Chalybe Ignique Annales- Cronache di acciaio e di fuoco di Ayr (/viewuser.php?uid=698095)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Chalybe Ingique
Annales- Cronache di acciaio
e di fuoco
Prologo
La vita
è solo un'ombra che cammina,
un povero commediante che si pavoneggia
e si dimena per un'ora sulla scena, e poi
cade nell'oblio;
la favola di un'idiota, piena di rumore e foga,
che non significa nulla.
-William Shakespeare-
Il
gocciolio ritmico e lento che giunge lontano e ovattato, come da
un'altra
dimensione, è l'unico suono che accompagna la mia angosciosa
attesa,
scandendone il tempo, che trascorre lentamente.
Non
ho idea di quanti giorni io abbia trascorso rinchiuso qui, ed
è alquanto
probabile che questi stessi giorni siano diventati settimane, se non
addirittura mesi.
Il
tempo in questa cella scorre monotono e sempre uguale a sé
stesso, sospeso tra
un sonno agitato, popolato da incubi mostruosi, e un dormiveglia
tormentato da
ricordi, rimorsi e timori dai quali mi risveglio ugualmente affannato e
sconfitto. Non so quale tra i due sia il male minore.
Le
catene mi segano i polsi e mi limitano nei movimenti, ho le gambe
anchilosate
ma non ho possibilità di muoverle per riattivare la
circolazione: sono
incatenato in una posizione scomoda e statica, nella spasmodica attesa
del mio
verdetto.
Mi
hanno accusato di tradimento, ma sono solo una vittima innocente degli
eventi,
incastrata da qualcuno più furbo e spietato di me, che non
ha avuto rimorsi nel
coinvolgermi in tutto questo e nel far ricadere la colpa sul mio capo,
su cui,
ora, pende la lapidaria sentenza: verrò destituito dal mio
incarico e cacciato
da quella che fino a quel momento era stata la mia casa,
sarò costretto a
vivere di stenti ed espedienti, senza più
un’occupazione, una casa, una
famiglia.
Ne
sento già il puzzo che si insinua tra gli spifferi della
porta di legno
robusto, rinforzata da ferro e glifi antichi, mi si appiccica addosso
come
sudore, e non mi abbandona, ammorbandomi con il suo tanfo.
Sono
stanco di aspettare, ormai so quale sarà il mio destino e,
sebbene non lo meriti,
non vedo l'ora che sia compiuto. Sono consapevole che sia troppo tardi,
ormai,
per qualsiasi cosa: troppo tardi per scagionarmi, troppo tardi per
redimermi,
troppo tardi per rimediare ai miei errori e troppo tardi per evitare
che il
corso degli eventi precipiti come una frana, travolgendomi in pieno.
Forse
avrei dovuto prevederlo, i segnali c'erano, ma non sono stato capace di
vederli
e di interpretarli, o non ne ho avuto il tempo o la voglia…
ed ora eccomi qui,
legato come un quarto di bue, pronto per essere macellato.
Verrò umiliato,
un’ultima volta, la più terribile: mi
verrà strappato tutto ciò che fino ad ora
ho posseduto e il mio unico compagno e conforto di una vita
verrà distrutto.
Una parte di me morirà inevitabilmente con lui, quando il
Sigillo verrà
spezzato e rimarrò spezzato anch’io. Per sempre.
La
vita è maledettamente ingiusta e qualsiasi essere ne
è schiacciato e
sopraffatto, pur senza esserne consapevole. È quello che
è successo a me,
perché io non ho colpe e non ho rimorsi, e vado al giudizio
con la serenità
della consapevolezza di una coscienza pulita.
Non
sono mie le mani lorde di sangue, io mi sono limitato a eseguire il mio
dovere,
mettendo a rischio la mia vita più volte più di
portarlo a termine, e non ho
rimpianti.
Ho
vissuto la mia vita appieno, facendo quello che desideravo e riuscendo
a
realizzare il mio più grande sogno; ho sperimentato, ho
viaggiato, ho visitato
luoghi incantevoli e sublimi, terribili e affascinanti, ho incontrato
persone
di diverse razze, culture idee e gusti diversi, ho avuto modo di
conoscere
lingue e tradizioni diverse dalla mia e di apprezzarle fin nei minimi
particolari, ho assaggiato cibi esotici, mi sono cullato nel delicato
calore
della pelle di una donna e mi sono inebriato del profumo di quella di
un uomo.
Ho sfruttato qualsiasi occasione il fato mi abbia presentato,
assaporando tanto
le amarezze quanto le dolcezze di un'esistenza vissuta fino in fondo.
Non
mi rammarico di nulla e posso dire di avere raggiunto la pace
interiore, quello
stadio di assoluta serenità che si prova pur in situazioni
avverse, in cui le
difficoltà e gli stenti non ti tangono, ma scivolano sulla
tua pelle come
pioggia, senza avere la possibilità di ferirmi.
L'unica
cosa di cui mi dispiaccio è del fatto che verrò
considerato come un traditore,
e che la mia memoria rimarrà per sempre infangata da una
nomea che nonmi
merito e che non mi si addice.
Non
voglio essere ricordato in questo modo, non se ho anche la
più remota
possibilità di raccontare come sia veramente andate le cose,
e di dimostrare la
mia innocenza.
Narrerò
la mia storia e lascerò che siano i posteri a giudicarla,
nella speranza che
qualcuno riesca a vedere come io sia stato solo una vittima ingenua di
un
enorme inganno ben architettato.
Tutto
è iniziato quella dannatissima notte, pochi giorni prima
delle Prime Nevi,
quando ho avuto la malsana idea di cercare di recuperare la fiducia dei
miei
compagni e dei miei superiori...
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Capitolo 2 *** I ***
I
«Ehi
rossa, ti
andrebbe di passare una notte di fuoco indimenticabile?»
Arandil si
voltò, e
l'uomo che gli aveva rivolto la parola per poco non si
soffocò con la birra,
che gli era andata di traverso.
«Ma
tu non sei una
femmina…» esalò in un grido strozzato,
«Poco importa, una bottarella la darei
pure a te.»
Arandil
squadrò da
capo a piedi l'uomo, le sopracciglia sottili a formare due archi di
incredulità: aveva tratti del volto grossolani e insipidi,
una zazzera di
capelli castani e spenti occhi azzurri, resi liquidi e vagamente
allucinati
dall'alcol. Era ubriaco fradicio e faticava a reggersi in piedi.
Arandil non si
sorprese di essere stato scambiato per una ragazza -gli capitava molte
più
volte di quante volesse ammetterne- né, tantomeno, che
l'uomo fosse disposto ad
andare a letto con lui anche dopo aver scoperto che fosse un maschio;
probabilmente non sarebbe stato in grado di distinguere una mucca da un
cavallo
e avrebbe fatto le stesse proposte indecenti a entrambi.
«Ti
ringrazio, ma
per stasera passo» gli rispose gentilmente e l'uomo
scrollò le spalle per poi
allontanarsi barcollando, «Sarà per un'altra
volta, ma se dovessi cambiare
idea, sai dove trovarmi» aggiunse da sopra la spalla,
facendogli l'occhiolino.
Arandil, per tutta risposta, alzò gli occhi al cielo,
esasperato: perché
attirava sempre e solo lui tutti i casi umani, gli psicopatici e i
maniaci?
«Ne
vuoi un altro?»
gli chiese il barista indicando con un cenno il suo bicchiere vuoto,
Arandil si
concesse qualche secondo per rifletterci: avrebbe potuto berne altri
tredici di
quegli intrugli amari e annacquati ma non sarebbero serviti a fargli
dimenticare la sua umiliazione, né ad affogare la sua
disperazione e la sua
frustrazione, ancora dolorosamente presenti e brucianti.
«No,
grazie. Questo
era l'ultimo» rispose alla fine, lasciando cadere sul bancone
scheggiato un
paio di dracme.
Si
alzò e un
capogiro lo colse, destabilizzandolo per un momento: non credeva di
aver bevuto
così tanto, ma doveva aver perso il conto dopo il sesto o
settimo bicchiere;
gli elfi, di solito, avevano una maggiore resistenza all'alcol e ci
voleva ben
altro per ubriacarli, ma quell'intruglio doveva essere stato
più forte di
quanto non sembrasse a prima vista.
Arandil
aspettò che
le pareti della taverna smettessero di danzargli in tondo davanti agli
occhi e
si staccò dal bancone, su cui si era appoggiato per non
cadere.
«Ehi!
Tutto bene?»
gli domandò il taverniere con voce atona e senza un reale
interesse,
probabilmente temeva che da un momento all'altro l’elfo
avrebbe riversato il
contenuto del suo stomaco sul pavimento appena pulito, ma Arandil
annuì
lentamente e si avviò con passo strascicato verso l'uscita
della
"Lucerna".
Il freddo
della
notte lo accolse e lo aiutò a riprendersi, si strinse nel
mantello scuro e
affondò le mani nelle tasche della cappa, mentre rivoli di
vento gelido gli solleticavano
la pelle scoperta, facendolo rabbrividire.
A Rondin
il freddo
dominava qualsiasi stagione dell'anno, ma con l'avvicinarsi delle Prime
Nevi,
le temperature erano scese vertiginosamente, e l'aria gelata si era
fatta più
acuta e pungente. Per un Carnifinde delle
rigogliose e miti pianure dell'Illorion meridionale, quel clima era
ancora più
insopportabile, e non si sarebbe mai avventurato di sua spontanea
volontà verso
quel paesino arroccato tra le pendici dei monti Talamor. Proprio per
questo, Arandil
aveva deciso di fuggire a Rondin: nessuno si sarebbe mai immaginato che
fosse
andato lì, e nessuno lo avrebbe cercato; sentiva la
necessità di starsene per
conto proprio, solo, con i suoi pensieri.
Questi
ultimi
ritornavano continuamente al giorno in cui era stato sollevato dal suo
incarico, ormai quasi una settimana prima: era stato un incontro triste
e
imbarazzante, uno spettacolo pietoso e deplorevole, con i
più alti
rappresentanti del Capitolo che scuotevano la testa rassegnati e delusi
perché Arandil
si era rivelato non essere in grado di portare a termine un compito
così
elementare, banale, che rasentava il ridicolo, più volte si
era lasciato
sfuggire quel pirata, e mai era stato capace di stanarlo e
neutralizzarlo. Era
una vergogna per l'Ordine e l'elfo si era sorpreso che non l'avessero
ancora
radiato ma si fossero limitati a passare l'incarico a qualcun altro:
erano
stati fin troppo indulgenti con lui.
Un moto di
rabbia
percorse i nervi di Arandil che tirò un calcio a uno dei
ciottoli sconnessi della
stradina che si inerpicava tra le casupole di legno, vagamente
illuminata da
radi lampioni al neon sfarfallanti.
La parte
che lo
faceva più imbestialire dell'intera faccenda era proprio il
fatto che avessero
affidato il compito a qualcun altro, e non ad uno qualsiasi,
bensì a
quell'egocentrico di Adam Browning: il suo arci nemico, che non perdeva
occasione per sbeffeggiarlo, umiliarlo e ostentare la sua
superiorità.
Era anche
per
sfuggire a lui che si era rintanato tra i monti Talamor: era disposto
anche a
vivere per sempre con dieci gradi sotto zero piuttosto che rivedere il
suo
sorrisetto soddisfatto e la sua faccia fintamente contrita quando gli
era stata
affidata la missione. Quel giorno si era trattenuto a stento dal
saltargli al
collo e strappargli l'unico occhio che gli rimaneva; avrebbe smesso di
fare il
presuntuoso, al buio.
Ma Arandil
non
poteva nemmeno biasimarlo più di tanto: era stata solo colpa
sua se Adam aveva
avuto l'ennesima possibilità di distinguersi tra i Dragoron
e pavoneggiarsi; se
fosse riuscito a catturare quel maledettissimo pirata, a quest'ora
sarebbe
stato lui a camminare a testa alta guardando tutti dall'alto in basso
con aria
di sufficienza...Ma non ne era stato capace, e ora ne pagava le
conseguenze.
In sua
difesa,
poteva dire che il pirata era veramente sfuggente e possedeva parecchie
risorse
inaspettate: innanzitutto la mirabolante nave volante, l'Andromeda, che
pareva
scomparire tra le nubi di vapore e smog, senza lasciare traccia; per
non
parlare delle armi sofisticate di cui era dotata -baliste con gittate
assurde,
cannoni che sparavano palle a velocità incredibile e
lanciafiamme che sputavano
fuoco che si fortificava con l'acqua, rostri e spuntoni acuminati
ricavati da
ossa di balena, come l'intero scheletro della nave stessa- e
l'equipaggiamento
della ciurma, dotata di spade e pistole che nemmeno i Dragoron
più ricchi e
famosi potevano permettersi.
Arandil si
domandò
come quell'orco rozzo e analfabeta fosse riuscito a procurarsi tutto
quell'armamentario e, soprattutto, a saperlo usare con una precisione e
un'efficacia disarmanti, senza aver ancora fatto saltare in aria la
nave;
alcuni congegni avevano richiesto intere settimane di studio da parte
dei
migliori ingegneri per poterne comprendere il funzionamento!
Con un
sorriso
cattivo ad increspargli appena le labbra carnose, l'elfo
sperò che uno di quei
cannoni colpisse Adam in pieno, gli tranciasse metà del
corpo e lo facesse
precipitare su una distesa di spuntoni rocciosi: sarebbe stato uno
spettacolo
davvero appagante.
Con questi
pensieri
vendicativi intrisi di sangue, arrivò di fronte ad una
stamberga. Pareva un
fungo infestante cresciuto sulla parete rocciosa, e di un fungo aveva
anche la
forma: un ampio tetto leggermente bombato, e rattoppato con materiali
di recupero,
si adagiava mollemente su un quadrato di legno, compromettendone la
solidità e
schiacciando quelle povere pareti sotto il suo immane peso; nonostante
la
pressione costante, però, la costruzione non era crollata su
sé stessa e
rimaneva miracolosamente in piedi. Antistante alla casa si apriva uno
spiazzo
di terra brulla coperta di neve, su cui si adagiava un'imponente ombra
scura
dalle forme indistinte e inquietanti, l'elfo le si avvicinò
e le assestò
un'amichevole pacca; l'ombra rispose con un'eco vagamente metallica, ma
rimase
immobile.
Il volto
pallido
della luna si affacciò in quel momento dalla coltre di nubi
sfilacciate che
macchiava il cielo altrimenti terso, ed illuminò la sagoma,
svelandone il vero
aspetto: sotto la luce lattiginosa, si delinearono i contorni di un
mostro
arrotolato su se stesso e come addormentato, il corpo filiforme ed
elegante era
color rame ed era rivestito di un materiale rosso-dorato che replicava
le
squame delle creature in carne e ossa; la schiena era ricoperta di
placche dello
stesso tipo, sotto le quali spuntavano tubi sottili che si arrotolavano
attorno
al collo e terminavano ai lati della bocca, che riusciva a muoversi
tramite un
complesso sistema di ingranaggi incastrati gli uni negli altri. Altri
ingranaggi collegavano le quattro zampe al resto del corpo, mentre una
lunga
coda serpentiforme, protetta dalle stesse placche, era accoccolata
accanto al
ventre, su cui si intravedevano sprazzi di una sorta di fornace, ora
buia, da
cui traevano origine i tubicini. Il muso allungato era decorato da un
paio di
lunghe corna appuntite e due lunghi filamenti di rame si allungavano
dal mento
del mostro, facendolo somigliare a un enorme drago cinese di metallo.
Gli
occhi, al momento, erano abissi scuri e profondi, dei quali non si
riusciva a
distinguere il fondo; sembravano spenti, come il resto del drago. Solo
un lieve
lucore proveniente dalla fronte della bestia e pareva l'unica cosa
animata: si
trattava di un complesso intreccio di linee sinuose e curve che si
annodava
proprio tra le due corna, ed era simile ai glifi di epoche remote e
quasi del
tutto dimenticate, studiate dagli eruditi. Il segno emanava un tenue
bagliore
violaceo che si rispecchiava negli occhi grigio acciaio dell'elfo,
Arandil lo
sfiorò, e per un momento, la sua luce si
intensificò per poi tornare al
consueto bagliore vagamente percettibile, non appena l'elfo
allontanò le dita.
Quello era
Krupfer,
il suo drago meccanico, l'emblema della sua appartenenza all'Ordine dei
Dragoron, gli ultimi rimasti dei leggendari Cavalieri dei Draghi. Con
il
passare degli anni queste creature si erano pian piano estinte
diventando mito;
ne rimanevano solo pochi esemplari, che si erano rifugiati in luoghi
lontani e
inaccessibili, ed erano ben attenti a non lasciarsi scovare dagli
uomini che
gli avevano decimati nel corso dei secoli, riducendone abbondantemente
la
popolazione.
L'Ordine
dei
Cavalieri, però, era rimasto e necessitava di una
cavalcatura resistente,
potente, devastante e che incutesse lo stesso terrore e lo stesso
rispetto di
un drago.
Fiumi di
idee e
progetti, più o meno realizzabili, erano stati presi in
esame da ingegneri,
fabbri, architetti, chimici e addirittura alchimisti e studiosi
dell'occulto,
oltre che, ovviamente, dai Cavalieri stessi, ma senza giungere ad
alcuna
conclusione soddisfacente. Fino a quando, un modesto studente di
ingegneria,
tale Vladimir Dragoron, non aveva avuto la brillante illuminazione di
draghi
meccanici che emulassero in tutto e per tutto le caratteristiche dei
loro
cugini in carne e ossa: da allora i Cavalieri dell'Ordine cavalcavano
quelle
bestie mastodontiche di metallo e ingranaggi, che nel corso degli anni
erano
state sempre più perfezionate e migliorate, fino a giungere
alla forma più o
meno definitiva di una creatura come Krupfer.
Un'alchimista
del
secolo precedente aveva aggiunto un'innovazione in più,
affinché quelle
creazioni così pericolose e distruttive non finissero in
mani sbagliate:
studiando i vecchi alfabeti delle popolazioni che abitavano prima di
lui quella
terra, aveva scoperto l'esistenza di un vincolo che legava
indissolubilmente un
oggetto all'essenza di una persona; l'alchimista analizzò e
migliorò i segni
che formavano il vincolo e ne partorì una versione
più potente e terribile: il
Sigillo da lui creato non si limitava solo ad indicare l'appartenenza
dell'oggetto al suo padrone e lo legava a lui, ma sigillava la
volontà del suo
possessore all'interno del manufatto, che dipendeva dallo stesso e si
disintegrava non appena quest'ultimo fosse morto. In questo modo
nessuno, all'infuori
dei Cavalieri cui era destinato, avrebbe potuto cavalcare e controllare
una di
quelle creature tanto magnifiche e prodigiose quanto letali e
pericolose.
Arandil
era stato
fortunato e aveva avuto la possibilità di supervisionare la
creazione del suo
drago e di darne le direttive perché riuscisse come lui
desiderava: magnifico,
bellissimo e velocissimo, perché nessuno degli altri
Cavalieri aveva optato per
una forma più slanciata e aerodinamica; elegante e sinuoso,
che si muoveva
nell'aria con grazia, senza l’ingombro di ali enormi, ma
grazie ad un complesso
sistema di motori a propulsione ideato da lui stesso.
Il
progetto aveva
tenuto impegnati gli ingegneri per quasi sette anni, ma ne era valsa la
pena:
la sua creatura era eccezionale.
Lo stesso
tempo gli
era occorso per diventare un vero e proprio Dragoron e poter lavorare
al
servizio dell'Impero o di chiunque altro avesse richiesto i suoi
servigi. Gli
ultimi erano stati i membri della Compagnia Orientale: quei mercanti
dalla
pelle liscia e nera, vestiti di abiti di seta e adorni di splendidi
gioielli,
gli avevano chiesto di occuparsi del famigerato Krugar Mano Scarlatta,
uno dei
peggiori Pirati dei Cieli degli ultimi tempi, che aveva seriamente
compromesso
i guadagni della Compagnia assaltando e depredando incessantemente le
loro
aeronavi.
Era stato
proprio
quel pirata a sfuggirli per ben due mesi, continuando a fare il bello e
il
cattivo tempo e innervosendo sempre di più i mercanti, a tal
punto che gli
stessi avevano chiesto che l'incarico venisse affidato a qualcuno di
più qualificato.
Così,
per colpa di
quell'orco, si ritrovava a dover vivere in una stamberga, lontano da
chiunque
lo conoscesse anche solo di vista, costretto a una vita ritirata e
quasi
eremitica per evitare che l'insoddisfazione dei mercanti e dell'Ordine
lo
perseguitassero ogni singolo giorno, attraverso i loro sguardi di
amarezza e
disapprovazione.
Arandil si
riscosse
da quei pensieri deprimenti: avrebbe trovato il modo per redimersi e
riscattarsi, si era ritirato in quel paesino proprio per riflettere su
questo e
per trovare la maniera di riacquistare la fiducia e il rispetto del suo
Ordine;
non lo avevano espulso, pertanto credevano ancora in lui, e l'elfo
doveva
dimostrarli che non si erano sbagliati un'altra volta.
Che
andassero tutti
in malora: i mercanti, Krugar e Adam, non erano più un suo
problema e poteva
concentrarsi solo su come dimostrare agli Cavalieri che era ancora
degno di
essere chiamato Dragoron e di cavalcare il suo superbo animale.
Ne era
stato estratto
il Cuore non appena era giunto a Rondin, per non allarmare troppo i
suoi
abitanti, e ora giaceva spento in quello spiazzo, in attesa che il suo
padrone
lo riaccendesse e tornasse a solcare con lui i cieli immensi.
Arandil
chiuse gli
occhi e allargò le braccia, lasciando che l'aria della notte
lo accarezzasse e
lo illudesse di essere in alto, tra le nubi e gli albatri. Aveva sempre
amato
volare, e fin da piccolo aveva desiderato diventare un
aviatore…fino a quando
non aveva scoperto l'esistenza dei Dragoron: da allora si era impegnato
e aveva
messo tutto sé stesso affinché potesse entrare
nel Palazzo di Cristallo per
poter apprendere quelle nozioni e assorbire quella conoscenza necessari
a
diventare un vero Cavaliere.
Non
avrebbe gettato
via tutti quegli anni di fatica, notti insonni, lacrime, sudore e
speranze per
uno sciocco errore, per un semplice avvenimento che non era andato
secondo i
piani. Lui meritava di essere un Dragoron, aveva lavorato sodo per
guadagnarsi
il titolo e il suo drago, non avrebbe lasciato che Krugar, Adam o
chiunque
altro gli sottraessero il suo sogno.
Avrebbe
lottato pur
di mantenerlo e si sarebbe mai più lasciato mettere i piedi
in testa da
nessuno.
Con
questi pensieri,
Arandil riaprì gli occhi e si rintanò in casa per
riposarsi.
|
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Capitolo 3 *** II ***
II
Una fiammata divampò, e se non fosse stato per la prontezza
di riflessi di Ariel e il suo provvidenziale scatto di polso,
l’Andromeda sarebbe stata ridotta a un nugolo di farfalle di
cenere.
Krugar
imprecò tra i denti e si aggrappò al parapetto,
per evitare di essere sbalzato fuori bordo dal movimento brusco e
inaspettato.
«Chi
è la testa di cazzo che era di vedetta?»
sbraitò.
«Monkey,
signore» rispose qualcuno.
«Giuro
che se dovessimo uscire vivi di qui, gli strappo gli occhi e glieli
faccio ingoiare, tanto non li usa, può benissimo farne a
meno!»
L’orco
era stato colto alla sprovvista: un attimo prima veleggiava
tranquillamente tra le nuvole insanguinate dal sole morente, ed
esattamente un momento dopo, era abbarbicato al parapetto come una
cozza allo scoglio, mentre una fiammata passava a pochi centimetri dal
suo naso. Tutto questo senza che quell’idiota avesse visto
avvicinarsi qualcuno o qualcosa.
Una
figura scura si stagliò contro il cielo infiammato dai caldi
toni del crepuscolo: una mastodontica bestia di ferro, nerboruta e
possente, dal collo tozzo provvisto di acuminati spuntoni di titanio,
corna d'acciaio rinforzato e lanciafiamme supplementari ai lati della
bocca che vomitavano fuoco e scintille; l’orco
tornò a domandarsi come avesse fatto a non vederlo Monkey.
Il
suo cavaliere si distingueva appena in mezzo alla giungla di acciaio e
titanio dell'animale. Da ciò che riusciva a intravedere
Krugar era longilineo e indossava un lungo cappotto dalle falde ampie
-o un mantello- che le raffiche di vento, prodotte dalle ali del drago,
gonfiavano come una nuvola temporalesca.
Doveva
trattarsi di un altro di quei Dragoron, il secondo che gli mettevano
alle calcagna a distanza di un paio di mesi, ed era fastidioso e
inopportuno quanto quello che l'aveva preceduto. Ma la sua cavalcatura
era decisamente più minacciosa, sebbene più
pesante e difficile da manovrare, e anche il cavaliere appariva
più temibile del suo predecessore e anche meglio armato: il
secondo particolare che l'orco notò, infatti, fu lo
scintillio di una canna di fucile.
Ma
Krugar non si lasciò intimidire: a quella distanza, il
cavaliere sarebbe riuscito a colpire a malapena il rostro che spuntava
sulla punta del muso del drago, simile al corno di un rinoceronte; il
vero problema era rappresentato dal drago meccanico stesso e dalle sue
poderose fiammate.
