse più giovanissima, sui quarant'anni, dalla pelle lattea come quella di una gran dama, i capelli corvini racolti in una crocchia, alta e statuaria.

Sarebbe davvero potuta passare per una signora di nobile nascita, se non fosse stato per le sue mani callose o i lineamenti duri da popolana.

Non riuscì a evitare a se stesso di trovarla attraente, pur in uno stato d'animo come il suo.

La donna seguì il suo sguardo e sorrise sarcastica notando Laer seduta al bancone, intenta ad addentare con poca grazia un pezzo di pane.

< Carina, vero? > ammiccò, < ma non credi di essere un po' troppo anziano per lei? >

< Dici? >

< Potresti essere suo padre. >

Una risata amara sfuggì dalle labbra di Galmoth. Aveva voglia di piangere in quel momento, ma tutto ciò che riusciva a fare era lasciarsi andare all'amarezza.

< Forse hai ragione, > disse.

Lanciò un'ultima occhiata verso Laer e la vide posare due monete accanto al suo piatto, ormai vuoto, e uscire dal locale senza guardarsi intorno.

Sospirò, sentendo il groppo che aveva in gola farsi più pesante. Si rivolse alla donna con un tono secco e incredibilmente lugubre.

< Portami una bottiglia del tuo miglior vino del Lebennin. >



Vide Silevril irrigidirsi, chiudersi come uno di quegli instetti che si appallottolano su se stessi appena vengono sfiorati.

Tentava di scrutare nella sua mente ma era difficile, il muro di impenetrabilità che il giovane elfo aveva eretto, senza nemmeno rendersene conto, era solido come le mura di Minas Tirith.

Era straordinario come riuscisse a fare una cosa del genere e questo non fece che aumentare l'amore che nutriva per lui.

Finrod non riusciva a controllarsi, era completamente in balia di quel giovane, del tutto preda del fascino che Silevril sembrava emanare intorno a sé. Era spaventato dalla sua intrusione mentale, mentiva spudoratamente, voleva nascondergli a tutti i costi i pensieri del suo cuore, ma ogni cosa in lui esprimeva sicurezza, sfontatezza e una punta quasi impercettibile di crudeltà.

Oh, era tutto ciò che Alatariel avrebbe voluto essere, tutto ciò che Aeglos non era potuto diventare, schiacciato dal suo stesso masochismo. Silevril era il figlio della follia ed era di una luminosità che Finrod non aveva mai visto prima, come se la luce dei dei due Alberi fosse impressa dentro di lui.

Voleva sapere, voleva conoscerlo, voleva che gli dicesse la verità.

Perché sei qui? Perché non sei andato all'Ovest?

< Non sei stato del tutto sincero con me, Silevril, > continuò ad alta voce, < hai conosciuto degli uomini, mi dici, uomini che ti hanno fatto dubitare del tuo proposito, che ti hanno fatto venire qui. Chi sono questi uomini? Dove sono? >

L'elfo si passò nervosamente una mano tra i capelli con un gesto meccanico.

< Li ho lasciati a Dol Amroth, credevo che venire qui dove sono nato mi avrebbe aiutato nel chiarirmi le idee. >

Menzogne, mezze verità, nient'altro.

Finrod sospirò, versandosi dell'altro vino e bevendolo d'un fiato. Lo feriva il fatto che non volesse aprirsi con lui, che non volesse parlargli dei suoi dubbi e del suo amore per gli uomini. Era pur vero, ricordò dolorosamente, nonostante la vicinanza che sentiva, nonostante il suo amore, che per Silevril lui era poco più che un estraneo, una leggenda emersa dai libri di storia e dai racconti pieni di odio di sua madre.

E vi era anche la possibilità che il motivo per cui Silevril era lì, per cui non voleva parlare degli uomini che aveva conosciuto o di se stesso, era che i suoi propositi non erano dei più puri.

Finrod rabbrividì a quel pensiero, ma non riusciva a far andare via la sensazione che Silevril avesse ereditato da sua madre il gusto nell'infrangere la legge.

< Spero di reincontrarti presto > gli disse, forzando un sorriso.

Il giovane lo ricambiò, visibilmente sollevato; nonostante la freddezza dei suoi lineamenti non lasciasse trasparire nulla, i suoi occhi sembravano gridarlo.

Si alzarono e Silevril si inchinò leggermente.

< Sono felice di averti conosciuto, sire. >

< Voglio che tu mi consideri sempre tuo amico, ti ho visto nascere e conoscere ora colui che sei diventato mi riempie di gioia. >

Gli si avvicinò e lo baciò sulla guancia.

< Namarie, Silevril, > disse e lo guardò uscire dalla porta con una stretta al cuore.

Cosa stava facendo?



Il sole era tramontato dietro il Mindolluin, lasciando il posto a una luna luminosa nella sera chiara e fresca, piena di stelle. Molte fiaccole illuminavano le strade e ancora qualche abitante di Minas Tirith si attardava alla loro luce rossastra, camminando in fretta verso casa o dirigendosi ridendo verso una delle cantine delle cerchie più esterne.

Laer si strinse nel mantello, rabbrividendo leggermente per il venticello pungente che giungeva da nord e si insinuava fin dentro le sue ossa, come piccole lame appuntite. La padrona della locanda in cui aveva mangiato le aveva consigliato un piccolo albergo, tenuto da un suo parente, nella prima cerchia, dove avrebbe potuto trovare un letto e anche un buon cavallo l'indomani mattina ed era proprio lì che si stava dirigendo. Continuava a guardarsi intorno, terrorizzata dall'idea di trovarsi faccia a faccia con Silevril o, peggio, Galmoth. Desiderava solo dormire e dimenticare per qualche ora la delusione.

Era così concentrata in questo proposito che non si accorse quasi dell'uomo che gli stava davanti fin quando questo non l'afferrò per un lembo del mantello.

< Qualche moneta, signore, qualche moneta per un pover'uomo che muore di fame? >

< Non ho monete per te > rispose brusca, cercando di divincolarsi, ma il mendicante le bloccò il passaggio, guardandola storto da sotto i capelli lunghi e incrostati di sporcizia.

< Nemmeno un po' di pane? >

Laer si stava spazientendo e tentò di spostarlo con un braccio, ma quello la afferrò. Fece per voltarsi e cambiare strada, ma un altro uomo glie lo impedì, arrivandole alle spalle.

Era alto e aveva il volto nascosto da un ampio cappuccio.

Ci mise qualche secondo a realizzare di essere intrappolata e che sicuramente quei due non erano veri mendicanti ma piuttosto briganti che le tendevano un'agguato.

Non ricordava di aver mai avuto tanta paura in vita sua. Sembravano giganti in confronto a lei e la presa del primo sul suo polso era ferrea.

< Non ho denaro con me > disse, sperando che l'avrebbero lasciata stare una volta sfumata la possibilità di una rapina.

Si guardò freneticamente intorno ma improvvisamente la città sembrava essere diventata deserta e i pochi ritardatari scomparsi.

< Non è il denaro che vogliamo da te, ragazzina. >

Il sorriso sul volto sudicio dell'uomo era percepibile anche se non lo vedeva. L'altro rimaneva immobile e nascosto dietro il cappuccio.

Laer agì in un attimo, tirò una gomitata e si chinò per estrarre il pugnale che teneva nello stivale, poi si voltò e con un gesto rapido sfregiò la guancia del finto mendicante che con un urlo cascò all'indietro.

Si mise a correre più veloce che potè, ma il secondo bandito, quello alto e in ombra, scattò veloce alla sua rincorsa e in pochi sedondi la raggiunse, tappandole la bocca con una mano.

Laer lo morse a sangue, ma quello la schiaffeggiò, facendola rovinare a terra, stordita alla violenza di quel colpo. Il suo pugnale era caduto lontano da lei e l'uomo lo prese.

Era durato tutto pochi minuti e nessuno era accorso, nessuna casa si affacciava su quella strada.

I suoi assalitori avevano scelto bene il luogo dell'agguato.

Tentò di rialzarsi, ma la testa le girava e i due le si avvicinarono, l'uno con il grosso taglio sanguinante sul volto furioso, l'altro ora con il cappuccio abbassato che lasciava vedere un'espressione dura e impassibile.

< Non provare a gridare > le disse < o dovrò farti del male. >

< Non ho denaro con me, non ho nulla che possiate volere. >

Le veniva da piangere, si sentiva indifesa e nuda senza il suo pugnale e doveva fare molta fatica per concentrare le parole oltre il ronzio che sentiva nella testa.

< Oh, ma certo che c'è qualcosa che possiamo volere da te, cara Laer. >

L'uomo alto si avvicinò ulteriormente, chinandosi verso di lei con un sorriso freddo che le diede i brividi.

< Sì, davvero > ridacchiò l'altro.

Un secondo colpo e Laer non vide né udì più nulla.











Eccomi, sono viva e vegeta! Questo capitolo mi ha fatto penare non poco ma alla fine è arrivato e ne sono persino soddisfatta. Come al solito grazie a tutti, chi legge e chi recensisce, mi fa sempre tanto piacere. Alla prossima!


P.S. il titolo è un verso della meravigliosa As tearso go by degli Stones

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Capitolo 12
*** Hold your breath and count to ten (parte prima) ***




Hold your breath and count to ten (parte prima)




Laer si svegliò di soprassalto, bagnata fradicia e tremante, legata a una sedia con delle corde robuste. Si sentiva rabbrividire.

Intorno a lei vi era una luce fioca, solo un paio di lampade a olio in un angolo, nessuna finestra a indicare se fosse notte o giorno.

I due uomini che l'avevano rapita erano in piedi davanti a lei. Uno reggeva un secchio vuoto, evidentemente glie lo aveva svuotato addosso per svegliarla, l'altro, quello alto, se ne stava poco più indietro a braccia conserte.

< Ti consiglio di rimanere calma, Laer, urlare non ti servirà a nulla e renderà solo tutto più difficile. >

Laer annuì. Aveva paura, ma il cieco terrore che l'aveva assalita nel momento del rapimento era scomparso e si sentiva incredibilmente lucida. Ogni suono le arrivava amplificato, ogni singolo dettaglio della stanza si imprimeva nella sua mente. Osservò suoi rapitori: uno dei due aveva ancora addosso i vestiti da mendicante, i capelli lunghi e luridi, un ghigno volgare sulla bocca sottile; l'altro era alto e biondo, lo si sarebbe potuto definire di bell'aspetto, con la barba rada e gli occhi azzurri limpidi... era lui che le faceva più paura.

< Cosa volete da me? > chiese. La voce le uscì più ferma di quanto pensasse, quasi dura.

< Tu ci chiedi cosa vogliamo? > disse quello, con l'accento leggermente ruvido tipico di Rohan.

Rise. < Andiamo, Laer, sei una ragazza sveglia, non insultarmi fingendoti ingenua. >

Si avvicinò, chinandosi su di lei. Riusciva a sentire il suo fiato sul collo.

< Dov'è, Laer? Dov'è il Tesoro? >

< Non so di cosa tu stia parlando. >

Il malrovescio le arrivò forte e inaspettato, seguito dalla mano forte dell'uomo che le afferrava la treccia. Le tirò la testa all'indietro violentemente e il dolore al collo le fece venire le lacrime agli occhi.

< Dov'è il Tesoro di Ulmo? > chiese ancora.

La lasciò andare con uno strattone e si voltò verso il suo compagno.

< Riempi il secchio > disse calmissimo.

Laer riflettè rapidamente: chi aveva il Tesoro? Baran, o i suoi uomini... e Galmoth? Avrebbe potuto benissimo dire tutto quello che volevano sapere, se solo Galmoth non fosse stato coinvolto. Per un istante il pensiero di tradirlo, di fargliela pagare, le attraversò la mente, ma non era vendetta che voleva... non sapeva nemmeno lei cosa volesse, se non che in quel momento desiderava essere altrove.

I secchio fu riempito e il rohirrim estrasse un lungo coltello e le si avvicinò.

< Stai ferma o lo userò per sventrarti dalla pancia alla gola > minacciò.

Tagliò le corde che la immobilizzavano alla sedia e le prese i polsi, tenendoli con una presa ferrea nella sua mano. Si sentiva minuscola, una bambola di pezza in mano a un gigante.

L'altro uomo prese le corde e le legò nuovamente i polsi dietro la schiena. La strattonarono finchè non si ritrovò sulle ginocchia, il secchio pieno d'acqua e ghiaccio davanti a lei nero e spaventoso.

Laer ci mise un attimo a capire cosa sarebbe successo e tentò di divincolarsi, ma i due uomini la tenevano stretta.

< Stai calma. Laer! Guardami! > il rohirrim le prese il viso e la costrinse a guardarlo. < Non voglio farti male, ragazzina, ma tu devi dirmi dov'è il Tesoro di Ulmo. >

< Non lo so > rispose, il panico che minacciava di farla uscire fuori di testa.

< Sì, sì, lo sai, io so che lo sai. >

La voce dell'uomo era estremamente calma e aveva l'effetto di terrorizzarla più che se lui avesse gridato.

< No, non lo so... no! >

Le spinsero la testa nel secchio, immergendola completamente nell'acqua. Era gelida e sembrava che mille lame le investissero la faccia. Tentò di gridare, ma inghiottì lunghe sorsate. Si sentiva soffocare.

Le sembrò di restare sotto per ore intere e quando credeva che sarebbe stato troppo, la tirarono su. Respirare fu meraviglioso e allo stesso tempo fu una sofferenza insopportabile quasi quanto affogare.

< Dov'è il Tesoro di Ulmo? >

Laer respirò rumorosamente. Non si sentiva più il naso a causa dell'acqua ghiacciata e ogni respiro faceva male.

Non era pronta e non aveva preso fiato, quando la rispinero sott'acqua. Tentò di reagire, ma aveva le mani legate e i due uomini erano molto più alti e più forti e la tenevano talmente stretta che non riusciva praticamente a muoversi.

Sapeva che aveva bisogno di respirare, ogni muscolo del suo corpo gridava per la carenza di ossigeno. Il tempo sembrava passare con una lentezza incredibile e la sua mente si estraniava sempre più da se stessa, finchè tutto finì nuovamente e lei respirava di nuovo, anche se aveva iniziato a tremare violentemente per il freddo.

< Non voglio farti male, Laer, > ripeté il suo aguzzino con la stessa voce calma e l'accento di Rohan così anacronistico su di lui, < ma devi dirci dove si trova. Non esiste niente di più importante, capisci? Il futuro dipende da te, da quello che deciderai di fare. >

< Non ho idea di dove si trovi il Tesoro di Ulmo > ansimò. La voce era rauca e la gola le bruciava. < Non so nemmeno che aspetto ha questo maledetto Tesoro di Ulmo! >

L'uomo sospirò, poi la lasciò andare e si alzò in piedi. L'altro prese il secchio e uscì da una porta che Laer non aveva notato.

< Non siamo noi i cattivi, ragazzina, mi dispiace dover arrivare a questo. >

Si avviò verso la porta, ma prima di chiudersela alle spalle si voltò.

< Ne vale davvero la pena? Pensa a questo. >

La porta si chiuse e un suono metallico indicò che era stata bloccata con dei catenacci.

Laer rimase sola sul pavimento, le mani legate dietro la schiena, fradicia e tremante.




Era rimasto per tutta la notte in giro per la Città, senza una meta precisa, mentre i suoi pensieri vagavano. A un certo punto credeva di essersi addormentato, perchè di fianco a lui c'era sua madre: “Non puoi fidarti di Finrod Felagund” diceva “sei stato uno sciocco ad aprirti così con lui”

Non volevo che sapesse” aveva ribattuto e alle sue orecchie la frase suonò come il capriccio di un bambino “ma lui era così potente!”

Non ricordava cosa avesse risposto sua madre, ma aveva sentito distintamente la sua risata che lo derideva.

Alla luce limpida del primo sole, quei sogni gli apparivano grotteschi e irreali, solo una delle visioni ad occhi aperti che la sua mente gli mandava per farlo riposare, unite alla mancanza spasmodica che sentiva per Alatariel.

Si sentiva ansioso per quello che era accaduto, ma non poteva soffermarsi a pensarci. Doveva trovare Galmoth, avevano qualcosa da fare e prima avrebbero risolto la questione con gli uomini di Baran, prima avrebbe lasciato quella città. Era già stanco di Minas Tirith, aveva creduto di poterla amare, ma tutta quella roccia lo opprimeva e desiderava il mare.

La strada che portava alle mura era ancora semideserta per via dell'ora, solo alcuni soldati si dirigevano stanchi verso la colazione dopo una notte di guardia e qualche contadino la attraversava diretto verso le porte, per raggiungere i campi coltivati sul Pelennor e sulle pendici del Mindolluin.

Quando arrivò sul camminatoio, si diresse verso il punto in cui si erano lasciati la sera prima, cercando di non pensare a Finrod, di scacciare quel desiderio inconscio di vederlo ancora.

No, era pericoloso, non doveva nemmeno pensarci, avrebbe potuto mettere in pericolo Galmoth e tutti gli altri, forse persino Laer, anche se era molto probabile che la ragazza fosse già andata via da Minas Tirith.

Si appoggiò al parapetto in pietra e i suoi occhi spaziarono sulla piana sottostante, attraversata dall'Anduin. Il Grande Fiume sembrava costellato di diamanti, e sforzando la vista gli sembrava quasi di scorgerne la foce in lontananza.

< Sei dannatamente prevedibile, elfo. >

Silevril sorrise quando Galmoth gli arrivò alle spalle.

< Ti ho aspettato per molte ore prima di rendermi conto che nessuno dei due sapeva dov'era l'altro. Alla fine ho smesso di aspettare e sono andato a dormire. >

< Sapevo che era inutile, Capitano, sapevo che mi avresti trovato da solo. >

Si voltò.

L'uomo lo scrutò attentamente, assumedo un'espressione seria.

< Hai un aspetto orribile, elfo, hai dormito? >

< Noi non abbiamo bisogno del sonno dei mortali > ribatté, < mi sento perfettamente bene, la tua è solo un'impressione. >

Aveva mentito e lo sapeva, ma non voleva parlare dei suoi sogni, del suo incontro con Felagund e di come poteva aver compromesso ogni cosa. Il pensiero di aver deluso il suo Capitano era niente in confronto a quello di aver deluso il suo amico. Non voleva vedere lo sguardo di Galmoth che lo giudicava debole.

Silevril si affiancò all'uomo, prendendo a guardare le pianure del Pelennor, i campi coltivat che si stendevano per miglia nella foschia del mattino, l'Anduin scintillante al sole.

Da qualche parte nascosta alla vista, la Stella se ne stava placida e tranquilla, aspettando loro due. Avrebbe voluto lasciare tutto e tornare sulla nave. Prendere Galmoth e semplicemente navigare, navigare come faceva con suo padre, senza alcuna meta, solo per il gusto di farlo, per il piacere di sentire il mare intorno a sé e le onde sotto la chiglia. Dimenticare tutto, ecco cosa voleva.

Ma Galmoth non avrebbe mai acconsentito e, più di qualsiasi altra cosa, persino del Mare, voleva la compagnia di quell'uomo.



***



Eccomi qui! Sono viva, sì, non temete, è che il tempo per scrivere è talmente poco e io sono talmente schizzinosa sotto questo punto di vista che non riesco mai a mettermi con la giusta predisposizione d'animo e il giusto silenzio, inoltre sono una che scrive di notte e tra esami, vita sociale (!) e il computer che mi abbandona proprio è difficile.Quindi, dato che probabilmente andrò avanti così ancora un mesetto ho deciso di dividere questo lungo capitolo in due parti, dato che la prima parte è pronta da un bel po', vediamo quando riesco a farvi avere anche la seconda.


P.S. il titolo questa volta è preso dalla bellissima “Skyfall” di Adele.

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Capitolo 13
*** Hold your breath and count to ten (parte seconda) ***




Hold your breath and count to ten (parte seconda)





Forlond inspirò fumo dalla lunga pipa che tringeva tra le labbra, in silenzio, l'espressione corrucciata e le braccia conserte.

Non riusciva a trarre piacere nemmeno dalle sue migliori foglie di Pianilungone, quelle che teneva gelosamente conservate e che tirava fuori solo nelle occasioni speciali. E quella, maledizione, era un'occasione speciale.

Corrente a sfavore, vento contrario, e la maledettissima Cair Andros proprio davanti a lui, con le sue rocce aguzze che si stagliavano minacciose sul pelo dell'acqua a ricordargli quanto l'Anduin fosse infido. Lui detestava il fiume con tutto se stesso.

Una ciotola di zuppa bollente entrò di prepotenza nel suo campo visivo, facendolo sobbalzare. Conn era accanto a lui e gli porgeva quella che aveva tutta l'aria di essere la miglior zuppa dell'intera carriera culinaria di quel dannato Rohirrim, eppure Forlond al solo guardarla si sentiva rivoltare le budella. Grugnì.

< No, no, no, > disse Conn, con il suo accento leggermente strascicato, < devi mangiare, mellon nin. >

< Preferisco fumare, > ribatté Forlond, e per dare maggiore enfasi alle sue parole sbuffò altro fumo proprio nella ciotola che l'altro gli porgeva.

< Sei un uomo che porta rancore, lo sai vero? >

< Certo che lo so, e toglimi questa dannata brodaglia da sotto il naso! > Allontanò bruscamente il braccio del Rohirrim, rovesciando il contenuto della ciotola sul ponte della Stella Marina.

< Quel bastardo di Galmoth se ne va in giro a tramare colpi di stato e mi manda a Nord per proteggere la sua bagnarola, come se fossi un mozzo qualsiasi! >

Conn scosse la testa, poggiò di lato il piatto ormai mezzo vuoto, e gli si avvicinò, appoggiandosi con disinvoltura sulla sua spalla.

< Sì, e ti paga anche un bel gruzzolo per questo, altrimenti te ne saresti già andato da un pezzo. Ho torto, Forlond? >

Il mercenariò ghignò e un dente d'oro luccicò nel suo sorriso storto.

< Sei un maledetto bastardo di uno stalliere, Conn. >

Il volto del cuoco era aperto e gioviale, sotto i lunghi capelli biondi.

< Lo so, mellon nin, anche io ti voglio bene. >

Gli tolse la pipa di bocca e diede una lunga tirata a sua volta.

< Hai sempre il tabacco migliore, devo dartene atto. >

Forlond glie la strappò via dalle mani, riprendendosela con uno strattone, ma stava sorridendo.

< Bastardo e ladro anche. >

Conn rise.






Il problema di Galmoth in quel momento è che avrebbe davvero desiderato sapere cose passava per la testa di quell'elfo, ma cercare di decifrare cosa stesse pensando o provando era praticamente impossibile.

Aveva sì l'aspetto di uno a cui avrebbbe fatto bene una bella dormita, ma per il resto avrebbe potuto essere una statua di marmo per quanto poco espressivo risultava.

Era una cosa che lo faceva impazzire, e che allo stesso tempo lo stuzzicava come non mai. Decise che avrebbe svelato il mistero Silevril, perchè altrimenti avrebbe pensato a Laer e non era sicuro di potercela fare.

Poi notò la ragazzina. Non più di una bambina, dieci anni al massimo, piccola e sporca, che li osservava intensamente senza nemmeno tentare di nascondersi.

< Sì > disse Silevril, < ci sta guardando e si sta chiedendo se siamo davvero noi. >

< Leggi anche nel pensiero ora, elfo? >

Silevril non si prese nemmeno la briga di rispondere, lo liquidò semplicemente con un sorrisetto dei suoi, uno di quelli che volevano dire tutto e niente e che Galmoth ormai associava al suo amico.

< Bene allora > disse infine, prendendo l'iniziativa, < dato che non vuoi dirmi nulla faremo a modo mio. >

Si avvicinò alla ragazzina a passo deciso, ma quella non si mosse nè distolse lo sguardo.

< Cos'hai da guardare, piccola? > le chiese.

Lei alzò un sopracciglio.

< Sto cercando un uomo di nome Galmoth e mi avevano detto che era accompagnato da un elfo che si dava delle arie. Non ho visto molti elfi io, cercavo di capire se lui si dava delle arie oppure no. >

< E cos'hai concluso? >

< Non lo so, non ne sono sicura. >

< Ma io sono Galmoth. >

La ragazzina lo fissò per alcuni secondi, studiandolo dalla testa ai piedi, poi lanciò un rapido sguardo a Silevril che, nel frattempo, si era avvicinato a loro.

< Seguitemi > disse infine e, voltandosi senza aggiungere altro, iniziò a camminare a passo svelto verso la parte più interna della Cittadella.

Galmoth la seguì, Silevril al suo fianco, con il cappuccio sul capo, silenzioso.

Minas Tirith, nel suo cerchio più alto, era come un labirinto di viottoli stretti, fatti di pietra, dove il sole sembrava non riuscire a penetrare mai del tutto.

Salirono e scesero molte scale, passarono sotto archi di pietra bianca, attraversarono piccoli cortili su cui si affacciavano molte case, fino a che non si ritrovarono davanti a un portoncino di legno massiccio.

La ragazzina bussò tre volte di seguito e poi una quarta, più lentamente. Attesero, il silenzio che faceva risaltare le voci della città che sembravano echeggiare per quelle viuzze.

E poi, finalmente, la porta si aprì e loro entrarono in quella che era, senza ombra di dubbio, una casa da ricchi.

< Seguitemi > disse gentilmente un giovane valletto, vestito finemente di velluto bianco. Li precedette lungo un corridoio illuminato da molti candelieri, fino a una porta elegante. Il giovane entrò, lasciandoli soli in quella che sembrava un'anticamera.

Galmoth si voltò e vide gli occhi dell'elfo saettare in ogni direzione, come se tentasse freneticamente di memorizzare ogni particolare dei muri, del soffitto, del pavimento. Aveva le labbra serrate.

< Stai calmo > gli intimò in un sibilo, < sei teso come un maledetto arco! >

Silevril lo fissò.

< Niente è come mi ero aspettato, > disse, < questa casa è... > si interruppe di scatto appena il valletto tornò.

< La signora vi aspetta, > annunciò, tenendo la porta aperta.

Galmoth entrò per primo e per poco non gli venne un colpo.




Silevril trattenne il respiro, sentendosi quasi mancare.

La donna che gli stava di fronte era bellissima, di una bellezza che non aveva mai visto e che non credeva possibile: non era eterea e dura, come sua madre, non era solare come Laer, non era nemmeno prorompente come quella che aveva notato in molte delle donne di Dol Amroth... l'unica parola che gli veniva in mente era ammaliante.

Non riusciva a smettere di guardarla, non riusciva a respirare, si sentiva la bocca secca come se non bevesse da giorni, poteva solo guardarla, guardare i boccoli rossi che le incorniciavano il viso, come una fiamma dotata di vita propria, lunghi e morbidi, e la pelle diafana, gli occhi verdissimi e le labbra piene e leggermente rosate.

Teneva tra le braccia un gatto dal pelo folto e candido, che faceva pigramente le fusa con il muso poggiato su una sua spalla.

< Benvenuti, miei ospiti, sono Rùth > disse con un sorriso, e la sua voce era dolce come miele e melodiosa, < ero ansiosa di incontrarvi. Galmoth, ho sentito a lungo parlare di te e credo che non potrei essere più felice di vederti finalmente di persona. > Rùth sorrise e Silevril vide la mascella di Galmoth irrigidirsi.

Poi lei si voltò dalla sua parte e gli si avvicinò.

< Silevril, un nome insolito, portartore di grande speranza o grande dolore. Lunghe e sanguinose guerre sono state combattute per i Gioielli di Fëanor, > appoggò una piccola mano affusolata sul suo braccio e gli parve rovente, < sono sicura che con una tua sola parola tu potresti scatenare una guerra ancora più violenta... ah, se solo lo volessi potresti avere chiunque ai tuoi piedi e governare sui cuori della gente. >

Improvvisamente si allontanò da lui e si mise a sedere su un divano, spostando il gatto dalla spalla al grembo, senza che l'animale smettesse mai di fare le fusa.

< Ma vi starete chiedendo perchè siete qui. > Il tono di voce di Rùth cambiò e divenne pratico, più adulto e meno sognante. Silevril si sentì come risvegliato da un incantesimo.

< Immagino che tu sia il contatto di Baran in Città, > disse Galmoth. La sua voce era roca e, Silevril lo sapeva, anche lui era ancora scosso dallo stato di trance in cui la bellezza della loro ospite li aveva gettati.

< Baran è un amico leale, un uomo a cui affiderei la mia stessa vita, > disse lei, < lui ha rubato il Tesoro di Ulmo per me ed io glie lo renderò... dopo aver raggiunto i miei scopi, naturalmente. >

< I tuoi scopi? Rovesciare il Re, favorire gli interessi dei mercanti di Erba Pipa, non mi sembra il genere di scopi che una signora possa coltivare. >

Rùth rise, un suono cristallino che riaccese l'incantesimo. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso e riusciva a sentire il respiro affannoso di Galmoth accanto a lui, a indicare che anche il suo Capitano faceva molta fatica a concentrarsi su qualcosa che non fosse la straordinaria bellezza della donna.

