Il fiore e il lupo

di Matih Bobek
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 6 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 7 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 8 ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 9 ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 10 ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1 ***


C'era una volta, in un remoto regno una principessa. Così avrebbe inizio questa storia, se fosse una fiaba. Ma  questa non è una fiaba e io non sono una principessa. Molti non crederanno a quello che sto per raccontare, forse perché spesso è meglio pensare che le atrocità non possano accadere piuttosto che arrendersi alla crudele evidenza di un'esistenza terrifcante. La mia storia comincia poco più di un anno fa, nella periferia di una città in passato gloriosa, ma che a ora decadeva macinata dalle fauci della storia. Conducevo un'esistenza semplice, tranquilla, a tratti noiosa. Dopo una vita passata china sui libri, ero riuscita a laurearmi con il massimo dei voti in economia, in una prestigiosa università. Per la prima vera volta mi confrontavo col mondo del lavoro desiderosa di costurirmi la mia piccola indipendenza fuori dalle mura di casa. Erano tempi di crisi, lo sono ancora, per il nostro paese, per la mia città, per la mia famiglia. Mio padre era un semplice farmacista che nel segreto del suo studio trascorreva intere giornate intento a produrre un farmaco che prevenisse qualsiasi sorta di malattie virali, una specie di miracolosa panacea. Inutile dire che ogni suo sforzo risultava vano. Mia madre invece gestiva un ortofrutticolo a pochi kilometri da casa.  Da giovane però era nota in tutta la città, contesa come il pomo della discordia dai piani alti, forse per  quel suo fascino terreno o per l'audacia che trapelava dal suo sguardo, ma una volta presa in sposa da mio padre, si trasferì, e di lei non rimase che un vago ricordo. Nel profondo del mio cuore, le ho sempre rimproverato di essersi lasciata sfuggire l'occasione di poter dettare legge  da dietro le tende della farsa  che va in scena in segreto nella nostra città. Avrebbe potuto distendere le mani su una porzione di questa gigante torta, anche piccola, ma sarebbe stata sua. Sarebbe stata nostra. E io mi sarei potuta permettere una vita più facile, forse. O forse sono solo le lamentele di una giovane ragazza che ha dovuto guadagnarsi fino all'ultimo centesimo con il sudore della fronte, da sempre, da sola. Dopotutto però, i miei genitori non ci hanno mai fatto mancare nulla, nè a me nè a mia sorella. Quello che potevano darci, ce lo hanno dato: l'affetto, l'amore, la premura, un'infanzia felice, una clima famigliare che molti invidierebbero, tutte le piccole cose che, a ben pensare, sono le più grandi. Io e mia sorella siamo sempre state felici, in fondo. Certo, non mancavano discussioni in casa, delle volte papà lavorava da mattina presto fino a notte fonda sul suo farmaco miracoloso, si dimenticava persino della cena. Mamma lo chiamava, dalla cima delle scale che portavano fino alla piccola cantina di cui papà faceva il suo studio, e lui a malapena rispondeva. Litigavano poi, dopo cena. Mamma scendeva giù, restava lì per una buona mezz'ora. Ma in fondo non erano che piccole discussioni, piccole richieste di attenzione che venivano poi assecondate in altri momenti. Spesso capitava anche a me e a Lea, mia sorella, di discutere. Per sciocchezze magari. Lea era più piccola di me di tre anni, andava ancora a liceo, prendeva voti buoni pur non impegandosi molto. A casa giocava a fare la principessina, trascorrendo ore e ore sul divano ad ascoltare la musica dei suoi idoli o a piagnucolare su qualche romanzetto d'amore per adolescenti. Io invece a casa non c'ero mai. Uscivo la mattina presto per seguire i corsi in università, il pomeriggio rimanevo in biblioteca a studiare e rincasavo poi la sera, poco prima di cena. Nel fine settimana  mi rilassavo, cercavo una via di fuga dal caos dei miei impegni, a volte se mi capitava davo ripetizioni di matematica per raccimolare  un po' di soldi, uscivo con gli amici, quelli di sempre,  e tutte le sere, prendevo sonno tra le pagine dei miei romanzi preferiti, sognando quell'amore che non riuscivo a trovare. Sin dalle elementari, mi sono sentita  ripetere da amici, conoscenti, insegnanti e parenti questa frase: "Flower farà grandi cose nella vita". Di fronte a questa dichiarazione, mia madre si voltava a guardarmi, mi sorrideva e mi accarezzava la spalla, come a voler dimostarmi, con un gesto e non con le parole, che lei riponeva in me la stessa identica fiducia. Io mi abbandonavo ad una risata di circostanza e ad un sguardo ironico, tesi a mistificare la fiamma dell'ambizione che da sempre è bruciata silente in me come una colata di lava sotterranea. Lo so che farò grandi cose, l'ho sempre intimamente e intensamente pensato, fino all'anno scorso.  Era la fine dell'estate, cercavo lavoro ma invano. Avevo inviato il mio curriculum ad aziende, negozi di abbigliamento, avevo fatto richiesta per stage di ogni tipo, avevo sparso la voce per offrire ripetizioni o per accudire bambini. Non ero mai stata chiamata. Sentivo di aver sprecato la mia intera gioventù per nulla. Non avevo soldi, non avevo un lavoro, e tra le mani un titolo che valeva come una sorpresa nelle merendine.  Il mio talento era uno solo, il mio talento era lo studio, e ora per la prima volta nasceva in me l'eco della certezza che lo studio non fosse poi tutto. Non basta dedicare la giovinezza intera ad un obiettivo? Non basta aver ben chiaro in mente cosa si sa fare e cosa no? Io sapevo studiare, amavo studiare, conoscevo le lingue, mi ero laureata nei tempi col massimo dei voti. Non bastava? Evidentemente no.
 La mia estate, cominciata con i festeggiamenti per la laurea, giorno dopo giorno perdeva colore, si faceva via via più tetra, più scura, e la mia vita sembrava intrappolata in un vicolo cieco, senza alcuna possibilità d'uscita. Una sera, disperata, chiamai le mie amiche, Meg e Pam. Loro erano state le mie compagne, di follie, di avventure, di risate e di pianti, da una vita, per una vita. La nostra amicizia sbocciò timida nella primavera dei nostri anni, tra una versione di greco e un quattro in matematica, e fiorì poi lentamente, mantendono il vigore sui suoi petali per dieci lunghi anni. Volevo loro molto bene e loro ne volevano a me.
Ci demmo appuntamento sotto casa di Meg dove arrivai con i miei soliti dieci minuti di ritardo. Mi diedi una veloce sistemata al trucco nello specchietto della macchina, uscii veloce e citofonai a Meg.  Dal dispositivo metallico proruppe la voce squillante della mia amica " Eccomi, scendo".  Non passò nemmeno un minuto e vidi il cancello aprirsi e Meg fare la sua comparsa in scena. Meg era bellissima, emanava un fascino radioso, una sicurezza brillante. Camminò verso di  ad ampie falcate, come se scorresse su un tappeto di nuvole, e intanto la sua chioma d'oro oscillava nell'aria. Mi lanciò uno dei suoi fulgidi sorrisi, con il quale rischiarò il buio più nero dentro di me, e mi abbracciò. Da una macchina blu in lontananza uscì una ragazza dal viso candido che sembrava essersi accorta solo allora della nostra presenza: era Pam, con i suoi boccoli color miele e l'alone pallido di un sorriso poco sicuro. Era la timidezza a conferirle quella patina di mistero, a renderla interessante ma anche poco accessibile ad occhi esterni. Io ho sempre avvertito che nascondesse qualcosa, che lo nascondesse a noi, ma forse anche a se stessa. Pam, a passi lenti e con fare incerto, si avvicinò a noi, quasi inciampò sul marciapiede e ci salutò con mezza voce:
" Ciao ragazze, non mi ero accorta che foste già qui!"
" Tranquilla, sono appena arrivata, anzi spero di non averti fatto attendere molto!"
le dissi io, cordiale.  Ma Pam si guardava intorno, non prestava attenzione a cose le dicevo. 
" Prima c'era un gran bel ragazzo, portava a spasso il cane", disse qualche secondo dopo
" E' il mio vicino" replicò con il solito entusiasmo Meg " se vuoi, te lo faccio conoscere"
" No, no, sto cercando un ragazzo... diverso." Non capii cosa intendessi dire con quell'aggettivo, ma non avevo voglia di indagare. Pam era sempre stata particolare in fatto di ragazzi. Era il suo pallino, pensava solo a quello, notte e giorno. Vedeva un bel ragazzo per strada, lo seguiva. Conosceva un giovane interessante ad una festa, era l'amore della sua vita. Ogni volta però non concludeva nulla, vuoi perchè lei non piaceva davvero o perché loro "non erano al suo livello" e finiva col lamentarsi che sarebbe rimasta single a vita. Io tutte le volte le ripetevo che prima o poi sarebbe arrivato quello giusto, un po' per convincere lei e un po' per convincere me stessa. Poi continuavo che per ora bisognava dare priorità allo studio, alla carriera, piuttosto che focalizzarsi sull'amore, perchè cercarlo è uno sforzo vano. Lei però concludeva dicendo che rimanere da soli è brutto, e che l'orologio biologico ticchetta senza sosta. Meg invece non si preoccupava di nulla. La sua radiosa sicurezza faceva sì che la vita le si costruisse davanti quasi senza sforzo. Aveva avuto delle storie, delle storie importanti. Erano state belle, belle davvero, ed era stata felice, più di quanto avesse mai pensato di poter essere,  ma poi anche la felicità era giunta al termine. Soffrì, come soffronto tutti, ma senza mai veramente perdersi d'animo. Una volta, due, tre, quattro volte. Sempre in piedi. Di nuovo, più forte di prima. Io e Pam la ammiravamo. In me forse si celava qualcosa di più ardente della semplice ammirazione, qualcosa a cui non sapevo dare un nome preciso. Diversamente in Pam serpeggiava un sentimento meno pulito, meno cristallino, che mai riuscii a interpretare con chiarezza e che Meg non sembrava prendere in considerazione.
Decidemmo di andare a bere qualcosa. Entrammo in un pub, poco distante da casa di Meg, ordinammo una birra, un cocktail e  una tisana sgonfiante allo zenzero, e iniziammo a parlare:
" Sono depressa" dissi io col morale a terra, tirando un lungo sospiro, come se ad ammetterlo avessi sollevato dal mio petto un grande macigno che mi teneva il fiato mozzato. 
" Ma è per il lavoro?" Pam sembrava non capire la gravità della situazione.
" Non riesco a trovarlo, ho mandato curriculum ovunque, ovunque. Sono ferma da mesi ormai." 
" Puoi dedicarti a te stessa" disse Pam con tono piatto, come se il problema non la toccasse poi così tanto. 
" Mi servono soldi Pam, lo sai." 
" Hai pensato ad un viaggio-lavoro, o una vacanza-studio?" Propose Meg, con il solito ottimismo che la contraddistingueva sempre.
Ci avevo pensato, eccome. Lo avevo già fatto anni prima. Esperienza utilissima, indimenticabile, ma che ora non era la soluzione. Poi per partire avevo bisogno di soldi che non avevo. Il problema era sempre lo stesso. Mi sfogai, parlai, parlai molto, parlai fino a piangere, mentre le mie amiche mi consolavano e facevano scorrere la mano sulla mia schiena in segno di comprensione. Anche Pam, che inizialmente non sembrava capire quanto fosse impellente il bisogno di trovare un'occupazione, mi ascoltò con dedizione, mi diede consigli, anche saggi, sentiti. Addirittura, smise di guardarsi intorno alla ricerca dell'anima gemella. Sentivo che mi volevano stare vicino, come sempre, come tutte le volte che ero in difficoltà. Meg con la sua prorompente positività e Pam con la pacatezza che faceva parte di lei. Rimasi piacevolmente colpita dall'interesse di Pam, me lo ricordo bene, e solo ora, col senno di poi ne so comprendere le reali intenzioni. Qualche ora dopo tornammo sotto casa di Meg, la salutammo, aspettamo di vederla rientrare in casa. 
Notai che Pam continuava a guardarmi con insistenza, non mi staccava gli occhi da dosso, avvertii come se avesse bisogno di parlarmi, allora mi voltai verso di lei e le chiesi:
" Che c'è Pam? Mi devi dire qualcosa?"
Sulle prime Pam distolse lo sguardo, seguì in basso le ombre che la luna piena alta in cielo proiettava delle siepi di alloro. Non la incalzai, sapevo che aveva bisogno del suo tempo
" In effetti sì..."
" Dimmi pure" sorrisi, cercando di essere il più accomodante possibile.
" Non volevo dirlo di fronte a Meg perché..."
La pausa durò secondi interi. Perché cosa?
" Non volevo sapesse..."
Sapesse cosa? Rimasi in silenzio col fiato sospeso per tutto quel tempo. Sembrò un'eternità, ma furono solo pochi minuti. La curiosità mista alla certezza di una rivelazione scottante mi stava martellando le meningi e diventò impazienza nei battiti serrata del mio cuore.
" Sai, non ne ho mai parlato con nessuno ma..."
Altra pausa, lunga, infinita.
" Io ho un fratello."
Un fratello? Ma come? Ma cosa c'entra? Perchè me lo dice solo adesso? Nel cervello iniziarono a ronzarmi milioni di domande che solo il silenzio poteva esprimere. La lasciai parlare senza mai interromperla.
" Sì, ho un fratello. Mia madre non vuol si sappia in giro." Fece un'altra pausa, stavolta breve, come per prendere fiato. 
" E' più grande di me di qualche anno. Si chiama Brayan ed è molto particolare. Io non ho mai avuto un buon rapporto con lui, del resto, chi mai potrebbe avercelo..."
Non capii cosa intendesse. Parlava con l'incertezza nella gola, non mi guardava ngli occhi, spostava di continuo lo sguardo dal mio viso al lampione poco oltre la mia testa, fino alle ombre sul marciapiedi e di tanto in tanto si girava  ad osservare la strada col sospetto dipinto sul volto. 
" Bryan non abita con noi, non sarebbe possibile... vive da solo nella famosa mansione Regina che tutti credono abbandonata, quella su cui circolano tutte quelle strane voci..."
Ne avevo sentito parlare ma senza prestare mai attenzione alle storie che si tramandavano. Cosa me ne importava delle leggende dopotutto? Sapevo che erano solo storielle inventate per spaventare i bimbi.
" Ma perchè mi stai dicendo questo?" Trovai il coraggio di chiederle.
Fece un pausa. Sollevò il capo e per la prima volta guardò dritto nei miei occhi.
" Perchè forse ho trovato il lavoro adatto a te".