«Ai
posti di combattimento, aprite le Bocche» ordinò
Krugar, fece un cenno al timoniere, che ruotò il timone e la
nave con lui, in modo che il fianco e tutti i suoi scintillanti cannoni
fossero in bella mostra davanti all'incosciente che aveva osato
attaccarli.
«Facciamogli
vedere con chi ha a che fare!» digrignò tra i
denti.
«In
nome dell'Impero e della Compagnia Orientale, vi dichiaro in arresto
per aver commesso crimini contro la sicurezza dello stato e
l'incolumità di coloro che la abitano.» la voce
del cavaliere giunse distante e appena udibile, sommersa dalla
cacofonia di suoni concitati che regnava sul ponte.
«Arrendetevi
ora o..» le sue parole vennero troncate dal fischio di un
ordigno che esplose e pochi centimetri dal suo volto, dando inizio alla
battaglia, «Sarò costretto ad usare le maniere
forti» concluse imperturbabile, spazzando via i rimasugli
della bomba dalla manica della giacca di pelle rossiccia.
L'aria
si riempì del sibilo dei proiettili, non semplici palle di
cannone, ma congegni esplosivi che scoppiavano a contatto con l'aria e
potevano rivelarsi estremamente letali: Mitch non era stato abbastanza
attento e l'esplosivo si era portato via buona parte del suo volto e la
mano sinistra; dopo questo episodio, il vecchio pirata era diventato
per tutti Miccia, artificiere ufficiale dell'Andromeda e primo ad aver
avuto l'onore di testare sulla propria pelle la potenza devastante
della polvere pirica scovata alle Isole.
Il
cavaliere non si scompose e fece avanzare il drago nel mezzo dello
spettacolo pirotecnico.
«Un
osso duro questo nuovo» commentò tra i denti
l'orco mentre dava il segnale per una nuova scarica, che
colpì il drago, ma non riuscì a intaccare la sua
armatura né le ali, costituite da una membrana ignifuga e
scintillante come argento.
Il
drago spalancò le fauci, rivelando un inferno scarlatto, di
fiamme e lingue di fuoco che, pian piano, si concentrarono in una
poderosa fiammata che venne scagliata all’indirizzo della
nave.
Il
timoniere virò bruscamente, scaraventando Krugar contro il
parapetto ma evitando che la nave venisse carbonizzata, l'orco
ringraziò la provvidenziale abilità di Ariel per
l’ennesima volta e iniziò a sbraitare ordini: non
c'era tempo da perdere, prima che il drago potesse produrre un'altra
fiammata ci sarebbero voluti un paio di minuti e in quel tempo
sarebbero potuti passare al contro-attacco. Una nuova gragnola di colpi
sommerse il drago, ma i lanciafiamme laterali le bruciarono prima che
potessero scoppiare.
Evidentemente,
quei cosi sono collegati a un altro Camino
pensò Krugar
osservando con più attenzione la bestia; purtroppo non si
poteva intuire nulla del meccanismo interno che la regolava: ogni
centimetro di quella creatura era puro acciaio o titanio
indistruttibile, trattati entrambi per resistere a qualsiasi cosa.
Il
Sigillo sulla fronte della creatura aveva iniziato a emanare una forte
luce verde che si sprigionava anche negli occhi vuoti della bestia, e
l'orco aveva imparato a sue spese che non era mai un buon segno: il
drago era pronto per una nuova fiammata, prima di quanto Krugar si
fosse aspettato.
Deve
essere tecnologicamente più avanzato, o in quel pancione
enorme si nasconde più di un Camino...
Le
sue riflessioni vennero bruciate da una nuova vampata, così
inattesa e subitanea che Ariel non riuscì ad impedire che le
lingue di fuoco lambissero i rostri e il fianco d'osso della nave,
rendendoli incandescenti.
Krugar
imprecò tra i denti mentre una risata cristallina si levava
dalle parti del Dragoron, sicuro della vittoria. Era ancora abbastanza
lontano e solo le fiamme del drago potevano raggiungere l'Andromeda, se
solo fosse riuscito ad avvicinarsi abbastanza, avrebbe potuto usare uno
di quegli speroni di metallo per sventrare la nave, e a quel punto
sarebbero calati a picco e si sarebbero sfracellati sul suolo sotto di
loro. Ma, probabilmente, la Compagnia li preferiva vivi e il cavaliere
non si sarebbe arrischiato più di tanto: solo loro erano a
conoscenza dell’ubicazione del luogo dove avevano nascosto le
merci che avevano rubato, e la Compagnia avrebbe dovuto prenderne
almeno uno che fosse ancora in grado di parlare.
Potevano
sfruttare questa cosa e volgerla a proprio favore: se il cavaliere si
fosse limitato a lanciare attacchi a distanza per contenere i danni,
non ci sarebbe stato il rischio di venire speronati, e loro sarebbero
stati più liberi di muoversi.
«Dunabar,
inutile di un nano, muovi quelle gambette storte che ti ritrovi e va a
prendere l'artiglieria pesante!» tuonò l'orco
rivolto a un essere piccolo dalla lunga barba nera e furbetti occhi
grigi, il nano sussultò e corse sotto coperta.
«Quell'idiota
pensa ancora di poterci battere» la risata gutturale di
Krugar si propagò per il ponte della nave, presto raggiunta
all'eco di quelle della sua ciurma, «Non ha la più
pallida idea contro chi abbia deciso di mettersi.»
Krugar
Mano Scarlatta, temibile pirata dei cieli e terrore di tutto
ciò che navigava nel cielo e sul mare, non si sarebbe fatto
mettere i piedi in testa da un damerino a dorso di drago; era
già riuscito a sconfiggere più volte
l’altro cavaliere, e quegli enormi bestioni meccanici non lo
spaventavano per nulla.
«Sfiancatelo!»
ordinò ai suoi uomini, «Fategli sprecare tutto il
fuoco che ha in corpo finché non ne rimarrà
più nemmeno una goccia!»
Un
piano si stava lentamente formando nella sua testa, era ambizioso, ma
non impossibile…sempre che i calcoli fossero corretti.
L’Andromeda poteva trasportare una Waahl di medie dimensioni
e quell’ammasso di ferraglia doveva essere più
leggero se voleva avere una possibilità di alzarsi in volo,
probabilmente il suo scheletro era costituto da tubi cavi, come le ossa
degli uccelli: non sarebbe stato un problema trascinarlo fino a terra,
e incatenato al suolo, parte del suo vantaggio sarebbe andata persa.
Dunabar
riemerse reggendo tra le mani un arpione grande il doppio di lui e
pesante il triplo: era uno degli ultimi “acquisti”
di Krugar, veniva usato per la caccia alle Waahl, le enormi balene
volanti rosse che solcavano i freddi cieli del Nord, ricercate per il
loro prezioso grasso e le loro ossa resistenti. L’Andromeda
era stata ricavata proprio dallo scheletro di una di queste, e le ossa
della cassa toracica erano dei perfetti e naturali spuntoni
indistruttibili. Inutile a dirsi che la caccia alle Waahl fosse
illegale, così come la vendita di qualsiasi strumento per
praticarla.
«Blake,
dà una mano al nano!» un uomo allampanato dai
lunghi capelli neri si precipitò a soccorrere Dunabar che
stava soccombendo al peso del rampone: per abbattere quelle creature
colossali e poterle trascinare fino a terra, un semplice arpione non
sarebbe bastato, e quell’arma era capace di penetrare
qualsiasi cosa; Krugar sperò che funzionasse anche per
l’armatura di acciaio e titanio del drago, o almeno per la
membrana che costituiva le ali, che sembrava più fragile.
Mentre
i due montavano l’arpione, Ariel faceva piroettare
l’Andromeda per sottrarsi agli attacchi sempre più
serrati del Dragoron. L’orco dovette ammettere che quella
creatura era un portento: rispetto agli altri aveva la
possibilità di effettuare colpi ravvicinati; probabilmente
il circuito era formato da diversi Camini che si accendevano in
alternanza in modo che il drago non rischiasse mai di rimanere senza
munizioni. Una trovata davvero ingegnosa, Krugar non poteva permettersi
di sottovalutare quel cavaliere decisamente più scaltro e
pericoloso. Ben presto, però, la scorta di zolfo sarebbe
terminata e il cavaliere si sarebbe ritrovato nudo e senza protezioni:
quello sarebbe stato il momento per sferrare l’ultimo attacco.
Gli
uomini dell’Andromeda rispondevano al fuoco con il fuoco e
investivano il drago con scariche di proiettili, e agli esplosivi
vennero affiancate le più canoniche palle di cannone,
impedendogli di avvicinarsi ulteriormente.
«L’arpione
è montato, signore» ansimò Blake.
«Lasciatelo
a me» rispose l’orco marciando verso la prua della
nave, dove il muso scheletrico della Waahl fungeva da polena e da
supporto per la balista che avrebbe lanciato il rampone. Se i suoi
calcoli erano esatti, in pochi minuti il drago avrebbe esaurito la
scorta di combustibile e non sarebbe più stato capace di
emettere nemmeno una scintilla.
«Ariel,
fammi guardare negli occhi quel coglione!»
strepitò Krugar, «Voglio godermi la sua faccia
quando gli infilerò l’arpione nel culo!»
Il
timoniere fece virare la barca e l’orco si trovò
esattamente davanti al ventre di metallo della bestia, il cavaliere non
sarebbe riuscito a spostarsi in tempo, i movimenti erano limitati dalla
mole del drago, e l’uncino avrebbe colpito esattamente dove
l’orco l’avrebbe indirizzato.
«Quando
scaglierò l’arpione, preparate quelli
più piccoli e tenete a portata di mano anche le reti. Ariel,
non appena vedrai questo aggeggio perforare il drago, inizia la
discesa!»
Date
le direttive, il capitano si concentrò sul suo obiettivo: le
fiammate erano diventate più rade e fiacche, ormai non
raggiungevano più nemmeno la punta dei rostri
d’osso dell’Andromeda: il momento propizio era
giunto.
«Hai
finito di fare l’eroe, stronzetto»
mormorò Krugar mettendosi in posizione: si
bilanciò sulle gambe allargate, afferrò
saldamente la balista, chiuse un occhio, prese la mira, e fece scattare
il meccanismo. L’arpione fendette l’aria con un
suono acuto e straziante, simile al grido di una Banshee, e
colpì l’ala membranosa del drago, lacerandola.
Cavaliere e cavalcatura si sbilanciarono e anche la nave
subì uno strattone ma, con grande sollievo e soddisfazione
di Krugar, non calò a picco e resistette al contraccolpo; il
cavaliere si aggrappò con forza alle creste puntute del
dorso della bestia meccanica, nel tentativo di non cadere.
L’ala integra continuava a sbattere, mantenendo in volo il
drago, ma altri arpioni più piccoli e leggeri seguirono la
stessa traiettoria del compagno e andarono a sfondare anche la seconda
ala; un nuovo strattone fece perdere l’equilibrio a Krugar:
la forza di gravità stava attirando l’ammasso di
acciaio e titanio verso terra e con lui anche la nave.
«Resistete!»
li incitò il capitano, «È come cacciare
un’enorme Waahl di metallo.»
Gli
uomini misero in moto gli argani e le corde che tenevano legati gli
arpioni alla nave si tesero e iniziarono a rientrare, accorciando le
distanze, altre fiocine andarono ad assicurare la presa sul drago; il
cavaliere ormai era in trappola: l’unico modo che aveva per
fuggire, sarebbe stato buttarsi e fare un volo di trenta metri, con la
sicurezza di sfracellarsi sul terreno brullo sottostante.
«Ormai
l’abbiamo in pugno» ghignò Krugar mentre
vedeva avvicinarsi sempre di più quella massa metallica e
scomposta. La cassa toracica della Waahl si era rivelata
un’ottima gabbia, ma per rassicurarsi che del drago non
sarebbe andato perso nemmeno un bullone, la ciurma lo
imbrigliò in una rete metallica e assicurò il suo
carico con funi resistenti.
«Portatemi
il Dragoron» fu l’ordine del capitano, mentre un
ghigno inquietante si faceva largo sul volto verde, dai tratti duri e
spigolosi.
Ciò
che i suoi uomini trascinarono fino al suo cospetto, si
rivelò essere uno membro di quella razza avida e disgustosa
che erano gli umani: il loro aspetto così spento e scialbo
aveva sempre ripugnato l’orco, ma ciò che
disprezzava di più di loro era il carattere meschino ed
egoista, aggiunto alla totale mancanza di lealtà o di onore;
erano capaci di tradire il proprio migliore amico pur di ottenere
ciò che desideravano, o, addirittura, di uccidere un loro
fratello, ed erano soliti umiliarsi strisciando a terra come vermi e
leccando i piedi a quanti ritenevano più potenti di loro,
pur di ottenere la loro indulgenza o il proprio tornaconto. Krugar, per
quanto fosse un pirata, non si era mai macchiato di delitti
così turpi e atroci: aveva rispetto per sé e per
gli altri e riteneva la lealtà, la fiducia e
l’onore valori imprescindibili e fondamentali, che non
potevano essere traditi o messi da parte; si sarebbe fatto mozzare la
mano piuttosto che ingannare uno dei suoi compagni.
A
questo si aggiungeva il vestiario alquanto bizzarro e appariscente
dell’uomo: portava sopra una comune camicia bianca una sorta
di panciotto di pelle a cui erano attaccate delle maniche, simili a
spallacci di un’armatura, che sparivano in un paio di
guanti armati neri, un paio di pantaloni argento decorati con
volute antracite erano sostenuti da una cintura a cui erano appesi
degli svolazzi di stoffa di pelle rossa e di cui Krugar non riusciva a
comprendere l’utilità; un fazzoletto di seta
allacciato al collo e fermato con una spilla, e un tricorno nero
provvisto di una lunga piuma di fenice, completavano il tutto.
L’orco
si sentì preso in giro: erano appena stati attaccati da un
fenomeno da circo.
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Capitolo 4 *** III ***
III
Krugar
rimase a
osservare l'uomo, sconcertato: non riusciva a capacitarsi
dell'assurdità e
dall'appariscenza del suo abbigliamento; aveva sempre pensato ai
Dragoron come
guerrieri seri, vestiti di nero o inscatolati in armature scintillanti,
e
l'avere davanti quel cavaliere vestito da pagliaccio lo destabilizzava.
«Non
fai più lo
sbruffone, ora che non cavalchi più la tua ferraglia sputa
fuoco» lo provocò.
La
prima volta che
si era imbattuto in uno di loro, credeva che i cavalieri fossero
indistruttibili e invincibili, ma si era reso conto di essere stato
impressionato dai draghi, e che gran parte della loro potenza e
apparente
invincibilità era data proprio da quelle macchine infernali:
sembrava che
cavalcare quegli abomini mastodontici li desse sicurezza e anche un
pizzico di
arroganza e si sentissero onnipotenti, e questa sensazione veniva
trasmessa ai
loro avversari, che tremavano al loro cospetto e belavano come
agnellini.
Il
prigioniero,
trattenuto dai due della ciurma più nerboruti,
sollevò lo sguardo e inchiodò
l'orco con il suo unico occhio; l'altro era coperto da una benda nera e
il
pirata si domandò se, come per molti, fosse solo un decoro o
l'avesse perso davvero.
Il
cavaliere si
limitò a squadrarlo, e nonostante fosse costretto a rimanere
inginocchiato e
Krugar incombesse minacciosamente su di lui, non aveva perso, come
invece tanti
altri, la sua sicurezza quasi strafottente, e guardava l’orco
con aria di sfida.
Krugar pensò che con quel Dragoron si sarebbe proprio
divertito: erano in pochi
quelli che osavano sfidarlo e ancor meno quelli capaci di tenergli
testa, e
l’orco si annoiava ad avere sempre a che fare con codardi e
pisciasotto che non
riuscivano a sostenere il suo sguardo per più di pochi
secondi; quell’umano,
invece, lo stava provocando, e nemmeno in maniera troppo velata.
Sarebbe stato
interessante vedere fin dove avrebbe osato spingersi.
«Quindi
tu saresti
il famoso Krugar Mano Scarlatta, terrore di tutti i cieli e di tutti i
mari»
iniziò il cavaliere; aveva una voce profonda e suadente, ma
all’orco non sfuggì
la punta di arroganza che la impregnava, «Me lo immaginavo
più…terrificante.
Non mi aspettavo un ragazzino.»
Krugar
era un
giovane orco mastodontico, alto e robusto, con i tratti del volto
grossolani e
vagamente animaleschi ma privo dei segni dell’età
e del tempo inclemente; la
pelle era di un verde muschio brillante e le zanne minacciose che
spuntavano
dalla bocca priva di labbra erano candide, appuntite e impreziosite da
anelli
d’argento; aveva lunghi capelli rossi raccolti in treccine
fermate da anelli
d’oro, e una corta barbetta rossa copriva la mandibola forte
e decisa mentre
una sottile cicatrice attraversava la parte sinistra del volto
sfiorando
l’occhio, l’unico segno che lo facesse sembrare
meno giovane e inesperto.
Era
a torso nudo, ed
ostentava il tatuaggio di un Ardrir che
stringeva le sue spire attorno
al braccio sinistro, si allungava oltre la clavicola e spalancava le
fauci
all’altezza del cuore. Un paio di pantaloni di stoffa nera,
una fusciacca
scarlatta in vita e una collana di denti di drago completavano
l’insieme,
intimidatorio e affascinante.
L’orco
era rimasto
impassibile: era abituato a insulti più pesanti e
provocazioni più irritanti, e
sinceramente le parole del cavaliere facevano parte del repertorio
più classico
e banale, non valeva nemmeno la pena che venissero prese in
considerazione.
S’aspettava che il Dragoron fosse più creativo, ma
l’aveva deluso
profondamente.
«Sei
così noioso e
prevedibile, cavalcatore di draghi» sbuffò
l’orco, «Ne ho visti così tanti
negli ultimi tempi e sono esattamente come te: quando sono in groppa a
quei
marchingegni fanno la voce grossa, ma una volta che si toglie da sotto
le loro
chiappe quell’ammasso di metallo e fuoco, diventano
nient’altro che sgorbi
uguali a tutti gli altri, mortali e meschini. Dammi un buon motivo per
cui
dovrei risparmiarti la vita. Se sarà abbastanza convincente,
potrei anche
prendere in considerazione l’opzione», aggiunse
mostrando un ghigno poco
amichevole e rassicurante.
«Se
ti dicessi che
so chi si nasconde dietro il Duca» rispose l’altro
con indifferenza.
Un
silenzio di tomba
calò sul ponte della nave: tutta la ciurma era rimasta
ammutolita e sbalordita,
la dichiarazione aveva lasciato senza parole Krugar stesso.
Il
Duca era il
misterioso e ignoto committente per cui lavoravano e per il quale
avevano
depredato le navi della Compagnia Orientale. Krugar non
l’aveva mai visto in
volto e comunicava con lui solo mediante lettere che venivano lasciate
in punti
nascosti delle Città Sospese: in un anfratto di un muro
sconnesso, tra le
pagine di un libro della biblioteca cittadina e o nel bagno di qualche
bettola.
Il pagamento per i suoi servigi era stato alquanto allettante e
l’orco non
aveva esitato ad accettare quell’incarico: alla fine, si
trattava semplicemente
di alleggerire il carico di qualche mercantile di quei pomposi ricconi
pieni di
sé. Cosa poteva chiedere di più che essere pagato
per un lavoro che faceva da
una vita e in cui si divertiva anche?
La
curiosità aveva
instillato la propria scintilla e stava sbocciando lentamente, facendo
bruciare
l’orco: se avesse saputo di chi si trattava avrebbe anche
potuto patteggiare
con lui, minacciarlo e magari chiedere un compenso più alto
o un paio di
favori; avrebbe potuto ricavare dell’utile dalla conoscenza
di quel nome,
avrebbe anche potuta usarla come informazione da rivendere a qualcun
altro.
Krugar
si grattò la
barba ispida, soppesando la proposta: il Dragoron avrebbe anche potuto
mentire
dichiarando di conoscere il Duca, ma nessuno, a parte Krugar e il Duca
stesso
sapevano l’uno dell’altro.
E
alla fin fine,
anche se avesse dovuto saltar fuori che era stata una messinscena e
aveva
sentito quel nome chissà come e chissà dove, si
trattava pur sempre di un
Dragoron, e grazie a lui, avrebbe potuto scoprir i punti deboli dei
suoi
amichetti. ed eliminare una volta per tutte quelle mosche fastidiose a
cavallo
di ammassi di ferraglia sputa-fuoco.
«Voglio
parlare da
solo con il prigioniero, disarmatelo e portatelo nella mia
cabina!» ordinò,
alla fine.
I
suoi uomini fecero
come gli era stato intimato e iniziarono a perquisire il Dragoron, Adam
cercò
di fare resistenza ma i due energumeni che lo trattenevano erano
più forti e
grossi di lui, così dovette arrendersi e lasciarsi toccare
da quelle mani avide
e viscide che estraevano, come conigli da un cilindro, la
più variegata e
assurda collezione di armi che avessero mai visto: oltre al fucile, gli
sequestrarono una spada, un paio di pistole con coltello
d’argento, due
moschetti e qualche pugnale.
«Ben
rifornito il
damerino» commentò Krugar accarezzando una delle
pistole d’argento, «Queste le
prendo in custodia io. Sono un pezzo davvero pregiato e sarebbe un
peccato
lasciarlo in mano a questi bifolchi ignoranti»
continuò, facendo l’occhiolino
in direzione dei suoi uomini «È da quando ho
svaligiato il vascello di un certo
Treveille che non ne vedevo una, molto carine. Il resto è
vostro.»
Krugar
lasciò i suoi
uomini a litigarsi le armi di Adam e fece cenno ai due omaccioni di
seguirlo,
trascinando l’umano sino alla cabina del capitano.
Questa
era un
ambiente raffinato e luminoso che Krugar aveva preferito lasciare
identico a
come l'aveva trovato quando aveva rubato la nave: era un enorme stanza
dalle
pareti rivestite di legno pregiato e il pavimento di quercia scura;
enormi
librerie ne ricoprivano il perimetro, spandendo nella stanza un forte
odore di
pergamena e inchiostro, gli spazi non occupati da queste erano
riservati a
sciabole dall’elsa finemente intagliata, a spade
d’oro o a pistole dal manico
d’osso impreziosito da decori in argento, appesi a ganci e
rastrelliere. Mappe
geografiche, topografiche, carte nautiche ed eoliche e mappe stellari
occupavano gli ultimi spazi rimasti, racchiuse in cornici barocche; una
ciclopica scrivania in ciliegio troneggiava al centro della stanza,
ingombra di
carte, pergamene e libri mastri, mentre un letto era incassato in una
parete,
sotto gli imponenti scaffali ricolmi di libri. Era la cabina
più ingombra e
disordinata che Adam avesse mai visto e mai avrebbe pensato che potesse
appartenere ad un pirata.
Krugar
fece un cenno
ai due scagnozzi che avevano portato Adam e questi uscirono dalla
stanza.
«I
tuoi uomini ti
rispettano molto» commentò l’umano
massaggiandosi le braccia, nel punto in cui
era stato stretto e trattenuto.
«Mi
sono guadagnato
la loro stima e la loro fiducia a fatica, ma darebbero la loro vita per
me.»
«E
ti lasciano qui,
da solo, in compagnia di un Dragoron che fino a un momento prima stava
sparando fuoco contro la tua nave e voleva catturarti?»
«Hai
detto bene:
fino a un momento prima, ma possono cambiare tante cose in un lasso di
tempo
molto piccolo, e ora mi pare che i ruoli sia siano invertiti.»
«Ciò
non toglie che
possa spararti o sgozzarti» replicò
l’altro facendo scivolare lo sguardo
sull’armamentario esposto alle pareti.
«Mi
hanno
soprannominato Mano Scarlatta per un motivo, credi davvero che un
damerino
vestito da pagliaccio mi faccia paura? Soprattutto dopo che
l’ho sconfitto con
tanta facilità?»
Adam
sorrise: a
quell’orco sfuggivano moltissimi dettagli, ma non se ne
sorprendeva: la sua
razza non era famosa per la propria intelligenza.
«Allora
perché non
l’hai ancora fatto?» lo provocò.
«Perché
so chi sei,»
rispose Krugar, lasciandosi cadere sulla poltrona in pelle dietro la
scrivania,
«Duca.»
Il
pirata non si era
disturbato ad invitare l’umano ad accomodarsi, e Adam fece da
sé prendendo
posto sulla poltrona dall’altra parte della scrivania.
«Sei
molto
perspicace, per essere un orco» constatò. Era
rimasto veramente sorpreso di
fronte all’intuito di Krugar: mai se lo sarebbe aspettato da
un ammasso di
muscoli e boria.
«Ti
consiglio di non
tirare troppo la corda. Essere il mio datore di lavoro non ti autorizza
a
prendermi per il culo» replicò l’orco
con un cipiglio minaccioso, «Resti,
comunque, un mio prigioniero.»
«Che
non è legato e
può servirsi come se fosse a casa propria» Adam si
allungò verso un carrello su
cui era appoggiato un vassoio che accoglieva una bottiglia di vetro
contenente
un liquido dorato ed un paio di calici.
Prese
un calice e la
bottiglia e si versò da bere, studiando con la coda
dell’occhio l’orco; questi
non fece una piega e prese l’altro calice, facendosi versare
il liquore.
«Non
ho mai detto
che li tratto male» replicò Krugar, prendendo un
sorso della bevanda.
Adam
lo imitò e il
liquore scese come una lingua di fuoco lungo la gola
dell’uomo, mandandolo in
estati.
