Erwin Week

di Ellery
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Childhood ***
Capitolo 2: *** Happiness ***
Capitolo 3: *** Canon Divergence ***
Capitolo 4: *** King ***
Capitolo 5: *** Birthday ***
Capitolo 6: *** Death ***
Capitolo 7: *** Afterlife ***



Capitolo 1
*** Childhood ***


I.  Childhood
 

Erwin chiuse di scatto il libro e spense la candela con un rapido soffio.
Non aveva idea di che ore fossero, ma il buio che filtrava oltre le persiane socchiuse lasciava intendere che la mezzanotte fosse ormai passata: dalla vicina locanda non si udivano più chiacchiericci e schiamazzi, segno che anche gli avventori più resistenti si erano coricati. Ogni luce, lungo la strada che costeggiava la casa, era spenta e solo a tratti si udiva il miagolio fastidioso dei gatti in amore.

Dei passi, appena oltre la soglia della propria stanza, lo indussero a rannicchiarsi sotto le coperte, tirando il lenzuolo sin sul viso. Strinse il libro al petto, modulando un respiro pesante e ritmico. Chiuse gli occhi quando sentì la porta cigolare sui cardini e l’ombra di una figura – contornata solo dal bagliore di una lanterna – scivolare verso di lui.

«Sei ancora sveglio» la voce profonda dell’uomo gli provocò un leggero sussulto, obbligandolo a sollevarsi su un gomito. Lo sguardo azzurro incrociò quello del genitore, condito di una nota preoccupata.

Colse una mano callosa scivolargli tra i capelli, scostandogli la frangia lungo la linea della tempia.

«Scusa papà» sussurrò, approfittando della tenue luce per gettare una occhiata alla brocca in ottone, posata sul suo comodino. Fece per prenderla, per concedersi un sorso d’acqua, ma le sue dita si bloccarono a mezz’aria, mentre gli occhi si perdevano sul riflesso di quel bambino troppo curioso. I capelli dorati incorniciavano un volto tondeggiante, ove le guance paffute accompagnavano il naso infantile, ancora troppo acerbo per essere ben definito. Le labbra carnose erano piegate in un leggero sorriso, mentre le spalle ancora sottili erano avvolte da una semplice camicia da notte, di un raro color avorio.

A nove anni, era il più promettente della sua classe: nonostante le malelingue dicessero che la sua bravura fosse soltanto dovuta al genitore, insegnante della scuola del distretto, Erwin sapeva che non era così. Studiava diligentemente ogni pomeriggio, scansando spesso un invito al gioco o una merenda in compagnia. Mike si sforzava di tirarlo a forza fuori di casa, consapevole che ogni sforzo sarebbe stato vano. Nile si limitava a bussare educatamente, mostrandogli il pallone o una corda per saltare; ad ogni rifiuto se ne andava con la coda tra le gambe.
«Non dovresti leggere queste cose, Erwin. Ne abbiamo già parlato.» era un tono grave, quasi severo. Se non fosse stato per quella sfumatura dolce tra le ultime sillabe, sarebbe parso un rimprovero.

«Mi dispiace» strinse il libro a sé, accarezzando la morbida copertina in pelle scura. Solcò ogni scanalatura, assaporando la ruvida carta sotto i polpastrelli «L’ho preso dalla tua libreria» mentì, consapevole che quella bugia non sarebbe durata a lungo.

«Dal baule in soffitta, vorrai dire.»

Annuì lentamente, sbuffando piano e rifiutandosi di consegnare il volume:
«Perché nascondi questi libri? Sono importanti e pieni di cose meravigliose. Sono notizie che dovrebbero essere condivise e che tutti dovrebbero conoscere. Perché li tieni in solaio?»

«La gente non è ancora pronta per ricevere queste informazioni. Si spaventerebbe e basta; penserebbe che siamo degli eretici o dei pericolosi criminali. Questi libri sono vietati, Erwin. La Polizia Militare ci verrebbe a prendere, se sapesse che li custodiamo; brucerebbe la nostra casa e finiremmo in mezzo alla strada. Non devi mai parlare a nessuno di quello che sai, capisci? A nessuno.»

Un altro cenno d’assenso, mentre le dita scendevano a scorrere le pagine. Trovò il capitolo a cui era arrivato: il disegno di una infinita distesa di sabbia tingeva d’oro e bianco i fogli, punteggiato da piccole figure color caramello. Tra le dune del deserto si scorgevano alberi dal tronco ad anelli e le curiose fronde verdi, accompagnati da minute pozze d’acqua. Alcuni animali si stavano abbeverando: sembravano dei cavalli, ma dal collo più lungo ed il muso tozzo; sulla loro schiena spuntavano due strane gobbe. Una coppia di uomini stava srotolando dei tappeti e montando un banchetto di legno.

«Non capisco» aggiunse, dopo un attimo di silenzio «Ci sono cose splendide oltre le mura. Questi campi di sabbia, tanto grandi che non se ne vede la fine. Oppure…» passò alla illustrazione seguente «Le distese di ghiaccio che galleggiano in tutta questa acqua. Deve fare parecchio freddo lì, perché gli animali sono coperti da folte pellicce. Guarda! Persino gli orsi sono bianchi.» scivolò ancora oltre, scorrendo le immagini «Nessun disegno raffigura i titani. È come se non esistessero. È come se… questo libro rappresentasse il mondo prima della loro comparsa oppure luoghi tanto lontani da essere inviolati e salvi. Le persone…» tornò ad indicare i due beduini nell’oasi «Non sembrano spaventate o preoccupate. Non ci sono mura a proteggerle, eppure non mostrano paura.»

«Sono solo racconti per bambini, Erwin. È tutta immaginazione»

«Se è immaginazione, allora perché ti ostini a nasconderli? Perché pensi che la Polizia possa sequestrarli e distruggerli? Se si tratta di sciocche fiabe, non dovrebbero temerle.» tornò a spiare il volume adagiato sulle proprie gambe «Io credo ci sia un fondo di verità in queste storie. Che oltre le mura esistano davvero posti simili.»

«Non ti si può proprio ingannare, eh?» la voce del padre mal celava una nota orgogliosa. Era come se, tra i rimproveri ed i tentativi di smorzare la sua curiosità, stagnasse una punta di mero compiacimento.

«Ci sono altre persone fuori dalle mura, vero? Persone come questi ragazzi, che non devono preoccuparsi dei titani, perché nel loro Paese non esistono» indicò nuovamente la figura «Lo so che ci sono. Nile pensa che io sia un idiota. Dice che siamo i soli sopravvissuti e quel che rimane dell’umanità è tutto qui, tra le mura; se non ci proteggiamo, ci estingueremo»

«Non dovresti parlarne, nemmeno con Nile. So che è tuo amico, ma non puoi rischiare.»

«Vorrei solo che la smettesse di prendermi in giro. Dice che sono un visionario, che credo alle favolette e che non combinerò mai niente di buono nella vita» abbassò il capo, rivivendo quegli attimi: Nile gli sfila il libro dalle mani, lo sfoglia e scoppia a ridere; glielo restituisce, ma senza smettere di canzonarlo. Anche gli altri ragazzi ridono, prima di abbandonarlo nell’angolo in cui si è rifugiato e tornare ai loro giochi «Non so cosa sia un “visionario”»

«Una persona di larghe vedute. Uno che crede nei propri obiettivi, anche quando gli altri lo abbandonano o smettono d’avere fiducia in lui. Uno che va oltre la semplice realtà, che vive di sogni e di speranze.»

«Detto così non sembra male, ma… Nile lo fa sembrare un insulto»

Un braccio a circondargli le spalle ed una piccola stretta:
«Non dare retta a Nile. Ha meno sale in zucca di un piccione. Quanto ha preso nell’ultimo compito di matematica?»

«Quattro»

«E tu quanto hai preso?»

«Otto»

«Lo vedi? Vali almeno il doppio di lui»

«La matematica non è il mio forte…»

Un’altra carezza:
«Lo so, ma lo diventerà. Hai ancora molti anni davanti a te. Non essere impaziente.» colse le coperte scivolargli nuovamente sulle gambe ed il cuscino premere lungo la schiena «Adesso i piccoli matematici vanno a nanna. Cerca di riposare o domani mattina non riuscirai a svegliarti in tempo.»

«Posso tenere il libro?»

«Solo se mi prometti di non leggerlo più questa sera. Domani potrai continuarlo»

Sollevò una mano, mimando un piccolo giuramento:
«Lo prometto» sussurrò, stringendo nuovamente al petto la morbida copertina «Papà… tu credi che io sia un visionario?»

«No. Credo che tu abbia ragione.» il materasso si piegò quando suo padre si accomodò lungo il bordo «Io immagino che ci siano altre persone, oltre le mura. Non siamo soli: sarebbe troppo ambizioso o stupido pensarlo. Sono sicuro che l’umanità non è tutta qui: gli uomini non si stanno estinguendo, al contrario. Probabilmente, a parecchie miglia, ci sono villaggi ed insediamenti nati sotto la benedizione della pace ed estranei alla minaccia dei titani. Vivono tranquillamente, ignari di quello che sta accadendo qui. Le loro nazioni sono ricche, il commercio florido e la scienza avrà fatto enormi passi avanti.»

«Se conoscessero la nostra situazione, pensi che verrebbero ad aiutarci?»

«Forse.» un’ultima carezza, prima che l’austera figura tornasse a muovere verso la porta «Adesso dormi, però. Cerca di riposare. Buona notte»

«Ti voglio bene, papà»

«Anche io» la porta si chiuse nuovamente.

Erwin tese l’orecchio: i passi si fecero, via via, sempre più distanti ed il silenzio tornò a calare nel corridoio. Armeggiò al buio, ritrovando la candela e l’acciarino. Riaccese la fiamma, tornando a posare la bugia sul comodino.

Le mani scivolarono al libro e gli occhi si immersero nuovamente nella lettura.
 

***


Rimase a fissare la lapide incisa nella pietra chiara. Oltre al nome, erano riportate le date di nascita e di morte. Nessuno voleva parlare dell’accaduto, nessuno si avvicinava per spiegargli cosa era realmente successo.

In cuor suo, però, sapeva d’essere la causa di quella disgrazia. Se non avesse posto quella sciocca domanda, le cose sarebbero andate diversamente. I gendarmi non si sarebbero mai presentati alla loro porta, non avrebbero perquisito la casa, né trovato i libri proibiti o i diari segreti. Non avrebbero portato via suo padre, che non sarebbe morto “per una grave malattia sopraggiunta nei giorni di prigionia”. Questa, almeno, era la versione ufficiale: i rapporti medici parlavano di una forte febbre, accompagnata da tosse profusa; una broncopolmonite incurabile.  Non ci credeva: era successo qualcosa d’altro, in quella maledetta cella. Qualcosa che non gli avevano detto, un segreto troppo pesante per le spalle di un orfano.

La Polizia Militare lo aveva lasciato stare soltanto per questo: un bambino non rappresentava di certo un problema. Lo avevano abbandonato in strada, costringendolo a guardare la propria casa ridotta ad un cumulo di macerie fumanti: il fuoco aveva divorato tutto, devastando la deliziosa cucina, le camere da letto, salendo lungo le scale e fino alla soffitta. I preziosi volumi erano andati perduti per sempre.

Nile aveva pianto con lui e gli aveva dato dello stupido, ancora una volta:
«è colpa tua se sono venuti qui. È colpa tua se è successo tutto questo» gli aveva ripetuto, stringendogli forte la mano. Nile aveva uno strano modo di rincuorare un amico: non era cattivo, soltanto un po’ grezzo. Diceva le cose troppo spontaneamente anche nei momenti peggiori. Nonostante tutto, gli era rimasto accanto. La signora Dok gli aveva cucito dei vestiti, rimodernando dei vecchi abiti; ogni giorno gli preparava una crostata di mele, infilandola nella cartella. Ogni giorno, Erwin tornava a scuola carico della vana speranza di poter rivedere suo padre dietro alla cattedra, tra i libri di testo ed i gessetti per la lavagna.

La signora Zacharias lo aveva ospitato, per i primi tempi. Una bocca in più da sfamare non sarebbe stata un grande problema, per il momento: Mike mangiava già il doppio di un normale bambino; avrebbe trovato del pane e del formaggio anche per lui. La vicinanza di Mike lo aveva aiutato a superare quei giorni infiniti, quei momenti in cui si aspettava di veder ricomparire il genitore sulla porta. Mike cercava di distrarlo in tutti i modi: fogli per disegnare, libri da leggere, persino sforzandosi di cucinare biscotti.

Poi, una mattina piovosa, era giunta la notizia: il signor Smith non aveva superato la notte ed una brutale febbre l’aveva portato via. Ricordava a stento quei momenti: si era chiuso in camera, rifiutandosi di aprire persino a Mike. Aveva involontariamente costretto l’amico a dormire sul divano. Alla fine, la signora Zacharias era riuscita a convincerlo a scendere per colazione: si era presentato sulla soglia della cucina con gli occhi gonfi, i capelli arruffati e la camicia tutta spiegazzata. Nessuno, però, aveva fatto caso al suo aspetto. Mike gli aveva allungato una scodella di latte, mentre la donna districava pazientemente i nodi tra le sue ciocche dorate. Non avevano fatto parola dell’accaduto: si erano sforzati di non farglielo pesare, di non riesumare i ricordi troppo dolorosi.
 

Erwin aguzzò l’udito, cogliendo qualche parola oltre le proprie spalle: la signora Zacharias stava animatamente discutendo con una donna ben vestita, ma dall’aria completamente sconosciuta. Nel silenzio del cimitero, colse solo qualche stralcio della conversazione:
«Può restare da me per ora, ma gli affari non vanno a gonfie vele, in questo periodo. Non vi sto chiedendo molto, solo un piccolo aiuto per sostenere il ragazzo. Siete sua zia, no? Glielo dovete.»

«Non conosco quel moccioso, né intendo farmene carico. La nostra famiglia ha spezzato ogni legame con il signor Smith da quando mia sorella è morta. La mia amata sorella… non avrebbe mai dovuto sposare un inutile maestrino di provincia»

«Le scelte di vostra sorella, signora, non sono oggetto di discussione. Non vi sto certo chiedendo di rinunciare al vostro titolo o di accogliere Erwin nella vostra famiglia. Sto solo chiedendo un misero contributo per poterlo mantenere.»

«Volete che me lo accolli? Oh, conosco questa tattica. Voi popolani siete pieni di sorprese! Chiedete soldi con la scusa dei bambini da sfamare, per poi farvi avari e pretenderne sempre di più. Sono spiacente, ma non intendo lasciarmi abbindolare così, né affidarvi la custodia di mio nipote»

«Ora, dunque, è vostro nipote?» la voce della signora Zacharias si era improvvisamente alzata «Fino a poco fa avete detto di non conoscerlo, né di volerlo con voi! Mio marito si spacca la schiena nei campi ed io lavoro tutto il giorno per poter mantenere i miei figli. Non ce la facciamo con un altro bambino.»

«Basta così! Erwin non sarà un vostro problema, non temete. Penserò a tutto io. Lo manderò in collegio: sono disposta a pagare pur di non averlo tra i piedi. Il direttore, inoltre, è un mio carissimo amico e non avrà difficoltà a trovargli un posto nell’istituto.»

«Ma… non potete portarlo via così. È cresciuto qui, tra queste strade e… noi tutti gli siamo affezionati. Lasciatelo con noi! Vi costerà meno che la retta del collegio»

«Ed abbandonarlo nelle mani di zotici presuntuosi? Mai.»

«Avete detto che non vi importa della sorte del ragazzo!»