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 ***


Il giorno dopo fui invitata dalla signora Ondrak, la madre di Pam, nella loro grande villa per prendere un tè e discutere della questione. Erano già le cinque meno un quarto e come al mio solito ero in ritardo di dieci minuti. In realtà ero arrivata puntuale, del resto villa Ondrak non era poi così distante da casa mia, ma rimasi in macchina bloccata da una qualche irrazionale paura che non riuscii a razionalizzare. Nella mia mente non facevo che pensare e ripensare ai segreti inquietanti della famiglia Ondrak, del resto ero l'unica a cui era stato concesso sapere anche solo poco. Poi perché mi ero lasciata convincere? Perchè? Pam aveva tenuto uno stretto riserbo sul fratello, mi aveva raccontato lo stretto indispensabile il giorno prima. Non sapevo nulla di più a riguardo, né del perchè non ci avesse mai parlato di lui, né del perchè ne avesse parlato solo con me, solo ieri, né del perchè avesse bisogno proprio di me. O forse, pensai, ero io ad aver bisogno di lei, di questo lavoro, ecco perchè aveva rivelato a me il segreto e non a Meg, magari. Ma alla fine ne avevo veramente bisogno ? Ero veramente disposta a tutto pur di guadagnare dei soldi? Cosa volevano farmi fare? Non lo sapevo, non sapevo nulla, l'unica cosa di cui avevo la certezza era il terrore che mi serpeggiava dentro come una biscia tra i sassi. 
Mi feci coraggio e citofonai al cancello. Mi accolse la voce profonda e intensa di una donna che mi invitò ad entrare. Il grande cancello nero in stile gotico si spalancò e io entrai a passi incerti ma rapidi. Sopra la mia testa gravitavano matasse nere di nuvole plumbee cariche di pioggia. L'aria era pesante. Si prospettava un gran bel temporale.
Suonai il campanello all'ingresso e pochi secondi dopo mi aprii un uomo distinto, molto più alto di me, dallo sguardo assente, con un papillon al collo e una giacca scura. 
" Si accomodi" mi disse e si scostò per lasciarmi passare. L'ingresso era tetro, seppure alla mia destra si stagliava una lunga vetrata che dava sul giardino. Il parquè scricchiolava ad ongi mio lento passo. Mi guardai intorno. Non ero mai stata a casa di Pam. Di solito venivano loro a casa mia, oppure stavamo da Meg. Ma Pam non ci aveva mai mai invitato a casa sua, e ce ne aveva sempre parlato poco. Iniziavo a intuirne le ragioni. Era un'enorme villa antica, segnale univoco della grande disponibilità economica della famiglia, ma che sembrava congelata in un passato non definito, dimentica dei fasti che aveva vissuto. " Da questa parte, prego" mi guidò il maggiordomo. Mi ritrovai in una grande sala, circondata di librerie antiche, tavolini e sedie in stile ottocentesco, candelabri, tappeti persiani e arazzi appesi alle pareti. Non sembrava esserci una coerenza di stile, e se non ci fossero stati veli di polvere lungo i bordi della libreria, sulle curve del mappamondo in legno vicino alla vetrata e sui tavolini di cristallo, si sarebbe potuta elogiare la raffinata eleganza che trapelava da ogni angolo della sala. Perlustrai incuriosita il salone, diedi un'occhiata ai libri impolverati sugli scaffali della libreria. Catturò la mia attenzione il dorso rugoso di un tomo molto spesso il cui titolo riguardava l'addomesticazione dei lupi. Non appena feci per sfilare il libro dallo scaffale sobbalzai per il rintocco grave del pendolo dall'altra parte dell'ampia sala, alla cui eco grave si aggiunge una distanza voce scura:
" Vedo che ti interessa la lettura". Mi voltai di scatto, come per paura di essere stata colta in flagrante. Vidi una donna dal volto austero camminare verso di me. Procedeva a passo serrato ma senza fretta, con intensità ma senza tensione. Somigliava a Pam, ma senza quella sprovveduta dolcezza nello sguardo. Aveva una lunga cascata di capelli color platino, gli occhi erano piccoli e ravvicinati, un guizzo argenteo ravvivava la pupilla, le labbra erano sottili e socchiuse, senza il minimo acceno di un sorriso. Si mise a sedere sulla grande poltrona di velluto al centro della sala, di fronte ad un tavolino dalle zampe dorate.
" Siediti Flower, siediti pure dove preferisci." La sua voce era priva di colore, dura, granitica.
Scelsi la poltrona di fronte alla sua, in modo da mantenere il più possibile la distanza da quella donna che incuteva timore e riverenza.
" Quella è la poltrona di mio marito."  disse senza alcun moto di ira la signora Ondrak
"Ah." feci io imbarazzatissima. Non mi restò altra scelta che sedermi sulla la poltrona alla sua sinistra.
" Walter, portaci del tè! Biscotti?"
" No, la ringrazio!"
" Anche dei biscotti."
" Non è la prima volta che ci vediamo, non è così?"
Ricordavo di averla già vista una volta, di sfuggita, ad una festa. Ma non mi pareva di averle mai parlato o di essermi mia avvicinata. 
" No, ci siamo già viste in passato, ma non ci siamo mai parlate."
" Come immaginavo. Devi sapere che io  non amo entrare di prepotenza nella vita dei miei figli. Un controllo stretto non mi permetterebbe di rimanere oggettiva, come una madre deve essere per le proprie creature. Mantengo sempre una certa distanza tra la mia e la loro vita. Questo mi consente di decidere per loro quando loro non sono in grando di decidere per se stessi, il che, mi duole ammetterlo, succede più spesso di quanto non vorrei."
L'intenzione era di dar sfoggio di virtù materne, ma io rabbrividii. 
" Ma non è per parlare di questo che ti ho chiamata, cara Flower. Sai, Pamela mi  ha parlato spesse volte di te, delle tue qualità, del tuo talento: studentessa modello, laureata a pieni voti e perfettamente in tempo, intelligente, determinata. Tutte doti indispensabili per una persona. Tutte doti indispnesabili per una donna." Fece un pausa. Nel modo di articolare il discorso, nel modo di drammatico di interloquire, mi ricordò molto Pam, ma l'energia era diversa, c'era un calcolo preciso in ogni sillaba pronunciata con maggiore o minore vigore, c'era una tangibile coscienza di sè nel dischiudere le labbra ogni qualvolta si accingesse ad aggiunere una parola. Serrò le labbra, strinse le dita intorno ai pomi dei braccioli, attorcigliò la gamba sinistra intorno a quella destra e ricominciò a parlare:
" Cerchi lavoro. Intento nobile. Intendi proseguire gli studi?"
" Credo di sì."
" Credi?" percepii un vago disgusto nel pronunciare quelle due sillabe.
" Sì, insomma, l'obiettivo sarebbe quello."
Non fu contenta della risposta.
" Troppi condizionali, ragazza mia. Troppi dubbi. Troppe incertezze."
Fece una nuova pausa, sollevo la mano destra, sfregò le dita, distolse lo sguardo, 
poi tornò su di me.
" Ma sento in te ribollire un'ambizione interessante. La percepisco. Io ero come te da giovane. Ma la mia fiamma era più verace, più scoppiettante, un incendio pieno su un campo di erbe secche. E lo sai, lo sappiamo, quei fuochi sono di breve durata."
Notai una vaga piega malinconica nella sua voce.
" Il tuo è un fuoco silente, che brucia come la miccia di una candela, per un'intera, lunga, eterna notte."
Tentavo di star dietro a questo discorso che mi sembrava mancare di senso.
" E a me" pausa " serve una persona come te." 
Non riuscii a dire una parola. Lei si fermò, chiuse gli occhi e congelò un ghigno poco rassicurante sul volto. Mi sentii lo stomaco stritolarsi dall'ansia nell'attesa che quel silenzio terminasse.
" Mio figlio è molto particolare. Niente di ciò che lo riguarda è stato consueto. Non lo è stata la gestazione, di poco più di un mese. Non lo è stato il parto, dove rischiai di morire per danneggiamenti al canale uterino. Non lo è stato la crescita, lo svezzamento, l'istruzione, gli amici. Non lo è stata la vita."
Rimasi pietrificata. Mi parve di avvertire il dolore di una madre ben celato sotto l'apparente distacco convogliato dal tono piatto della sua voce.
" Bryan è nato ricoperto di peluria, con zanne al posto dei denti, artigli sulle dita e una lunga lingua penzolante. Quando lo vidi uscire dal mio corpo ne rimasi affranta. Fui sopraffatta dall'odio per me, e poi per lui, che non fu altro che il riflesso dell'odio che provavo per me stessa
Poi feci quello che tutte le madri fanno: amare incondizionatamente ed egoisticamente."
Rimase in silenzio, con lo sguardo agganciato al vuoto. Poi riprese a parlare:
"L'ho accudito come un figlio qualsiasi, come un qualunque essere umano, l'ho ricoperto di premure, fino a quando non è cresciuto e la sua natura reale è maturata tale da non poter
più restare chiuso tra le mura di casa. Fino a quattordici anni è stato accudito da due allevatori di cani lupo cecoslovacchi in una terra lontana. Lottai per strapparlo alle mie stesse cure, ho lottato contro mio marito, contro me stessa, ma non avevo altra scelta: dovevo rispettare le sue tendenze, la sua natura. Avrei voluto cambiarlo, oh, eccome se avrei voluto. E ci ho provato, ci ho provato anni e anni interi. Ho interpellato maghi, chiromanti, cartomanti, astrologi perchè la scienza rimaneva impassibile e muta di fronte ad un tale scempio. Come darle torto... Ho preparato pozioni, cucinato viscere animali, seguito ricette arcane strappate alle pagine di tomi oscuri, e ho pregato, ho pregato Dio, Dio e tutte le plurime forme che assume per manifestarsi a noi. Alla fine l'ho trovato in me quel Dio."
La ascoltavo attentamente e nelle interruzioni tentavo di riassumere i nodi di quella storia dal sapore paranormale.
 "Andavo a trovarlo una o due volte al mese. Cercai di attutire il senso di rimorso, la mancanza naturale che una madre avverte del figlio quando è lontano, dimenticandomi di lui. Gli allevatori lo hanno accudito senza pregiudizi, con tutto l'amore che si può dare ad una bestia.  Lo hanno cresciuto in libertà, nel rispetto della sua specie, senza istruirlo sul mondo degli uomini. Così, quando tornò a casa a quattordici anni, trovai una bestia senza alcun tratto umano. Indisciplinato, aggressivo, inaddomesticabile. Un mostro! Che folle sono stata! L'ho fatto crescere allo stato brado, tra i suoi simili, come una qualsiasi bestia, trascurando l'altra parte di sè, quella umana. Fu un anno terribile. Pamela riportava ferite sul volto, sulle braccia, ovunque. Non sapevo come placarlo. Poi sentimmo parlare di una magione abbandonata nel bosco delle ombre. Sapevamo che nessuno ebbe mai il coraggio di entrarci, e mai lo avrebbe avuto, e se pure qualcuno lo avesse avuto, Bryan non lo avrebbe fatto uscire vivo. Ed è lì che ormai vive da dieci lunghi anni, da solo. Negli anni che sono trascorsi gli sono rimasta accanto ogni giorno, gli ho fatto da precettrice, ho stimolato la capacità di linguaggio, che temevo avesse perso, gli ho insegnato la lettura, l'ho istruito sul mondo che lo circonda, ma la sua anima selvaggia prende il sopravvento ad ogni richiamo dell'istinto." 
Rimasi in silenzio per tutto quel tempo incredula e stordita. Avevo troppe domande da fare, ma quella che più mi premeva era:
" Ma io cosa c'entro?"
" Il tè è servito" ci interruppe il maggiordomo trascinando un carrello carico di porcellane raffinatissime.
" Grazie Walter, ora, se ti aggrada, siediti pure con noi!"
Non capii il perchè di questa offerta al maggiordomo.
" Con piacere, tesoro."
Tesoro? Lo stupore deve essere balenato chiaro nel mio sguardo perchè la signora Ondrak
mi guardò abozzando un sorrisetto compiaciuto e disse:
" Pensavi fosse il maggiordomo di casa, vero?"
Non pensai troppo alla risposta, proptai per una cruda onestà:
" In realtà sì, con tutto il rispetto."
"Non essere formale cara, era lecito il sospetto. Avevamo la servitù un tempo, quando Bryan tornò a vivere con noi, per quell'anno da incubo. Ci fu un incidente terribile: 
Benjamin e sua moglie che abitavano nella depandance vennero aggrediti nottetempo nel giardino da Bryan che credette fossero ladri. Benjamin perse la vita, e la moglie..."
Si interruppe, non riuscì a procedere. Walter che era rimasto in piedi accanto a lei le poggiò la mano sulla spalla. 
" Comunque sia, Walter è il signor Ondrak, mio marito".
Annuii sorridendo ma in realtà ero stordita. Era il padrone di casa ma si comportava da maggiordomo. Perché? Ancora un altro perchè si aggiungeva agli interrogativi che popolavano il grigiore di quella giornata.
" Ma torniamo alla questione: perchè sei qui."
Mi concentrai sulle parole della signora Ondrak con un sentimento misto tra la curiosità e la paura di ciò che sarebbe potuto uscire da quelle labbra.
" Bryan è solo. Tutto il giorno, tutti i giorni. La mia presenza non è gradita, ormai da tempo. Pam non sa gestirlo, la loro convivenza è pacifica per poche ore, dopodichè lui le salta addosso, la graffia, la morde, la ferisce. Rispetta le figure maschili, senz'altro, ma capita che gli uomini a contatto con Bryan riscoprano la natura istintiva e animale  che millenni di evoluzione ci hanno insgnato ad ammorbidire."
" Cosa intende precisamente?"
" I maschi con Bryan regrediscono ad uno stato animale, simile a quello di mio figlio."
Guardai il signor Ondrak attentamente, notai segni di terra sotto le unghie, croste di ferite e cicatrici frastagliate lungo tutto il braccio. Spostai la mia attenzione alla folta peluria che fuoriusciva dal gilet grigio e che spuntava da sotto le maniche della camicia bianca. Mi soffermai sulla postura dritta  il cui immane sforzo però era tradito dal tremolio delle ginocchia. 
" Sei una ragazza sveglia, Flower! Mio marito è stato di recente a contatto con Bryan, e ancora porta i segni di questa vicinanza. Sono bastati due giorni appena affinchè diventasse poco più di una bestia. Lo sto rieducando ora, gli sto insegnando di nuovo a camminare su due piedi, a parlare in modo consono, lo sto riconducendo alla sua natura umana, ma occorre una grande pazienza. Bastano poche ore vicino a Bryan per regredire di secoli e secoli."
Capii ora perchè il signor Ondrak svolgesse la mansione del maggiordomo nella sua stessa casa.
" Quanto è passato dal loro ultimo incontro?"
" tre mesi."
Non ebbi il coraggio di mostare lo sconcerto che pulsava nel mio cuore.
" Io cosa dovrei fare?"
" Devi stare con mio figlio, vivere con lui, accudirlo, preparagli la cena e il pranzo, educarlo, mostargli la bellezza della scienza e la profondità della letteratura, le meraviglie dell'arte e 
l'onorevolezza delle scienze sociali. Devi essegli amica, sorella e madre. Quello che nè io nè mia figlia riusciamo più ad essere."
" Ma perchè? A quale scopo? E perché io?"
" Perchè sento che tu sola puoi riportare a galla la sua natura umana. Perchè la tua è una forza che non si piega e non si spezza, perchè sei dotata di un'intelligenza luminosa che non saprei torvare in nessun'altra.  Per di più sei una bella ragazza, e questa sarà senz'altro la qualità più gradita a mio figlio.  Bryan ha bisogno di essere amato, di sentirsi ben voluto, ma non da sua madre. Deve essere un affetto di altra natura, un affetto autentico, non condizionato da legami famigliari."
" Vorrebbe che ci innamorassimo l'una dell'altro?"
" Non è questo lo scopo principale, ma se dovesse succedere, non mi opporrei."
" Se posso chiedere, quale sarà il compenso?"
" Dritta al punto Flower, mi piaci, l'ho detto che hai le competenze adatte per questo ruolo.
Ti pagherei tremilacinquecento euro ogni sabato, per un totale di quattordici mila euro al mese."
" Lavorerei ogni giorno, non è così?"
" Ogni giorno, tranne la domenica."
" Fino a quando?"
" Fino a quando sarà necessario. E se la mia intuzione mi premia, non sarà per molto tempo." Lo disse con una luce scura negli occhi.
"Dovrei vivere con lui, in pratica."
" Tutti i giorni, tutto il giorno. Ti farò preparare la stanza nella mansione, non prima di averla resa abitabile per un essere umano."
" Ha detto che Bryan ha bisogno di affetto incondizionato. Non crede che il compenso sia in effetti un condizionamento non indifferente?"
" Credimi, per quello che ti aspetta, non esiste cifra sufficiente a ripagarti dello sforzo che andrai a compiere. Se non reggerai, non saranno i soldi a farti desistere dal fuggire via."
" Non mi sta invogliando ad accettare l'offerta, lo sa"
" Eppure so che nonostante tutto, l'accetterai. Sarai ricca, Flower, e quando tutto ciò sarà finito, finalmente libera." Di nuovo quella luce inquietante nella pupilla. Eppure al suono di quelle parole, non potei fare a meno di immaginarmi felice in un futuro non troppo lontano, serena, con la mia famiglia, con un'attività mia. Il pensiero di avere così tanti soldi per me mi dilettava, mi dilettava molto. 
" Quanto posso pensarci su?"
" Una notte. Basta e avanza."
All'improvviso sentii scriocchiolare sommessamente il parquè vicino al pendolo, poi cigolare la porta e vidi presentarsi Pam, con lo sguardo mesto, i capelli arruffati e una tuta grigia.
" Ciao, Flower"
" Pam, ciao! Pensavo fossi in università!"
" Avrei dovuto, sì..." Fece per continuare la frase ma la madre la interruppe, allungò il braccio e la avvicinò a sè.
" La tua amica è sveglia, sai. Dovresti somigliarle di più."
Pam si adombrò d'improvviso, abbassò gli occhi sul pavimento e giocherellò con la frangia spettinata carica di polvere del tappeto.
" Credo che Pam sia fantastica per le qualità che ha." dissi senza pensarci troppo.
" Che non sono poi molte..." replicò la madre.
Mi congedai, salutai con eccessiva cortesia la signora Ondrak e porsi la mano al signor Ondrak senza sapere cosa dire, abbracciai Pam e uscì di casa. Iniziò a piovere tantissimo non appena misi il piede fuori dalla porta. Dei fulmini alti nel cielo squarciarono il silenzio della sera e dovetti correre per prendere riparo nella mia macchina. Da lontano, attraverso il muro di pioggia, mi accorsi dello sguardo della signora Ondrak dalla finestra. Lo sentivo adagiarsi sulla mia sagoma come un pellicola di celophan. Mi girai e la guardai a mia volta.
Non potei esserne sicura perchè il rimbalzare dell'acqua sull'asfalto annebbiava la mia percezione visiva, ma mi parve di veder muovere le sue labbra:
" E' fatta" disse. Poi si voltò, lasciando che le tende di broccato ricoprissero il vetro della finestra. Accesi la macchina e tornai in casa, pensando a tutto ciò che appariva troppo crudo, troppo atroce per sembrare reale ma che avvertivo esserlo dentro le viscere, al di là di ogni logica.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 ***


