✨✨ Missed Connections ✨✨

di eliseCS
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


(dopo c'è la traduzione, tranquilli!)



It was 4:30 p.m., you were rushing through the crowded streets, coffee cup in a hand, trying to spot a taxi to carry you off to the airport.
You crashed into someone and spilled your coffee all over their shirt.
You let out a slew of curse words and hoped that this person wasn’t as angry as they could’ve been.
 
Surprisingly, they weren’t.
 
You caught their eye as they smiled at you for a split second.
Say: «You seem awfully busy today, don’t you?»
You let out a small chuckle, nodded your head, apologized, and told them you were running late.
 
And as anyone else would do, they let you go.
 
So you scurried off to meet a taxi cab in the swell of the traffic.
 
You never heard from that stranger again.
 
Maybe you were supposed to forget about your responsibility for a second.
Maybe you were supposed to hold a conversation with that stranger just a little longer.
 
But if something was supposed to happen between the two of you, you will never know.
 
 
Hundreds of missed connections a day.
 
It’s almost insignificant.
 
And, I know that heartbreak is sad.
 
When a overwhelming love has to come to an end, it’s tragic.
 
But there’s something just as tragic about a love that never has the chance to begin.

 

 
Sono le 4:30 del pomeriggio, stai correndo per le strade affollate, una tazza di caffè in mano, cercando di individuare un taxi che ti porti all’aeroporto.
Vai a sbattere contro qualcuno rovesciando il caffè su tutta la sua maglietta.
Ti lasci scappare una sfilza di imprecazioni e speri che quella persona non sia così arrabbiata come potrebbe essere stata.
 
Sorprendentemente, non lo era.
 
Cogli il suo sguardo nel momento in cui ti sorride per una frazione di secondo.
Dice: «Sembri terribilmente di fretta oggi, non è così?»
Ti lasci scappare una piccola risata, annuisci, ti scusi, e gli dici che sei in ritardo.
 
E come chiunque altro avrebbe fatto, ti lascia andare.
 
Così corri via per prendere un taxi nel bel mezzo del traffico.
 
Non hai più avuto notizie di quello sconosciuto.
 
Forse avresti dovuto dimenticare le tue responsabilità per un secondo.
Forse avresti dovuto continuare la conversazione solo un po’ più a lungo.
 
Ma se qualcosa doveva accadere tra voi due, non lo saprai mai.
 
 
Centinaia di occasioni mancate ogni giorno.
 
È quasi insignificante.
 
E, lo so che un cuore spezzato è una cosa triste.
 
Quando un amore travolgente deve finire, è tragico.
 
Ma c’è qualcosa di altrettanto tragico in quell’amore che non ha mai avuto la possibilità di cominciare.

 



 
- I -
(pov Carlotta)
 
Sono le 4:30 del pomeriggio e sto quasi correndo per il marciapiede affollato cercando di individuare il taxi che mi avrebbe portato all’aeroporto.
 
Come Belfast sia diventata la destinazione della gita di classe al posto di Londra è un mistero che solo la professoressa di inglese avrebbe potuto spiegare, ma alla fine nessuno si è lamentato: da sedicenni scapestrati quali siamo – almeno, i miei compagni di classe lo sono, io mi adeguo – ci siamo divertiti ugualmente.
Come avessero fatto a trovare abbastanza famiglie disposte ad ospitare ragazzi di terza superiore tutte più o meno nella stessa zona era il secondo mistero, visto che siamo stati distribuiti singolarmente per scongiurare al massimo il pericolo di parlare in italiano tra di noi.
Io sono stata ospitata dalla famiglia O’Reilly, marito e moglie e una figlia grande della quale ho occupato la camera visto che la legittima proprietaria era a studiare in Inghilterra.
Entrambi molto gentili e disponibili, almeno per l’idea che mi sono fatta per quel poco che stavo in casa: avevamo un programma talmente fitto tra visite guidate e lezioni che praticamente li vedevo solo per la colazione e la cena.
Davvero, l’organizzazione non sarebbe potuta essere migliore di così anche se quest’ultimo cambio di programma mi ha innervosita non poco.
Per il rientro era inizialmente stato deciso di ritrovarsi per andare insieme a prendere l’aereo, e invece la sera prima la docente aveva mandato un messaggio a tutti dicendo che il giorno seguente ci si sarebbe trovati direttamente all’aeroporto.
L'idea geniale mi ha turbata non poco visto che sono consapevole di essere in grado di perdermi anche con un tom-tom davanti al naso.
Gli O’Reilly però mi hanno sorpreso – probabilmente hanno notato il mio umore disperato quando mi è arrivato il messaggio a cena – dandomi una busta con dentro abbastanza sterline da pagare il viaggio in taxi fino all’aeroporto.
Solo che neanche trovare un taxi è uno scherzo, e giuro di non aver mai visto tanto traffico in giro i giorni scorsi.
Ma finiamo di inquadrare la situazione come si deve.
 
Capelli biondi raccolti in quella che dovrebbe essere una coda, occhi che la carta di identità dice sono cerulei, espressione a metà tra l’imbronciato ed esasperato mezza nascosta da una sciarpa di Grifondoro, giubbotto pesante di quelli lunghi fino a mezza coscia, trolley in una mano, borsone a tracolla e tazza di caffè stile Starbucks nell’altra mano – gentile pensiero della signora O’Reilly: dopo una settimana non sapevo più in che lingua dirle che non mi piace il caffè e così ho rinunciato.
Dicevo… la vedete quella ragazza?
Ecco, sono io, Carlotta Abati, piacere.
 
Cerco come posso di alzare un braccio per togliermi il sudore dalla fronte ringraziando di aver lasciato il berretto in borsa – perché sì, siamo in Irlanda del Nord, a febbraio, fa un freddo cane anche se stranamente c’è il sole ma a quanto pare in questo momento sto morendo di caldo – quando finalmente i miei occhi incontrano la tanto agognata scritta sul tettuccio di un’auto.
 
Taxi.
 
Scatto come posso, la goffaggine dovuta non ad una predisposizione naturale ma dal fatto che tra la giacca pesante, valigia, bagaglio a mano e bicchiere del caffè muoversi velocemente non è esattamente facile.
E proprio quando sto per esultare vittoriosa per essere riuscita a trovare il mio mezzo di trasporto ecco che vado a sbattere addosso a qualcuno.
E con questo non voglio dire che ho urtato la povera vittima con il gomito o che per sbaglio gli sono passata con il trolley su un piede.
No, intendo un bel frontale con i fiocchi.
Non so per quale miracolo non sono caduta per il contraccolpo, e la mia attenzione viene subito richiamata da qualcos’altro: il bicchiere di carta nella mia mano è improvvisamente diventato più leggero.
Troppo leggero.
È vuoto.
Alzo lentamente lo sguardo.
Lo sconosciuto davanti a me – ancora non ho il coraggio di guardarlo in faccia – deve essere di sicuro del posto.
Solo così si può spiegare il fatto che se ne va in giro con una misera giacchetta aperta sul davanti a mostrare la maglia sottostante - mentre io al confronto sembro un eschimese.
Nel momento in cui mi rendo conto che marrone non era sicuramente il colore originale dell’indumento mi lascio andare ad una serie di imprecazioni, rigorosamente in italiano, che se mia madre mi sentisse mi farebbe lavare la bocca con il sapone senza pensarci due volte – ma solo perché Bea, la mia adorata sorellina più piccola di dieci anni, non deve prendere il cattivo esempio…
 
Intanto cerco di non farmi prendere dal panico, pregando che il tizio non sia arrabbiato come lo sarei io se qualcuno mi fosse venuto addosso imbrattandomi i vestiti di caffè.
Mentalmente faccio un profondo respiro e alzo la testa per guardare il malcapitato in viso.
 
Con mio grande stupore mi trovo davanti un ragazzo che ad occhio e croce potrebbe avere al massimo uno o due anni in più di me – e io sono pessima a dare l’età alle persone.
Ha i capelli di quello che potrebbe essere considerato color biondo fragola e gli occhi azzurri.
 
Sorprendentemente, non sembra arrabbiato.
 
Invece di soffermarsi sul danno arrecato alla maglia vedo i suoi occhi che mi scrutano, un lampo quasi divertito passa nelle iridi chiare prima che le labbra si pieghino in un sorriso accennato.
Probabilmente starà ridendo di come sono conciata.
 