«Lo confermo, infatti, ma ciò non significa che sia disposta a cedervelo»

Le voci si fecero più concitate e poco dopo sfumarono: la nobildonna si era bruscamente allontanata, costringendo la signora Zacharias ad accettare quell’amara sconfitta.

Erwin tornò ad osservare la tomba davanti a sé, rifiutando di registrare quella conversazione. La sua mente non desiderava altro che un po’ di tranquillità: qualunque progetto per il futuro, al momento, sarebbe stato brutalmente accantonato o scartato. Qualunque progetto… tranne uno.
Strinse i pugni lungo i fianchi, stropicciando la stoffa del completo nero, affondando i denti nel labbro inferiore e costringendosi a ricacciare indietro le lacrime che gli pungevano gli occhi. Non avrebbe pianto, non lì e non davanti a tutti.

«Perdonami» sussurrò, infine «Perdonami, se puoi. Sono stato uno sciocco.» sbuffò piano nell’aria tiepida del primo pomeriggio «Ma ti prometto che farò di tutto per dimostrare che non ti sbagliavi; che avevi ragione e che gli illusi sono soltanto quegli stupidi ingrati che non ti hanno creduto. Non lascerò che si dimentichino di te.» un soffio di vento, come una carezza, ad arruffargli nuovamente i capelli «Te lo giuro.»

 

 
Angolino: buonasera! Grazie per aver letto fin qui ^^
Ho deciso di mettere temporaneamente in pausa la mia long fic per dedicarmi alla raccolta su Erwin, perchè.. Boh, era da un po' che volevo partecipare alla Erwin Week *_* Naturalmente, sono già in ritardo nella stesura dei vari prompt, ma pian piano li metterò tutti (almeno spero...) anche se con qualche giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia. Il primo prompt è Childhood, quindi ne ho approfittato per scrivere uno scorcio sull'infanzia di Erwin. Piccola nota sui cognomi dei personaggi: ho cercato di tenere quelli in uso, basandomi sulle varie Wiki; chiedo scusa, quindi, se in alcuni punti potrebbero non combaciare con le varie traduzioni del manga ^^.

Non so ancora quanto tempo ci metterò a finire/aggiungere gli altri Prompt e vi chiedo scusa in anticipo: alcuni sono pronti, altri da rivedere, altri ancora da iniziare. Cercherò di fare il prima possibile.
Mi scuso anche per gli spazi che spezzano il testo: non essendo abile con l'html, mi riduco sempre ad aggiungere uno spazio nell'andare a capo, per non rendere troppo compatto il testo alla lettura. Prima o poi, imparerò ad inserire un'interlinea anche qui ^^
Se avete suggerimenti e pareri, al solito, sarò felicissima di riceverli e seguirli.
Ancora un grazie gigantesco!

E'ry

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Capitolo 2
*** Happiness ***


II. Happiness


Erwin storse leggermente le labbra, in una sottile smorfia invidiosa.
“Potevo esserci io” sospirò tra sé e sé, battendo delicatamente le mani quando l’officiante presentò agli invitati i novelli sposi.

Marie era splendida nel lungo abito bianco, che fasciava perfettamente il suo fisico generoso. Il pizzo contornava una delicata scollatura, risalendo poi verso le spalle e le maniche a sbuffo. La gonna si apriva appena sotto il seno, cadendo verso terra in un candido e morbido drappeggio. Alcuni fiori bordavano gli orli, abbinati alla corona di margherite colorate che spiccava tra i riccioli bruni.

Accanto a lei, Nile sorrideva beato. Nile era… beh, Nile. Non era cambiato affatto e nemmeno l’elegante vestito nero era riuscito a migliorare la sua figura allampanata e scarna. Aveva sicuramente cercato di regolare il pizzetto, ma il risultato non era un granché: lungo il mento si scorgevano delle aree meno fitte, dove la barba scemava in una ispida peluria. Gli occhi erano circondati da vistose occhiaie, segno delle passate notti insonni. Dopo tutto, essere diventato capitano della Polizia Militare a pochi giorni dal matrimonio era… snervante, forse. Nile avrebbe dovuto curarsi più del suo aspetto, specie in vista della cerimonia.

«Stai bene?» la voce di Mike arrivò ad interrompere quei pensieri.

«Certo. Perché me lo chiedi?»

«Mi sembravi preoccupato…»

Scosse il capo. No, affatto… non era preoccupato, solo geloso. Dopo tutto, Marie era stata il suo primo ed unico amore; era strano vederla accanto ad un altro uomo, malgrado questi fosse un amico. Mimò un leggero sbuffo, lasciando scemare il proprio applauso. Si sforzò di ignorare lo sguardo curioso di Mike, ma senza grande successo. Fu costretto a scoccargli una frettolosa occhiata. Per l’occasione avevano entrambi indossato l’alta uniforme, ma la lunga giacca scura donava molto più al collega che a lui: la stoffa nera contornava perfettamente le spalle, scendendo a fasciare le braccia robuste e ricadendo morbida lungo la schiena. D’altronde, la sarta aveva fatto uno splendido lavoro con quel pastrano: cucito pazientemente e rifinito con passamanerie dorate e bottoni di madreperla. Il problema, ovviamente, era il suo di abbigliamento: la giacca gli stava larga, perché la donna aveva confuso le sue misure, basandosi esclusivamente su quelle di Mike; e, benché non fosse poi molta la differenza, i centimetri in eccesso pesavano sul tessuto, rendendolo sgraziato e spiegazzato. Aveva tentato di rimediare a quell’errore facendola ripetutamente stirare, ma a nulla erano valsi quei tentativi.

«Non lo sono» sussurrò, ma quella semplice bugia non bastò affatto a scacciare i sospetti dell’altro.

«Non ti credo.»

«Va tutto bene, invece»

«è per Marie?»

Quel nome lo obbligò a riportare l’attenzione sulla sposa. Era davvero bellissima. Ancora una volta, Erwin si chiese come avesse potuto essere tanto ambizioso ed idealista da rinunciare ad un simile fiore: l’abito candido slanciava quella figura, il cui viso radioso era atteggiato in un sorriso sincero. Gli occhi nocciola fremevano per la gioia e l’impazienza d’assaporare il nuovo cammino che, ben presto, si sarebbe aperto. La mano delicata era scivolata tra le dita tozze di Nile, ora bardate da un modesto anello dorato.

«Sì» ammise infine, senza riuscire ad abbandonare la purezza di quella scena «Avrei potuto esserci io accanto a lei, ora.»

«Invece sei qui con me…»

«Già, e questo non è molto confortante…» si lasciò sfuggire una leggera ironia, che raramente si concedeva. Tuttavia, Mike lo capiva meglio di chiunque altro. Il giorno del diploma avevano scelto entrambi di arruolarsi nella Legione, di sostenere quelle ali che spuntavano sulle loro schiene. Nile, invece, aveva optato per la Polizia Militare, per la possibilità di un futuro dentro le mura, per la certezza di una famiglia, per le braccia di una donna anziché quelle della morte.

«Vuoi che ti baci e ti chieda un ballo?»

Lasciò scattare una gomitata verso il costato dell’altro, sogghignando al sentire un seccato “Ahi”.

«Quanto sei cretino!» mormorò, permettendo finalmente all’ombra di un sorriso di piegargli le labbra «Decisamente no. Mi dispiace, ma non sei abbastanza avvenente per i miei gusti.»

«Preferisci le locandiere riccioline?»

«Senza dubbio»

«Potrei presentartene qualcuna. Marie non è l’unica donna su questa Terra»

«Lo so, ma è l’unica che ho desiderato e che desidero ancora. Credo d’essere…»

«… un idiota, sì. Hai scelto di servire una causa impossibile, invece che farti avanti con una ragazza. Non hai tutte le rotelle a posto, sai?»

«Anche tu, allora… mi sembra che ti sia arruolato nel Corpo di Ricerca o nella notte hai cambiato idea e ti sei venduto agli unicorni?»

«Che scemenze. Io non avevo una graziosa cameriera a corteggiarmi»

«Ha sempre avuto occhi per Nile.» ammise infine, crollando mestamente il capo «Forse è più bello e simpatico…»

«Forse è bravo a letto»

Si sentì in dovere di allungargli un’altra gomitata, proprio mentre il celebrante dichiarava conclusa la cerimonia e l’apertura del banchetto nuziale.
Trattenere Mike, a quel punto, fu completamente impossibile.


***
 

Il banchetto durò solo un paio d’ore. Le portate erano intervallate da balli improvvisati, musica campestre e qualche bicchiere di troppo. Decise di accantonare il vino dopo il secondo, nonostante le insistenze dell’amico.

«Se non bevi, non diventerai mai grande» gli aveva sussurrato Mike, il naso completamente paonazzo ed i baffi ancora umidi del rosso corposo e fresco.

Era rimasto, da allora, in disparte, limitandosi ad osservare il danzare degli invitati, il cibo generoso ed i bianchi tendaggi sotto cui erano state allestite le lunghe ed immacolate tavolate. Immacolate prima che Mike rovesciasse un bicchiere colmo di succo di mele.

Erwin allungò una mano, servendosi di un pasticcino alla marmellata. Erano buoni quei dolcetti: riconosceva un leggero retrogusto di farina, affatto sgradevole, mescolato allo zucchero ed alla confettura. Riconosceva ogni singola sfumatura di sapore: il dolce delle albicocche, la cremosità dell’impasto, sfumando infine nella lieve acidità espressa da un pizzico di sale. La signora Dok lo ripeteva sempre: ci vuole una punta di sale, anche nella migliore delle torte.

Era curioso come quel dolce avesse il potere di trasportarlo indietro nel tempo, di permettergli di rivivere i lunghi pomeriggi domenicali passati ad osservare la mamma di Nile stendere la pasta con il mattarello o rimescolare in un paiolo le mele appena colte. Era strana quella sensazione: come se lo stomaco fosse improvvisamente vuoto e leggero, pronto ad accogliere ancora mille di quei piccoli e deliziosi dolci. Mamma Dok gliele teneva sempre qualcuno da parte, passandoglieli di nascosto dalla finestra della cucina: “Presto! Prima che Nile ti veda” sussurrava sempre, consapevole dell’egoistica golosità del figlio.

«Ti piacciono? Li ha fatti mia madre» una voce, alle sue spalle, lo distolse da quei ricordi. Nile e Marie li avevano raggiunti: la sposa stava consegnando una scatoletta bianca a Mike. Nile, invece, tendeva lo stesso pacchetto verso le sue mani.

«Lo so. Riconosco la ricetta» mormorò, mimando un leggero sorriso.

«è per te…»

«Mh?» prese delicatamente la scatola, iniziando a svolgere il nastro argentato che la chiudeva. Il novello sposo lo stava fissando con un misto d’ansia e speranza dipinte sul volto; Si sentì in dovere di aggiungere qualcosa: «Sono molto felice per te, davvero! Tu e Marie siete molto belli e…»

«Sono contento che siate qui. So che avete dovuto rinunciare ad impegni importanti, ma vedervi in questo giorno e… ritrovarci tutti uniti dopo tanto tempo è impagabile. Mi sono sposato, capisci?! Oh, ancora non riesco a crederci» colse la voce del moro affievolirsi «Ho sempre pensato che non avevo alcuna speranza con lei. Guardala! È stupenda. Ancora non capisco come abbia potuto scegliere uno come me…»

“Neanche io” si pentì immediatamente di quel pensiero, concentrandosi sulla scatoletta. Nile non meritava tanta cattiveria, men che meno nel giorno delle sue nozze. Non avrebbe rovinato quel momento, non per una stupida gelosia improvvisamente riemersa.
«Sembrate fatti l’uno per l’altra» mentì, sollevando il coperchio di cartone spesso «E…» gli occhi si abbassarono sul regalo: una statuetta in vetro, a forma di unicorno rampante e rigorosamente di un colore verde acceso «Cos’è?»

«La mia bomboniera. Non è adorabile?»

“No. È terribile” si disse, inscenando un sorriso convincente:
«è splendida» mentì, richiudendo frettolosamente la scatoletta.

Quella cosa avrebbe sicuramente trovato la giusta collocazione nella sua stanza: sotto il letto oppure sul fondo dell’armadio. Non avrebbe esposto quell’oscenità per niente al mondo.
 

***


Il sole era calato già da qualche ora, quando Erwin sentì bussare alla porta della sua camera. Scese controvoglia dal materasso, stiracchiando pigramente le braccia e le gambe. Aveva mangiato decisamente troppo: si era disfatto della camicia – troppo aderente sul ventre, ormai – accontentandosi dei pantaloni e di un vecchio maglione.

Scivolò sino all’uscio, tirando il chiavistello:
«Avanti» mormorò, mentre il volto paonazzo di Mike faceva capolino nella stanza «Hai ancora del vino in corpo lo sai?»

«Certo!» la risposta sincera dell’amico gli strappò un leggero sorriso «E infatti… tadam!» nell’aria comparve l’orribile unicorno di vetro «Sono un unicorno verde e volo nel cielo stellato. Volo! Volooo…»

Mike era indiscutibilmente ubriaco: stava facendo galoppare il cavallo nel nulla, muovendolo su e giù come fosse una barca in preda alla tempesta. La voce impastata conteneva una sfumatura irriverente e sarcastica, mentre lo sguardo faticava a staccarsi dall’orribile dono.

«Sei proprio un idiota, lo sai? Hai sfidato il coprifuoco per questa stupidata?» in fondo, l’ora di cena era trascorsa da un pezzo e, malgrado il comandante avesse accordato loro un permesso speciale per partecipare alle nozze, non avrebbe tollerato della baraonda gratuita in piena notte.

«Certo! Volevo vedere come stavi. Se eri ancora depresso o…»

«Non sono depresso!»

«… ti eri ripreso. Non pensarci, Erwin. A quest’ora Nile si starà soltanto godendo la sua notte di nozze, ma… beh, puoi sempre trovarti una titana avvenente anche tu e…»

Gli lanciò un cuscino in faccia. Mike diventava maldestro quando beveva, tanto a parole quanto a fatti: le sue mani non smisero di far galoppare l’unicorno, mentre le parole sgorgavano incontrollate dalla sua bocca:
«Non rifarlo! Hai rischiato di rompere il mio preziosissimo naso. Quando mi sposerò…»

« Non ti sposerai.»

«…riceverai una bellissima bomboniera a forma di naso!»

Erwin non riuscì a trattenere una piccola risata: l’idea che Mike si sposasse era ridicola. L’idea che oltre a sposarsi potesse davvero creare bomboniere con dei nasi lo era ancora di più.

«Certo… e immagino che Hanji le userà per trapiantarle sui titani»

«Naturalmente! E avremo dei titani nasoni, che mi assomiglieranno»

Per un istante, la sua mente formò una scena grottesca: vide Mike tramutato in gigante, racchiuso in un enorme corpo ballonzolante, intento ad attraversare le sterminate praterie oltre le mura. Il naso, naturalmente, occupava quasi tutto il volto, mentre un vistoso paio di baffi delimitava il contorno della bocca. Se lo immaginò ancheggiare a destra e a manca, richiamando a raccolta altri giganti nasoni.
Era sciocca ed infantile, come immagine, e non poté evitare di ridere. Non un semplice sorriso o una pallida ilarità, ma una risata sincera e spontanea. Era strano come Mike riuscisse sempre a strappargli qualche attimo di serenità e di allegria, senza che neppure se ne rendesse conto. Nessuno avrebbe mai detto, ovviamente, che dentro all’austero e testardo soldato si nascondesse un animo così leggero, a tratti sciocco ed ancora infantile. Era curioso come, in quei momenti, Erwin si ritrovasse involontariamente proiettato in un dolce passato, fatto di ricordi e giornate spensierate: i pomeriggi trascorsi a giocare nelle strade e le sere davanti al caminetto ad assaporare dolci.