< Il denaro è uno scopo comune a molti, mio adorato Galmoth, ed io non sono che una portavoce di un movimento più ampio. >

< Perchè siamo qui, mia signora? > si intromise Silevril. Si sentiva inquieto, completamente abbagliato da quella donna tanto da dubitare di se stesso. Voleva andare via da quella stanza, allontanarsi da lei, anche se il solo pensiero gli provocava una sofferenza quasi fisica.

Il gatto bianco aveva preso a fissarli con i suoi occhi blu, come se volesse scrutare le loro anime.

< Il Tesoro di Ulmo non è più in mio possesso, ormai, ma è stato rubato. Aihmé, non conosco l'identità del ladro, ma molte opposte fazioni si contendono il suo potere. >

< Governa il Mare e governerai Gondor > mormorò Galmoth.

< Esatto. > Ruth rivolse il più dolce dei sorrisi verso di loro. < Torna con il Tesoro, Gamoth, portalo da me ed io te ne farò dono, che tu possa restituirlo al Principe in cambio delle tue navi. E tu, Silevril, qualsiasi cosa brami il tuo cuore io ti darò. Tornate da me con il Tesoro di Ulmo e il nuovo Re di Gondor vi ricompenserà. >

Rùth tacque e la porta alle loro spalle si aprì quando entrò lo stesso valletto di prima.

< A presto, miei Signori. >

Era un congedo. Silevril seguì Galmoth nel corridoio da cui erano venuti, una sensazione di perdita che si faceva largo in lui. Gli sembrava di aver perduto qualcosa di inestimabile, ora che Rùth era da un'altra parte, e i suoi sensi di colpa tornarono a farsi sentire, così come lo sgradevole seppur violento desiderio di rivedere Finrod Felagund. Per lunghi e meravigliosi minuti non c'era stato altro che Rùth nella sua mente, i capelli rossi e la curva del viso, la sensualità delle sue labbra. Eppure era come se non riuscisse a ricordare esattamente come fosse fatta, nonostante non fossero passati che pochi istanti da quando aveva lasciato la sua presenza.

Uscirono in strada e si incamminarono fianco a fianco verso la piazza dell'Albero Bianco, in silenzio.

Infine fu Galmoth a parlare per primo.

< Cosa ne pensi, elfo? >

< Non so cosa dirti, Capitano, se non che lei era bellissima. >

< Bellissima? > Sbuffò, < non ho mai visto niente di più bello in tutta la mia miserabile vita, ma mi ha spaventato a morte. >

Silevril alzò un sopracciglio, ma non rispose.

< Ho i brividi al solo pensiero, non so come puoi startene lì tutto impettito, ma come accidenti vi fabbricano a voi, eh elfo? >

< Ho provato inquietudine, > disse infine, lentamente, < in un certo senso mi ha ricordato... no, lascia perdere. >

< Chi? >

< Nessuno. >

No, non era assolutamente così, era solo che lui non riusciva a dissociare l'idea di bellezza da lei, non riusciva a vedre nessuna donna senza che il pensiero di lei gli si palesasse alla mente. Se ne vergognava, ma non riusciva ad evitarlo, una delle troppe maledizioni che sua madre scagliava su chi aveva avuto a che fare con lei.

Era però innegabile che non si era mai sentito così inquieto eppure in pace come con Alatariel e ora con Rùth... che incantesimo era mai questo?

< Mi sembrava di essere incatenato a lei, > ricordò, < qualsiasi cosa mi avesse chiesto, io l'avrei fatta. >

< E continuava ad accarezzare quel gatto. Te lo giuro, elfo, non ho mai voluto qualcosa come essere quel dannatissimo gatto. >

Già, si disse Silevril, mentre un brivido gli attraversava la schiena, facendogli drizzare tutti i peli del corpo, poi c'era il gatto.




Laer si sforzò di non battere i denti, invano. Tremava da capo a piedi, dopo essere stata ancora una volta immersa nell'acqua gelida, senza che riuscisse a smettere. Il freddo le penetrava fin dentro le ossa, ma doveva assolutamente smettere di battere i denti.

Non sapeva da quanto tempo fosse lì, potevano essere ore, giorni, persino mesi, tutto ciò che poteva dire era che i suoi rapitori erano venuti tre volte e ogni loro visita aveva significato acqua gelida e un bruciore intenso ai polmoni che dubitava sarebbe mai scomparso, ma di una cosa era sicura, ovvero che non c'erano mai stati rumori.

Quando sentì il clangore delle spade e voci confuse, Laer trattenne il fiato. Potevano essere nemici, potevano essere i suoi salvatori, poteva accaderle di tutto, ma non aveva scelta. Quando era bambina e la morte di suo padre le dava gli incubi, Galmoth le accarezzava i capelli e le diceva di contare fino a dieci, che in quel lasso di tempo ogni cosa sarebbe andata a posto. Quando era bambina funzionava e, dopo dieci secondi, i suoi incubi sparivano nell'oblio.

Ora era adulta, ma non si era mai sentita tanto indifesa e impaurita prima, come se fosse ancora quella bambina in preda agli incubi.

Laer trattenne il fiato, chiuse gli occhi, e iniziò a contare.















Eccomi! Salve a tutti, se è rimasto qualcuno a seguire questa storia (sì dai, qualche numerino nella casella delle visite ci sta) si inizia a entrare nel vivo (e finalmente, direte voi), mi è persino tornata la voglia i scrivere, cosa non da poco dato che è più o meno un anno che ero psicologicamente bloccata. Magari fatevi sentire, che qualche motivazione in più non fa mai male, che ne dite?


Thiliol

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Capitolo 14
*** Touching you makes me feel alive ***


Touching you makes me feel alive




Estrasse la lama dal ventre dell'uomo che giaceva ai suoi piedi. Non avrebbe voluto ucciderlo, ma non aveva avuto altra scelta. Due dei suoi soldati stavano legando il secondo uomo che si dibatteva imprecando.

La casa era grande e vuota e non vi era nessun altro oltre quei due, ma Finrod Felagund sapeva bene che quello non era che l'apice, che vi era molto altro da scoprire. Quella casa era solo un gioco di ombre e lui si era fatto trasportare dalla fretta, dal desiderio di fare qualcosa, ma così facendo si era fatto sfuggire l'occasione di andare più a fondo.

Cosa stava succedendo in quella Città?

Scese le scale verso le cantine, formate da un corridoio che dava su tre diverse stanze chiuse da pesanti porte di legno massiccio.

Le aprì cautamente, ma le prime due erano vuote. Si diresse verso l'ultima, in fondo, con la spada sguainata davanti a sé che brillava leggermente nel buio. Era chiusa.

Con un colpo secco dell'elsa frantumò la serratura e diede un calcio al battente, che si aprì di scatto con un cigolio sinistro.

Finrod rimase lì, come immobilizzato, fissando la figura della ragazza rannicchiata sul pavimento, le mani sulle orecchie e gli occhi chiusi. Sembrava trattenere il respiro e quando le si avvicinò lei parve ritrarsi, anche se non si era mossa. La illuminò con la lampada che prese dalla parete.

Era molto giovane, anche se non avrebbe saputo dire quanto esattamente, con lunghi capelli ramati raccolti in una treccia scomposta e la pelle del viso pallida e coperta di efelidi. Era bagnata fradicia e tremava visibilmente.

Si accovacciò di fronte a lei, scostandole le mani dalla testa e la ragazza aprì gli occhi, fissandolo come se non riuscisse a credere a ciò che vedeva.

< Non aver paura, > le disse dolcemente, < sono il Capitano delle Guardie della Cittadella, sei al sicuro con me. >

La ragazza continuava a fissarlo, senza parlare e senza muoversi.

Dietro di lui sentì i passi dei suoi uomini che entravano a loro volta.

< Datemi un mantello > ordinò, e subito uno di loro si fece avanti.

Lo passò intorno alle spalle della ragazza e la strinse, riscaldandola. Le sue braccia sembravano pezzi di ghiaccio e le labbra erano bluastre.

< Come ti chiami? > le chiese.

Lei non rispose, ma dalle sue labbra uscì un lungo sospiro e poggiò la testa contro di lui.

La prese in braccio, leggera come una bambina, e si voltò verso l'uscita.

< Laer > mormorò la ragazza, flebile.

< Laer? >

< Mi chiamo Laer. >

Improvvisamente il suo intero corpo si rilassò e la sua testa gli si abbandonò contro il petto. Non avrebbe saputo dire se fosse svenuta o, semplicemente, caduta addormentata.

Era passato così tanto tempo da quando aveva tenuto qualcuno tra le braccia in quel modo, così tanti secoli di dolore e sofferenza senza mai toccare un altro essere vivente nel modo in cui stava toccando lei.

Non stava uccidendo, non stava combattendo, semplicemente la teneva tra le braccia e lei aveva fiducia e Finrod sentì le lacrime pizzicargli gli occhi.

Si sentì se stesso per la prima volta dopo tanto tempo.






Aveva sognato di baciarla.

Non era un sogno elfico, non era lo stato onirico indotto da Lòrien, ma un vero sogno mortale e la sensazione di realtà che gli aveva provocato era stata quasi dolorosa.

La baciava e Laer era piccola, morbida e abbandonata tra le sue braccia. Era curvo in avanti e la ragazza teneva il viso sollevato, le braccia intorno al suo collo, completamente protesa verso di lui, e lui l'abbracciava stretta e le restituiva quel bacio che non le aveva dato quando era stata lei a fare il primo passo.

Riusciva a sentire la bocca morbida di lei, la sua lingua calda, i capelli chiari che gli solleticavano le guance. Bastava che aprisse gli occhi per poter contare le sue lentiggini.

E improvvisamente non era più Laer che stava baciando, era Rùth, bellissima e fatale. Sentiva il peso leggero della donna su di lui, i suoi seni contro il petto, le unghie che lo graffiavano attraverso la casacca e lui che continuava a baciarla e baciarla con una voracità disarmante. Silevril si sentiva vorace, insaziabile, la costringeva a schiudere le labbra e le insinuava la lingua nella bocca, assaporandola come se lei non fosse altro che vino speziato. Rùth gli slacciava la casacca, le sue mani sembravano roventi contro la pelle nuda della schiena, forti e impossibili da allontanare anche se la sua volontà fosse stata così forte da desiderare che quel tocco cessasse.

Lo avvolgeva nel suo incantesimo, finché non si era sentito sprofondare in un desiderio come non ne aveva mai conosciuti. La voleva come non aveva mai voluto nient'altro nella sua vita.

Si era svegliato di soprassalto, sudato e ansimante, con la sensazione di averla ancora lì e il suo intero corpo in subbuglio. Era buio nella piccola stanza che condivideva con Galmoth e l'uomo era profondamente addormentato nel letto accanto al suo, solo il suo respiro che spezzava il silenzio della notte.

Silevril si passò una mano sugli occhi, tentando di allontanare la sensazione di desiderio insoddisfatto che lo attanagliava. Aveva passato la giornata seduto a un tavolo con Galmoth, bevendo vino e pianificando il da farsi, finché non si era ritrovato a sera confuso dalle decine di nomi della nobiltà gondoriana e pericolosamente vicino all'ubriachezza.

Non sapevano chi avesse il Tesoro di Ulmo, ma avevano ristretto il campo a un uomo di nome Telemnar, membro del consiglio del Re, e un tale Falstaf, rappresentante del Re del Mark a Godor.

Galmoth aveva suggerito di includere nei loro sospetti anche il Capitano delle Guardie, ma Silevril si era opposto con tutto se stesso: mai e poi mai avrebbe creduto Finrod Felagund capace di tradimento.

L'uomo aveva riso. Secondo lui chiunque avrebbe potuto fare qualsiasi cosa per denaro.

Era andato a letto sfinito, nemmeno dopo giorni passati in mare si era mai sentito tanto stanco, ma la sua stanchezza era nello spirito più che nel corpo. Sentiva la mancanza di sua madre e di suo padre, un dolore quasi fisico che lo attanagliava e lo lasciava nel dubbio, sentiva la mancanza di Laer, della sua risata impertinente, dei suoi occhi allegri e delle lentiggini che la facevano apparire ancora più infantile, del suo cipiglio imbronciato e della sua voce leggermente roca.

E poi c'era il desiderio sconvolgente di Rùth, e di rivedere Finrod e il terrore di aver rovinato ogni cosa con Galmoth.

Si girò su un fianco, stringendosi di più nelle coperte di tela ruvida, e chiuse gli occhi.

Domani, si disse, domani alla luce del sole ogni cosa acquisterà una nuova dimensione e io sarò il solito Silevril... e basta con il vino.





La ragazza se ne stava distesa nel letto e le coperte la facevano sembrare ancora più minuta, quasi una bambina. Era talmente pallida che le efelidi sul suo viso risaltavano come se fossero state disegnate da una mano esterna, dello stesso colore castano ramato dei lunghi capelli sparpagliati sul cuscino.

Non era bella, eppure guardandola Finrod non avrebbe potuta trovarla più affascinante, così innocente e spaventata, con un fuoco nascosto in lei che riusciva a percepire in modo tangibile.

Aprì gli occhi e ci mise qualche istante per mettere a fuoco la stanza e lui, seduto proprio lì accanto.

Le sorrise, rassicurante.

< Stai tranquilla, > le disse, < sei al sicuro qui. >

< Dove mi trovo? > domandò. La sua voce era incerta, gracchiante. Tossì e il suo intero corpo fu scosso da uno spasmo che la fece annaspare e lacrimare.

Finrod le passò un bicchiere d'acqua e la aiutò a bere, finché non riuscì a riprendere fiato.

< Questa è casa mia > riprese, < ti ho portata qui quando ti ho trovata nei sotterranei di una casa appartenente a dei traditori. Avevi la febbre molto alta e una brutta tosse che ci metterà molto a passare. >

La ragazza lo fissò per qualche minuto, in silenzio, prima di parlare.

< Siete un elfo > asserì.

< Sì, il mio nome è Finrod e comando la Guardia della Città. >

Lei non reagì a quel nome, segno che non doveva aver sentito mai parlare di lui. Per un meraviglioso momento si sentì talmente sollevato da aver voglia di abbracciarla, ringraziarla per quella libertà inattesa. Era stato riconosciuto per tutta la sua vita e conoscere qualcuno che lo avrebbe visto per ciò che era realmente, senza pregiudizi, era qualcosa che non avrebbe mai sperato.

< Mi hai detto di chiamarti Laer. Giusto? >

Annuì.

< Hai idea del perché ti tenevano prigioniera, Laer? >

< Un mio caro amico è un elfo. >

< Perché eri lì, Laer? > insistette, ma lei sembrava non sentirlo.

< Ah, ma lui non è come voi, non è regale né gentile, ma sarcastico e antipatico... ma è così bello... sì, Silevril è così bello... >

Finrod sussultò.

Possibile che tutto fosse intrecciato in quel modo tanto improbabile? Era una fortuna per lui o solo un diverso modo di essere ancora giocato dal destino? Il pensiero di Silevril era quasi insostenibile, il desiderio di averlo lì, di poter parlare ancora con lui, era una sofferenza fisica. Non voleva pensarci, non poteva lasciarsi andare a quella fascinazione sognante... avere Silevril non significava nulla, non gli avrebbe portato Alatariel, non sarebbe stato lo stesso, era inutile.

Ma lo desiderava e non riusciva a smettere.

Laer non lo guardava, immersa nei suoi pensieri, immersa nel ricordo di Silevril.

Finrod tentò di riprendere il controllo di sé e incredibilmente ci riuscì.

< Mia cara, ascoltami, > le spostò uno ciocca di capelli dalla fronte e la costrinse gentilmente a guardarla negli occhi,< perché eri in quella casa? >

La ragazza lo guardò con gli occhi spalancati, improvvisamente consapevole di dove si trovasse e delle parole che le venivano rivolte.

< Non lo so > disse.

< Cosa volevano da te? >

< Non lo so. >

< Ti hanno fatto delle domande? >

Improvvisamente lo sguardo vigile di Laer si fece spaventato e lei sembrò rattrappirsi sotto le coperte.

< Mi hanno spinto la testa sott'acqua... credevo che sarei morta! E il gelo... il gelo... >

Ansimò e con un singhiozzo soffocato iniziò a piangere.

Finrod l'attirò a sé e lei gli si abbandonò contro il petto. Una bambina, non era che questo, una fragile e tenera creatura mortale che si nascondeva dietro un'apparenza dura e selvaggia.

Era così evidente la menzogna, eppure lei era convinta della sua impenetrabilità, sicura di averlo ingannato, di avergli nascosto la verità. Lei sapeva più di quanto non dicesse e gli tornarono in mente le parole di Silevril.

< Non pensarci più, > la rassicurò, < puoi rimanere qui finché non sarai guarita, finché non deciderai di andartene. >

Desiderio di un legame, di amore, ecco cosa scorgeva in lei.

La baciò sulla fronte calda per la febbre e capì che si sarebbe fidata di lui, che lo avrebbe fatto anche se non lo conosceva.

Molto meno pericolosa di Silevril, si disse. Sarebbe stato facile amarla, proteggerla, scoprire cosa stava accadendo senza ferirla... no, mai avrebbe ferito quella fragile creatura.








Salve a tutti! Torno a voi con un capitolo che giustifica l'innalzamento di rating che forse avrete notato, da giallo ad arancione, sia per la scena abbastanza hot del sogno di Silevril sia perché alcune cose potrebbero prendere una piega decisamente meno casta andando più avanti [sente donne svenire in sottofondo].

A proposito di risvolti inaspettati, non pensavo di dare una connotazione così slash al rapporto tra Finrod e Silevril, ma quando sono andata a rileggerlo mi sono resa conto che effettivamente c'è dello slash in questo mondo, padron Frodo... non è totalmente voluto, ma a quanto pare è destino e chi sono io per cambiare le cose? D'altronde sappiamo bene che Finrod ha gusti strani, insomma guardate Alatariel!

Bene, detto questo non mi resta che darvi appuntamento alla prossima e comunicarvi che il titolo di questo capitolo è un verso della splendida Slept so Long, dalla colonna sonora (bellissima) del film Queen of the Damned film assolutamente DEMMERDA che vorrebbe essere tratto dal capolavoro di Anne Rice. Vi consiglio di ascoltare la colonna sonora perchè merita, e di leggere il libro, ma sevi amate lasciate perdere il film.

Lunga vita e prosperità.


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Capitolo 15
*** We need water and maybe somebody's daughter ***


We need water and maybe somebody's daughter





Laer rimase per un momento spiazzata, quando aprì gli occhi. Si era aspettata di trovare il soffitto di legno della sua minuscola cabina a bordo della Stella, il mormorio sommesso delle onde contro lo scafo, il suono del vento sulla vela, la risata roca di Galmoth, il canticchiare allegro di Conn in cucina.

Si trovava in una stanza dall'alto soffitto bianco, perfettamente stuccato. Un sottile raggio di sole penetrava attraverso le imposte semichiuse e si posava sul copriletto di stoffa pregiata in cui era avvolta. Accanto al letto, un vaso con una pianta che Laer non aveva mai visto prima.

Si sentiva spossata, accaldata e sudata come se un braciere le avesse dato calore per ore e ore in primavera. Respirava male e le doleva la gola, inoltre il senso di stordimento che provava le faceva sospettare che l'aria le fosse mancata più di una volta mentre dormiva.

Tossì e l'intero suo corpo fu scosso da quel gesto. Scattò a sedere, tentando freneticamente di riprendere fiato, ansimando e lacrimando, finché non riuscì a smettere di tossire, inspirando di forza con un sibilo acuto.

Chiuse gli occhi per un istante, ritrovando se stessa dopo quell'eccesso di tosse che l'aveva scombussolata.

Quando spostò le coperte per mettersi seduta, si rese conto di indossare una camicia da notte dalle maniche corte che le copriva a stento le ginocchia.

Improvvisamente la porta si aprì, facendola sobbalzare, e un uomo entrò con un sorriso sul volto giovane.

No, si corresse, non era un uomo, era l'elfo, l'elfo che l'aveva salvata e portata a casa sua, l'elfo che le aveva fatto delle domande che ricordava confusamente e il cui nome aveva dimenticato del tutto.

Eppure c'era qualcosa di incredibilmente mortale in quel volto, qualcosa che Silevril non aveva nella sua bellezza eterea.

Quell'elfo poteva sembrare un uomo, non un ragazzo, ma un adulto poco più giovane di Galmoth.

Solo gli occhi erano diversi, occhi profondi e brillanti, antichi come Laer non ne aveva mai visti, occhi che avrebbero potuto leggerle fin dentro l'anima.

Ma l'elfo stava sorridendo e i suoi potenti occhi erano dolci mentre si posavano su di lei.

< Laer, > disse a mo' di saluto, < sono felice di vedervi in piedi, mia signora. Questa mattina la febbre vi ha abbandonato del tutto e non volevo disturbare il vostro sonno. Avete però una brutta tosse e non sarà facile mandarla via. >

Le si fece incontro e la guardò dall'alto.

< Su quella sedia vi è un abito per voi. Non ho moglie, né figlie, ma una vicina me lo ha gentilmente prestato e si occuperà di lavare i vostri. >

Una smorfia sofferente deturpò i suoi lineamenti per un attimo. Sembrava gentile e solo, nonostante tutto. Aveva pensato che gli elfi fossero tutti maliziosi e indifferenti come Silevril, trovarne uno che le parlava con gentilezza e si prendeva cura di lei la commosse e la sorprese.

< Grazie, signore > disse, sforzando la voce ancora molto roca. < Perdonatemi, > aggiunse, distogliendo lo sguardo, < non ricordo il vostro nome. >

< Sono Finrod > disse lui, esitando un attimo, come se il suo nome gli provocasse grande vergogna, < Capitano delle Guardie della Cittadella. >

Sospirò pesantemente.

< Vi prego, Laer, vestitevi e raggiungetemi nella stanza accanto, vi è del cibo per voi e mentre mangeremo, parleremo. Sono molte le domande che il mio dovere mi impone di farvi e domani vi condurrò dal Re. >

Laer strabuzzò gli occhi, sorpresa.

< Dal Re? Perché? Non ho fatto niente di male, desidero solo andare per la mia strada. >

Finrod la fissò, improvvisamente duro, e Laer si sentì investita dal suo sguardo. Ogni traccia di gentilezza svanita da lui.

Ma non durò che pochi secondi, prima che l'elfo chiudesse gli occhi con rassegnazione.

< Mi dispiace, non vi è altro modo di dirlo: non siete prigioniera, Laer, ma non siete nemmeno libera. Vi trovate in casa mia perché quando vi ho trovata eravate febbricitante e necessitavate di cure, altrimenti vi trovereste in una delle stanze della Torre di Echtelion in questo momento. >

Laer lo fissò, d'un tratto consapevole di cosa stava succedendo e della sua posizione. Strinse le labbra ma non rispose.

< Lavatevi, vestitevi e venite a mangiare con me, non desidero altro, potremo parlare ma vi giuro che non insisterò. >

Si voltò per uscire, ma appena prima di chiudersi la porta alle spalle le lanciò un'occhiata penetrante, poi la lasciò sola.

Si alzò.

Vicino la finestra c'era un catino di porcellana finissima, sottilmente decorato, quel genere di cose che Laer ricordava di aver visto nella sua infanzia, quando si era intrufolata nelle stanze del Palazzo di Dol Amroth, mentre suo padre lavorava nelle scuderie. Nemmeno Galmoth aveva mai posseduto oggetti così pregiati, lui che era stato Ammiraglio della Flotta del Principe.

Si lavò il viso, piacevolmente sorpresa di trovare l'acqua calda.

Il vestito preparato per lei era semplice, di cotone liscio, con le maniche troppo lunghe e lo scollo a “V”. La gonna la copriva completamente, ma era certa che su una donna più alta di lei avrebbe calzato alla perfezione. Il color ruggine la faceva sembrare ancora più pallida e malaticcia, sensazione acuita dai suoi capelli lunghi e scompigliati, ancora leggermente ondulati per essere sempre rimasti stretti nella sua solita treccia, ma non aveva nulla per legarli.

Era passato moltissimo tempo dall'ultima volta che aveva indossato un vestito che non fossero i suoi vecchi e consunti abiti da marinaio ed era bello poter sentire le gambe nude contro la stoffa della gonna, i capelli che le scendevano sulla schiena.

Si chiese scioccamente se Silevril l'avrebbe potuta trovare più carina vestita così, ma ne dubitava. Chissà a quali sfolgoranti bellezze era abituato quell'elfo... lo odiò un po'.

Si infilò gli stivali, i suoi vecchi stivali di pelle consumata sulle punte, e uscì dalla stanza. La casa non era molto grande e trovò facilmente la piccola sala da pranzo, con un tavolo di legno chiaro a cui stava seduto l'elfo, mangiando del pane.

Si voltò quando la sentì arrivare e le sorrise gentilmente, nonostante il suo sorriso fosse sempre venato di tristezza.

Laer si accomodò di fronte a lui, dove su un piatto vi era a sua volta pane bianco, marmellata, frutta e, lì accanto, un bicchiere di latte.

Iniziò a mangiare, sentendosi lo sguardo dell'elfo addosso.

< Sentite, > disse, precedendolo, < so cosa volete chiedermi. Non conosco quegli uomini, non so perché mi hanno rapita, io me ne stavo per i fatti miei e volevo solo trovare un passaggio per andarmene. >

< Per andare dove? > chiese lui.

< Nel Lebennin, a Rohan, non lo so, non mi importa. >

Scrollò le spalle con noncuranza, ormai sapeva soltanto che doveva allontanarsi da Minas Tirith, dove il pericolo di incontrare Galmoth era troppo grande, e naturalmente a Dol Amroth non poteva tornarci.

< Riconosco qualcuno che scappa, quando lo vedo > disse l'elfo, sorridendo appena, < da cosa scappate, così giovane? >

< Non da cosa, ma da chi. Scappo da qualcuno che è stato come un padre per me e che non mi ha raccontato nulla se non bugie. >

Non sapeva perché lo aveva detto, ma era impossibile non confidarsi con lui, con quell'elfo antico e sconosciuto. Irradiava potenza e Laer riusciva a sentirla come se una corrente di aria calda la investisse, ma era piacevole e faceva venire voglia di affidarcisi.

< Quegli uomini, > disse improvvisamente, senza pensarci, < quelli che mi hanno rapita, mi chiedevano qualcosa. Chiedevano “dov'è?” ma io non sapevo cosa rispondere. >

L'elfo si sporse un po' di più verso di lei.

< Cosa? Cosa cercavano? >

Una parte di lei voleva dirgli tutto, aprirsi, fare in modo che lui fermasse quella pazzia, ma sapeva che avrebbe significato la rovina e la prigione per Galmoth e il solo pensiero la faceva star male, nonostante tutto.

< Non lo so, > mentì, < non lo hanno detto. >




La ragazza aveva ripreso a mangiare, apparentemente tranquilla. Era brava a mentire, tanto che non riusciva a essere davvero sicuro che ci fosse altro dietro le sue negazioni.

Non sapeva come prenderla, quella fanciulla. Quando l'aveva vista per la prima volta le era sembrata giovanissima, fragile, ma in qualche modo fredda, invece guardandola ora la si sarebbe detta semplicemente una ragazzina affamata e un po' pallida, dopo essere stata malata, piena di gioviale calore tipicamente umano. Era impertinente, in un certo senso, nel suo modo di porsi, ma era certo che avrebbe raggiunto una nuova pacatezza con gli anni. I lunghi capelli sciolti le davano un'aria un po' selvaggia.

Si sentiva protettivo nei suoi confronti e per la prima volta nella sua vita si chiese come sarebbe stato avere una figlia, una creatura che gli apparteneva completamente, con cui poter essere pienamente se stesso. Una parte della sua mente, quella in cui era annidata la sua follia più profonda, si chiedeva come sarebbe potuta essere una figlia sua e di Alatariel.

Respinse immediatamente quel pensiero, prima che si affacciasse sulla coscienza, prima che il suo viso potesse rifletterlo. Non poteva permettere a se stesso di sprofondare ancora una volta nella follia, non ora, non quando il Male stava prendendo il sopravvento su ogni cosa. Doveva rimanere saldo, doveva rimanere se stesso.

Prese un respiro profondo.

< Sta succedendo qualcosa in questa città, qualcosa di oscuro, qualcosa che se non viene fermato porterà alla fine della Stirpe del Re. > Fece una pausa e vide Laer che ricambiava il suo sguardo. < Laer, voi dovete dirmi la verità: cosa sapete del Tesoro di Ulmo? >




< Galmoth! > l'urlo dell'elfo lo fece voltare appena in tempo per evitare la lama che stava per entrargli nella schiena. Con la destra deviò il pugnale, mentre con la sinistra sferrava un pugno sulla mascella dell'uomo che gli si era avventato contro.