«You seem awfully busy today, don’t you?» dice con quell’accento a cui ancora non mi sono abituata.
 
Per poco non mi do un pizzicotto da sola per riscuotermi.
 
Che figura di merda, non posso fare a meno di pensare.
 
All’improvviso mi viene in mente che forse dovrei rispondere.
Annuisco, sperando che la risatina nervosa che mi è appena uscita non sia così patetica come è sembrata alle mie orecchie e «I’m so sorry…» inizio il mio discorso di scuse in inglese, zittendo la vocina nella mia testa che dice sembri un’idiota che puntualmente si fa sentire quando cerco di fare conversazione in una lingua che non sia l’italiano (quindi solo l’inglese visto che non parlo altre lingue).
Il ragazzo annuisce a sua volta accondiscendente appena finisco di spiegargli che devo arrivare all’aeroporto e che di sicuro sono in ritardo.
Ignora i miei tentativi di pagargli il danno alla maglia – e per fortuna, perché le uniche sterline che mi sono rimaste sono quelle per il taxi – e come avrebbe fatto qualsiasi altra persona mi saluta, mi augura buona fortuna, e mi lascia libera di andare.
Mi faccio strada tra la folla raggiungendo il taxi che avevo addocchiato poco prima e che per qualche miracolo si è fermato ad aspettare.
Il tempo di caricare la valigia nel bagagliaio e noto con una punta di delusione che il ragazzo è già sparito.
Butto l’occhio sul display della macchina dove è segnata l’ora e animata da una nuova foga dico all’autista la mia destinazione.
 
 
Ripenso a quel ragazzo sconosciuto quando l’aereo è ormai decollato, ho già gli auricolari alle orecchie con la riproduzione casuale del telefono per scongiurare il pericolo di poter fare conversazione con qualcuno.
 
Forse avrei potuto dimenticarmi di tutto per un secondo.
Forse avrei potuto prolungare quella conversazione almeno un po’.
Non sapevo perché ma ho come l’impressione che avrei dovuto farlo sul serio.
 
Senza neanche accorgermene chiudo gli occhi pensando che avrei davvero voluto sapere almeno il suo nome.
 
Se qualcosa doveva accadere, non lo saprò mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
O forse sì?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Stendiamo un velo pietoso sulla traduzione del pezzo da cui ho preso l’ispirazione per questa cosa che c’è all’inizio del capitolo.
Non ho problemi a seguire film in inglese, occasionalmente anche senza sottotitoli, ma quando c’è da mettere per iscritto una traduzione sono dolori.
Ci sarà di sicuro almeno un’altra parte, che non ho ancora scritto ma so già più o meno di cosa parlerà.
Ho deciso di pubblicare subito senza pensarci troppo perché l’alternativa era che il tutto venisse cestinato, e un po’ mi dispiaceva.
Ah, ovviamente i nomi dei personaggi sono puramente casuali!
Ringrazio in anticipo se qualcuno ha voluto provare a leggere questa pazzia, se qualcuno volesse farmi sapere cosa ne pensa è il benvenuto :)
E.



 

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Capitolo 2
*** II ***


- II -
(pov Carlotta)
 
Sembrano passati secoli da quella volta che sono andata in gita a Belfast con la classe delle superiori e di certo se me l’avessero detto all’epoca non avrei mai pensato che ci sarei tornata.
E invece eccomi qui, sei anni dopo.
Sono sempre io: i capelli biondi, gli occhi del colore dal nome strambo; ho ancora la mia sciarpa di Grifondoro – non me ne separerei mai – anche se il viso che si nasconde al di sotto quando fa freddo è cresciuto ed è diventato più adulto.
Come dicevo, sono la stessa ragazza di quella volta, solo con sei anni in più e una laurea.
 
Non è stato facile convincere i miei a farmi fare questa esperienza: quando gliene ho parlato la prima volta mio padre si è mostrato entusiasta per poi lasciare strategicamente il discorso in sospeso mentre mia mamma ha bocciato subito l’idea.
Troppi soldi, troppo lontana da casa, troppi soldi (e no, non mi sono sbagliata a scriverlo due volte).
Persino Bea ha sorpreso tutti scoppiando a piangere e chiudendosi in camera sua fino all’ora di cena dicendo che non voleva che io partissi.
Se alla fine avessi deciso di rinunciare e restare a casa probabilmente l’avrei fatto solo per lei.
 
Sono stata titubante anch’io fino all’ultimo: l’Irlanda del Nord come posto di lavoro non è esattamente a due passi da casa, senza contare il problema dell’alloggio, i mezzi di trasporto, la lingua e l’esame di inglese che avrei dovuto superare per potermi iscrivere all’Albo in Irlanda.
Un gioco da ragazzi, insomma.
Certo, le condizioni del contratto erano più favorevoli di quanto uno potesse sperare, ma tra una cosa e l’altra avevo dovuto mettere in conto che sarei dovuta rimanere lì per almeno tre o quattro anni, se avessi accettato e se mi avessero presa.
Non è poco.
 
L’aspetto che mi aveva preoccupato di più era il fatto che sarei stata da sola.
Non tanto per gli amici – quando sei figlia di un militare che cambia città di residenza ogni tre anni e hai un carattere tendenzialmente chiuso e riservato non fai in tempo a farteli, gli amici. Non di quelli veri, almeno – ma per la famiglia.
Perché anche se mi lamento sempre in fondo in fondo gli voglio bene sul serio, e separarsi così di punto in bianco non è una cosa semplice.
 
E invece nonostante tutto sono davvero tornata.
 
 
 
Le prime settimane sono volate tra il lavoro in reparto – perché non è più solo tirocinio come all’università – e le lezioni del corso di inglese per dare l’esame che mi consentirà di essere finalmente un’infermiera in tutto e per tutto anche qui.
L’alloggio mi è stato fornito – e pagato – dall’ospedale, ed è stato un grande vantaggio all’inizio non dover pensare anche a quello.
Peccato che però devo iniziare a pensarci adesso visto che la durata della nella camera che mi è stata assegnata è di due mesi.
Ce ne sarebbero voluti altri due prima di poter dare l’esame, iscrivermi all’Albo e iniziare a ricevere stipendio pieno.
Mi viene male a pensare a come farò a pagarmi un posto dove stare con quello che guadagno al momento, ma di chiedere soldi a casa non se ne parla.
Non ci tengo a sentirmi dire te l’avevo detto da mia madre – che nonostante i suoi «Sei tu che devi scegliere cosa fare» alla fine non ha mai approvato davvero la mia decisione di partire.
 
 
 
E quindi eccomi qui.
Dovrebbero essere più o meno le tre di notte e sono seduta nella guardiola del reparto di chirurgia generale – ho fatto i salti di gioia quando mi hanno detto che sarei stata assegnata ad una chirurgia – con un discreto numero di giornali impilati davanti a me.
Mi sembra di essere nella scena di un film mentre con la penna rossa segno gli annunci di affitto che mi sembrano più vantaggiosi.
Ad un certo punto Megan rientra a sua volta in guardiola dopo essere stata a rispondere ad un campanello, sedendosi di fronte a me dall’altro lato della scrivania sbirciando curiosa il mio lavoro.
 
Megan Murray: capelli castano ramato, occhi castani, sempre sorridente – anche con i pazienti più difficili.
È una donna ormai sulla cinquantina ed è l’infermiera responsabile a cui sono affidata finchè non sarò regolarmente iscritta all’Albo, il che vuol dire che seguo tutti i suoi turni.
Secondo il mio modesto parere non mi sarebbe potuta andare meglio.
Ormai ho superato l’imbarazzo di parlare in inglese e il mio vocabolario si è notevolmente arricchito per quanto riguarda la terminologia specifica del settore.
Se sei un’infermiera non puoi essere timida, fine del discorso. E Megan mi aveva aiutata molto in questo senso.
Mi ricordo che nel primo periodo pensavo a lei come ad un falco che mi volava sopra la testa osservandomi attenta ad ogni mossa che facevo: preparare la terapia, fare un prelievo, rapportarmi con i medici…
Non posso ancora essere lasciata completamente da sola per la solita questione burocratica, ma direi che ormai ho ampia libertà di movimento.
In più è diventata quasi una seconda madre per me, visto che da quando siamo entrate più in confidenza mi chiede sempre se mangio abbastanza, se dormo sufficientemente e mi dà anche una mano con le consegne che ci vengono assegnate al corso di inglese se non capisco qualcosa.
 