Quella notte non riuscii a dormire. Mi rigirai senza sosta nel letto ripensando alla storia di Bryan. Ero tormentata dalla reticenza all'accettare l'impiego e  all'allettante somma che mi era stata offerta come pagamento. Ne avevo bisogno, certo, ma fino a che punto? Fino a sacrificare, per un lasso di tempo non ancora definito, la mia liberta? Fino ad allontanarmi dalla mia famiglia? Questi pensieri rimbalzarono nella mie mente, tutta la notte, fino a quando, sfinita, non mi addormentai alle prime luci dell'alba.
Mi sveglia frastornata dal poco sonno e dalle preoccupazioni che mi avevo tenuto gli occhi aperti la notte trascorsa, feci colazione e accompagnai mia sorella a scuola. In macchina mentre guidavo non dissi una parola. Pensavo, pensavo e pensavo. A bryan, alle parole della madre, a Pam, a quanto potesse aver sofferto per la situazione del fratello. Ma più la storia veniva rigirata e riconsiderata nei meandri della mia mente, meno sembrava essere reale. Forse sono matti, pensai. O forse la matta sono io che ho addirittura creduto a questa storia. Ma poi ripensai allo sguardo della signora Ondrak. Quello era lo sguardo di una donna che soffre, non di una donna qualunque, di una madre, di una madre disperata che le ha tentate tutte. Le sue parole non avevano tradito le emozioni che impercettibili raffioravano però nel voragine argentea del suo sguardo. Io lì percepivo la sofferenza. La stessa che sembrava baluginare in alcuni momenti negli occhi  velati di assenza di Pam.
Tornai a casa, mi sdraiai sul letto e pensai. Mi venne in mente Meg. Mi chiedevo se lei fosse a conoscenza di questa storia. Pam quella sera attese che Meg non ci fosse per parlarmi del fratello. Ma mi sembrò strano allora e continuava a sembrarmi strano. Pam ha sempre detto tutto a Meg, tutti i suoi più intimi segreti, al massimo ero io ad essere lasciata all'oscuro. Volevo un po' di chiarezza sulla faccenda, presi il telefono e  chiamai Meg.
" Meg, ciao, sono io, Flower!"
" Ciao Flo, come va? Ti senti un po' meglio oggi?"
" Sì, diciamo di sì..." Mentii
" Stai mentendo, lo sento."
" No davvero, oggi sto meglio, sono solo un po' stanca."
" Invece c'è qualcosa che ti preoccupa, dai dimmi!"
Meg mi conosceva bene, mi conosceva davvero. E poi aveva un particolare intuito che le permettava di rintracciare i turbamenti più celati nelle sue amiche. Ci riusciva con Pam, ma era facile in fondo, e ci riusciva con me, e non era altrettanto facile. 
" Ecco, a dire il vero..."
Non sapevo come affrontare il discorso. Cosa le potevo dire? Ciao Meg, tu sai niente del mostro che la famiglia Ondrak tiene nascosto nella Mansione Regina? No, sai, è il fratello di Pam, una specie di licantropo che non ha bisogno della luna piena. 
" Vuoi parlarmi di Bryan, vero?"
Come dannazione poteva saperlo?
" Stai tranquilla, lo so da molto tempo. Pam me ne parlò tre anni fa. Si presentò a casa mia con una ferita lungo il braccio, un taglio profondissimo, e io preoccupata le chiesi come se lo fosse procurato. Lei per la disperazione mi raccontò tutto. O perlomeno il tutto che mi serviva sapere.
" Ma allora perchè mi ha detto che tu non ne sapevi niente?"
"Non voleva che ne parlassimo  tra di noi probabilmente, magari per il timore che la prendessimo in giro. Conosci le mille insicurezze di Pam."
" E tu come facevi a sapere che conoscevo la storia?"
 " L'ho sospettato dal silenzio di Pam l'altra sera. Ho pensato avesse in mente di proporti di accudire il fratello. E' così?" 
"Sì esatto, perchè, lo ha proposto anche a te?"
"No, no, figurati, secondo la signora Ondrak io non sono all'altezza di suo figlio!"
"Scherzi?"
"No, almeno così mi ha riferito Pam. Ma a me non frega molto di quello che pensa lei ahah"
Ed era vero, lo disse con una risata appena accennata che sapeva di brezza marina e primule di prato.
"Cosa dovrei fare? accettarlo?"
" Non so cosa consigliarti Flo. Sicuramente gli Ondrak pagano bene, ma avere a che fare con Bryan non sarà nè facile, nè piacevole. Ci vorranno pazienza, nervi saldi, determinazione. Non sono doti che ti mancano ma sei disposta a mettere tutto da parte?"
" Non lo so."
" Quando devi darle la conferma?"
" Entro stasera!"
" Parla con tua madre, Flo. Lei saprà consigliarti meglio di come posso fare io."
" Hai ragione, Meg. Ma sei stata preziosa anche tu".
Chiusi la telefonata e per un po' non pensai più alla faccenda. 
Arrivò la sera, mia madre tornò a casa e si mise a cucinare. Io e Lea la aiutammo ad apparecchiare la tavola. Io cercavo pretesti per rimanere sola con lei, ma senza alcun successo. A tavola parlammo del più e del meno, mio padre ci aggiornò sugli sviluppi del suo farmaco, Lea ci raccontò del compito di matematica: per la prima volta nella sua vita credeva di aver acciuffato una bella sufficienza nella materia da lei più odiata. Mia mamma rimase in silenzio tutto il tempo. Si limitò ad ascoltare a ridere ai racconti sgangherati di mia sorella, ma nulla di più.
Mi preoccupai. Finita la cena, sparecchiammo. Mio padre si offrì di lavare i piatti. Io e Lea andammo in camera. Camminai avanti e indietro per la stanza cercando il coraggio di parlare a mamma del segreto della famiglia Ondrak. Temevo mi avrebbe preso per matta. Scacciai questi pensieri e mi diressi verso la cucina, ma mi fermai poco prima dell'entrata. Mi accorsi che mamma stava piangendo, mentre papà la consolava. La porta era socchiusa e riuscivo con difficoltà a sentire cosa stessero dicendo. Per di più, i singhiozzi continui di mamma rendevano a tratti impossibile seguire la conversazione. Papà le disse di non preopccuarsi, che avrebbero trovato i soldi. Lei continuando a piangere disse che non meritava il licenziamento. Raccontò di aver avuto una discussione con una signora che successivamente è andata a lamentarsi col capo. Non proseguì oltre con il racconto, ma a me bastò. Capii che c'era una cosa sola da fare. Andai in camera, chiamai la signora Ondrak
" Buonasera signora, volevo dirle che accetto l'offerta."
" Non avevo dubbi."
" Quando posso iniziare?"
" Domani".
Chiuse la telefonata, io mi misi in pigiama, andai a letto e piansi forte nel mio cuscino.

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 ***


CAPITOLO 4

Mi svegliai il giorno dopo con un forte malditesta. Andai in cucina e trovai mia madre intenta a stirare i camici da lavoro di papà. Il sole che entrava dalla finestra le illuminava il volto, non più bello come una volta
ma segnato dalla stanchezza, e fece riflettere i solchi che le lacrime avevano tracciato poco prima.  Si accorse che la fissavo dalla porta della cucina, mi guardò e poi abbassò lo sguardo continuando a stirare, come per far finta di nulla.
" Non mi chiedi come mai non sono andata a lavoro?" disse con la voce tremante, come se se ne vergognasse.
Io non dissi nulla, mia avvicinai e la abbracciai. Poi ci mettemmo a parlare. Le spiegai, senza entrare troppo nei dettagli, senza rivelare troppi risvolti sul segreto degli Ondrak, che avevo accettato un lavoro vicino casa, propostomi dalla mamma di Pam, ma che richiedeva la mia presenza costante, ogni giorno, tutto il giorno, tranne la domenica. Quando le svelai il compenso, urlò per la gioia e per un attimo rividi la mia mamma, quella che ride sempre, quella che ha una soluzione per ogni problema, quella che è felice se lo sono gli altri. Ma poi si incupì di nuovo a pensarmi lontana di casa, lontana dalla famiglia. 
" Non devi sentirti obbligata, troveremo una soluzione lo stesso, come abbiamo sempre fatto."
" Devo farlo mamma, devo farlo per voi ma anche per me, non mi si presenterà mai un'occasione migliore di questa. Stai tranquilla, me la caverò."
" So che lo farai".
Ci fu un lungo abbraccio. Per un momento temetti che sarebbe stato l'ultimo. Poi mi aiutò a preparare la valigia. Le dissi che sarei dovuta andare a casa di Pam per le sedici. Mamma volle sapere di più riguardo al segreto indicibile della famiglia Ondrak e io accennai poche cose. Lei mi confessò di aver sempre avuto una brutta sensazione riguardo loro, pur non avendo mai conosciuto nessuno se non Pam.
Feci cadere il discorso e le dissi che avrei aspettato papà e Lea prima di andare e che ad ogni modo, sarei tornata a casa domenica.
" Giusto in tempo per le lasagne" mi disse mamma trattenendo le lacrime.
" Mi riempie di orgoglio vederti ogni giorno più vicina alla donna che vuoi essere."
Aspettai che mia sorella tornasse da scuola e papà dalla farmacia e raccontai loro ciò che avevo detto a mamma. Mi riempirono di belle parole e di caldi consigli. Mia sorella mi abbracciò stretta stretta e mi diede il sul ciondolo porta-fortuna, un leone dalla criniera dorata che portava sempre con sè. Papà invece era di poche parole. Caricò il bagaglio nella macchina e si offrì di accompagnarmi fin dagli Ondrak.
Salutai mia sorella e mia madre con la promessa che ci saremmo riviste entro una settimana ed entrai in macchina. Il viaggiò duro pochi minuti e una volta arrivati di fronte al cancello gotico di casa Ondrak papà, con gli occhi gonfi di lacrime, disse " Chiama se ti serve. A qualsiasi ora, per qualsiasi cosa." Scesi sorridendo ma con la morte incastonana nel cuore 
e suonai al citofono. Vidi la macchina di papà perdersi nell'oro del tramonto appena dietro la curva della strada, e non appenna voltato l'angolo il cancello si aprì. Esitai un momento, ripensai agli stessi dubbi che mi avevano lasciato sveglia il giorno prima, ma li soffocai subito dopo. Bisognava andare avanti. E così feci.