«Perché
il Duca
avrebbe deciso di attaccare il pirata che ha assoldato?»
domandò Krugar,
mettendosi più comodo: si lasciò scivolare contro
lo schienale della poltrona e
allungò le gambe sulla scrivania, quella destra era di
titanio ed era attaccata
al resto della coscia attraverso una cinghia di cuoio; un sistema di
tubi e
molle ne permetteva un movimento che somigliasse a quello di una gamba
normale,
non ugualmente fluido, ma pur sempre meno rigido di una gamba di solo
metallo o
di legno.
«Sono
pur sempre un
Dragoron e devo sottostare agli ordini dei miei superiori, sarebbe
parso
sospetto se avessi rifiutato l’incarico.»
«Avresti
sempre
potuto addurre una scusa plausibile.»
Adam
gli lanciò
un’occhiata scettica, «Meglio così:
è più semplice e le cose più semplici,
di
solito, sono anche le più efficaci.»
«Ti
sei lasciato
catturare» non era una domanda, ma una constatazione e il
Dragoron non si prese
la briga di rispondere.
«Sei
piuttosto
astuto, per essere un umano» continuò
l’orco con un sorriso storto, Adam
scrollò le spalle, senza raccogliere la provocazione.
«Per
cosa ti serve
tutta quella roba?» domandò Krugar.
«Credo
che siano
fatti miei, non trovi?» replicò l’altro.
«Non
mi sembri nella
posizione per fare il sostenuto: sei sempre mio prigioniero, vorrei
ricordartelo. Inoltre sei un Dragoron che sta pagando il pirata che
dovrebbe
arrestare, situazione alquanto inusuale, sarebbe un peccato se questo
piccolo
segreto si diffondesse…»
«Non
mi sembra tu
sia nella posizione per potermi minacciare: sarebbe la mia parola di
cavaliere
contro la tua di pirata e ricercato» rispose
l’altro secco.
«Sei
un gran bel
tipetto» scoppiò a ridere l’altro
«Sapevo che mi sarei divertito con te.»
Krugar
sollevò il
calice nella sua direzione e buttò giù il liquore
rimasto in un colpo solo, in
una specie di brindisi.
«Posso
almeno sapere
perché hai deciso di lasciarti catturare?»
«C’è
un’ultima cosa
che mi manca, per completare il mio progetto, ma non potrei mai
procurarmela da
solo. È troppo rischioso, anche per un Dragoron e solo un
pirata esperto e
coraggioso potrebbe aiutarmi» ammiccò Adam.
Krugar
scoppiò a
ridere «Le tue tecniche con me non funzionano, umano. Non
sono una di quelle
fanciulle che ti porti a letto, e i tuoi occhiolini o le tue sviolinate
con me
non attaccano.»
«Va
bene, va bene,
ho capito. Cercherò di dire semplicemente quello che devo:
ciò che mi serve è
molto raro e prezioso, e in pochi conoscono dove poterselo procurare,
ancor
meno riescono ad arrivarci, o a prenderlo. Io sono a conoscenza
dell’ubicazione
del luogo, ma come Dragoron non posso andarci e, comunque non potrei
andarci da
solo: è troppo pericoloso. Per questo mi serve il tuo aiuto:
sarai la mia
copertura e la mia scorta.»
«Si
può sapere di
cosa diamine si tratta?» sbottò l’altro,
esasperato. Detestava quando i suoi
interlocutori tergiversavano: lui era un orco che amava la
semplicità e la
sostanza, i convenevoli e le moine erano per le dame e i nobili
effeminati.
«Andrò
dritto al
sodo, allora: ciò che mi serve è un cuore di
drago.»
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Capitolo 5 *** IV ***
IV
«Un
cuore di
drago?!» sbottò Krugar, «Ma sei
impazzito? E a che cazzo ti servirebbe un cuore
di drago?»
«Credevo
fossi
abbastanza sveglio da arrivarci da solo» replicò
Adam senza scomporsi.
L’orco
si prese
qualche secondo per riflettere: i materiali che aveva rubato fino a
quel
momento erano stati piuttosto inusuali ed erano gli stessi con cui
erano fatti
quei bestioni spara-fuoco.
«Vuoi
costruire un
drago meccanico» esalò, alla fine, sorpreso egli
stesso della propria
intuizione, Adam annuì, «Ma come puoi riuscirci? I
progetti non sono
segretissimi?»
«Non
ci sono scritti
e tutto è tramandato a voce. Solamente un ristretto gruppo
di persone è a
conoscenza del segreto dei draghi meccanici, si tratta dei Dragoron
più
eminenti dell’Ordine: il Capitolo; ma il tempo passa per
tutti e quando sono
ormai troppo vecchi e decidono di ritirarsi dalla loro posizione,
ciascuno di
loro designa un erede a cui trasmettere la propria
conoscenza.»
«E
tu sei stato
scelto» concluse Krugar.
«Precisamente.»
«Ancora
mi sfugge
perché ti serva il cuore di un drago vero.»
«Perché
serve per
Accendere il drago meccanico.»
«Quegli
ammassi di
ferraglia funzionano con cuori di drago veri?» Krugar era
sempre più sconvolto.
«Come
pensavi che si
azionassero?» lo schernì l’altro,
«Da dove pensi che traggano la loro energia?»
«Credevo
ci fosse un
sistema di tubi e ingranaggi…e…» si
impappinò l’orco.
«C’è,
ma è tutto
tenuto in funzione dal Cuore: una minuscola centrale elettrica,
costituita da
un frammento di cuore di drago, la fonte più potente e
portentosa di energia.
Per spingere il sangue nei recessi anche più remoti
dell’immenso corpo di quei
bestioni deve avere una potenza ed una spinta immani, inoltre deve
possedere
un’enorme resistenza, dal momento che li mantiene in vita per
millenni. Non hai
idea di quanta energia sia capace di sprigionare il singolo cuore di
una di
quelle bestie!»
«E
tu vuoi creare il
tuo personale esercito di mostruosità meccaniche.»
«E
con quello andare
alla conquista dei continenti. Non hai idea di che cosa possano fare
quelle
macchine, non si tratta solo di emettere un po’ di fuoco,
possono diventare
vere e proprie macchine da guerra, indistruttibili, invincibili e
inesauribili»
l’occhio dell’umano brillavano e quello scintillio
intimoriva e preoccupava
Krugar: aveva visto molte l’avidità e la sete di
potere nello sguardo di un
uomo, ma mai intensa e profonda come quella che ora scorgeva
nell’iride azzurra
dell’altro.
«Non
pensi che ci
abbiano già provato?» lo frenò
l’orco.
«Certamente!
Fin da
quando sono stati ideati i draghi qualcuno ha cercato di utilizzarli
per i
propri scopi, cosa credi? Ma nessuno è mai stato abbastanza
furbo e
intelligente e si è lasciato scoprire. L’Ordine ha
cercato di prendere provvedimenti:
rendendo i progetti un segreto per pochi, fondando il Capitolo,
stabilendo
regole ferree e istituendo un’ardua selezione, ma come vedi,
non sono bastati
per frenarmi. Sono stato più scaltro: ho conquistato la loro
fiducia, mi sono
impegnato per mostrarmi come un Dragoron inappuntabile ed eccelso,
fedelissimo
ai loro stupidi dogmi e alle loro vuote regole, assolutamente
inapprensibile.
Seguivo le loro norme alla lettera e diventai il beniamino dal
Capitolo, che mi
considera uno dei migliori Dragoron che l’Ordine abbia mai
avuto.»
«Un
piano geniale»
commentò l’altro con voce atona.
«Ma
non è finita:
fingendo di essere stato catturato dal più famoso pirata di
tutti i tempi,
potrò raggiungere Astoria senza destare sospetti,
sarò solamente la vittima
innocente di un gruppo di pirati crudeli e sanguinari.»
«E
io cosa dovrei
guadagnarci da tutto questo?» domandò Krugar, gli
sembrava di rischiare un po’
troppo: il piano di quell’umano era completamente folle e
privo di garanzie, le
possibilità di successo erano ridotte ai minimi termini e se
fossero stati
scoperti avrebbero perso tutto; voleva essere sicuro che ne valesse la
pena.
«Oltre
al pagamento
per i servigi che mi hai reso fino ad ora, che mi pare una cifra
considerevole,
farò in modo che tu possa riavere ciò che hai
perduto…»
«In
base cosa
sostieni che abbia perduto qualcosa? “replicò
l’altro, scettico.
Adam
accennò al
tatuaggio che l’orco esibiva sul braccio, l’Ardir
azzurro e rosso.
«L’hai
mascherato
molto bene, ma a un’occhiata più attenta si vede
che l’occhio del drago è
strano, perché in realtà è un simbolo:
è la runa che gli orchi utilizzano per
marchiare quelli della loro specie che sono stati condannati
all’esilio…Morgh,
mi pare sia nella vostra astrusa lingua.»
Krugar
si portò
istintivamente una mano sul petto all’altezza della testa
sinuosa del drago, il
damerino, purtroppo aveva ragione: morgh bruciava sulla sua pelle, il
simbolo
di una condanna eterna che non poteva essere revocata.
Krugar,
prima di
essere un pirata, era stato un guerriero del clan dei Dente Spezzato,
uno dei
migliori e più feroci, ammirato dai più giovani
ed invidiato dai più anziani.
Ma, in seguito a un fatto di sangue che non raccontò maia
nessuno, venne
cacciato dalla sua tribù originaria e condannato
all’esilio, che per gli orchi
era sinonimo di morte: non poteva sperare nell’aiuto di altri
clan, era
considerato un reietto ed un paria da tutti quelli della sua specie, ed
era
stato costretto a rifugiarsi tra coloro che non potevano conoscere il
significato del suo tatuaggio: gli umani. Ma anche tra loro non era mai
stato
ben visto, e nessuno si era mostrato disposto a volerlo alle sue
dipendenze,
come mercenario o scorta; nessuno si fidava di un orco, tantomeno di un
orco
che decideva di lasciare le proprie terre e si spingeva fino a quelle
degli
uomini.
Gli
orchi erano
sempre stati per conto loro sugli altipiani rocciosi oltre la catena
delle
Sevenian, a Ovest, badando ai fatti propri e interessandosi minimamente
di
quello che accadeva al di là delle montagne; per loro gli
umani erano solo
degli esseri inferiori, crudeli e abietti, con cui sarebbe stato meglio
non
avere nulla a che fare, a meno che non fosse stato strettamente
necessario. Era
raro che si avventurassero spontaneamente fin nelle terre abitate dagli
uomini
e dagli elfi, e solitamente non erano giunti con intenzioni amichevoli
e
pacifiche.
Per
questo Krugar
era stato guardato con sospetto e con astio dagli umani, e nessuno era
stato
propenso a dargli un lavoro o un tetto sulla testa, e l’orco
era stato costretto
ad arrangiarsi da sé: se nessuno era disposto a dargli
ciò che gli occorreva,
decise che se lo sarebbe preso da sé. Solamente i banditi e
i briganti non
badavano alla razza e alla provenienza, ma solamente alle
capacità e
soprattutto al risultato, e l’orco si rivelò
essere un assassino formidabile e
spietato, brutale e senza paura. Si mise alle dipendenze dei peggiori
scagnozzi, facendosi lentamente un nome negli ambienti più
malfamati: Mano
Scarlatta divenne il suo soprannome, perché aveva sempre le
mani impregnate di
sangue, fino all’avambraccio. Divenne un assassino temuto e
richiesto, non
aveva paura di nulla e portava a termine anche i compiti più
spaventosi e
pericolosi.
Ma
come divenne
famoso tra i malavitosi, così lo divenne anche con le
autorità e ben presto
venne messa una taglia sulla sua testa. Iniziò ad essere
ricercato e stanato,
ogni suo nascondiglio veniva scoperto e più volte aveva
rischiato la vita.
L’unico modo per riuscire a sopravvivere era diventare
imprendibile.
Un
giorno, uno dei
suoi colleghi gli aveva detto, scherzando, che l’unico modo
che rimaneva per
non farsi prendere sarebbe stato farsi spuntare le ali e imparare a
volare.
Krugar, all’inizio, aveva riso della battuta ma in seguito
aveva seriamente
preso in considerazione quell’idea, soprattutto quando
iniziarono a diffondersi
le aeronavi -un mezzo molto più rapido per trasportare mezzi
o persone- e con
esse, i predoni capaci di depredare anche quelle navi volanti: i pirati
dei
cieli. Fu così che salì a bordo di uno di quei
sgangherati vascelli e divenne
un pirata.
«Va
bene, hai
scoperto il mio segreto, ma questo non ti assicura che sia quello che
desidero
davvero.»
«Suvvia,
sappiamo
perfettamente entrambi che gli orchi si sentono bene solo in mezzo ad
altri
orchi. Questa non è la vita che fa per te: tu sei un
guerriero, un combattente,
un soldato e non un brigante che saccheggia i mercantili per
sopravvivere, è un
lavoro meschino e mortificante che tu disprezzi con tutto te stesso, ma
di cui
non puoi permetterti di fare a meno. Io posso farti tornare
ciò che eri e,
anzi, posso farti diventare il più temuto di tutti gli
orchi, così potente e
forte che i clan faranno a gara per averti con loro, sarai conteso e
desiderato
da tutti.»
Krugar
si grattava
la barba, senza sapere cosa dire: la proposta era veramente allettante
ma non
aveva alcuna assicurazione in merito.
«E
come pensi di
poterlo fare?» indagò.
«Ti
rivelerò tutto
ciò che so sulla costruzione dei draghi: chi
oserà mettersi contro di te quando
saprà che puoi disporre di un esercito di bestioni
sputa-fuoco e
indistruttibili?»
«Come
faccio a
sapere se ciò che mi dirai sarà vero e che non
userai i tuoi draghi contro di
me e i miei simili?»
«Me
ne frega poco
del regno degli orchi: è una terra brulla e inospitale che
solo creature come
voi possono apprezzare.»
«Cosa
staresti
insinuando?» sibilò l’orco digrignando i
denti, a pochi passi dal volto di
Adam. Con uno scatto aveva oltrepassato la scrivania e si era fiondato
su di
lui, rovesciandolo a terra assieme alla poltrona e artigliandolo per la
camicia.
«Solo
creature
temerarie e forti come voi possono sfidare terre simili e
vincerle» pigolò il
Dragoron, la morsa dell’orco gli impediva di respirare e gli
mozzava il fiato.
«La
tua dialettica
ti ha salvato. Stai superando il limite, damerino: ti ho lasciato
passare gli
insulti di prima nei miei confronti, ma osa ancora fare insinuazioni
sugli
orchi e il nostro accordo salta assieme alla tua testa. Non mi piace
essere
preso per il culo, sono stato chiaro?»
L’umano
annuì e
l’orco lo lasciò andare con uno strattone, Adam
tornò a respirare normalmente e
si abbandonò a un sospiro di sollievo.
«Quindi
abbiamo un
accordo?» domandò sistemandosi la camicia
stropicciata e spolverandosi i
pantaloni.
«Chi
mi garantisce
che tu farai quanto prometti?» replicò Krugar.
«Il
fatto che
probabilmente mi cercheresti e mi spelleresti vivo se non dovessi
mantenere la
mia parola, e che nessun drago meccanico riuscirebbe a
fermarti.»
«Ti
ho detto di non
lusingarmi, detesto i lecchini.»
«Va
bene, va bene.
Puoi tenerti Silvershade come garanzia.»
«E
chi cazzo
sarebbe?»
«Il
mio drago
meccanico, l’ammasso di ferraglia sputa- fuoco che hai
abbattuto con un arpione
per balene.»
«E
cosa dovrei farci
con il tuo drago?»
«Finché
l’avrai tu
io non potrò fuggire, e potrai restituirmelo quando
avrò completato la mia
parte di accordo.»
«Ovvero
quando mi
avrai dato i miei soldi e mi avrai fatto riammettere nel mio
clan.»
«Esattamente»
annuì
Adam, «Se tutto andrà secondo i miei piani, saremo
entrambi felici e contenti.»
«Nel
caso in cui
qualcosa dovesse andare storto, e se tu non dovessi rispettare la tua
parte di
accordo, invece, posso sempre buttarti fuori bordo con gli omaggi del
gruppo di
pirati crudeli e sanguinari.» ghignò Krugar
mostrando una chiostra di denti
giallognoli e acuminati.
«Se
ti soddisfa» si
strinse nelle spalle l’altro, «Dunque ci
stai?» aggiunse.
«Non
so ancora dove
vuoi spedire me, la mia nave e la mia ciurma, e quanto sia pericolosa
questa
missione» lo frenò l’orco,
«Dove cazzo stanno quei figli di puttana dei
draghi?»
Adam
si avvicinò
alla scrivania e iniziò a scartabellare la montagna di
disordine che la
riempiva, cercando una mappa che potesse essergli utile. Finalmente ne
trovò
una abbastanza dettagliata e la mostrò all’orco.
Era
un enorme foglio
di pergamena su cui erano state rappresentate le terre settentrionali,
era
piuttosto datata ma quelle terre erano rimaste inalterate per secoli e
la mappa
andava bene comunque. L’umano indicò un punto
imprecisato della mappa, nel
mezzo di un nugolo di diverse linee nere.
«Kal
Schelas»
sillabò Krugar, «Mai sentito nominare. Cosa
sarebbe?»
«Una
catena di
monti» rispose l’altro.
«E
cosa speri di
trovarci?»
«Cuccioli
di Ardrir.
È tra quelle montagne che nidificano i draghi, e solo i
cuccioli non possiedono
veleno.»
«Ma
avranno anche
cuori più piccoli» fece notare Krugar.
«Me
ne bastano
pochi. Per alimentare i draghi dell’Ordine si utilizza un
solo cuore di drago
adulto da anni. In questo periodo, dovrebbero esserci pochi Ardrir
adulti nei
paraggi: è stagione di caccia e i draghi si spingono
più a sud. Nel caso
dovessimo imbatterci in uno, basterà lanciarli uno di quei
tuoi arpioni o palle
di cannone- Finché rimaniamo a distanza siamo al sicuro,
solo da vicini
diventano pericolosi con quelle loro estremità piene di
veleno.»
«Creature
magnifiche
gli Ardrir» commentò Krugar accarezzando il drago
che aveva sul petto «E molto
poco amichevoli.»
«Un
po’ ti
somigliano» scherzò Adam
Il
pirata lo fulminò
con lo sguardo e il cavaliere alzò le mani in segno di resa:
ogni tentativo di
essere amichevole e di instaurare un qualche rapporto con
quell’orco era
inutile.
«Ci
limiteremo a
prelevarli, e poi ti arrangerai tu a fare quello che devi»
esclamò Krugar.
«Quindi,
ci stai?»
«Certezza
di morte,
scarse possibilità di successo. Che cosa stiamo
aspettando?»
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Capitolo 6 *** V ***
V
Il Palazzo
di
Cristallo si innalzava maestoso, altezzoso e fiero, dominando
l’orizzonte con
la sua imponente struttura: una foresta di torri di vetro sostenute da
uno
scheletro d’acciaio, che catturava e rifrangeva la luce del
sole nei colori
dell'arcobaleno.
Era
il palazzo di
rappresentanza, dove venivano accolti e ospitati coloro che
richiedevano i
servigi dei Dragoron, ed era la sede del Capitolo: il suo scopo era
quello di
mostrare la potenza e il potere dei cavalieri, e sottolineare che
sarebbe stato
un errore considerarli semplici mercenari; avevano un codice
d’onore, un
regolamento e pretendevano il rispetto che si sarebbe riservato a
qualsiasi
altro Ordine. Era stato pensato per lasciare l’ospite a bocca
aperta e senza
fiato, infondendogli un vago senso di meraviglia e terrore
reverenziale: le
torri si slanciavano verso le nubi, sfidandole ad accarezzare per prime
il sole
morente; erano possenti, eppure non prive di flessuosità ed
eleganza,
ingentilite nelle forme marziali da un ricamo di guglie, pinnacoli e
archi
rampanti. Gli ultimi raggi dell’astro trafiggevano il vetro
di cui erano
rivestite, insanguinandolo, e donando all’intero complesso
un’aura inquietante
e suggestiva.
Krupfer
atterrò
elegantemente su una delle numerose piattaforme sospese che
circondavano quella
principale, su cui torreggiava il Palazzo; un sistema di ponti dalle
ringhiere
intarsiate a motivi floreali si gettavano in archi sinuosi tra una
piattaforma
e l’altra, collegandole con passaggi sospesi nel vuoto.
Sebbene non avesse mai sofferto di vertigini,
Arandil sentì il proprio cuore risalirgli fino alla gola e
mozzargli il
respiro. Aveva trovato subdolamente crudele quella scelta: si aveva
l’impressione di camminare sul nulla e la paura di cadere
attanagliava le
viscere lungo l’intero percorso; l’elfo mise
cautamente un piede davanti
all’altro, reggendosi alla ringhiera e aggrappandosi
spasmodicamente a questa,
quasi fosse un’ancora di salvezza. I lampioni di vetro
soffiato che
costeggiavano i ponti stavano iniziando ad accendersi, diffondendo il
loro
tenue bagliore, e immergendo le costruzioni e le statue di drago che le
sorvegliavano in una calda e labile luce rosata. Ma per quanto fosse
onirico e
idilliaco il paesaggio, l’elfo era concentrato solo sulla
viscida sensazione di
cadere e sfracellarsi sui tetti di Evernia, la città
sottostante.
Si
domandò come
diplomatici, nobili e mercanti riuscissero a resistere ad una simile
apprensione e ad attraversare tutto il percorso senza bagnarsi i
calzoni di
seta; non che Arandil stesse per farsela sotto, ma se qualcuno
l’avesse visto
in quel momento, abbarbicato al ponte come il muschio sul tronco degli
alberi,
avrebbe sicuramente iniziato a nutrire dei dubbi circa
l’antonomastico coraggio
dei Dragoron.
Pochi
gradini di
vetro privi di ringhiera separavano il ponte dalla piattaforma del
Palazzo e
l’elfo li scese con il cuore che batteva
all’impazzata, tuonandogli nelle
orecchie con una spiacevole eco che si riverberava per tutto il corpo,
facendolo tremare come una foglia. Giunto nelle vicinanze della
torretta di
guardia si impose di ridarsi un contegno e di non presentarsi,
quantomeno, con
l’espressione di un coniglio che sta per essere ucciso.
Il
Dragoron,
segregato nella torretta, gli concesse appena un’occhiata
priva di interesse:
il ciondolo con la viverna, che spiccava prepotentemente sul
giustacuore di
pelle, era abbastanza esaustivo e Arandil non perse tempo in
presentazioni né
convenevoli, ma superò la torretta e si avventurò
sull’ultimo ponte prima del
vero e proprio Palazzo. Quest’ultimo era una galleria di
arcate a sesto acuto
che permettevano di vedere il paesaggio circostante per brevi e
regolari
intervalli, quando gli archi spaziavano sul cielo circostante, dando
l’impressione di stare galleggiando nel vento.
L’elfo trovava quella
costruzione più sicura e confortante delle precedenti, ma
sapeva bene che anche
quella scelta era stata ponderata a lungo e aveva un fine ben preciso:
la
copertura del ponte, una successione di volte a botte, impediva di
vedere il
Palazzo antistante, lasciando completamente basito e senza fiato il
visitatore
una volta che fosse emerso dal percorso e si fosse imbattuto tutto
d’un tratto
nella grandiosa costruzione.
Due
imponenti statue
di draghi rampanti, in bronzo dorato, accolsero con un minaccioso
sguardo rosso
rubino Arandil, non appena questi oltrepassò
l’arco di pietra che segnava
l’ingresso nel cortile interno del Palazzo. Una fontana di
marmo dominava il
piazzale lastricato, e giochi di acqua e di luce si illuminavano di
cremisi e
di arancione nell’atmosfera sfumata del crepuscolo.
Era
la seconda volta
che l’elfo varcava quella soglia nel giro di poche settimane,
e la prima non
era stato piacevole: si era presentato davanti al Capitolo per chiedere
di
essere sollevato dal suo incarico, era stato guardato con delusione e
compassione dai suoi superiori, e Adam non aveva mancato di fargli
notare
quanto fosse inetto e inadatto al suo ruolo di Cavaliere. Arandil non
mai stato
così frustrato e scontento di sé stesso. Ma
questa volta era diverso: l’Ordine stesso
aveva chiesto di lui e l’aveva convocato, segno che aveva
fiducia nelle sue
capacità e non lo considerava completamente un
inetto…Sempre che il sigillo di
ceralacca fosse autentico e non una copia molto ben riuscita atta ad
ingannarlo
e a prenderlo in giro.
Quando
la missiva
gli era stata recapitata aveva subito pensato ad uno scherzo di cattivo
gusto
da parte di Adam per umiliarlo e ferirlo più di quanto non
facesse da sé, ma il
sigillo era parso autentico, così come la firma in calce del
generale Xendar
Scudo d’Argento; se si trattava di uno scherzo, era stato
davvero ben
congegnato.
Arandil
deglutì,
spaesato di fronte alla magnificenza e alla bellezza che quel luogo
emanava:
davanti a lui si stagliava il corpo principale del palazzo, una specie
di cattedrale
gotica in vetro, decorata da mosaici di cristallo colorato che
tingevano il
piazzale di un caleidoscopio di colori sgargianti. Divorò
con gli occhi quello
splendore all’apparenza fragile eppure forte, di cui non si
sarebbe mai
stancato di cibarsi.