 
Ma lo so qual è la cosa che tutti voi morite dalla voglia di sapere…
Il ragazzo sconosciuto è stato il protagonista in un paio di occasioni quando, rientrati dalla gita, ci siamo confrontati sulle figuracce che ognuno di noi aveva fatto durante la settimana, ma nulla di più.
Non ho più ripensato a lui in questi anni.
Ammetto invece che l’episodio mi è tornato prepotentemente alla memoria quando sono uscita dall’aeroporto dopo essere atterrata a Belfast in compagnia di valigia e bagaglio a mano.
Niente bicchiere di caffè stavolta, ma il traffico fuori dalla struttura e l’affaccendarsi delle persone attorno a me devono aver fato scattare qualcosa.
Mi sono ritrovata a fantasticare su di lui più spesso di quanto mi piacerebbe ammettere ma parliamoci chiaro: quante probabilità avevo di incontrarlo – e di riconoscerlo – dopo sei anni?
Pensando anche ai miei precedenti con gli esponenti del sesso maschile direi meno di zero.
Evidentemente non sono fortunata in amore, magari dovrei buttarmi sul gioco…
 
 
«Stai ancora cercando?» la voce di Megan, tenuta ad un volume ragionevolmente basso, mi distoglie dai miei pensieri facendomi tra l’altro rendere conto che mi sono bloccata con la penna a mezz’aria da chissà quanto tempo.
Abbasso il braccio e appoggio la penna accanto al giornale che stavo – più o meno – esaminando in quel momento.
Annuisco sospirando: «Sì…»
«Ma…?» c’è sempre un ma.
«Ma sono tutti appartamenti interi e costano troppo» concludo chiudendo il giornale con un gesto che mi esce più secco del previsto.
«Mi basterebbe una camera… e non voglio chiedere soldi ai miei»
Avevo pensato alla possibilità di trovarmi un – altro - lavoretto da qualche parte, ma con i turni dell’ospedale è impossibile.
Dei colleghi che hanno accettato di venire a lavorare all’estero per il momento sono l’unica ad essere stata assegnata qui e così non ho nemmeno qualcuno che conosco con cui potrei eventualmente dividere il costo dell’affitto.
Non avevo ancora abbastanza soldi da parte per potermi permettere nessuno degli appartamenti di cui avevo letto gli annunci sui giornali.
E mi restavano poco più di due settimane prima di dover levare le tende dalla stanza di quella specie di casa dello studente dove alloggio al momento.
 
Vedo lo sguardo di Megan farsi pensieroso ma non faccio in tempo a chiedere spiegazioni che il segnale sonoro che avvisa che qualcuno ha appena suonato un campanello si diffonde nell’aria.
«Lascia, vado io» scatto in piedi con fin troppo entusiasmo per le 3:47 del mattino.
Non ritorniamo più sull’argomento.
 
 
•••


 
Questo pomeriggio è passato velocemente, probabilmente perché tra campanelli, pazienti di ritorno dalla sala operatoria e incombenze varie non ci siamo fermate un attimo neanche per andare in bagno.
Approfittiamo del primo momento di tranquillità per scappare in cucina e mettere qualcosa nello stomaco lasciando temporaneamente il reparto in mano all’altra turnista.
L’ora di cena è passata da un bel pezzo, alcuni dei pazienti più anziani hanno già cominciato a chiedere le gocce per dormire: con un po’ di fortuna i campanelli dovrebbero aver smesso di suonare di continuo.
Addento il mio panino allo speck lasciandomi scappare un verso di apprezzamento, era già da un po’ che il mio stomaco brontolava…
Rimaniamo in silenzio finchè non abbiamo entrambe finito di mangiare, un solo campanello che suona interrompe la quiete che sembra finalmente essere scesa sul reparto.
«Alla fine hai trovato qualcosa?» mi domanda Megan mentre ripone i contenitori del cibo che si era portata da casa.
Annuisco non troppo convinta: «Forse. C’è questo appartamento dove abitano già due ragazzi che fanno l’università… hanno ancora una stanza libera. Domani pomeriggio vado a vedere com’è».
L’unica cosa che mi impensieriva era come avrei fatto a raggiungere l’ospedale da lì.
 
«Volevo invitarti a cena uno di questi giorni» continua lei cambiando completamente discorso, tanto che per un istante la guardo confusa.
«Che ne dici di dopodomani? Poi ti do anche un passaggio fino a qui per il turno [di notte. NdA], non mi costa niente»
«Io… non vorrei disturbare…» protesto debolmente.
«Sciocchezze» risponde Megan sventolando una mano in aria.
«Ecco» aggiunge passandomi un foglietto su cui ha appena scritto ora e indirizzo.
Mi sembra familiare ma non saprei dire perché.
La ringrazio e torniamo in guardiola per lasciare che anche la collega vada a mangiarsi qualcosa mentre lei mi spiega come raggiungere la via.
 
 
•••
 
 
Sto camminando sul marciapiede non molto affollato, la mia borsa che un tempo era da tirocinio e ora è da lavoro in spalla.
Ala fine ho capito come mai l’indirizzo di casa di Megan mi era familiare: è la stessa via in cui abitava la famiglia che mi ha ospitata quando sono venuta qui la prima volta in gita.
La famiglia Doherty – questo è il cognome del marito di Megan – abita giuso qualche numero più avanti dall’altro lato della strada.
Com’è piccolo il mondo.
Guardo la scatola di cioccolatini che ho in mano come regalo per gli ospiti: non volevo presentarmi a mani vuote e quella era l’unica idea che mi era venuta in mente.
Spero che apprezzino almeno il pensiero.
 
Non sono mai andata particolarmente d’accordo con i miei vecchi compagni di classe, non ho mai legato veramente con nessuno di loro, ma in questo momento mi ritrovo a ripensare alla gita e a quanto – seppur per una sola settimana – mi era finalmente sembrato di fare parte del gruppo e non di essere l’ultima arrivata che si è trasferita da un’altra città per il triennio.
 
Passandomi accanto qualcuno mi urta il braccio piuttosto bruscamente.
La scatola di cioccolatini mi cade finendo sull’asfalto – fortuna che è tutta impacchettata e non si può aprire – e impreco in italiano, pronta a dirne quattro a chiunque mi sia venuto addosso.
Raccolgo la scatola e mi raddrizzo in tempo per vedere lo sguardo seccato di un ragazzo che mi squadra per un istante con aria di sufficienza prima di girare sui tacchi e andarsene.
 
Rivivo lo scontro e l’incidente con il caffè di sei anni fa come il più vivido dei déjà-vu.
Solo che questa volta non è stata colpa mia e il tizio poteva anche chiedere scusa, cafone!
 
Cerco di scacciare via il malumore istantaneo che mi ha provocato quell’incontro e mi stampo un bel sorriso sule labbra prima di suonare il campanello di casa Doherty.

















Salve, eccomi con il secondo capitolo.
Chi mi conosce sa benissimo che la sintesi non è assolutamente una mia dote, e infatti per non smentirmi anche con questa storia ho finito con il dilungarmi.
Per capirci: dei due capitoli che dovevano essere credo siano diventati cinque...
Tutti abbastanza brevi come questo e il precedente, ma pur sempre tre in più rispetto a quelli che avevo in mente.
E niente, spero che anche questo sia piaciuto a qualcuno.
Per domande, spiegazioni, dubbi, ecc sapete dove trovarmi, e se qualcuno mi facesse sapere cosa ne pensa ne sarei davvero felice :)
Come per le storie passate ho deciso di pubblicare una volta a settimana, quindi a lunedì prossimo!
E.



 

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Capitolo 3
*** III ***


- III -
(pov Carlotta)
 
Vedere Megan senza la divisa bianca dell’ospedale mi fa un certo effetto.
Con i capelli sciolti sulle spalle, la maglia color verde muschio e un semplice paio di jeans sembra così diversa dall’infermiera che è in reparto.
 
Da parte sua anche lei sbatte un paio di volte le palpebre quando viene ad aprirmi la porta.
Di solito arrivo da casa con i capelli già legati in uno chignon – è la cosa più pratica – mentre per la cena ho deciso di lasciarli sciolti e ora mi arrivano ben oltre metà schiena.
Per l’occasione ho anche cercato di truccarmi con più impegno, quando di solito mi limito a mettermi solo il mascara - se me lo ricordo.
 