«Il tuo unicorno dove lo hai cacciato?» la voce dell’altro lo riportò alla realtà.

«Sotto al letto»

«è lì che metti la spazzatura?»

«Già» sbuffò, nuovamente sogghignando «Povero Nile! Probabilmente, è convinto d’aver scelto una bomboniera perfetta e invece…»

«è una cagata!» Mike riemerse con la seconda statuina e si diresse alla porta «Facciamole scivolare in corridoio. Chi arriva più lontano vince»

«Che scemenza. E se passasse il comandante?»

«Gli regaleremo un unicorno per farci perdonare»

«Non funzionerà mai»

«Lo so. Chi perde paga da bere»

Erwin si affrettò a seguirlo, accovacciandosi accanto all’amico. Afferrò la propria statuetta: pesava quanto uno di quei vecchi ferri da stiro a carbonella. La soppesò piano sul palmo, prima di spingerla lungo il pavimento lucido.

«Direi… che siamo a metà corridoio. Prova a fare di meglio!» sfidò, atteggiando le labbra in un sorriso saccente che, però, si spense immediatamente quando l’unicorno di Mike superò il suo, finendo dritto contro la parete di fondo. «Come diamine… hai barato! Quel coso non può arrivare così lontano!»

«Sono solo più forte di te!»

«Sono solo più forte di te!­» piegò la voce in un indelicato falsetto, che sfumò in una nuova ed incisiva risata.

Era strana quella sensazione: come se nulla potesse rompere quei momenti spensierati, neppure l’ombra severa del comandante che si allungava nel corridoio; neppure le parole severe, il rimprovero e la successiva punizione: dopo tutto cos’era un pomeriggio in cucina a pelare patate? Ne aveva passati tanti così, troppo spesso per via delle trovate assurde di Mike.

Non aveva importanza; in fondo, la felicità era una cosa semplice: si celava nei momenti più improbabili, nelle sciocchezze e negli attimi appena sfumati che il tempo regalava. Oppure, più semplicemente, oltre gli zoccoli di un unicorno di vetro.
 

Angolino: buonasera! Ecco il secondo capitolo dedicato alla Erwin Week. Non so quanto possa essere azzeccato con il tema generale ("Happiness"), ma l'idea del matrimonio di Nile mi allettava, almeno quanto il poter riutilizzare l'amatissima bomboniera verde. Ho preferito lasciare un piccolo scorcio sul passato, con Mike ed Erwin come protagonisti.
Purtroppo, nonostante mi sia sforzata di rileggerlo più volte, sono certa che alcuni errori e ripetizioni mi siano sfuggiti (più del solito, intendo ^^''). Additerò la stanchezza serale per espiare le mie colpe. Al solito, se avete consigli o pareri, scrivetemi liberamente ^^
Ri-purtroppo, il prossimo Prompt non è ancora pronto (CanonDivergence mi mette in seria difficoltà): non so se riuscirò a scribacchiare qualcosa domani oppure se sarò costretta a passarlo ed a recuperarlo in un secondo momento.
Ancora grazie per aver letto fin qui ^^

E'ry

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Capitolo 3
*** Canon Divergence ***


III. Canon Divergence
 

Riaprì gli occhi, ritrovandosi a fissare il sole appena coperto da una scia di nubi delicate.
Sentiva caldo; la pelle ancora bollente era celata soltanto da una ruvida coperta e dal mantello verde, timidamente gettato sulle sue spalle. Sotto la schiena, gli spigoli dei mattoni e la fresca sensazione di un lenzuolo stropicciato.
Il braccio destro era di nuovo lì, al suo posto: poteva muoverlo, sgranchire le dita, flettere ripetutamente il gomito. Il moncherino era svanito, segregato ormai in un lontano passato. Fu quella la conferma, ancor prima di poterla sentire dalle bocche altrui. Scorse dei visi familiari, faticando ad identificarli, mentre la sua testa cercava di elaborare il vuoto delle ultime ore.
Non ricordava altro che la infinita cavalcata verso il nulla, la grandinata di pietre e la sagoma lontana di un titano troppo anomalo per poter essere compreso; la pila disordinata di cadaveri da poco calpestata, lo sguardo dei compagni sacrificati per una causa forse un po’ giusta e forse un po’ egoista; la mano ossuta della morte che si tende, che lo sfiora e che poi, improvvisamente, si ritrae senza alcuna spiegazione; il bruciore nelle vene, i tremiti che scuotono il corpo e poi ancora oblio.
Colse una figura aggrapparsi alle sue spalle, in un morbido e sincero abbraccio:
«Bentornato» una sola parola per una rinascita; oppure per un ritorno all’inferno.

 


Angolino: buonasera! Torno velocemente con una Flashfic dedicata al terzo prompt. Canon divergence, purtroppo, non mi ispirava molto: ho provato a stendere qualcosa di più adatto ed a cambiare l'argomento di fondo (immagino che la scelta del capitolo 84 sia un po' "classica"), ma non riuscivo a scrivere nulla.
Era da un po'', invece, che desideravo cimentarmi con una Flash o una Drabble, così ho colto l'occasione ed ho provato ad inserirne una qui, sperando che potesse funzionare (è un esperimento, già... non ho mai scritto Flash, quindi non so neppure se vada bene o meno questa impostazione).
E... nulla. Al solito, se avete consigli o pareri, sarò felicissima di leggerli.
Ancora grazie! (un grazie soprattutto a Shige che sopporta pazientemente i miei lavori <3 grazie carissima! Ora torno a farti sentire in colpa *_*)

E'ry

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Capitolo 4
*** King ***


IV. King


Premessa: la ff che segue è già stata pubblicata (titolo originale: Mosse sbagliate). Semplicemente, desideravo aggiungerla alla Erwin Week perché la trovavo adatta al prompt di oggi, tutto qui ^^



«Voglio fare un gioco con te»
Erano state quelle le esatte parole che Erwin gli aveva rivolto a pranzo, mentre consumavano un piatto di verdure stufate al tavolo ufficiali.
Era una proposta insolita, senza dubbio; da quando lo conosceva, non ricordava d'aver mai visto Erwin concedersi un po' di svago: solitamente, snobbava tanto le carte quanto i dadi. Amava solo chiudersi in biblioteca e leggere.

«Un gioco?» aveva replicato, ancora incredulo, mentre l’altro si limitava ad un cenno d'assenso.

«Dopo cena, vieni nel mio ufficio. Preparerò del the»

Oh, perfetto. Il the serale era un rituale che non mancava mai e prenderlo in compagnia sarebbe stato ancora meglio: avrebbe potuto dilungarsi sui dettagli dell'aroma, sull'intensità del colore, sulla giusta temperatura e così via... cose adatte agli intenditori, insomma.

Non appena terminato di cenare, dunque, si era diretto al piano superiore, percorrendo gli scarni corridoi sino agli appartamenti del comandante.

Entrò senza bussare; dopo tutto, conosceva perfettamente quella stanza: l'aveva riordinata tante di quelle volte d'aver perso il conto. Erwin, per quanto fosse un buon leader, era terribilmente caotico nelle sue faccende: spargeva documenti e rapporti per tutta la scrivania, rischiando costantemente di ribaltare l'instabile calamaio che si ostinava a tenere troppo vicino al bordo. Una pianta in vaso giaceva sul davanzale, perennemente a secco di acqua. La larga finestra si apriva, invece, oltre lo schienale della poltrona imbottita, ove ora capeggiava la figura del signor Smith, immersa nella lettura dell'ennesima raccolta di poesie. Come faceva a piacere tanto quella roba? Non riusciva a spiegarselo: d’altronde non era un topo di biblioteca, lui. Mal tollerava la prosa e detestava le rime.

Scivolò oltre la soglia, richiudendo il pesante battente in legno chiaro.

«Sono qui» annunciò, indagando con lo sguardo il resto della stanza. Un bollitore era posizionato nel caminetto acceso, davanti al quale capeggiava un lungo divano in fodera color senape. Un tappeto si stendeva tra l'ingresso e la scrivania; alle pareti erano appoggiate mensole e scaffali ingombri di pesanti volumi. Poco oltre, una seconda porta conduceva alla camera ed al bagno privato.
Levi mosse qualche passo, recuperando una seggiola e trascinandola davanti alla scrivania. Vi si accomodò, incrociando le braccia al petto e piegando le ginocchia sotto di sé.

«Ho detto che sono qui» ripeté, notando finalmente il volto dell’ufficiale staccarsi dalle pagine e sollevarsi. Colse lo sguardo azzurro indagare qualche attimo sulla propria figura, mentre una mano robusta ravvivava i corti capelli dorati e si posava, poco dopo, a sorreggere la mandibola squadrata e coperta da un lieve accenno di barba «Devi raderti» fece notare, ma l'altro gli rifilò una semplice scrollata di spalle:

«Lo farò domani»

«Il the?» chiese, aggrottando la fronte al vedere l'altro abbassarsi.

«Non è ancora pronto»

«Peccato. Che stai facendo?» Erwin riemerse poco dopo, stringendo tra le mani una scacchiera. La posizionò sulla scrivania, indicandogliela.

«Faresti una partita con me?»

No. Perché il massimo concetto di “divertimento” conosciuto dal comandante doveva necessariamente ricondursi ad un gioco strategico e noioso? Non poteva darsi ai dadi come la maggior parte dei soldati? Spiò il compagno sistemare le pedine sui quadrati bianchi e neri, con estrema attenzione e cura.

«Mi dispiace, ma non so giocare. Dovevi chiedere ad Hanji, temo. Oppure a Mike»

«Ci ho provato, ma... Hanji è impegnata con i suoi esperimenti e Mike, beh... lui odia gli scacchi» un attimo di imbarazzato silenzio cadde nella stanza «E poi...» riprese Smith poco dopo «è mio desiderio che impari»

«Imparare a... giocare a scacchi? Perché?­»

«è un buon passatempo. Rilassante, divertente...»

«è palloso, Erwin»

«...e, soprattutto, ti insegna a pensare! Una cosa che tu, mio caro, non fai praticamente mai»

Si sentì punto sul vivo. Che significavano quelle parole? Che era uno stupido incapace di riflettere con la propria testa? Sbuffò, l'orgoglio che si agitava nel petto: perché Erwin doveva essere sempre così diretto? Forse ci provava gusto ad umiliarlo, a sbattergli in faccia la realtà senza delicatezza alcuna. Storse il naso al vedere i pezzi bianchi posizionati davanti a sé.

«Non è vero» ribatté, ma ancora una volta l'altro non parve prendere in considerazione le sue parole.

«Potrei citarti mille esempi di … “scelte sbagliate” che hai fatto e di cui poi ti sei inevitabilmente pentito. Non sei una cattiva persona, Levi; tuttavia, sei un po' troppo impulsivo alcune volte. Ti lanci in azioni avventate, ti metti nei guai e poi ci ripensi. Dovresti pensare prima di buttarti a capofitto in situazioni pericolose. Ad esempio, il mese scorso hai inseguito un anomalo senza badare a dove stavi andando e per poco non sei caduto nel fiume. Saresti annegato, visto che non sai nuotare»

«Nessuno sa nuotare qui»

«Appunto»

«Comunque... è stato solo un errore di valutazione. Ho calcolato male le distanze. Non accadrà più»

«Esatto. Hai “calcolato male” e questo perché sei abituato a fare le cose senza rifletterci un minimo.»

«E pensi che questo stupido gioco potrebbe aiutarmi? Che scemenza!»

«Sì, ne sono convinto. Negli scacchi ti trovi a dover gestire delle situazioni sempre differenti, a prendere decisioni che possono portare ad una rapida vittoria o al sacrificio dei tuoi pezzi. Hai tutto il tempo per pensare, naturalmente: non è un gioco che richiede fretta o mosse avventate.»

«Mh, davvero sbalorditivo» la sua voce conteneva una chiara sfumatura di sarcasmo a cui Erwin, tuttavia, non sembrò dare molto peso.

«Cosa sai degli scacchi?»

«Niente. A parte che il tabellone è quadrato e ci sono delle caselline nere e bianche»

«Bene» vide le dita del comandante afferrare un pezzo piccolo, alto forse tre centimetri, dalla grossa testa rotonda «Partiamo dall'inizio. Questo è un pedone: i pedoni si spostano solo di una casella per volta. Non possono tornare indietro e vanno sempre in avanti, tranne quando mangiano: in quel caso, si spostano in obliquo» Erwin mimò il gesto con la mancina, tornando poi a posare il pedone «Sono i pezzi più semplici e più facili da sacrificare: non credere, tuttavia, che siano inutili. Concorrono allo svolgimento della partita tanto quanto gli altri.»

«Mh, sono un po' come i soldati della Polizia Militare, allora: degli incapaci»

«Io non li definirei così, ma... se preferisci, vedila pure in quest'ottica. Non li sottovalutare mai.» il biondo recuperò un altro pezzo, mostrandoglielo sul palmo aperto «Le torri. Stanno ai quattro angoli della scacchiera e si muovono solo in orizzontale ed in verticale. Possono coprire qualsiasi distanza: possono spostarsi di due caselle, di quattro o cinque o anche per l'intera lunghezza del tabellone. Non possono compiere movimenti in diagonale»

«Mi piacciono le torri. Sembrano forti. Sicuramente sono più agili di questi pedini di merda»

«Senza dubbio, ma giocando ti accorgerai delle loro vere potenzialità»

«Bene... i cavalli, poi?» mh, quel gioco iniziava ad incuriosirlo. Senza dubbio, i pezzi erano strani  con quelle forme paffute e lucide. Bianchi e neri si fronteggiavano come schieramenti di eserciti nemici, pronti a darsi battaglia. Sembrava semplice, comunque: i bianchi devono sconfiggere i neri o viceversa. Le pedine nemiche si uccidono a vicenda. Come aveva detto Erwin? Si “mangiano”. Esattamente come tra umani e titani.

«Questi si muovono a elle. Fanno così, guarda» il comandante spostò un cavallo in avanti di due caselle e lateralmente di una «tendono a spostarsi tanto a destra quanto a sinistra, andare avanti e indietro e saltare gli altri pezzi, cosa che le altre pedine non possono assolutamente fare.»

«Assomiglia...» Levi prese un cavallo, rigirandolo tra le dita «Alla faccia di quel cadetto nuovo. Come si chiama? Quello col cognome impronunciabile...»

«Jean Qualcosa?»

«Proprio lui!»

«Ti sto insegnando gli scacchi e tu pensi ai ragazzini della centoquattro? Hai capito almeno come si muovono i cavalli?»

«Mh…?»

«A elle» vi era una nota spazientita nel tono del comandante. Meglio così… forse avrebbe desistito ed accantonato l’idea di quello stupido gioco «Passiamo oltre» no, evidentemente neppure il palese disinteresse poteva arrestare quell’inutile spiegazione «Alfieri» altre due pedine comparvero sul tabellone di gioco; assomigliavano a dei pedoni troppo cresciuti, ma con le teste quasi ovali «Si muovono solo in obliquo. Come le torri, possono coprire un numero imprecisato di caselle: da una a tutta la scacchiera.»

«D’accordo, questi sono facili. Alfieri. Più facili da usare dei cavalli e meno stupidi dei pedoni. C’è altro?»

«Oh, si. Regina» la mano dell’ufficiale arrivò a sfiorare un pezzo più alto, con una corona bombata sul capo, simile a quella della statuina vicina «E re. Sono due pezzi molto importanti. La regina, in particolare, è quello con più libertà di movimento. Possiamo dire che racchiude, in sé, quasi tutte le mosse precedentemente viste: può spostarsi sia in verticale che in orizzontale che in diagonale e delle caselle che desidera. Non può, invece, muoversi come un cavallo: niente salti, quindi..»