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 5 ***


La macchina degli Ondrak si fermò di fronte ad un cancello malridotto tenuto chiuso da una catena arruginita. La vegetazione intorno era troppo fitta, quasi nascondeva alla vista dei meno acuti i pinnacoli acuminati del grande cancello, segno che non c'era stato alcun intervento di mani umane da molto, molto tempo. Io e il signor Ondrak scendemmo dall'auto, rimasi a  guardarmi intorno incuriosita per una maciata di secondi.  La magione riportava i chiari segni del tempo e tutto lasciava pensare ad una certa trascuratezza da parte dei proprietari attuali. Il signor Ondrak aprì il bagagliaio e fece per prendere le valigie ma io lo fermai dicendogli che avrei fatto da sola. Sollevai i bagagli e li posizionai vicino a me, chiusi il bagagliaio e attesi che Il signor Ondrak tolse il lucchetto al catenone che teneva unite le ante del cancello. Dopo che l'ebbe spalancato tornò verso di me, mi strinse la mano e mi ricordò che qualsiasi problema avessi riscontrato con il figlio avrei potuto chiamarli, notte o giorno che fosse. Annuii e risposi che me la sarei cavata da sola, come sempre. Lui mentre salì in macchina si affrettò a dire " Ti accompagnerei pure Flower, ma è meglio che io non entri, sai..."
Non c'era bisogno di spiegazioni, e non avevo bisogno del suo aiuto per introdurmi ad un essere non totalmente umano che, forse, non sarebbe stato in grado di capirmi in ogno modo. Salutai  il signor Ondrak con un sorriso di circostanza e un cenno della mano, e lo vidi allontanarsi nella sua macchina nera, inghiottito dalla flora della selva. Sospirai mentre  rimanevo ferma in piedi ad osservavare il profilo una volta glorioso della mansione, che ora però accusava il colpo dei troppi autunni e inverni susseguitisi. Mi caricai del peso delle valigie, accostai il cancello dietro di me e mi incamminai verso la scalinata di marmo grigio ed eroso dal tempo che conduceva alla porta dell'abitazione. Cercai un campanello senza trovarlo. Controllai meglio fino a quando non mi accorsi che la porta era aperta. La aprii delicatamente ed entrai piano chiedendo permesso. Non riuscii a celare la meraviglia: di fronte a me si aprivano allo sguardo due lunghe scalinate percorrenti i due lati paralleli che si ricongiungevano poi di fronte ad un mosaico vetrato.  Da lì proseguivano gli ultimi gradini. La sala era enorme, tanto che i miei stessi passi risuovano nell'eco, ed era splendida, o comunque, doveva esserlo stata in un passato non poi così remoto. Ora era spoglia di decorazioni, mancavano tappeti ornamentali, candelabri lungo i lati, il grande camino sulla destra emanava un odore pestilenziale, il bordo al di sopra era pregno di umidità, i corrimano delle scale erano divorati dai tarli e non erano più lucenti come una volta. Al lampadario affisso in alto sul soffitto mancavano parecchi cristalli e quei pochi che ancora manteneva, erano scheggiati, Inoltre la luce emanata era così fioca che a malapena avrebbe potuto illuminare l'interno del camino. L'unica fonte di luce erano i raggi di sole che la vetrata esposta a sud dietro le rampe di scale filtrava, ricomponeva e riversava in tutta la stanza sotto forma di chiazze di colore. Notai che il pavimento era pulito, dovevano averlo lavato il giorno prima, ma senza riuscire a cancellare le macchie che l'umidità aveva prodotto sul parquè. Mi ricordò casa degli Ondrak: antica, regale, elegante, ma in decadenza. La mansione Regina ancora di più di casa loro, se possibile.
Colpì la mia attenzione una porta chiara nel corridoio a sinistra, subito dopo l'entrata. Da sotto la porta intravedevo una macchia nera, e sul dorso, accanto alla maniglia, la vernice era graffiata via, e si potevano notare profondi solchi lungo lo stipite. Mi avvicinai, feci per girare la maniglia quando venni accolta da un boato che mi fece sobbalzare.
Mi ritrovai con le spalle adese al muro per lo spavento, e di fronte  a me vidi nell'oscurità il volto emaciato e livido di uno storpio. 
" Chi sei?" chiese con una voce rauca e un tono ispido.
" S-s-sono Flower..." Balbettavo, ero spaventata. Feci dei passi indietro 
cercando di avvicinarmi il più possibile dove ci fosse luce. 
" Che fai qui?" Era aggressivo ma mi accorsi che la voce gli tremava.
Ripresi possesso dei miei nervi saldi e lo invitai quieta ma decisa a farsi avanti:
"Vieni sotto la luce"
" Non prendo ordini" sbraitò sguaiato. Feci altri passi indietro e lo costrinsi, senza che lui se ne accorgesse, a mostrarsi fuori dal buio.
Era un ragazzo grosso, brutto come non ne avevo mai visti, alto, sgraziato e storpio, con folta peluria e portamento animalesco. Riconobbi però nei suoi occhi lo sguardo vitreo di Pam, pure se mancava di quel candore e di quella dolcezza. 
" Sei Bryan?"
" Come sai il mio nome?"
" Sono Flower, un'amica di tua sorella. Mi ha mandato tua madre."
Ero spaventata, ma cercai di mostarmi ferma e sicura di me.
Lui mi ispezionò con lo sguardo. Era orribile, avevo fitte allo stomaco al solo guardarlo, e ancora peggio mi sentivo nell'essere osservata da lui.
" Non sapevi che sarei venuta?"
" Sì... lo sapevo." Parlava lento, lentissimo, contavo i secondi impiegati per emettere ogni sillaba.
" Allora perchè sei così stupito?" Non era abituato ad esser trattato con un tono così duro, me ne accorsi perchè sembrava rimpicciolirsi ad ogni mia frase.
" Non mi sono stupito" rispose quasi imbronciato. 
" Be' a me sembrava di sì" incalzai "mi hai accolto con urla animalesche. Non ci si comporta così con gli ospiti, eh!
" Non voglio estranei in casa mia."
" E' casa dei tuoi, prima di tutto. Secondo, mi hanno invitato loro. Poi sapevi che sarei venuta"
Lo zittii. Non so da dove tirai fuori quel tono arrogante che avevo utlizzato per ridimensionarlo, ma notai che funzionava.
"Non devi entrare in questa stanza, è proibita."
" Allora affigici un cartello sopra, così me lo ricordo" dissi stizzita e incamminai a prendere le valigie. Bryan parve stordito e mi seguì.
" Allora, aiutami a portare le valigie chè pesano un sacco, poi indicami la stanza."
" Perchè?"
" Perchè te lo dico io!"
" E chi sei tu?"
" Flower, te l'ho detto prima. Memoria breve?"
Gli passai le valigie. Era alto, grosso ma mancava di forza, riusciva a stento a tenere saldo l'equilibrio con i bagagli in mano.
Salimmo i gradini e poichè Bryan faticava, lo alleggerii del carico.
Mi portò davanti all'entrata della mia stanza.
" Hai le chiavi o la porta è aperta?" chiesi, per mostrarmi educata e non aprire la porta senza prima aver avuto il permesso.
" Io le porte le apro a calci."
" Ah, allora prego!" Mi scansai e vidi il ragazzone assestare un calcio maldestro alla porta che però non si aprì, lui cadde a terra rantolando per il dolore. Faticai a trattenere una risata di scherno. 
Abbassai la maniglia e aprii la porta.
" Vedi, a volte basta molto meno."
La stanza era molto piacevole. C'erano delle belle tende rosa a decorare la finestra che dava sul cortile principale. Il letto costeggiava il muro ed era motlo ampio. Dall'altro lato invece, c'era una bella scrivania con tanto di lampada, articoli di cartoleria, fogli bianchi e un angoletto per i libri. 
Posai le valigie nella stanza, uscì e chiusi la porta dietro di me.
" Questa è la nuova stanza proibita della casa, io non entro nella tua, tu non entri nella mia. Chiaro?"
" Mettici un cartello." tentò di canzonarmi.
" Perchè, vorresti dirmi che sai leggere?"
Scendemmo le scale e andammo in cucina. Era quasi ora di cena, e mi sembrava il caso cercare di fare un po' conoscenza davanti a un buon piatto. Purtroppo ero un totale distrato ai fornelli, una volta ho quasi rischiato di dar fuoco all'intera cucina perchè dimenticai di mettere l'acqua nella pentola della pasta.
" Bene, c'è qualcosa nella credenza?"
Non rispose. Forse non sapeva cosa volesse dire credenza, pensai.
" Cosa mangi di solito?"
" Quello che trovo"
" Ad esempio?"
" Topi, scoiattoli, cose così."
" Ok, io cose così non le mangio."
" Morirai di fame allora."
" Sono sopravvissuta senza saper cucinare fino ad oggi, mi arrangerò"
" Non sai cucinare?"
" Nel modo più assoluto. Sono una totale frana."
" Ma che razza di donna sei?"
" Scusa?"
" Ma chi mi hanno mandato i miei, una ragazzina che non sa cucinare, che schifo, fai schifo!" Bryan iniziò ad urlare, a ringhiare violentò, mi ricoprì di insulti e si allontanò dalla cucina. Rimasi sconcertata, ma anche un po' divertita. Bryan non era come me lo ero immaginato. Non c'era realmente da aver paura, almeno per quanto avevo visto fin ora. Era un bambinone troppo cresciuto con dei tratti parecchio selvatici. Ripensai alla descrizione che me ne fece la madre. Era storpio sì, orribile, sicuro, ma non somigliava ad un lupo. Aveva una folta peluria, ma non più di tanti uomini che mi era capitato di vedere. Parlando non riuscii ad osservare attentamente la dentatura, ma non mi pare avesse canini particolarmente aguzzi. Qualcosa non tornava. Ma  per il momento smisi di preoccuparmene, avevo troppa fame. Controllai le credenze e il frigorifero, c'erano solo dei barattoli di sughi pronti, confezioni di pasta, 
qualche legume, dei pacchi di biscotti e molto caffè. Lo stretto indispensabile per tre giorni, ma la cucina necessitava di essere rifornita. Preparai una lista che avrei letto alla signora Ondrak la sera stessa al telefono. Almeno per la prima settimana volevo si occupassero loro dei beni di prima necessità. Posate, piatti e bicchieri non mancavano. La cucina era pulita e la macchina del gas probabilmente non veniva usata da anni. Cenai con quel poco che avevo, preparai un piatto di pasta al sugo. Non mi preoccupai di Bryan e per tutto il tempo della cena, che non durò più di un quarto d'ora. Non lo vidi e nè lo sentii, e francamente, mi interessava poco. Non aveva voluto cenare con me, peggio per lui! Si sarebbe arrangiato come faceva da una vitaa. Una volta sparecchiato e lavato i piatti, decisi di fare un giro di ricognizione per accertarmi che nelle altre stanze non mancasse nulla. Controllai il bagno accanto alla mia stanza e contastatai che non mancava nulla: c'erano cartigienica, un bell'assortimento di medicinali, profumatori d'ambiente di ricambio, detervisi e qualsiasi cosa potesse servirmi per igienizzare i servizi. Lo scopettino era nuovo, forse era stato comprato anch'esso di recente, nella doccia non mancavano shampi, bagnoschiuma, balsamo, creme per capelli, tutti di ottima qualità. Soddisfatta, mi ritirai nella mia stanza dove disfeci i bagagli, posizionai i miei vestiti nell'armadio e i miei oggetti personali sulla scrivania e sul comodino. Cambiai le lenzuola al letto, mi distesi e feci un giro di chiamate. Chiamai mamma che mi fece parlare con papà e Lea. Erano passate poche ore dal mio trasferimento ma già sentivo la loro mancanza. Era come se i miei sentimenti fossero proiettati nella futura consapevolezza che avrei passato tanti, tanti giorni senza la loro presenza. A volte la distanza è come una corda di metallo che ti tiene vicina al cuore di chi ti vuole bene, ma bene davvero. Li rassicurai sul mio stato, raccontai loro di Bryan, dissi che tutto sommato l'impressione che avevo avuto non era stata terribile, le aspettative erano peggiori della realtà, ma non mi dilungai in dettagli per paura di rivelare troppo sul segreto di casa Ondrak. Dopo aver chiuso la telefonata parlai con Meg. Le ripetei quello che avevo detto poco prima alla famiglia, indugiando un po' di più sulla descrizione di Bryan:
"Si tratta di un ragazzotto storpio, molto, molto strano e indisciplinato, dagli atteggiamenti animaleschi..."
" In che senso animaleschi?"
" Mah, per esempio mi ha accolto di sorpresa alle spalle, ringhiandomi addosso... ma pareva quasi che fingessi di ringhiare, non so..."
" Ma vi capite?"
" Be', lui non è certo un mostro di intelligenza, però capisce quello che dico e parla in modo corretto. Per dire una parola ci impiega una vita, compone frasi molto semplici, molto lineari, ma non mi pare di riscontrare le difficoltà di cui mi parlò la madre".
" Ti sembra un po' sospetto?"
Meg intuì subito che pensieri nascondevo dietro il velo delle parole.
" Sì, un po' sì, ma è presto per dare un giudizio, devo conoscerlo meglio".
" Spero di vederti presto Flo, mi manchi già tanto."
" Domenica ci vediamo sicuramente, non ti preoccupare!"
Terminai la telefonata. Ero molto stanca, assonnata. Mi promisi che la signora Ondrak l' avrei chiamata il giorno dopo. Il volto lattiginoso della luna che rischiarava la notte si rifnrangeva sul vetro della finestra.
Chiusi le tende, spensi la luce della lampada sul comodino e posai la testa sul cuscino. In un attimo, senza nemmeno accorgermene mi addormentai. Feci un bel sogno: tornavo a casa, ero ricca. Ad accogliermi c'erano i miei genitori che mi abbracciavano felici, paingevano di gioia. Ma non c'erano solo loro, no, poco dopo comprave Meg, bella come nella realtà, corse verso di me ridendo con le braccia aperte, ma in un attimo il sogno mutò: sotto il terreno si aprì una voragine grigia dalle quali uscirono degli artigli neri che afferarono tutti i miei cari. Meg allungò le braccia, cercava di aggrapparsi a me, io però ero distratta da un lamento cupo che rimbombava nel cortile di casa mia. Il lamento si faceva via via più spesso, divenne un ululato di disperazione, lancinante nella sua durata, io mi tappai le orecchie e iniziai piangere, mentre vedevo tutti i miei cari strappati via e divorati dalla voragine. Mi sveglia di soprassalto con il battito accelerato. Sembrava che il cuore volesse uscirmi dal petto.
Nelle orecchie sentivo ancora il suono prolungato dell'uluLato, mi angosciava. Mi bastarono pochi secondi per capire che quel verso agghiacciante era reale, e proveniva da fuori la mia stanza. 