L’elfo
era stato
poche volte a Palazzo e l’edificio serbava i ricordi
più belli e strazianti: la
prima volta che era stato in quello stesso piazzale aveva sei anni ed
era un
piccolo elfo con la testa piena di sogni e lo sguardo pieno di stelle,
avido dell’azzurro
del cielo che lo circondava. Suo padre non era mai stato completamente
d’accordo con la sua scelta di diventare aviatore, avrebbe
preferito che
diventasse un guerriero come lui, o un guaritore come sua madre, o
comunque
qualcosa che fosse davvero utile; così era giunto ad un
compromesso: i Dragoron
erano soldati ma volavano, e ciò accontentava sia il
desiderio dell’immensità
del cielo di uno, sia la prospettiva di un lavoro che avesse una
qualche utilità
dell’altro. All’epoca Arandil era solo un elfo
spaurito e pieno di speranze, e
quell’edificio incredibile l’aveva completamente
conquistato e ingannato con il
suo sensuale splendore, facendogli credere che il suo addestramento, se
fosse
avvenuto in un luogo tanto bello, non sarebbe stato poi così
male.
Purtroppo,
però,
l’istruzione delle reclute avveniva a Evernia, presso
l’Accademia, una distesa
di casermoni di pietra e legno completamente privi di bellezza e grazia
che
abbatterono con un solo sguardo l’iniziale entusiasmo del
giovane. Ben presto Arandil
si rese conto che quella scelta non faceva per lui: la scherma era una
pratica
barbarica e monotona e le armi erano noiose e antiquate, i turni di
guardia
massacranti erano inutili e servivano solamente a fargli prendere
freddo e a
causargli raffreddori insopportabili, gli scontri erano umilianti ed
erano
utili solamente per accrescere l’ego di spacconi e arroganti,
come Adam.
L’unico argomento che aveva risvegliato un minimo di
interesse nel giovane elfo
erano stati i draghi meccanici: quei prodigi di ingegneria e alchimia
avevano
affascinato il ragazzo e l’avevano lasciato senza fiato; da
allora volle
scoprirne tutti i segreti e i meccanismi, e iniziò a
trascorrere la maggior
parte del tempo a spulciare volumi enormi di ingegneria meccanica,
guadagnandosi
il nome di “secchione” e
“sfigato”, e le angherie di Adam che lo considerava
un
perdente e un idiota. Arandil ci dette poco peso e lentamente si chiuse
nel suo
mondo di carta e inchiostro, perso completamente nella contemplazione
di quelle
meraviglie di acciaio. Pian piano l’attrazione per le
creature di metallo e
tubature spinse l’elfo nella direzione di quelle in carne ed
ossa, molto più
incredibili e affascinanti; iniziò a procurarsi e a divorare
libri sui draghi,
imparò tutto su di loro, conosceva a menadito ogni razza, il
suo habitat, le
sue dimensioni, il suo aspetto, la sua dieta e persino il periodo di
accoppiamento; aveva tappezzato il cubicolo che gli avevano assegnato
come stanza
di disegni e riproduzioni di draghi, a volte copiate dai libri, altre
partorite
dalla sua fantasia…era così che aveva preso forma
Krupfer, diventato un
assemblaggio di tutte le informazioni e i progetti che aveva accumulato
nel
corso degli anni.
Ma
il periodo della
scuola non era stato per nulla idilliaco: era stato costantemente
vittima di
vessazioni e prese in giro perché era gracile ed impacciato,
di aspetto
femmineo e dalle movenze misurate e aggraziate, come quelle di una
ragazza; più
volte l’avevano accusato di essere omossessuale o
l’avevano scambiato, volontariamente
o per sbaglio, per una femmina. Inoltre non era mai stato abile con le
armi,
come gli altri ragazzini e nelle prove risultava sempre ultimo: veniva
considerato un ritardato e un incapace, tanto dai suoi compagni quanto
dai suoi
insegnanti; veniva caricato di lavoro supplementare, sgridato,
motteggiato e
umiliato. I turni di guardia più scomodi e negli orari
più assurdi venivano
affibbiati a lui, nella convinzione che l’avrebbero aiutato a
migliorare a
farlo diventare un vero uomo. Non era riuscito a instaurare un rapporto
di
amicizia con nessuno, nessuno condivideva i suoi interessi, e spesso
era
rimasto da solo ed escluso, maltrattato da chiunque e senza nessuno a
cui
appoggiarsi o presso cui trovare un po’ di compagnia e
conforto; lentamente si
era abituato a quella situazione e aveva trovato sostegno nei libri,
chiudendosi ancora più in sé stesso ed
allontanandosi volontariamente dagli
altri e dalla loro compagnia chiassosa e arrogante.
Adam
era sempre
stato il peggiore di tutti: lo aveva torturato in tutti i modi
possibili e
ancora in quei giorni non perdeva occasione per pavoneggiarsi ed
evidenziare
quanto fosse meglio di lui in tutto, abile con qualsiasi tipo di arma,
forte,
intelligente, astuto, coraggioso, affascinante, ligio al suo dovere,
uomo
d’onore e di parola, un Dragoron perfetto e inappuntabile,
che nessuno sarebbe
mai riuscito a eguagliare, tantomeno una nullità come
Arandil.
L’elfo
detestava
profondamente quell’umano e covava il desiderio, nel profondo
del cuore, di
ficcargli una delle sue frecce su per gli sfinteri, di modo che la
smettesse di
fare tanto il gradasso con uno strale piantato nel didietro; ma il
codice
d’onore gli impediva di arrecare qualsiasi danno, di
qualunque tipo, ai
Dragoron investiti di tale carica, che avevano ricevuto la propria
cavalcatura
ed erano diventati cavalieri a tutti gli effetti.
Il
giorno
dell’Investitura era quello che ricordava con più
gioia: era stato quando aveva
ricevuto Krupfer, brillante e maestoso nella luce smagliante del primo
pomeriggio di quella calda giornata di primavera, quando tutti gli
alunni che
avevano completato il percorso di addestramento erano stati intabarrati
in
armature di cuoio bollito e rinchiusi in elmi che si erano, ben presto,
trasformati in forni bollenti, facendoli sudare e sbuffare
copiosamente.
Allineati in quello stesso cortile, come un corpo di fanteria
dell’esercito, a
uno a uno erano stati chiamati per prestare giuramento e ricevere il
proprio
drago assieme al Sigillo che li avrebbe legati indissolubilmente ad
esso, fino
a quando morte non li avesse separati.
Arandil
sfiorò la
nuca, dove era stato impresso il suo Sigillo, lo stesso che brillava
sulla
fronte di Krupfer: la runa Aran, che costituiva l’iniziale
del suo nome, e
nella sua lingua significava “splendente, eccelso”;
quella runa era stato il
frutto di un processo lungo e complicato, in quanto, avrebbe
rappresentato il
legame tra drago e cavaliere. Quel simbolo aveva imbrigliato parte
della
volontà di Arandil sigillandola nel drago, di modo che
rispondesse solo a lui e
che una volta che il suo padrone si fosse dissolto, il drago si sarebbe
smembrato e non sarebbe stato utilizzabile da nessun altro.
Le
sensazioni che
aveva provato durante quel rituale erano state contrastanti e difficili
da
spiegare, tanto erano parse surreali e inusuali: la percezione di
sentire una
parte della propria coscienza separarsi, diventare estranea eppure
ancora
collegata a lui e percepire, in una sorta di coma, che veniva
imprigionata e
stretta in quel contenitore, in quel sigillo, spettatore e attore
dell’intera
procedura con una parte di lui che osservava ciò che
l’altra parte sentiva e
percepiva. Una sensazione simile gli era capitata la sera prima, quando
per
festeggiare la fine di quel calvario, aveva accettato di festeggiare
con i suoi
compagni di corso e si era sottoposto al loro malsano esperimento:
volevano
testare la provvidenziale resistenza degli elfi, che si diceva
reggessero molto
bene all’alcol e non bastassero quattro barilotti di rum a
farli ubriacare.
Arandil ne aveva trangugiato al massimo uno e già percepiva
come la testa
scollegata dal resto del corpo e quest’ultimo che si muoveva
con un leggero
ritardo rispetto al comando mentale, era stata una sensazione
stranissima,
estraniante ed estremamente spiacevole: era come muovere il proprio
corpo e
vederlo muovere contemporaneamente, assolutamente da non ripetere.
Da
allora, bastava
un pensiero indirizzato al drago perché questo eseguisse
esattamente la sua
richiesta: sussurrava “fuoco” nella mente e il
drago sbuffava, spandendo dai
tubicini il suo fumo velenifero e altamente infiammabile.
Poi
c’era stato il
giorno in cui aveva ricevuto il suo primo incarico: si aspettava
qualcosa di
più formale e solenne, ma il generale Xendar
l’aveva convocato nel suo ufficio
tetro e angosciante, comunicandogli brevemente quale sarebbe stato il
suo
compito, in maniera succinta e pratica, senza fronzoli o qualsiasi
altro
orpello Arandil si era immaginato. Era stato piuttosto deprimente e
deludente.
Successivamente
le
sue missioni gli erano state affidate direttamente mediante una
missiva, mentre
si trovava impegnato a svolgere un altro incarico o appena tornava nel
suo
desolante appartamento perciò trovava alquanto sospetto e
preoccupante venire
convocato dal Xendar e soprattutto dal Capitolo per un colloquio faccia
a
faccia, la questione doveva essere estremamente delicata e pericolosa e
Arandil
non attendeva altro.
|
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Capitolo 7 *** VI ***
A
Morgengabe, che attendeva(no) con ansia il capitolo
VI
Ancora
una volta
Arandil si era ingannato: credeva che, data la comunicazione solenne e
grave,
sarebbe stato ricevuto nell’Aula Magna, dove venivano accolti
nobili e
mercanti. Invece, si ritrovò un’altra volta
nell’angusto e soffocante stanzino
del generale Xendar.
Quest’ultimo era
un umano di corporatura robusta e di altezza portentosa, anche per
quelli della
sua razza, e occupava la maggior parte dello spazio respirabile di
quell’antro scuro.
Gli esigui pertugi rimanenti erano stati occupati dai tre membri
più eminenti
del Capitolo. Questo mise in allarme l’elfo: era raro che i
membri si
premurassero di affidare le missioni ai Dragoron, solitamente
delegavano il
compito ai generali. La loro presenza era sinonimo di gran brutte
notizie.
Avvolti in tuniche
nere o viola dalle maniche svolazzanti, somigliavano a tre corvi,
volatili
portatori di cattive novelle: soprattutto il reverendo Asmodeus, con il
suo
lungo naso a becco e i piccoli occhietti neri da rapace, il primo che
incontrò
non appena mise piede nella stanza, mettendolo immediatamente a disagio.
«Arandil» lo
accolse Xendar, senza aggiungere altro.
L’elfo piegò
leggermente il capo in segno di saluto e rispetto, i membri del
Capitolo ricambiarono,
rigidi e cupi. Erano Dragoron ormai troppo vecchi per poter cavalcare o
anche
solo sollevare un’arma che non fosse un bastone di legno, e
cercavano di
sopperire alla mancanza di adrenalina nella loro vita con tutta
l’acidità,
l’antipatia e l’arroganza di cui erano capaci,
dando fondo a tutte le loro
risorse per rendersi quanto più odiosi e spocchiosi
possibile. Il loro compito
era coordinare l’attività dell’Ordine,
scegliere gli incarichi che più gli
convenivano e decidere a chi assegnarli, prelevare i compensi promessi
e
dividerli con chi aveva svolto l’incarico, giudicare
l’operato di un Dragoron e
la sua condotta, selezionare i futuri cavalieri e sollevare dal gravoso
compito
quelli che non ritenevano più idonei, donare cariche e
titoli, occuparsi
dell’addestramento delle reclute scegliendo per esse i
migliori e più
inflessibili insegnanti. Ma soprattutto, erano i depositari dei
processi
segreti riguardanti la costruzione dei draghi meccanici e del
meccanismo che
permetteva loro di svegliarsi, muoversi e sputare fuoco.
Finché si trattava
di costruire un involucro di metallo e acciaio anche il più
inetto dei fabbri
sarebbe stato all’altezza del compito, ma quando si trattava
di infondere vita
alla macchina e accenderla, allora subentravano i membri del Capitolo,
con il
loro prezioso carico di conoscenze tramandato da membro a membro.
Nessuno
sapeva come i draghi si animassero e in cosa consistesse realmente
l’Accensione
-che permetteva al drago meccanico di non essere una semplice macchina,
ma un
complesso sistema capace di muoversi autonomamente, di avere
un’energia propria
che mettesse in funzione tutti gli ingranaggi e i congegni e di
poter
essere legato indissolubilmente a un’anima senziente- i
membri del Capitolo
erano gli unici depositari di quei segreti. Corban era uno dei membri
più
anziani, ed era uno dei pochi a conoscenza del processo che permettesse
la
formazione e l’instaurazione del Sigillo. Era lui uno dei tre
membri, ingobbito
nella veste nera, che faceva saettare lo sguardo da una parte
all’altra del
minuscolo spazio, irrequieto.
«Sei stato
convocato per un incarico molto importante e delicato»
esordì il generale, il
suo superiore più prossimo. Aveva sempre detestato
quell’uomo: per anni gli
aveva affibbiato gli incarichi più ingrati e mortificanti o
difficili da
svolgere, solo perché aveva una mente chiusa e retrograda, e
non aveva mai
visto di buon occhio gli elfi, reputandoli una razza subdola e
ingannatrice…come se gli uomini non fossero da meno.
Anche in quel
momento il suo sguardo porcino trasudava disprezzo e arroganza, e le
sue labbra
carnose erano distorte in una smorfia di disgusto, quasi si fosse
trovato
davanti dello sterco di vacca.
Arandil sospirò:
l’introduzione prometteva già grane e il fatto che
il Capitolo fosse lì serviva
solo a rendere il tutto più preoccupante.
«Il Capitolo ha
una missione importantissima da darti» continuò,
accrescendo la sua apprensione.
Asmodeus si
schiarì la gola e cercò di farsi spazio per
superare la possente mole di Xendar
e riuscire a vedere l’elfo direttamente negli occhi e non
attraverso i peli
biondi delle braccia del generale.
«Si tratta di
Krugar Mano Scarlatta»
«Ma io mi sono
ritirato da quell’incarico!» lo interruppe
bruscamente Arandil guadagnandosi una
fulminata da Xendar e un’occhiata di rimprovero da Asmodeus.
«Ne siamo
perfettamente al corrente» replicò,
accentuando la nota nasale e altezzosa
della voce, «E siamo anche al corrente che tu sia
l’unico, oltre ad Adamantius
Browning, ad aver avuto a che fare con questo soggetto.»
Arandil aveva
sempre trovato che Adamantius fosse un nome da checca, ancor
più del suo.
Almeno “Aran-dil” aveva un significato che incuteva
stima e rispetto: splendente germoglio, uno dei
nomi
portati dai più rispettati e nobili della sua gente;
Adamantius serviva solo a
sottolineare la presunzione e la boria del suo possessore.
«Per questo
abbiamo pensato a voi per questo incarico» si intromise
Crevan in tono gentile,
era l’unico ad averlo trattato con rispetto e senza ostentare
un’aria di
superiorità, e l’elfo ebbe il sospetto che fosse
stato scelto proprio perché
facesse da paciere e lo rabbonisse. Arandil era diventato famoso per
essere
piuttosto suscettibile, sebbene si reputasse la persona più
paziente del mondo. Tranne quando aveva a che fare con Adam.
«Possedete già
parecchie informazioni su Krugar e la sua imbarcazione, e sapreste come
muovermi e agire meglio di chiunque altro.»
Ad Arandil non
sfuggì il palese tentativo di ingraziarselo, e nonostante
detestasse i leccapiedi,
apprezzò le parole dell’uomo che lo scrutava in
modo tanto dolce e benevolo,
mentre tutti gli altri continuavano ad incenerirlo con lo sguardo.
«Di cosa si
tratta?» sospirò. Non che avesse altra scelta: i
Dragoron erano invitati ad
adempiere agli incarichi che gli venivano assegnati, e mettere in
discussione
le decisioni dei propri superiori poteva essere interpretato con una
ribellione
e un atto sovversivo e pericoloso, che minava l’ordine, il
rigore e i principi
dell’Ordine; un Dragoron doveva essere completamente dedito
alla propria
attività, qualunque essa fosse, sia se appagante e
stimolante sia se noiosa e
mortificante. Per questo l’elfo aveva accettato qualsiasi
merdata gli avesse
imposto Xendar senza mai emettere un fiato.
«È un po’
imbarazzante da dire» iniziò Corban tentennante.
«Suvvia Corban,
sappiamo che certe cose possono succedere» lo
rincuorò Crevan.
Arandil era sempre
più incuriosito: cosa diamine era successo? Adam ne era
forse coinvolto?
Le sue orecchie a
punta, irte di anelli di bronzo e argento, si drizzarono, attente e
pronte a
captare le parole successive.
«Browning è stato
rapito» dichiarò Xendar con i suoi soliti modi
spicci.
«Rapito?» gli fece
eco l’elfo incredulo. Perché mai Adam, il Dragoron
perfetto, era stato rapito
da un pirata che – sue testuali parole- non era nemmeno
capace di distinguere
le proprie natiche dal proprio viso tanto erano brutti, pelosi e
puzzolenti
entrambi.
«È una grande
sventura!» esclamò Crevan drammatico,
«è uno dei nostri migliori Dragoron e non
possiamo permetterci di perderlo!»
Se era uno di
Dragoron migliori perché, allora, era stato sconfitto da
Krugar?
L’orco era
intelligente e pieno di risorse e armi all’avanguardia, ma
Adam era sempre
stato il migliore in ogni corso e in ogni missione, aveva sempre
ottenuto
risultati grandiosi, era sempre stato inneggiato a eroe e additato come
esempio
di perfezione. Come era caduto nelle mani dell’orco?
«Ne siete sicuri?»
sfuggì ad Arandil, prima che potesse contenersi: la sorpresa
e l’incredulità
erano troppo forti. Asmodeus li lanciò un’occhiata
di fuoco e Xendar abbandonò
il viso contro una mano, scuotendo vigorosamente la testa.
«Abbiamo la
certezza che Adamantius, in questo momento, sia prigioniero di Krugar,
detenuto
sulla sua nave» rispose Crevan con la sua voce flautata da
eunuco. Arandil non
aveva mai capito se fosse stato veramente evirato o fosse solo una
caratteristica della sua voce, così come Asmodeus
l’aveva nasale e ovattata e
Corban tonante e cupa.
«E tu dovrai salvarlo» concluse
Xendar, arrivando al nocciolo della questione.
«Salvarlo?» ripeté
meccanicamente Arandil, senza riuscire a capacitarsi di ciò
che gli era appena
stato detto: lui, il più inetto e incapace tra i cavalieri,
il bersaglio per
anni di ingiurie e prese in giro, la vergogna e il disonore
dell’Ordine era
stato incaricato di salvare Adam, l’emblema dei Dragoron,
l’eccelso e
inappuntabile, che per anni l’aveva denigrato e massacrato
tanto a parole
quanto a pugni?
L’elfo avrebbe
tanto voluto scoppiare a ridere, e si aspettava che da un momento
all’altro uno
dei membri del Capitolo si sciogliesse in una grassa risata
rivelandogli che
era tutto uno scherzo; sperava che accadesse, ma i volti mortalmente
pallidi e
seri dei Dragoron gli fecero intendere che fosse la verità,
per quanto assurda.
«Pensi di poter
portare a termine questo incarico?» lo provocò
Corban. Adam era il suo protetto
e pochi giorni prima aveva richiesto un colloquio privato con lui,
designandolo
come suo erede e tramandandogli tutte le sue conoscenze. Arandil capiva
perché
fosse tanto in apprensione: se Krugar avesse scoperto che Adam sapeva i
segreti
che si celavano dietro la costruzione dei draghi, avrebbe preteso di
venirne a conoscenza
e avrebbe torturato e costretto Adam a svelarli. Non solo la vita di un
uomo,
ma la sicurezza e il potere dell’Ordine stesso erano a
rischio. Adam
probabilmente non avrebbe proferito una sillaba, ma non si poteva mai
esserne
certi finché fosse rimasto tra le grinfie del pirata.
«Capisci perché
non possiamo affidare la missione a nessun altro?» riprese
Crevan avvicinandosi
a lui con fare paterno, «Se altri venissero a conoscenza di
questo increscioso
incidente, l’intera reputazione dell’Ordine
verrebbe messa a repentaglio: se
anche il migliore dei nostri Dragoron può essere sopraffatto
da un pirata
qualunque, chi assicura che siano davvero così forti,
invincibili e capace come
si è creduto fino ad adesso?»
«Se questa storia
dovesse diffondersi, perderemmo la nostra credibilità e i
nostri clienti:
sarebbe la nostra rovina» esalò Corban. Sembrava
il più preoccupato e agitato
di tutti: temeva per il suo protetto e per le informazioni che recava
con sé e
che era stato lui a fornirgli.
«È stato avventato
da parte tua consegnarli tutto quel carico di conoscenze e
segreti» lo
rimproverò aspramente Asmodeus.
«Non avevo idea di
quello che sarebbe successo!» si difese l’altro.
«Suvvia, non è
questo il momento adatto per sollevare simili questioni. Quel che
è successo è
successo, non si può tornare indietro e cambiare il passato,
ma si può
rimediare agli errori passati nel presente; fortunatamente una
soluzione a
questo inconveniente c’è e l’abbiamo qui
davanti a noi. Arandil è un buon
Dragoron, conosce tanto il nostro nemico quanto le sue armi, le sue
capacità e
le sue risorse. È un ragazzo sveglio e agile, e non
dimenticate la sua
Abilità.»
Alcuni Dragoron
possedevano qualche briciola di magia nel sangue, retaggio di avi che
possedevano capacità magiche, che nel corso di generazioni
si erano trasmesse
di padri in figli. Queste scintille di magia si manifestavano con
abilità del
tutto particolari che fornivano ai cavalieri un’arma in
più, erano capacità
fortemente limitate e che nulla avevano a che vedere con la potenza
sprigionata
dagli antenati; non tutti la sviluppavano e in pochi erano in grado di
padroneggiarla senza arrecare danni a sé o agli altri.
Arandil poteva
controllare la mente umana per poco meno di ventiquattro ore, mentre
Adam
poteva rendere invisibile sé e gli oggetti che toccava per
un tempo circoscritto.
«Sarai
perfettamente in grado di portare a termine questa missione»
ammiccò Crevan.
Arandil annuì
sicuro. Era l’occasione che stava aspettando: avrebbe
riscattato non solo la
sua reputazione, dimostrando di non essere quell’incapace che
tutti sostenevano,
ma avrebbe potuto dimostrare di essere meglio di Adam e avrebbe potuto
ripagarlo di tutti gli anni di inferno che aveva trascorso per causa
sua.
Inoltre avrebbe finalmente catturato quel pirata, portando a termine
due
incarichi e strappando dalle mani di Adam lo scettro di
“Dragoron migliore”.
L’elfo abbassò il
capo, accettando formalmente l’incarico, sebbene fosse stato
già assodato che
sarebbe stato lui a compierlo: era l’unico che non avrebbe
sparso la voce, non
conoscendo nessuno a cui spifferarlo. Il fatto che fosse
l’unico ad aver avuto
a che fare con Krugar era solo una banalissima scusa per celare la
verità: non
avendo stretto rapporti con gli altri Dragoron,
l’imbarazzante accadimento
sarebbe rimasto solo tra loro cinque.
«Quindi è deciso!»
esclamò Asmodeus, «Manderemo questo…elfo a trarre in
salvo il nostro miglior
cavaliere.»
Ad Arandil non
sfuggì lo scetticismo con cui pronunciò quella
frase, malamente mascherato dal
sarcasmo.
«È la soluzione
migliore» confermò Crevan.
«E la meno
vistosa» commentò Corban esternando il pensiero
generale.
«Confidiamo in te»
gli sorrise Crevan prima di arrancare fino alla porta e sparire in uno
svolazzo
di stoffa viola, seguito da Asmodeus e un’occhiataccia di
Corban.
«Ti viene
accordata una grande fiducia, Arandil» borbottò
Xendar, non appena rimasero da
soli nella stanza. Ora che erano rimasti solo loro due, pareva meno
soffocante.
«È un’opportunità che non va
sprecata.»
Come
se non lo sapessi,
alzò gli occhi al cielo Arandil. Trovava inutile che Xendar
ribadisse concetti
ovvi, come se fosse stato una matricola tarda e non un Dragoron con una
propria
cavalcatura...Bisognava precisare, però, che
nell’ultimo periodo si fosse
comportato più come la prima.
«Vedi di non
deluderli» si raccomandò Xendar come commiato
«Ne va dell’incolumità
dell’intero ordine.»
Grazie
dell’incoraggiamento.
|
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Capitolo 8 *** VII ***
VII
Il
porto di
Valamer era gremito di navi, aeronavi e persone, caratteristica comune
a tutte
le città di confine.
La parte bassa
della città, la più infamata e pericolosa, che
proliferava all’ombra della
parte sospesa., trattenuta da pesanti catene di acciaio, ospitava il
porto per
le navi che viaggiavano sull’acqua e Arandil vi si aggirava
con aria fintamente
noncurante, quasi stesse passeggiando per ammirare le imbarcazioni che
vi erano
attraccate. Dubitava che Krugar avesse ormeggiato la sua nave in bella
mostra,
ma l’elfo aveva imparato che spesso il modo migliore per
nascondere qualcosa
era metterla bene in vista; inoltre l’ultimo posto dove si
sarebbe cercata
un’aeronave era proprio quello: chi mai avrebbe ormeggiato
una nave che solcava
i venti e le nubi tra vascelli che scivolavano leggiadri
sull’acqua?