Sferrò un calcio e sentì le costole sotto il suo stivale scricchiolare e incrinarsi. Era veramente molto che non faceva a botte con qualcuno, ma fu lieto di constatare di non essersi totalmente rammollito.

Alzò la testa e vide Silevril scansare con agilità una lama, sorridente e sardonico come sempre, uno scintillio di crudele derisione negli occhi chiari.

Fece cadere il suo avversario con uno sgambetto e gli fece perdere i sensi sferrandogli un calcio sul viso. Spietato e violento.

Galmoth guardò il suo avversario che si contorceva sul pavimento e pensò a come sarebbe stato sentire le ossa del cranio dell'uomo sotto il suo stivale, ma lui non era il tipo.

Ci pensò Silevril al posto suo.

< Dovresti essere più cinico, Capitano, i lamenti di quell'uomo stavano per farci scoprire. >

Si guardò intorno, nella penombra di quella stanza. Tutto intorno a loro c'era solo lusso, tanto che Galmoth si sentì a disagio, una sensazione che gli capitava solo quando, nella sua giovinezza, era stato convocato dal Principe nelle sue stanze per ricevere ordini.

< Qui non c'è niente, Capitano, > disse Silevril.

< Deve esserci, non ci sono dubbi. Tutte le nostre ricerche portano qui e nessuno è più bravo di me quando si tratta di trovare qualcosa da rubare. >

L'elfo scrollò le spalle.

< Certo, il comitato di benvenuto era scarno, ma il fatto che ci fosse indica che hai ragione. >

Ma Galmoth non lo ascoltava più. Aveva visto quello che stava cercando e si sorprese di non essersene accorto prima.

C'era una fanciulla rannicchiata in un angolo, tremante, e al suo collo, inconfondibile, il Tesoro di Ulmo.

La pietra sembrava oceano incastonato nel vetro e conferiva a quella ragazza una bellezza eterea e senza pari.

< Non ti faremo del male, > le disse, avvicinandosi, < dacci la pietra. >

< Non sapete quale errore state commettendo, > disse lei, e pure nella sua paura manteneva una imponente dignità.

< Se è un errore ne pagheremo le conseguenze, > disse Silevril con noncuranza. Quando Galmoth aveva parlato si era accorto a sua volta della fanciulla nell'angolo e si era avvicinato.

Mentre diceva così, si chinò e con un gesto secco strappò il monile dal collo della fanciulla, un gesto che Galmoth trovò sconvolgente.

Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non ci riuscì.

La fanciulla si era trasformata in acqua sotto i suoi occhi e di lei non rimaneva che il pavimento bagnato.








Il fatto che io sia riuscita ad arrivare al giro di boa della storia è un piccolo miracolo, dato il blocco che mi affligge da due anni a questa parte, ogni capitolo che scrivo è praticamente un parto e arrivata a questo punto posso tirare un sospiro di sollievo e sperare che il resto sarà non dico in discesa ma quantomeno più facile.

Detto questo vi lascio con il solito disclaimer e questa volta il titolo del capitolo è un vero di “Water” dei The Who,sul significato recondito vi lascio fare le vostre ipotesi.

Lunga vita e prosperità,

Thiliol

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Capitolo 16
*** I don't feel right when you're gone away ***



I don't feel right when you're gone away



Il dolore fitto e lancinante gli attraversò il braccio e gli arrivò dritto al cervello, esplodendo in lampi di luce accecante che gli offuscarono la vista. Probabilmente gridò, ma non ne era sicuro.

Aprì gli occhi, ma attorno a lui non c'era niente se non eternità, bianca come un vuoto infinito in cui non esisteva più lo spazio.

Silevril aveva la sensazione che il suo corpo non fosse davvero in quel luogo, nonostante riuscisse a vedere con chiarezza le gambe, le mani e tutto il resto.

Percepiva se stesso come non era mai accaduto, come se lo fosse per la prima volta e completamente.

Di fronte a lui comparve una donna. Semplicemente era lì, ma fino a un istante prima era sicuro di essere solo... anche se in realtà la sua convinzione vacillava.

I capelli bruni della donna si spandevano in ogni direzione, sembravano non avere una fine, e man mano divenivano indistinti, evanescenti, come acqua.

La donna gli sorrise e tese una mano verso di lui in un gesto di invito, ma dai suoi occhi sgorgavano lacrime argentee che brillavano di una luce soffusa, come se fossero fatte di cristallo.

< Vieni, Silevril, > lo chiamò, ma la sua bocca non si mosse. < Vieni da me >.

Era bella e triste, irresistibile come un sogno, ma stranamente reale. Le andò incontro e le prese la mano che lei aveva teso; la sensazione di calore che emanava era reale e contrastava con tutto il resto.

< Chi sei? > le chiese.

< Non lo sai? > la sua voce era rotta di pianto, straziante.

< Sento di conoscerti da sempre > e nel momento esatto in cui lo disse, si accorse che era vero, che quella donna era dentro di lui, in qualche modo.

< Custodiscimi nel tuo cuore, Silevril, le mie lacrime ti accompagneranno. >

La donna iniziò a svanire, allontanandosi da lui come portata via dalla corrente, i capelli che si spandevano intorno come avvolgendolo.

< Aspetta! > gridò, tentando di afferrarla, < Dimmi chi sei! >

< Sono la Signora di ogni Mare > disse, scomparendo, < custodisci il mio cuore nelle tue mani. >

Silevril si lanciò verso l'ultima immagine di lei, ma invano. Non ne rimaneva che un vago sentore, come di brezza sulla battigia.

< Uinen > sussurrò, ma lei era andata via.




Era accaduto tutto talmente velocemente che non era riuscito nemmeno a prendere fiato. La fanciulla si era liquefatta proprio davanti ai suoi occhi stupefatti non appena l'elfo aveva afferrato il gioiello dal suo collo. Lui si era gettato in avanti, ma il grido dell'elfo lo aveva bloccato e aveva fatto appena in tempo ad afferrarlo mentre cadeva come fulminato.

Lo aveva chiamato per nome, in preda a un cieco terrore, ma Silevril giaceva immobile e come morto senza apparente motivo, con gli occhi semichiusi e vacui.

Aveva provato a scuoterlo, ma non aveva ottenuto alcuna reazione.

Nessun battito, nessun alito di vita, nulla che facesse pensare che l'elfo fosse ancora vivo.

Galmoth aveva sperimentato un senso di smarrimento totalmente nuovo, una sensazione che lo avveva gettato nel panico.

< Non pui morire, stupido elfo, > aveva gridato, < non così, dannazione! >

E poi, dopo un tempo che gli parve innaturalmente lungo, Silevril aprì gli occhi e inspirò violentemente, per poi iniziare a tossire, come un annegato.

Galmoth era così sollevato che avrebbe voluto picchiarlo, invece lo strinse in un abbraccio.

< Maledetto elfo! Stupido idiota! Mi hai fatto prendere un colpo! >

Silevril sorrise, gli occhi lucidi per la mancanza di fiato, ma uno scintillio sarcastico sempre presente.

< Non è facile liberarsi di me > disse, tra un colpo di tosse e l'altro.

< Cosa ti è successo? >

L'elfo alzò la collana che aveva in mano e guardò il gioiello: la pietra a forma di goccia splendeva di un azzurro intenso, che cambiava sfumatura a seconda dell'angolazione, come acqua racchiusa in un involucro di vetro scintillante.

Il Tesoro di Ulmo irradiava bellezza e potere nelle mani di Silevril.

< È stato come essere colpiti da un fulmine, un attimo ero qui e il dolore era insopportabile e l'attimo dopo ero... beh, non so esattamente dov'ero, ma lei era lì. >

L'elfo fissava la pietra pensieroso.

Galmoth lo scrutò, come se potesse leggergli la mente, ma non disse nulla, attendendo che lui continuasse.

< Uinen... >

< Di cosa diamine stai parlando? >

< Ha detto “custodisci il mio cuore nelle tue mani”... Galmoth > improvvisamente si voltò a guardarlo, < questa pietra non appartiene a Ulmo, ma a Uinen. >

Silevril lo guardava come se si aspettasse una reazione da lui, ma Galmoth non sapeva come reagire. Quel nome aveva fatto parte di racconti a lungo dimenticati, di leggende della sua infanzia, favole che parlavano di Elfi e Divinità di tempi antichi che nella sua mente non potevano essere reali. Quale uomo aveva mai visto le Potenze dell'Ovest? Cosa poteva saperne lui?

< Ascolta, Silevril, > disse, mentre entrambi si alzavano in piedi, < non è cosa che ci riguardi. Noi portiamo la pietra a Rùth, lei fa quel che deve fare, poi io torno a Dol Amroth con il Tesoro e mi riprendo il favore del Principe. Non mi interessa nient'altro. >

L'elfo sembrava quasi non sentirlo. Osservava la pietra come se quella gli stesse parlando, poi sospirò e se la mise al collo, nascondendola sotto la casacca.

Non appena l'ebbe indossata vacillò, ma quando Galmoth fece un passo verso di lui, lo respinse.

< Sto bene, Capitano, > sorrise, < riesco a percepirne il potere e per un attimo mi ha sopraffatto, ma ora è passato. >

< Dalla a me, se vuoi. >

< No, lei l'ha affidata a me e la terrò io per il momento. >

Uscirono silenziosamente dal palazzo vuoto. Nessuno era accorso, nessuno si era minimamente accorto di nulla e la Città continuava la sua vita come al solito, nonostante gli uomini morti per mano loro.

Galmoth sapeva che non sarebbe passato poi molto prima che qualcuno li trovasse, ma a quel punto chi poteva risalire a loro due?

Gli tornò alla mente Silevril e la dura efficienza con cui aveva ucciso. Sicuramente anche nel caso remoto in cui la loro posizione fosse stata in pericolo, quell'elfo non sarebbe stato una preda facile.

Aveva acquistato ai suoi occhi un'aura di misticismo che un po' lo spaventava e un po' lo affascinava, ma allo stesso tempo riusciva a percepirne chiaramente la giovinezza.

Arrivarono sull'uscio della casa di Rùth e bussarono con circospezione prima tre volte e poi una quarta, per poi entrare velocemente non appena la porta si aprì.

Il valletto che li aveva accolti la volta precedente li condusse in una piccola stanza finemente arredata, dove la luce che passava attraverso le tende semitrasparenti donava al tutto un'atmosfera irreale.

Rùth era lì, vestita con semplicità, interamente di bianco, con i capelli rossi fiammanti lasciati sciolti sulle spalle, di una bellezza assoluta che lo lasciò stordito. Un gatto altrettanto candido faceva le fusa tra le sue braccia, mentre un altro, tutto nero, era seduto ai suoi piedi.

< Non vi aspettavo così presto, > disse e la sua voce squillante fu persino più armoniosa di quanto ricordasse.

Galmoth avrebbe voluto annullare quei metri che li separavano e affondare le mani tra quei capelli, baciare le sue labbra morbide. Voleva prenderla lì, in quella stanza, in quel momento, incurante di tutto, se non dell'incantesimo della sua voce.

< Vi avevo sottovalutato. >

Posò il gatto sul pavimento e si avvicinò a lui, per poi accarezzargli dolcemente una guancia.

< Caro Galmoth. >

Strinse la mascella a quel tocco, tentando invano di dominarsi. Lei sapeva cosa provocavano in lui quei tocchi? Lo tormentava di proposito? Aveva la sensazione che fosse così, ma in un certo senso la cosa lo eccitava maggiormente.

Quando si voltò verso Silevril, Galmoth si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo in cui lei gli era stata vicino.

< Ah, Silevril, > disse Rùth, andando verso l'elfo, < appena ti ho visto ho capito che eri diverso, ho capito che tu avevi il potere necessario. Chiunque possegga il tesoro di Ulmo può governare i mari, o almeno così dicono, e chi governa il mare, governa Gondor. Ma chi può farlo? >

Si sporse verso l'elfo e lo attirò a sé, baciandolo con delicatezza a fior di labbra.

Galmoth era affascinato dalla propria gelosia, dal desiderio improvviso di ferire l'elfo e fargli più male possibile. Sapeva che non poteva essere reale, osservava le sue sensazioni dall'esterno e non riusciva a distogliere lo sguardo da lui che baciava Rùth.

E poi fu troppo.

Uscì quasi correndo finchè non si ritrovò in strada, rimanendo accecato dalla luce del sole e dalla gente che viveva la propria vita ignara di tutto.

L'incantesimo era passato e in lui rimaneva solo un vago senso di delusione.




Solo con lei, in una stanza che sembrava uscita da un antico racconto, Silevril non riusciva a pensare lucidamente, troppo preso dal desiderio che Rùth accendeva dentro di lui.

Riusciva a sentire il Tesoro di Ulmo contro il suo petto, freddo e pulsante, una pietra che sembrava quasi viva. Il cuore di Uinen... cosa poteva significare?

Sapeva che Rùth gli avrebbe chiesto la gemma, in fondo erano quelli i patti ed era giusto, prima a lei, prima per fare qualsiasi cosa quella fazione doveva fare e poi a Galmoth, per riprendersi il suo onore. Lo sapeva, ma non voleva separarsi da quel gioiello che teneva ora contro di sé.

< Lo so, mio adorato, che vorresti fuggire via con il Tesoro di Ulmo, > disse Rùth, la sua voce soave come sempre.

< Non ne capisco il motivo > ammise ad alta voce, suo malgrado, < non mi interessa di quanto accade a Gondor. >

< Ah, Silevril, mio caro, > Rùth gli si avvicinò maggiormente e gli accarezzò i capelli, < sappiamo entrambi che non è quello il problema, vero? Colei che spande il suo volere sulle onde ti ha parlato e tu non riesci a non pensare a lei. Lo capisco. >

Lo baciò delicatamente su una guancia, lasciandogli una traccia che sembrava rovente.

< Ma non è che un'illusione. Dobbiamo far presto, perché Felagund è ormai su di noi e presto verrà da me ed io non ho il potere di combattere contro di lui. >

< Come conosci le intenzioni di Finrod Felagund? >

< Conosco molte cose in questa Città. >

Lo sguardo di Rùth si fissò nel suo, intrappolandolo.

Un gatto gli passò tra le gambe, strusciandosi su di lui, sbattendo la testa contro il suo polpaccio.

La sensazione del pelo morbido dell'animale lo fece rabbrividire e dovette deglutire a vuoto.

Rùth era così vicina che poteva vedere le venature delle sue iridi verde chiaro.

< Non permetterò a Felagund di farti del male, > le disse.

Tutta la fascinazione che aveva provato nei confronti dell'elfo sembrava svanita, un ricordo lontano, quasi un sogno dimenticato. Era consapevole che per un breve, intenso, istante lo aveva amato, aveva desiderato la sua compagnia, ma era come se quei sentimenti fossero di qualcun altro.

Il Tesoro di Ulmo pulsò più forte contro il palmo della sua mano quando se lo tolse dal collo e lo mise a quello di Rùth.

Lei lo accarezzò con le dita, ma non distolse lo sguardo da lui.

Silevril annullò completamente la distanza che lo separava da lei e la baciò.

Ogni cosa era come l'aveva sognata, la bocca di Rùth morbida contro la sua, i suoi riccioli di fuoco, la pelle serica del collo, i suoi seni che premevano contro di lui.

La voleva, come non aveva mai voluto nient'altro. Le aprì la bocca e le accarezzò la lingua con la lingua, cercando in ogni modo di impossessarsi di lei, della sua essenza, di ciò che era.

Eppure sapeva, dentro di lui, che in realtà era lei a possederlo, a trarre da lui forza, e più la baciava, più il suo desiderio cresceva e resisterle diventava impossibile.

C'era solo Rùth e lei prendeva da lui ogni cosa.

Ma non gli importava.




Si sentivano solo i gabbiani e il mormorio dell'acqua contro la chiglia, tutto il resto era silenzio e pace, rotto dal suono secco di vetri infranti.

Il vino che stava bevendo macchiò il ponte, ma a lui non importava altro che di sorreggerla.

Non capiva cosa era accaduto, ma i morsi del panico gli strinsero spiacevolmente lo stomaco.

Lei era pallida e tremante, gli occhi sbarrati, il viso impassibile come sempre, ma a lui non era nescessario leggerla, la conosceva troppo bene e da troppo tempo per farsi ingannare dalle apparenze.

Raramente un tale sconvolgimento aveva attraversato quello spirto inquieto.

< Che succede? > le chiese, ansioso.

Lei si voltò a guardarlo, scossa e impaurita.

< Qualcosa dentro di me si è spezzato. >

Aeglos guardò Alatariel negli occhi, chiedendole silenziosamente di non dire quello che stava per dire, ma erano speranze vane.

< Lui è andato via, > esalò, la voce rotta dal pianto, < il mio legame con Silevril si è spezzato. >












Non riesco a crederci nemmeno io, eppure eccomi qui con il nuovo capitolo dopo poco più di due settimane. Comunque, so di aver provocato stravolgimenti psichici e morti ormonali con la comparsa a sorpresa di Aeglos, ma oh, donne, non potevo avvertirvi prima. Spero che stiate tutte bene. Il titolo di questo capitolo è un verso di “Broken” di Seether, che è anche un richiamo a 'Saesa omentien lle' in cui era Aeglos a cantare questa canzone in uno dei suoi tipici momenti emo depressivi. Qui l'autoreferenzialismo si da via come il pane.


Ora, sapete che sono solita salutarvi alla maniera vulcaniana, perciò permettetemi di dedicare il capitolo al grandissimo Leonard Nimoy, un uomo che per me è stato molto più che semplicemente Spock, più di un attore che amavo, ma un vero esempio di umanità, un amico, anche se lui non sapeva nemmeno che esistessi. Grazie, Leonard, non ti dimenticherò mai.

Lunga vita e prosperità.

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Capitolo 17
*** Silence is all you'll be ***


silence is all you'll be



Rumore di vetri infranti, il tonfo sordo di una sedia che veniva scaraventata in terra. Ad Aeglos sembrava che ognuno di quegli oggetti gli venissero gettati addosso.

Aveva girato la prua verso la piccola gola davanti casa sua e aveva ricondotto Il Giuramento a riva più velocemente possibile. Tremava, mentre stringeva il timone.

Alatariel era rimasta immobile per tutta la durata del tragitto, poi, non appena era rientrata in casa, aveva iniziato a distruggere ogni cosa le capitasse a tiro.

Prendeva i biccheri e le coppe e li lanciava contro il muro con metodicità, prendeva a calci tavoli e sedie con una furia cieca. Lo spaventava come non era mai capitato prima.

< Alatariel, > tentò di attirare la sua attenzione, ma inutilmente.

L'afferrò per le spalle e la circondò con le braccia, stringendola. Lei tentò di divincolarsi debolmente, ma lui la strinse di più, finchè non si lasciò andare contro di lui.

Non gli era mai sembrata così piccola e fragile, così giovane.

Alatariel singhiozzzava come una bambina contro il suo petto e lui non sapeva cosa fare, il panico che minacciava di sopraffarlo.

< È accaduto qualcosa di terribile, > la sentì dire con voce flebile, < lo percepisco dentro di me come se fosse corporeo. >

Non le rispose. Come poteva? Sentiva che se avesse aperto bocca sarebbe crollato e non poteva permetterlo. Doveva rimanere in sé, almeno lui.

Alatatiel si scostò leggermente e lo guardò, le lacrime che le bagnavano le guance e il mento, gli occhi arrossati; un tale sconvolgimento non lo aveva mai visto prima sul suo viso e ogni segno della sua solita impassibile freddezza sembrava non esserci mai stato.

< Aeglos... >

< Non dire nulla, ti prego > la interruppe.

Lei lo guardava con occhi sbarrati, terrorizzata.

< Come puoi saperlo? Come? Per tutti i Valar, Alatariel, come puoi saperlo? >

< Silevril ed io siamo sempre stati connessi, sentivo i suoi pensieri, sentivo il suo spirito ed il suo cuore sin da quando era solo una cosa minuscola dentro di me... non esiste più nulla e ora sento solo il vuoto. Oh, Aeglos, non capisci? Non vedi cosa questo significhi? >

No, non riusciva ad accettarlo, non riusciva nemmeno a immaginare l'idea. Alatariel si sbagliava, doveva esserci un'altra spiegazione.

Alatariel si stava sgretolando e aveva l'impressione che se avesse soffiato lei sarebbe svanita.

Scosse la testa e le voltò le spalle.

< Devo trovarlo, devo scoprire cos'è successo. >

< Aeglos... >

< Se è partito con una nave da Dol Amroth potrei scoprire dove era diretto, potrei raggiungerlo... >

< Aeglos... >

Non l'ascoltava. No, doveva credere in qualcosa, in una spiegazione alternativa, non poteva arrendersi. Lui non aveva sentito nulla, non aveva quel legame speciale, ma Silevril era suo figlio, parte di lui, sangue del suo sangue. Non poteva permettere che una sensazione negativa mandasse in pezzi la sua vita.

< Aeglos! >

Alatariel gridò e lui si immobilizzò.

< Aeglos, Silevril è morto! Ah! >

Gemette. Si accartocciò su se stessa, le mani che le graffiavano la faccia. In ginocchio sul pavimento, il sague che le colava attraverso le dita e i capelli che la nascondevano come un manto, Alatariel non sembrava più la donna che conosceva.

Era uno spettacolo orribile e l'orrore che provava avrebbe potuto sopraffarlo finchè non avrebbe iniziato a strapparsi i capelli anche lui.

Si inginocchiò di fronte a lei e la prese tra le braccia, la baciò sui capelli.

< No, mia sposa, mia splendida e forte Alatariel, non è questo che è accaduto. > La baciava e la cullava contro di sé e lei tremava, ma almeno aveva smesso di gemere come se fosse in agonia.

< Andrò a cercarlo, anzi, andremo insieme, e lo troveremo e lo salveremo se è ciò che dovrà essere fatto. Non è morto. >

E mentre lo diceva arrivava a crederci.

Non poteva sentire i pensieri di suo figlio, non aveva mai potuto, non nel modo in cui lui era legato a sua madre, ma poteva comunque sentirselo dentro.

Gli tornò alla mente la prima volta che aveva posato gli occhi su di lui, un esserino piccolo e indifeso con un ciuffo di folti capelli scuri: aveva appoggiato la fronte sul suo petto e aveva pianto e in quel preciso istante aveva capito che la sua vita apparteneva a lui.

Ne era sicuro, nel momento stesso in cui Silevril avrebbe esalato l'ultimo respiro anche lui, Aeglos, avrebbe smesso di vivere.

Se respirava ancora allora, da qualche parte, lo faceva anche suo figlio.




Quello non era Silevril, Galmoth ne era assolutamente certo.

Non che ci fosse qualcosa di diverso nell'elfo, camminava come al solito, parlava come al solito, eppure non appena era uscito da quella stanza Galmoth aveva avuto un brivido.

Stavano tornando alla locanda in cui avevano dormito e lui lasciava che l'elfo camminasse davanti. Era allegro, tanto che sembrava quasi un ragazzino, con i capelli neri e fluenti sulle spalle, le mani nelle tasche dei calzoni e la voce squillante.

Era allegro e Galmoth sapeva che il motivo era Rùth, era quei lunghi minuti che aveva trascorso solo con lei. Non riusciva a essere nemmeno geloso, non riusciva a pensare a nient'altro che alla sensazione di paura che provava in quel momento.

Silevril, il suo amico Silevril...

Improvvisamente l'elfo si voltò e lo investì con la potenza del suo sguardo: nessun luccichio sarcastico nei suoi occhi, niente. Non riconosceva l'essere che gli stava di fronte.

< Sei stranamente silenzioso, Capitano, > disse Silevril, < non sei contento? Rùth ha ciò che vuole e presto potrai avere indietro la tua carica. >

< Sì, > tentò di sorridere, < ma pensavo... >

< Non dovresti pensare così tanto, >lo interruppe l'elfo, secco.

< Pensavo > continuò con insistenza, < che forse non ne vale la pena. Insomma, cosa sappiamo veramente di Rùth e del suo piano? Credi veramente che dietro tutto ciò ci siano i mercanti di Erba Pipa? >

Silevril sbuffò e fece per continuare per la sua strada, ma Galmoth lo afferrò bruscamente e lo fece voltare di nuovo verso di lui, avvicinandosi.

< Quella donna non mi convince, elfo! > Sibilò, < Non è chi dice di essere e tu... beh, tu ti sei fatto coinvolgere anche più del necessario! >

< E tu? Tu chi sei per dirmi queste cose? >

Silevril lo guardava torvo, minaccioso, e Galmoth lasciò immediatamente la presa, come se si fosse scottato.

< Stai tranquillo, Capitano, il Tesoro di Ulmo è in buone mani. >

L'elfo riprese a camminare per la sua strada, ma lui non lo seguì subito. Era stato uno stupido, si disse, ed ora se ne rendeva conto. Aveva perso quanto di più vicino a una figlia avesse mia conosciuto e ora stava perdendo un amico, tutto per sogni di gloria ristorata e le parole di un affabulatore come Baran.

Aveva messo in moto qualcosa di oscuro e pericoloso in quella città che non aveva niente a che vedere con le corporazioni dei mercanti, e doveva fare qualcosa, mettere le cose a posto.

Doveva trovare Laer, se era ancora in città, elaborare un piano.

Doveva riavere ciò che si era lasciato sfuggire.

Lanciò un'occhiata rapida verso Silevril e vide che era ancora di spalle, probabilmente convinto che lui lo stesse seguendo. Sicuro che l'elfo non lo vedesse, scartò di lato, in una strada che si intrecciava a quella su cui si trovava, e sparì tra la folla pomeridiana.




Le Cascate di Rauros erano ormai lontane e contava di riuscire a scorgere i prati del Lebennin prima di quanto avesse previsto. Forlond ringraziò ancora una volta la corrente che rendeva il viaggio verso sud almeno due volte più veloce di quanto era stato quello verso nord.

Il ragazzo, Barry, lo guardava con sguardo accusatorio, ma in fondo non gli importava gran chè, poteva anche andarsene per la sua strada una volta arrivato a Umbar o a Dol Amroth... non aveva ancora deciso in quale porto dirigersi.

< Non credi che sia stata una decisione da vero bastardo, mellon nin? >

La voce canzonatoria di Conn fu accompagnata dalla solita scodella fumante. Possibile che quel rohirrim non uscisse dalla sua angusta cucina se non per rifilargli la sua brodaglia accompagnata da commenti sgraditi?

< Se pensi che me ne sarei stato a Rauros ad aspettare i comodi di Galmoth, non mi conosci per niente! >

< Rimani comunque un bastardo > rispose l'uomo, alzando le spalle e sedendosi accanto a lui.

Forlond soffiò sulla sua zuppa e ne prese una cucchiaiata.

< Se sapevi che avrei rubato la nave e me ne sarei andato, perchè non hai avvertito Galmoth? > chiese infine.

< Prima di tutto perchè non ne era così sicuro e poi perchè nemmeno io avevo troppa voglia di rimanere a Rauros ad aspettare. Possiamo sempre tornare a riprenderlo tra qualche tempo. >

Forlond rise forte: forse l'avrebbe fatto davvero, solo per vedere la faccia del Capitano nel vederli tornare a recuperarlo.







Salve a tutti, miei adorati! Sono tornata con un capitolo per la verità un po' corto, ma vi assicuro che è stato alquanto faticoso da scrivere, alatariel ormai mi sta trascinando nel vortice della sua follia e risalirne non è affatto facile, rischio sempre di rimanerci intrappolata dentro. Comunque, alla fine sono sopravvissuta quanto bastava per arrivare alla fine del capitolo.

Questa volta il titolo del capitolo è particolare, perchè è un verso della splendida Abigail's Song una canzone che fa parte della colonna sonora di A Christmas Carol speciale di natale del Doctor Who, composta da quel Maestro assoluto che è Murray Gold (davvero, è nel mio olimpo dei compositori mondiali con Ennio Morricone e Hans Zimmer) e cantata da Katherine Jenkins, mezzo-soprano gallese dalla voce celestiale. Avvero, ascoltatela perchè è straordinario, vi lascio anche il link.


Lunga vita e prosperità.

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Capitolo 18
*** I think I thought I saw you try ***



I think I thought I saw you try




Every whisper
Of every waking hour
I'm choosing my confessions
Trying to keep an eye on you
Like a hurt, lost and blinded fool, fool
Oh no, I've said too much
I set it up



Laer uscì con passo incerto, leggermente frastornata, ma lui non la seguì. Rimase nella grande sala del trono, incapace di muovere un muscolo.

< C'è qualcosa che vuoi dirmi, Finrod, lo vedo nei tuoi occhi. >

Il Re sorrise dolcemente e poggiò il mento sulla mano, rilassandosi sul suo seggio.

Aveva rughe sottili intorno agli occhi e qualche filo d'argento tra i capelli, ma l'espressione era sempre la stessa, l'identico sorriso di quando era un ragazzino.

Estel era Re di Gondor da solo dieci anni ma non era più giovane da molto tempo e Finrod riusciva a vedere la saggezza e la spossatezza della vecchiaia in lui, ben celata dietro il vigore. Suo padre aveva tratti elfici, ma lui non ne portava traccia alcuna e questa era una caratteristica che Finrod apprezzava sempre in un uomo.