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 6 ***


Uscii dalla mia camera armata di torcia e seguii il suono del lamento. 
Percorsi tutto il corridoio del primo piano col cuore in gola. Ovunque mi giravo, trovavo un prestesto per spaventarmi ancor più di quanto già non fossi. Mi sembrava di essere precipitata in un romanzo gotico di fine ottocento. Il corridoio era seminato di armature antiche con tanto di alabarde e spade, i quadri appesi alle pareti ritraevano ceffi di dubbia bellezza e donne dal profilo nobile ma dal volto tumefatto. 
Più mi avvicinavo alla fonte del verso animale, più l'aria si faceva irrespirabile e l'oscurità fitta. C'era un tanfo insopportabile, come di umori stantii  e feci. Mentre lasciavo scorrere la mano sul muro per avere un punto di riferimento nell'oscurità, mi accorsi che la parete era fradicia.
Mi fermai e illuminai il punto che avevo appena toccato. Era una porta di legno, anch'essa malridotta,  riportava segni di graffi, la vernice era scrostata e il legno era umido di una sostanza di cui non volevo sapere la provenienza. Accostai un poco l'udito, senza appoggiarmi del tutto. 
L'ululato non proveniva da lì ma sentii come dei gemiti sommessi. 
Ero più terrorizzata che mai, mi discostai dalla porta, frenai l'impulso che mi diceva di aprire la porta, che mi spingeva ad abbassare la maniglia. D'un tratto sentii il lamento sempre più vicino, sempre di più, mi stava raggiungendo. Ero immobilizzata dalla paura, non riuscii a sollevare la torcia. Guardavo un punto fisso nell'oscurità sperando di riconoscere nell'indefinito un volto, una sagoma. L'ulutato si fece più profondo, più forte, era ad un passo da me. Il terrore mi fece reagire, alzai la torcia e mi trovai di fronte Bryan intento ad ululuare sguaiatamente nell'ombra.
" Cosa stai facendo Bryan?" urlai con il terrore in gola
" Ululo aaa-huuuuuuuuuuuuuuuuuu" cacciò altri ulultati.
La mia paura d'un tratto mutò in rabbia e fastidio. Presi la torcia e picchiai in testa Bryan con decisione. 
" Che fai, donna? fai male!"
" Stavo dormendo, mi hai svegliato!"
" Dovevo ululare!"
" Ma perchè? Mi hai spaventato a morte!" gridai fuori di me dalla rabbia
" Perchè i lupi fanno così"
" E allora? Tu non sei un lupo!"
" Sì che lo sono, guarda: ah huuuuuuu"
Si mise a quattro zampe e si lanciò in un altro lungo lamento. Smise, abbaiò e poi si diresse verso la vetrata a metà del corridoio, poco dopo la mia stanza e cercò la luna nel cielo, io lo seguii come si fa con un bambino che rincorre un passerotto nel prato.
" La luna è dietro gli alberi"
" No, è quella lì" disse indicando col naso una stella luminosa alta nel mezzo della notte.
" No, quella è una stella." Lo corressi con tono duro e con l'incredulità di chi sta dicendo una cosa troppo ovvia. Veramente credeva quella fosse la luna?
" No, i lupi riconosco la luna, la sentono dentro. Quella è la luna!"
Lo guardai sbigottita. Decisi di accondiscendere la sua convinzione.
" Va bene, io però ora voglio dormire, puoi evitare di fare rumore?"
" Io non faccio rumore, io parlo con i miei simili!"
" I tuoi simili sono nel bosco a cacciare, non dentro casa!"
" ... Ma fuori fa freddo!"
" I lupi non sentono freddo!" dissi, e così facendo girai le spalle e rientrai nella mia stanza. Mi rimisi a dormire ma feci fatica a prendere sonno. Ripensai ai gemiti che avevo sentito provenire da quella porta. Non capii da chi o cosa provenissero né perchè. Mi promisi che il giorno sarei andata a controllare di persona. Mi girai dall'altro lato, chiusi gli occhi e poco dopo scivolai nel sonno.

                                                  ****

La mattina mi alzai nervosa e infastidita. Avevo dormito poca per colpa di quella bestia. Scesi giù in cucina, misi su il caffè e poggiai la testa sul tavolo della stanza. Bryan entrò in cucina rumorosamente, prese la moca e la gettò nel lavandino. Senza caffè, appena sveglia, le mie facoltà di linguaggio sono ridotte. Mi alzai senza dire nulla, ripresi la moca e la posizionai di nuovo sul fornello. Lui con una zampata la fece cadere. Io di nuovo la sollevai e poggiai il sotto rovente sul suo braccio. Urlò per il dolore.
" Ci siamo capiti?" Mi limitai a dire.
Lui ringhiò, con un calcio avvicinò la sedia al tavolo si mise a sedere scomposto e mi disse:
" Ho parlato con mamma."
Rimase in silenzio. Io non dissi nulla, perchè non avevo ancora bevuto il mio caffè e perchè aspettavo che continuasse la frase. Dopo qualche secondo capii che doveva essere incoraggiato a parlare.
" Quindi?" dissi scorbutica.
" Gli ho detto che sei cattiva."
" 'Le ho detto', tua madre, femminile..."
Sbuffò.
" Tu mi tratti male."
" Non mi pare che tu mi abbia trattato meglio."
Incrociò le braccia e sbuffò nuovamente. 
Mi alzai per versare il caffè nella mia tazzina. Poi presi un'altra tazzina, riempii anche quella e gliela offrii. Lui la guardò sospettoso, la annusò come per accertarsi che fosse caffè e non veleno e poi la scostò:
" E' bollente. Raffreddalo."
" Lascialo lì. Si raffredda da solo, piano piano."
" No, ora!"
Stavolta fui io a sbuffare. Volevo solo bere il mio caffè in santissima pace.
" Mamma ha detto che devi fare tutto quello che ti dico."
Sbattei la tazzina sul tavolo. Presi il cellulare e chiamai la signora Ondrak:
" Carissima, quale piacere sapere che hai passato la prima notte!"
" Salve signora, volevo farle il resoconto della prima giornata."
" Aspettavo la tua chiamata ieri, a dirti il vero"
" Ieri non ho potuto."
Le spiegai tutto, per filo e per segno. Le dissi che la credenza e il frigorifero erano quasi vuoti e che almeno per la prima settimana, prima del mio stipendio, sarebbe stato il caso che se ne occupassero loro. 
Il nervosismo dovuto al poco sonno mi resero un tantino acida e acuirono la sicurezza nel tono della voce.  Bryan nel frattempo si era alzato ed era uscito dalla cucina, dirigendosi verso le scale.
Lo seguì un attimo con lo sguardo fingendo di prestare attenzione alle parole della Ondrak e passai a descriverle gli accadimenti della notte scorsa, sorvolando sul mistero dei gemiti dalla porta. 
" Mio figlio va ancora educato, cerca di capire."
" Va bene, ma allora perchè gli ha detto che devo fare tutto quello che mi dice? Non sono certo qui per fare da cameriera a lui, non erano questi i patti."
" Bryan ha bisogno di sentirsi in un ruolo di comando, non voglio minare la sua sicurezza."
" Con tutto il rispetto signora Ondrak, mi sembra che questo sia il modo migliore per distruggere quel po' di sanità che sembra avere."
La signora fece per parlare ma non glielo permisi e continuai il mio discorso:
" Bryan ha bisogno di essere contestato su ogni cosa, se veramente si vuole risvegliare in lui il lato umano e rieducarlo. Continuare ad assecondarlo non porterà a nessun risultato."
Interpretai il silenzio della signora Ondrak come un invito a proseguire.
" Inoltre, le confesso, Bryan non è come me lo aspettavo. Lei durante il nostro primo incontro lo descrisse come una bestia, un essere animalesco. A me sembra solo un mezzo selvaggio, ineducato e dai modi selvatici ma..."
E qui fu lei ad interrompermi.
" Flower, vorresti forse mettere in dubbio le mie parole?"
" No, signora, solo che..."
" Agisci pure come ritieni più opportuno nell'educazione e nella formazione di mio figlio, hai carta bianca. Cercherò di interferire il meno possibile con il tuo progetto, non parlerò con lui se non avrò prima avuto indicazioni da parte tua. Ma voglio innanzitutto che impari a gestirlo senza mancargli di rispetto. Secondo poi, voglio che da oggi in avanti avrai pronto una programma per ogni giorno della settimana che includa pasti, lezioni delle varie materie, gite all'aperto e quant'altro la tua fantasia possa immaginare. In ultima cosa, non osare mai più mettere in dubbio ciò che ti ho raccontato. Sei pur sempre una mia dipendente ed esigo rispetto da parte tua. E con questo ho concluso, ti saluto."
Senza nemmeno darmi modo o tempo di rispondere, la signora Ondrak terminò la chiamata.  Rimasi seduta a bere il caffè freddo nella tazzina ripensando al rimprovero in grande stile che mi ero appena sorbita. Qualche minuto dopo mi arrivò un messaggio sul cellulare, era la signora Ondrak:
" Dimenticavo: domenica verremo a trovarvi per accertarci della situazione."
Sbattei il pugno sul tavolo. Voleva dire che domenica non potevo tornare in famiglia. Dannata megera! Ero fuori di me. Oltre alla ramanzina anche il danno. Mi sentivo ferita nell'orgoglio. Uscii, feci un giro per il cortile e poi per il giardino. Erano trascurati, occorreva un giardiniere, pensai. Mi tranquillizzai poco dopo e andai a chiamare Bryan che era sdraiato su alcune foglie secche sotto un cipresso.
" Entra, voglio parlarti!"
Lo feci accomodare, come fossi io la padrona di casa e lui l'ospite, sulla sedia del grande tavolo nel salone principale. Presi carta e penna e spiegai a Bryan quali fossero le mie intenzioni:

" Ascolta, ripartiamo da capo! Mi rendo conto di essere stata un po' brusca con te, ma tu devi riconsocere la stessa colpa."
Mi guardò poco convinto. Proseguii.
" Prometto che se tu sarai meno... dispettoso e sgarbato con me, io sarò meno sgarbata con te."
Non disse nulla ma mi guardò fissa pronto ad ascoltarmi.
" Ora, ho in mano carta e penna. Come suggerito da tua madre" quella vecchia megera con deliri di onnipotenza, pensai tra me e me " sarebbe bello e utile pianificare le nostre giornate. Magari, oggi potremmo studiare matematica la mattina, poi letteratura il pomeriggio, fare un passeggiata nel bosco più tardi, e vederci un film la sera, che ne pensi?"
" Non mangiamo?"
" Sì ,certo, però mi devi dire cosa ti piace mangiare!"
" Bistecche"
" Ok, di che tipo?"
" Bistecche di cavallo."
" Solo?"
" Topi, scoiattoli..."
" Ok, è il caso di variare un po' la dieta, che dici?"
Non disse nulla. 
Passamo buona parte della mattinata a scirvere il programma per la settimana. Presi quasi tutte le decisioni, lui si limitò ad acconsentire più o meno convinto. Una volta completato, presi i libri di algebra che utilizzavo alle medie che mi ero portata appresso e iniziai la mia lezione.
Bryan mi seguiva, anche con un certo interesse devo dire. La matematica gli piaceva e gli riusciva anche piuttosto bene, considerato che avevo a che fare con un selvaggio non istruito, intendo. 

                                            ****

Verso mezzogiorno arrivò una portantina inviata dagli Ondrak affinchè rifornisse la magione Regina di ogni ben di Dio. Theodore, il responsabile della consegna, prese ordine di non varcare il cancello. Mi chiamò sul cellulare, datogli probabilmente dai signori Ondrak, e mi consegnò tutto il carico, comprendente carne, verdura, legumi, biscotti per la colazioni, cereali, schifezze varie e frutta. Si offrì di aiutarmi ma gli risposi che non c'era alcun bisogno. Mi informò che la famiglia Ondrak si era incaricata di rifornire la magione ogni martedì a sue spese. Concluse allora che ci saremmo rivisti la settimana seguente, ci salutammo e rientrai. Sistemai le provviste nella dispensa e nel frigorifero, dopodichè, seguendo alla lettera un ricetta che mi ero fatta scrivere per messaggio da mia madre, cucinai delle fettine di vitella e spinaci. Le fettine erano un po' troppo arrostite, ma sembravano buone.
Gli spinaci invece ci mettevano troppo a cuocere. Li scolai e seguii la mia ricetta personale: li misi nel microonde per una decina di minuti. 
Quando li tirai fuori, avevano un aspetto molto poco invitante.
Bryan entrò in cucina affamato e si fiondò come una bestia sulle fettine fumanti. Lo redarguii invitandolo a sedersi in modo composto, a prendere forchetta e coltello e a mangiare con calma. Sulle prime non volle saperne, poi mi diede retta. Mangiò di gusto le fettine, ma non riusciva ad utilizzare le posate in modo appropriato. Impugnava la forchetta come un pungale e il coltello scivolava sulla porcellana del piatto, producendo uno stridore insopportabile. Di tanto in tanto si lasciava andare a grugniti e suoni gutturali. Io lo guardavo dall'altro lato del tavolo con tanto disgusto sul volto, che però lui parve non cogliere. Servii gli spinaci lessi in microonde e si rifiutò di mangiarli. Non riuscii a dargli torto. 
" Le donne devono sapere cucinare" disse, con un certo disprezzo nella voce. Lo guardai male e capii che il commento non mi piacque affatto.
Il pomeriggio fu altrettanto piacevole. Sembrava avessimo già trovato un nostro equilibrio. Certo, la lezione di letteratura fu una tortura, e durante il film la sera non riuscì a stare fermo un secondo, tanto che dovetti toglierlo, ma almeno non ci fu nessun battibecco durante il giorno e andai a dormire serena. Poco prima di entrare nella mia stanza guardai il lungo corridoio e fui colta dalla curiosità di andare ad indagare riguardo quei gemiti, ma poi ci ripensai, mi ritirai in camera e mandai un messaggio di buonanotte ai miei genitori, a Meg e anche Pam, che non sentivo da un po'. Mi addormentai chiedendomi se l'avrei vista domenica, scivolai nel sonno e non mi diedi risposta.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 7 ***