«Quindi è…»

«Il pezzo più potente in gioco, certo. Può fare qualunque cosa, tuttavia… la sua energia deve essere ben dosata. Muovere la regina non significa farle fare cose stupide: anche un semplice pedone, se nella giusta posizione, può essere in grado di mangiarla. È un personaggio fondamentale, da cui spesso dipendono le sorti della partita, ma va gestita bene. Sbagliare a spostarla potrebbe fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta»

«Oh…» era seriamente impressionato. La regina gli andava terribilmente a genio: una pedina così forte da racchiudere in sé le capacità di tutte le altre – eccetto quello stupido equino dal passo barcollante. Poteva camminare, poteva correre, divorare gli altri pezzi senza ritegno forte del proprio vantaggio. Allungò l’indice, accarezzando la sagoma della propria regina bianca. «Immagino che il re sia ancora più forte, allora» spostò l’attenzione alla seconda corona, curioso: insomma, se una pallida consorte poteva fare tutte quelle cose, senza dubbio il legittimo sovrano possedeva un potere ancora maggiore. Forse poteva volare sulla scacchiera... oppure sbaragliare i pedini con un solo cenno del capo. O catturare i cavalli nemici e costringerli a lavorare per sé…

«In realtà» Erwin gli regalò una occhiata comprensiva, consapevole della prossima delusione «Il re è molto simile ad un pedone: può muoversi in tutte le direzioni, questo sì, ma di una casella soltanto.»

«Che merda» quelle parole gli sfuggirono dalle labbra arricciate «Sostanzialmente, è inutile tanto quanto un pedone! Credevo fosse pari alla regina, ma … in fin dei conti, non serve ad un cazzo»

«Ti sbagli. Il re è il pezzo più importante: perdi il re ed hai perso la partita» davvero? Una sfida a scacchi ruotava in torno a quell’unico ed insignificante pezzo? «Lo scopo è proteggerlo ad ogni costo. Non importa quanti pezzi sacrificherai: finché il re è “vivo”, la partita può continuare. Nel momento in cui un pezzo avversario minaccia il tuo sovrano, sei obbligato a spostarlo su una casella “sicura”, fuori dalla zona di pericolo diretto. Per esempio…» mosse il re bianco, ponendolo in linea con la torre nera «Questa situazione si chiama “scacco”: il tuo re è minacciato dalla torre e devi salvarlo. Puoi frapporre un pezzo tra il re e la torre nemica» il comandante spostò un alfiere sulla linea interessata per poi spazzarlo via con la pedina nera «Oppure spostarlo di lato» mosse il re, ponendolo su una casella sicura, fuori dalla portata avversaria «Capito? Quando il re non può più muoversi dalla casella in cui si trova» circondò il re bianco con una seconda torre e un alfiere «Si chiama “scacco matto” e la partita è finita. Vedi? Non puoi muovere il tuo re senza incrociare una linea di tiro avversaria. Il tuo re non ha più dove nascondersi, quindi… hai perso»

«Ma se muovo la regina qui…» Levi spostò la sovrana, facendole saltare una fila intera di pedoni.

«Non puoi far volare la regina. È potente, ma non così tanto e… in questo gioco non è consentito l’uso di manovre tridimensionali» lo vide sorridere gentilmente «Tutto chiaro?»

«Seh… scopo del gioco: difendere quell’imbecille del re. Che pezzo inutile, davvero. Trovo ridicolo un gioco dove gli altri devono sacrificarsi tanto per proteggere un singolo. Che poi… che razza di re è uno che non è capace di difendersi da solo?»

«Se il re fosse capace di difendersi, Nile sarebbe disoccupato» una risata calda interruppe quel momento, poi sostituita dalla voce profonda del biondo «Altre obiezioni?»

«Beh… si! Non voglio giocare ad un…coso dove l’unico scopo è tutelare uno stronzo. Scommetto che il re è uno di quei vecchiacci egoisti che pensa solo a sé stesso, alle sue ambizioni, al suo potere e lascia crepare tutti gli altri per le sue belle glorie. Magari è pure brutto o zoppo o…»

«Guarda che non vince chi ci mette più fantasia. È un gioco matematico, di precisione e strategico. Non devi inventare storie assurde »

«Mh, che bello… non vedevo l’ora di svagarmi con un po’ di matematica.»

«Proprio non capisci, vero?» la voce di Erwin assunse nuovamente una sfumatura pallida ed incerta «Il fine è salvare il re. Non ti deve interessare il contorno. Se il re viene catturato, allora la partita è terminata. Scacco matto, semplicemente. Perdere il re significa perdere la guida: i pezzi si schierano vicino a lui perché è la pedina principale, quello attorno a cui ruota tutto. Non importa quanti pedoni, alfieri o torri sacrificherai: se il re muore, hai perso e ciò significa che non lo hai protetto a dovere e che non sei stato in grado di salvare la persona più importante; che hai preso decisioni affrettate, superficiali o sbagliate; oppure che l’altro giocatore è stato più bravo di te. Negli scacchi esistono varie situazioni: sfumature che possono fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Le mosse dell’avversario possono infonderti una falsa sicurezza o la blanda speranza di avere il gioco nelle tue mani; possono persino indurti a prendere decisioni sbagliate, senza che tu te ne accorga. In un attimo, la sfida può capovolgersi ed il tuo vantaggio sgretolarsi.»

«è decisamente un gioco adatto a te: vecchio e noioso» toccò nuovamente la corona della regina, sfiorando delicatamente il legno levigato e lucido «Perché non è la regina a comandare? È molto più coraggiosa, può fare qualunque cosa… perché seguire un sovrano borioso e pieno di sé? Potrebbero appoggiare la regina e…»
«Levi, lo scopo degli scacchi non è indire un colpo di stato, d’accordo? Anche se…» una pausa, come se il compagno stesse riflettendo tra sé e sé «No, non sarebbe possibile. Rimani concentrato, per favore: la regina è il braccio destro del re, un po’ come… mh… non saprei come altro spiegartelo. Farebbe di tutto per proteggerlo, capisci? Mette al servizio il proprio potere: per questo è così forte, per questo si muove più velocemente degli altri.»

«Credi che la regina non saprebbe guidare un esercito decentemente?»

«Se ti risulta più facile da capire, vedila pure così. In sintesi, la regina fa il possibile per salvare il suo signore, ma… se fallisce, il re muore; e la partita, naturalmente, finisce lì»

«Continua a non convincermi questa cosa…»

«Giochiamo, allora. Magari così comprenderai meglio»

Levi riposizionò i propri pezzi sulle relative caselle, copiando lo schema dell’avversario. Storse appena le labbra al notare, tuttavia, il candido colore della propria scacchiera:
«Posso avere i neri?»

«No. Il bianco muove per primo. Ti sto concedendo un vantaggio»

«Come se ne avessi bisogno. Guarda che ho capito come funziona... sono stato attento!» mimò uno sbuffo sarcastico. Con chi pensava d’avere a che fare? Non era mica un bambino che non sapeva perdere! Non aveva bisogno d’aiuti, né di favori. Si limitò a scrollare le spalle «Come vuoi. Non piangere, però, quando perderai…»
 

***
 

Perse sette partite su sette.

Erwin, alle due di notte, dichiarò di essere stanco e volersi coricare.

«Non mi concedi una rivincita?» gli aveva chiesto, poco prima che l’altro scomparisse dietro la porta della camera da letto.

«Te ne ho già concesse sei. Riprenderemo domani»

Rimase solo nell’ufficio, dopo quelle spicce parole.

Levi si guardò attorno, cercando qualcosa da fare; scartò immediatamente l’idea di dormire: non sarebbe riuscito a chiudere occhio, non dopo quella interminabile serie di amare sconfitte. Ogni volta che sembrava avere la vittoria in pugno, il comandante ribaltava la situazione in un lampo, costringendo le sue forze a ripiegare bruscamente; faceva strage di pedini, dilaniava le sue difese spezzando alfieri e torri, fino a divorare persino la regina bianca. Non era riuscito a spuntarla in nessun caso: persino messo alle strette Erwin si rivelava un giocatore eccellente; studiava le mosse con estrema attenzione, impiegando svariati minuti prima di scegliere il pezzo da utilizzare. E, anche quando sembrava pronto a spostare una pedina, le sue dita si ritiravano, tornando a poggiarsi sulla fronte crucciata. Era come se conoscesse già l’intero sviluppo della partita, come se la sua mente anticipasse ogni contrattacco e prevedesse ogni sua mossa. Sapeva quale pezzo l’avversario avrebbe spostato e di quante caselle. Sapeva cosa mangiare ed anche con che tempistiche.

Giocare a scacchi contro Erwin era come uscire dalle mura senza alcuna protezione: era un gigante pronto a divorare quell’umano tanto ingenuo da sfidarlo. Le vittorie, per quanto semplici ed intuitive, gli lasciavano sul volto un ghigno soddisfatto, come se appagassero un orgoglio ben sopito. Era… frustrante! Nonostante si concentrasse, nonostante cercasse di evitare i precedenti errori, Levi non l’aveva mai spuntata. Era come scontrarsi con un nemico invisibile, un intelletto eccezionale pronto a schiacciare chiunque osasse ribellarsi. Erwin, per quanto fosse un buon soldato, non era fatto per combattere, ma per dirigere, orchestrare, pianificare. Era uno stratega nato, con doti di comando superiori a quelle di chiunque altro; e probabilmente era il miglior giocatore del Wall Rose. Se avessero indetto un torneo di quei maledettissimi scacchi, sarebbe riuscito a vincerlo anche bendato.

Come si poteva competere con una persona tale? E, soprattutto, perché Erwin aveva insistito ad insegnargli gli scacchi? Perché imparasse a pensare, aveva detto. Sciocchezze! Voleva solo umiliarlo, farlo sentire ancora più stupido. Era già difficile aver a che fare con un comandante tanto brillante: complicato stargli accanto quando si era “il soldato più forte dell’umanità che non è mai andato a scuola”.

L’indomani sarebbe stato diverso? Niente affatto! Erwin lo avrebbe sconfitto ancora, avrebbe stuzzicato il suo orgoglio per poi affondarlo definitivamente. Si sarebbe divertito ad illuderlo, a lasciargli una mera speranza prima di distruggerlo .

Guardò la scacchiera ancora apparecchiata: ripensandoci, non aveva alcuna voglia di farsi nuovamente svilire. Avrebbe rifiutato ogni altro invito: se voleva divertirsi, quello stronzo, che chiedesse ad Hanji! Lui aveva definitivamente chiuso con gli scacchi.

Però… se Smith lo avesse comunque obbligato a giocare? Serviva una contromisura efficace. Studiò il tabellone bianco e nero con gli occhi affilati, muovendo la mancina per afferrare la regina bianca. Il pezzo più potente della scacchiera, eh? Già, ma senza quello… non era possibile imbastire alcuna partita. A meno di trovare una sostituta: un sasso, un rametto, un semplice segnaposto avrebbero potuto sopperire egregiamente la sua mancanza, ma… conosceva Erwin abbastanza bene da sapere che non lo avrebbe fatto: il suo amore per la simmetria, il suo cervello infinitamente preciso, il lato matematico di quel carattere tanto deciso e calcolatore gli avrebbero impedito di utilizzare un gessetto al posto della regina. Era fatta, no? Il comandante si sarebbe rifiutato spontaneamente di giocare a scacchi, per la scomparsa improvvisa della sovrana. Oh, già lo immaginava ad appendere manifesti per i corridoi: “smarrito prezioso pezzo dei miei scacchi. Lauta ricompensa per chi lo ritroverà”.
Sogghignò, facendo scivolare la pedina nella tasca interna della giacchetta: magari l’avrebbe imboscata tra i libri mai letti o lasciata in bella vista sul comodino, tanto… nessuno l’avrebbe mai cercata nella inavvicinabile stanza del caporale.

 
***

 
«Non vorrei correre troppo, ma… cosa succederà dopo che avremo riconquistato il Wall Maria?»

«Decideremo cosa fare dopo essere entrati in quella stanza»

«Lo dici perché sai che non ce la farai, vero? Il tuo corpo non si muove più come prima. Non sei altro che un’esca per i titani. Lascia che sia Hanji a guidare la spedizione. Tu rimani qui e attendi nostre notizie. D’altronde… non ti voglio tra i piedi; saresti soltanto un peso. Dirò agli altri che mi sono lamentato finché non hai ceduto. In effetti, è esattamente quello che ho intenzione di fare. Va bene?»

«No. Non mi interessa se servirò soltanto come esca. Sarà una operazione difficile, probabilmente la peggiore da realizzare. È stato tutto pianificato da me e se non verrò, le probabilità di avere successo potrebbero calare drasticamente. Se morirò, la guida della spedizione passerà in mano ad Hanji, ma… fino ad allora, sono io il comandante.»

«Già, ma… se dovessi crepare sul più bello, sarà stato tutto inutile. Dovresti rimanere seduto lì a… pensare. È la scelta migliore per te e anche per l’umanità: sai causare un sacco di problemi ai titani, quando ti metti a pensare.»

«No, ti sbagli. Io devo venire, devo esserci»

«Sapevo che lo avresti detto. Ho un altro modo per convincerti: ti romperò entrambe le gambe, così sarai costretto a stare a casa. Tranquillo, farò in modo che poi si saldino alla svelta. Andare in bagno potrebbe diventare complicato, ma sono certo che ti abituerai.»

«Sarebbe un bel problema, ma… quando la verità su questo mondo verrà alla luce, io dovrò essere lì a vederla.»

«è così… importante?»

«Si»

«Più delle tue gambe?»

«Si»

«Più della vittoria dell’umanità?»

«Si»

«Capisco… va bene. Mi fiderò di te»
 

Rientrò in stanza, sbattendo la porta oltre le proprie spalle. Aveva perso di nuovo. Non riusciva mai a spuntarla contro Erwin, praticamente in niente. Era frustrante, come sensazione: l’idea di non essere in grado neppure di convincerlo a rimanere a casa, a salvarsi la vita, a lasciar perdere quella stupida cantina ed affidarsi a loro, continuava a rimbalzargli nella testa. Forse rompergli le gambe era davvero l’unica soluzione: senza dubbio il comandante non lo avrebbe mai perdonato, ma …che importanza aveva? Davanti a ciò che li aspettava, alla spedizione imminente, alla riconquista del Wall Maria, ai rischi che avrebbero dovuto affrontare, alla concreta possibilità di “non tornare”… cos’erano un paio di ginocchia spezzate? Erano un prezzo accettabile per la sua serenità: sarebbe partito senza pensieri, senza l’angoscia del non conoscere il destino dell’ultima persona che gli rimaneva. O quasi. Con Hanji non era la stessa cosa: la sopportava, certo… si era anche affezionato a lei, sebbene cercasse di non ammetterlo. Tuttavia, era un legame completamente diverso rispetto a quello che lo univa al signor Smith. Non era una cosa semplice da spiegare neppure a sé stessi: come funzionava? Non lo aveva ancora capito, dopo tanti anni. Forse era una cosa intrinseca nel suo carattere, istintiva o una sorta di maledizione legata al suo cognome. Forse non era poi così importante, non in vista di ciò che li attendeva.

Chiudersi in camera gli avrebbe fatto bene: aveva sfogato la propria rabbia su due cadetti troppo chiassosi, prendendoli a calci finché la loro inutile lite non era cessata. Qualcuno aveva ipotizzato lo avesse fatto per ristabilire l’ordine, qualcun altro perché odiava quelle scaramucce tra Jaeger e Kirschtein, ma… in realtà, era stato l’impeto del momento: aveva bisogno di sfogarsi e quei due gli erano capitati proprio sotto il naso, con la loro stupida ed infantile irruenza. Non che la cosa avesse migliorato la situazione: si era solo liberato di quell’improvvisa voglia di afferrare la testa dura di Erwin e sbatterla sul muro per obbligarlo a rimanere in caserma.