< C'è qualcosa che non mi convince in quella ragazzina > disse al Re, incrociando le mani dietro la schiena.

< È collegata a questi ribelli e ai sediziosi che minacciano la pace di Gondor. >

< No, Sire, è qualcosa di più. Non credo che questo tradimento sia frutto dell'insoddisfazione di un gruppo di mercanti, né di nobili scontenti. C'è il male nascosto tra le pieghe di quanto sta accadendo e sento il mio cuore farsi freddo e vuoto al solo pensiero. >

Il Re non rispose, rimase silenzioso, attendendo che l'elfo continuasse a parlare, ma Finrod non riusciva a districare i suoi pensieri e le sue sensazioni.

Era da molto tempo che non avvertiva il tocco dell'oscurità sulla sua anima e si era dimenticato quanto riuscisse a farlo sentire inadeguato... ogni volta che aveva sfidato il Male aveva perso. Era morto in molti modi e ognuno di essi era stato orribile e lo avevano reso la creatura fragile che era ora.

Si era rifugiato in quel precario equilibrio per riconquistare la sanità mentale, ma bastava appena uno spiffero perché ogni cosa intorno a lui crollasse, disfacendosi come neve al sole.

Sentiva il pericolo dell'abisso che si apriva proprio dinanzi a lui e lo percepiva tanto più intensamente quando Laer era con lui... lo aveva sentito ancora più profondamente in compagnia di Silevril, ma non poteva ammetterlo nemmeno a se stesso.

Sospirò, sconfitto, e chiuse gli occhi per un istante, prima di parlare.

< Scoprirò chi e cosa si nasconde dietro tutto questo, non temere. >

< So che sarà così, mio signore Felagund, mi fido di te come di nessun altro. >

Il Re gli sorrise, le piccole rughe intorno agli occhi che si facevano più profonde, conferendogli dolcezza. Per un secondo ridivenne il bambino che era stato molti anni prima, quando si erano esercitati insieme con la spada e con l'arco.

< Tornerà la luce a Minas Tirith, Estel, e non permetterò a nessuno di farti del male, > disse, in un impeto di dolcezza paterna verso di lui.

Si inchinò e uscì senza aspettare la risposta. Non ve ne era bisogno.




Aeglos attizzò il fuoco con un ramo abbastanza lungo, senza voltarsi. Poteva sentire il respiro leggero di Alatariel accanto a lui, i suoi occhi che lo trafiggevano, ma si impose di ignorarla.

Poco meno di ventiquattro ore di viaggio separavano la sua casa sulla scogliera da Dol Amroth, di cui ne aveva percorse la metà, ma gli erano parse come settimane intere, oppresso dal silenzio doloroso di sua moglie che cavalcava al suo fianco. Non si erano detti nemmeno una parola, solo ogni tanto la sentiva tirare su col naso e sospirare pesantemente. Lui invece era riuscito a rimanere impassibile, come svuotato, e per questo si sentiva pericolosamente in bilico sull'orlo della totale follia.

Si alzò in piedi e fece per andare a stendersi poco distante. Non aveva bisogno di dormire, ma aveva deciso comunque di fermasi per la notte di modo da arrivare in città di prima mattina.

Non appena si mosse, Alatariel lo afferrò per il polso.

< Aspetta. > disse. La sua voce era roca, gracchiante, a causa del pianto.

Si voltò e vide che lei lo stava guardando a occhi spalancati, nessuna traccia di sentimento nonostante fossero cerchiati di rosso.

< Dormi, > le disse, < riposa per un po' e domani ti sentirai meglio. >

La sua bocca tremò e si assottigliò, in un tipico segno di collera.

< Perché stiamo andando nella città degli uomini? Cosa speri di trovare, Aeglos? >

La sua voce era come una lama affilata.

< Non è morto, lo so, lo sento. Avremo sue notizie, lo troveremo, lo salveremo. >

Improvvisamente lei rise. Era una risata crudele e priva di qualsiasi allegria, tanto che gli fece male.

< Sei uno stupido. >

< No > rispose secco, liberandosi dalla sua stretta con un gesto brusco, < sei tu la stupida se ti arrendi così facilmente. >

< Non c'è più nulla di lui in questo mondo, Aeglos! > esclamò.

Ebbe un gesto di stizza e distolse lo sguardo da lui, perdendosi nel fuoco.

< A volte vorrei che Legolas fosse qui, lui capirebbe. Tu, invece, ti ostini a contraddirmi in ogni cosa. > Sospirò. < Il vuoto dentro di me è talmente profondo che mi sembra di impazzire, > si guardò la mano destra aperta, assorta, < sento il dolore della mia vecchia bruciatura come se me la fossi fatta ieri. Non sai cosa significa per me, non lo hai mai capito e non ti è mai interessato davvero, tutto ciò che il Silmaril è stato e ciò che Silevril ha comportato. Lui non è solo mio figlio, Aeglos, lui è il mio giuramento mantenuto e ora che mi è stato strappato via esso è tornato a bruciare. Brucio e non riesco a pensare ad altro. >

Alzò di nuovo lo sguardo su di lui. La sua pelle sembrava di fiamma, accesa dal riverbero del fuoco, e i suoi occhi gli apparivano neri come pece e illuminati di stelle.

< Mi offendi, Alatariel, > le disse, duro, < se credi di poter vantare un amore maggiore nei confronti di mio figlio! E ti sbagli se credi che Legolas ti capirebbe, anzi, è più probabile che lui ti considererebbe pazza. No, io capisco che vuoi dire, ma mi rifiuto di assecondare ancora una volta la tua ossessione! >

< La mia ossessione dici? > Scosse la testa e si alzò in piedi. Lo circondò con le braccia e parlò nel suo collo. < No, mio amato Aeglos, una maledizione. >

Si scostò nuovamente e lo guardò negli occhi.

< Silevril è morto > sussurrò < ed io... io devo raggiungerlo. >

La schiaffeggiò.

Alatarel barcollò e si appoggiò a lui, ma Aeglos la scosse con violenza per le spalle.

< Stupida! > Gridò, < Non dire queste cose! >

< Devi accettarlo e dire addio a entrambi! >

< No! > la schiaffeggiò ancora. Voleva che la smettesse, voleva che reagisse, voleva che facesse qualsiasi altra cosa che non fosse dire quelle parole.

< Vuoi andartene? > gridò < Perché non sgattaioli via nella notte come fai sempre? Vattene, ma poi torna, capito? Torna! >

Fu come un crack e qualcosa dentro di lui si spezzò. Lacrime gli bagnarono le guance e gli appannarono la vista.

Non riusciva a ragionare, sapeva solo che l'idea di perdere Silevril era insopportabile e che se avesse perso anche lei sarebbe impazzito. Voleva colpire ogni parte di lei finché non si fosse rimangiata tutto, anche se la conosceva troppo bene per sperare che fosse davvero utile.

Alatariel si era fatta schiaffeggiare da lui senza muovere un muscolo, come se capisse che era ciò che gli serviva.

E alla fine si gettò tra le sue braccia e lei lo strinse intrecciando le mani nei suoi capelli. Il profumo di lei era inebriante, il suo corpo era come una roccia in un fiume in piena.

< Non farlo, Alatariel, > la supplicò.

La sentì tremare appena, poi si scostò per baciarlo sulle labbra.

< Non dipende da me, mio caro, amato Aeglos, non è mai davvero dipeso da me e tu questo non lo hai mai capito. >

Lo baciò ancora e con un dito raccolse una delle sue lacrime. Anche lei piangeva, ma il suo volto sembrava di pietra.

< Ti seguirò > disse infine, < ma ho paura che la tua speranza sia vana. >

< Potrebbe essere come dici. In quel caso, allora, sarò io a seguirti. >




Quando Finrod la raggiunse provò lo strano istinto di gettarsi tra le sue braccia.

Si sentiva così sola che avrebbe voluto piangere, sì, piangere disperatamente tra le braccia di quell'elfo dall'aspetto umano e dagli occhi scintillanti.

Aveva in sé il fascino di Silevril e la forza di Galmoth e lei sentiva la mancanza di entrambi come una presenza fisica che l'avviluppava completamente.

Si avviarono verso l'uscita e poi nella piazza, dove l'Albero Bianco brillava alla luce della luna.

Finrod le camminò accanto, silenzioso, per qualche minuto, poi, improvvisamente, le circondò le spalle con un braccio.

Laer alzò lo sguardo verso di lui, ma lui non la stava guardando: camminava perso nei propri pensieri, pallido e malinconico. L'istinto di stringerlo si fece ancora più forte e non riuscì a resistere, passandogli a sua volta un braccio attorno alla vita.

< Non so spiegarne il motivo, > gli disse piano, < ma mi fido di voi, sire Felagund. >

Lui si fermò e la fissò a occhi spalancati.

La sorpresa nei suoi occhi era commovente e Laer si chiese se mai, nella sua lunga vita, quell'elfo fosse stato amato da qualcuno.

Si sentiva stupida, ancora una volta vittima del fascino di qualcuno che aveva appena conosciuto, ma non riusciva a farne a meno.

Non sapeva nemmeno lei cosa provava, se era riconoscente, se ne era spaventata o attratta o se con lui si sentiva protetta.

< Laer, > sussurrò lui, mettendoglisi di fronte e afferrandola per le spalle, < non permetterò a niente e nessuno di farti del male. >

< Lo so, mio signore. Voi mi avete salvata. >

Si sentiva una perfetta idiota, ma non riusciva a pensare lucidamente, con quello sguardo addosso.

< Ma devi parlare, mia piccola, coraggiosa Laer, devi dirmi tutto ciò che sai. >

I suoi occhi erano profondi, come un pozzo di cui non si scorge la fine.

Così belli e gentili... non ne aveva mai visti di simili.

< Devi dirmi cosa sta succedendo >.

Non riusciva a vedere nient'altro che lui, la sua bellezza potente e antica, la sua purezza e la sua sofferenza. Avrebbe voluto stringersi a lui per sempre, dimenticare il rifiuto di Silevril, dimenticare quanto Galmoth l'avesse delusa... dimenticare quanto avrebbe voluto non essere mai scesa dalla Stella.

Finrod le stava parlando, ma le sue labbra non si muovevano. La sua voce era come velluto nella mente.

< Il Tesoro... > gli disse infine, come in un sogno.

< Il Tesoro? >

< Il Tesoro di Ulmo > sussurrò, come se stesse confidando il suo segreto più intimo.




Il gatto si leccò una zampa distrattamente, per poi rivolgere la sua attenzione alla sua padrona, il pelo folto e bianco che sembrava scintillare alla luce delle candele. Sentiva ancora l'odore dell'elfo nella stanza, come di mare in un giorno di tempesta.

Era un odore che gli faceva venire fame.

La sua padrona era seduta a poca distanza da lui e si pettinava i capelli, canticchiando a bassa voce, poi i suoi occhi incontrarono quelli del gatto e lo fissarono per qualche minuto.

< Ci siamo quasi, mio caro, > disse.

Il gatto si alzò e le andò incontro, strusciandosi contro di lei.

< Seguilo. Il suo cuore è mio, ma il suo spirito è forte e ho paura di non riuscire a sopraffarlo. >

Miagolò e lei gli sorrise.

Si avviò a passo svelto verso l'uscita, inoltrandosi poi per le strade di Minas Tirith.

Amava i vicoli tortuosi di quella città, amava i suoi tetti di pietra bianca dove, di notte, era facile mimetizzarsi, attraversandoli come un'ombra, invisibile se non per un luccichio fugace dei suoi occhi gialli.

Percepì la presenza dei suoi compagni intorno a lui e drizzò la coda, radunandoli.

Nove figure uscirono dall'ombra, nere come la pece, a esclusione degli occhi.

Gli si radunarono intorno, in attesa. Lui li guardò a uno a uno, incatenando le loro menti alla sua, comunicando con loro in quel linguaggio segreto che solo i gatti conoscono.

Seguire l'elfo. Seguire l'altro umano. Amare solo e soltanto la padrona.

Un guizzò nell'oscurità, la coda di uno di loro che si muoveva fulminea da una parte all'altra.

Il gatto rimase immobile, mentre gli altri andavano via, silenziosamente come erano venuti, disperdendosi nella notte profumata di Minas Tirith.






Ma salve, miei adorati e silenziosi lettori che ormai sarete andati tutti via!

Prometto sempre che aggiornerò più spesso e ogni volta passano mesi e mesi, perciò questa volta sto zitta.

La storia intanto avanza, io sembro aver superato il blocco dello scrittore e Hareth sarà davvero felice di aver visto Alatariel presa a ceffoni dal caro Aeglos. I miei personaggi li amo tutti senza eccezioni, ma devo dire che scrivere di quei due pazzoidi schizzati mi diverte sempre in modo particolare e prima o poi uno strizzacervelli sarà in grado di capire cosa non va in me.

Vi lascio come al solito dicendovi che titolo e strofa sono presi da “Losing my religion” dei R.E.M., colonna sonora di questo capitolo.

Lunga vita e prosperità.

Thiliol

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Capitolo 19
*** Reminds me of childhood memories ***




Reminds me of childhood memories





Atalariel si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi tanto in fretta da farsi quasi male. La luce della luna l'accecò.

Si mise a sedere, avvolgendosi maggiormente nella coperta di lana che la proteggeva dall'aria fredda della notte.

Aeglos dormiva accanto a lei, il respiro regolare e sereno così tipico di lui. Era nudo e la curva delle sue natiche la ipnotizzava, le sue spalle la invogliavano a toccarlo, ad accarezzarlo, ma non lo fece. Dopo il loro litigio, dopo quella promessa di morte che si erano scambiati, avevano fatto l'amore come mai era capitato prima.

Era stato disperato, era stato violento e sterile, per la prima volta in migliaia di anni tra loro vi era stata solo nuda passione. Non aveva sentito lo spirito di Aeglos unirsi al suo, non aveva sentito la sua mente, ma solo il suo corpo, caldo e sudato.

Si era addormentata, stanca e triste, senza che quel rapporto le avesse portato alcun giovamento.

E aveva sognato.

Ricordava ancora la pelle incredibilmente bianca di Uinen, i capelli che si diramavano in ogni direzione, la voce eterea che le parlava. Non riusciva a ricordare cosa si fossero dette, ma il senso di vuoto che provava si era leggermente attenuato, come se il solo sognare la Maia le avesse per un attimo fatto dimenticare che Silevril non c'era più, che lo spirito di suo figlio era scomparso da Arda.

Allungò una mano e infilò le dita tra i capelli biondi di Aeglos, per poi scendere sulla schiena, seguirne il contorno. Quando arrivò alle natiche si accorse che lui era sveglio e la stava guardando di sottecchi, con la testa girata verso di lei. I suoi occhi brillavano nella notte ma erano colmi di amore.

Che essere meraviglioso era! Sembrava che non fosse accaduto nulla tra loro, sembrava solo un'altra notte passata nella loro casa sulla scogliera, o sotto le fronde dell'Ossiriand, tanti anni prima.

< Non ti fermare > le disse, quando lei ritrasse la mano.

Si sdraiò contro di lui, coprendo entrambi con la coperta. Lo circondò col braccio e con la gamba, mentre Aeglos le afferrava gentilmente una ciocca di capelli e ci giocherellava.

Si sentiva rilassata e al sicuro, così stretta contro di lui, pelle contro pelle.

< Devi avere fede, Alatariel > disse Aeglos a bassa voce, in tono intimo.

< Ci provo, ma nella mia mente lui non c'è più e questo mi terrorizza. >

< Lo so, credimi. Ma non posso pensare a una tale eventualità e nel profondo sai che ho ragione. >

La guardò per un secondo con un sorriso negli occhi.

< Ma non lo ammetterai mai. >

Le scappò una risata, che ben presto sfociò nelle lacrime.

Aeglos gli si fece più vicino e la baciò.

< Ti amo, per questo. >

Rimasero così per un po'.

Alatariel riusciva a sentire il respiro di suo marito su di sé, lo vide chiudere gli occhi e rilassarsi.

< Ho sognato Uinen, > disse infine, a bassa voce, quasi avesse paura che qualcun altro potesse sentirla.

< Mi ha parlato di Silevril > continuò, < ma non riesco a ricordare cosa mi ha detto. >

Ora Aeglos era sveglio, all'erta.

< Come sai che era Uinen? >

< Perché la vidi, molti anni fa, nella mia giovinezza in Tìrion. I suoi capelli erano come i fiumi e la sua pelle candida come la sabbia di Alqualonde. >

< Credo di averla sognata anch'io... ma non l'ho riconosciuta. La Signora di ogni Mare mi ha parlato ma io non l'ho ascoltata. >

Aeglos pianse, silenziosamente e con compostezza, trasmettendole un dolore enorme, in un modo che lei gli aveva sempre invidiato.

Questa volta fu lei a baciarlo.

< Sai cosa vuol dire questo, mio amato? Che forse avevi ragione e una speranza c'è ancora. Forse Uinen tornerà da noi e ci parlerà. Andiamo a Dol Amroth. >

< So che non ci credi davvero, Alatariel, ma ti ringrazio lo stesso. >

Si abbracciarono e Aeglos affondò il viso tra i suoi capelli, perdendocisi.

La luna era ancora alta, ma l'alba non era lontana e già si sentiva qualche allodola cantare in lontananza.

Ma avevano qualche ora, ancora, per rimanere in quel limbo di sollievo che l'aveva avvolta, prima di scostare la coperta e tornare al cupo terrore che no, non c'era alcuna speranza ed il vuoto era totale.

Lì, stretta nell'abbraccio di Aeglos, riusciva quasi a credere di poter conservare la sua vita... la vita di entrambi.




Nascosto dietro un angolo, Galmoth si sentiva talmente impaziente che avrebbe preso a calci la porta.

Non era stato difficile trovare quella casa, dato che praticamente chiunque in città la conosceva, persino gli ubriachi e i mendicanti che infestavano le stradine della cerchia esterna. Si era aspettato un grande palazzo, uno di quelli che i generali del Principe si facevano costruire appena a ridosso del porto, dove il sole riverberava sull'acqua e rendeva il panorama mozzafiato. Anche lui aveva avuto una casa come quella, pensò con una nota di rammarico.

Invece il grande Finrod Felagund abitava in una piccola casa modesta, appartata, con un portoncino rosso e una quantità spropositata di vasi e fiori. Un gatto nero era seduto lì sul lato e sembrava fissare proprio Galmoth con aria attenta, muovendo a scatti la coda.

L'intero quadro gli metteva voglia di ridere.

Proprio quando aveva deciso di raccogliere il coraggio e bussare, la porta si aprì e l'elfo uscì di casa. Era molto diverso rispetto agli elfi che aveva visto a Dol Amroth ed era molto diverso da Silevril: sprigionava un potere latente, ma irresistibile. Era antico e Galmoth poteva sentirlo come tangibile, una sorta di aura che si irradiava da lui, dalla sua figura slanciata e dalle sue movenze eleganti.

Aveva lunghi capelli biondo cenere, sciolti sulle spalle, con solo una sottile treccia nel mezzo. Indossava la divisa delle Guardie della Cittadella e l'Albero Bianco sembrava risplendere di luce propria.

Guardò il gatto e quello fuggì via, spaventato.

Galmoth fece per avvicinarsi di soppiatto, allungando un braccio per poter attirare la sua attenzione con discrezione, ma non fece in tempo.

Con uno scatto fulmineo, l'elfo gli afferrò il polso e gli torse il braccio dietro la schiena, immobilizzandolo contro il muro.

< Non ti conosco > disse in tono perentorio, < ed io conosco tutti in Minas Tirith. Chi sei? >

< Mi chiamo Galmoth, > rispose, cercando di ignorare il dolore alla spalla, < ho qualcosa da discutere con te, Sire >

Lo fece voltare, ma gli impedì qualsiasi movimento bloccandolo ancora contro il muro.

< Sto ascoltando > sibilò.

< Sono sicuro che tu ti stia chiedendo cosa sta succedendo in Città. Beh, potrei saperne qualcosa. >

Finrod lo fissò in silenzio per qualche secondo, finché Galmoth non dovette abbassare lo sguardo.

< Perché vieni da me a dirmi questo? >

< Silevril. >

L'elfo sembrò sbiancare di colpo, tanto che Galmoth si chiese se non sarebbe svenuto lì sul posto, ma si riprese abbastanza in fretta.

< Come lo conosci? >

< Siamo amici. So che vi siete incontrati sulle mura qualche giorno fa e lui ne è rimasto turbato. Cercava di nasconderlo, naturalmente, ma era piuttosto palese che non riuscisse a pensare ad altro che al vostro incontro. >

< Non capisco. >

< Silevril è... beh, non so cosa gli sia successo, ma credo che sia in guai seri. Sta succedendo qualcosa di molto sinistro in questa città e Silevril ci è dentro fino al collo. Devi aiutarmi! >

Rimasero in silenzio entrambi, solo i suoni della città che lentamente tornava alla vita dopo il riposo notturno. Una campana suonò l'inizio del primo turno di guardia della nuova giornata.

Finrod si allontanò leggermente da lui, lasciandolo andare, per poi passarsi le mani sul viso con costernazione.

Disse qualcosa in elfico a mezzavoce che Gamoth non capì, ma aveva l'impressione che l'elfo stesse parlando più con se stesso che con lui. Improvvisamente era sembrato vecchio come un uomo, ma fu solo un'ombra passeggera, prima che tornasse a essere quello di prima, in tutta la sua possanza.

< Non parliamone qui, > disse infine, rivolgendosi direttamente a Galmoth, < vieni in casa. >

Lo introdusse in quello che era un piccolo ingresso con un appendiabiti su cui posò il mantello, poi lo precedette in un'ampia stanza con un tavolo in legno e semplici sedie in vimini.

< Siedi pure, e attendimi qui. Devo mandare a dire che non sarò presente questa mattina sulle mura. >

Con un cenno della mano gli indicò di accomodarsi, poi uscì velocemente.

Rimasto solo, seduto nella sala da pranzo dell'elfo più antico della Terra di Mezzo, Galmoth si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo, come se Finrod lo avesse tenuto sotto una specie di incantesimo.

Poi un rumore di passi. Non poteva essere lui, era appena uscito, inoltre i passi non provenivano dall'ingresso ma dalla parte più interna della casa.

Che Finrod Felagund avesse una moglie? Dei figli? Non sapeva nulla di lui.

I passi si avvicinavano e una voce femminile chiamava il nome dell'elfo.

Galmoth agghiacciò e si alzò bruscamente, mentre la ragazza entrava nella stanza.

< Sire Felagund? Non eravate usc- >

Si bloccò a metà frase, immobile sul ciglio della porta.

Galmoth dovette trattenersi dal correre verso di lei, dal prenderla tra le braccia e stringerla.

< Laer... > sussurrò.

Non gli era mai sembrata così bella, con la treccia che le scendeva morbidamente sulla spalla destra, i capelli un po' più simili a fili di rame di come li ricordava, il semplice vestito a maniche lunghe e collo alto che faceva risaltare le lentiggini sul suo viso.

Non vedeva Laer indossare un vestito da anni, da quando era una ragazzina che sognava di essere la principessa degli Elfi e se ne andava in giro spensierata per la casa di quell'amico di suo padre che la cresceva come fosse figlia sua. Era stata così allegra in quei giorni e ora appariva triste e sola.

< Cosa ci fai qui, Galmoth? > gli domandò in modo secco, quasi duro.

< Io? Cosa ci fai tu qui, piuttosto. Non dovevi andartene chissà dove? >

Laer scostò la treccia con un gesto stizzito della mano e incrociò le braccia al petto.

< Non devo certo dare conto a te di quello che faccio e di dove vado. >

Galmoth sorrise senza volerlo: eccola, quella nota di infantile capriccio che aveva sempre sfoggiato quando qualcosa la contrariava. Era sempre stata viziata, ma come avrebbe mai potuto negarle nulla? Anche adesso, se gli avesse chiesto di andarsene, probabilmente lo avrebbe fatto.

< Vedo che vi conoscete. >

La voce di Finrod li fece sobbalzare entrambi.

< Per favore, lasciate da parte le vostre divergenze. Galmoth, raccontami cosa è accaduto a Silevril. >

< Silevril? > interruppe Laer, ansiosa.

Finrod la guardò, chiedendole gentilmente ma con fermezza di lasciare le domande a dopo.

< Laer mi ha raccontato del tesoro di Ulmo e del vostro incontro con un uomo chiamato Baran. >

< Dovevamo recuperare la gemma per consegnarla al capo della Corporazione dei mercanti. Baran ci aveva detto che i mercanti sono scontenti perché a causa della legge che impedisce agli uomini di entrare nella Contea, il commercio di Erbapipa è in forte crisi. Vogliono il Tesoro per usare il suo potere sull'acqua, per scatenare l'Anduin contro la città, rovesciare il Re e prendere loro il potere. Questo ci ha detto Baran ed io non ho fatto domande, anche se nulla di quanto mi stava dicendo mi convinceva. >

< Lui ti ha promesso qualcosa. >

Non era una domanda, ma un'affermazione. Gli occhi dell'elfo si piantarono nei suoi.

< Mi ha detto che una volta sul trono di Gondor, io avrei potuto riprendere ciò che mi era stato ingiustamente tolto: il mio grado di Ammiraglio della Flotta del Principe, le mie navi ed il mio nome. >

Si voltò verso Laer, rivolgendosi direttamente a lei.

< Ho perso tutto per proteggere un uomo che si è rivelato indegno di fiducia e amicizia, volevo tornare indietro non per me, ma per te, Laer, volevo che tu tornassi a vivere in una casa, volevo che la tua unica preoccupazione fosse quale vestito indossare, con quale dei giovani di Dol Amroth danzare ad una festa. Volevo solo bellezza e gioia per te. >

< Preferivi che io ti credessi un criminale, piuttosto che uno sciocco? > chiese lei, la voce rotta. < Mi hai mentito per tutti questi anni e poi ti sei fidato di nuovo di lui e ora... ora... >

< Cosa centra Silevril in tutto questo? > li interruppe Finrod, riportando l'attenzione su di sé.

< Il capo della Corporazione è una donna di nome Ruth. Lei ha... diciamo una certa influenza sugli uomini. >

Galmoth si mosse, a disagio nel ricordare l'effetto che la bellezza conturbante di Ruth aveva avuto su di lui.

< Quando lei è nella stanza, è come se ogni altra cosa perdesse importanza. Desideri solo lei, poterla toccare, poterla baciare... >

< Descrivimela, > ordinò brusco Finrod.

< Ha gli occhi verdi e lunghi capelli rossi. Sono molto ricci, ma non credo che il colore rosso sia naturale perché è incredibilmente acceso, come una fiamma viva. Ed è bellissima. Non ho mai posato gli occhi su una donna più bella e la sua voce è come un incantesimo. Volevo averla a tutti i costi, ma lei ha scelto Silevril e nel momento esatto in cui lo ha fatto io sono stato libero.

Ma Silevril ne era totalmente soggiogato. Ha preso il Tesoro di Ulmo, lo ha portato da lei e poi sono rimasti soli per un po' di tempo. Quando è uscito lui era... diverso. >

< Diverso come? >

Galmoth rifletté un attimo, prima di rispondere.

< Non posso dire di conoscerlo bene, in fondo non è molto che ci siamo incontrati, ma ho capito qualcosa di lui: è arrogante, sprezzante, forse crudele, ma non è senz'anima, questo mai. C'è qualcosa in lui, uno spirito forte, credo, anche se non sono un esperto di queste cose. Quando è tornato dal suo incontro con Ruth, quello spirito era sparito e di Silevril non era rimasto che l'involucro. >

Rimasero in silenzio.

Laer sembrava offesa da tutta quella situazione ed evitava lo sguardo di Galmoth.

Cosa stava pensando?

Anche in tutta quella faccenda, con la preoccupazione per Silevril e la soggezione che Finrod Felagund gli incuteva, non riusciva a non pensare a Laer. Le era mancata così tanto che vederla ora era come riprendersi dopo una malattia, quando si esce di casa per la prima volta e ogni cosa sembra nuova e l'aria più pulita e fresca. Aveva sentito la mancanza dei suoi capelli, del suo naso, della sua voce, di quando lo sgridava e di quando ridevano insieme. Era la sua bambina e l'amore che provava in quel momento rischiava di farlo scoppiare a piangere come un idiota. Voleva rimanere solo con lei e parlarle, voleva che lo perdonasse.

< Ecco cosa faremo > disse d'un tratto Finrod, riportandolo bruscamente alla realtà.

Silevril, sì, prima dovevano salvare Silevril e poi avrebbe potuto chiarirsi con Laer.