CAPITOLO 7

Il giorno dopo mi svegliai di buon'ora, pimpante di energia, scesi lesta le scale e preparai la colazione per me e per Bryan che si presentò in cucina una ventina di minuti dopo
" Buongiorno" dissi piena di entusiasmo, lui rispose con un grugnito.
Iniziamo male, pensai. 
" Mi dovrai indicare in quale stanza dormi, se mai dovessi venire a svegliarti, almeno so dove cercarti"
" Non mi devi svegliare."
" Be', non si sa mai.."
" Non devi!" Urlò.
Versai il caffe nelle tazzine, misi i biscotti sul tavolo e presi il latte dal frigorifero. Feci colazione in tutta calma sognando ad occhi aperti lo stipendio che mi sarebbe arrivato tra pochi giorni. 
Bryan masticava rumorosamente. Lo osservai piena di disgusto.
" Cosa vuoi?"
Mi colse alla sprovvista.
" Niente, stavo pensando..." improvvisai sul momento,
" Cosa c'è nella stanza lungo il corridoio al primo piano?"
" Quale?"
" Quella con la porta di legno rovinata... a metà del corridoio."
" Non lo so."
Prese e se andò. Poco male, lo avrei scoperto da sola. 
La mattina studiammo storia e filosofia. Non mi stava dietro, non mostrava alcun interesse. Esaperato, non so se dalla noia o dal fatto che non stesse capendo nulla, lanciò in aria i libri e corse via. L'idillio del giorno prima era già terminato. Per pranzo gli feci trovare un pollo arrosto. Doveva essere un arrosto di tacchino ma lo bruciai e dovetti buttarlo. Chiamai Bryan dalla cucina per informarlo che il pranzo era pronto. Uscì dalla sua stanza segreta, quella alla quale non mi era permesso avvicinarmi. Mostrava un sorrisetto compiaciuto e aveva un'espressione da beota che mi innervosiva. Iniziammo a mangiare, io volevo fare un po' di conversazione:
" Cosa stavi facendo?"
" Che ti frega?" Il tono era carico di disprezzo, ma lo diceva con l'aria sorniona tentando invano di smorzare quel mezzo sorriso che gli increspò le labbra. Capii subito il suo gioco. Finsi improvviso disinteresse.
" Niente, sono affari tuoi" continuai a mangiare in silenzio, ma mi accorsi che la mia improvvisa indifferenza lo lasciò di stucco.
" Quella è la mia stanza segreta!" Disse ad alta voce. Voleva chiaramente catturare di nuovo la mia attenzione.
" Sì, me lo ricordo." E  proseguii a fare finta di nulla.
" So che muori dalla voglia di vederla!"
" No, in realtà non me ne frega nulla..."
Sembrava di giocare con un bambino.
" Se ti interessa tanto te la faccio vedere".
" Non ce ne è bisogno".
" Vieni, dai te la faccio vedere" lo disse come se mi stesse concendendo l'onore di visitare la casa bianca.
" Ma prima voglio bendarti gli occhi, così sarai più sorpresa"
Allora lui si alzò tutto eccitato e mi legò una benda intorno agli occhi.
Non so perchè mi venne in mente quel passaggio del De rerum Natura in cui Ifigenia viene bendata e convinta di andare in sposa al suo amato, ma in realtà sta per essere data in sacrificio agli dei dal padre. Mi venne un brivido lungo la schiena. Avrei preferito essere sacrificata che andare in sposa a Bryan!
Mi condusse fino alla porta della stanza. Pur non vedendolo, percepii l'entusiasmo nel suo modo di fare. Mi spingeva dai fianchi, tutto felice, strepitava:
" Rimarrai sconvolta" ripeteva eccitato, se ne convinceva più lui di quanto non lo fossi io " Questa è la mia stanza delle torture", spalancò la porta e fece cadere la benda. In effetti è vero, rimasti sconvolta: era una stanzetta angusta e tetra, pregna di un tanfo insopportabile. Ovunque intorno c'erano costruzioni strane che tutto sembravano fuorchè strumenti di tortura. A lato c'era una strana, grande scatola aperta di forma rettangolare con rete sopra cui gravitavano sospese delle costruzioni in legno che ricordavano degli aerei giocattolo, verniciati di nero. 
Sul pavimento in un angolo a destra c'era un modellino di treno elettrico, anche esso dipinto di nero, con sopra malamente incollato un coltello acuminato. Ancora poi vidi quello che pareva un gigante peluche a forme di orso, imbevuto nella vernice nera, con due occhi spiritati incollati sui bottoni originali e con in mano una motosega, che però sembrava finta. 
Girai per tutta la stanza ispezionando quegli strani oggetti, mentre lui mi guardava fremendo dall'attesa di sentirmi dire che sì, ero terrorizzata e che era un vero duro, un vero cattivone. 
" Ma sono.. giocattoli!" Gli si dipinse la delusione sul volto.
" Sono giocattoli verniciati in nero... con qualche arma inserita a caso"
" Che stai dicendo?!? Sono strumenti di tortura!" Urlò in preda alla collera. Si avvicinò al tavolo al centro della stanza e prese uno Yo-yo, ovviamente color pece.
" Questa è un'arma pericolosissima" lo guardai senza capire se fosse serio o mi prendesse in giro.
" E' uno yo-yo"
" No, è un'arma!" Ripetè sbattendo i piedi a terra. Capii che era serio. 
" Queste cose fanno impazzire le donne!"
Lo guardai scettica. Quelle cose potevano far impazzire solo alcune donne: le mamme, e non nel senso che intendeva lui, sicuramente.
" Sono strumenti di piacere" esclamò, come se temesse che non avevo afferrato. 
" Sono strumenti di piacere o di tortura?" Lo misi in confusione.
" Entrambi..." Rispose dopo un po', ma non lo sentii convinto.
" E secondo te..." dissi prendendo in mano un macchinetta a molla, rigorosamente nera, con una lama aggiunta sul piccolo paraurti "io dovrei sentirmi spaventata o addirittura eccitata da questo?" 
gli misi davanti agli occhi il giocattolo, lui messo alle strette e imbarazzato iniziò ad urlare:
" Le donne vere sì, ma tu non sei una donna vera! Non sai nemmeno cucinare!"
" Per te una vera donna deve sapere cucinare quindi?" incalzai
" Sì"
" E un vero uomo?"
" Un vero uomo deve farsi tante donne" disse lui trionfante.
" Ah capisco, quindi tu non sei un vero uomo!" conclusi con un sorriso malizioso. 
Lui andò su tutte le furie, iniziò a sbraitare e mi urlò di uscire fuori dalla sua stanza. Divertita dalla scena ma anche infastidita dal suo comportamento, lo lascia bollire nella sua rabbia e me ne tornai a terminare il pasto che oramai si era raffreddato. 
Non vidi Bryan per tutto il giorno. Il pomeriggio avevamo in programma di studiare scienze sociali, che, in seguito all'ultimo evento, capii servirgli più di quanto pensassi, ma lui non si presentò. Cenai da sola e mi sentii triste. Mi mancavano i miei. Me li immaginavo lì seduti accanto a me a ridere e scherzare. Mamma con la sua risata grossa che mi raccontava uno dei suoi episodi d'infanzia, Lea che si lamentava per un'insufficienza in fisica e papà che ci informava, come ogni sera, sugli sviluppi della sua pozione. In tarda serata li chiamai e dovetti fingere di avere un'urgenza con Bryan perchè non riuscii a trattenere le lacrime. Non ebbi nemmeno il coraggio di dire loro che domenica non sarei venuta. Mi sentivo col morale a terra quella sera, non chiamai nemmeno Meg, le mandai un messaggio con la quale la informavo di stare bene e che tutto procedeva liscio. Non era vero. Lei mi rispose che era contenta per me, mi aggiornò un po' sulla sua vita e mi disse di aver conosciuto un ragazzo del quale mi avrebbe parlato. Le scrissi che ero veramente contenta per lei, ma non lo ero veramente. Qualcosa a riguardo mi turbava, non so cosa. Andai in cucina, aprii il frigorifero, presi la bottiglia di Chardonnay, la svitai e ne versai un po' nel bicchiere. Mi stesi sul divano sorseggiando vino a mi addormentai così, sperando che il giorno dopo sarebbe stato migliore.