Avanzò verso il letto, accomodandosi sul bordo e poggiando il volto sul palmo delle mani. Gettò una occhiata al vicino comodino: la regina bianca era ancora lì, dove l’aveva lasciata quella sera di quasi tre mesi prima. Erwin non gli aveva più chiesto di giocare a scacchi: dopo aver cercato inutilmente il pezzo per tutto l’ufficio, si era arreso. Avrebbe comprato una scacchiera nuova alla prima occasione.

Sfiorò la corona bombata, assaporando ogni dettaglio: la piccola gemma intagliata all’apice, il viso inespressivo e la sagoma del vestito che si apriva alla base. La strinse tra le dita, tirandola a sé. La regina era il pezzo più potente dell’intera partita. Perché era così forte? Perché doveva difendere il suo signore: non aveva importanza quanto gli obiettivi del re fossero egoisti, ambiziosi, complessi, se avessero condotto alla vittoria o alla più totale sconfitta… lei era lì, sempre al suo fianco, pronta ad assolvere il suo compito in silenzio e senza discutere. Si fidava, la regina, delle decisioni del sovrano: non le metteva in discussione, non criticava, né si domandava se fossero giuste o sbagliate. Le seguiva soltanto, limitandosi a proteggere il re a qualunque costo.

Si sfilò la giacca della divisa, piegandola pazientemente e poggiandola su una sedia sgombera. Infilò il pezzo bianco in un taschino, in un gesto più scaramantico che convinto. Chissà, magari l’avrebbe restituito ad Erwin, al ritorno da quella inquietante spedizione… perché sarebbero tornati entrambi, senza dubbio. Sì, sarebbero tornati e avrebbero ripreso le solite blande conversazioni serali, davanti ad una tazza di the caldo ed alla scrivania disordinata. Avrebbero riso di quelle sciocche preoccupazioni seduti sulle scomode panche della mensa, l’uno accanto all’altro, come era sempre stato: Erwin gli avrebbe rifilato i broccoli sconditi e lui il pane bruciacchiato, mentre Hanji narrava dei propri bizzarri esperimenti. I giorni sarebbero trascorsi come sempre, tra gli allenamenti, la stesura dei rapporti, la noia quotidiana dei pomeriggi troppo assolati.
Sarebbe tornato tutto alla normalità, sì…

A qualunque costo.
 
 
***
 

Non distolse lo sguardo neppure quando uno scoppio vicino giunse a ferirgli le orecchie. Lasciò agli altri l’onere d’assistere al miracolo di una rinascita. I suoi occhi rimasero incollati alla figura abbandonata, distesa sulle scomode tegole di un tetto malconcio.

Aveva preso una decisione: giusta o sbagliata? Non lo sapeva. Stava cercando di non voltarsi indietro, di non ricadere nella spirale di rimpianti contro cui combatteva ogni volta. Quella scelta, tuttavia, aveva l’amaro sapore di un fallimento personale: alla fine, non era riuscito a proteggere il re. Ci aveva provato, almeno inizialmente. Tuttavia, era capitolato per l’ennesima volta davanti alla sicurezza del comandante: la propria idea per salvarlo era stata spazzata via da un piano suicida, a cui aveva scioccamente dato appoggio. Aveva atteso, però, che tutto si risolvesse: la speranza non lo aveva mai abbandonato, neppure quando aveva scorto Erwin riverso a terra, accanto al cavallo sventrato; né quando aveva combattuto e quasi catturato il Titano Bestia. Era sempre lì, quel debole sogno che ci potesse essere ancora una vita da salvare. Non una vita qualunque, ma la sua: la più importante e l’unica che avrebbe potuto ricondurli a casa, dopo aver scoperchiato quella sudicia cantina che celava la verità sul mondo esterno.

Quando era stato il momento di scegliere, tuttavia, si era trovato preso tra due fuochi: non avrebbe dovuto lasciarsi trascinare e condizionare. Aveva già preso una decisione: la sola possibile, quella corretta. Eppure, quando le voci degli altri lo avevano raggiunto, si era nuovamente sentito confuso e perso: la persona che avrebbe potuto risolvere qui dubbi giaceva ai suoi piedi in fin di vita. Cosa doveva fare? Salvarla, senza dubbio, ma… come? Il siero era davvero ciò che Erwin avrebbe voluto per sé? Non lo sapeva e la tensione gli aveva gettato ulteriore scompiglio nella testa.

Oceano, demone, sogno, ossessione…

Quelle parole andavano ripentendosi, come una lenta e fastidiosa cantilena.

Sbagliavano tutti quanti! Erwin non era un demone, affatto. Perché quegli stupidi soldati non lo capivano? Perché non aprivano gli occhi ed affrontavano la realtà? Sarebbero rimasti dentro le mura a piagnucolare se Erwin non si fosse preso carico di loro, se non li avesse accettati e fatti crescere nella Legione. Che cazzata era quel discorso sul mare? “un grande lago oltre le mura, l’acqua è salata”. Convincente, motivante… sicuramente migliore, però, delle parole di quel piccolo milite ignoto: un demone per sconfiggere i titani. Un altro ingrato, un altro che, evidentemente, non aveva capito un accidente. Avrebbe voluto urlarglielo in faccia: non ha avuto scelta! È diventato così perché lo avete obbligato: perché vi serviva qualcuno su cui scaricare le colpe dei fallimenti, su cui gettare il peso delle morti che non avete saputo accettare, qualcuno che si sporcasse le mani al posto vostro e che condannasse la sua vita perché eravate troppo ipocriti e spaventati per arrischiare la vostra. Non si può comandare un esercito senza intaccare la propria anima.

Che senso aveva, quindi, risvegliarlo? Strapparlo alle delicate braccia del sonno per gettarlo nuovamente nella fredda e cruda realtà… per cosa? Per permettere a qualche irriconoscente moccioso di riportare a casa le chiappe. Per vedersi sbattere in faccia nuovamente il disprezzo e la derisione. Forse… non era quella la scelta giusta: o, meglio, lo era per sé, ma non per Erwin. Non aveva quasi raggiunto la pace, dopo tutto? Il viso squadrato era rilassato e, per la prima volta, contornato da una curiosa serenità. Come se la consapevolezza della morte lo avesse tranquillizzato, invece che spaventarlo. Come se stesse per riabbracciare una vecchia amica, a cui troppe volte era sfuggito. L’umanità non lo meritava. Nessuno lo meritava. Non lo avrebbe restituito a quell’inferno da cui era appena fuggito. Ora era libero.

Eppure, nonostante quella decisione, sentiva il peso della sconfitta: aveva comunque perso. Il re aveva abdicato, la partita era ormai finita. Spingere qualche pedone sino al bordo opposto della scacchiera non sarebbe servito: i pedoni possono riscattare tutti i pezzi mangiati, dopo aver attraversato le linee nemiche; tutti, tranne il re. Quello non si può rimpiazzare, in nessun caso.
Perdi il re e perderai la partita.
 

«Levi» una voce lo riscosse. Sollevò lo sguardo, incrociando la figura di Hanji «Ci stiamo muovendo»

«Vi raggiungerò. andate pure avanti» sussurrò, una nota esausta nel tono. Si sentiva strano, quasi vuoto, come se nulla avesse più senso. L’unica cosa a cui poteva, anzi doveva, aggrapparsi era quella promessa: uccidere il titano bestia. Era l’ultima sua missione e poi…

La destra scivolò nella tasca interna della giacca, afferrando delicatamente una statuina in legno chiaro; la regina bianca lo fissò con il suo sorriso inesistente, ancora in attesa di ritrovare il suo re. La posò su una tegola, prima di lasciar scivolare la mano sul vicino volto del comandante. Solcò con i polpastrelli il profilo robusto della mandibola, cogliendo quel leggero accenno di barba e risalendo poi verso i capelli ancora sporchi e scomposti. Li rassettò, passando le dita tra le ciocche dorate, piegandoli morbidamente di lato.

«Mi dispiace» disse solo, alzandosi cautamente e ripercorrendo il crinale del tetto «Aspettami, per favore. Mi devi ancora la rivincita»

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Capitolo 5
*** Birthday ***


V. Birthday

Premessa: il capitolo seguente è tratto da un progetto che avevo in mente (e che temo non verrà mai terminato, purtroppo). è ambientato nel post-ACWNR. Mi rendo conto che i personaggi possono apparire molto differenti rispetto a quelli attuali, magari anche un po' "acerbi" in alcuni punti; nel contesto "originale" questo comportamento aveva una sua motivazione, ma estrapolato temo non possa significare molto; mi dispiaceva, però, gettare via tutto quanto (il pezzo sul compleanno di Erwin era quello che preferivo, quindi volevo regalargli una piccola chance).
nel brano si fa riferimento ad alcuni personaggi originali ed a situazioni legate ai capitoli che avevo già steso: ho aggiustato lo scritto cercando di eliminare i riferimenti passati il più possibile, sperando che il discorso fili.
Grazie e buona lettura ^^

 


Quelle riunioni erano sempre infinitamente pesanti. Erwin stiracchiò piano le braccia, quando il comandante li lasciò liberi di andare a cenare. Nelle ultime due ore avevano rivisto continuamente la formazione per la prossima spedizione; la conosceva a memoria, ormai: in primo luogo, perché era opera sua e, secondariamente, perché l'aveva ripassata sino alla nausea. Purtroppo, viste le recenti perdite, si erano dovuti accontentare di una quindicina di squadre da spargere al meglio sul territorio per poter coprire ogni singolo punto cieco. La formazione a lunga distanza avrebbe funzionato anche con un così esiguo numero di persone? Non lo sapeva, ma lo avrebbe scoperto presto. Il suo schema iniziale era stato più volte modificato: alcuni capisquadra avevano preferito coprire posizioni differenti da quelle assegnate; aveva fatto del proprio meglio per incontrare le necessità di ciascuno, ma quelle di Flagil proprio non le capiva.

Quest'ultimo si era ostinato a piazzare la propria squadra sul fianco sinistro, ossia in una delle aree più precarie e pericolose. Un’idiozia, dal proprio punto di vista: una squadra composta solo da cadetti, per quanto promettenti, non sarebbe mai riuscita a fronteggiare l’attacco di un titano. Cosa sperava di fare? Di mettersi in luce? Ci sarebbe riuscito, senza dubbio, ma soltanto grazie al massacro dei suoi sottoposti. Glielo aveva era stato fatto notare, ma  l’altro non aveva inteso ragioni! Se desideravano che partecipasse alla missione, dovevano piazzarlo su una delle ali. Così, suo malgrado, Erwin si era ritrovato a capitolare: molto bene, la squadra Flagil avrebbe coperto parte del fianco sinistro. Poi, però, che non corressero a lamentarsi da lui se qualcosa fosse andato storto...

«Erwin!» una voce femminile lo distolse da quei pensieri. Sollevò il capo, fermandosi immediatamente al vedere Hanji corrergli incontro a braccia aperte. L'impatto con la donna quasi non lo sbilanciò indietro.

Era strana forte, quella! Eccentrica, spigliata e con una insana passione per i titani. Si era diplomata piuttosto tardi in accademia, rispetto alla media, ma le sue doti erano indiscusse: possedeva uno spirito attento, curioso ed una intelligenza notevole, che applicava principalmente alla ricerca.  Negli ultimi mesi, se vi erano stati progressi era anche grazie a lei. I suoi esperimenti sui giganti avevano portato a piccole ma importanti scoperte: le possibilità rigenerative di quei mostri erano state studiate a fondo ed aveva sezionato le cavie pezzo per pezzo. Ad ogni spedizione supplicava il comandante di poter catturare qualche titano – anche uno piccolo, diceva – pur di portare avanti i propri esperimenti. Qualcuno la definiva “pazza”, ma la verità era che Hanji metteva soltanto troppo entusiasmo in quello che faceva.
Anche se tutte le rotelle a posto non le aveva: ogni volta che otteneva dei risultati, le sue reazioni erano decisamente imbarazzanti e fuori dal comune. Si lasciava trasportare dall'eccitazione, scadendo in un acceso fanatismo che gli altri etichettavano come “follia”. Era per questo che la maggior parte dei soldati la evitava, limitandosi a rivolgerle dei sorrisi di circostanza; oppure per la sua smania di parlare continuamente dei propri test. O, ancora, per l'odore acidulo e sgradevole che si portava appresso: che Hanji si dimenticasse di lavarsi era chiaro a tutti. I capelli castani erano troppo disordinati ed unticci, affatto curati; i vestiti spesso spiegazzati e non era raro riscontrare qualche macchia qui e là.

Nonostante questa marea di difetti, Zoe era una persona estremamente leale, fedele ai compagni ed abile in combattimento. Più di una volta si era lanciata nella mischia senza pensare alle conseguenze e l'aveva spuntata. Non eccelleva come Mike, ma se la cavava piuttosto bene.

Mike, al contrario, era presente come un'ombra silenziosa. Stava accompagnando Hanji, ma a differenza di quest'ultima non era corso ad abbracciarlo. Gliene fu grato. La scena si sarebbe rivelata più imbarazzante del previsto. Mike era persino più alto e robusto di lui. I capelli, di un biondo scuro, incorniciavano un viso squadrato ove spiccavano dei baffetti a spazzola ed una barbetta incolta. A farla da padrone, tuttavia, lo sporgente naso. Quella era la vera arma segreta: possedeva un fiuto impareggiabile. Riusciva a percepire i titani anche a leghe di distanza e non sbagliava mai. Coglieva il loro odore, la direzione da cui stavano arrivando e, a volte, persino il numero. Per anni – si conoscevano dai tempi dell’infanzia  – Erwin lo aveva canzonato per quell'orribile naso. A conti fatti, però, doveva ammettere che era parecchio utile.

«Buon compleanno!» di nuovo il tono squillante di Hanji a distrarlo.

La donna lo aveva lasciato e gli stava tendendo un pacchettino spiegazzato. Già dalla carta marrone si intravedeva la tipica forma di una bottiglietta.
«Grazie! Non avresti dovuto disturbarti» anzi, avrebbe preferito si dimenticasse proprio di quella ricorrenza. Senza dubbio, quello era uno dei pericolosi e strampalati regali di Miss Zoe. Probabilmente qualche sostanza assurda, pronta ad esplodere al minimo movimento. Scartò il dono con estrema cura, ritrovandosi a fissare un liquido ocra con dei pezzettini arancioni galleggianti.

«Mh...» non aveva idea di cosa fosse. Sembrava vomito. I titani vomitavano? Se sì, era possibile che Hanji avesse raccolto del rigurgito appositamente per lui. «Interessante, davvero... cos'è?» chiese, infine, reggendo il contenitore per il tappo.

«Una bevanda energetica fatta da me.» ah si? Pensava peggio «L'ho prodotta in esclusiva, ovviamente! Ultimamente ti vedo troppo stanco, hai il viso tirato e le occhiaie. Sono sicura che questa ti rimetterà in sesto»

«Ah, capisco e... si beve? Cioè, è commestibile, no?»

«Ma certo! Ha una base alcolica, in realtà: ci ho messo un terzo di birra, poi zucchero, carote che tonificano il corpo, gambi di sedano tritati ed ho allungato tutto con il brodo dell'arrosto. Sai quello che preparano in mensa il venerdì, no? Quello!»