< Devo trovare Silevril, perciò tu, Galmoth, mi indicherai dove si trova questa Ruth. Devo parlare con lui, ma non posso farmi vedere da lei, non ancora, non prima di scoprirne di più. La Guardia della Città sta già indagando, su mio ordine, perciò li manderò lì a sorvegliarla. Non posso combatterla, chiunque ella sia, se Silevril è con lei, non ho abbastanza potere e potrei ferirlo. No, non posso farlo. >

L'elfo sospirò, poggiando i gomiti al tavolo e passandosi le mani sugli occhi.

< Cosa farò io? > chiese Laer.

Aveva un'aria di sfida, dietro alla timidezza con cui si rivolgeva a Finrod.

< Nulla. Non puoi fare nulla, mia dolce Laer. >

L'elfo le sorrise e, incredibilmente, lei annuì. Le si leggeva in faccia la delusione e la rabbia, ma non osò controbattere.

Con una certa punta di rammarico, Galmoth pensò alla lunga lotta verbale che avrebbe dovuto sostenere se nella stessa situazione ci fosse stato lui a dare gli ordini.

< Lo porteremo qui, > aggiunse Finrod, < allora potrai esserci più utile di ciò che credi. >

Si voltò verso Galmoth che, nel frattempo, si era alzato.

< Andiamo. >

Si avviò verso l'ingresso e Galmoth, dopo aver scambiato un'ultima occhiata con Laer, lo seguì.




Il sole riverberava sull'acqua chiara e tranquilla del porto di Dol Amroth, dove le navi dal grande cigno bianco se ne stavano alla fonda come grosse ninfee.

Non veniva lì da molti anni, ma nulla era cambiato, continuava a essere pervaso da bellezza e serenità, simile più di qualsiasi altro luogo su Arda alla sua perduta Alqualonde.

Alatariel al suo fianco si abbassò il cappuccio , lasciando che la brezza le scompigliasse leggermente i capelli.

Le dita di lei intrecciate alle sue tremavano leggermente, ma il suo viso appariva come al solito impassibile.

< Ci saranno decine di navi, > gli disse, < non troveremo mai qualcuno che ha notizie di Silevril. >

< Un elfo qui non deve essere passato inosservato, inoltre sono assolutamente certo che Silevril non abbia nemmeno preso in considerazione queste navi. >

< No, dobbiamo trovare quelle più piccole. >

< Una nave da poter sentire sotto le mani, con cui poter parlare. >

< Una nave che assomiglia al Giuramento. >

Aeglos si voltò verso di lei, per darle un leggero bacio a fior di labbra.

< Andiamo, > disse.

Lei si rimise il cappuccio e insieme si avviarono verso la parte più isolata del porto, dove non più di cinque imbarcazioni a un solo albero ondeggiavano placide nel mattino soleggiato.





Allora, che ne dite, sto migliorano? Non è passato così tanto tempo dall'ultimo capitolo e questo è pure più lungo della mia media, oltre a presentare un raro esemplare di Aeglos nudo. Quello era per Hareth, a proposito, glie lo avevo promesso perché ha fatto di me una bambina felice per l'eternità. Devo ammettere che mi sono divertita a scrivere questo capitolo, sia perché ogni tanto Alatariel ed Aeglos riescono a condividere momenti di intimità senza psico drammi, sia perché adoro il pov di Galmoth, che è una mente semplice e schietta e non si fa troppe pippe mentali. Galmoth, ti vogliamo bene. Beh, che vi devo dire, lasciatemi una recensione, o voi numerini silenziosi sulla mia pagina di gestione storie. Palesatevi, che vi voglio conoscere e alla fine sono pure una personcina simpatica.

Lunga vita è prosperità.

Thiliol



*il titolo è un verso di “Sweet child o' mine” dei Guns 'N Roses

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Capitolo 20
*** You see I'm falling in the vast abyss ***


You see I'm falling in the vast abyss


 

I capelli di Rùth sfiorarono il viso in una carezza sensuale, mentre si muoveva su di lui. Le sue mani gli accarezzavano il petto, lo graffiavano, e lei era così bella da togliere il fiato. Silevril ansimò e un grido roco gli uscì dalla gola senza che riuscisse a fermarlo, ma Ruth gli mise una mano sulla bocca per zittirlo.

Gli sembrava che il suo intero essere si riversasse in lei, non esisteva altro che quella donna e il desiderio che provava alla sua vista, al suo pensiero. Credeva di impazzire e poi tornava indietro, aggrappandosi tenacemente a un barlume di razionalità, all'immagine di ciò che aveva amato nella sua vita, al ricordo del corpo minuto di Laer contro il suo.

Come aveva potuto desiderare Laer? Eppure sapeva che, nel profondo, desiderava ancora la ragazzina dal viso pieno di lentiggini e non la donna dalla bellezza gelida che era su di lui.

Lo sapeva, ma non riusciva ad afferrare quel pensiero in mezzo al tumulto dei suoi desideri.

Rùth si tese e gridò, accasciandosi poi su di lui. Gli diede un veloce bacio sulle labbra e si alzò, lasciandolo solo sul letto. Si sentiva infreddolito e vulnerabile, avrebbe voluto che tornasse, avrebbe voluto trattenerla e ricominciare tutto daccapo, ma non osava.

La donna ancheggiò verso la finestra che si apriva su un cortile interno e aprì i vetri, facendo entrare  il gatto bianco che subito le saltò in grembo.

Lo baciò sul muso morbido e quello iniziò a fare le fusa rumorosamente, fissando Silevril con occhi azzurri e brillanti.

Rùth ridacchiò, come se il gatto le avesse appena detto qualcosa di divertente.

< Avremo presto visite, mio amato Silevril, > disse, lasciando andare il gatto e coprendosi con una vestaglia di seta nera.

< Il tuo amico Galmoth ha chiesto aiuto nientemeno che a Finrod Felagund in persona. Stanno venendo qui. >

Al nome di Finrod qualcosa sembrò stringerglisi intorno alla gola. Non aveva mai provato nulla di simile a ciò che il Noldo aveva provocato in lui, un misto di senso di colpa e fascinazione. Voleva fare colpo su di lui, voleva che quell'essere così antico e potente lo ammirasse. La consapevolezza che lo aveva visto nascere lo rendevano quasi timido.

Per un momento ci fu solo Finrod nella sua mente e si sentì pienamente se stesso, ma svanì preso. Rùth gli si era avvicinata e gli aveva scostato i capelli dalla fronte, immergendo le sue dita sottili e pallide come se volesse strapparglieli.

Rabbrividì a quel contatto.

< Non riusciranno a separarci, amore mio, > le disse.

< No, > rispose lei, < mai. >

Accarezzò la gemma a forza di goccia intorno al collo di Silevril e lui avvertì distintamente il suo potere tremare a quel tocco. Gli parve di vedere una donna che piangeva, con i lunghi capelli corvini sparsi intorno a lei.

Chiuse gli occhi e un dolore accecante lo fece piegare in due, mentre la donna continuava a piangere e i suoi capelli lo avvolgevano, soffocandolo.

Gridò il suo nome.



Il dolore era accecante e Alatariel si accasciò, aggrappandosi ad Aeglos al suo fianco.

Uinen piangeva e i suoi capelli l'avvolgevano come i tentacoli di un mostro marino.

Silevril!

Aprì gli occhi sul porto di Dol Amroth colmo di gente, nessuno che aveva fatto caso ai due stranieri incappucciati inginocchiati sul selciato, uno di fronte all'altro.

< Cos'è successo? > Aeglos la guardava preoccupato da sotto il cappuccio.

Lei gli restituì lo sguardo, confusa. Non aveva idea di cosa fosse accaduto, né del motivo, ma ne era rimasta atterrita e sconvolta. Tremava visibilmente mentre si stringeva a suo marito. L’antica bruciatura alla mano pulsava.

< Non lo so... io... credo di aver visto Uinen... >

Si scrollò di dosso la sensazione di sogno che l'aveva assalita.

< Non guardarmi così > disse stizzita, alzandosi, < non so cosa vuol dire. >

< Hai sentito Silevril. >

Non era una domanda, ma un'affermazione, e questo la fece infuriare. Voleva crederci così disperatamente che non riusciva a essere sicura di nulla. Cosa ne sapeva Aeglos? Lui non era legato allo spirito di suo figlio, non riusciva a capire quale vuoto si fosse spalancato dentro di lei da quando quel legame si era rotto. Si diceva sicuro che non fosse morto e lei voleva crederci, ci sperava con tutta se stessa, ma quel vuoto rimaneva, spaventoso e implacabile.

Aveva sentito la presenza di Silevril, aveva visto Uinen abbracciarlo e piangere, ma era durato talmente poco che non poteva essere certa non si fosse trattato solo della sua disperazione.

< Ho sentito... > si interruppe. < Andiamo, manca ancora una nave. >

Gli allungò una mano, invitandolo a prenderla nella sua.

Aeglos non si mosse e sembrò scrutarla torvo per un secondo, poi infine sospirò.

< Vedremo, > disse solo, prendendola per mano.



Aprì gli occhi e Rùth lo stava fissando.

< Cos'hai visto? > chiese perentoria.

< Ho visto Uinen > rispose, fuggendo il suo sguardo.

Sì, aveva visto la Signora del Mare, ma non solo. Aveva sentito la sua presenza tangibile come se fosse in quella stessa stanza, reale e sicura. Qualcosa dentro di lui però gli impediva di dire a Rùth che aveva sentito sua madre come se lei fosse stata lì, più potente di quanto il loro legame non fosse mai stato prima.

< Il tesoro di Ulmo ha reagito al tuo tocco e ne è rifuggito, > aggiunse infine, tornando a posare gli occhi su di lei. < Non poi toccare la Gemma e non puoi usare i suoi poteri, ma non ne capisco il motivo. >

< Non devi preoccuparti di questo. > Rùth sorrise dolcemente, quasi innocentemente. < Non tutti possiedono il potere necessario a controllare le acque, ed è per questo che ti ho scelto. >

Lo attirò a sé e lo baciò. La sua lingua era calda e avvolgente e Silevril se ne sentiva inebriato. Desiderava di più, desiderava poterla avere subito, possederla totalmente, o sarebbe impazzito.

Le aprì la vestaglia e la strinse, facendola sdraiare sulla schiena e attirandola sotto di sé. La sentì ridere di lui e quella risata lo infiammò, facendogli perdere la capacità di pensare razionalmente.

Non c'era più né FinrodUinen nei suoi pensieri. Alatariel sembrava solo il ricordo perduto della sua infanzia, qualcosa di evanescente che sapeva di lunghe attese e di infelicità.

Contava solo Rùth ormai.

 

Dalla lunga pipa uscivano piccoli rivoli di fumo che si perdevano nell’aria umida. Forlond prese una boccata profonda, trattenendola nei polmoni per qualche secondo, godendosi quel sapore leggermente aspro che solo la miglior Foglia dei Mezzuomini sapeva regalare.

Espirò lentamente e il suo campo visivo fu invaso dal fumo che aveva soffiato dalla sua stessa bocca, profumato e fragrante.

“Guai” pensò tra sé, aggrottando le sopracciglia.

Le due figure incappucciate erano abbastanza vicine alla Stella, eppure non riusciva a sentire una parola di ciò che si dicevano, bisbigliando tra loro, le teste che quasi si toccavano.

Avrebbe voluto vedere i loro volti, ma era impossibile, stretti com’erano in quegli ampi mantelli grigi che li coprivano completamente, dalla testa ai piedi. Spuntavano solo le punte di morbidi stivali di pelle oltre l’orlo.

Gli stranieri erano alti uguali, entrambi più alti sia di lui che di Conn, che pure aveva la stazza possente dei Rohirrim. Si erano avicinati di soppiatto, tanto che Forlond non li aveva visti finché non se li era ritrovati di fronte, a pochi passi da dove la cima teneva saldamente ormeggiata la Stella alla banchina.

Anche il ragazzino si era accorto di loro e li scrutava di soppiatto oltre i suo grosso libro. Aveva quasi una mezza idea di mandarci lui a parlare con loro, almeno si sarebbe finalmente reso utile, ma la sua coscienza si svegliava sempre nei momenti meno opportuni.

Prese un’altra boccata di fumo, ma si accorse con disappunto di aver consumato l’intera pipa. Basta, non li sopportava più.

< Avete intenzione di rimanere lì impalati tutto il giorno o mi dite che accidenti volete? > ringhiò brusco.

I due si guardarono brevemente, poi quello a sinistra fece un passo avanti e si abbassò il cappuccio. Una folta chioma, bionda e scompigliata, sembrò brillare come una fiamma viva sotto i raggi luminosi del sole, lasciando però intravedere due eleganti orecchie a punta.

Forlond sbuffò. Elfi… lui odiava gli elfi!

Aveva l’aspetto di un ragazzo e il naso e gli zigomi screpolati dalla salsedine, tipici dei marinai. Almeno era un marinaio e non qualche principe caduto di città sconosciute! Con i marinai, quantomeno, Forlond ci sapeva parlare.

< Il mio nome è Aeglos, > disse l’elfo, con voce limpida, < ammiravo la vostra nave. >

< L’avete ammirata abbastanza, potete andarvene. >

< Mi chiedevo, > continuò con noncuranza, quasi sorridendo, < se qualche altro elfo abbia ammirato la vostra nave come sto facendo io. >

< Un sacco di gente ammira la mia nave, non posso stare a guardare a tutti le orecchie! >

Forlond prese altro tabacco dalla tasca e lo mise nella pipa, pigiandolo per bene. Dall’altra tasca sfilò un fiammifero e accese, tirando una lunga e profonda boccata di soddisfazione.

L’altra figura incappucciata sbuffò sonoramente e si fece avanti, scoprendo a sua volta il capo.

Disse qualcosa nella sua lingua e il suo compagno si girò a guardarla, rispondendole nello stesso idioma.

Forlond tentò di inspirare altro fumo, ma si rese conto di avere la gola chiusa e la bocca secca. Quella donna, quell’elfo femmina, era senza dubbio l’essere più meraviglioso su cui avesse mai posato lo sguardo: aveva lunghi capelli nerissimi, legati sulla nuca con un laccio, tirati affinché il lungo collo sinuoso e le orecchie rimanessero scoperti; aveva la pelle bianca e gli occhi chiari, anche se da quella distanza non avrebbe saputo dirne il colore reale, ma erano straordinariamente belli e freddi e quella donna sembrava scolpita nel marmo.

Immaginò di prenderla tra le braccia, immaginò di baciare le sue labbra e di vederla sciogliersi contro di lui. Immaginò che fosse sua, mentre un desiderio bruciante lo investiva, gli toglieva improvvisamente la capacità di pensare.

Non riusciva a concentrarsi su quanto lei gli stava dicendo, in tono brusco.

< Cosa? >

< Stupido mortale! > disse la donna, accompagnando le sue parole con un gesto di stizza.

Il suo compagno sembrava abituato a quegli scatti d’ira e con un unico fluido gesto le prese la mano.

< Stiamo cercando nostro figlio, > disse l’elfo, < anche lui avrebbe trovato questa nave meravigliosa e potrebbe avervi chiesto un passaggio. Ha i capelli neri, gli occhi del colore del mare e si chiama Silevril. >

Forlond non lo ascoltava. E così quella bellezza fulgida era la moglie del marinaio… che spreco! La delusione per le sue fantasie così repentinamente spente gli faceva venire voglia di mandarli via in malo modo, ma quello stupido ragazzino si intromise.

< Silevril, certo che lo conosciamo! >

La donna si voltò di scatto, dedicando tutta la sua attenzione a Barry, puntando i suoi begli occhi sul ragazzo, come se volesse leggergli dentro.

< Lo conoscete? Quando lo avete visto l’ultima volta? > chiese e a Forlond sembrò di sentire una punta di emozione nella sua voce.

< Quattro giorni fa, mia signora. Lo abbiamo lasciato assieme al Capitano a Minas Tirith, avevano delle faccende da sbrigare e Silevril voleva visitare la città. >

Beregond posò il suo libro e si sporse leggermente verso i due.

< Voi siete sua madre, vero? Parlava moltissimo di voi, sapete, diceva sempre che siete stata una madre strana. > Si interruppe e arrossì. < Non voglio insinuare niente, signora, è quello che dice Silevril e anche lui è parecchio strano, un elfo diverso da quelli delle storie e delle leggende. Laer pensava fosse insopportabile. >

< Laer? >

< Sì, signora, è il nostro primo ufficiale… o almeno, lo era prima che lei e il Capitano litigassero. >

< Fai silenzio! > lo apostrofò Forlond, ponendo fine al discorso.

L’elfo guardava ansiosamente sua moglie, cogliendo chissà quale pensiero o emozione in lei. Da parte sua, Forlond non riusciva a decifrare nulla di lei e questo lo rendeva nervoso ancora più di quanto già non facesse la sua bellezza.

< Dovete portarci a Minas Tirith > disse infine l’elfo.

< Perché dovrei? >

< Perché questa nave non è vostra > rispose con un vago sorriso, < e perché il vostro capitano vi sta aspettando credendo che voi siate altrove. >

Forlond non disse nulla, guardando i due stranieri, marito e moglie, con sguardo torvo. Aveva l’impressione che lui ti leggesse dentro come un libro aperto, che dietro lo sguardo limpido e il sorriso vagamente derisorio si nascondesse una mente acuta e pericolosa. Non si fidava di lui e ne aveva paura.

D’altro canto la sola vista di lei gli faceva andare più stretti i calzoni e risultava davvero difficile disobbedire agli istinti più impellenti del suo corpo.

< Vi costerà molto, > li avvisò.

< Pagheremo quanto ci richiederai. >

< Domani dobbiamo essere a Minas Tirith, mortale. >

La donna salì agilmente sulla Stella mentre parlava e gli passò accanto. Il mantello sfiorò le sue spalle, lasciando dietro di sé un vago profumo sensuale. Suo marito ridacchiò, accorgendosi delle occhiate che le aveva lanciato.

Balzò a bordo anche lui e gli si fermò di fronte.

< Non ti conviene pensarci, credimi, lo dico per te. Sono Aeglos, comunque, e mia moglie è Alatariel. >

La sua minaccia aleggiò ancora nell’aria mentre l’elfo andava a presentarsi a Barry e a Conn, che nel frattempo era salito sul ponte e chiedeva se qualcuno volesse mangiare qualcosa prima di partire.

 

 

 

 

Questo capitolo ha rischiato di non venir mai pubblicato, ma sono riuscita a recuperarlo dall’aere, ho fatto aggiustare il pc e sono persino riuscita a trovarci un titolo. Cose che solo un paio di settimane fa pensavo impossibili. Solo grazie a puro culo potete godere della scena lime con protagonista Silevril e dei bollenti spiriti di Forlond. Io, da parte mia, ho imparato la lezione e da oggi in poi salverò sempre le bozze suine drive.

Buona lettura, lunga vita e prosperità.

Thiliol

 

 

*Il titolo è un verso di “Forsaken” dei Korn.

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Capitolo 21
*** I’ve killed a million pity souls ***


I’ve killed a million pity souls

 

 

Non c’era luna quella sera e le strade di Minas Tirith erano buie e silenziose. Finrod Felagund sforzò la vista per poter distinguere i suoi compagni nelle tenebre: l’uomo, Galmoth, appariva nervoso, ma sembrava ben addestrato nel gestire la tensione, mentre Laer, nonostante l’indubbia capacità nel maneggiare i suoi piccoli pugnali affilati, dimostrava tutta la sua inesperienza. I suoi uomini, tre in tutto, erano naturalmente i migliori che Gondor avesse da offrire.

Conosceva bene quella casa, ricordava quando vi abitavano alcuni lontani parenti di Faramir, sovrintendente di Gondor ai tempi di Elessar. Vi si era recato egli stesso alcune volte, anni e anni prima, quando Eldarion era solo un ragazzo innamorato di una delle figlie di quel Signore e supplicava il suo amico e mentore di accompagnarlo. Non era mai riuscito a negare nulla a quel giovane, così simile a Beren da fargli male.

Adesso le luci erano spente, a eccezione di una flebile proveniente da una delle finestre al piano superiore.

La porta si aprì e con un cenno Finrod indicò ai suoi uomini di rimanere silenziosi. Silevril uscì, con le mani in tasca e i capelli spettinati sul viso, ma appena ebbe fatto pochi passi si fermò, all’erta, guardandosi intorno con circospezione, fino a fermare lo sguardo nel punto esatto in cui si trovavano nascosti.

Infine sorrise, leggermente sardonico, spostandosi una ciocca di capelli scuri dalla fronte.

< So che sei tu, mio signore Felagund! > disse con voce chiara, tanto che risuonò nella notte silenziosa.

Finrod ordinò cautamente agli altri di attendere e uscì dall’ombra, mostrandosi alla luce tenue di una lanterna pubblica.

< Ero ansioso di rivederti. >

Sembrava sprezzante, quasi impertinente, ma Finrod riusciva a sentire il nervosismo nella sua voce.

< Buonasera, Silevril. >

Si sentiva a sua volta imbarazzato. Non sapeva cosa dirgli. Voleva abbracciarlo, ma non ne aveva il coraggio.

Silevril lo stava guardando, in attesa, ed era impossibile dire cosa gli stesse passando per la testa, cosa stesse pensando… in quel momento assomigliava a sua madre in modo così vivido che Finrod si sentì pervadere dalla frustrazione. La voce gli uscì dura e forse sgarbata.

< Devi venire con me. >

< Perché? >

Nella sua domanda c’era una paura indefinita. Non riusciva a capire che effetto avesse su di lui, non riusciva a capire nemmeno se fosse effettivamente il ragazzo che aveva conosciuto poco prima. L’immagine del neonato che era stato un tempo, indifeso eppure in un certo senso più consapevole di qualunque altro bambino avesse mai visto, gli affiorò prepotentemente alla memoria.

Ricordava di averlo preso tra le braccia, ancora viscido di sangue, paonazzo e piangente, mentre sua madre si chiudeva in un mutismo spettrale.

Che cosa c’era nella sua mente allora? Che cosa c’era adesso?

Deglutì, anche se non aveva più saliva.

< Se non verrai con me di tua iniziativa, sarò costretto ad arrestarti. >

Sembrò considerare la cosa. Appariva spaventato, giovane e solo, con i capelli sul viso.

< Rùth lo aveva previsto > disse quasi a se stesso.

Finrod tacque, non sapendo cosa dire. Sentiva le tre guardie ancora nascoste dietro quel muro che lo stavano fissando, pronte a scattare al suo minimo cenno. Sentiva i pensieri confusi dell’uomo, Galmoth, come se glie li stesse sussurrando all’orecchio e non facevano che acuire il suo disagio.

Quello che aveva davanti non era Silevril, ma allo stesso tempo sembrava se stesso forse per la prima volta.

Un rumore improvviso lo fece quasi sobbalzare. Si voltò e vide Laer che era avanzata verso di loro.

Aveva ancora l’abito verde che indossava da quella mattina e sembrava quasi una principessa delle fiabe, con la treccia ramata, le lentiggini sul viso e tutto il resto. Ma portava una cintura e due pugnali erano nei foderi legati ad essa.

Silevril la guardava ad occhi spalancati, esterrefatto e affascinato.

< Laer? >

La sua voce appariva ora del tutto diversa, forse più roca, forse più adulta di prima.

< Che ti è successo, eh, elfo? Sembri un maledetto fantasma! >

Laer parlava con noncuranza, facendosi avanti. Finrod avrebbe voluto spingerla via, proteggerla, ma si trattenne perché Silevril reagiva a lei come non aveva reagito a nient’altro.

 < Dai, vieni con noi, parliamo. > La ragazza indicò il ciondolo al collo dell’elfo, che Finrod non aveva notato. < Quello è il motivo di tutta questa storia? Carino, ma non so se vale la tua anima, che ne dici? >

Silevril si voltò verso la casa, improvvisamente inquieto.

< Zitta! > sibilò, abbassando la voce.

< Silevril! > lo chiamò Finrod, con voce imperiosa.

Non poteva più attendere oltre, rimanere lì era troppo pericoloso, almeno finché non avesse capito con chi aveva a che fare.

Percepiva chiaramente un grande potere nascosto in quella casa, e soprattutto sentiva quello contenuto nella gemma attorno al collo di Silevril come un’onda scatenata dall’essere stata indicata.

Gli si avvicinò e lo afferrò per un braccio e lui si fece incredibilmente condurre via, seguito da Galmoth e dalle guardie.

Attraversarono una serie di vicoli poco illuminati e poi andarono su, verso la Cittadella. Alla porta che immetteva al sesto livello si fermarono e Finrod congedò le guardie. Rimasero solo loro quattro e silenziosamente, sempre tenendo fermamente la mano di Silevril, si diressero verso casa sua.

Quando entrarono, lo lasciò e accese tutte le luci del piccolo atrio che gli faceva da ingresso.

Galmoth e Laer stavano guardando Silevril, ma Silevril non guardava  nessuno in particolare, sorrideva appena giocherellando con una ciocca di capelli, arrotolandola attorno a un dito per poi lasciarla andare e ricominciare daccapo.

< Silevril > lo chiamò con fermezza e quello si voltò finalmente a guardarlo, < parlaci di Rùth. >

 

 

Rivedere Silevril era stato piuttosto strano, sembravano passati anni, e invece erano solo pochi giorni. L’elfo sembrava smarrito a tratti, come se non capisse bene cosa Finrod gli stesse dicendo, come se stesse cercando di ritrovare il segno in una conversazione di cui ci si è persi un pezzo.

Ma Laer non riusciva a staccargli gli occhi di dosso e si sentiva una perfetta idiota a pensare a quanto fosse perfetto con i capelli scuri scarmigliati e gli occhi chiari che sembravano liquidi.

Galmoth sicuramente doveva sapere cosa stava pensando, perché la guardava con un’aria un po’ stranita che le fece venire una nostalgia acuta di loro due e del rapporto che avevano perso.

Ma non era il momento ora.

Finrod stava parlando e lei cercò di concentrarsi sulle sue parole.

< C’è grande potere in lei, posso sentirlo anche a distanza, > stava dicendo.

< Perché parli di qualcosa che non conosci?  > scattò Silevril.

< Non capisci? Il suo incantesimo su di te ti rende cieco e sordo! Sei succube della sua magia! >

Silevril sembrava offeso. Si voltò verso Galmoth, con un sorrisetto ironico.

< Sei geloso, Galmoth? Perché lei ha voluto me e non te? Ho visto come la guardavi, sentivo il tuo desiderio. Tu volevi lei, volevi possederla lì al momento e non ti importava che io fossi presente. Sto forse sbagliando? >

Galmoth era a disagio.

< No. No, non sbagli… ma non era reale, nulla di ciò che stai provando lo è. >

< Dici così perché non sei stato con lei, ma io sì, io ho potuto assaggiare le sue labbra, toccare la sua pelle. Lei mi ha donato tutta se stessa e ha preso ogni cosa da me. >

Laer sbiancò e per un attimo la stanza si riempì di macchie nere che vorticavano nel suo campo visivo.

Silevril la guardò sorridendo crudelmente, quel tipo di sorriso che di solito usava per canzonarla e che aveva sempre trovato affascinante, ma che ora era soltanto orribile.

< Povera, piccola Laer! Fa finta di essere una grande guerriera, ma è solo una bambina. >

< Basta! >

Finrod parlò con una voce che non sembrava la sua, tanto era profonda. Silevril si zittì come se lo avesse schiaffeggiato e lo fissò negli occhi, il corpo che tremava come di freddo.

A Laer veniva da piangere, ma si trattenne. Sentì la mano di Galmoth nella sua e la strinse forte, aggrappandovisi come aveva fatto tante volte da bambina, quando quell’uomo forte era stato tutto il suo mondo.

Finrod andò incontro a Silevril e gli afferrò le spalle.

< Io… > Silevril balbettava < Io non lo so, mio signore, cosa mi è successo. Il desiderio di lei è indescrivibile, ma non trovo più me stesso tra le sue pieghe. Anche mia madre è perduta per sempre… >

I due elfi si guardarono in silenzio, intensamente.

Laer non riusciva a capire cosa intendesse dire Silevril, ma ne era ugualmente turbata. Si fidava di Finrod e la preoccupazione nei suoi occhi la metteva profondamente a disagio.

< Che dici del Tesoro di Ulmo?  >Interloquì Galmoth, spezzando quel contatto visivo prolungato.

Silevril sembrò accorgersi solo in quel momento della sua presenza e si portò una mano al collo.

< Non lo so, ma lei non ha potuto toccarlo. Ne era quasi spaventata, ha detto che solo io posso incanalarne il potere, ma non so cosa significhi. >

< Chi controlla il potere della gemma, può governare il Mare, così si dice a Dol Amroth, > disse Galmoth.

< Non il Mare soltanto, > rispose Silevril, < ma tutte le acque. Il Gioiello appartiene ad Uinen e Lei mi si è mostrata quando l’ho toccato. >

Finrod annuì, pensieroso.

<  Uinen è la Signora di tutti i Mari e di tutte le acque ed ama i Teleri più di chiunque altro. Per questo si è mostrata a te e per questo tu puoi usarne il potere. >

Laer non riuscì più a trattenersi.