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 8 ***


La mattina dopo chiamai prontamente la signora Ondrak:
" Salve signora, buongiorno!"
" Prenderai a chiamarmi tutte le mattine? La sera non ti aggrada?"
Notai un certo tono canzonatorio nella voce.
" La sera mi rimane più difficile, ho troppe cose da fare, preferisco la mattina"
" Io preferirei invece che mi chiamassi la sera"
Cambiai discorso.
" Ieri Bryan si è nuovamente comportato male, non si è presentato alla lezione pomeridiana e nemmeno a cena"
" Lo so"
" Come lo sa?"
" Me lo ha detto. Mi ha chiamato lui"
Pensai fosse assurdo che il figlio chiamasse la madre per lamentarsi di ogni cosa.
" Mi ha detto che hai offeso il suo onore virile"
" Il suo cosa?" Ero sbigottita da questa affermazione.
" Pensavo di essere stata chiara a riguardo, Flower. Scegli il modo che più ritieni consono nell'educazione di Bryan ma devi rispettarlo."
" Guardi, è stato lui a non rispettare me offendendomi. E poi suo figlio mi sembra un po' troppo suscettibile, sarebbe ora che smorzasse questo tuo lato."
" E' l'ultimo avvertimento Flower."
" Eravamo rimasti d'accordo che lei non si sarebbe più intromessa in queste faccende prima di aver ascoltato la mia versione dei fatti."
" Questa era un'emergenza."
" Un'emergenza? Suo figlio che si offende dopo avermi detto che non sono una vera donna perchè non so cucinare, per lei questa è un'emergenza?" Mi ero alterata molto.
" Se vuoi andartene, sei libera di farlo, lo sai."
" Non lo farò. Ma lei deve venirmi incontro. Credo che lei abbia bisogno di me più di quanto io abbia bisogno di lei, e se me andrò sarà lei a rimetterci."
" Vedremo se sarà così. Ci vediamo domenica."
Non salutai e attaccai il telefono.
Mi resi conto di odiare profondamente quella donna. Ed ero sempre più convinta che non me la raccontasse giusta: nascondeva qualcosa riguardo a Bryan. Poi mi accorsi che la forte antipatia provata per la signora Ondrak, mi portò ad allontarmi piano piano sempre più anche da Pam. Non la sentivo dal giorno che conobbi la madre. E' vero, ho sempre avuto un rapporto più intenso con Meg, ma Pam era una mia buona amica, con i suoi difetti, certo, ma quelli ce li abbiamo tutti, solo che ora non riuscivo più a vederla allo stesso modo. Faceva parte anche lei di questo turbine incessante di segreti, verità omesse e stranezze di cui mi sentivo essere al centro. Decisi di mandarle un messaggio:
" Ciao, come stai?" Semplice e pulito.
Mi rispose immediatamente dopo:
" Non voglio parlare con te."
Mi sentii profondamente colpita.
" Scusa, perchè?"
 "Mamma mi ha detto che stai trattando male Bryan."
Non ci vidi più dalla rabbia e scrissi un messaggio in cui sfogai tutta la mia frustrazione:
" Numero uno, forse dovresti chiedere anche la mia versione invece di dare per scontato che io ho torto e tuo fratello ragione solo per il fatto che condividete lo stesso sangue.
Numero due, sapendo delle difficoltà che sto attraversando, lontano dalla famiglia, lontano dagli amici, lontano dalla mia vita, a lottare con Bryan, che nessuno meglio di te sa essere molto particolare su tanti fronti, potresti sforzarti di comprendere senza puntarmi il dito contro e senza avvertire il bisogno di prendere per forza una parte.
Questo è tutto. Speravo di vederti domenica, ma a questo punto non lo so più."
Lo scrissi di getto, non lo rilessi nemmeno. Lo inviai e aspettai una risposta, una risposta che sapevo non sarebbe arrivata. Conoscevo Pam, la conoscevo bene. Nonostante tutti i suoi sforzi di sembrare una tipa "in", sempre alla moda, piena di interessi e talenti, molto spesso e su molti aspetti tendeva ad esser priva di personalità. Mi duoleva ammetterlo, ma sapevo che era così. Aveva plasmato le sue caratteristiche su Meg, fondamentalmente, perché temeva il confronto con lei, e ne aveva mutuate altre da me. Le sue doti, le sue qualità, quelle vere, non le teneva di gran conto, dato che, secondo quanto lei stessa ci raccontò più volte, la madre non le apprezzava. Allora aveva imparato a insabbiarle, fino a dimenticarsi di averle mai avute. Crescendo Pam era sempre più simile a quello che la madre aveva deciso precedentemente dovesse essere che a se stessa. E noi ci rendevamo conto di ciò, nostro malgrado, ed eravamo dispiaciute per lei, continuavamo ad opporci strenuamente ma impercettibilmente alla presenza della signora Ondrak. Non so quanto i nostri sforzi fossero serviti. 
Avevo gettato il telefono sul tavolo della cucina per la rabbia.  Rimasi a braccia conserte a contemplare il vuoto aspettando di sbollire. Allora chiamai Meg, sperando che avrebbe potuto aiutarmi, almeno lei, o consolarmi:
" Meg, ciao!"
" Oi Flo, ciao!"
" Volevo parlarti un attimo..."
" Dimmi tutto, cosa è successo?"
Le raccontai in breve il litigio con la signora Ondrak e poi con Pam.
" Sì sapevo che Pam ci era rimasta molto molto male."
" Te lo ha detto?"
" Sì, ci siamo viste spesso questi giorni, era molto abbattuta."
" E perché non mi hai detto nulla, scusa?"
" Perché non volevo farti preoccupare troppo, è una cosa che si risolverà presto."
" E tu cosa le hai detto?"
" Be', che era comprensibile ci fosse rimasta male.."
" Ah per te è comprensibile?"
" Ci può stare, forse sei veramente un po' troppo dura con Bryan..."
Non ebbi la forza nè la voglia di ribattere a questa affermazione. Le attaccai il telefono in faccia e andai a vestirmi.
Il telefono non squillò più, e la giornata trascorse normalmente. 
Ero talmente infuriata, con la signora Ondrak, con Pam, e addirittura con Meg, che non ebbi mai voglia di battibeccare o discutere con Bryan. Lui dovette essersene accorto perchè fece di tutto per non irritarmi.
Recuperammo la lezione di scienze sociali e facemmo due ore di lingua straniera. Era veramente negato. Nemmeno se avesse trascorso una vacanza di sei mesi in terra straniera avrebbe mai raggiunto un livello sufficiente per poter interloquire con i nativi. Lo pensai, ma non lo dissi. Ammiravo l'impegno. Arrivò la sera. Bryan fu colto da un moto di gentilezza e si offrì di cucinare lui la cena. Fece un disastro, peggio di quanto avrei potuto fare, ma mangiai lo stesso. Anche qui, apprezzai lo sforzo. Mi diressi in camera dove mi cambiai. Mi concessi mezz'ora di doccia calda per sciogliere la tensione, mi misi in pigiama  e poggiai la testa sul cuscino. Ripensai a tutto ciò che mi aveva ferito in meno di ventiquattro ore: alla discussione con la signora Ondrak e al mio orgoglio ferito, per la seconda volta. Alla scarsa sensibilità e alla mancanza di spina dorsale di Pam, che però non mi stupii in fondo. Pensai a Meg. La sua reazione invece mi stupii, mi stupii veramente e mi ferì più delle altre. Forse mi stupii più la mia reazione, però. A mente lucida compresi che tutto sommato non aveva detto nulla di così atrocemente grave. La mia reazione fu esagerata. Tornavo con le mente su questi pensieri come un boomerang mentre piano piano mi addentravo sempre più nel sonno. Meg non mi aveva protetta nel momento del bisogno. Non poteva schierarsi apertamente contro Pam, nè poteva dirle direttamente di essere priva di personalità e di lasciarsi plasmare dalla madre come una vaso di argilla. No, certo che no, ma avrebbe potuto, avrebbe potuto,avrebbe potuto...fare altro. Cosa? Non lo so. Avrebbe potuto evitare di uscire con quel tizio. Non sapevo nemmeno il nome. Chi era? Dove l'aveva conosciuto? Tic. Tic... Tic. Tic. Percepii un rumore sul vetro della finestra e mi svegliai. Non riuscivo a capire cosa fosse. Ebbi il timore che potesse essere qualche altra stranezza di Bryan.
Ma ero rintronata e non riuscivo a produrre pensieri lucidi. Aprii la finestra e un piccolo sassolino mi centrò in testa. Guardai in basso e c'era Meg. Il cuore mi battè forte all'impazzata, ma subito dopo fui pervasa dal terrore che Bryan potesse scoprirlo. Non tanto per lui, quanto per la madre. Se la signora Ondrak avesse saputo che Meg si era diretta fino alla magione Regina nel cuore della notte, mi avrebbe licenziato su due piedi.
" Meg! Cosa fai?" cercai di farmi sentire il più possibile senza urlare.
" Lancio sassi alla finestra!" 
" Se Bryan ti scopre siamo fritte! Resta ferma lì, vengo ad aprirti"
Scesi le scale con il cuore in gola un po' per la paura e un po' per l'eccitazione di saperla lì, sotto la mia finestra a lanciare sassi sul vetro, per me, solo per me.  I raggi della luna scintillavano sul mosaico alle mie spalle e mi coloravano d'argento la vestaglia che svolazza nella corsa verso la porta. Aprii la porta e vidi Meg. Ci abbracciammo. Sembravano passati mille anni dall'ultima volta. Gli passai la mano sulla chioma mentre nella stretta dell'abbraccio cercai di non perdermi nemmeno un po' del suo odore. Salimmo le scale di corsa, la feci entrare lesta lesta nella mia stanza, quando la voce di Bryan proruppe d'improvviso nel buio del corridoio.
" Chi é?"
" Tranquillo Bryan, sono solo io."
" Ho sentito altri passi."
" Chi vuoi che sia, ero io che andavo veloce perchè ho freddo..."
La spiegazione che diedi non aveva senso, e non era nemmeno una spiegazione, ma Bryan non era certo un luminare e se la fece andare bene. Tornò cheto nella stanza. Mi soffermai un secondo di più sulla sua sagoma che veniva inghiottita dall'oscurità e pensai che stesse entrando nella stanza da cui avevo sentito provenire i gemiti misteriosi. Per un momento fui colta dall'istinto di lasciare Meg sola in camera e di svelare il segreto che mi teneva accesa la mente da giorni. Ma poi desistetti ed entrai in camera mia.
Meg si era seduta sul letto, ed era più bella che mai. I suoi capelli spumosi erano raccolti in un nastro di seta  e ricadevano a lato della testa, sulle spalline di una camicetta leggera color argento. Vestiva sempre leggera, anche di inverno. Ma quella era una notte calda di un settembre torrido che non sembrava voler addolcire la sua presa. La pelle di Meg era imperalata di gocce di sudore, scintillava nel tiepido alone della luna. 
Io difficilmente sentivo caldo e stavo bene con la mia vestaglia di cotone, 
ma capii che lei doveva essere accaldata. Lasciai la finestra aperta, ma fui come presa dall'istinto di chiuderla per farle avvertire più caldo, per far sì che volta per volta si togliesse la camicietta, la gonna, si sciogliesse i capelli...
" Ti ho svegliata?"
" Stavo per addormentarmi, ma tranquilla. Come hai fatto ad entrare?"
" Ho scavalcato il cancello, facile!"
Lo disse passandosi la mano tra i capelli, con un sorriso semplice.
" E come facevi sapere che era questa la mia finestra?"
" Le tende rosa. Mi avevi detto che la tua stanza ha la tende rose. E non poteva che essere l'unica."
" Buon ragionamento, ma ti ha detto anche bene. Non sono sicura non ci siano altre tende dello stesso colore per la casa."
" Chissene importa, sono qui, è questo che conta."
" Già, conto solo questo."
" Ascolta Flo, io..."
" No aspetta, prima che tu dica qualcosa, devo chiederti scusa per oggi, ho reagito male perchè ero furiosa, ma non con te, ce l'avevo con Pam, con la madre... veramente, mi dispiace."
" Stai tranquilla, ho capito che non stavi bene, ecco perchè ti ho raggiunta."
" Hai fatto tutto questo per accertarti che stessi bene?"
" Non potevo fare altrimenti."
Ci guardammo. Il suono dei grilli riempiva l'aria e la brezza gentile piegava le tende.
" Parlerò con Pam e sarò più chiara, cercherò di farle capire la tua posizione"
" No Meg, devo farlo io. Domenica verrà qui, o spero perlomeno, e le parlerò."
" Non verrà, Flo."
" Te lo ha detto lei?"
" Non vuole venire, ma la convincerò, fidati di me."
In quel momento sentii di voler piangere. Ma non lo feci, perchè c'era Meg lì, ad un passo da me, sul mio letto. 
" Tu piuttosto, dimmi la grande novità..." cercai di sorridere, ma faticai molto. 
" Vuoi sapere del tipo che ho conosciuto?" 
" Sì, certo." Mentii, non volevo.
" Un tipo interessante, lavora part time al bar di fronte la facoltà. Il resto dei giorni frequenta le lezioni."
" Cosa studia?"
" Ingegneria! Mi piace parlare con lui, è simpatico, è sveglio, ed è bello. Ha due grandi occhi marroni e della belle labbra e poi..."
Ogni parola era un lama nella mia pelle. 
" E poi mi tratta bene."
Anticipai nella mente l'arrivo di un "però"
" Però..." e si fermò. 
"Però cosa? Qual è il problema?"
" Però... gli mancano delle qualità..." il tono della voce si fece stranamento basso, i suoi occhi si posarano in basso, come se cercasse di scrutare dentro di sè una verità mai scoperta.
" Delle qualità che non ho mai trovato in nessuno, in nessuno se non in te." Lo disse guardandomi negli occhi.
Il silenzio si adagiò con tutto il suo peso sul tepore di quella notte di stelle. Restammo a guardarci per minuti, minuti pieni, minuti interi che sembrarono ore. Cercai la sua mano con la mia senza mai smettere di guardarla negli occhi, ma poi lei si alzò.
" Dove vai?" 
" E' ora Flo, devo tornare."
" Resta!" Dissi senza pensare. Resta, dormi con me, volevo dirle.
" Non posso Flo, è pericoloso."
Non sono sicura si riferisse agli Ondrak.
" Ti accompagno?"
" No, non ce ne è bisogno Flo"
Si avvicinò e mi schioccò un bacio sulla guancia. Poi uscì dalla stanza, scese le scale senza far rumore e andò via. La vidi allontanarsi a bordo della sua macchina rossa nel buio del bosco. 
Tornai a letto con qualche domanda in più e costruii nella mia mente il continuo ideale a ciò che era successo quella notte e che mi aveva agitato il cuore nel petto. Mi addormentai felice.