Fantastico! Una bevanda al gusto “sciacquatura dei piatti” era esattamente ciò che temeva. Si sforzò di accennare un sorriso incoraggiante.
«È meraviglioso, Hanji. Sono proprio curioso di vedere se funziona; ne berrò una tazza prima di andare a letto e...» magari quella roba andava bene per concimare le piante. L’avrebbe versata direttamente nel vaso dei gerani.

«Se vuoi un consiglio» Mike si intromise prontamente, cercando di metterlo in guardia «Non aprirla nemmeno. Ha un odore nauseabondo, sembra che ci abbiano cagato dentro un centinaio di capre»

«Oh, quanto sei stronzo!» la donna tirò un pugno dritto al fianco del collega «Se il tuo naso è otturato non è colpa di nessuno. Men che meno della mia invenzione.» esclamò, mentre il gigante biondo arrivava a coprire nuovamente le sue parole.

«è il tuo cervello che non funziona più.» Mike ignorò le proteste successive, cavando di tasca un pacchettino argentato «Tieni. Le ho prese alla drogheria dell'angolo. Sono caramelle... spero che ti piacciano»

Erwin sorrise nuovamente, in modo più aperto e rilassato, ora. Le caramelle erano un bene di lusso, di quei tempi; uno dei tanti privilegi dell'aristocrazia. Tuttavia, anche alcune botteghe dei distretti esterni le vendevano, sebbene a caro prezzo. Quasi nessuno se le poteva permettere, ma l'idea che l'amico avesse dato fondo ai propri risparmi per comprargliele gli scaldò il cuore. Mike era decisamente una persona speciale: sotto quella scorza dura e fredda, si celava un animo gentile e spontaneo. Era decisamente un ottimo compagno d'avventure, il tipo ideale con cui affrontare ogni avversità e superarla. Nella sua semplicità, era davvero eccezionale.
«Non avresti dovuto! Ti saranno costate una fortuna.»

«Già, ma sono i miei soldi e li spendo come voglio io. E poi... invecchi solo una volta all'anno. Mi sembra un sacrificio accettabile per il mio portafogli»
Risero entrambi, mentre Hanji saltellava qui e là come una bambina impazzita.

«E poi...ti abbiamo preparato un sacco di cose per cena. Non vedo l'ora che scendi a vederle. Ti piaceranno, vedrai... abbiamo fatto portare un mucchio di sorprese. Preferisci mangiare subito oppure farti un bagno? Però non metterci tanto o il dolce si squaglierà.»
Era impossibile arrestare quel fiume di parole.

Sollevò una mano, cercando di ottenere quell'attimo di silenzio sufficiente a dire «Vi raggiungerò tra una mezzoretta; vado a darmi una sciacquata e sono da voi. Avviatevi pure, se volete.»

Li lasciò alle loro faccende, incamminandosi nel corridoio. Sarebbe corso ad appoggiare le caramelle in camera, dove nessuno avrebbe potuto rubarle, ed a vuotare la miscela pestilenziale nel gabinetto. Poi, sarebbe sceso in mensa: il languorino allo stomaco si era fatto importante e, benché fosse sufficientemente posato da non dimostrarlo, smaniava per scoprire le restanti sorprese di Hanji.
 
***

Raggiungere la propria stanza era stato più difficile del previsto. Avendo l’alloggio situato al primo piano, esattamente al lato opposto della scalinata principale, si era imbattuto in parecchi soldati intenti a fargli gli auguri: chi si accontentava di stringergli la mano e chi, invece, si era presentato con un regalo. Il quattordicesimo giorno del decimo mese era una data nota nella Legione Esplorativa: il caposquadra Smith compiva gli anni; e poiché molti soldati erano vivi soltanto per merito suo, cercavano di esprimergli riconoscenza in quel modo.

Negli ultimi cinque minuti, Erwin aveva raccolto: una scatola di biscotti, due mazzi di fiori, una camicia nuova, un quadretto maldipinto e ben quattro panini all’uva, avvolti nei tovaglioli del refettorio. Le robuste braccia stringevano tutti quei doni, sforzandosi di non lasciarli cadere, mentre barcollava alla ricerca della propria camera.

«Signore! Aspettate!» una voce femminile, alle sue spalle. Si voltò, riluttante, scorgendo una giovane cadetta avvicinarsi con un libro stretto da un nastro rosso «Auguri! Spero che… vi piaccia, ecco. È uno dei miei preferiti e…» la ragazza abbassò il capo, le guance tinte di una timida sfumatura cremisi.
Un'altra fanciulla li raggiunse; da dietro la schiena cavò un pacchettino morbido.
«Sono fazzoletti! Li ho fatti ricamare con le vostre iniziali.» disse, sistemando il dono sopra agli altri, costringendolo a trattenerlo con il mento per evitare che finisse a terra.
Le due si dileguarono poco dopo, ridacchiando, permettendogli di proseguire. Ancora una svolta e poi sarebbe arrivato. Ancora qualche passo e… oh, no. L’ennesima figura che gli correva incontro. Ancora regali? Basta! Non riusciva a portarne altri. E…

«Stai imbastendo un mercatino dell’usato?» voce sottile, tono tagliente e sarcastico. La luce del corridoio gli rivelò ben presto le sembianze di Levi, appoggiato al muro e con le braccia incrociate. Lo stava fissando con la solita sfacciata noncuranza ed ironia.

«Spiritoso… potresti darmi una mano, invece.»

«A fare cosa? Ad allestire il banchetto?»

«Non è roba da vendere.» sbuffò, paziente, avvicinandosi ad una porta in legno scuro, la cui maniglia d’ottone opaco era scheggiata in più punti «Mi apriresti la porta? » non chiudeva mai a chiave. In fondo, chi mai sarebbe potuto entrare nella sua stanza a rubare? Nessuno. Non possedeva nulla di valore che non fossero libri; ed a nessuno dei soldati interessava quella roba.

Scorse Levi schiudere l’uscio con un calcio, facendogli segno di accomodarsi.

«Che ci devi fare con tutte quelle cose?» di nuovo quel tono pungente alle proprie spalle.

«Beh, sono regali» ammise, poggiandone alcuni sul letto ed altri sulla scrivania.

«Regali?» la nota curiosa dell’altro lo fece sorridere. Per un attimo, si chiese se fosse stato il caso di rivelarglielo. D’altro canto, non desiderava che si sentisse in debito e corresse a cercargli un dono: ne aveva ricevuti tanti da non sapere neppure dove metterli. Non che Levi gli sembrasse il tipo, in effetti. Anzi, senza dubbio avrebbe alzato le spalle ed ignorato la notizia.

«È il mio compleanno»

«Oh…»

C’era rimasto male? Non si voltò a controllare, fingendo noncuranza. Continuò ad impilare ordinatamente i libri ricevuti, per titolo ed argomento. Passarono attimi di silenzio, interminabili, prima che il moro si decidesse a riprendere:
«Quanti ne fai?»

«Abbastanza»

«Non vuoi dirmelo?»

«No. Diresti che sono vecchio. Anche se… sono sicuro che tu non sia da meno»

«Fanculo!» risposta prevedibile. Rise, scuotendo piano il capo, rimettendosi in ascolto: «Perché non mi hai detto che compivi gli anni?»

«Non credevo ti interessasse»

Spiò un lampo deluso passare sul viso affilato, ma fu poco più di un semplice bagliore. Era come se Levi fosse scontento: probabilmente, si sentiva escluso o trattato come un estraneo. In realtà, si era trattato poco più di una svista: non avevano mai avuto occasione di affrontare l’argomento “faccende private”. Così, semplicemente, la questione “compleanno” era scivolata nel dimenticatoio.

«Infatti non mi interessa!» Ecco, ora sì che lo riconosceva, che coglieva l’orgoglio trasudare dalla voce appuntita «Cosa ti fa credere che la cosa mi riguardi, in qualche modo? Ti sbagli…» di nuovo una nota incerta «Io… non ho niente da spartire con te. Men che meno compleanni, regali e sciocchezze del genere. Ho già perso troppo tempo con te e con i tuoi stupidi pacchetti. Vado a cena.»

Quel tipo era davvero strano. Ancora una volta, si chiese se non avesse commesso un’inutile imprudenza nel raccattarlo dai bassifondi. Dopo tutto, non sapeva praticamente nulla di lui, del suo passato e delle sue aspettative per il futuro. Tutto ciò che contava, però, era che Levi fosse incredibilmente efficace in battaglia e che avesse promesso di seguirlo.

Queste considerazioni, però, esulavano dal contesto: perché Levi si era tanto indispettito? Forse, si sentiva in imbarazzo per non avergli fatto alcun regalo e per aver scoperto troppo tardi quella ricorrenza. Non che la cosa avesse importanza: di certo, non si era offeso, né lo aveva lasciato intendere. Non aveva mai dato troppo peso al proprio compleanno, quindi non era un problema se quel piccoletto si era scordato di fargli gli auguri. Fece per aprire bocca, deciso a spiegargli tutto quanto.
Tuttavia, quando si voltò nuovamente verso la porta, di Levi non vi era più traccia. Era scomparso, fuggendo in fretta nel corridoio adiacente, come il peggiore dei fantasmi.
 
***

Levi cercò di spaccare il pane secco, tirandogli un pugno deciso. La pagnotta, tuttavia, era talmente possa che resistette stoicamente all’impatto. Il cuoco era veramente uno stronzo: aveva riservato il pane fresco agli ufficiali, rifilando lo stantio alle sfortunate reclute.
Per di più, la sua zuppa era ormai fredda: sulla superficie arancione galleggiava un gambo di sedano evidentemente marcio. Non aveva osato toccare cibo, per il timore di dover trascorrere la notte seduto sul gabinetto.

Liam, seduto poco distante, aveva trascorso la serata a lanciargli degli orrendi fagioli nerastri, divertendosi a centrare il suo bicchiere; fortunatamente, quei tiri erano andati completamente a vuoto. Non che la cosa gli avesse risollevato il morale; anzi, se possibile, lo aveva fatto sprofondare completamente sotto i piedi. Aveva una gran voglia di alzarsi e rovesciare il bricco dell’acqua in testa a quel moccioso ed ai suoi sghignazzanti compagni, ma… non poteva, naturalmente. Quel moccioso era il pupillo del caposquadra Flagil, il quale non aspettava che una buona occasione per disfarsi del ragazzo dei bassifondi. Quindi, doveva stare calmo e sforzarsi di non reagire. Quegli idioti stavano solo cercando un pretesto per farlo cacciare dalla Legione e lui non glielo avrebbe mai fornito.

Sospirò a fondo, osservando il foglio immacolato sistemato tra la scodella ed il cucchiaio. La mano destra impugnava saldamente una matita che, tuttavia, non aveva vergato neppure una sillaba. Ah, maledizione! Non aveva assolutamente idea di come si scrivesse un biglietto d’auguri. Non ne aveva mai ricevuti in vita sua… che ci doveva mettere? Forse un “auguri Erwin” sarebbe stato sufficiente. Oppure avrebbe potuto aggiungere qualche parere personale o un ringraziamento speciale per l’impegno nell’insegnargli la grammatica o per avergli permesso d’allenarsi con lui o per aver impedito a Shadis di cacciarlo a calci in culo o… beh, no. Non erano frasi molto adatte, se ne rendeva conto.

Avrebbe potuto metterci un disegno. Non era un artista, ma un semplice schizzo sarebbe stato ben accetto. Avrebbe potuto ritrarre Erwin con tutti quei pacchetti, come lo aveva visto nel pomeriggio. Sì, quella era un’ottima idea. Sorrise piano, congratulandosi con sé stesso, mentre la matita iniziava a muoversi.
 
***

Quanto baccano stavano facendo al tavolo ufficiali? Troppo per i suoi gusti. Non riusciva a concentrarsi. Accidenti! Per produrre un buon disegno occorrevano silenzio, calma e… quei pazzi scatenati stavano cantando a squarciagola da quando il festeggiato era arrivato.

Nella mensa si era diffuso subito un profumo di biscotti e di alcool, che ormai scorreva a fiumi. Anche i cadetti erano stati invitati a prender parte a quella baldoria. Tutti tranne lui, ovviamente. O, meglio, qualcuno era andato a chiamarlo, ma aveva cortesemente rifiutato. No, grazie. Non aveva assolutamente nulla da spartire con nessuno di loro, men che meno col signor Smith. Voleva almeno una fetta di torta o un bicchiere di vino? No, era a posto così. Desiderava soltanto rimanere rinchiuso nella propria bolla di solitudine ed aspettare pazientemente che la festa scemasse spontaneamente.

Inoltre, non aveva ancora finito la propria opera, composta da un paio di omini stilizzati: quello di sinistra appariva molto più alto del compagno e con un vistoso riportino sopra al capo. L’altro, invece, possedeva dei capelli neri e dritti come degli spaghetti, mentre il collo – quasi inesistente – era avvolto da un cravattino immacolato.
«Non male!» sussurrò, voltando immediatamente il foglio al sentire qualcuno picchiettargli sulle spalle. Si girò di scatto, senza nascondere il fastidio, e ritrovandosi a fissare il volto arrossato di Hanji. La donna stava sorridendo, un’aria spiritata dipinta nello sguardo. Era ubriaca oppure quella era la sua ordinaria espressione?

«Che cazzo vuoi?» la apostrofò malamente, ma lei non parve neppure accorgersene.

«Levi!»

Aiuto. Perché lo stava abbracciando? No, non lo stava abbracciando. Stava cercando di tirarlo giù dalla panca e di spostarlo dal tavolo cadetti.

«Che stai facendo?» gridò, cercando di divincolarsi. Si aggrappò allo scranno, rifiutandosi di lasciare il legno duro. «Lasciami stare!»

«Vieni con noi! Non stare qui a fare il musone, dai.» gli avrebbe rovinato tutta la divisa. Sentiva già l’orribile suono delle cuciture pronte a saltare, degli strappi nel tessuto nocciola della giacchetta «Siamo tutti là! Piantala di isolarti e vieni…»

«No! Non voglio.»

«Eh dai! Che cosa stai qui a fare da solo? Vieni là. C’è un sacco di roba da mangiare»

«Non…ho…fame!» ansimò, allacciando gli stivali attorno ad una gamba del tavolo. Non avrebbe ceduto alle insistenze di quella pazza, mai e poi mai.

«Abbiamo anche da bere. Ti farebbe bene un bel bicchiere di bianco!»

«Non lo voglio e non mi piace bere!» anche perché non era sicuro di poter reggere egregiamente l’alcool. Non era abituato. Non che scarseggiasse nei sotterranei, ma aveva sempre cercato di tenersene alla larga, convinto che il vino inebriasse troppo le menti, offuscando il giudizio e rallentando i riflessi; e nei vicoli non potevi mai abbassare la guardia.

«Che palle! Sei noioso.»

«E tu sei fastidiosa.»

«Sei l’unico al tavolo. Piantala di fare l’asociale e vieni.»

«Mi piace la mia intimità!­»

«Anche a me» era impossibile arrestare quel fiume in piena di parole «Tipo… odio quando hai qualcuno tra i piedi; speri che capisca da solo, ma quello non se ne va e piomba un silenzio imbarazzante»

Silenzio.
Silenzio.

Si squadrarono per un lungo istante, prima che Hanji riattaccasse «Allora… vieni?» domandò, atteggiando il volto in una smorfia supplicante.

«No! E adesso sparisci»

«Peccato…»

Non replicò, limitandosi a farle un cenno seccato. Con la coda dell’occhio, la osservò sgusciare via e tornare alla festicciola.
 
***

Non erano passati che dieci minuti, quando una seconda figura si presentò al suo tavolo. Levi ebbe la prontezza di nascondere il disegno, prima di ritrovarsi a spiare il naso prominente di Mike.