Ci intratteniamo per un po’ in salotto mentre aspettiamo che la cena sia pronta.
John, suo marito – Megan mi ordina da subito di dare del tu anche a lui – ha un piccolo locale nella zona del centro: era lo chef principale nonché proprietario, dopo la nascita dei figli però ha preferito mantenere solo il ruolo di gestore.
Poco male visto che Megan mi spiega che lo fa ben lavorare a casa, tanto per cambiare è lui che sta cucinando la cena.
 
Mi parla dei figli: la maggiore ha ventinove anni, è già sposata con una figlia e vive più o meno dall’altra parte della città con il marito; fa la giornalista.
Il più piccolo, ha un anno in più di me – ovvero ventitrè anni – abita ancora lì con loro e al momento si è preso un anno di pausa dopo aver finito i primi tre anni di psicologia e al momento lavora al locale del padre.
Non sarà con loro proprio perché quella sera lavora.
Sta per tirare fuori le famigerate foto di famiglia quando dalla cucina una profonda voce maschile ci avvisa che è pronto.
John mi sembra subito un brav’uomo: biondo, occhi azzurri, di qualche anno in più della moglie; è davvero simpatico.
Per non parlare poi del fatto che è veramente bravo a cucinare e al mio stomaco sembra di essere in paradiso visto che è da quando sono arrivata che vado avanti a panini, surgelati, cibo spazzatura e occasionalmente un piatto di pasta.
Perdo presto il conto di quante volte gli faccio i complimenti per la sua bistecca.
 
Mi sembra di essere di nuovo a casa, in famiglia.
 
Quello che mi fa più domande è ovviamente lui, che mi conosce solo attraverso quello che la moglie gli ha raccontato di me.
Come mi sto trovando, se mi manca la famiglia, quali sono i miei hobby e interessi…
E così viene fuori che se avessi potuto mi sarei portata via i libri di Harry Potter – ma mi sono dovuta accontentare della versione digitale – che da piccola ho provato più o meno tutti gli sport tranne il nuoto perché mi ammalavo sempre e dulcis in fundo finisco di nuovo in salotto a suonare qualcosa al pianoforte verticale che avevo già notato ma che avevo accuratamente evitato di tirare in ballo.
Divento sempre nervosa quando devo suonare per qualcuno e finisco con lo sbagliare anche le note più semplici – non che il mio livello mi consenta di suonare chissà che di complesso, eh! – ma per fortuna tutto fila liscio.
 
Aiuto a sparecchiare nonostante le proteste dei padroni di casa e alle 20:30 tutto è riordinato.
Abbiamo ancora un’oretta prima di andare all’ospedale per il turno.
Siamo di nuovo seduti al tavolo della cucina, Megan e John stanno finendo il loro caffè e io mi sono unita a loro diluendo però la mia bevanda con tanto latte da riempire la tazza.
No, il caffè ancora non mi piace e questo è l’unico modo in cui riesco a prenderlo.
 
«Mi sembri una brava ragazza, Carlotta» comincia ad un certo punto il signor Doherty lasciandomi perplessa.
«Per me va bene Megan» conclude poi rivolto alla moglie.
Immagino che la mia espressione lasci palesemente intuire che non ho la minima idea di cosa stanno parlando.
«La settimana scorsa mi hai detto che stavi ancora cercando un nuovo alloggio, no? E ieri mi hai detto che l’appartamento condiviso con quei ragazzi non ti convinceva…» cominciò a spiegare Megan capendo la mia confusione.
«Da quando Chloe – così si chiama la figlia maggiore -  non abita più con noi la sua stanza è rimasta libera… così ho chiesto a John se anche lui sarebbe stato d’accordo a darla a te – con affitto e tutto, ovviamente» si affrettò ad aggiungere vedendo che stavo già per aprire bocca per protestare.
D’altro canto io stavo cercando di capire se avevo davvero capito bene o se improvvisamente fossi diventata ignorante per quanto riguardava l’inglese.
«L’invito a cena è stata un’idea mia. Mi fido di mia moglie, ma prima di invitare una perfetta sconosciuta in casa volevo almeno conoscerla. Ma come ho detto prima, adesso che abbiamo parlato almeno un po’, per me non c’è alcun problema» si inserisce il signor Doherty.
«Io… io non so cosa dire» balbetto a disagio.
Non me lo sarei mai aspettata, davvero.
«Non devi darci subito una risposta. Se vuoi continuare a cercare qualcos’altro per conto tuo fai pure. E se accetti sappi che puoi andartene quando vuoi se trovi di meglio» mi rassicura Megan mentre io continuo ad essere incredula.
Sento quasi gli occhi pizzicare per un’improvvisa voglia di piangere.
 
Tutta la storia del dover trovare un alloggio mi stava pesando più di quanto dessi a vedere, e sapere così di punto in bianco che due persone come Megan e John sono disposte ad ospitarmi in casa loro – io, praticamente una perfetta sconosciuta – mi aveva tolto un peso dal petto che quasi non mi ero accorta di avere.
 
«Posso vedere la stanza…?»domando piano cercando di non far tremare la voce e sbattendo più volte le palpebre per ricacciare indietro le lacrime.
Megan si alza subito sorridente e io la imito, ma prima che possa muovere un solo passo lei mi sta già abbracciando.
 
Ricambio chiudendo gli occhi e inspirando profondamente immaginando che quelle che mi stringono siano le braccia di mia madre.
Magari non andavamo sempre d’accordo, e soprattutto nell’ultimo periodo litigavamo spesso, ma i suoi abbracci mi mancano davvero tanto.
 
«Grazie. Di tutto» dico quando ci separiamo e in risposta la donna mi fa l’occhiolino.
«Forza» dice quasi trascinandomi verso le scale che portano al piano superiore dell’abitazione.
«Un’occhiata veloce che poi dobbiamo andare»
Non posso fare altro che seguirla mentre un sorriso si apre quasi involontariamente anche sul mio viso: so già che accetterò la sua proposta anche se la stanza dovesse essere uno sgabuzzino – cosa di cui comunque dubito.
 
 
 
§
 
 
 
«Pronto?»
«Pronto?»
«Bea? Questo non è il telefono di mamma?” non faccio quasi in tempo a finire la domanda retorica che mi vedo costretta ad allontanare il cellulare dall’orecchio per l’urlo spaccatimpani in cui si è esibita mia sorella.
«Mammaaa!! C’è Carli al telefonooo!!» la sento esclamare dopo che ha finito con la sua serie di evviva, finalmente ha richiamato!!
 
Tra il lavoro, il corso di inglese e l’abbonamento telefonico avevo infatti detto che sarei stata io a chiamare loro – se per un motivo o per un altro non riuscivo mandavo sempre almeno un messaggio – ed effettivamente quella era la prima volta che chiamavo quella settimana.
Almeno era sabato e sapevo che né Bea ne mia madre – che è insegnante – erano a scuola.
 