L’elfo era sicuro
che il pirata si trovasse lì, o quantomeno ci fosse stato di
recente: il
segnale del drago meccanico di Adam l’aveva condotto fino a
quella città dalla
dubbia reputazione, con un governo autonomo e indipendente
dall’impero, sebbene
formalmente legato ad esso. Essendo una città che confinava
con i territori
inospitali del Nord, popolati per la maggior parte da belve feroci,
draghi,
Vandali e fuorilegge, la città necessitava di truppe stabili
e fisse, ma
l’impero si era rifiutato di sguarnire altri territori per
proteggere quella
cittadina sordida all’estremo confine settentrionale e
Valamer si era munita di
un proprio esercito. Non volendo sobbarcarsi anche l’onere di
gestire le rogne
date dalle numerose incursioni di Vandali, draghi, banditi e
quant’altro,
l’impero aveva concesso a Valamer uno statuto speciale, che
nel corso degli
anni e dell’aumento della propria importanza e potenza, aveva
assunto le
sembianze di un governo a sé stante, in apparenza soggetto
all’impero ma in
realtà completamente autonomo e indipendente. Ogni anno
l’impero nominava un
satrapo da spedire in quel cubicolo dimenticato da tutti, ma il
funzionario non
lo raggiungeva mai, fermandosi in qualche cittadella più
civilizzata, meno
losca e inquietante. Proprio perché non soggetta alle leggi
che governavano il
resto dei territori, Valamer raccoglieva la feccia della
società: i più
disgraziati, meschini, perseguitati e sospetti individui avevano
trovato
rifugio tra le mura di pietra della città, potendo
continuare la loro vita
dissoluta lontano da una condanna a morte, dai debiti e dalla vita
precedente.
Al governatore
poco importava chi abitasse le proprie case, bastava che fossero
disposti a
prendere le armi quando fosse stato necessario e a pagare le tasse, non
chiedeva nient’altro.
Ad Arandil non
sorprese che il pirata si fosse rifugiato tra quelle palazzine color
carbone e
che si fosse trascinato dietro Adam; ciò che lo lasciava
perplesso era il fatto
che il segnale emesso dal Sigillo si fosse spento improvvisamente.
Ciò,
solitamente, significava che il proprietario del drago era morto, e che
lo
stesso drago si sarebbe disintegrato entro breve. L’elfo
esitava a credere che
l’orco avesse commesso una mossa tanto avventata e sciocca:
non avrebbe potuto
uccidere Adam senza aspettarsi di trovarsi un plotone di Dragoron alle
calcagna; ma ciò non toglieva che avrebbe anche potuto
farlo, a suo rischio e
pericolo. Arandil pregava che ad Adam non fosse successo nulla, o la
sua
missione sarebbe stata vana: se fosse morto non avrebbe mai potuto
avere il suo
riscatto e la sua rivincita, sarebbe fallito miseramente e la vergogna
dell’inettitudine l’avrebbe marchiato a vita. Non
aveva mai provato tanta
preoccupazione per quel damerino indisponente.
Finalmente gli
parve di scorgere, incuneato tra due navi da guerra,
l’inconfondibile scafo
dell’Andromeda. Un sorriso si fece largo tra le labbra
sottili.
Sempre ostentando
indifferenza si avvicinò alla nave e la studiò,
cercando di non farsi notare:
il ponte sembrava deserto, così come il resto del vascello;
probabilmente erano
scesi per fare rifornimento o per altri scopi più sanguinari
e meno piacevoli.
Arandil non volle soffermarsi su quella possibilità per
più di un istante;
sperò che Adam fosse sulla nave, tenuto prigioniero nella
stiva e guardato a
vista da due pirati dal cervello fino che avrebbe potuto controllare
senza
problemi. In quel momento vide un’ombra sul ponte, si
appiattì contro i barili
di pesce dietro cui si era nascosto e osservò due pirati
trasportare un ammasso
di metallo scintillante.
Arandil lo
riconobbe come Silvershade, la cavalcatura di Adam; sembrava spento, ma
dalla
sua posizione non poteva constatare la condizione del Sigillo e
affermare se il
cavaliere fosse ancora vivo.
Aspettò che i due
gli passassero accanto e carpì la loro mente. I pirati
rimasero imbambolati per
un momento, immobili nel bel mezzo del pontile e in uno stato
catatonico, segno
che Arandil stava penetrando nelle loro menti. Soggiogarle fu
semplicissimo: erano molto semplici e grette. Non che si aspettasse
chissà quale
cima in una ciurma di pirati, ma non credeva nemmeno che sarebbe stato
così
facile ammaliarli.
Siete
pirati di Krugar Mano Scarlatta? Domandò
loro per via mentale, voleva essere certo che quella fosse la nave
giusta e
l’orco non avesse provato a ingannarlo in qualche modo:
avrebbe sempre potuto
prendere un’altra nave e lasciare l’Andromeda al
porto come falsa pista. I due
pirati, però, confermarono con un breve cenno del capo.
Ditemi
dove tenete il prigioniero comandò
loro e i due non esitarono a
spiegare, specificando che fosse controllato da diversi uomini e che
fosse
legato e impossibilitato a fuggire.
Krugar
è sulla nave?
Domandò, voleva essere sicuro che non ci fosse traccia del
capitano; gli uomini
risposero che era sceso con la maggior parte della ciurma a far
baldoria in
qualche bettola dal nome impronunciabile.
L’arrogante
aveva
pensato bene di lasciare il proprio prezioso carico in custodia ad una
decina
di uomini, mentre lui se la spassava con il resto dei suoi uomini: una
leggerezza che poteva rivelarsi fatale.
Arandil
li
ringraziò e abbandonò le loro menti non prima di
avergli ordinato che, non
appena avessero sentito la parola “rum”, avrebbero
iniziato a starnazzare come
delle oche e a sbattere le braccia come fossero ali.
A
volte, l’elfo,
adorava la propria abilità, sebbene durasse per poco tempo e
non potesse
sottomettere troppe persone contemporaneamente.
Con
la stessa
tecnica eluse la sorveglianza e giunse nella stanza dove Adam era
legato ad una
delle ossa che perforavano la stiva e la sostenevano.
«Cosa
ci fai qui?»
sussurrò, non appena vide la figura longilinea di Arandil
avvicinarsi a lui.
«Salvo
il tuo bel
culetto» rispose l'elfo con un sorriso di scherno: trovava la
situazione
alquanto spassosa e ironica, e se la sarebbe goduta fino in fondo.
«Non
ho bisogno
del tuo aiuto, lenticchia. Ho tutto sotto
controllo» sibilò l'altro.
«Quindi
essere
legato come un salame nella stiva della nave del pirata che avresti
dovuto
catturare, fa parte del tuo piano?» commentò
sarcastico l’elfo mentre il suo
sorriso si allargava.
«Sì»
rispose
piccato Adam, come un bambino capriccioso e viziato, «E mi
domando perché il
Capitolo abbia sentito il bisogno di mandare te a
salvarmi, non sono una principessa in pericolo.»
«Ma
ne hai tutta
l'aria» lo punzecchiò l’altro.
Adorava potersi finalmente vendicare di
tutte le volte in cui Adam lo aveva preso in giro e torturato per tutti
quegli
anni, quando era lui ad essere lo sfigato di turno che preferiva
trascorrere il
suo tempo sui libri a studiare i draghi piuttosto che mettersi in
mostra come
faceva l'umano. In quel momento, invece, era il bellimbusto popolare ad
avere
bisogno del secchione, e Arandil l'avrebbe aiutato, che gli fosse
piaciuto o
meno.
«Ripeto
che non ho
bisogno di aiuto» scandì Adam, «Meno che
mai del tuo!»
«Possiamo
rimanere
qui a battibeccare tutto il giorno come due vecchi sposini oppure,
possiamo organizzare
un piano per liberarti, catturare Krugar e lasciare questa nave senza
lasciarci
le penne» sospirò Arandil, che stava iniziando a
spazientirsi, «Tu hai il
potere di schermare gli oggetti per breve tempo e io posso soggiogare
la mente
delle persone per ventiquattro ore, se uniamo le forze e sfruttiamo
queste
capacità, possiamo uscirne vivi e anche
vittoriosi.»
«Piuttosto
che
abbassarmi a collaborare con uno come te, preferisco farmi gettare
fuori bordo»
protestò Adam, «Ho sempre lavorato da solo e sono
riuscito magnificamente in
ogni impresa, portando a compimento qualsiasi incarico mi venisse
affidato. Tu,
invece, non sei ancora riuscito a concludere il benché
minimo compito, nemmeno
il più semplice, cosa ti assicura che non
succederà anche per questo?»
Arandil
si
trattenne dal tirargli un cazzotto sul naso e farlo tacere, anche
legato e
rinchiuso in una stiva, era capace di farlo sentire una
nullità e un incapace,
sbattendogli in faccia la sua incompetenza e la sua
mediocrità rispetto
all'eccelso e ineguagliabile Adam Browning. Per un attimo,
accarezzò l’idea di
lasciarlo lì e riferire al Capitolo che il cavaliere era
stato ucciso dai
pirati prima che potesse raggiungerlo, ma qualcosa dentro di lui, il
senso
dell'onore, forse, o quel disperato bisogno di riscatto, lo fecero
desistere.
Prese un altro, lungo sospiro e, ignorando le frecciatine del Dragoron,
espose
il suo piano.
«Aspetteremo
che
la nave scenda per fare rifornimento e a quel punto agiremo: tu ci
schermerai
con il tuo potere, mentre io userò il mio per fare in modo
che i pirati
collaborino con noi e ci lascino andare; purtroppo, l'effetto del mio
potere
sarà meno duraturo, dal momento che dovrò
controllare una decina di persone
contemporaneamente, ma dovrebbe darci il tempo necessario per
fuggire...»
«E
con Krugar come
la mettiamo?» lo interruppe Adam inarcando un sopracciglio.
«Al
momento non è
sulla nave» riferì Arandil.
«Come
pensi di
catturarlo, allora?» chiese il cavaliere, «Inoltre,
ti ricordo che su questa nave
c'è anche il mio drago, e non ho intenzione di lasciare
Silvershade nelle mani
di questi bifolchi!»
«Oh,
Adam è
innamorato del suo draghetto e non vuole lasciarlo
solo» lo prese in giro
Arandil.
«Sei
proprio una
testa di cazzo» fu il commento dell'altro,
«Silvershade non è un semplice
drago, e lo sai benissimo! Per quanto il Sigillo impedisca ai pirati di
usarlo,
possono sempre smontarlo e studiarlo, scoprendo come funzionano i
draghi
meccanici, a quel punto potrebbero replicarli e allora sarebbe la
fine!»
L'elfo
non
aveva minimamente preso in considerazione questa
eventualità: aveva sempre
creduto che i draghi meccanici fossero un'esclusiva dei Dragoron e che
il
segreto per la loro realizzazione fosse impossibile da scoprire tanto
era ben
custodito e protetto; ma non c'era bisogno di conoscere la procedura
quando vi
si poteva risalire, avendo la possibilità di analizzare un
drago in metallo,
bulloni e giunzioni.
«Non
ci avevo
pensato» si lasciò sfuggire il giovane.
«Ecco
perché sono
io il migliore» lo rimbeccò l'altro.
Tutta la sicurezza di Arandil era
crollata in un istante, abbattuta da Adam: credeva che il suo fosse un
piano
geniale e perfetto, per quanto tratteggiato solo nelle linee generali, ma
proprio
perché non aveva considerato tutti i particolari e le
eventualità, si era
rivelato fallimentare.
«Allora,
qual è il
piano?» domandò l'elfo, riconoscendo, a
malincuore, la superiorità dell'altro.
Se volevano avere anche una minima possibilità di uscire
vivi da quella nave
dovevano mettere da parte le divergenze e collaborare, questo implicava
giungere a dei compromessi e Arandil era disposto a farlo.
Adam,
però, non
ebbe il tempo per esporre la sua idea perché un paio di
pirati fecero irruzione
nella stanza.
«Cosa
ci fai tu
qui?» lo apostrofò uno dei due, il più
grosso e nerboruto, con la bocca
nascosta da una barbaccia biondo sporco. Aveva ancora la mente
annebbiata dal
controllo che l’elfo esercitava ed era convinto che questi
fosse un mozzo.
«H-ho
portato da
mangiare al prigioniero» balbettò l'elfo
non trovando una scusa migliore.
«Mangerà
più
tardi» replicò l'altro, senza indagare oltre,
«Il capo vuole vederlo.»
«Perché?»
domandò
Arandil, «Krugar non era sceso dalla nave?»
«È
ritornato»
rispose l’energumeno, «E vuole parlare con il
Dragoron.»
«Non
sono cose che
ti possano interessare, mozzo»
rispose bruscamente l’altro, dando uno strattone al cavaliere
per farlo alzare
da terra, «Ora sparisci! Va a lucidare il ponte o a lavare le
pentole o a
pelare patate. Avrai qualcosa da fare piuttosto che ciondolare in giro
e
impicciarti di affari che non ti riguardano!»
Prima
che l'elfo
potesse anche solo formulare mezzo pensiero, i due uomini si
allontanarono
trascinandosi dietro un Adam ricalcitrante; non appena i due sparirono
oltre la
botola, Arandil riuscì a riprendersi dalla sorpresa il tempo
necessario per
rendersi conto che era davvero una testa di cazzo: avrebbe potuto
approfittare
della mente soggiogata dei due uomini e fuggire.
Ma
ora che ci
pensava meglio, non sarebbe stata una grande idea: se Krugar voleva
vedere
Adam, e Adam non si fosse presentato, avrebbe intuito che
c’era qualcosa che
non andava. Forse era meglio che fosse andata così.
Arandil
scivolò
fuori dalla botola e iniziò a seguire i due uomini cercando
di ostentare
sicurezza e indifferenza, come se fosse stato incaricato anche lui di
raggiungere la cabina del capitano; sarebbe parso sospetto un mozzo che
si
aggirava furtivo e nell'ombra, come se avesse avuto qualcosa da
nascondere.
Adam
si accorse
dell'elfo che camminava tranquillamente dietro di loro e
spalancò gli occhi per
poi esalare un sospiro rassegnato, domandandosi, probabilmente, che
cosa avesse
in mente quell'idiota incosciente, ma non proferì parola e
si lasciò
trasportare dai due ceffi fino alla cabina del capitano.
«Accomodati
Adam»
esordì l’orco, non appena il cavaliere fece il suo
ingresso nel locale, «Non
vorrei mai che pensassero che tratto i miei ospiti senza alcun
riguardo.»
Krugar
fece cenno
ai due uomini di lasciare la stanza, Arandil riuscì a
sgusciarvi dentro un
momento prima che chiudessero la porta, e si nascose velocemente dietro
un
divano.
«I
tuoi ospiti?»
gli fece eco il Dragoron inarcando il sopracciglio, «Hai una
strana concezione
di questa parola se per te un ospite è un uomo abbattuto con
un arpione, legato
e abbandonato in una stiva umida e buia.»
«Devo
mantenere
una copertura con i miei uomini» gli rispose l’orco
iniziando a giocherellare
con una sfera di bronzo su cui erano stati incisi i continenti,
«Per loro tu
sei ancora un prigioniero, un nemico. Sono uomini semplici, che
distinguono il
bianco e il nero, non capiscono ragionamenti troppo complicati e non
colgono le
sfumature» La conversazione aveva preso un tono confidenziale
che aveva
lasciato spaesato l’elfo, così come le parole
stesse dell’orco: che cosa
intendeva con copertura? E se Adam era sotto copertura, che cosa era in
realtà?
«Sarebbe
difficile
fargli capire che uno dei Cavalieri che per mesi ha provato ad
eliminarci, in realtà
è il nostro datore di lavoro»
L’intera
situazione appariva assurda e senza senso agli occhi di Arandil:
perché Adam
avrebbe dovuto servirsi del pirata che era stato incaricato di
sconfiggere. Che
fosse tutto parte di un piano più grande di cui lui era
all’oscuro? Ma in quel
caso, perché mandarlo a salvare qualcuno che non aveva
bisogno di essere
salvato?
«Ora
basta con
queste divagazioni» si riscosse l’orco, appoggiando
la sfera sul piano della
scrivania, «Passiamo alle cose importanti: gli affari. Quando
mi svelerai il
segreto dei draghi meccanici?»
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Capitolo 9 *** VIII ***
VIII
Arandil
soffocò un
grido di sorpresa: Adam, l’inappuntabile, eccelso e
glorificato Dragoron che
veniva portato come vessillo di onore, lealtà e
onestà, in realtà era un
traditore! La scoperta era troppo assurda e inverosimile per essere
reale e
veritiera, l’elfo non riusciva a capacitarsene e temette di
star sognando: Adam
sarebbe stato davvero disposto a svelare quei segreti preziosissimi? In
cambio
di cosa?
«Non
appena avrò i
miei cuori di drago e ritorneremo dalle Kal Schelas, ti farò
assistere alla
creazione dei draghi, così tu stesso potrai avere il tuo
esercito personale,
marciare alla volta del Dente Spezzato e riconquistare il tuo nome e il
tuo
onore!»
L’elfo
non riusciva
a credere alle proprie orecchie: oltre che tradire il proprio Ordine
voleva
anche usare le proprie conoscenze per scopi personali, magari per
sovvertire
l’ordine e diventare il nuovo imperatore!
I
Dragoron
prestavano un giuramento proprio per evitare che la loro evidente
potenza
diventasse un mezzo per soddisfare i propri interessi e le proprie
brame, per
piegare altri al proprio volere e diventare dei sovrani incontrastati.
Erano un
Ordine al servizio della comunità, senza scopi di potenza o
dominio; chiunque
avesse mostrato segnali che andavano contro questo cardine veniva
immediatamente destituito dal suo incarico.
Adam
aveva recitato
bene in quegli anni, indossando la maschera del Dragoron perfetto e
sottomesso
ai principi per i quali aveva giurato, tramando in segreto per
sovvertirli
completamente, per abbindolare ed ingannare il Capitolo e farsi donare
quelle
preziose informazioni che avrebbe usato contro di loro!
Questa
volta Arandil
non riuscì a reprimere un singulto di sorpresa e fece
scoprire il suo nascondiglio,
Krugar e Adam si voltarono nella sua direzione e lo trovarono
accucciato dietro
lo schienale del divano, come un ratto acquattato nell’ombra.
«Guarda
un po’ chi
c’è!» esclamò
l’orco alzandosi lentamente e facendo scricchiolare e
sbuffare le
giunture della gamba meccanica, «Cosa ci fa qui un elfo?
Appostato dietro al
divano? Sta forse spiando?»
Arandil
retrocedette
verso la porta tenendo gli occhi puntati sui due: anche Adam si era
solo alzato
in piedi, ma l’orco aveva preso in mano una pistola, adagiata
sulla scrivania;
era una di quelle che portava Adam, con la canna d’argento e
il manico in
ciliegio, intarsiato a motivi floreali.
«Sai
cosa succede
alle spie?» domandò.
L’elfo
cercò
affannosamente la maniglia della porta, nella speranza di poter
fuggire, ben
sapendo che oltre ci sarebbe stata l’intera ciurma di Krugar
ad attenderlo. Ma
sarebbe stato più semplice sgusciare tra le loro gambe che
affrontare il
capitano: i primi sarebbero stati colti di sorpresa ed erano
più stupidi
dell’orco; Krugar, invece, era a pochi passi da lui, molto
più intelligente, furibondo
e con una pistola carica tra le mani.
«Lo scoprirai quando
le raggiungerai!» esclamò, facendo partire il
colpo. Il proiettile sfiorò le
dita di Arandil ma non lo ferì, facendo, invece saltare la
maniglia della
porta. L’unico modo per aprirla sarebbe stato buttandocisi
contro, ma si
trattava di una pesante porta in mogano, infissa con cerniere di ferro,
e
l’elfo non era abbastanza forte o prestante.
Arandil
si buttò di
lato e cozzò contro una rastrelliera, spade e fioretti
franarono su di lui
producendo un suono stridente; ne approfittò per armarsi,
sebbene una spada
potesse poco contro una pistola.
Ma l’orco aveva
gettato via l’arma da fuoco e si era procurato un lungo
spadone a due mani,
un’arma dall’aria pesante e letale ma che
l’orco riusciva a reggere con una
sola mano: Fernecar. Era un’arma portentosa, lunga quasi
quanto una gamba di Arandil,
la lama era curva come quella di una scimitarra e seghettata, alla
maniera
degli orchi; l’elsa aveva una guardia semplice, senza alcuna
decorazione, così
come il manico d’osso rivestito di cuoio. Era
un’arma totalmente priva di
fronzoli ma dall’aria letale.
L’elfo,
personalmente, la trovava piuttosto rozza, ma non avrebbe mai voluto
sentire il
bacio freddo di quel metallo cupo e opaco con cui era stata forgiata,
che
sembrava assorbire la luce, rendendola ancora più minacciosa
e tetra.
«Ho
sempre detestato
le spie» sputò, puntando la lama contro il petto
dell’elfo, che si alzava e si
abbassava freneticamente.
Con
un grido
inarticolato l’orco si gettò contro Arandil, ma
l’altro riuscì a sfuggirli
agilmente. Era nettamente più minuto e veloce di lui, e
sebbene l’orco si
muovesse con sicurezza e celerità, non era altrettanto
scattante. Krugar emise un
ringhio basso di frustrazione.
«Ti schiaccerò,
mosca molesta» promise, tornando alla carica.
Arandil
parò il
fendente, ma la forza era tale che si ritrovò compresso dal
peso della
muscolatura dell’altro. Nel frattempo Adam era rimasto
impalato nel mezzo della
sala, senza sapere cosa fare: da un lato, se avesse aiutato
l’orco, avrebbe
confermato i sospetti di Arandil; ma se dall’altro avesse
aiutato l’elfo,
avrebbe fatto saltare il proprio piano e la propria copertura.
«Fa qualcosa!»
sbraitò l’orco all’indirizzo
dell’umano. Perché se ne stava immobile come uno
stoccafisso
messo a seccare e non lo aiutava? In fondo, per quanto anche quella
pulce fosse
un Dragoron, Adam aveva tradito il suo Ordine e non gli sarebbe
cambiato nulla
eliminare uno dei suoi membri.
L’uomo prese un
fioretto che si trovava su una rastrelliera vicina e assunse la
posizione di
guardia: avrebbe potuto fingere di dare una mano all’orco,
sena fare realmente
nulla; avrebbe finto qualche stoccata assolutamente innocua ma
spettacolare e
poi lasciarsi ferire dall’elfo. In questo modo avrebbe avuto
la scusa per non
essere riuscito a dare una mano a nessuno dei due, sebbene avrebbe
fatto la
figura dell’inetto con entrambi.
Arandil
sentiva i
muscoli delle braccia dolergli, stavano per cedere e la sua testa, ben
presto,
sarebbe stata aperta a metà come un cocomero maturo. Non ci
teneva
particolarmente a fare la fine di un cocomero.
Contro di lui sentì,
improvvisamente, lo spigolo della scrivania nella schiena: erano
retrocessi
fino a raggiungere di nuovo quel punto. La solidità e la
durezza del mobile,
avrebbero potuto essere la sua salvezza.
Si rifugiò sotto la
scrivania e l’orco, a causa dello slancio provocato dalla
tensione, andò a
schiantarsi contro il ripiano, spargendo fogli e mappe per la stanza.
La spada
andò a incastrarsi profondamente nel legno, diventando
inutilizzabile.
«Figlio di una cagna
merdosa!» imprecò l’orco cercando
freneticamente qualcosa per finirlo, «Ti
concerò al punto che stenterai a riconoscere te
stesso!»
L’elfo si era
rialzato, con un occhio puntato su Adam, ancora indeciso su come agire,
e uno
su Krugar, che aveva recuperato una nuova spada, dall’aspetto
meno minaccioso,
ma ugualmente mortifero.
Adam
attaccò e
l’elfo riuscì a parare per un soffio il suo
assalto, in realtà sembrava quasi
che l’altro gli avesse dato appositamente la
possibilità di contrastarlo. Il
Dragoron si era sempre distinto nella scherma, era lo spadaccino
migliore, che
superava in bravura persino alcuni maestri. Era da sempre rimasto
imbattuto nei
tornei, sia che gareggiasse contro i suoi compagni, sia contro allievi
più
grandi.
Un nuovo affondo, e
anche questo venne parato con facilità. Dall’altro
capo della stanza arrivò la
carica di Krugar, ma Arandil, con una mossa fulminea, schivò
l’attacco e si
portò alle spalle di Adam, minacciandolo con la lama puntata
contro la sua
gola.
«Fai un passo falso
e lo uccido» sibilò. L’orco non parve
essere spaventato dalla minaccia.
«Prego» rise, «Sai
quanto possa interessarmi di quell’umano.»
Adam, per tutta
risposta, tirò un calcio allo stinco dell’elfo che
si piegò su sé stesso prima
che la spada di Krugar tagliasse l’aria dove fino
all’attimo precedente stava
la sua testa.
Arandil
scattò, parò
un nuovo fendete di Adam e schivò un tentativo di
affondò di Krugar, con un
balzo si allontanò dai due, incespicò nella
poltrona e si ritrovò riverso sul
pavimento mentre sopra di lui fischiava l’aria lacerata da un
pugnale di Adam,
che andò a conficcarsi nello stipite.