«Perché non vieni?» un altro passato per convincerlo! No, non si sarebbe unito a quella stupida baldoria. Non gli serviva. Non doveva dimostrare niente a nessuno, non aveva di che spartire con quella combriccola e stava bene da solo. E poi… non aveva ancora terminato il suo biglietto. Ma… anche se lo avesse finito, poi che progettava di fare? Presentarsi al tavolo del festeggiato era assolutamente fuori discussione

«Non mi va» rispose, mimando un plateale sbuffo.

«Ti stai comportando come un bambinetto»

«Non ho chiesto nessun consulto psicologico…»

«Ad Erwin farebbe piacere se ti unissi»

«Gli farebbe piacere? Allora riferisci che può venire lui ad invitarmi, se ci tiene tanto.»

Scorse Mike picchiare un pugno sul tavolo, irritato. Oh? Credeva di spaventarlo o di farlo capitolare? Si sbagliava. Non avrebbe ceduto.
«Sei davvero un idiota capriccioso! Stavamo soltanto provando a integrarti, ma… se vuoi fare l’eremita a vita, allora fa pure. Non ti lamentare però se perfino i mocciosetti di quindici anni poi ti prendono per il culo»

Levi scattò in piedi, stringendo i pugni:
«Che cazzo hai detto?» ringhiò. Era troppo! Poteva sopportare stoicamente le angherie di Liam e compagnia, ma… che anche Nasone lo sfottesse proprio no. Aveva promesso che si sarebbe trattenuto e controllato, ma un conto era con degli stupidi adolescenti, un conto con quello stronzo che lo aveva spinto a bere da una pozzanghera puzzolente. Non aveva dimenticato quell’affronto. Alla prima occasione, anzi, avrebbe ripagato Mike con la stessa moneta. Stava soltanto aspettando il momento giusto ed un buon acquazzone «Prova a ripeterlo, se hai il coraggio…»

Mike, tuttavia, si stava già allontanando. Lo vide agitare una mano, come a scacciare una mosca fastidiosa.
«Cresci, Levi.»
 
***

Per quanto sarebbe continuata ancora quella processione? Non capivano che desiderava restare da solo? Non aveva neppure finito il disegno. Certo, avrebbe voluto arricchirlo con qualcosa di più: dei fiorellini sparsi oppure dei pacchetti regalo o…boh, degli uccellini che volevano verso il sole. Di quel passo, però, non sarebbe mai riuscito a completarlo: ogni volta che qualcuno si avvicinava al tavolo, era costretto ad interrompere e nascondere il foglio.

«Ho detto che non voglio venire!» sbottò, al sentire dei passi oltre le proprie spalle.

«Lo so, ma speravo di convincerti» riconobbe immediatamente la voce profonda di Smith. Maledetto! Perché non lo lasciava in pace? Non voleva avere a che fare con lui.
Erwin sedette accanto, posandogli davanti una fetta di torta e un calice di vino.

«Non li voglio» non avrebbe accettato l’elemosina di un altro tavolo.

«Perché no? Non mi sembra tu abbia toccato cibo. Non hai fame?»

Certo che ne aveva: la zuppa giaceva intoccata, attorniata dai malcapitati fagioli che Liam aveva lanciato. Il pane secco, naturalmente, lo stava fissando da una buona mezz’ora.

«Non voglio la tua carità»

«Non essere ridicolo! Perché devi farne una questione di orgoglio? Sto solo cercando di festeggiare il compleanno con i miei amici»

«Noi non siamo amici»

«Dici?»

Scosse il capo. Che strane idee si stava facendo, quello? Amico di quel rompipalle del caposquadra Smith? No, assolutamente no. Non erano amici, neanche un po’… erano solo dei colleghi. Dei soldati, niente altro. Se pensava vi fosse qualcosa di più… della stima o della fiducia reciproca o qualcosa che andasse oltre il banale senso di cameratismo, si sbagliava.

«Non vedi che non ti sopporto?» sibilò, accennando ad uno sbuffo sarcastico.

«Mh, no. Non mi è mai parso di notare insofferenza, da parte tua. Sei sempre venuto volentieri in biblioteca; e anche l’altra sera, in palestra, non credevo ti fosse pesato più di tanto»

«E questo cosa c’entra? Puoi starmi sul culo anche mentre ci alleniamo! Non è evidente?» tirare in ballo le sere passate a leggere tra i libri, ad apprendere i fondamenti della scrittura oppure in palestra a mimare dei combattimenti era un colpo davvero basso. Erwin sapeva perfettamente che nessuna di quelle attività gli dispiaceva, anzi… erano un buon passatempo. Motivo per cui, evidentemente, il caposquadra stava tentando di rinfacciargliele.
Si concesse una pausa, lasciando spazio all’orgoglio che gli ruggiva nel petto. Non voleva gli avanzi della festa, non voleva essere commiserato o trattato come un mendicante da salvare.

«Credevo che le cose tra noi si fossero appianate» nuovamente la voce di Erwin, tinta di una nota amara. Sollevò lo sguardo sul suo viso: cos’era quell’aria bastonata e sconfitta? La delusione aveva improvvisamente cancellato l’allegria della festa. Non era certo colpa sua, però: possibile che Smith non si fosse reso conto di quanto fosse odioso? Supponeva davvero che potesse affezionarsi all’uomo che gli aveva rovinato la vita? Non capiva proprio niente!

«Credevi male!» sbottò, infine, alzandosi di scatto. Recuperò frettolosamente il disegno, nascondendolo sotto alle falde della giacchetta.

Stava iniziando già a provare del rimorso. L’espressione malinconica del biondo lo stava danneggiando, ma non doveva lasciarsi ingannare. Smith non era capace di provare dei veri sentimenti, lo sapevano tutti… ciò che mostrava erano soltanto maschere studiate per i propri scopi, per spuntarla e per il successo. Però, che fosse una sensazione reale o una mimica ben costruita, il caposquadra pareva sconfortato. Come se qualcosa in lui si fosse temporaneamente spezzato o come se una certezza fosse crollata, accartocciandosi velocemente su sé stessa. Era colpa sua? Delle parole meschine che gli aveva rivolto? Si. Forse avrebbe dovuto scusarsi e…

«Non sei tu a parlare.» perché Erwin non lasciava perdere? Peggiorava soltanto la situazione con quelle congetture. «È il tuo sciocco orgoglio. Sto imparando a conoscerti, che ti piaccia o meno. Non sei così, Levi. Ti ostini a fare il duro, lo scontroso, ma… credo sia soltanto un guscio protettivo, il tuo. È una difesa, lo capisco… ma non ti serve con me»

«Che ne vuoi sapere di come sono fatto?» di nuovo quel ruggito interno, impossibile da ignorare: l’ego pronto a contrastare ognuna di quelle parole, la superbia decisa a demolire quel discorso assurdo. Non avrebbe permesso a Smith di leggerlo come se fosse uno stupido libro. Sapeva che ne era capace, ma era ora di darci un taglio «Fammi un favore. D’ora in poi… stai alla larga da me» ringhiò, scavalcando la panca ed allontanandosi verso l’ingresso della mensa.

Superò l’uscio, senza voltarsi indietro. Sentiva lo sguardo di Erwin gravargli sulle spalle, mentre nell’animo si agitava il rimorso. Era stato uno stronzo, già… che bisogno aveva di rovinare una festa di compleanno? Probabilmente, aveva appena distrutto uno dei pochi giorni spensierati del Corpo di Ricerca.

Era davvero un ingrato: se aveva un tetto sopra la testa, del cibo di qualità accettabile – migliore sicuramente di quello dei bassifondi – delle coperte e dei vestiti puliti… non era merito suo, ma del caposquadra. Anche se… in fondo, tutte quelle cose se le era guadagnate. Anzi, per la precisione, le aveva pagate a caro prezzo. E di chi era la colpa? Sempre di Smith. Gli aveva portato via tutto e gli aveva regalato qualcosa d’altro. Qualcosa di meglio? Oppure soltanto l’illusione di una vita libera, mentre in realtà era soltanto passato da una prigione all’altra senza accorgersi?
Non lo sapeva. Sentiva la testa scoppiargli ed un ronzio insistente nella mente. Aveva bisogno di riordinare le idee, di chiudersi nel silenzio della propria stanza e bruciare quello stupido disegno.
 
***

Erwin barcollò verso la porta della sua camera; aveva bevuto troppo, accidenti! Avrebbe dovuto rifiutare l’ennesimo giro di vino, quando Mike lo aveva proposto. Non sapeva neppure che ore fossero… sicuramente, notte fonda. Ah, se Shadis lo avesse visto in quelle condizioni gli avrebbe dato una bella tirata di orecchie.
Raggiunse la maniglia a tentoni, spingendola verso il basso e schiudendo l’uscio. Mosse un passo all’interno della camera, ma la terra gli mancò improvvisamente sotto i piedi: la suola degli stivali scivolò su qualcosa di lucido. Incespicò, tentando inutilmente di recuperare l’equilibrio. Si ritrovò a ruzzolare tra la scrivania e il letto, battendo le ginocchia. Tutta colpa di Mike e del vino!
Poi, incastrato sotto al tacco della scarpa, si accorse di un foglietto spiegazzato. Incuriosito, allungò una mano, spiegando la pergamena leggera.


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Capitolo 6
*** Death ***


VI. Death


«Mike non è tornato neppure oggi»

«Lo so» Erwin sollevò lo sguardo dai fogli, appoggiando cautamente la piuma vicino al calamaio. Ignorò l’inchiostro gocciolare sul pianale di legno lucido, scrutando la figura apparsa sulla soglia del suo ufficio «Non si usa bussare, vero?» chiese, consapevole di parlare al vento. Glielo aveva detto troppe volte: il fatto che la porta fosse aperta, non autorizzava ad entrare senza permesso; quel concetto, però, faticava ad entrare nella testa del capitano.

«Sembra che la cosa non ti importi» Levi richiuse l’uscio, scivolando verso la scrivania, sforzandosi di nascondere il leggero fastidio alla caviglia sinistra. La storta si stava risanando, ma sarebbe guarita più velocemente se non l’avesse sforzata o chiusa dentro agli alti stivali di cuoio scuro. SI rifiutava, tuttavia, di stare a letto come un qualsiasi malato: era il soldato più forte dell’umanità o no? Doveva dimostrarlo, nonostante il comandante lo avesse pregato di rimanere a riposo anche quella settimana. Da che pulpito, poi! Erwin si era appena rimesso da una sin troppo breve convalescenza: l’aver perso il braccio destro non sembrava aver fermato lo zelante comandante che, dopo aver dichiarato d’essere tornato nel pieno delle forze, aveva preteso di lasciare l’ospedale militare ed essere trasferito nella caserma della Legione Esplorativa. Nonostante si sforzasse d’apparire calmo e pacato, c’era qualcosa che turbava profondamente l’animo del biondo: la maggior parte dei soldati credevano fosse a causa della menomazione recentemente subita; lui, però, aveva imparato gradualmente a riconoscere le espressioni stanche e crucciate, a scandagliare i falsi sorrisi ed a riconoscere la disperazione tingere il fondo delle iridi blu. C’era dell’altro, qualcosa che esulava dalle mere ferite: i tagli che squarciavano quel corpo erano più profondi ed arrivavano sino all’anima, forandola nuovamente come le punte di infidi stiletti.

Ogni vita sprecata era una coltellata, l’ennesima ad accompagnare le cicatrici di una vita intera. L’ultima, la più profonda, portava il nome di Zacharias. Eppure, Erwin si sforzava di non mostrarlo: se ne stava compostamente seduto alla scrivania, ignorando le bende che ancora stringevano il moncherino e che a stento si intravedevano sotto la camicia perfettamente allacciata. Muoveva la mancina lungo una pergamena spiegazzata, fermata agli angoli con dei pesanti tomi. Le lettere fluivano incerte e sconnesse, troppo sgangherate per poter essere comprese.

«Ti sbagli» il comandante non sembrava disposto a concedergli altro.

«Davvero? Perché pare proprio che non te ne freghi più niente, ormai… né di Mike, né di tutti gli altri» ottenne l’attenzione sperata «Te ne stai chiuso qui a… fingere che tutto vada bene, ma non è così. Lo vedo benissimo, ti conosco.»

«Cosa vuoi, Levi?»

«Parlare.» recuperò una seggiola, avvicinandola alla scrivania. Si accomodò, appoggiando pigramente la schiena alla spalliera ed incrociando le braccia al petto «Nei corridoi si vocifera del tuo fallimento. Dicono che lascerai presto la guida della Legione e che ti ritirerai. Altri parlano di una convocazione dalla capitale, altri ancora della corte marziale. Che diamine stai facendo? Architetti qualcosa, vero?­»

«No. Non ancora.»

«Quindi?»

«Voglio solo essere lasciato in pace» la voce conteneva una sfumatura debole, come strappata dal troppo dolore.

«Non è da te»

«Questa volta è così, mi dispiace»

«Non è per il braccio, giusto?»

«Mi conosci» di nuovo un sospiro strappato controvoglia «Che importanza può avere uno stupido braccio, quando ho spedito tante anime all’altro mondo? Dopo tutto, è solo una parte di me che se n’è andata in anticipo. Mi aspetterà dall’altra parte… Mi sembra un prezzo giusto, per quello che ho fatto.»

«Perché, cosa hai fatto?» gli avrebbe cavato la verità di bocca a qualunque costo. Non era corso lì per essere liquidato in quattro e quattr’otto, con un discorsetto insipido ed appena abbozzato.

«Salvare Eren ci è costato molto, anzi… troppo. Questa volta il tributo è stato altissimo ed io non sono che un bugiardo e un assassino. Mi domando se quel ragazzino valga tutto questo. È davvero l’unica speranza che abbiamo? La sola possibilità di riconquistare la libertà? Oppure potremmo farcela comunque, senza ricorrere a quell’assurdo potere che gli scorre nelle vene? Non credo di saperlo» una pausa sin troppo lunga «E… la cantina è davvero la chiave di tutto? La verità giace sepolta tra le macerie di Shiganshina. È sempre stata lì, a portata di mano. Immersa nella nostra quotidianità, senza che ce ne accorgessimo. Perché nascondere un segreto simile? È così terribile da dover essere protetto ad ogni costo? È così avaro cercare di raggiungerlo a tutti i costi? Non lo so più e non ne sono sicuro. Quella cantina potrebbe essere la nostra salvezza, la fonte della nostra speranza e… non possiamo ancora arrivarci. Non siamo sufficientemente forti per riconquistare il Wall Maria e la nobiltà ci sta ostacolando in tutti i modi. Perché non vogliono conoscere la verità, Levi? Perché questa gente si accontenta di vivere tra le mura, di guardare ogni giorno quegli orribili mattoni, di camminare per gli stessi vicoli marci? Non si interessano a nulla, come se le loro esistenze vuote ed inconcludenti fossero… sufficienti!­» lo vide appoggiare la fronte all’unica mano «Per cosa sto combattendo? Per cosa sto gettando i miei soldati? Per regalare speranza ad un mondo che nemmeno la desidera! È come se la verità non interessasse a nessuno, soltanto a noi. Perché, allora? Che senso ha sprecare vite, se non importa a nessuno?» scosse il capo, leggermente «Non so cosa sto facendo, non so neppure se sono nel giusto. Come dovrei sentirmi, secondo te? Guarda le mie dita: sono sporche, lo vedi? Sono macchiate di sangue: quello fresco va a coprire le increspature secche. Non riuscirò mai a lavarlo via.»