«Tesoro, finalmente. Come stai? Va tutto bene?» mi chiede mia madre, Laura, dopo essere riuscita a strappare l’apparecchio elettronico dalle grinfie della figlia più piccola.
«Sì mamma, tutto bene. Anzi…»
«Ci sono novità? Hai trovato un posto dove stare?» evidentemente quella di interrompere le persone che stanno parlando è una cosa che abbiamo preso – sia io che mia sorella – dal suo ramo della famiglia.
«Sì mamma, era quello che avrei detto se mi avessi lasciato finire di parlare. Ho trovato finalmente un posto» rispondo, cercando di non pensare al fatto che, da come mi aveva fatto la domanda, sembrava che avessi dormito per strada o sotto un ponte fino a quel momento…
Silenzio.
«E l’affitto?» mi domanda alla fine.
Alzo gli occhi al cielo anche se so benissimo che non può vedermi.
«Ti ricordi di Megan? L’infermiera a cui sono affiancata finchè non sarò iscritta all’albo?» proseguo cercando di non suonare troppo esasperata ignorando la domanda.
Per una volta i soldi non potevano venire dopo?
«La sua figlia maggiore non abita più a casa con lei e suo marito da un bel pezzo, e hanno riciclato la sua stanza come camera per gli ospiti» proseguo.
«Mi ha offerto di andare a stare da lei per il momento»
«Oh» mia madre sembra presa in contropiede.
«Non saprei… sono brave persone? Sei sicura…?»
Sbuffo, e questa volta sono io a interrompere lei: «Sì, sono brave persone. Lavoro con lei da due mesi e ti posso assicurare che è in gamba. E anche suo marito, l’ho conosciuto ieri che sono andata a cena da loro…»
«Sei andata a cena da loro??»
«Sì, beh, voleva conoscermi anche lui per vedere a chi sua moglie voleva dare la camera, no? Tra l’altro, è davvero bella…»
«Se a te va bene…»
«Va più che bene! Ne ho viste un altro paio in giro, di quelle degli annunci, e posso assicurarti che non riuscirei a trovare una sistemazione migliore per il momento. E no, non abbiamo ancora parlato dell’affitto, ma Megan mi ha assicurato che mi chiederà di sicuro di meno di quando chiedevano gli altri affittuari. E guarda il lato positivo: abitando con lei non ho neanche il problema del mezzo di trasporto per raggiungere l’ospedale visto che lei va sempre in macchina» con quell’ultima argomentazione mi sembra di sentirla più convita.
«Ok, mi sembra che sia tutto deciso ormai. Lo sai che se ti serve qualcosa…»
«Posso chiedere a voi. Sì, lo so. Non ti preoccupare. Per il momento sono a posto»
«Va bene. Tuo padre non c’è, te lo saluto io quando torna. Guarda che ti ripasso Beatrice che deve dirti qualcosa…»
Ci salutiamo e mentre passa il telefono a mia sorella resisto all’impulso di riattaccare.
Sono appena tornata dal turno di notte – la seconda notte per l’esattezza – e sono distrutta.
Non vedo l’ora di buttarmi sul letto, affondare la faccia nel cuscino e mettermi a dormire fino a domani…
 
«Caaarlii!» Bea mi perfora il timpano che prima ero riuscita a salvare chiamando il mio nome.
«Ehi Bea! Allora, come va con la scuola?» sospiro sapendo già che la telefonata breve che avevo in mente io è già un ricordo lontano.
Posso immaginare mia sorella mentre fa una smorfia per l’argomento di cui le ho chiesto, ma dopo neanche due secondi inizia a parlare a macchinetta degli ultimi voti che ha preso, di quella vecchia gallina della prof. di matematica che ha fatto una verifica a sorpresa proprio ieri e della professoressa di musica che invece le ha detto che non la vuole più sentire con il flauto perché ormai ha quasi il doppio dei voti dei suoi compagni di classe nella sua materia.
Mi racconta che hanno finito la terza coreografia per il saggio di danza moderna e che mamma e papà hanno alla fine acconsentito a farla andare a quello stage di tre giorni a Firenze – sempre di danza - a cui lei teneva tanto.
Con una risatina mi avvisa anche che è stata dal pediatra e che ormai è alta come me – tralasciamo il fatto che mi aveva già superato con il numero di scarpe ben prima che io partissi…
Le faccio i complimenti per tutto, le solite raccomandazioni riguardo lo studio per poi farle capire che se lascio passare un altro minuto probabilmente mi addormento con la chiamata ancora in corso.
Mi saluta un’ultima volta e la sento tirare su con il naso prima che riattacchi.
Spero davvero che non si metta a piangere, mi fa sentire in colpa.
 
Mi ero già messa in pigiama, quindi non mi resta che chiudere bene le persiane della finestra e arrotolarmi tra le coperte peggio di una mummia.
Un attimo prima di addormentarmi mi rendo conto che, per qualche oscuro motivo, mi sono completamente dimenticata di dire a mia madre che Megan non ha solo la figlia di cui prenderò la camera, ma anche un figlio maschio che abita ancora con loro.
Me ne dimentico nell’attimo in cui lo penso e finalmente mi addormento.

















Salve a tutti!
Come promesso ecco puntuale il terzo capitolo.
Avviso subito che ho fissato la "scaletta" definitiva e che alla fine la storia conterà cinque capitoli in totale.
Il prossimo sarà pubblicato naturalmente lunedì prossimo e sarà raccontato da un punto di vista di eccezione... vediamo se qualcuno indovina di chi sto parlando (vi assicuro che non è assolutamente difficile).
Ringrazio balli01 che ha recensito lo scorso capitolo!
Per qualsiasi dubbio/perplessità (o anche se ci sono errori!) non esitate a farmelo sapere.
Alla prossima
E.



 

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Capitolo 4
*** IV ***


- IV -
(pov Alex)
 
6 anni prima…
Oggi sono di buon umore.
E non solo perché il compito di matematica che la professoressa ci ha riportato stamattina a scuola è andato bene.
Posso dare in parte il merito al bel tempo: siamo in pieno febbraio eppure c’è un sole splendido, tanto che per uscire mi sono messo solo una maglia a maniche lunghe e la giacca – che ho aperto dopo aver fatto i primi due passi fuori dalla porta di casa.
Immagino però che il vero motivo per cui sto sorridendo come un ebete – persino mia madre ha dovuto commentare! – è che finalmente Sarah Walsh ha accettato di uscire con me.
E non solo!
Ha detto che verrà con me alla festa che si terrà a casa di Josh Murray tra due sabati.
 
Sarah è la tipica ragazza capelli biondi, occhi azzurri e fisico da favola per la quale metà della scuola ha una cotta.
E come nel peggiore dei cliché anche il sottoscritto rientra in quella categoria, anzi: se devo essere sincero credo di andarle dietro da quando eravamo in classe insieme alle medie.
 
Ormai sono le 16:30 passate e dopo aver sbrigato i pochi compiti che mi rimanevano da fare ho urlato alla famiglia che uscivo.
Connor abita un isolato più avanti e siccome i suoi genitori sono entrambi medici e sono la maggior parte del tempo in ospedale – sotto un certo punto di vista posso capirlo – io e gli altri due ragazzi del nostro piccolo gruppetto ci troviamo quasi sempre da lui perché ha casa libera.
So che probabilmente ci faccio la figura della ragazzina, ma non vedo davvero l’ora di dire loro la novità.
Magari così la smetteranno di prendermi in giro per essere l’unico sfigato del gruppo che a diciassette anni non ha ancora la ragazza – anche se non hanno tutti i torti…
 
Niente può rovinarmi la giornata
Non facci quasi in tempo a finire di pensarlo che qualcuno mi viene addosso prendendomi in pieno.
Avrei continuato subito per la mia strada se solo non avessi percepito una strana sensazione di bagnato all’altezza dello stomaco.
Non guardo la maglia – qualsiasi cosa fosse ormai il danno è fatto – preferendo concentrarmi sulla persona che mi sta davanti e che in quel momento ha fatto un passo indietro quasi a voler fare una stima dei danni.
Lo sguardo mi cade subito sul bicchiere di carta che ha in mano, il cui contenuto è ovviamente appena finito addosso al sottoscritto.
Caffè.
Fantastico.
In effetti potevo cominciare a sentirne l’odore.
Mi madre – anche per il lavoro che fa – sembra esserne quasi dipendente mentre a me non piace per niente.
Molto meglio la cioccolata calda.
Il fatto che la persona abbia cominciato a imprecare – era sicuramente così vista l’intonazione – in una lingua che non conosco mi distoglie dalle mie elucubrazioni mentali sul caffè.
 
Si tratta di una ragazza che a occhio e croce dovrebbe avere almeno un paio d’anni meno di me.
È una decina di centimetri più bassa e ha i capelli biondi raccolti in una coda da cui è scappato qualche ciuffo.
Non riesco a capire il colore degli occhi perché ha lo sguardo abbassato, anche se dalla sua espressione si intuisce facilmente che è quanto meno a disagio per quello che è successo.
Se non fosse stato per la lingua avrei capito che era una straniera per com’era vestita: qui siamo abituati al freddo, con una giornata bella come questa nessuno si sognerebbe di uscire con un giaccone così pesante e… è una sciarpa di Harry Potter quella?
Potrei passare sopra all’incidente solo per quello, già mi sta simpatica.
 