Schiena a terra parò
un colpo dell’orco e rotolò su un fianco per
sfuggire ad un altro pugnale
lanciato da Adam che atterrò a pochi passi dal polpaccio
dell’elfo.
Arandil ne
approfittò, afferrò il pugnale e lo
scagliò indietro mentre Krugar incombeva su
di lui. Un grido di dolore, e una parata che fece stridere le due lame.
L’elfo
si trovava ad un soffio dal volto sfigurato dalla rabbia di Krugar: gli
occhi
grigi erano iniettati di sangue e la bocca era distorta in un ghigno
malefico
che metteva in mostra i denti aguzzi.
«Muori bastardo!»
sibilò.
«Non
questa volta»
replicò l’elfo e sferrò un calcio ai
genitali dell’orco. In realtà aveva
puntato all’addome, ma anche quel colpo sortì
l’effetto voluto: l’orco si piegò
in due e si afferrò la parte lesa, uggiolando di dolore.
Arandil tirò un
sospiro di sollievo, ma si era dimenticato dell’altro: Adam
piombò alle sue
spalle con un fendente laterale, che l’elfo riuscì
a parare all’ultimo. Il
braccio sinistro dell’umano era ferito: all’altezza
della spalla, dove il
pugnale l’aveva colpito, la camicia era lacera e sporca di
sangue.
Il Dragoron era
stato costretto a usare la mano destra, la sua mano meno forte dal
momento che
era mancino, e i suoi colpi erano meno poderosi e precisi, sebbene
ugualmente
letali.
«Lascialo
a me!»
ringhiò Krugar, ripresosi, almeno in parte, dal dolore
lancinante, «Voglio
strappargli le palle e fargliele ingoiare!»
Adam si fece da
parte, lasciando campo libero a Krugar e alla sua furia. Arandil gli
aveva
facilitato notevolmente il compito: umiliare e far arrabbiare
l’orco non era
stata una mossa molto assennata, ma quantomeno gli aveva fornito il
pretesto
per interrompere la sua farsa.
Il pirata attaccò,
accecato dalla sete di vendetta: infilò una serie di
poderosi fendenti che
l’elfo riuscì a parare per miracolo, i colpi
dell’orco si erano fatti serrati e
forti, segno che voleva concludere quello scontro.
Arandil si inciampò
nelle spade che aveva fatto cadere a terra e la lama
dell’orco squarciò la
pelle del petto e ne morse la carne. L’elfo urlò
di dolore, un bruciore
indicibile si irradiò dalla ferita. Arandil
rotolò via da un nuovo fendente
dell’orco, lasciando dietro di sé una scia
cremisi. Con un balzò si rimise in
piedi, ma le carni lesionate gridarono di dolore.
Doveva
trovare un
modo per fuggire da quella stanza, e pensò che la mole di
Krugar potesse
essergli d’aiuto.
Continuando a parare
gli attacchi dell’altro con sempre maggiore
difficoltà, riuscì a condurlo fino
alla porta. Krugar era accecato dalla furia e badava solo a menare
quanti più
colpi possibile, senza più fare caso alla direzione e alla
precisione. Arandil sfuggì
all’ennesimo assalto dell’altro, sgusciò
da sotto le sue braccia e riuscì a
parare un fendente al volo. Ora l’orco si trovava esattamente
dove l’elfo
desiderava.
Arandil si abbassò
sulle ginocchia con una mossa fulminea, ruotò su
sé stesso e spazzò il
pavimento sotto i piedi di Krugar, facendogli perdere
l’appoggio. Questi
barcollò e perse l’equilibrio, franando contro la
porta che cedette in un
tripudio di schegge. Arandil arrancò tra i resti, la vista
offuscata dal dolore
per la ferita: non era una lacerazione profonda ma aveva perso molto
sangue. Doveva
fuggire da lì al più presto. Scavalcò
l’orco che si dimenava come un forsennato
per liberarsi dalle macerie e si fiondò sul ponte.
«Prendetelo!»
sbraitò alla sua ciurma, rimasta imbambolata,
«Uccidetelo!»
I
pirati scattarono
e si gettarono contro l’elfo che sgusciava agilmente tra
loro. Gli uomini
provarono ad assalirlo tutti assieme, ma finirono per scontrarsi e
intralciarsi.
«Che branco di
deficienti!» esclamò Krugar, rialzandosi in piedi,
«Hanno la merda al posto del
cervello. LA MERDA!»
L’orco
appoggiò con
un ringhio, la gamba meccanica sopra un barile, stesa e puntata contro
l’elfo,
che nel frattempo aveva raggiunto il parapetto con
l’intenzione di buttarsi nel
mare e sfuggire ai pirati.
Se fosse fuggito a
piedi avrebbero potuto raggiungerlo, ma in acqua era più
difficile che lo
inseguissero. Da lì avrebbe potuto recuperare Krupfer e
fuggire, operazione che
sarebbe risultata alquanto complicata se nel frattempo fosse stato
impegnato
anche a seminare i propri inseguitori. Ciò che ignorava,
però, era il segreto
della gamba meccanica di Krugar, e che fosse nel mirino della stessa.
Prodigio
della
tecnologia più avanzata, quella gamba non era solo un arto,
ma anche un’arma:
premendo una levetta nascosta sul retro del ginocchio, l’orco
azionò un
meccanismo che aprì la bocca del fucile che costituiva la
gamba stessa. Mentre Arandil
si appestava a saltare, l’orco fece fuoco e un proiettile
fischiò fuori dalla
punta metallica della gamba e attraversò l’aria
per poi colpire l’elfo nel
momento stesso del salto.
L’elegante movimento
del cavaliere venne brutalmente troncato dal proiettile, che
lacerò la pelle
della caviglia in uno spruzzo vermiglio, tramutando il tuffo in un
disarticolato e sgraziato tonfo nell’acqua.
Krugar
abbassò la
gamba e si avvicinò al parapetto: dell’elfo non
c’era più traccia se non una
pozza rossa che andava diluendosi.
«Uno scocciatore in
meno» borbottò Krugar. Il proiettile doveva
avergli reciso qualche legamento
importante, rallentandolo di parecchio, se non addirittura facendolo
desistere
completamente dal suo proposito: era difficile dare la caccia ad un
pirata
quando non si riusciva a camminare e stare saldi sulle proprie gambe.
L’orco
si esibì in
uno dei suoi sorrisi grotteschi e poco amichevoli: doveva aver
definitivamente
eliminato il problema di quel Dragoron molesto.
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Capitolo 10 *** IX ***
IX
L’Andromeda
scivolava
dolcemente attraverso lo strapiombo, abbracciata da due imponenti
pareti di
roccia scabra e scura che scendevano a picco, incombendo sulla nave.
L’imbarcazione, per quanto fosse possente, sembrava minuscola
in confronto ai
giganti di roccia massiccia che la circondavano, squadrandoli con
cipiglio
scuro, irto di sporgenze aguzze e lucide.
L’intera
ciurma era
stata rapita dall’incredibile paesaggio che le Kal Schelas
offrivano: una
catena montuosa maestosa e solenne, che svettava con altera fierezza,
sfidando
l’azzurrità del cielo, scevra dai fumi vomitati
dalle fabbriche, che
ammorbavano i cieli sopra le città. Il luogo era rimasto
incontaminato, e nulla
ne scalfiva la bellezza selvaggia e mozzafiato: non una costruzione ne
deturpava la scabrosità, né una strada ne
incideva il profilo; nemmeno la
vegetazione aveva osato deturparla. Quella zona era
nient’altro che pietra e
cielo, il trionfo della natura che sbocciava nella sua più
rude e disadorna
bellezza.
Il
silenzio che
dominava il paesaggio era assoluto e solenne, sembrava di penetrare in
un
sacrario, e gli uomini avevano timore persino di emettere un respiro
più
profondo. L’Andromeda sembrava uno spettro che si aggirava
sgomento per quel
luogo silenzioso e suggestivo, con le vele nere gonfiate dal vento, che
si
infiltrava nel crepaccio che si snodava tra i massicci.
Il
peso della
bellezza indescrivibile di quel luogo gravava sulla ciurma e nessuno
osava
proferire parola, completamente in balia della potenza e della forza
che quelle
montagne parevano trasmettere.
«Kal
Schelas, nella
Lingua Morta, significa Muraglia Impenetrabile» ruppe il
silenzio Adam. Anche
lui si stava godendo la vista, abbandonato indolente contro il
parapetto
d’osso, «Nessuno si è mai spinto ad
esplorare queste terre: le montagne
incutono troppa paura e soggezione. Le popolazioni che abitarono prima
di noi
questa terra erano convinti che questa catena dividesse il mondo dei
mortali da
quello degli dei e degli spiriti che adoravano. Per loro era un luogo
sacro e
pertanto intoccabile.»
«Siamo
dei
profanatori» commentò Krugar.
«Per
loro lo saremmo
stati» scrollò le spalle l’altro, con
disinteresse. Non aveva mai creduto in alcuna
divinità, ed era fermamente convinto che la religione fosse
l’oppio che la
casta sacerdotale propinava al popolo superstizioso per mascherare loro
la
realtà, intorpidendoli con sermoni e inni. Krugar pareva del
medesimo parere:
non sembrava troppo dispiaciuto di aver messo piede in quei luoghi e,
anzi,
studiava con vivo interesse le pareti di roccia alla ricerca di qualche
vena di
minerali preziosi.
«Gli
Ardrir hanno
scelto appositamente questo luogo per nidificare: è
praticamente disabitato e
le loro uova e i loro cuccioli sono al sicuro.»
«Fino
ad ora» ghignò
Krugar. Adam ricambiò il sorriso e tornò a
osservare il panorama che si
stendeva davanti ai suoi occhi, come una tela in perenne movimento.
Più
l’Andromeda si addentrava nelle Kal Schelas, più i
fianchi delle montagne
diventavano stretti e irti di spuntoni di roccia scura, fino a
congiungersi e
diventare un’unica catena infinita nei pressi del Varco, il
confine ultimo tra
il mondo dei mortali e quello delle divinità.
Adam li
fece
arrestare poco prima: i nidi di Ardrir erano più numerosi
nei pressi della
congiunzione e avrebbero avuto maggiori probabilità di
scovarne uno.
Durante
il tragitto
non vi era stata alcuna traccia dell’ombra sinuosa dei
draghi: nessuno si era
mai spinto fino a quei recessi e avevano abbandonato con sicurezza i
propri
nidi per andare a caccia, sebbene alcuni potessero essere rimasti di
guardia,
rintanati negli anfratti della roccia. Ciò che
più Adam temeva, infatti, era
un’imboscata da parte di quelle creature: proprio mentre
erano in procinto di
avvicinarsi ad un nido, un Ardrir sarebbe potuto spuntare
all’improvviso dal
suo nascondiglio e attaccarli.
«Qual
è il tuo
piano?» domandò Krugar. Lo stesso pensiero aveva
attraversato la sua mente, e
aveva iniziato a scrutare con attenzione -e apprensione- le pareti di
roccia,
questa volta alla ricerca di possibili nascondigli.
«Farai
avvicinare la
nave alla parete di roccia il più possibile, poi mi
legherò con una corda che
verrà assicurata al parapetto o alla poppa o dove
preferisci, basta che sia
abbastanza resistente; mi calerò dall’alto sopra
un nido di Ardrir e prenderò
un cucciolo. È grande come un gatto e assolutamente innocuo.
Voi mi trainerete
indietro e lo stesso farete nel caso in cui debba spuntare un drago
adulto, il
più in fretta possibile, grazie»
«Tutto
qui?» domandò
Krugar inarcando un sopracciglio cespuglioso, «Tu farai il
funambolo mentre noi
staremo a guardare e a trainarti come una Waahl?»
«Credo
di essere
l’unico in grado di poter affrontare un Ardir» gli
fece notare Adam. Krugar
scoppiò a ridere: una risata sguaiata, sgraziata che sparse
gocce di saliva
tutt’intorno e mise in mostra la chiostra di piccoli denti
appuntiti e bianchi,
tra i quali scintillava un dente d’oro.
«Credi
che questo
tatuaggio serva solo a nascondere il marchio?»
domandò, «Non ti sei chiesto
perché abbia scelto proprio un Ardir e non un qualsiasi
altro drago o animale?»
«Sinceramente,
non
me lo sto chiedendo nemmeno ora» sbuffò il
Dragoron.
«Ne
ho affrontata
una, di quelle bestiacce. Non qui, ma più a sud, verso
Arsenia e le piane di
Condanar. Lì ci sono le Rovine di Davanster, la Tomba del Re
di Sabbia, con
tutti i suoi tesori. Non immaginavamo che quell’Ardrir
infernale ne fosse il
custode e avesse deciso che le rovine erano il suo territorio di
caccia. Ci
attaccò all’improvviso, fulmineo: era veloce,
scattante, letale. Provava a
ferirci con le sue ali ma riuscì solo a lacerare le vele.
Dovevamo abbatterlo
se volevano avere una qualche possibilità di raggiungere la
Tomba. Ma i miei
uomini sono tutti dei cacasotto ed è toccato a me
l’ingrato compito. Brandendo
il mio spadone a due mani, mi sono gettato sulla bestia, e cercando di
evitare
le sue ali velenifere e sperando di non cadere, ho piantato la lama
nelle sue
cervella, fino all’elsa. Un combattimento mozzafiato, peccato
che, tornato
vittorioso sulla nave, mi sia accorto di un graffio
all’altezza del cuore,
inferto dalle sue ali malefiche. Un graffio da nulla, in
realtà, per uno dalla
scorza dura e spessa come un orco, ma il suo veleno poteva
già essere entrato
in circolo. Fece più male spurgarmi dal veleno che la ferita
che mi aveva
procurato il drago.»
«Ora
si spiega la
scelta appariscente» commentò Adam, privo di reale
interesse, «Spero che tu
sappia ancora usare quel tuo spadone.»
«Fernecar
è la mia
fida compagna e l’unica cosa che mi sia rimasta del mio
passato.»
«Vedi
di usarla come
si vede quando dovrai decapitare qualche Ardrir» si
raccomandò Adam. Voleva
evitare di essere infettato da uno di quei draghi. Era per questo che
avrebbe
pagato profumatamente l’orco.
Krugar
fece cenno ad
Ariel di salire di quota e l’abile timoniere
obbedì.
«Come
riesci a
vedere quei fottutissimi nidi?» domandò, aguzzando
la vista per cercare di
distinguerli in quell’intrico di spuntoni e sporgenze.
«Basta
saper dove
guardare» rispose evasivo l’altro. Ne
individuò uno proprio sotto di loro,
rintanato nel mezzo di due sporgenze divergenti; sondò con
lo sguardo l’area
circostante, alla ricerca di un possibile Ardrir, ma non ne scorse
nessuno e
chiese a Krugar di procurargli una corda.
«Dunabar»
tuonò,
«renditi utile e va a prendermi una corda. La più
resistente che abbiamo, ma
non troppo spessa, non ho alcuna intenzione di scorticarmi le mani per
questo
damerino pretenzioso di merda.»
Adam
ignorò
elegantemente l’offesa e osservò il nano
affrettarsi sottocoperta con un
ridicolo passo claudicante.
«Adoro
farlo correre
da una parte all’altra della nave»
ridacchiò Krugar, «È uno spasso vederlo
caracollare con quelle gambette storte. E non può nemmeno
lamentarsi: gli è
stata tagliata la lingua.»
Adam
trovò piuttosto
grottesco l’umorismo dell’orco, ma non poteva
nemmeno aspettarsi qualcosa di
diverso da uno della sua razza.
Dunabar
arrivò tutto
trafelato e completamente ricoperto da una corda robusta che sfuggiva
dalla
presa delle sue braccia, quasi si fosse trattato di un serpente;
all’ultimo si
inciampò in un lembo e finì lungo e disteso ai
piedi di Krugar, che scoppiò
nuovamente a ridere.
«Se
non fosse un
meccanico straordinario, l’avrei lasciato a qualche circo:
è esilarante!»
Il
nano lanciò
un’occhiata carica di odio al capitano, tutto ciò
che poteva fare nelle sue
condizioni.
L’orco
lo rimise in
piedi con malagrazia e gli strappò la corda dalle mani; ne
lanciò un capo ad
Adam e mentre il Dragoron se l’avvolgeva strettamente attorno
alla vita, Krugar
l’assicurava al parapetto della nave.
Il
cavaliere si
premurò di controllare la resistenza del nodo, sotto lo
sguardo visibilmente
offeso dell’altro.
«Dieci
anni e passa
che sto su una nave e crede che non sia ancora capace di fare i
nodi» borbottò.
Ariel
assestò la
nave e Adam si arrampicò sul bordo della balaustra, sotto di
lui si apriva il
nido di Ardrir: un nugolo di paglia e sterpaglia per tenere i piccoli
al caldo,
circondato da frammenti della roccia scura che costituiva le montagne.
I
piccoli erano quattro: tre femmine e un maschio, più piccolo
e snello delle
sorelle. Adam aveva puntato a quello: sarebbe stato più
semplice da prelevare,
le femmine tendevano ad essere più scorbutiche e cattive,
mentre i maschi si
animavano solo nel periodo dell’accoppiamento.
Il
Dragoron prese un
respiro profondo, allargò le braccia e si gettò
nel vuoto.
Krugar
e i suoi
uomini più forzuti e muscolosi trattenevano la corda: al
salto del cavaliere
uno strattone li proiettò in avanti, ma riuscirono a frenare
la caduta di Adam
un paio di metri sopra il nido.
«Fatemi
avvicinare
lentamente» urlò.
«Che
pretese!» si
lamentò Krugar, facendo attentamente scivolare un tratto di
corda per volta.
«Basta
così» giunse
la voce ovattata di Adam, «Ora cercate di non farmi
sfracellare sulle rocce.»
«Giuro
che quando
riemerge lo getto giù dalla nave, ma senza corda»
borbottò l’orco. Detestava
prendere ordini, soprattutto da un fighetto del cazzo come Adam, ma la
prospettiva della ricompensa bastava a fargli ignorare
l’atteggiamento
presuntuoso e indisponente dell’umano.
Il
Dragoron si
allungò verso il nido, i draghi avevano iniziato a soffiare
e ad agitarsi, ma
non potevano fare molto altro: non producevano ancora il veleno e non
avevano
denti.
Si
protese verso il maschietto,
mentre le femmine tentavano di proteggere il fratello uggiolando e
mordendo le
braccia di Adam con le sole gengive. L’operazione si stava
rivelando più
difficile del previsto: non riusciva ad afferrare i draghi che
continuavano a
muoversi, e se avessero proseguito a emettere quei versi, avrebbero
attirato
qualche drago adulto nei paraggi. Prima di essere catturati andavano
sedati.
«Tiratemi
su»
sbraitò Adam e per tutta risposta ricevette uno strattone
che gli strappò
l’aria dai polmoni e per poco non lo fece rimettere. La
delicatezza non era
esattamente il forte di quei pirati.
Lentamente
venne
trascinato di nuovo sulla nave e sotto lo sguardo confuso e sorpreso
dell’orco
e di due umani nerboruti, si sedette cavalcioni sulla balaustra.
«Dobbiamo
sedarli»
li informò, «Si agitano troppo e non riesco a
prenderli.»
«E
me lo dici ora?»
sbottò Krugar alterato.
«Non
pensavo che
sarebbe stato così complicato» si difese Adam.
«Sei
tu che avresti
dovuto pensarci prima, porca puttana! È tua questa
idea!» iniziò a sbraitare
l’orco, «Per chi cazzo mi hai preso? Credi che
abbia un arsenale di sedativi
nella stiva? E poi con cosa cazzo si seda un Ardrir?»
«Penso
che un
sedativo qualsiasi possa andar bene, la loro pelle è molto
fragile e sottile»
rispose l’altro con noncuranza.
«Tu
mi stai
pigliando per il culo» replicò Krugar, furibondo,
«Credi che collezioni
sedativi e veleni nel tempo libero? Non ho un cazzo di sedativo!
Avresti potuto
pensarci prima e l’avremmo preso a Valamer!»
«Dovremmo
trovare un
altro modo, allora» rispose Adam, imperturbabile.
«Ma
non mi dire»
esalò l’orco, le pretese di quel damerino stavano
iniziando ad innervosirlo:
nessuno aveva mai osato trattarlo in quel modo, come uno schiavo o un
servitore, non da quando era diventato un capitano rispettato e temuto.
Solo
perché aveva accettato di lavorare per lui, quel cavaliere
si era arrogato il
diritto di poterlo comandare a bacchetta, come se si fosse trattato di
un suo
sottoposto. Krugar aveva ormai raggiunto il livello di sopportazione,
ma con quell’ultima,
improbabile richiesta era stato irrimediabilmente superato.
«Non
immaginavo che
sarebbero stati così combattivi» si
scaldò Adam, «Sono degli stramaledetti
cuccioli: innocenti e assolutamente privi di difese»
«I
lividi sulle tue
braccia sembrano dire il contrario» commentò
caustico l’altro.
«Capitano»
li
interruppe uno dei pirati, «Temo che ci sia un Ardrir in
avvicinamento.»
Krugar
spostò lo
sguardo fiammeggiante dal Dragoron allo spicchio di cielo di fronte a
lui,
contro cui si stagliava un’inconfondibile forma sinuosa che
serpeggiava veloce
attraverso l’aria, tagliandola con le sue molteplici ali
membranose, striate di
vermiglio. Il muso era lungo e appuntito e anch’esso aveva
l’estremità rossa,
così come i corni che si diramavano dalla testa, facendola
distinguere dal
corpo serpentiforme che si contraeva e distendeva, spingendo il drago
verso la
nave. I piccoli occhi gialli emanavano malvagità e sete di
vendetta.
Quell’Ardrir era più grosso di quello che aveva
affrontato l’orco,
probabilmente si trattava di una femmina, richiamata dai lamenti dei
cuccioli, che aveva tutta l’intenzione di speronare
l’imbarcazione.
«Merda»
fu tutto
quello che Krugar riuscì a dire, prima che il mostro
impattasse contro la nave.
Avviso
ai naviganti:
Volevo avvisare tutti coloro che stanno leggendo/seguendo/spulciando la
storia che la
pubblicazione verrà sospesa per due settimane e
ripresa come di conseuto il 31
luglio. Ci scusiamo per il disagio.
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Capitolo 11 *** X ***
X
L’Ardrir
incontrò la
durezza del fianco della nave, più resistente e duro di
quelli in legno a cui
era abituato, e rimase stordito.
Il colpo non
sortì alcun effetto: la nave non
venne sventrata come si aspettava, e il drago si ritirò
sgomento e sorpreso.
Il
contraccolpo,
però, fece ondeggiare il vascello e Krugar venne sbalzato
contro il parapetto,
così come la maggior parte della ciurma, Adam venne gettato
fuori bordo e si
ritrovò a penzolare a testa in giù, sospeso sul
nido di Ardrir.
«È
l’ultima volta che
lavoro per qualcuno» borbottò Krugar riacquistando
l’equilibrio. Approfittò
del
temporaneo stordimento dell’animale per sbraitare ordini a
destra e a manca e
preparare una controffensiva. Il ponte si animò: gli uomini
iniziarono a
correre freneticamente da una parte all’altra, come schegge
impazzite, e si
riversarono nei boccaporti alla ricerca di quanto il loro capitano
aveva
richiesto.
«Dov’è
finito quel
damerino rompicazzo?» si domandò il pirata
accorgendosi in quel momento
dell’assenza di Adam. Dal canto suo, il cavaliere continuava
a oscillare appeso
alla corda, e non appena il timoniere iniziò la manovra di
spostamento, venne
strattonato e costretto a seguire il movimento. Il sangue gli era
affluito al
volto e si sentiva alquanto nauseato e stordito, oltre che un emerito
deficiente.
«Credo
sia caduto
fuori bordo, signore» mormorò uno dei suoi uomini
indicando la corda ancora
legata alla balaustra e tesa fino allo spasmo.
«Tiratelo
su! Porco
il cazzo!» sbraitò il capitano mentre correva
sottocoperta a recuperare la sua
spada, «E dategli un’arma: ci ha ficcato in questo
casino ed è bene che si dia
da fare per tirarcene fuori!»
Adam
sentì uno
strappo verso l’alto che gli artigliò
l’aria dai polmoni, lasciandolo senza
fiato, seguito dalla sensazione di essere trainato. Il nido si
allontanava al ritmo singhiozzato degli uomini che stavano
tirando la corda. Lo
stavano recuperando, segno che l’orco aveva preferito non
lasciarlo penzolare
come un deficiente, come il Dragoron aveva, invece, supposto.
Appena giunto
sul
ponte, iniziò a trafficare con la corda per sciogliere il
nodo.
«Tienitela!»
sbraitò
Krugar, riemergendo da sottocoperta, «E anche voi dovreste
legarvi se non
volete fare un salto di quasi tredicimila piedi! Dunabar procura altre
cazzo di
corde!»
L’orco
aveva
indossato un giustacuore di cuoio bollito, mostrando come preferisse
non ripetere
l’esperienza passata: una ferita di Ardrir gli era bastata.
Il braccio non
armato era rivestito da uno spallaccio di metallo scuro, costituito da
diverse
punte che lo facevano somigliare alla cresta di un drago. Con lo stesso
metallo
era stata forgiata Fernecar che brillava tra le sue mani.
L’Ardrir,
nel
frattempo, si era ripreso dalla sorpresa ed era pronto ad attaccare di
nuovo.