< Perché stiamo qui a discutere? > sbottò < “Governare le acque” vuol dire tutto e niente, ma comunque non è affatto qualcosa che mi preme scoprire. Galmoth, prendi la Stella e torniamo a Dol Amroth, il Tesoro di Ulmo è proprietà del Principe e tu lo sai! >

< La Stella non è qui. >

< Come sarebbe a dire? >

< Ho ordinato a Forlond di andare verso Rauros e attendermi lì, ma se lo conosco bene a quest’ora se ne sarà tornato a Dol Amroth, o a Umbar, in cerca di merce da trasportare. >

Maledicendo mentalmente Forlond e i suoi metodi, Laer incrociò le braccia e lanciò uno sguardo storto verso Galmoth.

Non lo aveva ancora perdonato, ma era bello averlo lì e l’idea impulsiva di lasciarlo e andarsene le sembrava molto meno piacevole di quando l’aveva formulata.

< In ogni caso non è così semplice. Devo scoprire chi è questa Rùth e quali sono i suoi poteri. Con o senza la Gemma, la sua minaccia verso Gondor è ormai palese, inoltre Silevril è ancora sotto il suo incantesimo, qualsiasi esso sia. Non c’è che una sola soluzione. >

Tornò a rivolgersi a Silevril, lo sguardo improvvisamente triste.

< Amin hiraetha, mellonin, > disse piano, nella sua lingua.

E prima che Laer riuscisse anche solo a formulare un pensiero coerente, Finrod Felagund aveva estratto un pugnale.

 

 

Alatariel trasalì.

Non sapeva perché, ma aveva sentito qualcosa che l’aveva attraversata come un fulmine, facendole rizzare ogni pelo del corpo.

Si strinse maggiormente nel mantello e si calò ancora di più il cappuccio sul capo, tentando di ignorare lo sguardo insistente dell’uomo al timone.

Non le aveva tolto gli occhi di dosso per tutto il giorno e Aeglos si era dimostrato estremamente divertito per questo. Era infuriata, perché Aeglos sembrava avere ancora del buon umore, nonostante tutto, mentre lei non riusciva a trovare dell’ottimismo nel vortice di disperazione in cui era caduta.

Voleva credere a quello che si erano detti, voleva credere che il vuoto che le si era spalancato dentro non significasse nulla, ma dopo duecento anni si sentiva privata violentemente di una parte di sé fondamentale.

Si voltò appena quando Aeglos la raggiunse sul ponte. Sembrava a suo agio su quella nave, circondato da mortali, quando lei invece non riusciva a sopportarne la presenza, come se tutti loro non facessero altro che osservarla continuamente, giudicarla, chiedersi quanto ci avrebbe messo a crollare definitivamente. Tentava di mantenersi ferma, ma era al limite.

< Devi stare tranquilla, > disse Aeglos, con calma serafica.

Guardava Minas Tirith che si faceva sempre più vicina, puntellata di luci ancora accese nonostante l’alba imminente.

< Riesco a sentirlo, Alatariel, lo percepisco come se fosse fisicamente accanto a me, ora. >

< Vorrei davvero poterti credere. >

< Devi. >

< Il nostro legame è spezzato. >

Aeglos le prese il viso tra le mani, costringendola a guardarlo in faccia. Il suo sguardo era serio e intenso, la catturò, facendole dimenticare l’uomo che li stava guardando, il Rohirrim sotto coperta, il ragazzino che dormiva in un angolo del ponte, facendole dimenticare persino se stessa.

< Ascoltami attentamente: devi fidarti di me, fidarti che Silevril è vivo, che ha bisogno di noi. Non so cosa sia successo, ma qualcosa di oscuro è all’opera e solo non perdendo la speranza, noi e lui, questa cosa potrà essere sconfitta. Devi smetterla, Alatariel, smetterla di credere che ogni cosa nella vita sia sofferenza, smetterla di credere di non meritare nient’altro. >

La baciò, a lungo e profondamente, senza lasciarla. Era arrabbiato, lo percepiva chiaramente dall’irruenza del suo tocco, ma in qualche contorto modo la rabbia di Aeglos aveva sempre avuto il potere di calmarla. Era innamorata di quella rabbia, forse, più di qualsiasi altra parte di lui.

Se ne andò via, tornando sotto coperta, lasciandola sola con l’uomo bruno dallo sguardo persistente, intento a fumare la sua lunga pipa.

Minas Tirith era ormai ben visibile nella foschia che precede l’alba.

 

 

 

***

 

Eccomi eccomi eccomi! Con questo capitolo un po’ di transizione ci avviamo verso la parte finale di questa storia, quindi siate fiduciosi che ci arriviamo!

Il titolo è un verso di “Slept so long” dei Korn, canzone veramente meravigliosa, ascoltatela perché merita, noi ci vediamo al prossimo capitolo.

Lunga vita e prosperità,

Thiliol

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Capitolo 22
*** To what you receive is eternited leave ***


To what you receive is eternited leave

 

 

 

Finrod estrasse il pugnale con un movimento rapido, quasi felino. Sapeva che avrebbe dovuto spostarsi, difendersi in qualche modo, ma non riusciva a muovere nemmeno un muscolo, la sua mente era come intrappolata in un ciclo in cui il volto serio e bello di Finrod Felagund si sovrapponeva a quello delicato, fanciullesco, di Laer… e poi diventavano entrambi Alatariel, con gli occhi scuri come il mare di notte che lo fissavano con delusione.

Cosa hai fatto, Silevril?

Attese di essere trafitto, perché alla fine era giusto così, perché sapeva benissimo, così come lo aveva capito lo stesso Finrod, che qualsiasi cosa fosse rimasta in lui era ben lontana da qualsiasi possibilità di salvezza e che aveva perduto se stesso nell’esatto momento in cui aveva varcato la soglia della casa in cui si trovava Rùth.

Ma il colpo non arrivò.

Ci fu una luce accecante e uno scoppio che fece volare Finrod contro il muro. Sentì il suo grido, ma non poteva fare niente per lui.

Laer e Galmoth erano per terra, l’uomo faceva scudo alla ragazza con il proprio corpo e guardava alla sua destra.

Silevril seguì il suo sguardo e quel qualcosa che lo aveva tenuto bloccato sembrò sciogliersi, allo stesso modo di una cima quando si lascia il porto.

Era Rùth ed era proprio di fronte a lui, con una mano alzata davanti a sé  e quel sorriso seducente a cui non poteva resistere. Ma era diversa: i ricci rosso fuoco erano scomparsi, cadevano sulla sua schiena scomposti, lisci e di un nero spento, quasi grigio, il suo corpo formoso e invitante appariva rattrappito, magro come qualcuno che non mangia da settimane e la veste nera che indossava ne amplificava il pallore. Eppure era lei e il suo viso era bello come sempre e il sorriso lo teneva avvinto.

Corse da lei e la prese tra le braccia, baciandola a lungo. Non sapeva cosa stava facendo, non capiva cosa quella donna rubasse dal più profondo di lui, ma non gli importava.

< Amore mio, mio amato Silevril, > disse lei, con voce di miele.

Finrod era poco distante e si rialzava a fatica, tenendosi una spalla dolorante.

< Silevril, allontanati da lei! >

Istintivamente i suoi piedi lo portarono verso l’elfo, il comando era troppo diretto, troppo forte… il tocco della mano di Rùth sul suo polso che lo tratteneva sembrava bruciare.

C’era potenza, in Finrod Felagund, e alla sua voce non poteva sottrarsi.

Rùth alzò di nuovo la mano e ne scaturì una luce intensa. Laer gridò.

Ma Finrod non ne veniva toccato, anzi, sembrava lui stesso brillare ancora più luminoso di Rùth, tanto che Silevril dovette coprirsi gli occhi; la figura dell’elfo era sfolgorante e i capelli dorati rilucevano come stelle.

Si gettò a terra di fronte a quella visione, con le mani sopra la testa. Il ciondolo attorno al suo collo sembrò diventare rovente e lui urlò più forte che poteva, finché non gli fece male la gola.

< Elbereth, salvami! > si sentì gemere, ma la luce aumentò e il ciondolo era ormai come lava contro il suo petto.

Chiuse gli occhi e le figure scintillanti di Finrod e di Rùth vennero sostituite con quella di Uinen. Era vestita di azzurro e piangeva. Le sue lacrime inondavano la stanza, mentre i suoi capelli si diramavano in ogni direzione, avvolgendolo, soffocandolo. Non riusciva a respirare, non riusciva a sopportare la vista delle lacrime della Maia, ma aveva paura che riaprendo gli occhi si sarebbe trovato di nuovo di fronte alla potenza di Finrod e alla luce che veniva da Rùth.

< NO! > gridò più forte che poté e Uinen scomparve.

Sentì Rùth che veniva sbalzata via e lentamente aprì gli occhi. Finrod era tornato il solito elfo dalle sembianze fin troppo umane, con la sua divisa da gondoriano e i lungi capelli biondo cenere, mentre Rùth era accasciata sul lato opposto, svenuta e bellissima, con i suoi ricci rossi e i seni pieni.

< Galmoth, vieni, aiutami a legarla, > disse l’elfo ansimando leggermente, < Laer, corri al presidio della porta al primo livello e porta qui tre guardie. >

Laer ubbidì, ma mentre usciva lanciò uno sguardo verso Silevril, ancora inginocchiato sul pavimento, con le mani alla testa e il volto sconvolto.

Finrod e Galmoth sollevarono Rùth e le legarono i polsi prima di adagiarla su una sedia.

< Cosa è successo qui? > domandò Galmoth. La sua voce era roca e nervosa.

< La magia di questa donna è antica e malvagia, ho dovuto usare tutto il mio potere per sovrastarla. Sono passati molti e molti anni da quando vidi qualcosa del genere e comunque mai in altri che nei servi di Morgoth. Ma in Gondor c’erano Uomini che praticavano la magia e la negromanzia… Numenoreani Neri, li chiamavano. >

Finrod si voltò e si accorse di lui, ancora per terra, con le mani sulla testa e le lacrime agli occhi, ansimante.

Lo guardò a lungo, stringendo le labbra, prima di avvicinarsi e accovacciarsi di fronte a lui, faccia a faccia.

Riusciva a sentirne il profumo, lieve come brezza di terra.

Finrod gli prese le mani, scostandogliele delicatamente, e poi posò il palmo contro la sua guancia. Il suo tocco era caldo e soffice.

< Silevril, > lo chiamò piano, come se si stesse rivolgendo a un bambino, < puoi sentirmi? >

Sì, avrebbe voluto dire, ti sento, ma non riesco a parlare.

Si sentiva paralizzato, la testa ancora piena della visione di Uinen, le orecchie che fischiavano dopo tutte quelle urla.

Lo sguardo di Finrod si spostò sulla pietra al suo collo, ora fredda e inanimata. Fece per toccarla, ma cambiò idea e ritrasse la mano, sospirando pesantemente e tornando a concentrare la sua attenzione su Rùth e su Galmoth che controllava i nodi ai suoi polsi.

Si alzò, ma con uno scatto Silevril gli afferrò il polso, impedendogli di allontanarsi.

< No, > sussurrò, < ci sei solo tu tra me e… qualsiasi cosa mi stia portando via. >

Finrod si sedette sul pavimento, scrutandolo.

< Cos’hai visto? >

< Lei mi ha baciato e ha preso qualcosa da me… Finrod, anche ora la desidero con ogni muscolo del mio corpo, anche se la mente è altrove, anche se la mente vuole… altro… >

< Altro? > chiese, ma Silevril lo ignorò.

< Uinen ha tentato di salvarmi, ma non ci è riuscita > rise amaramente, < sono sempre stato fin troppo testardo e avevo la presunzione di essere indistruttibile. >

Mise una mano dietro la nuca del Noldo, avvicinando i loro visi finché le fronti non si toccarono.

< Vorrei che mio padre fosse qui, vorrei poter sentire lo spirito di mia madre dentro di me, vorrei non desiderare di uccidere te e Galmoth e Laer solo perché me lo ha chiesto lei … vorrei che  il potere del Tesoro di Ulmo non mi corrodesse dall’interno… >

< Puoi opporti. Dammi la collana. >

< No. > Si allontanò con un sospiro, < Non capisci, mio signore? Ormai è legata a me, Uinen mi ha parlato. Devo solo trovare la forza di non volgerla al male. >

Finrod lo fissò, senza parlare. Il viso dell’elfo era stanco, terribilmente umano. Gli sembrava di fissare un mortale nella seconda metà della sua vita, con rughe profonde sulla fronte, fili argentei tra i capelli, la traccia appena visibile della barba sulle guance e sul mento. Ma i suoi occhi erano antichi e percepiva il loro potere come una mano sulla spalla.

Non sapeva cosa gli passava per la testa, ma sentiva che avrebbe dovuto appigliarsi a qualcosa, una qualunque, per ricordarsi che era Silevril e che non era perso tra le ombre dei capelli di Uinen o nel corpo caldo di Rùth.

Finrod era lì, lo attraeva fatalmente, si sentiva legato a lui da qualcosa che non sapeva spiegarsi, a metà tra la paura e il desiderio.

Lo afferrò ancora per la nuca, con forza, ma lui gli resistette. Aveva le pupille leggermente dilatate e una minuscola goccia di sudore sopra il labbro.

< No > lo sentì sussurrare, < non è questo il modo. >

< Allora sono perduto. >

Chiuse gli occhi e le lacrime gli rigarono il volto.

 

 

Galmoth cercava di rimanere chinato il più possibile sulla donna, stringendo le corde attorno ai polsi e alle caviglie, facendo di tutto per non guardare verso i due elfi. Se ne stavano accovacciati sul pavimento, vicini come amanti, con le fronti che si toccavano.

Pensava a Laer e al modo in cui aveva guardato Silevril fin dal primo momento della loro conoscenza, come diventava rossa quando l’elfo la stuzzicava con battutine sarcastiche. Era felice che non fosse presente e si augurò che quei due la smettessero prima del suo ritorno.

Era ovvio che Silevril non era in sé e il ricordo dello sguardo che gli aveva lanciato poco prima gli dava ancora i brividi. Non credeva che avrebbe potuto avere paura di lui, invece era rimasto quasi paralizzato dal terrore.

Una parte di lui si chiedeva se Rùth non avesse semplicemente risvegliato qualcosa che l’elfo aveva sempre avuto dentro.

Il cigolio della porta di ingresso e un rumore sordo di passi annunciarono il ritorno di Laer.

Finrod Felagund sembrò destarsi improvvisamente e si allontanò con un movimento brusco da Silevril, scattando in piedi e lasciando l’altro che rimase nella stessa posizione, con il volto bagnato di lacrime.

Laer entrò seguita da tre uomini con la divisa delle Guardie della Cittadella.

Con uno sguardo confuso videro prima la donna svenuta e legata sulla sedia, poi l’elfo piangente sul pavimento, infine fissarono il loro comandante.

< Questa donna è a capo dei ribelli che stavamo cercando, > disse Finrod in fretta, < è pericolosa e non deve essere assolutamente lasciata da sola o slegata. Per nessun motivo dovete ascoltare le sue parole, se potrà vi ucciderà, sono stato chiaro? >

Quelli annuirono.

< Galmoth, ti prego, rimani qui a vigilare su di lei. Il sole è già alto e io devo riferire ciò che ho scoperto al Re. Laer, aiutami a portare Silevril con noi. >

Galmoth osservò mentre Laer si inginocchiava di fronte a Silevril e gli prendeva la mano.

< Vieni, > disse dolcemente, come se si trovasse di fronte un bambino piccolo. Lui la guardò stupito per un secondo, poi la riconobbe e sorrise.

< La piccola Laer, > disse.

< Sì, proprio lei. Dai, alzati, andiamo dal Re, lui saprà cosa fare. >

Con grande stupore di Galmoth, Silevril si alzò e si asciugò gli occhi. Sembrava perfettamente normale, il solito elfo con il viso da ragazzo e gli occhi di ghiaccio che aveva imparato a conoscere e amare.

Si scambiò una fugace occhiata con Laer, mentre  uscivano insieme a Finrod, un’occhiata che voleva dire stai attenta ma che sembrò diventare una specie di saluto.

Un brivido gli attraversò la schiena, mentre guardava la treccia della ragazza sparire oltre la porta.

 

 

La sala del trono non era come l’aveva immaginata. C’era bianco dappertutto, accecante sotto il sole del mattino che entrava dalle finestre. Si sentiva come in un sogno ad occhi aperti e se per un istante era riuscito a ritrovare la lucidità – gli occhi verdi e limpidi di Laer, le sue lentiggini su tutto il viso, la voce un po’ più bassa di come ci si potrebbe aspettare da una ragazzina come lei – ora l’aveva perduta nuovamente.

Il Re stava parlando con Finrod.

Finrod lo chiamava Estel, lo guardava con l’amore di un padre, gli spiegava che qualcosa di oscuro era all’opera. 

Beruthiel, diceva, i Numenoreani Neri sono tornati, vogliono il trono degli Uomini, ma non riusciva davvero a seguirli.

Sentiva la gemma pulsare e se chiudeva gli occhi, Uinen era lì, e Rùth era lì (Beruthiel? Avrebbe forse dovuto sapere di chi si stava parlando?) e lo tiravano ognuna verso una direzione.

Era un po’ come essere diviso in due, un po’ come non sapere davvero se si è buoni o cattivi.

Solo tu puoi riportarmi a casa

Solo tu puoi usare la gemma, sollevare l’Anduin su Minas Tirith

Silevril, riportami a Dol Amroth, vieni con me

 

Entrambe parlavano nella sua testa come se stessero sussurrando nelle sue orecchie ed era meraviglioso e terribile.

Si portò una mano alla gola, afferrando il ciondolo a forma di goccia. Era freddo come l’acqua profonda le mattine d’inverno, quando si tuffava dalla scogliera per dimenticare che sua madre era andata via, nuotando finché non gli mancava il respiro, finché non si sentiva intirizzito fin dentro le ossa.

Si piegò su se stesso e, istintivamente, cercò Laer al suo fianco. La ragazza gridò qualcosa, lo sorresse quando si accasciò, incapace di distinguere la realtà dalle voci nella sua testa.

La sentì pronunciare il suo nome, sentì Finrod accorrere, seguito dal Re, mentre una luce azzurra accecante li avvolgeva. Avrebbe voluto aprire gli occhi, ma non ci riusciva.

< Silevril è perduto nelle profondità del Mare > si udì dire, ma avrebbe anche potuto essere tutto un sogno.

 

 

Non era riuscita a mettere nemmeno un piede sulla banchina di legno, prima di finire in acqua.

L’Anduin sembrava impazzito, grosse rapide si erano formate improvvisamente sulle sue acque normalmente tranquille, gettando nel panico i marinai, rovesciando le imbarcazioni che scaricavano le merci sui Campi del Pelennor. Onde alte il doppio di lei si abbatterono sul porto, trascinando tutti tra i flutti fangosi.

Alatariel tentò di aggrapparsi a qualcosa, ma invano. Gridò il nome di Aeglos, ma la mano di lui era scivolata via dalla sua quando l’acqua si era abbattuta su di loro.

La Stella Marina si rovesciò. Sentiva le urla intorno a lei e non poteva farci nulla.

Riemerse a fatica, annaspando per trovare aria, per poi essere sommersa di nuovo e ancora lottare per respirare.

Si sentì afferrare e trascinare verso riva con decisione.

< Ti tengo! > gridò Aeglos, aggrappato ad una delle strutture in pietra del molo.

A fatica riuscì a tirarsi fuori e si ritrovò tra le braccia di suo marito.

< Stai bene? > chiese frenetico, nel panico, < Sei ferita! > le toccò la nuca e guardò ad occhi sbarrati il sangue sulle dita.

< Non è nulla, Aeglos, solo un graffio. >

Si abbracciarono e l’elfo sembrò quasi volerla soffocare nell’impeto.

< Non spaventarti, non mi sono fatta nulla. >

La verità, anche se tentava di rassicurarlo, era che il terrore per un attimo l’aveva sopraffatta esattamente come aveva sopraffatto lui. Aveva creduto di perderlo, in mezzo a una tale furia.

Le onde continuavano ad abbattersi su di loro, mentre si alzavano e si allontanavano correndo verso i cancelli della Città. Decine di uomini e donne correvano con loro, urlando e spingendo.

Per un secondo il pensiero del ragazzino, Barry, e dell’uomo di Rohan la fecero quasi inciampare e sarebbe caduta se Aeglos non l’avesse sostenuta. Forlond era anch’egli sparito nel Grande Fiume quando la Stella si era ribaltata. Si scoprì a pregare i Valar perché fossero vivi, tutti e tre.

Avrebbe voluto piangere.

 

 

Rùth era in piedi di fronte a lui. I tre soldati giacevano morti intorno a lei, come macabre decorazioni.

Era bellissima e terribile e lo stava guardando con occhi di fuoco.

Era successo tutto talmente in fretta: Rùth aveva aperto gli occhi e aveva pronunciato strane parole; gli uomini di Gondor, prima che Galmoth potesse muovere anche un solo muscolo, avevano rivolto la loro spada contro se stessi e si erano trafitti, poi Rùth si era alzata, nessuna corda a tenerle i polsi e le caviglie, il suo irresistibile sorriso e i boccoli invitanti sui lati del viso.

< Mio caro Galmoth, > aveva detto con voce di miele, < che stupido sei stato a sottovalutarmi. Finrod Felagund è accecato da se stesso e non capisce nient’altro che non sia il suo potere. Ma io ho la magia dell’Oscuro Signore dentro di me. >

Sollevò una mano con il palmo verso l’alto e fece comparire dal nulla una sfera di nera oscurità.

Un gatto bianco era dietro di lei, con sguardo maligno. Da dove fosse entrato, Galmoth non avrebbe saputo dirlo, sempre che l’animale non fosse sempre stato lì.

< Sì, mio caro, > disse Rùth al gatto, rispondendogli come se quello avesse parlato a parole, < Ogni cosa è al suo posto. >

Lanciò la sfera di oscurità con un movimento fluido proprio contro di lui, immobile e senza via di fuga.

Quando lo colpì, le tenebre scesero anche su di lui.

 

 

Al Cancello la calca bloccava il passaggio e la gente spingeva per entrare.

L’Anduin continuava ad ingrossarsi e presto le sue acque avrebbero invaso anche la prima cerchia della Città, trascinando via i suoi abitanti.

Fradicia e sanguinante, si teneva aggrappata a suo marito, terrorizzata al solo pensiero di essere separata da lui di nuovo. Aveva perso suo figlio, perdere anche lui sarebbe stato troppo da sopportare.

Improvvisamente Aeglos lanciò un grido.

La folla guardava verso l’alto, puntando il dito verso la parte più alta della Città, dove le mura si fondevano con la piazza e assumevano la forma della prua di una nave.

Una figura solitaria era lì in piedi, in bilico sul ciglio dello strapiombo, le braccia sollevate sopra la testa da cui si sprigionava un bagliore azzurro intenso, che si diramava fino al Fiume.

Alatariel riconobbe i suoi capelli neri spettinati, la figura asciutta, la postura sprezzante da ragazzino. Il suo cuore mancò un battito e si strinse ancora di più contro l’elfo che le stava accanto.

< Silevril, > sussurrò Aeglos, incredulo.

 

 

 

 

 

 

 

***

 

 

In questo capitolo è successo di tutto, talmente di tutto che ho il fiatone. Ho preso in prestito il titolo, ancora una volta, dai miei amati Massive Attack, in particolare dalla splendida “Splitting the Atom”. A volte mi chiedo se la connessione tra il titolo e il capitolo la capisco solo io nella mia mente contorta o se alla fine ci capite qualcosa anche voi…più probabile la prima ipotesi. A presto!

Lunga vita e prosperità

Thiliol

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Capitolo 23
*** Take my hand now, be alive ***


Take my hand now, be alive

 

Il fragore minacciava seriamente di assordarla mentre correva dietro Finrod. L’elfo si era gettato all’inseguimento di Silevril, muovendosi con una rapidità che Laer non aveva mai visto prima, trascinandola con sé, le dita ferme sul suo polso.

Anche il Re di Gondor si era catapultato fuori dal Palazzo, nella piazza dell’Albero, facendo cenno alle guardie di seguirlo.

Quando raggiunsero Silevril, lui se ne stava in piedi sullo strapiombo, la gemma scintillante alzata, con una luce azzurra che lo circondava.

Laer corse verso di lui, liberandosi dalla presa di Finrod e ignorando i suoi avvertimenti. La Piana del Pelennor era invasa di acqua, l’Anduin vorticava e strabordava con la violenza di un Olifante imbizzarrito, travolgendo la gente che tentava di fuggire disperatamente verso i livelli più alti della Città.

Le ci vollero pochi istanti per capire che non ci sarebbe stato scampo, che l’acqua avrebbe continuato ad alzarsi, riversandosi dal Mare all’Anduin e poi alla Piana, sommergendo Minas Tirith e tutti i suoi abitanti.

Riusciva a sentire le urla e gli scrosci fin dall’ultima cerchia.

Silevril se ne stava immobile, ignorando tutto ciò che lo circondava, con le spalle rigide. Non poteva vederlo in faccia, ma la sua postura indicava una grandissima tensione.

Finrod l’afferrò e la trascinò indietro, lontano da Silevril.

< Lasciami! > Tentò di divincolarsi, invano.

< Non sappiamo come potrebbe reagire! > Gridò l’elfo, e Laer riuscì distintamente a sentire la sofferenza nella sua voce.

Una risata allegra li fece voltare di scatto e videro Rùth, libera e bellissima, nonostante l’incantesimo che le aveva modificato l’aspetto fosse sparito.

Aveva i capelli neri ed era pallidissima, ma gli occhi, neri anch’essi, erano penetranti e crudeli… affascinanti.

< Dov’è Galmoth? > le chiese, tentando di non balbettare, mentre il panico si impossessava di lei.

Rùth la ignorò e si rivolse a Finrod, sorridendogli ammaliante.

< Non è meraviglioso? Silevril ha il Mare nell’anima come nessun altro abbia mai incontrato prima e tu lo sai, lo senti. >

Finrod si irrigidì, stringendo il polso di Laer ancora di più.

< E c’è dell’oscurità in lui, il tocco della maledizione di Mandos, un odio che nemmeno lui sapeva di possedere e che lo corrode internamente. > Rùth sorrise. < È questo che ti attrae in lui, giusto? >

< Silenzio! >

Finrod aveva parlato senza alzare la voce, ma Rùth vacillò come se lui l’avesse spinta . Il sorriso sulle labbra di Rùth svanì per un attimo, ma tornò subito appena si voltò verso il Re di Gondor, che se ne stava in piedi tra le sue guardie.

< Estel > lo chiamò < speranza…ma che speranza credi di avere, Sire? >

Il Re fece un cenno alle sue guardie, che avanzarono verso Rùth, che mosse la mano di scatto.

Gli uomini gridarono, come consumati dal fuoco, e si accasciarono. Le loro urla ferirono le orecchie di Laer anche più di quelle degli uomini travolti dall’acqua.

Finrod trattenne il respiro.

< Morgoth  > disse, e quella parola sembrava un insulto.

< Il mio Signore mi dona forza, un piccolo assaggio del suo infinito potere. >

< Beruthiel, > disse Finrod, con tono imperioso, < fermati. >

La donna si immobilizzò e il suo sorriso si trasformò in un ringhio.

Laer sapeva che la voce di Finrod aveva potere, ma aveva paura che non potesse bastare.

< Libera Silevril! >

Rùth rise forte, schernendolo, pur senza riuscire a muovere un muscolo. Quella risata le mise i brividi e dovette ricacciare indietro le lacrime.

Non c’era speranza, pensò.

< Non sto facendo assolutamente nulla a Silevril. >

Era vero.

L’elfo era ancora immobile, come se nulla di quanto fosse successo lo avesse minimamente toccato.

Lo chiamò piano e lui, incredibilmente, si voltò appena, guardandola. I suoi occhi chiari erano lucidi, come se anche lui stesse faticano per trattenere le lacrime, ma per il resto il suo viso non faceva trasparire nulla.

Finrod lasciò la presa sul suo polso per avvicinarsi a Rùth, mentre anche il Re di Gondor si avvicinava cautamente alla donna. La magia nera era ancora nell’aria come pioggia, se ne poteva sentire quasi l’odore.

E Laer si mosse verso Silevril. Sentiva che toccandolo, avrebbe potuto risvegliarlo, farlo ragionare.

Ma in quel momento un grido lo fece sussultare e Silevril si girò di scatto.

Due figure correvano verso di lui, bagnate e sporche di fango. Erano un uomo e una donna e quest’ultima aveva gridato il nome di Silevril con la forza della disperazione.

Finrod aveva a sua volta sussultato, perdendo per un attimo il controllo di se stesso, il tempo necessario perché Rùth si liberasse dalla sua influenza tanto da potersi muovere.

Fece un movimento flessuoso della mano verso il Re e l’uomo si curvò in avanti, sputando sangue.