Finalmente alza lo sguardo e nei suoi occhi – non riesco a decidere di che colore sono, un misto tra verde, grigio e dorato – leggo sorpresa.
Riflettendo su quello che è successo immagino che come minimo si aspettasse che mi mettessi ad urlarle contro.
Cerco di accennare un sorriso per incoraggiarla.
In effetti non è che io sia molto ferrato con le ragazze in generale, ancora mi chiedo cosa esattamente mi abbia spinto a decidermi a chiedere a Sarah di uscire dopo anni che le vado dietro e per quale motivo lei abbia accettato.
Insomma, sono Alexander Doherty, quello un po’ strano con i capelli quasi rossi, al quale le ultime due ragazze a cui avevo chiesto di uscire avevano risposto di no senza pensarci due volte…
«You seem awfully busy today, don’t you?» non riesco a trattenermi dal canzonarla.
Spero capisca l’inglese se è venuta qui in gita o in vacanza, a giudicare dalla valigia e dal borsone che si porta appresso.
 
Mi sembra per un attimo spaesata, accenna anche lei una risatina imbarazzata e poi comincia a scusarsi.
A parte l’accento e qualche incertezza di tanto in tanto direi che non se la cava affatto male.
Mi spiega che è qui in gita con la scuola e che oggi tornano a casa – in Italia – e che lei è probabilmente in ritardo per andare all’aeroporto.
Annuisco alla sua spiegazione e rifiuto i soldi che cerca di offrirmi per pagare il danno alla maglia, non ce n’è bisogno.
A quel punto mi chiede scusa per l’ennesima volta e mi sorride.
Un sorriso vero.
Resto per un attimo incantato ad osservarla, come se solo in quel momento l’avessi vista sul serio.
Non so neanche io perché ma il paragone con Sarah scatta automatico.
Al contrario di lei questa ragazza sconosciuta non ha un filo di trucco in viso.
Ha le guance arrossate – a questo punto non saprei dire se per il caldo, il freddo o l’imbarazzo – e forse quello che si intravede al lato della fronte vicino all’attaccatura dei capelli può essere un brufolo.
Eppure tutto il suo viso è così illuminato da quell’ultimo sorriso che l’unica cosa che riesco a pensare è: è davvero bella.
 
Faccio un passo indietro salutandola.
All’improvviso sento quasi il bisogno di scappare da lei.
Cosa stavo pensando?
Sarah – teoricamente la ragazza dei miei sogni – sarebbe finalmente uscita con me e io mi incanto a guardare la prima ragazza che passa per strada e che per giunta viene da un’altra nazione?
Vedo che ormai è tutta intenta a caricare i bagagli sul taxi che l’avrebbe portata all’aeroporto e sorrido un’ultima volta nella sua direzione anche se lei non lo nota.
Me ne vado.
 
Arrivato da Connor la prima cosa che lui e gli altri mi chiedono è cosa fosse successo alla mia maglia.
E così va a finire che il discorso Sarah passa in secondo piano e racconto loro dello scontro con la ragazza italiana alla fine della via in cui abito.
In quel momento mi rendo anche conto che avrei davvero voluto conoscere almeno il suo nome.
 
 
 
Tempo presente…
Appoggio sul bancone il bicchiere di birra che mi è stato chiesta con più forza del previsto, tanto che rischio quasi di farlo traboccare, guadagnandomi un’occhiataccia da parte di Luke, mio collega e amico.
Il fatto di aver rotto con Olivia solo quella mattina influiva di sicuro, e come se non bastasse mia madre aveva dato il colpo di grazia.
 
Quando sono tornato a casa dalla colazione che avevo con la mia ormai ex ragazza avevo notato che la porta della camera di Chloe – mia sorella – era aperta.
Non sarebbe stato strano se non fosse stato che lei non abita più con noi da anni e quindi la sua stanza resta quasi sempre chiusa, perché secondo mia madre in quel modo entra meno polvere.
E invece non solo la porta era spalancata e le persiane delle finestre erano tirate su, ma due valige facevano bella mostra vicino alla scrivania.
Stavo giusto per chiedere se fosse successo qualcosa a Chloe che giustificasse un suo rientro a casa, ma mia madre, dopo essersi accorta che ero rientrato, mi ha preceduto dicendo che in reparto dove lavora lei c’è una collega che viene da fuori, e siccome ha problemi a trovare dove stare per un po’ si fermerà da noi.
Viene fuori che persino Chloe era d’accordo a cedere la sua stanza, l’unico che non ne sapeva nulla ero io!
«Tesoro non fare quella faccia. Se l’altro giorno ti fossi fermato a cena l’avresti anche conosciuta, è davvero una ragazza simpatica» mi sono sentito rinfacciare il fatto che sono uscito con i miei amici durante il mio giorno di riposo dal locale per andare ad una festa.
Abbiamo pranzato in silenzio, mia madre è andata via subito dopo per delle commissioni da sbrigare prima dell’inizio del turno di pomeriggio e anche io ne ho approfittato per andare al locale sperando che magari, arrivando prima, sarei potuto tornare a casa a un’ora decente.
 
«Non capisco se sei così perché Olivia ti ha mollato o perché la collega di tua madre verrà a stare da voi» mi prende in giro Luke nell’attimo in cui ci ritroviamo con nessuno da servire.
«Che poi non ha detto che è una ragazza simpatica?» continua.
Io sbuffo alzando gli occhi al cielo: «Certo, come no. Lei chiama ragazze tutte le sue colleghe, se sono fortunato questa qui avrà la sua stessa età…» commento.
Luke lascia cadere il discorso uscendo da dietro il bancone per andare a servire una vera ragazza che è appena entrata con un trolley appresso, andandosi a sedere a uno dei tavolini posti vicino alla vetrina del bar.
Accanto c’è il ristorante vero e proprio – sempre dello stesso gestore, che tra parentesi è mio padre… - ma se uno non vuole perdere troppo tempo con l’ordinazione e vuole mangiare qualcosa al volo qui va più che bene.
Luke torna infatti con l’ordine di un toast da scaldare e un bicchiere di coca-cola senza ghiaccio.
Ammicca tirandomi un paio di gomitate mentre aspetta che il bicchiere si riempia: «Vuoi andare tu a servirla? Non è niente male…»
Gli tiro un pugno sul braccio in risposta e gli intimo di piantarla: ho appena rotto con la ragazza con cui sono stato per quasi due anni, cosa gli dice il cervello?
 
Nonostante tutto non posso fare a meno di buttare qualche occhiata di tanto in tanto, tra un cliente e l’altro, anche se la vista è quella che è: la ragazza mi dà le spalle e per il momento l’unica cosa che vedo di lei sono i capelli biondi raccolti in uno chignon.
Quando però ruota appena per frugare nella borsa, probabilmente alla ricerca del portafoglio, riesco a vederla di profilo e mi blocco irrigidendomi.
Mi è familiare e sono sicuro di arrossire quando mi rendo conto che è la stessa ragazza con cui mi sono scontrato qualche giorno fa – non ricordo con esattezza – a cui avevo addirittura fatto cadere quello che aveva in mano.
Mi ricordo di essere stato davvero pessimo, devo averla guardata male e non mi sono neanche scusato andandomene via subito: non vedevo l’ora di allontanarmi da casa visto che avevo appena finito di litigare, di nuovo, con mia madre perché voleva che mi fermassi a cena… e aggiungiamo pure il fatto che Connor, che era già alla festa, mi aveva appena chiamato dicendomi che gli era sembrato di vedere Olivia con qualcuno che non ero io.
Ovviamente aveva visto giusto…
 
Luke mi guarda incuriosito e alza le sopracciglia quasi all’inverosimile quando mi vede scappare nel retro nel momento in cui la ragazza si avvicina al bancone per pagare il pranzo.
Li sento parlare da dietro la porta lasciata socchiusa.
Luke le fa un complimento di cui non riesco a capire la risposta, ma in compenso la sento ridere e cerco di immaginarmi come potrebbe essere il suo sorriso - visto che durante il nostro breve incontro non mi ero soffermato a guardarla più di tanto e l’unica cosa che mi ricordo è il suo sguardo da adesso ti uccido brutto maleducato.
Sospiro pensando che a quanto pare non riesco mai a combinarne una giusta.
Alla fine decido che come minimo dovrei scusarmi, ma non appena esco dal mio nascondiglio realizzo che Luke è di nuovo da solo al bancone ad asciugare i bicchieri appena usciti dalla lavastoviglie e della ragazza non c’è più nemmeno l’ombra.
 