Le prime palle
di
cannone sibilarono nell’aria, ma il drago era agile e veloce,
e le schivò
facilmente. Emise un basso suono gutturale di sfida, e
frustò l’aria con la sua
lunga coda, mettendo in mostra le pinne
sull’estremità, anch’esse striate di
cremisi.
«La
pancia,
rincoglioniti! Puntate alla pancia!» sbraitava Krugar, come
un ossesso, ma i
suoi tiratori sembravano essere ciechi: non un colpo era riuscito a
sfiorare
l’Ardrir.
«Lo
stiamo solo
innervosendo» fece notare Adam.
«Non
ho bisogno di
prendere ordini da te, damerino» lo rimbeccò
l’altro, «Ho già abbattuto una
volta queste bestiacce, ed avevo solo la mia spada e la mia forza.
Sconfiggere questo sarà un gioco da ragazzi!»
Ma come
confermando
le parole del Dragoron, un poderoso colpo di coda si abbatté
sulla nave,
facendola dondolare pericolosamente.
Gli uomini
riuscirono a non precipitare fuori bordo, abituati a quel genere di
scossoni,
ma Adam non fece in tempo, e prima che potesse rendersene conto, venne
brutalmente scagliato oltre la balaustra e si ritrovò ad
attraversare l’aria
come un saltimbanco al circo. Improvvisamente, si trovò
davanti una delle
enormi ali membranose dell’Ardrir, che si era erta a difesa
del fianco
vulnerabile del drago.
«Oh
cazzo» esalò.
Il mondo
divenne improvvisamente un
caleidoscopio di azzurri e verdi, prima di diventare completamente
bianco e poi
annullarsi in un nero uniforme.
Adam rimase
stordito: percepiva il proprio corpo galleggiare nell’aria,
ma era come se non
gli appartenesse, e quelle sensazioni giungessero da un’altra
dimensione onirica.
Sentiva l’aria attorno a sé e le grida degli
uomini, distanti e ovattate,
attorno a lui si ergeva solo una coltre di buio e nebbia sfilacciata.
Improvvisamente
si
sentì afferrare e trasportare, l’aria gli frustava
il viso e gli fischiava
nelle orecchie; una presa salda e decisa lo tratteneva per la vita e un
odore
penetrante gli invase le narici.
Sbirciò
tra le
ciglia, la vista stava iniziando a snebbiarsi, e intravide la pelle
verdastra e
butterata del collo di Krugar.
«Ma
che cazz…?»
esclamò, prima di venire brutalmente scaricato sul ponte
della nave.
«Forse
è il caso che
tu vada sottocoperta» ghignò l’orco,
«Questo non sembra un posto adatto a
principessine come te»
Adam
avvampò,
rendendosi conto di quanto fosse appena successo: vedendolo penzolare
svenuto
dopo l’impatto con l’ala del drago,
l’orco si era affrettato a soccorrerlo e a
riportarlo al sicuro sulla nave, come se si fosse trattata di una
sciocca
donzella in pericolo. Aveva fatto la figura dell’idiota e si
era reso ridicolo
davanti a tutti quegli uomini che stavano rischiando la vita per lui;
probabilmente lo consideravano un inetto, ma ciò non lo
turbava affatto dal
momento che teneva in gran poca considerazione l’opinione di
quei pirati. Lo
infastidiva, però, il fatto che Krugar potesse dubitare di
lui e decidere di
non lavorare più per un tale inetto.
L’umiliazione
bruciava sul volto del Dragoron: non si sarebbe fatto mettere i piedi
in testa
e deridere da un pirata.
«È
stato un
incidente» si difese, riprendendo il solito contegno
sprezzante.
«Lo
spero per te»
replicò Krugar, «Ma sappi che se cadi di nuovo
fuori bordo, ti lascio lì!»
Il drago
pareva come
impazzito: si arrotolava e si contraeva convulsamente, battendo
freneticamente
le ali e agitando la coda, nell’affannoso tentativo
di schivare i
proiettili.
«Dobbiamo
trattenerlo» pensò ad alta voce il capitano,
«O questo continuerà a dimenarsi
come una puttana in calore»
Adam
trovò la
similitudine del pirata scurrile ma azzeccata: se il drago continuava
ad
agitarsi selvaggiamente e a sfuggire, i colpi non sarebbero mai andati
a segno.
«Preparate
gli
arpioni» fu il comando perentorio di Krugar.
«Gli
arpioni?»
domandò uno dei suoi uomini, confuso, «Quelli per
le Waahl?»
«Come
cazzo pensi di
impedire di muoversi ad un mostro di merda del genere?»
replicò l’orco
esasperato, spesso gli sembrava di avere a che fare con dei
decerebrati. Il
sottoposto umiliato corse ad eseguire gli ordini, e mentre palle di
cannone
ancora sibilavano nell’aria, gli arpioni vennero approntati.
«Lasciate
a me
quello più grosso» ordinò il capitano,
«E puntate alle ali. Vicino al limite
esterno sono più fragili»
Krugar prese
posizione, le gambe divaricate e lo stesso ghigno malefico che aveva
distorto i
tratti del suo volto quando l’arpione era puntato contro Adam.
Questa volta
il
bersaglio era meno semplice, dal momento che si muoveva in maniera
più convulsa
e veloce; avrebbe dovuto anticipare le sue mosse, ma ogni azione era
imprevedibile.
L’orco
si concesse
qualche secondo per studiare i movimenti dell’Ardrir e si
accorse che seguiva
uno schema preciso, come in una sorta di danza, con piccole
variazioni che aveva una base di fondo
sempre identica.
Aspettò
che facesse
rientrare l’ala e sparò il colpo.
L’arpione fischiò nell’aria e
squarciò l’ala
sinistra del drago. Questi rigettò il capo
all’indietro, esalando un latrato di
dolore e furia.
Inizio a
torcersi su
sé stesso, cercando di liberare l’ala ma
lacerandola ancora di più.
«Bisogna
immobilizzare anche la seconda!» latrò Krugar.
Adam spinse
via uno
degli uomini dell’orco e prese il suo posto: avrebbe
dimostrato a quel gretto
pirata che non era una donzella in pericolo da spedire sottocoperta.
Il Dragoron
era da
sempre stato uno dei migliori tiratori e nemmeno in quel caso si
smentì. La
fiocina andò a lacerare la seconda ala e il colpo fu tale
che portò via con sé
una parte del fianco molle e non rivestito di squame della bestia.
«Finalmente
qualcuno
in grado di comprendere le indicazioni» si
complimentò Krugar, «Non sei così
inutile, dopotutto.»
Adam sorrise
tronfio, ma non riuscì a pregustarsi a lungo la vittoria.
L’Ardrir si era
imbestialito: fino a quel momento aveva creduto di essere
invulnerabile, ma le
lacerazioni sulle ali e lo squarcio sul suo fianco ostentavano il
contrario; i
suoi occhi trasudavano rabbia e sete di vendetta, promettendo un
attacco
terribile.
«La
coda!» urlò uno
dei pirati, mentre con un guizzo azzurro
l’estremità caudale dell’Ardrir
colpì
l’Andromeda, destabilizzandola. Le corde che tenevano legati
gli uomini si
tesero producendo lamenti preoccupanti, ma resistettero. Un nuovo colpo
di coda
gli obbligò ad abbarbicarsi al parapetto.
«Vuole
farci
precipitare, il bastardo» digrignò i denti Krugar,
«Vedete di non far
avvicinare quella dannatissima coda alla nave o vi taglio le palle e le
do in
pasto al drago!»
Gli uomini
risposero
con grida inarticolate mentre l’Ardrir provava ad afferrare
la nave e ad
avvolgerla.
«Gliela
mozzo quella
maledetta coda!» ghignò l’orco
«Puntate un cannone contro quella bastarda!»
Un paio di
uomini
sentirono il suo ordine e ruotarono i piccoli cannoni, che si trovavano
sul
ponte, verso il drago. Nell’aria esplose il rombo assordante
della detonazione e
una delle ali più piccole della creatura venne brutalmente
strappata dal resto
del corpo, assieme ad uno schizzo di sangue verdastro.
Non era
esattamente
ciò che l'orco si era aspettato, ma risultò
altrettanto efficace: il drago ululò di
dolore ed emise un fischio basso e assordante, mentre si allontanava di
scatto,
proteggendo con il corpo la parte offesa.
«Ben
fatto!» si
complimentò, tornando accanto ad Adam sul ponte.
L’Ardrir,
però, si
sollevò verso l’alto con un grido esacerbato di
dolore e rabbia, per poi
gettarsi verso il basso, trascinandosi dietro la nave. Gli uomini
vennero
spinti gli uni contro gli altri e furono costretti ad aggrapparsi
nuovamente
alla balaustra.
Adam si
sentì per un
momento come sospeso nel vuoto, poi, una sensazione di vertigine lo
invase e
incominciò la caduta. L’aria gli venne brutalmente
strappata dai polmoni, il
cuore gli salì in gola assieme allo stomaco e al suo
contenuto, una voragine si
aprì all’altezza degli intestini e una spiacevole
sensazione di leggerezza si
impossessò delle sue membra.
«Oh
merda!» imprecò
Krugar. La creatura aveva intenzione di farli sfracellare al suolo.
«Preparate
Berta!»
gridò.
Il pirata
aveva
compreso che con quel bestione bisognava ricorrere
all’artiglieria pesante.
«Chi
sarebbe Berta?»
domandò Adam confuso.
Per tutta
risposta
una parte del ponte all’altezza della prua si
lacerò, lasciando emergere un
cannone enorme con la bocca larga due braccia: era un colosso di
metallo nero e
lucido dall’aria letale, trattenuto da pesanti catene. Adam
aveva già visto
cannoni simili, ma erano in dotazione dell’esercito imperiale
e venivano
utilizzati durante gli assedi.
«Dove
l’hai preso?»
esalò.
«Non
ti piacerebbe
saperlo» ghignò l’orco.
Sul fianco
qualcuno
aveva scritto con una grafia storta e infantile poche lettere in
stampatello:
B-E-R-T-A.
«Questo
è riservato
per le occasioni speciali» gongolò Krugar,
«Non credevo sarebbe servito, ma
questo Ardrir è un osso duro.»
La prua
puntava
direttamente contro la schiena del drago, lanciato in una caduta a
capofitto
verso il fondo delle Kal Schelas.
«Non
appena sparerò
il colpo, fate rientrare gli arpioni» ordinò,
«Ariel, tu sai cosa devi fare.»
«Sarà
divertente»
assicurò poi rivolto ad Adam, abbracciato al parapetto
d’osso come una cozza
allo scoglio.
L’orco
caracollò
fino al cannone e rovinò su di esso. Si aggrappò
all’arma come ad un’ancora di
salvezza e grazie a quella riuscì a mantenere
l’equilibrio in quella folle
discesa verso la morte.
«Soffoca
nel piombo,
figlio di puttana!» gridò e fece partire il colpo.
L’enorme
palla
tranciò l’aria come una lama di coltello e
squarciò la schiena del mostro,
trapassandolo da parte a parte. Frammenti di carne e spruzzi di sangue
verde si
dispersero in un macabro fuoco d’artificio.
Adam aveva
chiuso
gli occhi, in attesa della fine imminente, ma quando ormai stava dando
l’estremo saluto alla propria vita, si sentì
bruscamente strattonato per la
corda, la testa iniziò a girargli e di punto in bianco si
ritrovò in posizione
orizzontale.
Quasi
contemporaneamente alla detonazione, gli arpioni erano stati ritratti
con uno
scatto, e Ariel, con un enorme sforzo di braccia, aveva virato
bruscamente
la nave, facendola impennare e frenando la sua caduta, ma anche facendo
risalire il contenuto dello stomaco dell'intera ciurma.
Con un'altra
mossa
azzardata l'aveva raddrizzata e i pirati erano stati scaraventati gli
uni
contro gli altri in un intrico di gambe, braccia e corde. Ma almeno
erano vivi.
L’Ardrir
emise un
verso acuto e angosciante, di dolore e sconfitta, precipitò
nel vuoto e il
grido si disperse nell’aria, per poi estinguersi
completamente,
sostituito dalle urla di giubilo e di vittoria dei pirati.
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Capitolo 12 *** XI ***
XI
A mia madre
«Un
drago da cui
estrarre il cuore ora ce l’hai, senza bisogno di prendere i
cuccioli» gli fece
notare Krugar.
«Non è così
semplice» sospirò Adam davanti
all’inettitudine e alla superficialità
dell’altro, «Il cuore deve essere estratto ancora
funzionante. Non mi serve a
nulla un cuore fermo, perché non pompa e non produce
energia.»
«Quindi ti servono
draghi vivi» concluse l’orco,
«Fantastico!»
Perché
mi sono imbarcato in questa faccenda?
Si maledisse tra sé.
L’impresa stava
risultando più rischiosa del previsto. Non che si aspettasse
di vedere i draghi
salire a branchi sulla propria nave, ma stava iniziando a dubitare che
sarebbe
riuscito ad uscirne vivo.
In quel momento un
suono agghiacciante attraversò l’aria, gelando il
sangue nelle vene all’orco:
aveva già sentito quel verso sordo e gutturale, simile ad un
tuono che romba in
lontananza, era il suono che emettevano gli Ardrir poco prima di
attaccare.
«Capitano» balbettò
uno dei suoi sottoposti, tremando come una foglia, «Ne stanno
arrivando altri.»
All’orizzonte si
profilarono tre ombre filamentose, che assunsero lentamente i contorni
di tre
Ardrir: erano più piccoli di quello che avevano appena
abbattuto, e più
giovani, il rosso delle loro estremità era brillante e
lucido e non cupo come
il vermiglio che chiazzava le ali del loro predecessore, segno che
avevano
iniziato da poco a produrre a accumulare veleno.
«Sono i fratelli
maggiori» osservò Adam.
«Sarà molto più
semplice abbatterli» commentò Krugar, facendo
roteare la spada con aria
baldanzosa.
L’aver ucciso
l’Ardrir l’aveva insuperbito: se era riuscito ad
eliminare un drago di quelle
dimensioni, sconfiggere quei draghetti, che erano grandi la
metà e poco
esperti, sarebbe stato semplice e veloce come svuotare un boccale di
rum.
«Preparatevi all’impatto!»
ordinò,
nello stesso istante il primo dei draghi si slanciò contro
lo scafo, trovando
il duro osso ad accoglierlo.
«Ma sono tutti così ritardati?» si
domandò, scorgendo la bestia retrocedere confusa e stordita,
«È già il
secondo che ci prova»
«Non penso siano abbastanza intelligenti da distinguere
una nave di legno da una fatta di ossa di balena» fece notare
Adam.
«Tanto meglio!»
replicò Krugar assumendo la posizione di guardia,
«Più sono stupidi, più cadono
facilmente.»
Gestire tre Ardrir
contemporaneamente si rivelò essere più
complicato: dovevano difendersi su più fronti dal
momento che attaccavano da punti diversi, cercando di far ribaltare o
precipitare la
nave, fustigandone i fianchi con le code serpentine e tentando di
tranciare chiunque
provasse ad avvicinarsi.
«I cannoni!» urlò
qualcuno, «Provate ad allontanarli con i cannoni!»
I boati delle
detonazioni iniziarono a riempire l’aria, mentre volute di
fumo grigio,
oscurarono il cielo. I colpi, però, sembravano avere effetto
e gli Ardrir
sferravano attacchi in maniera meno accanita, impegnati a schivare le
palle di
cannone.
«Facciamo vedere loro che non basta una lucertola troppo
cresciuta per abbatterci!» urlò Krugar iniziando a
ridere
sguaiatamente, dondolando dalla sartia a cui era appeso, sporto verso i
draghi.
Gli assalti degli
Ardrir si erano affievoliti, volavano nervosamente attorno al vascello,
cercando un punto vulnerabile in cui sferrare l’attacco, ma i
fischi delle esplosioni gli facevano ritrarre spaventati: quelle strane
uova nere e dure
avevano già provocato danni più o meno gravi, la
coda di uno dei draghi aveva
perso una delle pinne e un’altra palla aveva lacerato il
fianco di un altro
Ardrir, ma senza ferirlo gravemente.
Improvvisamente, uno
scossone sconvolse l’imbarcazione e un tonfo terribile si
propagò nell’aria e
nelle assi, che tremarono come in preda alle convulsioni. Una massa
azzurra e
snella era piombata tra gli uomini urlanti.
Il primo Ardrir che
aveva attaccato, più piccolo e agile, si era insinuato tra
il sartiame ed era
precipitato direttamente sul ponte.
«Merda» fu il
lapidario commento di Adam. Il corpo del drago si contorceva
convulsamente. I
movimenti della creatura erano limitati dallo spazio ristretto, ma
proprio per
questo risultavano più devastanti: ad ogni suo spostamento
mieteva vittime. I
pirati iniziarono a fuggire, gridando come dei forsennati, cercando di
sottrarsi alle ali letali dell’animale, e calpestandosi
l’un l’altro nel
tentativo.
«Smettetela di
comportarvi da checche» sbraitava Krugar, cercando di
ristabilire un minimo di
ordine.
Gli altri due draghi
non avevano smesso di attaccare, e l’equilibrio
dell’Andromeda, gravata da quel
peso supplementare, era seriamente compromesso. Il drago flagellava il
ponte
con la coda, cercando di abbattere gli alberi, ma questi,
fortunatamente, erano
stati rinforzati da un’armatura di acciaio per resistere alle
correnti più
violente e alle tempeste. Nonostante questo, se non si fossero
sbarazzati di
quel drago impazzito si sarebbero sfracellati: l’Andromeda
stava perdendo
quota, scossa e sfiancata dai colpi dei draghi, e Ariel riusciva a
fatica a
mantenerla stabile. Si aveva come l’impressione di essere su
una giostra, e gli
uomini venivano scaraventati da una parte all’altra
dell’imbarcazione come
marionette a cui fossero stati tagliati i fili. I pirati erano abituati
a
quegli sballottamenti, avevano affrontato tempeste e mareggiate, e
riuscivano a
contrastare gli strappi bruschi e improvvisi, ma Adam veniva scagliato
con
forza da una parte all’altra, simile ad una bambola di pezza,
e il suo volto
abbronzato era virato ad un inconsueto pallore per stabilizzarsi su una
sfumatura verdognola. Aggrappato al parapetto, cercava di trattenere
nello
stomaco ciò che risaliva ostinatamente.
«Mozzategli la coda»
comandò Krugar, slanciandosi contro il drago.
Questi si avvide del
suo arrivo e gli sbarrò la strada con le ali membranose.
Adam, si trovò improvvisamente davanti
agli occhi quella muraglia membranosa color acquamarina, e solo per un
miracolo
era riuscito a schivarla all’ultimo. L’ala era una
struttura portentosa,
sostenuta da uno scheletro sottile che si intuiva in trasparenza, le
cui
appendici andavano oltre la membrana, decorando l’ala con
spuntoni d’osso
letali, incastrati tra le assi del ponte. L’orco non
si era fatto cogliere di sorpresa e, aggrappatosi ad una sartia per
evitarla, ruotava sopra il drago, facendolo imbestialire. Il mostro
muoveva freneticamente la coda, nella speranza di abbattere quel
moscerino verde che gli ronzava attorno. La nave si inclinò
paurosamente e Adam si ritrovò l'osso della balausra
conficatto nello stomaco già provato.
Il tuono di una detonazione e il fischio di una palla, che lacerava
l’aria, sovrastarono la cacofonia sonora che aveva perturbato
il silenzio quasi sacrale delle Kal Schelas . La coda del
mostro, che si contorceva
convulsamente nell’aria, venne squarciata nel bel mezzo del
suo movimento, in
un’esplosione di sangue verde e squame. Adam
rotolò su un fianco per sottrarsi
al mozzicone, che cadde con un tonfo a poca distanza da lui in una
pioggia di
sangue vischioso. Il rimasuglio sobbalzò e
strisciò per qualche metro,
spargendo un rigagnolo verde tutto attorno, per poi rimanere immobile,
immersa
in un viscido lago.
Il Dragoron vomitò.
L’Ardrir emise un
verso straziante e infuriato si torse, spandendo le sue ali letali
tutto
attorno, con l’intenzione di vendicare la sua
perdita.
«Questi
mostri sono
immortali!» esalò uno dei pirati.
«Bisogna
colpirli in
mezzo agli occhi, nel cervello, o al cuore» riferì
un altro.
Con
una capriola,
Krugar atterrò sopra la testa dell’animale, con
grande disappunto di
quest’ultimo.
L’attenzione
del
drago era stata distolta dalla nave, concentrandosi solo sulla formica
verde
che danzava sulla sua testa, aggrappata a uno dei corni, per mantenere
l’equilibrio. L’Ardrir iniziò a
dibattersi per tentare di scrollarsi di dosso
l’ospite indesiderato, ma Krugar resistette. In equilibrio
precario sulla
fronte dell’animale, la percorse fino a giungere a poca
distanza dagli occhi
gialli e squamosi, lacerati da un sottile squarcio verticale che
costituiva la
pupilla.
Allargò
le gambe per
stabilizzarsi e sotto lo sguardo strabiliato di Adam sollevò
la spada e infilzò
l’Ardrir.
Il
mostro emise un
verso acuto e straziante di dolore e disperazione, ma l’orco
non si fece
impietosire e affondò ancora di più la lama nella
pelle sensibile e
vulnerabile. La bestia aveva smesso di dibattersi, completamente
assoggettata al
dolore indicibile che si irradiava dalla sua fronte. Con uno scatto,
Krugar
rigirò la lama e la estrasse, assieme ad uno spruzzo di
sangue verde e
cervella.
Il
drago smise di
divincolarsi e giacque immobile.
Gli
altri due
draghi, addolorati per la perdita del fratello, intensificarono le
cariche,
incuranti dei proiettili.
«Abbiamo
finito le
munizioni» fu il grido angosciato di uno dei pirati.
L’Andromeda
era
ormai in balia della furia degli Ardrir. Privi di munizioni, avevano
rinunciato a lanciarsi contro di loro con le armi sguainate: i
movimenti improvvisi dei draghi e della nave
modificavano la traiettoria, facendo andare a vuoto i colpi.
«Mi
spiace molto,
Duca» Krugar si avvicinò ad Adam. Quest'ultimo era
ancora piegato su se stesso, sebbene avesse smesso di
vomitare, ma solo perché non era rimasto più
nulla da rimettere.
«Temo
che
l’ultima immagine che avrò di te sarà
quella di un damerino vestito da idiota
che vomita sul ponte della mia nave. Non molto lusinghiera, in
effetti…Mi
spiace solo che sia finita così.»
In
quel momento il
cielo venne rischiarato da una vampata e un forte odore di zolfo si
diffuse
nell’aria.
I
colpi alla nave
erano diminuiti e solo un Ardrir ancora si accaniva contro di essa.
«Che
sta
succedendo?» era la domanda che rimbalzava di bocca in bocca.
Krugar non si
interessò alla questione: ciò che contava in quel
momento per lui era che
potesse finalmente affrontare l’Ardrir ed eliminarlo,
approfittando del
vantaggio temporaneo.
«Aprite
le bocche di
fuoco!» fu l’ordine repentino.
Gli
uomini
richiamati all’ordine scemarono sotto coperta e azionarono
gli argani con cui
il fianco dell’Andromeda si squarciò, rivelando
una fila di pozzi neri come la
pece e dall’aria minacciosa.
All’apparenza
potevano sembrare cannoni qualsiasi, ma quei gioielli di ingegneria
sputavano
un fuoco che non poteva essere estinto con l’acqua, e anzi si
nutriva della
stessa.
La
formula di quel
prodigio era costata cara a Krugar, ma si erano rivelati soldi molto
ben spesi:
il fuoco inestinguibile mandava in confusione persino i suoi nemici
più
ostinati e coraggiosi.
«Io
attirerò il
drago all’altezza delle bocche. Pronti a fare
fuoco!»
L'abbraccio
delle fiamme
avrebbe avviluppato quel mostro.
Non
si serviva
spesso delle bocche di fuoco, dal momento che i materiali per produrlo
erano
difficili da reperire, ma quella era un’emergenza e grazie
all’agevolazione
provvisoria, sarebbero riusciti ad ustionare lo scocciatore, quel tanto
che
bastava perché battesse in ritirata.
Krugar
si gettò
contro il drago e svolazzò attorno alla sua testa: aveva
recuperato una pistola
e scaricava i colpi contro la testa dell’animale, per
infastidirlo e attirare
la sua attenzione.
L’Ardrir
si avventò
contro di lui e l’orco proiettò il suo corpo verso
il fianco. Le bocche erano
spalancate, mostrando i loro neri abissi rigurgitanti fuoco e fiamme.
«ORA!»
sbraitò il
capitano, nel momento stesso in cui il corpo serpentino del mostro si
inerpicava lungo il fianco, per raggiungere quel fastidioso moscerino e
schiacciarlo.
Le
bocche si
accesero e una fiammata colossale partì dal fianco della
nave e colpì la pelle
sensibile dell’addome e del torace del drago. Un forte odore
di carne bruciata
si diffuse nell’aria assieme ad un gemito acuto e straziante.
L’Ardrir
si innalzò
verso l’alto, la parte anteriore che fumava e sfrigolava, il
capo ritorto
all’indietro, la bocca schiumante e la sofferenza impressa in
ogni membra. Il
mostro rimase sospeso per un momento, stagliandosi contro il cielo
terso, per
poi precipitare.
«Dove
è finito
l’altro?» domandò Krugar. Aveva i
vestiti anneriti e i capelli bruciacchiati,
ma per il resto era illeso.
«Un
drago!» esclamò
qualcuno, «Un drago di rame sta attaccando
l’Ardrir!»