Sentì Finrod gridare disperatamente il nome del suo Re e sguainare la spada. Con una violenza di cui non lo credeva capace, trafisse Rùth.

La donna cadde e il suo sangue si sparse intorno a lei, rosso e viscido… normalissimo sangue umano, anche se lei sembrava non esserlo.

Sulle sue labbra continuava ad aleggiare un sorriso di miele.

Silevril guardava la scena impietrito, tenendo stretto a sé il Tesoro di Ulmo, che brillava azzurro attraverso le sue dita.

I due elfi non avevano badato a Finrod, alla morte di Rùth o del Re. Avevano corso fino a ritrovarsi accanto a Laer.

Silevril li guardava e nei suoi occhi si accese una scintilla d’odio.

< Silevril, > disse la donna, < devi fermarti, la Città sta morendo! >

Tentò di toccarlo, ma la luce che lo circondava la respinse, bruciandola. Il volto della donna era duro, nonostante le lacrime. Sembrava una statua di marmo su cui qualcuno avesse versato dell’acqua e la somiglianza con l’impassibilità che tanto l’aveva attratta in Silevril era evidente.

L’uomo al suo fianco guardava Silevril con tristezza e meraviglia.

< Torna in te, Silevril. >

Sembrava pregarlo.

< Non toccatelo! >

Era Finrod, ancora accovacciato vicino al suo Re, con il volto sofferente.

< Non immischiarti, Finrod, >  disse l’elfo, con una durezza che sorprese tutti.

< Ti prego, Aeglos, ascoltami. Quello che hai davanti non è tuo figlio. >

Laer si sentì vacillare. I tre elfi si guardavano e tra loro passò una comprensione antica, che lei non riusciva a raggiungere. Sembravano tre statue e ciò che li circondava, il Re, Rùth riversa nel suo stesso sangue, persino Silevril, non li toccavano davvero.

< Nessuno di voi capisce, > disse infine, sorprendendo anche se stessa.

La guardarono tutti.

Si girò e Silevril, in piedi sul parapetto delle mura, con l’acqua vorticante sotto di lui e la luce sfavillante della pietra nelle sue mani, sembrava ancora più alto, ancora più meraviglioso di quanto non fosse di solito.

Sapeva di essere solo una ragazzina, sapeva di non avere niente in comune con lui, ma lo amava e questo era un fatto. Non c’era alcun motivo, in realtà lo trovava anche antipatico e pieno di sé, ma non riusciva a farci nulla.

Cercò automaticamente Galmoth con lo sguardo, chiedendo la sua approvazione, un consiglio su ciò che stava per fare, ma l’uomo non c’era e il pensiero di cosa era potuto accadergli minacciava di gettarla nel panico più assoluto.

< Silevril? > lo chiamò piano e lui la guardò.

Prese coraggio.

< Stai facendo un vero casino qui, elfo, non te ne accorgi? >

Tentava di apparire noncurante, ma la sua voce tremava leggermente.

< Non riesco a fermarla, Laer, > disse lui, < Uinen è troppo potente. >

< Credi che lei voglia la distruzione di Minas Tirith? > domandò, come se quella domanda fosse del tutto casuale, < La morte di persone innocenti? >

< No, > tentennò, ansimando appena, < vuole essere liberata dal potere di Morgoth. >

< Rùth è morta, Silevril. >

L’elfo sembrò accorgersene solo in quel momento. Spostò lo sguardo al corpo della donna, sporco di sangue e abbandonato, poi a Finrod, distogliendolo immediatamente, come se fosse doloroso. Infine vide i suoi genitori e una lacrime gli bagnò la guancia.

< Alatariel… Aeglos… >

I due non si mossero.

E poi Silevril guardò Laer.

< Sto morendo, Laer, > disse e il suo corpo iniziò a tremare violentemente, <  la magia nera di Rùth mi ha corroso dall’interno e continua a diffondersi come un cancro. Aiutami. >

L’elfo le tese la mano, con la catena a cui era appeso il Tesoro di Ulmo intrecciata alle lunghe dita sottili.

Senza nemmeno pensare a cosa stava facendo, Laer si sporse verso di lui e intrecciò le dita con le sue.

< Sii vivo, > sussurrò, e quando le loro dita si incrociarono la luce azzurra della gemma avvampò, avvolgendoli entrambi, per poi sparire.

Il rombo dell’acqua che sbatteva contro le mura cessò.

Silevril la guardò per un attimo, come se la vedesse per la prima volta, poi gli si rovesciarono gli occhi all’indietro e cadde su di lei.

 

Alatariel gridò.

Finrod si era dimenticato di quanto fosse difficile guardarla, di quanto fosse doloroso, eppure non riuscì a fare a meno di correre verso di lei, lasciando il corpo di Estel a terra.

Lei e Aeglos avevano preso Silevril dalle braccia di Laer e Alatariel era china su di lui.

Chiamava il nome di suo figlio con voce rotta.

Finrod si accovacciò a sua volta su Silevril e gli prese il polso, gelandosi improvvisamente quando non sentì pulsazioni.

Alatariel sbiancò, lasciandosi cadere tra le braccia di Aeglos, anche lui bianco come non lo aveva mai visto. Laer piangeva con una mano sulla bocca, incapace di distogliere lo sguardo.

Finrod si sentiva come svuotato, la testa leggera, il pollice ancora sul polso di Silevril.

Cosa provava?

Si sentiva stordito da quanto aveva perduto. Immagini di Estel bambino, che cavalcava per i campi del Pelennor, si sovrapponevano al  sorriso sghembo che Silevril aveva la prima volta che si erano visti.

Aveva perso il suo passato e il suo futuro in pochi minuti e non riusciva a provare niente.

E poi, improvvisamente, lo sentì. Un battito.

< Silevril! > esclamò, sorpreso.

L’elfo spalancò gli occhi e gli afferrò la mano che aveva sul polso. Stringeva ancora il Tesoro di Ulmo, e la pietra era tornata ad assomigliare ad acqua liquida.

< Uinen mi ha parlato, > disse piano, rivolgendosi direttamente a Finrod, ignorando gli altri.

< Cosa ti ha detto? > gli chiese, cercando di non farsi distrarre dal tocco delle sue dita. Sembravano schegge di ghiaccio e lo bruciavano.

Silevril non rispose, ma si mise a sedere, guardando per la prima volta sua madre e suo padre.

< Perché siete qui? > domandò, come un ragazzino ribelle.

A Finrod veniva da piangere per il sollievo di sentirlo parlare di nuovo con quel misto di saccenza e tono scanzonato.

Alatariel lo abbracciò e Aeglos strinse entrambi, mentre Laer li guardava improvvisamente timida.

La ragazza si alzò e lui la raggiunse, mettendole un braccio intorno alle spalle. La vide asciugarsi gli occhi di nascosto, sperando che lui non la vedesse debole.

< Sapevo che c’era ancora qualcosa di lui, > disse piano, senza guardarlo, < ma non ero sicura che io sarei bastata a riportarlo indietro. >

< Sei sempre stata tu, il suo faro nelle tenebre. >

Laer alzò le spalle, non convinta.

< Vado a cercare Galmoth. >

Finrod la guardò allontanarsi a passo svelto, mascherando il misto di delusione per non essere stato il primo pensiero di Silevril e ansia per la sorte di suo padre.

Il corpo di Estel era ancora lì, poco distante da quello di Beruthiel, entrambi così umani da far male. Si avvicinò alla donna e la guardò per un attimo, cercando dentro di sé un senso di colpa che non trovò, e poi il volto nobile di Estel, con gli occhi chiusi e un leggero rivolo di sangue sul mento.

Si inginocchiò e gli posò un bacio sulla fronte, mentre altri soldati accorrevano nella piazza e il brusio della folla scampata all’inondazione si faceva più insistente.

< Namarie, mellonin > disse.

Aveva detto addio a talmente tanti amici che il dolore poteva arrivare a sopraffarlo, eppure non era mai riuscito a rinunciare a quel dolore.

Silevril si stava alzando in piedi, aiutato dai suoi genitori.

Mentre lo guardava, pensò che la sua maledizione era proprio quella, amare sempre chi non poteva avere. Suo padre avrebbe detto che questo poteva far capire molte cose su di lui… probabilmente aveva ragione.

 

 

 

 

Questa storia avrei potuto benissimo chiamarla “Le sfighe di Finrod” e nessuno avrebbe obiettato nulla. Il buon Estel, figlio di Eldarion figlio di Elessar, ci abbandona e il povero Finrod non impara mai dai suoi errori, mentre Laer svolge il ruolo di donna salvifica che morivo dalla voglia di inserire da qualche parte da anni e che finalmente sono riuscita a mettere in una mia storia (certo Alatariel di salvifico non ha mai avuto nulla). Se volete sapere cosa accaduto a Galmoth e al resto della ciurma, ma soprattutto chi sceglierà Silevril tra i suoi molti spasimanti, appuntamento al prossimo capitolo.

Lunga vita e prosperità,

Thiliol

 

 

P.S. il titolo di oggi è un verso di “Forsaken” dei Korn

 

 

 

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Capitolo 24
*** 'Til then I walk alone ***


Dedicata ad Hareth, che ha trovato il suo Aeglos e ne ha fatto suo marito. Mi raccomando, almeno tu non scappare di casa a intervalli regolari!

 

‘Til then I walk alone

 

 

Quando aprì gli occhi non riuscì subito a mettere a fuoco ciò che lo circondava e dovette sforzarsi, cercando di non pensare alla sensazione che il cervello stesse tentando di uscirgli dalla testa attraverso gli occhi e le orecchie. Sentiva dolore in ogni punto del suo corpo, gli facevano male le braccia, le gambe, persino i capelli sembravano attaccati al suo cranio con i chiodi.

Quando finalmente la sua vista si schiarì non riconobbe il soffitto, bianco e liscio, di semplice intonaco. Non era sulla Stella, questo era certo, e non era nemmeno nella stanza che aveva condiviso con Silevril alla locanda, o in casa di Finrod Felagund.

Non riusciva a ricordare esattamente cosa fosse successo, sentiva unicamente la vaga certezza che Rùth fosse l’ultima cosa che aveva visto. Il ricordo di quegli occhi, quelle labbra, quel corpo… Non poteva perdercisi, non quando il solo atto di ricordare acuiva il suo già terribile mal di testa.

Mosse lentamente un braccio, posato sul copriletto, e fu difficilissimo anche solo spostarlo di pochissimi centimetri.

Qualcosa gli impediva di muoverlo, qualcosa di morbido e caldo e pesante.

Una mano.

Abbassò lo sguardo e il cuore gli si strinse. Laer era addormentata, seduta su una sedia di legno, piegata in avanti, con la testa sul letto e la destra che stringeva la sua mano sulla coperta. Respirava piano, con la bocca leggermente aperta, i capelli che sfuggivano in modo disordinato dalla treccia e le nascondevano appena il viso.

Le lentiggini risaltavano come se fossero di fuoco sulla pelle pallida e le davano un’aria da bambina, così familiare che a Galmoth veniva da piangere.

Laer era lì, era viva, era con lui.

Rimase a fissarla, senza parlare, senza svegliarla, esattamente come aveva fatto tante volte quando era bambina, come faceva ancora sulla Stella, quando lei non lo vedeva. Assomigliava così tanto a suo padre che, all’inizio, Galmoth l’aveva guardata perché così riusciva a sentirsi un po’ più vicino a quell’amico perduto, ma man mano che la guardava, aveva iniziato a farlo solo per lei, per la sensazione di pace e calore che lo invadeva.

L’aveva vista cambiare da bambina a donna senza mai staccare gli occhi da quel viso e aveva rischiato di perderla perché era uno sciocco.

Strinse appena le dita attorno al suo palmo e quel movimento la scosse, svegliandola.

Appariva leggermente confusa, come se il sonno l’avesse colta di sorpresa, si mise seduta e infine vide Galmoth che la guardava sorridendo, sveglio e stanco.

< Galmoth! > esclamò, il sollievo ben udibile, < sono così contenta! Per tutti i Valar, credevo di averti perso! >

Gli si gettò letteralmente addosso, strappandogli un gemito.

< Mi dispiace > disse, ritirandosi, < ti ho fatto male? >

< Non c’è bisogno che sia tu a farmi male, > rispose Galmoth, la voce ancora impastata, < ho dolore in ogni singolo punto del mio corpo. >

< Come ti senti, a parte i dolori? >

< A parte i dolori sto bene… beh, sono stanco come se avessi camminato per miglia e miglia per poi essere calpestato da una guarnigione intera a cavallo, ma immagino che me la caverò. >

Laer gli fece un gran sorriso e il suo volto si illuminò.

< Credevo che fossi morto, quando ti ho trovato sul pavimento a casa di Finrod. Tutti quegli uomini accanto a te lo erano e tu… eri così freddo! > Rabbrividì.  < Rùth ti ha risparmiato. >

< Forse credeva di avermi ucciso. >

< No, se avesse voluto ucciderti lo avrebbe fatto. >

Rimasero in silenzio per un po’.

< Dove sono? > chiese infine Galmoth, < Cosa è successo? >

< Sei alle Case di Guarigione. Tre giorni fa Rùth si è liberata, ti ha quasi ucciso e ha attaccato la sala del trono. Silevril appena l’ha vista… non so che genere di potere quella donna avesse, Finrod ha tentato di spiegarmelo, ma io non so nulla dell’Antico Nemico, degli Anni Oscuri e di queste cose. Quello che so è che Silevril ha usato il potere del Tesoro di Ulmo per riversare il Mare nell’Anduin e inondare la Città. >

Galmoth sospirò. Lo aveva immaginato, aveva capito cos’era successo nell’istante in cui aveva aperto gli occhi. Non era stato in grado di fermarlo, aveva avuto paura dell’elfo, non avrebbe dovuto nemmeno permettergli di rimanere solo con Rùth.

< Non è colpa tua, > lo rimproverò la ragazza, come se gli avesse letto nel pensiero, < non è colpa di nessuno, se non di Rùth. Ed ora il Re è morto e decine e decine di persone sono morte nell’inondazione… e la Stella… >

Galmoth si sentì attorcigliare lo stomaco.

< La Stella cosa, Laer? >

< Tutte le navi che erano al porto sono state distrutte. >

La voce della ragazza tremava.

Riusciva ancora a ricordare di quando, subito dopo essere caduto in disgrazia agli occhi del Principe e aver perduto tutti i suoi averi, era andato al porto, con Laer che lo seguiva anche se era già grande abbastanza da poter avere una vita sua. Ricordava della nave, piccola e mal ridotta, attraccata accanto a quella per cui Laer stava contrattando. L’aveva vista e l’aveva amata di un amore immediato e viscerale, ignorando le parole del venditore, le parole di Laer che gli chiedeva se era pronto a chiudere l’accordo.

Aveva speso tutti i soldi che gli rimanevano per la Stella Marina, nonostante le proteste della ragazza, senza mai pentirsene.

Ed ora non esisteva più.

< L’equipaggio? > Aveva paura della risposta.

< Sono riusciti a salvarsi, > disse Laer e lui tirò un sospiro di sollievo, < anche se Conn si è rotto una gamba e probabilmente dovrà camminare con un bastone per il resto della sua vita. Forlond ha qualche graffio e Barry sta benone, lo hanno preso a lavorare qui, alle Case di Guarigione. >

Laer lo guardò, in attesa che lui facesse la domanda che sapeva di dover porre, prima o poi.

< Silvril? >

Aveva quasi paura a chiedere di lui. Non voleva pensare al viso dell’elfo, al nulla che aveva visto nei suoi occhi, alla voce tagliente che lo aveva fatto sentire come un bambino tremante. Aveva guardato dentro di lui e ci aveva scorto un’ombra che lo aveva terrorizzato nel profondo.

< Sta bene, > disse Laer, piano, < è tornato quello di sempre. >

Non rispose. Non riusciva a dire a Laer ciò che pensava veramente, cioè che Rùth non aveva rubato l’anima dell’elfo con un incantesimo, ma aveva semplicemente aperto una porta per permettere alla sua vera essenza di fuoriuscire.

Non poteva dire questo a sua figlia, così evidentemente innamorata di Silevril da non riuscire ad andare oltre l’immagine che ne aveva fatto nella sua mente.

< Sai, > disse lei, improvvisamente, < sono stata io. Silevril stava in piedi sulle mura, a distruggere tutto, a delirare di Uinen, di potere e chissà che altro, ed io sapevo che mi avrebbe ascoltata, sapevo che avrei potuto toccarlo. Gli ho preso la mano e lui è tornato in sé. >

Lo guardò, aspettandosi probabilmente che lui dicesse qualcosa, ma Galmoth rimase in silenzio.

La stanchezza era ormai parte di lui e faticava a tenere gli occhi aperti, mettere insieme una risposta per Laer era troppo difficile in quel momento.

< Ti lascio riposare, > disse, alzandosi di scatto e lasciando la stanza.

Il suono della porta che si chiudeva dietro di lei risuonò come un colpo di martello nella sua testa dolorante.

 

 

 

Non sapeva perché, ma si era ritrovato seduto al tavolo in casa di Finrod, con una tazza fumante di un qualcosa che non aveva mai assaggiato prima. “Tè”, lo aveva chiamato l’elfo che se ne stava di fronte a lui, in silenzio e senza guardarlo, gli occhi persi nella stessa bevanda calda.

Silevril ne prese un altro sorso: era amaro e intenso, gli provocava una strana sensazione nelle vene, come se piccole scosse lo attraversassero velocemente.

< Contiene al suo interno una sostanza eccitante, > disse Finrod, quasi casualmente, < ma per qualche strano motivo, io lo trovo estremamente rilassante. >

Non rispose e il silenzio si allargò tra loro fino a divenire quasi fisico.

Erano tre giorni che non vedeva l’altro e li aveva passati rimuginando, inquieto, finché non aveva preso il coraggio a due mani ed era andato a casa sua. Si maledisse mentalmente, perché ora era lì e non sapeva cosa dire, l’unica cosa certa era che staccare gli occhi da lui era impossibile.

< Voglio rimanere qui, con te. >

Finrod alzò di scatto la testa, piantandogli addosso uno sguardo severo. Silevril si mosse a disagio sulla sedia, ma il Noldo era implacabile, lo faceva sentire nudo.

< No. >

< Perché no? > la voce gli uscì come un lamento.

Finrod sospirò e posò la tazza sul tavolo, alzandosi e andandogli davanti. Prese una sedia e si sedette di fronte a lui.

Il suo volto era liscio e senza età, ma la fronte era aggrottata e tra i capelli si intravedevano sottili fili d’argento, quasi che la vecchiaia mortale lo stesse ormai raggiungendo. Il potere che emanava era pari solo alla fragilità che stava dimostrando.

< Odieresti rimanere qui, > disse e quando Silevril fece per controbattere lo zittì, < No, anche se adesso pensi che mi sbaglio, so che è così. C’è il mare in te, Silevril, ne hai un bisogno disperato e tenerti qui sarebbe orribile da parte mia. >

Si bloccò un attimo e gli mise una mano dietro la nuca, avvicinando le loro fronti. Con l’altra mano prese la sua tazza e l’appoggiò sul tavolo.

Silevril era come ipnotizzato da quegli occhi, dalla sensazione del suo respiro così vicino.

< Non riuscirei mai a lasciarti andare, se ora rimanessi qui. >

< Non puoi decidere per me. >

< Sì che posso, > sorrise appena, < sei giovane ed arrogante ed hai ereditato la mancanza di buon senso da entrambi i tuoi genitori. Deciderò io per te. >

Si sporse leggermente e gli posò un bacio sulle labbra.

Fu appena uno sfiorarsi, prima che Finrod interrompesse il contatto.

< Ho sempre amato chi non avrebbe mai potuto ricambiare > disse, alzandosi in piedi.

Qualcosa scattò in lui, come una voce che gli gridava di fare qualcosa, di non lasciare che quella sensazione svanisse. Avrebbe potuto dirgli che non era vero, che lo amava, che non lo avrebbe mai lasciato, ma sarebbe stata una menzogna.

Eppure aveva bisogno di Finrod, di saziare quel desiderio, di zittire quella voce, di cancellare una volta per tutte l’immagine dell’elfo che aveva avuto in testa fin dal loro primo incontro.

Non sapeva cosa provasse, né se provasse effettivamente qualcosa, sapeva soltanto che Finrod era lì e che non c’era altro da fare se non quello.

Gli afferrò il polso, tirandolo a sé con forza, poi quando fu vicino gli prese la casacca, attirandolo ancora.

Lo baciò, ma non fu come il precedente, non fu un tocco né leggero né breve.

Si spinse verso di lui, immobilizzandogli il volto, forzando le sue labbra ad aprirsi e, sorprendentemente, non trovò resistenza. Finrod sapeva di tè e miele e le loro lingue si accarezzavano.  Silevril gli mise una mano nei capelli e li tirò leggermente, l’altro gli afferrò gentilmente le guance per tenerlo fermo.

Avrebbe voluto rimanere così per sempre, ma non fu possibile. L’elfo lo allontanò bruscamente, ansimando come dopo una lunga corsa, lo sguardo un pozzo di sofferenza.

< Questo, > disse con voce rotta, < non sarebbe mai dovuto accadere. >

Lo fece alzare, quasi di peso, soffermandosi un momento di troppo prima di lasciare la presa.

Silevril avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma, così come era arrivato, il desiderio si era spento e tutto ciò che rimaneva era il fascino che quell’elfo, così antico e così mortale, esercitava su di lui.

Sentiva solo il vuoto dentro e Finrod sembrò capirlo subito.

< Te l’avevo detto, no? > gli sorrise, triste.

Cosa poteva aggiungere?

Si morse un labbro, mentre lo oltrepassava e si avviava verso la porta, lasciandolo da solo, le tazze di tè ancora calde sul tavolo, come una promessa.

 

 

Si chiuse la porta alle spalle, gli occhi che gli bruciavano per la fatica di trattenere le lacrime. Perché piangere? Era forse un bambino?

Non riuscì a farne a meno e si asciugò le guance con rabbia, avviandosi lungo la strada, verso la locanda in cui alloggiava.

Aveva davvero creduto… cosa? Che cosa aveva provato per Finrod? Una parte di lui voleva tornare indietro e costringerlo a tenerlo con lui, ma era flebile e stava svanendo.

Sentiva ancora il suo sapore in bocca.

< Se fossi rimasto, non avrei potuto sopportarlo, > disse una voce alle sue spalle.

Si voltò di scatto, sorpreso di trovare suo padre lì, come in agguato nell’ombra.

< Mi seguivi? >

< Naturalmente. >

Aeglos sembrava tranquillo, noncurante, mentre lo raggiungeva e camminava al suo fianco.

< Perché mi seguivi, Adar? Non lo sai che sono ormai un bambino grande? > Sorrise di sbieco, mascherando l’amarezza sotto una patina di ironia.

< Perché non potevo lasciarti fare ciò che volevi fare, > rispose laconico, < e non mi fido di Finrod Felagund su queste cose. Ho visto cosa c’è tra di voi, ho letto il desiderio nei vostri occhi. >

Gli afferrò un polso, fermandosi e costringendo Silevril a guardarlo in faccia.

Aeglos sembrava stanco come non mai, aveva delle escoriazioni su uno zigomo e le labbra pallide, ma gli occhi erano quelli di sempre.

< Finrod Felagund è intrappolato in un riflesso, > disse, < l’ombra di un amore che non potrà mai essere e tu, Silevril, sei innamorato del potere. >

< Non devi preoccuparti per me, > si divincolò bruscamente dalla stretta di suo padre, < era solo un’illusione. Ma non potrete controllarmi per sempre, non potere continuare così. Tu e Alatariel dovete lasciarmi andare! Perché siete qui? >

Tutta l’amarezza, la rabbia, la stanchezza di quei giorni gli si riversarono addosso in quell’istante. Avrebbe voluto colpire Aeglos, fargli capire che la sua presenza era come una corda che lo legava.

Ma Aeglos lo bloccò di nuovo, costringendolo in un abbraccio. Erano passati tre giorni e non si erano ancora toccati, non dopo quell’abbraccio disperato sulle mura, subito dopo che tutto era finito.

Come ogni volta, non riuscì ad evitarsi di ricambiare, perdersi nell’abbraccio rassicurante di suo padre.

< Ho temuto che fossi morto. >

< Ma non lo sono,ogni cosa è andata per il meglio. >

< Torna a casa, con me, con tua madre. >

Lo stava supplicando, quasi soffocandolo in quell’abbraccio disperato.

< Lo so che ti ho spinto ad andare via, che ho finto di appoggiarti, ma mentivo. >

< No, adar, non posso tornare nella vostra bolla di ossessioni e sensi di colpa. >

Aeglos si irrigidì.

< Sì, padre, non fingere di non capire, > disse Silevril scostandosi, < non capite che mi avete ucciso con il vostro amore? Cerco di fuggire e voi mi seguite fin qui, a Minas Tirith, perché credevate che fossi morto? Non vi avevo forse giurato che sarei tornato? Tu e mia madre vivete in questo vortice di amore malsano ed io non posso più farne parte. >

Guardò suo padre e per la prima volta in vita sua non riuscì a decifrarne l’espressione, sembrava una statua, lui che di solito era un libro aperto. Lo aveva ferito così profondamente?

Sentiva come mille lame nel petto. Sofferenza, in ogni parte del suo spirito.

Ma non poteva fare altro, non aveva nessun altro mezzo per potersi distaccare da tutto quello, non quando la lontananza fisica non era servita a nulla, non quando la cosa che desiderava di più era proprio ciò che suo padre gli chiedeva.

Era grato che sua madre non fosse lì, non sarebbe mai riuscito a dire a lei ciò che stava dicendo ad Aeglos.

Per un attimo desiderò rifugiarsi sotto lo sguardo potente di Finrod, ma poi quel pensiero svanì e sentì sulle labbra il ricordo delle labbra di Laer.

< Prendi tua moglie e vattene, Aeglos, > asserì infine, < torna a casa nostra, sulla scogliera. Io vi troverò lì, prima di attraversare il Mare, lo giuro, ma ora devo poter vivere. >

Gli voltò le spalle e se ne andò, lasciandolo come impietrito sulla strada, il ricordo della sua infanzia che sbiadiva al sole.

Le lacrime che aveva non erano abbastanza.

 

 

 

***

 

 

Avete avuto il bacio tra Silevril e Finrod, avete avuto un momento padre/figlio molto fluff e uno molto angst, insomma si può dire che ce n’è per tutti i gusti. Ci avviamo alla conclusione, il prossimo capitolo sarà l’ultimo di questa storia e poi epilogo, spero che prima o poi voi numeretti silenziosi vi farete sentire. Io comunque continuo a salutarvi e augurarvi lunga vita e prosperità!

 

P.S. il titolo è un famosissimo verso di “Boulevards of broken dreams” dei Green Day

 

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Capitolo 25
*** If I had a heart ***


If I had a heart

 

 

Silevril se ne stava appollaiato sull’albero maestro come un uccello, con lo sguardo perso lontano nella corrente dell’Anduin.

Era un grosso mercantile, molto diverso dalla Stella, e Laer si ritrovò a pensare che non fosse assolutamente adatto a quell’elfo dai modi tanto spicci.

Quando si avvicinò lui la udì e si voltò a guardarla, con un sorriso sincero sul viso tirato.

Non lo vedeva dai funerali del Re e non gli parlava da quando lo aveva richiamato dall’Ombra, lì sulle mura di Minas Tirith, ormai una settimana prima. Sentiva la sua mancanza come una bruciatura sulla pelle.

< Sei venuta a salutarmi, piccola Laer? >

Sorrise e scese agilmente, come un gatto, atterrandole proprio di fronte. Laer alzò la testa per guardarlo, maledicendosi per l’improvvisa timidezza che l’aveva colta.

< Stai andando via, quindi? > gli chiese.

< Domani partirò con questi gentili signori, per nuove fantastiche avventure! >

Scherzava e la prendeva in giro, come sempre. Era un qualcosa che la faceva impazzire, arrabbiare… e che amava profondamente.

< Pensavo che saresti tornato con tua madre e tuo padre. >

Il suo viso si indurì.

< No, è una cosa che non posso fare, > improvvisamente tornò a sorridere, con aria furba, come un bambino dispettoso < sono grande ormai, no? >

< Galmoth non si è ancora ripreso > disse lei, un po’ indecisa su come affrontare l’argomento per cui l’aveva cercato, < rimarrò qui con lui e poi Finrod ci scorterà a Dol Amroth. Il Tesoro di Ulmo tornerà al collo del Principe e Galmoth riavrà il suo titolo di Ammiraglio. >

< Alla fine Baran aveva ragione > osservò Silevril con amarezza, < abbiamo tutti fatto quello che voleva lui e ne abbiamo ottenuto ciò che ci aveva promesso. >

< Non proprio, > lo rimbeccò, < Baran voleva la distruzione di Gondor e non l’ha ottenuta. >

< Forse. >

Rimasero in silenzio qualche istante. Silevril la stava guardando attentamente, quasi studiandola. Laer non riusciva ad alzare lo sguardo per guardarlo in faccia, preferendo continuare a fissare un punto imprecisato del pavimento di pietra della banchina.