Il ragazzo guarda la mia espressione spaesata e da vero amico quale è scoppia a ridere.
«Tu non me la racconti giusta, Alex. Si può sapere cosa ti è preso? Se volevi parlarle non saresti dovuto andare a nasconderti, o quanto meno saresti dovuto uscire prima: era di fretta perché doveva andare al lavoro» mi rimprovera.
«Non mi stavo nascondendo» borbotto offeso afferrando un canovaccio pulito e un bicchiere per dargli una mano.
«Ok, va bene, ho capito» sbotto alla sua ennesima occhiata e gli racconto quello che è successo.
 
«Mmm… sei sicuro che sia la stessa?» mi chiede quando finisco di raccontare.
Annuisco distrattamente: «Quella sera aveva i capelli sciolti se non ricordo male, però sì, era lei»
Lui sembra per un attimo in pensiero ma poi mi sorride malizioso: «Qualcosa mi dice che avrai la tua occasione per parlarle e scusarti, Casanova»
Sorvolo sul nomignolo – ho appena rotto con Olivia, quante volte devo ripeterlo? – e lo guardo interrogativo.
«Potrei averle detto che il pranzo di oggi lo offriva la casa se sarebbe tornata di nuovo qui qualche volta, e ha sembrato apprezzare. Molto»
Lo guardo esterrefatto ma lui non ha ancora finito.
«Ah. E potrei anche averle lasciato il mio numero di telefono…»

















Eccomi con il quarto capitolo!
Questa volta il punto di vista è del nostro caro Alex Doherty che è proprio il figlio di Megan e John (come qualcuno aveva già intuito).
Non ho molto da dire se non che spero che anche questa parte vi sia piaciuta.
Ringrazio come sempre chi ha messo la storia nelle varie categorie e un grazie in più a chi mi ha fatto sapere le sue impressioni attraverso una recensione.
Alla prossima settimana con l'ultimo capitolo!
E.



 

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Capitolo 5
*** V ***


- V -
(pov Carlotta)
 
I due mesi di alloggio fornito dall’ospedale sono alla fine terminati e mi sono quindi trasferita dai Doherty.
Avevo già dato a Megan due delle tre valige che mi sono portata dall’Italia, e con ieri mattina ho finito di liberare la vecchia stanza assicurandomi di non aver dimenticato nulla: quella sera non sarei più tornata lì e per questo motivo mi sono anche dovuta portare il bagaglio in reparto.
 
La stanza della figlia di Megan, Chloe, mi ricorda la mia vecchia camera in Italia.
Il letto da una piazza e mezzo, la libreria vicino all’ampia scrivania – questa devo davvero riuscire a non ingombrarla come succedeva sempre con la mia – e l’armadio con lo specchio sulle ante esterne.
L’unica differenza sono i colori: nella mia il rosso era dominante, mentre qui tutto è verde chiaro e panna.
Lungi da me dal lamentarmene, ovviamente.
Al piano superiore della casa ci sono due bagni: uno lo usavano Megan e John mentre l’altro il figlio, Alex; ma quando alla sera sono arrivata ho scoperto che aveva già spostato tutte le cose del marito in quello del ragazzo.
Non le ho chiesto come lui avesse preso la cosa, speravo solo che non fosse troppo arrabbiato per quell’invasione dei suoi spazi.
 
C’è anche da dire che in due giorni non l’ho ancora incontrato. Alex, intendo.
L’altra sera quando sono arrivata John ci ha detto che era ancora fuori al locale mentre stamattina quando mi sono alzata – apposta tardi in vista della prima notte del turno – era già uscito e non è tornato neanche per cena.
Quando ho provato a chiedere a Megan se fosse per colpa della mia presenza ha liquidato la cosa intimandomi, gentilmente, di non dire assurdità.
Se suo figlio si comportava come uno stupido – e maleducato – la colpa non era di certo mia.
 
 
 
 
Per una malattia di un collega ci siamo ritrovate a fare tre notti anziché due e sono davvero distrutta.
Almeno così faremo quattro giorni di riposo prima di ricominciare il turno anziché tre.
 
Mi sveglio con lo stomaco che brontola e la testa pesante.
Guardo l’ora e scopro che sono quasi le cinque del pomeriggio.
Mi alzo ancora intontita per tirare su le persiane della camera e alla luce scopro che Megan mi ha lasciato un post-it sulla scrivania.
Lei è uscita per andare a trovare un’amica mentre John è al locale per una visita di ordinaria amministrazione.
Il fatto che in casa possa esserci qualcun altro non mi passa neanche per l’anticamera del cervello.
 
Scendo in cucina ancora in pigiama senza neanche essermi data una sistemata, tanto il mio piano è semplice: se riesco a svegliarmi facendo colazione – vabbè, merenda, o quello che è – bene, altrimenti me ne torno a dormire.
Mi servo di latte e cereali chiedendomi come mai calino così in fretta se sono l’unica a mangiarli – so che Megan e John fanno colazione salata – e non mi siedo neanche al tavolo rimanendo in piedi appoggiata al mobile del lavello.
Finisco e mi appresto a lavare la tazza e il cucchiaio che ho usato aprendo il getto d’acqua mentre canticchio tra me e me una canzone a caso – no, non sono assolutamente intonata, ma lo faccio lo stesso ogni tanto.
Tra l’acqua, il mio canticchiare e il fatto che sono per metà ancora addormentata e per l’altra metà persa nei miei pensieri non mi accorgo che nel frattempo qualcuno è entrato in cucina.
 
- Io non lo posso sapere perché sono girata di spalle e ovviamente non ho gli occhi anche dietro la testa, ma a beneficio del lettore dirò che l’ultimo arrivato mi degna appena di un’occhiata e decide di fare finta di nulla rimanendo in silenzio, servendosi poi degli stessi cereali che avevo preso io poco prima.
Ecco svelato il mistero!
Per fare le cose per bene anche lui aggiunge del latte per poi dirigersi verso l’ignara sottoscritta, che ha appena finito di riporre la tazza nello scolapiatti, per prendere un cucchiaio. –
 
Ve lo ricordate il frontale di sei anni fa?
Diciamo che adesso la situazione è potenzialmente più imbarazzante di quella volta visto che, ricordiamolo, sono ancora in pigiama.
Comunque, nel caso in cui non si fosse capito, quello che succede è che nel girarmi – a parte prendermi uno spavento assurdo – vado a sbattere contro il figlio di Megan e la sua ciotola di latte e cereali che inevitabilmente finisce sulla mia maglia e sul pavimento.
 
Per un attimo mi immagino già la scena di noi due che ci urliamo a vicenda, per un motivo o per l’altro; quello che non potevo immaginare era che saremo finiti tutti e due a ridere fino a doverci tenere la pancia.
Era ovvio che lui stesse ridendo di me.
Insomma, ho l’aspetto di una che ha, letteralmente, appena finito di lottare contro cuscino e coperte, i capelli tutti aggrovigliati e come ciliegina sulla torta il mio pigiama è appena stato lavato con il latte.
Questo però non impedisce a me di ridere di lui: a quanto pare non sono l’unica che ha fatto la notte fuori.
Anche lui infatti è in pigiama con i capelli sparati e la tipica faccia di chi si è appena svegliato. Credo che quella che ha sulla guancia destra sia l’impronta della piega del cuscino…
 
Almeno non è caffè, penso alle condizioni della mia maglia.
Evidentemente però devo averlo detto anche ad alta voce perché il ragazzo smette di ridere.
Torno seria anch’io e ci ritroviamo a guardarci a vicenda.
La prima cosa che capisco è che quello che ho davanti è lo stesso ragazzo che mi ha urtato la sera che sono venuta a cenare da Megan per conoscere John, e a giudicare dal lampo di consapevolezza che passa nel suo sguardo anche lui mi ha riconosciuta.
Ma non è quello.
La mia frase, «Almeno non è caffè», innesca in entrambi un ricordo che nessuno dei due pensava che l’altro possedesse.
E così mi ritrovo a scrutare quegli occhi azzurri con una nuova consapevolezza, riconoscendo che effettivamente il viso a cui appartengono è lo stesso che avevo incontrato quel pomeriggio di sei anni fa anche se è cresciuto e i capelli che lo incorniciano sono appena più scuri.
Gli tendo una mano sorridendogli, la maglia bagnata è improvvisamente diventata un insignificante dettaglio.
 
«Io sono Carlotta»
«Piacere, Alex» mi risponde sorridendo a sua volta e ricambiando la stretta.
Il mio sorriso si amplia ulteriormente al ricordo di quanto avevo desiderato all’epoca conoscere quell’informazione: adesso so come si chiama.
 