Il
pirata si fiondò
sulla poppa, dove sembrava essersi spostato il combattimento:
l’unico
superstite si stava accanendo contro un drago di sembianze simili,
anch’esso
filiforme e sinuoso. Ma le squame di quest’ultimo
risplendevano di una luce
metallica e il suo corpo era percorso da tubicini in cui era
convogliato un
liquido giallognolo, sulla fronte scintillava una runa che spandeva una
luce
viola ogni qualvolta il drago si apprestava ad attaccare.
Una
nuova fiammata
venne eruttata dalla gola del drago in direzione degli Ardrir ed una
delle ali
accessorie venne bruciata, facendo emettere all’offeso un
latrato lacerante di
dolore.
«Chi
è?» domandò uno
dei suoi sottoposti, osservando l’apparente maestria e
facilità con cui
riusciva a sottrarsi ai tentativi dell’Ardrir di abbatterlo.
L’orco
aveva
riconosciuto il drago e non voleva credere ai propri occhi: aveva
ucciso quel
bastardo, l’aveva visto cadere in mare, venire inghiottito
dalle onde e l’acqua
tingersi di rosso!
Con
un ultimo colpo
il drago di rame costrinse alla ritirata anche l’ultimo
sopravvissuto che si
dileguò in un lampo azzurro.
L’animale
meccanico
si avvicinava inesorabilmente, puntando l’Andromeda, i
contorni del suo
cavaliere si fecero man mano più nitidi e terribili: da
un’indistinta
macchietta scura prese forma una figura slanciata, circondata da lunghi
capelli
rossi, come il sole al tramonto. La gamba sinistra era abbandonata
mollemente
contro il fianco del drago e all’altezza della caviglia, un
rigonfiamento
segnava la presenza di una fasciatura.
Un
rigonfiamento si
intravedeva anche all’altezza del braccio destro, rilassato
contro il dorso del
drago.
«Arandil»
esalò
Krugar, incredulo.
«Ma
non era morto?»
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Capitolo 13 *** XII ***
XII
«Evidentemente
no,
dal momento che sta volteggiando come una farfalla davanti al mio
naso!»
sbraitò Krugar. Era convinto di aver estinto quella
minaccia, e non poteva
credere ai propri occhi: Arandil si stava avvicinando con un sorriso
sprezzante
e tutta l’aria di voler restituire il favore
all’orco.
«Lasciatelo
a me»
sibilò, un ghigno minaccioso e una scintilla omicida negli
occhi. Voleva
eliminare quell’elfo una volta per tutte e
l’avrebbe fatto alla vecchia
maniera: con un duello all’ultimo sangue.
«Checca,
se hai il
coraggio vieni ad affrontarmi! Da uomo a uomo!» lo
provocò il pirata, e si
lasciò cadere con la corda su uno spuntone di roccia.
Arandil sbuffò: non
aveva alcuna intenzione di fornire uno spettacolo penoso e
sanguinolento a quei
pirati: zoppicava vistosamente e sarebbe risultato ridicolo, non
riusciva a
muoversi più così agilmente, la sua gamba
sinistra rispondeva in ritardo e non
come avrebbe voluto lui. Il proiettile aveva reciso il legamento e
sarebbe
occorso qualche mese perché guarisse, rimanendo sciancato
per il resto dei suoi
giorni.
Ma se non avesse
accettato la sfida avrebbe fatto la figura del codardo e avrebbe perso
la
possibilità di affrontare Krugar senza tutto il suo
armamentario, sarebbero
stati solo loro due e le loro abilità.
Con un sospiro
rassegnato, fece affiancare Krupfer allo sperone roccioso, che si
protendeva
quasi orizzontalmente sull’abisso. La superficie liscia e
nera ricordava una
distesa di ossidiana, ma quella pietra non rifletteva la luce e pareva,
invece,
ingoiarla e annullarla in una cupezza uniforme e desolante.
Il cavaliere atterrò
malamente, la gamba offesa gli inviò una fitta e
impiegò qualche secondo per
riacquistare l’equilibrio. Krugar sorrise: ucciderlo sarebbe
stato di una
facilità disarmante, quasi gli spiaceva per lui.
Roteò la spada, la
lama luccicava ancora del sangue di Ardrir e il filo scintillava letale
sotto
la luce inclemente del sole di mezzogiorno.
«Quella mezza
calzetta si farà ammazzare» imprecò
Adam tra i denti. Era rimasto
sull’Andromeda, preferendo rimanere a guardare come si
sarebbero svolti i
fatti: se Arandil fosse morto sarebbe stata una liberazione; ma se
invece fosse
stato Krugar a soccombere, avrebbe dovuto trovare un modo per mettere
da parte
l’elfo ed evitare che ostacolasse il suo piano.
Arandil estrasse la
spada che portava al fianco come simbolo della sua posizione, non
l’aveva mai
usata anche se si era premurato di tenerla sempre affilata e pulita. La
lama
emise un lamento strozzato, strappata a forza dal suo giaciglio in cui
aveva
riposato fino a quel momento.
«Pensi di potermi
battere con quel puntaspilli?» lo provocò Krugar.
«Il maestro di spada
ci ha insegnato che non importa la lunghezza dell’arma, ma
l’uso che se ne fa.
Anche un ago può essere letale se brandito nel modo
giusto.»
In realtà quelle
erano le parole che suo padre gli ripeteva costantemente, quando ancora
nutriva
speranze nei confronti del figlio e del suo futuro da guerriero, prima
che
Arandil gli confessasse il suo amore per il cielo e il vento e perdesse
ogni
stima nei suoi confronti, domandandosi cosa avesse sbagliato nella sua
educazione.
«Inoltre, sai cosa
si dice su chi porta le spade lunghe…» lo
stuzzicò. Krugar avvampò e strinse
con maggiore forza l’elsa della spada, quasi si fosse
trattato del collo
dell’elfo.
Arandil assunse la
posizione di guardia, la caviglia che strillava di dolore, e
aspettò l’assalto
dell’avversario.
L’orco non si fece
pregare e caricò con tutta la sua forza, l’elfo
scattò, con sommo disappunto
della parte lesa, e sgusciò lontano dalla portata dello
spadone. Krugar si
voltò in un tondo, tendendo la spada con una mano sola,
nella speranza di
sorprenderlo nel mezzo dello scatto, ma il Dragoron schivò,
abbassandosi di
colpo, e la lama ruotò sopra la sua testa in un sibilo
raccapricciante.
L’elfo rispose con
un montante che l’altro evitò, volgendo le spalle
all’avversario. Arandil provò
un’imboccata ma venne intercettata dalla spada
dell’altro. Krugar girò,
tornando a mostrare il proprio brutto muso, e replicò con
una serie di assalti
incalzanti.
«Colpire di spalle è
da villani» lo rimproverò, «Non te lo
hanno insegnato all’Accademia?»
Il
Dragoron cedette
di fronte alla forza dell’altro e scivolò di lato,
sottraendosi al fendente
diretto alla sua testa. La gamba non rispose immediatamente e
riuscì a ritrarla
all’ultimo; Fernecar baciò il polpaccio
dell’elfo, lasciandovi il suo marchio:
un sottile rigagnolo dorato brillò sul gambale di cuoio.
«Non
sei più tanto
atletico, adesso» gli fece notare l’orco,
sprezzante.
«Nemmeno
tu sembri
tanto in forma, cacciare draghi è sfiancante»
ansimò Arandil. La verità era che
l’elfo era in una situazione più critica e
disperata dell’orco: la gamba
lesionata azzerava il suo vantaggio, non potendo più contare
sulla propria
velocità e agilità; i movimenti bruschi avevano
riaperto la ferita sul petto e
il giovane sentiva il sangue gocciolare e impregnare la stoffa. Krugar,
invece,
non aveva riportato ferite gravi e l’uccisione del drago
l’aveva reso
baldanzoso e feroce.
Un
nuovo tondo che
Arandil riuscì a parare all’ultimo, la forza si
propagò dalla lama al suo
braccio, facendolo tremare per lo sforzo.
Non
poteva sperare
di battere l’orco su quel piano, doveva puntare
sull’astuzia e
sull’imprevedibilità.
Cercava
di rievocare
gli allenamenti estenuanti all’Arena, quando lo costringevano
a misurarsi con
Gorgar il Titano un Ibrido alto il doppio di lui e largo il triplo, con
le
dimensioni del cervello inversamente proporzionali alla mole, ma
ugualmente
difficile da abbattere, soprattutto per uno scricciolo maldestro come
lui.
Aveva sempre detestato quegli scontri, in cui non faceva altro che
saltare e
schivare i fendenti dell’avversario, come una cavalletta
impazzita. Grazie a
quelle sessioni aveva imparato ad essere scattante e veloce, ma non a
rispondere ai colpi del nemico. Aveva sempre odiato quelle sessioni
stancanti e
prive di utilità, almeno dal suo punto di vista: ogni volta
che aveva provato a
contrattaccare, si era ritrovato con le chiappe nella polvere e lo
sguardo
deluso del suo maestro ad avvilirlo.
Ridoppio, tondo,
rovescio, era difficile elaborare una strategia e contemporaneamente
tentare di
contrastare gli attacchi serrati dell’avversario. I colpi di
Krugar non erano
poderosi, per quanto forti, segno che si stava divertendo con lui, lo
stava
stuzzicando e stava giocando con lui come il gatto fa con il topo.
Se avesse voluto
dividerlo a metà ci sarebbe perfettamente riuscito con un
unico, portentoso
fendente, ma il pirata voleva umiliarlo e sconfiggerlo un poco alla
volta,
ridurlo in pezzi, un brandello dopo l’altro.
Tondo, e la risposta
fu troppo lenta: un'altra parte di armatura si squarciò e un
nuovo scintillio
dorato baluginò sulla spalla destra dell’elfo.
Dritto, e la gamba
cedette, permettendogli di schivare il colpo che gli avrebbe aperto un
sorriso
sul collo.
«L’unico modo per
abbattere una montagna è sgretolandone le
fondamenta» le parole di suo padre
gli rimbombarono nella testa. Era difficile intaccare la
solidità di gambe
ampie come tronchi d’albero e la fermezza di piedi lunghi
come zattere, come
quelli di Gorgar. Krugar, però, si era mostrato meno
stabile, e nello scontro
precedente era stato semplice farlo cadere…
Arandil si abbassò
fulmineo e provò a spazzare la roccia sotto il contendente
per sottrargli
l’appoggio, ma l’orco aveva imparato la lezione e
appena si accorse del
movimento dell’altro, saltò. L’elfo fece
in tempo a terminare la mossa per
parare un fendente improvviso del pirata, calato dall’alto
come l’ascia del
boia. Era piegato in due per lo sforzo e la fatica faceva urlare i
muscoli, la
caviglia pulsava e bruciava, gli squarci che lo costellavano dolevano e
la
ferita al petto mandava fitte atroci ogni volta che si inspirava:
sarebbe stato
schiacciato dalla sua potenza e dalla sua forza, fallendo miseramente.
Di
nuovo.
Una nuova serie di
colpi incalzanti lo fecero indietreggiare. Arandil inciampò,
vide lo scintillio
della lama sopra il suo volto e sentì l’aria
solleticargli la nuca. I capelli
ricadevano nel vuoto e si rese conto che la sua testa era sospesa sopra
l’abisso. Deglutì e con un colpo di reni si
sottrasse al precipizio, Fernecar
morse la pietra, staccandone qualche briciola.
Con una capriola
schivò il dritto dell’altro, e la ferita al petto
si aprì definitivamente,
mandando una fitta di lancinante dolore, simile a una pugnalata.
«Non c’è
divertimento a combattere con te» lo provocò
Krugar, aveva appoggiato la spada
sulla spalla e osserva l’altro piegato in due dal dolore,
ansimante e sudato.
«Senza quella tua
ferraglia sputa-fuoco, sei impreparato, lento, incapace e
debole!» l’orco si
era stancato di giocare con l’elfo, l’aveva
spossato abbastanza perché avesse i
riflessi ancora più ritardati e i movimenti ancora
più impacciati e imprecisi.
Fino a quel momento, si era solo scaldato e aveva sondato le
capacità
dell’altro, trovandole imbarazzanti: nemmeno il cuoco di
bordo armato di mestolo tirava di
scherma così penosamente.
«Facciamola finita,
tanto sappiamo entrambi quale sarà
l’esito!» ringhiò alla fine, sollevando
in
alto Fernecar.
Quella volta Arandil
non avrebbe fallito: era stato umiliato e coperto di vergogna troppe
volte, per
troppo tempo aveva fatto la figura dell’inetto e
dell’incapace ed era stato
oggetto delle derisioni e dei rimproveri dei suoi compagni e dei suoi
superiori; era stanco di essere guardato solo con disapprovazione e
pietà, come
se non meritasse altro. Aveva anche lui un amor proprio e una
dignità da
difendere!
Con uno scatto,
estrasse subitaneo un pugnale d’osso dallo stivale, la
caviglia ululava di
disperazione e il suo grido di protesta si propagò per tutta
la gamba, ma
Arandil lo ignorò. Nel momento in cui Krugar
caricò il fendente, sgusciò sotto
di lui e affondò il pugnale nel suo costato.
Il pirata si
ritrasse, sconvolto, e fissò incredulo la lama che spuntava
dal suo torace.
Arandil approfittò di quel momento di esitazione per menare
un tondo che aprì
uno squarciò nella gola dell’avversario. Tutti i
suoi muscoli urlarono, una fitta
di sofferenza indicibile si irradiò dal petto e lo avvolse
completamente,
lasciandolo senza fiato. Le spade di entrambi caddero in un clangore
agghiacciante.
L’orco si afferrò la
gola e si portò una mano davanti al volto, incredulo: non
riusciva a capire
come quell’elfo menomato fosse riuscito a sconfiggerlo. Con
un gemito strozzato
e pietoso, Krugar si accasciò, il volto rimasto
cristallizzato in
un’espressione di sincero stupore. Denso sangue cremisi
gocciolava dalla
ferita, allargandosi in un lago ai sui piedi, in cui ricadde, immobile.
Arandil rimase a
fissarlo, non riuscendo a credere nemmeno di lui di essere stato in
grado di
commettere quell’omicidio. Non si sentiva soddisfatto,
sebbene, alla fine,
fosse riuscito a portare a termine il suo incarico: Krugar era stato
eliminato.
Era stremato e anche
lui era prostrato sulla roccia, il petto che si alzava e si abbassa
freneticamente, i muscoli scossi da fremiti incontrollati, spossati
dalla
fatica, e il respiro rotto, raschiante.
Un leggero tonfo
alle sue spalle gli fece sollevare lo sguardo inebetito: Adam si era
lasciato
scivolare dalla corda, atterrando lieve ed elegante.
«Stai lontano da
me!» gli intimò, ma la minaccia risultò
piuttosto patetica dal momento che era
piegato in due dalla fatica e dal dolore.
«Non voglio farti
del male» rispose Adam, allargando le braccia per dimostrare
che non portava
con sé alcuna arma.
«Sei un traditore!»
gridò Arandil, rialzandosi con un enorme sforzo e
puntandogli la spada di
Krugar contro il petto. Le gambe tremavano e non sapeva quanto ancora
sarebbero
riuscite a reggerlo.
L’accusa aleggiò
nell’aria, pesante nella sua gravità.
«Non è come credi»
si difese Adam, «Ho solo finto di voler condividere con lui
quelle
informazioni. Avevo bisogno di conquistare la sua fiducia, per
distruggerlo
dall’interno.»
Adam appariva
convincente ma il suo piano sembrava fin troppo complicato ed
elaborato, e
l’elfo non riusciva ancora a credergli pienamente.
«Quale guadagno
avrei ottenuto nel dirglielo?» gli domandò Adam.
«Un alleato, con cui
sovvertire il sistema e rovesciare l’Impero»
sputò Arandil.
«Mi credi davvero
capace di un’azione simile?» lo guardò
scettico l’altro.
L’elfo non sapeva
più a cosa credere, non riusciva più a
distinguere il vero dal falso: fino a
qualche giorno prima aveva sentito con le sue stesse orecchie il piano
di
conquista e dominio del Dragoron, e quello stesso glielo stava
smentendo
tassello per tassello, sostenendo che fosse solo una copertura.
«Non so più chi tu
sia davvero» mormorò, «Non riesco
più a fidarmi delle tue parole. Sembravi così
convincente quando parlavi con Krugar e mi hai attaccato.»
«Non ti sei accorto
che ti ho salvato la vita più volte? E che sbagliavo
volontariamente le
stoccate?»
Arandil spalancò gli
occhi: si spiegava lo strano atteggiamento che aveva tenuto quella
volta, la
sua esitazione e l’improvviso deterioramento delle sue
tecniche di scherma.
«Tu mi stavi
aiutando?» domandò.
«Stavo provando a
tenere il piede in due scarpe, in realtà»
sospirò l’altro togliendosi il
cappello e passandosi una mano tra i capelli corvini, appena spruzzati
d’argento, «Non volevo far saltare la mia copertura
con l’orco, ma nemmeno
farti del male…Sono pur sempre un Dragoron!»
L’elfo si stava pian
piano convincendo, aveva abbassato l’arma, sebbene lo
continuasse a fissare con
sguardo circospetto.
Adam tirò un
impercettibile sospiro di sollievo, Arandil sembrava aver abbassato la
guardia
nonostante il suo sguardo inquisitore non lo abbandonasse per un solo
istante.
«Non ho mai voluto
tradirvi, non ho mai pensato di farlo. I Dragoron sono
l’unica famiglia che ho,
l’unico luogo in cui non vengo giudicato per la mia origine e
la mia
provenienza; dove non vengo etichettato come
“bastardo” e vengo guardato con
disprezzo, ma dove sono valutato in base alle mie sole
capacità, alle mie
forze. Come potrei ingannare chi mi ha permesso di fare pace con me
stesso?»
Detestava
profondersi in questo genere di smielati sentimentalismi, ma se fosse
servito a
bruciare qualsiasi dubbio ulteriore dell’elfo, allora era
disposto a fare la
figura della checca sentimentale.
Arandil era esausto,
non sarebbe riuscito ad affrontare Adam in condizioni ottimali,
figurarsi in
quello stato. Credergli risultava più semplice e
conveniente: non aveva né la
forza né la voglia per contrastarlo.
Lasciò cadere l’arma
di Krugar, completamente svuotato e accettò le parole
dell’altro. Quel duello e
la sua conclusione avevano fagocitato ogni scintilla di energia, non
sentiva
più nemmeno il dolore ma solo un eco sordo e lontano,
prevaricato dall’immensa
stanchezza che attecchiva alle sue membra provate. Abbassò
definitivamente la
guardia e Adam ne approfittò.
«Mi dispiace»
mormorò e con un calcio alla tempia, spedì
Arandil nel mondo delle tenebre.
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Capitolo 14 *** Epilogo ***
Epilogo
Adam
uscì nel cortile e rabbrividì, schiaffeggiato
dalle fredde folate del vento del
Nord che portavano con loro un nevischio acquoso e gelato.
Il
processo finale era finalmente terminato, e per quanto fosse stato
eterno ed
estenuante, aveva avuto un esito più che positivo.
Almeno per lui.
Poteva
ritenersi soddisfatto: il suo piano era riuscito meglio di quanto si
fosse
aspettato, era riuscito a togliere due ostacoli in un colpo solo.
Krugar
era stato definitivamente eliminato, portando a termine
l’incarico e la lauta compensa della Compagnia
Orientale era stata intascata dal Dragoron. La testa dell'orco giaceva
ancora
nell’Aula Magna come prova.
Inoltre, era riuscito a rigettare le accuse di
tradimento di Arandil e farle ricadere su di lui, togliendo di mezzo
anche
quello scocciatore troppo informato. Avrebbe potuto continuare a
ingannarlo, ma
sapeva che l’elfo non gli aveva mai creduto fino in fondo.
I
libri di ingegneria e alchimia nella sua stanza, i disegni di cui erano
disseminate le pareti, i progetti di draghi e gli appunti, a volte
contenete
anche informazioni riservate, erano state propizie e avevano
rappresentato un
terreno fertile in cui innestare il suo ultimo inganno: era bastato far
rinvenire qualche lettera abilmente falsificata per far ricadere la
terribile
accusa sul rosso e rigirare le sue recriminazioni.
Arandil
aveva denunciato Adam, ma lo stesso si era difeso strenuamente e aveva
procurato prove a sostegno delle sue parole, mentre l’elfo si
era basato solo
sulla propria parola: era lui il vero traditore, e quei mesi spesi a
fingere di
catturare l’orco, erano stati sfruttati per stipulare accordi
con lo stesso.
L’obiettivo di Arandil era costruire i propri draghi
meccanici, fuori dalla
giurisdizione e dal controllo dell’Ordine, i progetti erano
chiari e le prove
schiaccianti.
L’elfo
aveva provato a replicare, ma era la parola del Dragoron migliore
supportata da
fatti materiali e scritti, contro quella di un cavaliere che non si era
mai
mostrato all’altezza dei compiti che gli erano stati
affidati, che si era
sempre mostrato ribelle e non amalgamato ai meccanismi
dell’Ordine, che era
rimasto sempre in disparte, e l’unico argomento per cui
avesse mai mostrato un
minimo di interesse erano stati proprio i draghi. Adam aveva messo in
luce
quegli elementi, insinuando che non fossero mere coincidenze e aveva
ritratto
un quadro terrificante, le cui parti si incastravano perfettamente le
une
alle altre.
L’interesse
e la curiosità di Arandil erano state la sua condanna e la
sua rovina.
Non gli
sarebbe accaduto nulla di terribile: sarebbe stato definitivamente
allontanato
dall’Ordine e non avrebbe mai più potuto mettere
piede al Palazzo di Cristallo,
il suo drago sarebbe andato distrutto e l’elfo sarebbe stato
costretto a vivere
una vita normale, guadagnandosi il pane come chiunque altro, trovandosi
un
lavoro e una sistemazione alternativa.
Era
stato Adam a chiedere questa clemenza: alla fine Arandil, non aveva
ancora
iniziato a mettere in atto il suo progetto, era riuscito a sventarlo
quando
ancora era in una fase embrionale, e le sue idee non avevano
ancora avuto un’applicazione pratica; non aveva senso che
subisse una punizione
peggiore, sarebbe stato solo un inutile accanimento.
Adam
gongolò per la propria magnanimità, non si
preoccupava di Arandil e di una sua
possibile vendetta: non avrebbe mai avuto i mezzi di cui il Dragoron
disponeva,
primo fra tutti la furbizia e l’intelligenza che
l’avevano sempre distinto
dagli altri; inoltre possedeva la malizia e quel pizzico di
intraprendenza che
erano totalmente sconosciuti all’elfo, ancora troppo ingenuo
e incapace di
muoversi nel ginepraio del mondo.
Aveva
dimostrato in quello stesso processo di essere un debole e di non avere
la
stoffa per essere un Dragoron, l’uomo gli aveva solo fatto un
favore,
allontanandolo da quel mondo che non gli apparteneva e in cui non
sarebbe mai
riuscito a sopravvivere.
Adam
raggiunse l’eliporto di Evernia che si dipanava a poca
distanza dal Palazzo,
simile ad una piovra di metallo antracite. Tra le ingombranti navi
mercantili
della Compagnia Orientale, rollava pigramente l’Andromeda,
sospinta appena
dalle correnti settentrionali.
La
nave non apparteneva più a nessuno ora che Krugar era morto,
e la sua ciurma si
era dispersa come soffioni al vento alla caduta del loro capitano.
Adam
vi salì con un piccolo saltello: doveva ancora recuperare
quei cuori di Ardrir.
Ringraziamenti
All'inizio
non riuscivo a capire come gli scittori quasi piangessero quando
ricevevano una recensione, si trattava solo di poche righe n cui si
esprimeva la propria opinione, nulla di particolarmenre esaltante. Ma,
quando iniziai anche io a scrivere "seriamente" e pubblicare con
costanza, capii come queste poche righe fossero in realtà
fondamentali e assolutamente necessarie. Per questo, mi sento in dovere
di ringraziare in primo luogo e dal più profondo del mio
cuore coloro che dal primo all'ultimo capitolo hanno letto e recensito
questa storia, lasciando quelle righe così semplici eppure
così vitali, che mi hanno sostenuta, confortata e spronata.
La mia immensa gratitudine va quindi a Nirvana
e morgengabe,
le mie assidue lettrici a cui pian piano mi sono abituata. A loro
dedico questa storia, per rigraziarle, almeno in parte, del grandissimo
supporto che mi hanno fornito.
Mai saprò come sdebitarvi con voi!
Un
altro sentito ringraiamento va a colei che ha permesso la nascita di
questa storia, fornendomi l'ispirazione e lo spunto per
iniziarla: TotalEclipseOfHeart.
Grazie infinite per aver indetto il contest che è stata la
miccia che ha acceso questa storia ^^
Un ringraziamento speciale va all'onniprensete
Chiara, senza di lei il personaggio di Arandil non sarebbe mai
esistito, e a Bruna, che legge le mie storie e non me lo dice nemmeno.
Grazie per essere i miei baluardi, senza i quali non sarei qui a
imbrattare questo sito con le mie scempiaggini.
Grazie anche a quanti hanno aggiunto questa storia tra le seguite
(Camaleonte, Dark_sky114, evuzzola, Hime, hola1994, kastalia70, Little
Rock Angel 5, Onyx Crysus, The DarkBerserker e Trix) e tutti
i lettori silenziosi.
Grazie
per rendere i miei sforzi utili e le mie pare mentali totalmente
inutili ^^
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