Avrebbe voluto essere più intraprendente, ma quando si trattava di Silevril tutto il suo carattere sembrava scomparire e lei si sentiva come quando aveva dieci anni: una bambina.

Ma non poteva rimanere lì senza far nulla, non quando il rischio di perderlo era così grande, così reale… Silevril su una nave, chissà dove nella Terra di Mezzo, senza che lei riuscisse a rintracciarlo… no, era insopportabile anche solo l’idea.

Inspirò profondamente e alzò la testa di scatto, pronta a confessare tutto.

Ed improvvisamente Silevril la baciò.

Si era chinato su di lei e le aveva afferrato saldamente il viso con la mano, con l’altra le aveva avvicinato i fianchi ai suoi e la baciava con una forza tale da sconvolgerla.

Si aspettava che sapesse di mare, di salsedine e sole, ma la verità è che non sentiva alcun sapore, nulla se non la morbidezza delle sue labbra e le loro lingue a contatto. Gli si aggrappò con la disperazione di un naufrago, come se stesse per affogare. Si alzò in punta di piedi per raggiungerlo un po’di più, per non perdersi niente di quel bacio che era tutto ciò che aveva desiderato.

E poi Silevril la sollevò, quasi tirandola di peso su di sé, con una violenza che avrebbe dovuto sconvolgerla ma che invece acuiva le sensazioni che stava provando.

Desiderio e ancora desiderio e tutto ciò che comprendeva iniziava e finiva in Silevril.

Non riusciva a respirare e la testa iniziò a girarle vorticosamente.

< Laer… >

Silevril pronunciava il suo nome, con il fiato corto.

D’un tratto si bloccò, allontanandosi bruscamente, ansimando.

Aveva il volto paonazzo, i capelli scarmigliati e appariva ancora più bello del solito.

La guardava sconvolto, come se perdere il controllo in quel modo fosse qualcosa che non aveva mai sperimentato. Laer non stentava a crederci.

< Sono innamorata di te, > disse.

Non c’era un motivo preciso per cui aveva scelto proprio quel momento, ma in qualche modo le parve appropriato.

Per un momento l’elfo sembrò andare in pezzi, sciogliendosi come la cera di una candela. La sua espressione era sofferente, ma gli occhi chiari sembravano inanimati… il Silevril di sempre, quello che aveva il controllo, quello che appariva costantemente come una bellissima statua di marmo.

< Non avresti mai dovuto dirmi questo, > disse, e la sua voce era rotta e disperata.

< Dovevo provarci, > gli rispose, < almeno prima della tua partenza, per sapere se c’è una possibilità per noi. >

< Una possibilità? > Era incredulo. < Quale possibilità potrebbe mai esserci per noi? >

< Non mi importa che sei immortale. >

< Credi che sia questo il problema? Oh, dolce, ingenua, Laer! Sono un essere egoista e preferirei stare con te anche per poco piuttosto che non averti mai. >

< Allora che problema c’è? >

Silevril la guardò un secondo e quello sguardo la fece rabbrividire.

< Non posso amarti, Laer. >

Le sembrò che tutto il suo sangue defluisse dal volto, lasciandola svuotata.

< Ti desidero intensamente… > le si avvicinò per accarezzarle una guancia, < e tengo a te come credo di non aver mai fatto con nient’altro in tutta la mia vita. >

< Ma non sei innamorato di me. >

Mentre lo diceva le parole le risuonavano alle orecchie come una campana stonata… c’era qualcosa di terribilmente sbagliato.

< Io… > esitò, < la verità è che non credo di poterci fare nulla. >

< Ma sei innamorato di Finrod Felagund. >

Avrebbe voluto sbattergli in faccia quelle parole con violenza, ma ne uscì solo un lamento disperato.

Silevril si ritrasse, come se lo avesse schiaffeggiato, pallido sotto la pelle scurita dal sole.

< Quello che c’è tra me e Finrod è… complicato. Non lo so cosa provo per lui, non posso spiegarlo. > Sospirò pesantemente, < Ma so cosa provo per te e non posso cambiarlo in quello che tu vorresti. Non posso amarti come vorresti, Laer, non ne sono capace. >

Il dolore che provava si trasformò in confusione. Lui dovette leggerglielo in faccia perché continuò:

< Sono nato e cresciuto in un amore che tu non riesci nemmeno a immaginare. Ho visto la sofferenza, ho visto quanto possa essere distruttivo. Non sono in grado di fare lo stesso, non riuscirei mai a soffrire per amore, non sarei mai disposto a sacrificare me stesso per te, per quanto in questo momento tu sei tutto ciò che desidero. >

La guardava supplicante, voleva che lei capisse, ma la verità è che quello che diceva non aveva alcun senso.

< Se credi che l’amore sia sofferenza, Silevril, se credi che distrugga ogni cosa, allora non hai capito niente. >

Fece per toccarla, ma lei si allontanò bruscamente e lui rimase con un braccio a mezz’aria, proteso.

Lo guardava e quella bellezza che l’aveva attratta le sembrava ora grottesca, su quel volto che non faceva trapelare alcuna emozione.

< Com’è possibile che sotto questo aspetto tu non provi niente? >

< Non credo di essere capace di amare qualcuno, Laer. >

Credeva davvero a quanto stava dicendo, era questo che la feriva più di ogni altra cosa. In lui c’era un’anima vuota e fredda che le metteva i brividi e che non riusciva a smettere di amare.

Non gli rispose, non lo salutò, semplicemente gli voltò le spalle, lasciandolo lì sul molo, con le sue convinzioni e le sue ferite, portandosi dentro i pezzi del suo cuore infranto.

 

 

Guardò Laer allontanarsi e respinse l’impulso di correrle dietro. A cosa sarebbe servito? Non poteva darle ciò che lei voleva, non ne avrebbe ricavato altro che una vita sprecata e un cuore spezzato. No, non poteva assolutamente permettere a se stesso di fare questo a Laer, nemmeno se la desiderava in un modo tanto travolgente. Si era stupito di come il suo corpo aveva reagito alla sua presenza, di come l’aveva baciata senza nemmeno stare a pensare a cosa stava facendo. Quel piccolo momento di lucidità necessario ad allontanarla gli era costato uno sforzo enorme.

Avrebbe voluto che il mercantile partisse in quel momento, sarebbe stato molto più semplice resistere alla tentazione di raggiungere Laer e pregarla di riprenderlo con sé, che ciò che aveva detto non era vero, ma doveva aspettare la mattina successiva, quando tutto l’equipaggio fosse stato pronto.

Si sentivano molte voci, nel piccolo porto fluviale che collegava Minas Tirith al resto della Terra di Mezzo, ma a lui sembrava di sentire unicamente il martellare del cuore nel petto, il respiro che gli rimbombava nelle orecchie.

Si mosse un labbro e, con un gesto di stizza, si ravviò i capelli che gli ricadevano sugli occhi.

Voleva trovare Galmoth, salutarlo, prima di partire, ma era molto probabile che Laer fosse corsa proprio da lui. A dire la verità, l’ultima volta che lo aveva visto, il giorno prima, aveva avuto l’impressione che l’uomo si fosse raffreddato nei suoi confronti, mettendolo profondamente a disagio. Aveva ferito anche Galmoth, unico amico che avesse mai avuto. Complimenti, Silevril!

< Non incolpare te stesso dei sentimenti altrui. >

La voce di sua madre sembrava portata dal vento sul fiume. Aveva tentato in ogni modo di evitarla, di fingere che lei non fosse lì, che qualsiasi cosa fosse accaduta tra lui e Aeglos non avesse niente a che fare con lei, ma non era mai facile impedire ad Alatariel di fare quello che voleva.

Si voltò.

Era sulla banchina, con i suoi vestiti da viaggio sgualciti e i lunghi capelli corvini legati stretti sulla nuca, l’immagine che nella sua infanzia aveva significato un misto di delusione e sicurezza. Perché sua madre era andata via tante volte, ma era sempre ritornata.

< Naneth. >

< Mi è sembrato di correrti dietro per tutta la settimana, figlio, alla fine ho deciso di intrappolarti in un luogo in cui non potevi fuggire. >

Non riuscì a reprimere un sorriso, a cui lei rispose. La raggiunse e l’abbracciò, abbandonandosi tra le sue braccia come quando era bambino, lasciando che la madre gli accarezzasse i capelli, gli sussurrasse all’orecchio che lo amava.

Alla fine staccarsi da lei fu quasi doloroso.

< Non posso appoggiarmi a te ogni volta che qualcosa non va come vorrei, > disse, senza però lasciarle la mano, < quello che ho detto a mio padre era vero. >

< Hai riversato su di lui una rabbia e una violenza che non si meritava, > la voce di sua madre era severa, < lo hai ferito più di quanto immagini. Non lo sai quanto profondamente ti ami? >

< Perché devi sempre rigirare le mie parole? > la lasciò, nervoso. < Perché interpreti il bisogno di indipendenza come un rifiuto? Per voi amore è possesso, non si riesce a uscire da questo circolo vizioso. >

Silevril sospirò pesantemente.

< Iluvatar sa quanto vorrei amarvi di meno, ma non mi è possibile. Finché rimarrò con voi, finché voi continuerete a cercarmi, non sarò mai libero. Tutto il mio essere anela a questo, non capisci? >

Alatariel lo guardava con occhi leggermente sbarrati, confusa.

< Naneth, > addolcì la voce, < è bastato vederti un minuto perché immagini di noi due e mio padre nella nostra casa sulla scogliera mi inondassero la mente. L’altro giorno, Aeglos mi ha appena sfiorato e io volevo tornare con voi. >

< E sarebbe così terribile? > Alatariel sembrava così giovane, così indifesa. Sua madre sapeva usare le sue armi in maniera spietata e perfetta.

< Sarebbe meraviglioso e sbagliato. Non mi fa bene stare lì, non mi fa bene il rimanere fuori dal mondo. Quando eri giovane, madre, hai vissuto la tua vita, hai lottato, sbagliato, sofferto. Non saresti ciò che sei ora se fossi rimasta in casa, con tuo padre, se Feanor non ti avesse strappato via a forza da casa tua. >

Lei strinse le labbra, come se il nome di Feanor la facesse arrabbiare, ma la sua espressione era impassibile. Eppure Silevril la conosceva, riusciva a scorgere la consapevolezza in lei, la comprensione che Aeglos non era riuscito a dargli. Sua madre era d’accordo con lui e lottava contro se stessa per ammetterlo, per superare l’istinto che le imponeva di tenere suo figlio il più vicino possibile.

< Per questo hai spezzato il cuore di quella ragazza? >

La domanda lo scioccò.

< Non pensavo avessi sentito. >

< Non ho potuto evitarlo, > disse lei, < quando sono arrivata voi eravate, beh… > si interruppe un momento, come se l’idea di suo figlio che baciava un’altra donna non l’avesse mai lontanamente sfiorata. < Ho sentito ciò che le hai detto, Silevril, > continuò e c’era un tono duro nella sua voce, < è stato crudele e ingiusto. >

< Ma vero. >

Fu come se l’avesse schiaffeggiata. Alatariel vacillò.

< Credi sul serio di non essere in grado di amare? >

< L’amore è distruzione, naneth, come puoi chiedermi di fare questo a Laer? >

< Se pensi questo, mio amato figlio, allora è meglio che la tua amica doni il suo cuore a qualcun altro. >

Silevril guardò sua madre, senza riuscire a credere alle sue orecchie: ad Alatariel, Laer piaceva.  Certo, non lo avrebbe mai ammesso, ma era così e la delusione era dipinta sul suo viso chiara e lampante.

Non riusciva a sopportarlo.

< E naturalmente Finrod è innamorato di te, > continuò lei, implacabile, < chissà perché… Figlio mio, fin dal momento in cui sei nato sei stato amato con una tale intensità, e tu rifuggi questo amore per testardaggine e vendetta contro di me. >

< Non tutto gira intorno a te, madre. >

< Oh, ma nel tuo mondo è così, vero? Ogni cosa che ti capita è colpa mia, perché non ti ho amato abbastanza, perché ti ho abbandonato, perché non ti ho portato con me. Se avessi avuto un cuore avresti capito che

 io e tuo padre ti amiamo più di quanto sia anche lontanamente descrivibile a parole, che se andavo via era perché ti amavo… non te lo ha forse spiegato, Aeglos? >

Alatariel aveva le guance rigate di lacrime, ma era furiosa come mai l’aveva vista prima in vita sua. Gli faceva quasi paura.

< Ah, Silevril, porti il nome della più bella gemma su Arda e sei l’unica cosa che mi ha salvata dalla morte, l’unica cosa che separa me e Aeglos dalla perdizione e dall’oblio, ma non te ne rendi conto. Ed io sono stanca di cercare di fartelo capire. >

< Il tuo non è amore, madre, è costrizione. >

Alatariel si avvicinò a lui e lo baciò su una guancia, delicatamente.

< Ognuno ama come può. >

Si voltò con un ultimo sguardo e si allontanò da lui, verso la strada che riportava in Città.

Rimase ad osservarla per un po’, finché non scomparve alla sua vista, lasciandogli addosso un senso di inquietudine, la sensazione di essersi sempre affannato a capire qualcosa che era sotto i suoi occhi.

Ma Alatariel si sbagliava, non aveva mai dubitato del suo amore, o di quello di suo padre, nemmeno per un istante, semplicemente non riusciva ad accettarlo, non riusciva a contenerlo, sentendosi legato a loro come uno schiavo in catene. Questo però lei non poteva capirlo.

 

 

Il cielo era ancora scuro, tranne sul filo dell’orizzonte, dove il sole stava sorgendo. Aveva passato una notte insonne, tormentato dal ricordo delle labbra di Laer, dalle parole di suo madre, dall’espressione ferita di Aeglos. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, sprofondare in un sogno fatto di Mare e Stelle, cullato dalla voce dolce di Uinen come gli era capitato quando aveva il Tesoro di Ulmo al collo.

La Maia sembrava sempre così benevola con lui, nonostante avesse profanato la sua Gemma per portare la distruzione sulla città. Si sentiva in colpa, per quello che era successo, per i morti che aveva provocato, ma soprattutto per la sconcertante sensazione di aver perso troppe cose in una volta sola.

Aveva creduto di essere buono, una persona migliore di quanto i suoi genitori fossero mai stati, ma non era così e questo gli faceva male. Chissà, forse mandare via Laer in quel modo era stata una cosa buona, in fin dei conti. Meritava di avere accanto qualcuno in grado di amarla veramente, non un elfo con l’oscurità dentro di sé e il pensiero del Mare come unico scopo.

Guardò distrattamente gli uomini attorno a lui che si affannavano nello spiegare vele e sciogliere cime, mentre il capitano urlava ordini con voce potente. Era un uomo alto e magro, dalla pelle abbronzata e la barba bionda che contrastava con il capo calvo.

Non gli aveva quasi rivolto la parola e questo Silevril lo aveva apprezzato enormemente: nessun contatto, nessun pericolo di rovinare la vita a qualcun altro.

La nave si staccò lentamente dalla riva, puntando con la prua verso sud, pronta a raggiungere il centro dell’Anduin e a sfruttarne la corrente per arrivare il prima possibile a Umbar.

La banchina si allontanava e la Città con essa, bianca e imponente sulle pendici del Mindolluin, una vera meraviglia eretta dalle mani degli Uomini. Doveva assolutamente tornare a Minas Tirith, prima di attraversare il Mare, e non solo per poterla visitare. Finrod era lì e in fondo al cuore desiderava il suo tocco ancora una volta… ma poteva aspettare. La Terra di Mezzo era grande e meravigliosa, piena di luoghi in cui andare.

Guardò verso riva un’ultima volta e spalancò gli occhi, sorpreso. Galmoth se ne stava in piedi dove poco prima era ormeggiato il mercantile e ansimava a causa della corsa. Il vento gli scompigliava i capelli, facendolo sembrare più giovane.

Mise le mani a coppa intorno alla bocca e gridò:

< Maledetto elfo! Potevi aspettare che almeno ti salutassi! >

Silevril scoppiò a ridere e lo salutò con la mano.

< Lo sai che mi piace essere imprevedibile! > gli urlò di rimando e lo vide scuotere la testa, divertito.

Man mano che l’Anduin scorreva, Galmoth diventava sempre più piccolo quasi fino a scomparire del tutto.

Appena prima che nemmeno i suoi occhi di elfo potessero più scorgerlo, la sua voce gli arrivò bassa, ma chiara.

< Ti infilzerò con un pugnale! >

Ah, ne era assolutamente sicuro, come poteva passarla liscia dopo aver spezzato il cuore della ragazza che l’uomo amava come una figlia? Ma, stranamente, quelle parole suonavano come un grazie, anche se non avrebbe saputo dire con esattezza per cosa.

 

 

 

***

 

 

E così siamo arrivati alla fine, ogni storia è chiusa e naturalmente tutto finisce in modo agrodolce. Silevril rifila un sonoro due di picche alla povera Laer, ma prende un sonoro schiaffone morale dalla cara mammina, che come ti manda a cagare Alatariel nessuno mai. Credetemi, far affondare la ship Silevril/Laer è stato doloroso anche per me *le lanciano pomodori in faccia*

Ma rimanete tutti dove siete, perché manca ancora l’epilogo, prima di salutare Silevril e soci, quindi alla prossima e come sempre lunga vita e prosperità.

Thiliol

 

P.S. il titolo della canzone è un verso di “If I had a heart” di Fever Ray, canzone meravigliosa, ascoltatela.

 

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Capitolo 26
*** Epilogo: don't you know this tale ***


Epilogo: Don't you know this tale

 

 

 

30 anni dopo

 

 

Era stata lontana quasi un anno, cavalcando come se fosse inseguita, tentando inutilmente di colmare il vuoto che le si era spalancato dentro.

Aeglos aveva fatto tutto ciò che aveva potuto, ma lui stesso soffriva quella perdita atrocemente e le loro liti minacciavano spesso di sfociare in vere e proprie risse.

Quando era andata via, suo marito portava ancora i segni sei suoi graffi sulla guancia e lei aveva uno zigomo scorticato.

Ricordava quando tra loro era stato così, violenza e rancore, intervallati da momenti di abbandono e passione, fino a che la situazione diveniva insostenibile, fino a che la lontananza non era più un suo capriccio, ma l’inevitabile conclusione. Era stato anni e anni prima, quando il Silmaril sembrava ancora una promessa che poteva essere mantenuta, quando Silevril non era ancora giunto a portare la pace nelle loro vite.

Ma poi ogni cosa era andata in frantumi e ciò che erano riusciti a raggiungere si era dissolto tra le pieghe della perdita.

Non aveva più visto suo figlio, non aveva più sentito nulla su di lui, non lo percepiva più come era stato tra loro fin dal suo concepimento.

Non sapeva perché avesse deciso di fermarsi a Dol Amroth, forzandosi di ignorare la mancanza acuta di Aeglos, a solo un giorno di cammino dalla città dei cigni, ma era stato come un richiamo a cui le era impossibile resistere.

La porta della città era di marmo bianco come la ricordava, affollata di gente che andava e veniva, con due guardie in cotta di maglia scintillante ai due lati. C’era una piccola stazione, nient’altro che una stalla e una locanda, dove lasciò il suo cavallo prima di entrare.

Le vie di Dol Amroth le erano sempre sembrate incredibilmente simili a quelle di Alqualonde nella sua giovinezza, quando le attraversava altera, con la spilla della casa di Fёanor sul petto.

Ma quelle volte c’era Aeglos ad attenderla al porto.

Quando finalmente arrivò al portone che stava cercando, esitò. Era una casa imponente, di solida pietra, con uno stemma raffigurante una stella marina e un gabbiano in lontananza, con sfondo azzurro.

Bussò e un ragazzo le aprì, scrutandola con aria stupita.

Quando gli disse chi stava cercando, la fece entrare e l’accompagnò in una biblioteca non molto grande, ma straripante di libri, lasciandola poi sola.

Quella casa era quanto di più diverso si potesse aspettare, ma in un certo senso era anche accogliente e diceva moltissimo della sua proprietaria.

Quando infine la donna entrò dalla porta, Alatariel pensò che quella casa, quella libreria, persino il domestico dall’aria gentile che l’aveva accompagnata, fossero incredibilmente appropriati a lei.

Era molto invecchiata, rispetto alla ragazzina di cui aveva memoria, ma i lunghi capelli intrecciati erano ancora rossicci e brillanti, le lentiggini ancora presenti sotto i vivaci occhi castani e la sua figura risultava snella, pur se non tonica come un tempo.

Alatariel era sempre attonita, quasi intimorita dalla vecchiaia mortale, ma Laer sembrava ancora una ragazzina sotto l’aspetto di donna matura.

Portava un abito semplice, di lino leggero, bianco e azzurro, ma ai piedi, notò con un moto di orgoglio inspiegabile, calzava degli stivali di cuoio usurati.

Quando la vide, Laer si bloccò, come folgorata, sorpresa di vederla lì, mentre i ricordi la investivano come una mareggiata.

< Ciao, Laer, > le disse, con un leggero sorriso. La donna non rispose, rimanendo immobile dove si trovava, ancora incapace di riprendersi dallo shock.

< So perfettamente che sono l’ultima persona sulla Terra di Mezzo che ti aspetteresti di vedere, > continuò, < ma non ho potuto fare a meno di venire. Non so nemmeno se ti ricordi di me. >

< Voi - > la voce le uscì gracchiante, si interruppe e la schiarì prima di ripetere, < Voi siete la madre di Silevril. >

Ebbe un fremito, nel pronunciare quel nome.

Alatariel espirò di sollievo.

< Non ero sicura che ti ricordasti di lui.>

Lo sguardo di Laer si animò improvvisamente, scuotendola dal suo stato di meravigliato stupore.

< Silevril è stato il mio primo amore, > disse, < e mi ha spezzato il cuore. Ho sofferto fino a credere che sarei morta, per colpa sua. Dimenticarlo? Come potrei? >

La guardò, d’un tratto dura.

< Perché siete qui, mia signora? >

Alatariel non rispose, limitandosi a guardare quella che un tempo era stata una ragazza innamorata. Aveva creduto di poter significare qualcosa nella vita di suo figlio, ma il cuore di Silevril era duro e freddo, ferito da un desiderio troppo profondo da domare.

Anche lei aveva bruciato di quello stesso fuoco, ma poi era arrivato Aeglos e in qualche modo era riuscito a domarlo, a smettere che bruciasse insopportabilmente.

Sperare che Laer potesse essere la stessa cosa, per suo figlio, si era rivelato solo deludente.

< Non so perché sono venuta, esattamente. Laer, > la ragazza – la donna- sussultò nel sentirsi chiamare così apertamente per nome, < so che non ho più sentito una connessione con mio figlio e tu lo hai richiamato dalla tenebra in cui era sprofondato. Hai toccato qualcosa in lui e voglio parlarti. >

Sospirò.

< Credevo di essere riuscita a penetrare attraverso un muro di sarcasmo, attraverso il suo viso di pietra, ma la verità è che se anche l’ho fatto, sotto non ho trovato niente. Senti la sua mancanza, ma non l’allevierai parlando con me, io non conosco più Silevril, se mai l’ho conosciuto. >

< No, non lo conosci, perché altrimenti sapresti che ciò che ti disse non è reale, che era me che voleva ferire. >

< Forse, ma non cambia le cose. Sono stata arrabbiata con lui per molto tempo, nonostante Galmoth mi dicesse che era inutile, che era meglio così, che non avevo bisogno di un maledetto elfo con problemi caratteriali, come lo definiva lui. Galmoth ne aveva paura, ma continuava ad amarlo e sentiva la sua mancanza… come me. >

Laer distolse lo sguardo e camminò verso la finestra, scostando appena la tenda per guardare fuori.

< Sarò sempre innamorata di Silevril, anche se non vorrei. È la mia maledizione. >

Richiuse la tenda e tornò a guardarla, con un leggero sorriso sul volto su cui si stagliavano rughe sottili.

< Ma alla fine Galmoth aveva ragione e Silevril non è diventato altro che un ricordo. Mio marito non sa nemmeno che è esistito, non sa che un tempo l’ho amato e che se venisse, qui e ora, la tentazione di lasciare lui, i miei figli, tutto ciò che ho conquistato in questi anni, sarebbe fortissima. >

< Davvero lasceresti tutto per Silevril? Farei qualsiasi cosa per impedirtelo, Laer, perché getteresti via la tua vita. >

< Non mi conoscete, signora, come potete parlarmi così sulla base di un incontro di trent’anni fa in cui non ci scambiammo una parola? Di voi so soltanto ciò che Silevril mi disse. >

< Che sono meschina, terribile, che abbandonavo lui e suo padre per mesi? >

< Che il vostro amore è veleno, che lo tenevate intrappolato e legato a voi. Pensavo che fosse colpa vostra, se lui mi aveva respinta. >

Alatariel serrò le labbra.

Perché era andata lì? Quella donna non aveva alcuna notizia di Silevril, non riusciva a sentirlo più di quanto ci riuscisse lei, ma a differenza sua era riuscita ad andare avanti.

D’altronde, non aveva che pochi anni, una vita fugace, prima di sparire per sempre dal Mondo.

Laer rise.

< Siete così simile a lui che mi sembra quasi di rivedermelo davanti. Ma i suoi occhi erano più espressivi, azzurri come il mare d’estate. >

< Perdonami, Laer, > disse, spegnendo le sue risa, < non sarei mai dovuta venire qui. Mi piaci, credimi quando ti dico che non è una cosa che accade sovente, ma qualcosa in te mi fa rimpiangere che tra noi non possa esserci altro che questo incontro tardivo. >

< Addio, Alatariel, > la donna la chiamò per la prima volta per nome e, detto da lei, sembrava dolce, < mi ha fatto piacere vederti e parlarti. >

Mentre il ragazzo di prima la riaccompagnava alla porta, Laer la rincorse brevemente, prendendole una mano per farla voltare e le posò un leggero bacio sulla guancia.

< Quando rivedrai Silevril, > le disse all’orecchio, < digli che sono felice e che anche Galmoth lo è stato fino all’ultimo istante della sua vita. Nessuno di noi crede che lui non può amare, di questo siamo sempre stati tutti sicuri. >

La lasciò e quando si ritrovò nelle affollate strade di Alqualonde, in qualche modo il suo cuore era più leggero. Aveva pensato a quella ragazzina così spesso da cristallizzarla nella sua forma fanciullesca, ma ora che l’aveva vista era come se fosse diventata tutto a un tratto reale. Silevril poteva essere stato crudele, ma almeno non aveva rovinato quella giovane vita.

Montò sulla sua cavalcatura e accarezzò il pelo dell’animale sotto di sé, morbido come seta, poi gli ordinò di correre, beandosi del vento sulla faccia.

Sapeva di salsedine e sabbia. Sapeva di Aeglos.

Poteva tornare a casa più leggera, nonostante il vuoto. E in ogni caso, c’erano le braccia di Aeglos ad accoglierla, a colmare almeno un poco la mancanza che sentiva dentro… fino al prossimo litigio, almeno… non aveva importanza, non l’aveva avuta mai.

Sperò che prima o poi Silevril potesse capirlo.

 

Fine

 

 

 

***

 

 

E con questo epilogo si chiude anche “Il Tesoro di Ulmo”. Non è stato facile portare avanti questa storia, credo ve ne siate accorti tutti dalla frequenza schifosamente bassa con cui ho aggiornato, ma in compenso spero di avervi regalato un qualcosa di piacevole da leggere e che abbiate amato questi personaggi almeno la metà di quanto li ho amati io.  Silevril naturalmente tornerà, la sua storia è appena cominciata, quanto a Laer e Galmoth potrebbero tornare come flashback o missing moment, ma nulla è sicuro. Certo è che tornerò sicuramente dopo l’estate con una raccolta di missing moments quindi aspettatemi.

Voglio ringraziare la mia cara Hareth, sempre puntualissima nel recensire accompagnata come sempre dai ‘suoi’ (Alatariel, tuo figlio forse dovresticercarlo a casa di Cristereb, te lo dico). Grazie infinite anche a Elfa, Calhin, Feanoriel, Morwen_Eledhwen, Elanor Eliniel e Saralasse per aver recensito, spero che vogliate tornare a dirmi la vostra.

Grazie anche a Floffy_95, Amarie, Hayley_Chan, ildragodoro, lithnim222000 e Tsukie per aver inserito questa storia tra le seguite.

E infine grazie a tutti quei lettori silenziosi, piccoli numerini sul mio conta visite, mi raccomando fatemi sentire la vostra voce che male non fa.

Vi saluto come al solito dicendovi che il titolo dell’epilogo è presa da “Beauty and the beast” dei Nightwish, mi piace pensare che qualcuno di voi abbia potuto scoprire un brano o un artista che prima non conosceva.

Buone vacanze, miei cari, lunga vita e prosperità.

Thiliol

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