 
 
(pov Alex)
 
Stanotte – o sarebbe meglio dire stamattina presto – abbiamo chiuso il locale che era praticamente l’alba.
È incredibile vedere come l’anonimo e tranquillo bar che è di giorno diventi caotico e affollato di notte, soprattutto quando organizziamo qualche serata a tema.
 
Mi sveglio e scopro con sorpresa che sono le cinque del pomeriggio.
Non mi era mai capitato di alzarmi così tardi, ma c’è anche da dire che in questi giorni ho fatto degli orari assurdi, e non solo per colpa del locale.
Immagino non mi faccia onore, ma ho cercato per quanto possibile di stare poco a casa, principalmente per evitare la collega di mia madre – cosa che ovviamente l’ha fatta arrabbiare.
Non so neanche io perché, e so che così sembro un bambino, ma in qualche modo mi sento offeso dal fatto che nessuno mi abbia detto nulla fino all’ultimo.
Ho persino dovuto rinunciare al mio bagno!
 
Dal silenzio che regna in casa deduco che siano tutti fuori, così decido di scendere in cucina per mangiare qualcosa rimanendo in pigiama senza neanche darmi una sistemata.
Mi blocco per un attimo quando mi rendo conto che la mia precedente deduzione è errata: non sono solo in casa.
C’è una persona girata di spalle che sta sciacquando qualcosa nel lavello canticchiando a mezza voce.
Il mio cervello è ancora troppo addormentato per farmi notare che forse avrei dovuto denunciare la mia presenza e che, almeno vista di spalle, quella persona sembri più giovane di quanto mi aspettassi.
Così faccio finta di niente prendendo dalla credenza una ciotola in cui verso dei cereali – credo siano suoi, ma nessuno mi ha ancora detto nulla… - e ci aggiungo del latte.
L’acqua del lavello si chiude nel momento in cui mi avvicino a mia volta allo scolapiatti per prendere un cucchiaio, solo che lei si gira all’improvviso e io non riesco a retrocedere in tempo.
Le vado addosso rovesciando buona parte del contenuto della ciotola che stavo tenendo in mano sulla sua maglia del pigiama, il resto finisce sul pavimento.
 
Restiamo a fissarci per un attimo quasi trattenendo il respiro – mi aspetto che si metta ad urlare da un momento all’altro per lo spavento che le ho sicuramente fatto prendere – ma alla fine, per le condizioni in cui entrambi ci troviamo, ci mettiamo a ridere di cuore.
 
Andiamo avanti finchè non sento la ragazza – perché sì, è davvero una ragazza – che dice: «Almeno non è caffè»
A quel punto le risate si spengono quasi all’istante e ci guardiamo con una nuova consapevolezza negli occhi.
E così riconosco la stessa ragazza con cui mi sono comportato da maleducato giorni fa, e lei riconosce me.
Ma non è quello.
Quella frase mi fa tornare alla mente un ricordo molto più vecchio, di sei anni fa, quando nemmeno un bicchiere di caffè rovesciatomi addosso era riuscito a far sparire il mio buon umore.
E quella che ho davanti adesso è proprio quella ragazza.
 
Posso quasi vederla, con i capelli raccolti e le guance arrossate, colei che con un solo sorriso era riuscita a farmi dimenticare che il motivo per cui quel giorno ero così contento era un’altra ragazza.
Per diverso tempo, soprattutto quando con Sarah era finita prima ancora di cominciare, mi sono dato dello stupido per non averle chiesto almeno il nome.
Quell’informazione mi era sembrata così fondamentale.
 
«Io sono Carlotta» dice la ragazza manco mi avesse letto nel pensiero tendendomi la mano.
«Piacere, Alex» rispondo con un sorriso e ricambiando la stretta.
Il suo sorriso a quel gesto aumenta ulteriormente, e il mio di riflesso.
Come quel pomeriggio di sei anni fa non posso fare altro che guardarla come incantato.      
 
E sinceramente non sono mai stato un grande sostenitore di amore a prima vista, colpi di fulmine e cose del genere.
Ma in questo momento devo probabilmente ricredermi.
Mi era sembrata bella e perfetta sei anni fa come la trovo adesso, in pigiama con i capelli arruffati e la maglia sporca della colazione che le ho rovesciato addosso: in che altro modo si potrebbe spiegare?
 
 
 
(pov Carlotta)
 
Quattro mesi dopo…
Sono passati quattro mesi dallo scontro con Alex nella cucina dei Doherty.
Mi sono finalmente iscritta all’Albo dopo aver superato l’esame e di conseguenza vedo Megan meno spesso visto che ormai sono stata inserita regolarmente nel turno del reparto.
Per questo ma anche perché non alloggio più a casa Doherty, ma una cosa alla volta…
 
 
Quando io e Alex abbiamo raccontato a Megan e John che in qualche modo ci conoscevamo già quasi non volevano crederci.
Si ricordavano ovviamente che il figlio aveva raccontato loro dell’incidente con la ragazza e il bicchiere di caffè, ma non avrebbero mai potuto immaginare che quella ragazza ero io.
 
Diventare amica di Alex mi ha permesso di entrare nella sua cerchia di amicizie, tra le vecchie conoscenze dell’università che aveva alla fine deciso di riprendere e i colleghi del bar dove continuava a lavorare – del quale sono ormai diventata un’affezionata cliente – è un bel gruppo.
A proposito del bar: quando ci sono tornata la seconda volta insieme ad Alex, Luke – il ragazzo che mi aveva persino lasciato il suo numero di telefono – aveva spalancato la bocca stupito quando gli avevamo raccontato tutta la storia, limitandosi poi a scrollare le spalle e a lanciare occhiatine maliziose ad entrambi (anche se quella volta nessuno dei due se n’era accorto).
 
Prima ho detto che non abito più dai Doherty… a dirla tutta neanche Alex.
Alla fine siamo riusciti a trovare un appartamento piccolo ma miracolosamente funzionale che è più o meno a metà strada tra l’ospedale e la sua sede universitaria.
Così io ho finalmente qualcuno – di cui mi fido – con cui dividere sia l’appartamento che le spese e lui non abita più con i suoi genitori come voleva; anche se, turni di entrambi permettendo, siamo regolarmente da loro per un pranzo o una cena.
E in tutto questo noi abbiamo deciso di ufficializzare il fatto che stiamo insieme da circa un mesetto.
 
Ai miei ho dovuto raccontare le cose un po’ per volta per evitare di fargli prendere un colpo.
Bea è stata sia triste che felice di sentirmi dire che probabilmente, se le cose fossero andate bene, alla fine mi sarei fermata in Irlanda per più tempo di quanto avessi preventivato all’inizio.
 
Certo, tra i mei turni in ospedale, quelli di Alex al bar e le sue lezioni all’università non è sempre facile, ma a parte qualche discussione che generalmente si risolve nell’arco della giornata posso dire che le cose stanno andando più che bene.
Sicuramente meglio di quanto avrei mai potuto immaginare quando sono venuta a Belfast la prima volta in gita o quando ci sono tornata.
 
Se qualcos’altro dovrà accadere, beh, immagino che lo scoprirò.
 
 
 
Fine















E anche questa è andata.
Inizio subito con il ringraziare tutti i lettori per avermi supportato e sopportato in questo breve periodo in cui la storia è stata pubblicata.
Per quanto mi riguarda è stato qualcosa di nuovo (sia per il genere della storia che per la modalità di scrittura) e sapere attraverso le recensioni che questo "esperimento" è stato gradito è stato davvero gratificante.
Quindi: GRAZIE!
Riguardo al capitolo... spero che il finale non vi abbia deluso, ma d'altronde viste le premesse immagino che un po' tutti vi foste già immaginati come sarebbe andata a finire tra Carlotta e Alex, no?
La scena di Carlotta al lavello non è completamente inventata: senza il disastro del latte rovesciato - per fortuna! - ma è successo a me con mia sorella (che ringrazio perchè anche se lei non ne ha minimamente idea Bea è praticamente il suo ritratto).
Mi faccio un po' di pubblicità da sola... se volete sto pubblicando una nuova storia un po' "piratesca".
La trovate qui, se qualcuno volesse passare e farmi sapere cosa ne pensa è più che benvenuto.

Di nuovo grazie a tutti coloro che hanno seguito questa storia.
Alla prossima!
E.



 

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