«Io non credo che tu sia in errore, Erwin. Sappiamo tutti che non riusciremo a liberare il Wall Maria senza sacrifici. Siamo consapevoli di quello che ci aspetta e se siamo qui è per una nostra libera scelta. Non abbiamo paura di morire»

«Non usare frasi fatte. Sai benissimo che non è vero. Tutti abbiamo paura di morire, persino tu ed io. Non scuotere il capo, per favore: conosci le espressioni dei moribondi? Immagino di sì. Cerca di ricordarle: le bocche spalancate perse in grida di terrore, gli occhi sgranati e la rassegnazione dipinta sui volti impauriti. Le mani che tremano, le gambe che scalciano nel vuoto, mentre le ossa scricchiolano sotto la stretta dei titani. È un attimo e la vita si spezza, tranciata dalle fauci possenti. Lo vedi? Il sangue che cola lungo i menti dei giganti e che scivola inesorabile verso il suolo, arrivando a tingere l’erba fresca. È la morte a cui siamo abituati: la conosciamo soltanto così, in questa forma cruda. È quella a cui condanno decine di soldati, ogni volta che varchiamo quelle maledette mura.
Ho paura di morire, Levi. Posso non dimostrarlo, ma non sono disposto a fingere che la Nera Signora sia una nostra amica. Una compagna di viaggio, forse, che prima o poi saremo costretti ad incontrare. Un’ospite sgradita, che bussa alla soglia dei momenti migliori, rompendoli e spazzandoli via. Temo per me stesso e per gli altri, eppure non posso fare a meno di guidarli. Perché? Non saprei… per la libertà, per la verità, per qualunque cosa ci possa portare lontano da qui e restituire una dignità. Siamo esseri umani, non animali in gabbia, ma… la gente sembra essersene dimenticata.»

Sentì lo sguardo penetrante su di sé e si affrettò a distogliere l’attenzione, portandola sui vicini libri:
«Non lo so. Non ci ho mai pensato. Forse, temo di più per le persone che mi sono accanto che per me stesso. Ho sempre pensato che io riuscirei a cavarmela, in qualche modo, ma… gli altri…»

«Pensi male. Guarda che fine ha fatto Mike. Era in gamba, molto. Il migliore, forse. Lo conoscevo da… beh, troppo. Come credi che mi senta? Era il mio migliore amico e l’ho mandato a morire come una bestia da macello. Nessuno sa dove sia, se sia ancora vivo o meno; man mano che passano i giorni, però, la speranza si affievolisce sempre di più. Non è disperso, Levi. È morto. Non devo fare altro che rassegnarmi ed accontentarmi di incontrarlo nei miei incubi: sarà lì ad aspettarmi, insieme a tutti gli altri. Riesco quasi a vederli, sai? Il biasimo sui loro visi, le smorfie disgustate, le spalle definitivamente voltate. Che cosa vuoi che faccia? Che esca di qui, da questo ufficio e mi aggiri solare per i corridoi, facendo finta di nulla?» la mancina si chiuse a pugno, cadendo pesantemente sul pianale della scrivania «Non riesco neppure a scrivere le lettere di cordoglio alle famiglie. Non riesco a fare niente!» la voce era improvvisamente cresciuta, piegata soltanto da una nota frustrata «Non trovo le parole e non so neppure reggere la penna.» e nuovamente un sussurro sottile «Vorrei solo che tutto questo… ne valesse la pena.»

«Sono sicuro che sarà così» Levi non trovò altro da aggiungere. Allungò la mano destra, impossessandosi della piuma e del foglio ormai stropicciato «Posso solo prestarti il mio braccio destro, Erwin. Di più non posso fare»

«Lo so»

«A chi vuoi scrivere?»

«Alla signora Zacharias»

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Capitolo 7
*** Afterlife ***


VII. Afterlife


Levi impallidì nel vedere l’uomo fermo al bancone che una zelante collega si stava affrettando a servire.

«Prendo io l’ordinazione» disse, allontanando prontamente la ragazza e sostituendosi a lei.

Sfoderò un leggero sorriso, avvicinandosi al registratore di cassa.

«Come posso aiutarla?» chiese, studiando le fattezze del cliente: alto – un metro e ottantotto centimetri, per la precisione -  dai capelli biondi corti e penetranti occhi azzurri. Le spalle larghe erano avvolte da un cappotto nero, mentre dalla mano sinistra pendeva inerte un ombrello scuro, ancora gocciolante. La sua attenzione indugiò sulla mano destra, intenta a stringere un cellulare d’ultima generazione: non avrebbe dovuto stupirsene troppo, ma trovava quel dettaglio quasi insolito. Era abituato, ormai, ad una manica vuota.

«Un Caramel Frappuccino e una mini donut integrale ai mirtilli» una carta di credito comparve immediatamente sul bancone «Le serve un documento?»

«No, non si preoccupi» passò rapidamente la carta nel lettore, battendo il totale e strappando velocemente lo scontrino «è la prima volta che viene qui?» chiese, scoccando una occhiata all’orologio a muro. Erano quasi le sei del pomeriggio: ancora qualche minuto ed il suo turno sarebbe finito. Non doveva fare altro che guadagnare un po’ di tempo. Ignorò lo sbuffare di una signora in coda: ci avrebbero pensato le colleghe a servirla.

«Sono solo di passaggio. In viaggio di affari»

«Capisco… di cosa si occupa? Se non sono indiscreto.» Naturalmente, era indiscreto e se ne rendeva conto perfettamente. L’uomo, tuttavia, non sembrava infastidito da quella curiosità.

«Sono dirigente di una importante azienda informatica.»

«La Microsoft?»

«Beh, no…»

Rivolse uno sguardo all’Iphone che l’altro stringeva nella destra: ultimo modello, presentato soltanto qualche giorno prima nei principali Apple Store della città.
«Mh… la Apple?»

«Indovinato» un sorriso indulgente gli cadde addosso, sufficiente a provocargli una punta di fastidio: ad Erwin era stata concessa una vita decisamente migliore della sua, un semplice commesso di Starbucks, sottopagato e costretto ad orari impossibili. Il Soldato più forte dell’Umanità obbligato a servire ai tavoli, a sorbirsi vecchie signore con manie di protagonismo o aspiranti scrittori troppo intenti a sfruttare il WiFi gratuito per ricordarsi di ordinare. Ah, era tutto così ingiusto! Perché non poteva essere ricco e famoso, almeno per una volta? Ricco, soprattutto. Lo stipendio gli bastava a malapena per coprire l’affitto del bilocale, che condivideva con un inquilino dedito al “giardinaggio illecito da balcone”. Ogni giorno si svegliava pregando che i vicini di casa non riconoscessero le piantine che crescevano rigogliose sul loro terrazzo. In caso contrario, avrebbe trascorso uno spiacevole pomeriggio in questura a spiegare che non ne faceva assolutamente uso.

«Beh, deve essere… un lavoro importante…» che diamine stava dicendo? Ovvio che lo fosse! Non era certo paragonabile al suo sparecchiare i tavoli. E pensare che aveva sempre desiderato una sala da the. Si era immaginato di costruire, al termine della battaglia per la libertà, un piccolo locale ai margini della capitale: un posticino grazioso e tranquillo, dove avrebbe sfornato dolci al miele e lasciato decantare centinaia di gusti di the pregiatissimo, per veri intenditori. Mai si sarebbe sognato, tuttavia, che quella piccola ambizione si sarebbe trasformata in un incubo, durante la sua “seconda chance”.

Era strano, tuttavia: perché lui aveva immediatamente riconosciuto Erwin, mentre l’altro non aveva fatto cenno di rammentare alcunché? Che non fosse lui? Impossibile. Che si fosse dimenticato tutto quanto? Facile. Lui stesso aveva faticato a recuperare quei ricordi, che erano pian piano affiorati nella memoria durante la crescita. Eppure, a trentacinque anni, poteva ben dire d’avere un piano completo della situazione: rammentava quasi tutto – eccetto qualche dettagli di poca importanza – e certo non si era scordato i volti dei vecchi amici. Nonostante ciò, Erwin non sembrava averlo riconosciuto; che non fosse ancora in grado di ricordare?

«Posso accompagnarla? Ho finito il turno di lavoro e…» la sua mente elaborò una semplice scusa affrettata «E vorrei saperne di più sul nuovo Iphone»

«Perché? Te lo puoi permettere?»

Erwin aveva davvero risposto così? No, forse era stata la sua immaginazione: il volto squadrato era completato da un sorriso comprensivo ed indulgente: «Certamente, mi farebbe piacere avere un po’ di compagnia. La aspetto fuori»

Levi raccolse quella replica come se fosse l’unica possibile e si affrettò a slacciarsi il grembiule.

«Io stacco! A domani!» salutò frettolosamente le colleghe, sgusciando lesto oltre il bancone. Recuperò un vecchio ombrello malconcio, spicciandosi all’esterno. Aveva smesso di piovere ed Erwin ne aveva approfittato per divorare la ciambellina ai mirtilli; ora stava indugiando sulla cannuccia del frappuccino.

«Erwin» si avvicinò al biondo, squadrandolo dal basso «Non ti ricordi di me?» una leggera speranza nella voce. Possibile che l’altro si fosse scordato tutto quanto?

«Si, hai un’aria vagamente familiare.» un piccolo sogghigno «Mi chiedevo dove fossi finito, sai?»

«Cioè?»

«Credi davvero che sia un caso che mi trovi qui? E che sia entrato proprio nello Starbucks dove lavori?» una domanda sarcastica «essere un dirigente della Apple ha moltissimi vantaggi, tra cui avere accesso alle principali piattaforme internet per le ricerche avanzate. Ci ho messo… parecchio per rintracciarti, ma alla fine, eccoti!»

«Perché non mi hai detto subito che eri tu?»

«Volevo vedere se mi riconoscevi, se avevi memoria della vita precedente e… per evitare che ti mettessi a sproloquiare di giganti cannibali e manovre tridimensionali»

Levi montò una piccola espressione offesa:
«Mi credi così stupido?» domandò, sbuffando fiato nell’aria fredda della sera. L’autunno stava ormai calando e le giornate si erano notevolmente accorciate. Il buio si stava già insinuando tra le vie, interrotto soltanto dagli aloni di luce dei lampioni.

«Solo un po’ ingenuo» fu la risposta, mentre riprendevano a percorrere la strada «Sai, questa cosa della seconda possibilità è… strana, inaspettata! Non credo di meritarmela, non dopo…»

«Oh, finiscila!» lo interruppe, sollevando prontamente una mano «Non intendo ascoltare oltre le tue lagne su quanto successo. È passato, no? Potresti anche lasciartelo alle spalle e non pensarci troppo. Magari anche gli altri avranno avuto una nuova chance. Chissà, magari Quattrocchi è più vicina di quello che pensiamo! Forse dorme sotto un ponte, perché è una maleodorante senzatetto» quel pensiero lo fece stare stranamente bene: era gradevole, sotto sotto, pensare che essere un commesso sottopagato e sfruttato non fosse la peggiore delle reincarnazioni.

«Hanji? Oh, ti sbagli! È proprio da lei che sono iniziate le mie ricerche: tre anni fa l’ho incontrata ad un summit sullo sviluppo ecosostenibile delle nuove tecnologie. Ti farà piacere sapere che è una importante ricercatrice del campo: collabora con le principali associazioni per la salvaguardia del pianeta e…»

«Insomma, un’altra che ha fatto carriera…»

«è decisamente un pezzo grosso, sì. Ho scoperto che anche lei possedeva dei ricordi ed insieme abbiamo ricostruito quasi tutto il passato. Purtroppo, non abbiamo trovato una spiegazione logica a questa seconda vita, ma sono sicuro che presto districheremo ogni dubbio»

«Fantastico…» il suo entusiasmo si era smorzato: possibile che l’unico ad essere relegato da Starbucks fosse proprio lui? «Chi altri hai trovato?»

«Beh, Mike allena la squadra di Football della Queen’s University. Nile non ha abbandonato il suo lavoro da poliziotto ed ora è commissario della capitale. Nanaba è insegnante.»

«Li hai incontrati tutti?»

«No, naturalmente» il Frappuccino era quasi finito «Di molti ho controllato semplicemente il profilo, l’attività lavorativa e l’indirizzo. So dove vivono, ma… temo di non potermi affatto presentare. Non vorrei sconvolgere la loro vita, nel caso non ricordassero nulla»

«Capisco. E gli altri?»

«Ti ricordi la tua vecchia squadra? Petra fa la dentista, mentre Auruo è uno stilista. Sapevi che il marchio “Page Atelier” è suo? Lo gestisce insieme ad Erd. Di Gunther, invece, non ho notizie»

«E i mocciosi?»

«Eren ha rilevato la pompa di benzina dei suoi genitori. Armin, dopo aver superato il corso di Biologia Marina, ha trovato lavoro in un importante acquario. Mikasa dirige una palestra per amanti del fitness.» una pausa e una occhiata alla vicina pensilina «Sai tra quanto passa il cinquantadue?»

«Tra una decina di minuti, temo. Gli altri?»

«Non ho notizie di Historia, né di… come si chiamava la ragazza-titano?»

«Annie?»

«No, quella è addetta alla riscossione crediti insoluti. L’altra…»

«Ymir?»

«Già. Jean cognome-impronunciabile è un impiegato della motorizzazione, mentre Berthold ha aperto una toelettatura per cani: “Da Cannella”. Reiner viaggia per il mondo, in solitaria. Pare abbia comprato una barca e solchi gli oceani alla ricerca di sé stesso. Detto così sembra una sciocchezza, ma i suoi libri sono in testa alle classifiche di Amazon»

Una coppia di fari spuntò nel buio. Erwin sollevò un braccio, mentre l’autobus frenava dolcemente fino ad accostare.

«è stato un piacere rivederti » le porte si aprirono ed una mano si tese nel nulla.

Levi la strinse con cautela:
«Ci rincontreremo?»

«Naturalmente»

«Quando?»

«Presto»

L’ultima cosa che vide fu il sorriso sicuro del comandante, oltre i finestrini appannati per l’umidità.
 

***


Quattro mesi dopo
 
Levi scivolò nell’androne del palazzo, controllando la cassetta delle lettere. Recuperò le bollette da pagare, oltre alla rivista “Metallari per sempre”, a cui era abbonato il nuovo coinquilino. Era passato dalla coltivazione illegale di piante da balcone, alla batteria suonata fino alle due di notte: quasi rimpiangeva le rigogliose frasche che adornavano il terrazzo.
Le sue dita incontrarono, tuttavia, un cartoncino colorato. Lo controllò alla fioca luce della lampada del corridoio.
«Una cartolina?» aggrottò la fronte al notare la lunga spiaggia e le onde cavalcate da incauti surfisti. La ruotò, leggendo velocemente il retro:


Caro Levi,
sono passati quasi quattro mesi dal nostro incontro. Ti avevo promesso che ci saremmo rivisti presto, anche se non presto quanto speravo.
Hanji e Mike hanno accettato di venire da me il prossimo fine settimana. Nanaba ci raggiungerà domenica mattina. Nile non ha risposto, ma so che non ne sentirai la mancanza.
Sarai dei nostri? Aspetto tue notizie!
 
Erwin
 
Ps. Mi sono permesso di prenotare a nome tuo due biglietti aerei: riceverai la comunicazione per mail (Non temere, pago io).
 
Levi richiuse frettolosamente la cassetta delle lettere e si affrettò a salire le scale, senza celare un raro e sincero sorriso.
 
 

Angolino: Ce l'ho fatta! *_* sono riuscita a finire la Erwin Week.
Un infinito grazie a Shige per avermi aiutato nella correzione e rilettura dei capitoli!
Ed un altrettanto infinito ringraziamento a voi, che siete giunti a leggere fin qui.
AL solito, se ci dovessero essere correzioni o cose da sistemare, fatemelo sapere *_*
ancora mille grazie

E'ry

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