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 9 ***


CAPITOLO 9 

Le giornate trascorsero veloci, si susseguirono ognuna uguale alla precedente. Dopo il brusco inizio, sembrava che il rapporto con Bryan si fosse stabilizzato. Le lezioni procedevano bene, notavo dell'impegno da parte sua, anche se i risultati non erano molto soddisfacenti. Durante i pasti si riusciva a conversare, pur non arrivando mai a toccare argomenti realmente interessanti. Al telefono, informai i miei che domenica non sarei potuta venire. Nascosero il dispiacere con delle frasi di circostanza, e io feci altrettanto. Pam non rispose mai al messaggio, non sapevo nemmeno se l'avrei vista domenica, mentre Meg, dopo quella notte, si era fatta sentire poche volte e solo per messaggio. Mi mancavano, mi mancavano tutti. Mi sentivo terribilmente sola e la monotonia delle giornate trascinava con sè un vago senso di noia che si faceva via via più acuto. 
Quando gli Ondrak arrivarono, quella domenica, io mi ero svegliata da poco. Bryan rimase di fronte alla porta di ingresso ad attenderli trepidante, come un bimbo che aspetta i genitori tornare a casa. 
Ero in cucina a bere il caffè quando sentii suonare il campanello. Mi alzai per aprire la porta ma Bryan mi superò in velocità, aprì la porta e si fiondò tra le braccia della madre che lo carrezzò come fosse un cucciolo di labrador. Con grande stupore notai che c'era anche Pam, subito dietro al signro Ondrak. In realtà rimasi alquanto sorpresa della presenza di entrambi. Sapevo che la vicinanza di Bryan produceva una regressione imbarazzante per gli uomini. Pam mi salutò con un cenno sommesso piegando di poco il labbro. Io ricambiai il saluto.
" Cara Flower, che sorpresa! Questa casa splende!"
Lo credevo bene, nel fine settimana mi ero dedicata alla pulizia accurata di ogni stanza. 
" Ti vedo un po' sciupata, stai mangiando?"
" Sì, non si preoccupi." Mantenni un certo distacco. Non mi ero dimenticata come ero stata trattata per ben due volte al telefono.
" Oggi puoi riposarti e passare un po' di tempo con Pam, io mi dedicherò alla cucina. Voglio farmi perdonare per il tono brusco delle nostre ultime... chiacchierate. Pranzeremo tutti insieme."
L'annuncio risuonò come un ordine. Sorrisi e feci un cenno di approvazione con la testa, dopodichè invitai Pam in stanza, le volevo parlare.
Eravamo in camera e si respirava un palese imbarazzo. Rimase in piedi al centro della stanza tenendosi le mani nelle mani.
" Be' che fai, non ti siedi?"
" Non è la mia stanza."
" Non avrai mica bisogno dell'invito ufficiale?" Le avvicinai la sedia e mestamente si mise a sedere.
" Devo essere onesta Pam, non mi aspettavo di vederti oggi e..."
come faceva ogni volta che avvertiva di essere giudicata o rimproverata, non mi lasciò parlare, si allacciò ad ogni pretesto possibile per attaccarmi e assunse un'insopportabile atteggiamento aggressivo-passivo.
" Che vorresti dire scusa? Mi stai dicendo che io non tengo alla nostra amicizia? Molto poco carino da parte tua."
" No, se mi lasciassi finire di parlare, sapresti che voglio dire tutt'altro.."
" Guarda che mi hai interrotto tu." Avevo già malditesta, non sopportavo i suoi capricci da bambina viziata.
" Allora, facciamo così: inizio io, poi mi rispondi tu"
Non attesi nemmeno il suo consenso e iniziai a parlare:
" Dicevo, non mi aspettavo saresti venuta, ma mi fa molto piacere che sei qui. Onestamente, spero che tu abbia riflettuto sull'atteggiamento che hai avuto nei miei confronti e..."
" Non ho niente di cui scusarmi"
" Addirittura tua madre ha riconosciuto di aver avuto dei toni bruschi..."
le feci notare, e feci centro. Si addolcì improvvisamente e lasciò cadere quel brutto muso imbronciato e stizzito che si era dipinta in volto.
" E' che quando si tratta di Bryan sono molto suscettibile. Mi rendo conto che è stancante e spesso è offensivo, maleducato, ma è mio fratello. Il nostro rapporto si è incrinato molto, ma da quando non c'è a casa a me manca, e manca tanto." Quelle parole toccarono le mie corde. Mi fecero pensare a Lea, la immaginai sul tavolo della cucina a studiare. Poi però mi chiesi come potesse mancarti uno come Bryan. 
" Lo capisco" dissi.
" E' la prima volta che rimaniamo seperati così a lungo, è un fratello ti manca, anche se la vita con lui era difficile."
"La prima volta?" Ricordavo con precisione il racconto della signora Ondrak, Bryan fino ai dieci anni era rimasto in un allevamento di cani-lupo cecoslovacchi. E Pam doveva aver avuto all'incirca otto anni, abbastanza per ricordarsi di aver vissuto con lui.
" Sì, la prima volta."
" Scusa, ma non è stato in un allevamento fino ai dieci anni?"
" Come? Ah, sì, sì certo, intendo la prima volta da allora."
Mentì. Mi dava l'impressione di una bambina a scuola di teatro che non poteva ammettere di non aver memorizzato la sua parte per paura di essere punita dalla maestra.  Era agitata tutt'ad un tratto, si contorceva le mani.
Ero sul punto di tempestarle di domande, sapevo sarebbe crollata, ma sentimmo bussare alla porta:
" Ragazze, tra venticinque minuti scendete, dovete apaprecchiare la tavola."
Pam approfittò della distrazione per aprire un nuovo argomento:
" Sai, ho conosciuto un ragazzo!"
" Ah dai, sono contenta, e chi è?"
" E' un ragazzo che abita qui vicino, l'ho conosciuto ad una festa troppo divertente l'altra sera. Stavo ballando con un vodka lemon in mano, sai, è il drink adatto per certe situazioni, quando mi si avvicina questi tizio e mi chiede di ballare."
" Bell'approccio." Mentii. Mi lasciò alquanto indifferente. " E tu che hai fatto?"
" Che dovevo fare? Quello che fanno tutti, ho ballato!"
" Ma questo chi è?"
" Era il proprietario di casa, pensa, fa feste almeno una volta a mese. Lo considerano un figo."
" E cosa fa nella vita oltre a organizzare feste a casa sua?"
" No no, la casa mica era sua, era dei suoi genitori, solo che non c'erano. 
Comunque è uscito dal liceo l'anno scorso e non sa se studiare o lavorare."
" Ah, quindi è più piccolo di noi."
" No, è più grande, ha venticinque anni."
" Ah... e... a te piace, no?"
" Non è un granchè e mi annoia quando parla, però per tutti è un figo."
" E quindi?"
" Niente, ci sto uscendo, vedo come va, potrebbe essere quello giusto!"
" Ma hai detto che non ti piace?"
Veramente mi stavo sforzando di capire la sua logica, ma non ci riuscivo. 
" Eh ma il tempo stringe, devo trovarmi un ragazzo".
" Ma perché? Non c'è mica un scadenza da rispettare!"
" Be', come no, i figli? Il matrimonio?"
" Mi sembra un po' presto per parlarne, e comunque dovresti fare questi passi con una persona che ami, non con uno che gli altri credono sia figo."
" Ecco perchè rimarrai zitella."
" Può darsi, ma sarò felice perchè lo avrò scelto io."
Finita la conversazione scendemmo le scale per andare ad apparecchiare la tavola, come ordinato dalla signora Ondrak. Ripensavo al discorso che mi fece Pam, non aveva minimo senso. Si stava frequentando con un ragazzo solo perchè acclamato dagli altri. Ma poi gli altri chi? Mi sembrava un ragionamento adatto ad un ragazza di quindici, sedici anni, ma non ad una di venti e passa. E perché tutta questa fretta di sistemarsi? Era giovane, con tante, troppe cose di cui fare esperienza, ancora.
La signora Ondrak ci aspettava in cucina, aveva preparato il tavolo con tovaglia, posate e bicchiere, aspettava solo che noi le sistemassimo.
Iniziai a mettere la tovaglia quando lei mi fermò e mi disse che non avremmo certo mangiato in cucina, ma nella sala principale. 
Mi sembrava un po' esagerato, saremmo entrati anche nel tavolo in cucina, ma non feci commenti, mi limitai a seguire le sui indicazioni.
Io e pam stendemmo la bella tovaglia dorata lungo tutto il tavolo, poi andai a brendere posate, salviette e bicchieri. Di nuovo, la signora Ondrak mi bloccò:
" Non vorrai mettere tutto sulla tovaglia di seta?"
" E dove allora?"
" Be', devi stendere sopra un'altra tovaglia, altrimenti quella si rovina!"
"... Ma allora perchè l'abbiamo messa se ne serve un'altra ancora?"
" Perchè decora, rende l'ambiente più piacevole."
Non contestai nemmeno questo, ma mi sembrò folle.
Disponemmo tutto il necessario sulla tavola, stavolta senza interruzioni, ma mancavano ancora i piatti, caraffe d'acqua, vino, e secondo la signora Ondrak, dei candelabri da mettere a centro tavola.
Mi sembrò opportuno chiamare sia il signor Ondrak sia Bryan, in modo che dessero anche loro una mano, ma non li vedevo da nessuna parte.
" Lasciali pure dove sono, questo è un compito da donne."
" Be', una mano ci farebbe comodo, e sarebbe utile anche a Bryan..."
" Ho detto di no." Rispose stizzita la signora Ondrak.
Desistetti, ma, anche in questa occasione, non mi sembrò un ragionamento molto opportuno. 
Era quasi pronto, i due maschi della famiglia rientrarono. Dal fiatone e dal fango sui vestiti capii che dovevano essere rincorsi in giardino. Bryan andò in cucina, sentii la madre rivolgersi a lui con versi di ammirazione che di solito si concendono solo ai bambini. Pam era sul divano a messaggiare col telefono, probabilmente con il tizio "figo" conosciuto alla festa. Il signor Ondrak invece si stava riposando seduto su un gradino della scala.
Con il pretesto di offrirgli del vino mi avvicinai a lui e dissi:
" Si segga pure sulla sedia, starà più comodo."
" Non ti preoccupare, sto bene qui."
" Pensavo non dovesse stare troppo a contatto con Bryan" dissi abbassando notevolmente il volume della voce.
" Ma lei vuole così..."
" Cosa?" Chiesi sbalordita da questa affermazione.
" Così può controllarmi meglio..."
" Tutti a tavola!"
La signora Ondrak dispose sul tavolo piatti colmi di cibo. La tavola era imbandita con il meglio che la casa potesse offrire. 
Mi misi a sedere, impugnai con delicatezza la forchetta, augurai a tutti un buon appettito e cominciai a mangiare. La signora Ondrak con un colpo di tosse richiamò la mia attenzione su di lei poco prima che inserissi la forchetta in bocca. 
" Cara, prima la preghiera."
" Ah... ecco vede, io sono atea e..."
" Non ti preoccupare, anche noi."
" Ah...E allora perchè bisogna fare la preghiera? Potremmo, non so, iniziare a mangiare, così..." pronunciai questa frase titubando, come se mi stessi inoltrando in un campo minato senza protezioni. Questa lunga sequela di
azioni insensate mi lasciava tramortita e confusa.
" Non dire sciocchezze, ogni famiglia che si rispetti dice una piccola preghierina prima di cominciare il pasto! Vuoi dirla tu Pam?"
Pam si alzò, giunse le mani in preghiera e con gli occhi chiusi
cominciò a recitare un sermone vacuo intriso di ovvietà sulla spiritualità e ringraziamenti di plastica ad una divinità in cui nessuno lì a tavola credeva.
Iniziammo finalmente a mangiare. La signora Ondrak  conversava su ogni piccola inezia, guidando la discussione a tavola. Pam partecipava alla discussione con l'aria spaventata di una ragazzina all'interrogazione di latino, temendo che al primo errore la professoressa potesse metterle quattro e rispedirla a posto. Il signor Ondrak era silenzioso ma inquieto, mangiava a fatica, non riusciva ad impugnare le posate, a guardarlo faceva tenerezza. 
La moglie di tanto in tanto mentre interloquiva con me o Pam, le uniche interessate o che sapevano fingere interesse alle sue parole, gli correggeva la postura, guidava le sue braccia in modo da centrare la bocca con la forchetta e lo ripuliva qualora fosse sporco.
" Forse è stato troppo a contatto con Bryan" dissi interrompendo l'amabile conversazione tra Pam e la madre riguardo il modo opportuno di vestirsi e truccarsi ad una festa tra giovani adolescenti. La signora Ondrak mi guardò 
con tutto il disappunto che sapeva trasmettere con i muscoli del viso. Pam abbassò lo sguardo e si mise a mangiare in silenzio, mentre il padre vagava distratto in una realtà parallela. Bryan era così intento a gustarsi il piatto prelibato, preparato dalle amorevoli mani della madre, che non fece nemmeno caso alle mie parole. 
" Questo non è affar tuo, Flower."
" Senza dubbio non lo è, ma non capisco come mai esporlo per così tanto tempo alla presenza dannosa di..."
Mi zittì violentemente.
" Stiamo mangiando e conversando amabilmente, come tutte le famiglie normali."
" Quello che voglio dire è..."
" Quello che vuoi dire lo so, e non mi interessa. Non ti riguarda e non ho spiegazioni da fornire a riguardo."
" Sì, ma..." insistetti di nuovo, al che la signora Ondrak sbattè il pugno sul tavolo e urlò con voce grave e profonda.
" Basta così. La tua indisponenza inizia a scocciarmi."
Non dissi più nulla. Consumai il mio pasto facendo finta di seguire l' ennesima conversazione frivola tra le due, poi sparecchiai e mi misi a lavare i piatti. L'acqua scivola sulla porcellana e mi bagnava la pelle. Nel suo costante scroscìo mi riusciva facile abbandonarmi ai pensieri, e ne avevo tanti per la testa. Quanti segreti mi nascondevano gli Ondrak? Perchè la signora Ondrak sottoponeva di proposito il marito alla presenza del figlio, pur sapendo gli effetti disastrosi? Bryan era stato veramente allevato dai lupi? Pam non sembrava al corrente di questa storia. Ma come faceva a non ricordarsi che per anni non aveva visto il fratello? Chiusi il rubinetto e con il cessare del flusso dell'acqua sul metallo, smise anche il fluire dei miei pensieri. La signora Ondrak entrò in cucina, si assicurò con discrezione che non ci fosse nessuno e mi si avvicinò:
" Cara, questo è il tuo stipendio della settimana. Il compenso pattuito con un 'aggiunta di cinquecento euro per la domenica fuori programma."
" La ringrazio."
" Non avrei dovuto aggiungerla, data l'insolenza mostrata oggi. Ma voglio pensare sia stato un errore dettato dall'inesperienza a trattare con persone di un certo rango..." Ogni sua parola grondava autocompiacimento e superbia.
Avrei voluto ribattere, prendere il coperchio della pentola e sbattergliela sul muso.
" ... Del resto, capisco che tu non sei abituata. Ma sei qui per questo."
Cosa voleva dire? 
" Signora Ondrak..." dissi digrignando i denti per l'offesa subita.
" No, cara, non dire nulla. E da ora in poi chiamami, Virginia. Sei di famiglia, adesso." 
Sorrise, voltò le spalle, chiuse la porta dietro di lei e se ne andò.

                                            *****
Andai in camera mia a stendermi sul letto per riposarmi. Il nervosismo accumulato durante l'intera mattinata mi aveva  stancato terribilmente. 
Era trascorsa una settimana appena e già non sopportavo più di stare in quella maledetta casa, e quella famiglia, così affettata nei modi, così intrappolata in rituali senza senso, mi dava il voltastomaco. Non li sopportavo. Mi rendevo conto di non sopportare più molto nemmeno Pam. Come uno specchio  affisso ad una sola parete, rifletteva con cura e precisione solo e soltanto il pensiero della madre, senza i filtri necessari dovuti alle loro differenze, di età, di contesto, di personalità. E la madre era folle. In ogni cosa che faceva. Si aggirava come una regina e disponeva ogni cosa secondo il suo volere. Qualsiasi persona nuotasse contro la corrente delle sue decisioni, veniva annientata. Dovevo ammettere che, anche se con insolenza, mi ero saputa difendere bene e l'avevo contrastata con una certa sfrontatezza. La realtà è che gli argomenti di cui si fasciava erano deboli, e lo sapeva bene anche lei, ma la sua aurea intimidatoria preveniva ogni opposizione esterna. Ma io non mi lasciavo intimidire, però ero pur sempre una sua dipendente, come lei stesse tenne a sottolineare, volente o meno, e
dovevo stare al gioco. Il lauto compenso che riempiva la busta sul comodino accanto a me mi ricordava perchè stessi lì. Inghiottii il rospo e pensai ad altro. D'un tratto il silenzio che regnava in quel pomeriggio domenicale venne rotto dal passo sicuro e deciso di Virginia. Pensai sarebbe venuta a bussare alla mia porta, invece voltò l'angolo, si diresse verso il corridoio che avevo percorso al buio la prima notte nella magione, spaventata dall'ulutato di bryan. Ad un tratto si fermò. Ebbi come un'improvvisa illuminazione. Era di fronte alla porta da cui sentii provenire i gemiti. Uscii piano piano dalla mia camera, senza emettere alcun rumore. La spiai dall'angolo del corridoio prestando la massima attenzione ad ogni parola:
"Ti ho portato il pranzo." La sentii dire duramente. Da dentro la stanza sentii provenire versi non distinguibili, lamenti angoscianti e il cozzare a terra del metallo. Pensai a della catene. Qualsiasi persona  o cosa ci fosse lì dentro, era legata.
" Smettila di lamentarti. Tra poco sarai libera."
 La voce gracchiò un suono che riuscii a comprendere.
" Quando?"
" Tra molto poco."
Rabbrividii. Percepii dentro di me la sensazione che tra quello breve scambio di parole, aleggiasse il mio nome. 
Tornai in camera mia per paura che Virginia mi avrebbe scoperto e decisi di vederci chiaro in quella faccenda. Presi il telefono e chiamai Meg:
" Meg, devo parlarti."


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Capitolo 10
*** CAPITOLO 10 ***


" Cos'è successo Flo? Ti sento agitata!"
" Meg, questa famiglia è assurda! Mi stanno nascondedo qualcosa, sono sicura! C'è una persona incatenata in una stanza! Una persona, capisci? E la signora Ondrak, Dio santo, la signora Ondrak lascia di proposito il marito con Brian, capisci? Sono matti!" Ero fuori di me. Stavo urlando, ero spaventata, atterrita, confusa.
 " Flo, calmati, respira, così non capisco nulla!"
Il rumore dei passi di Virginia si avvicinava, si stava dirigendo alla mia porta. 
" Meg, non posso parlarne al telefono, non ora almeno, Virginia è qui..."
" Esco e vengo da te"
" No, gli Ondrak non vorrebbero, non possiamo rischiare di nuovo.. vengo io, vengo a casa tua, chiedo il permesso a.." Le nocche ossute di Virginia bussarono alla porta.
" Flo, posso disturbarti?"
" Devo andare Meg... a tra poco"
" Aspetta Flo..."
Chiusi di fretta le telefonata e feci entrare Virginia in stanza.
" Eri al telefono?" chiese, senza molti convenevoli.
" Sì... a tal proposito le volevo chiedere il permesso di poter uscire questa sera, tanto ci siete voi con Brian... è da un po' che non vedo i miei genitori.."
" Non mentirmi, Flo. Non è dai tuoi genitori che vuoi recarti"
" Spia le mie telefonate ora?"
" Non c'è bisogno di farlo, manchi della predisposizione naturale alle menzogne, non sai dirle."
" Posso uscire dunque?"
" Ti ho già pagato la giornata, cara, e noi stiamo per andare via, ero venuta qui proprio per salutarti." Prese a camminare nella stanza con un andamento lento e posato, come se ad ogni passo avesse calcolato la distanza dal punto precedente. "Brian ha bisogno di cure tutto il giorno, non solo il pomeriggio, non solo la mattina, non ad intermittenza. L'amore di cui necessita non deve essere la luce di un faro che si posa sullo stesso punto una volta sola  lungo un unico tragitto, ma la luce di un sole, alta e abbacinante, che lo raccolga e lo abbracci interamente."
" Chiaro. La saluto." Mi alzai dal letto su cui ero rimasta seduta le strinsi la mano e la guardai intensamente negli occhi. Non avevo mai pensato che occhi tanlmente azzurri e accesi potessero mancare di così tanta luce. 
La guardavo sfrontata, non smettevo di stringerle la mano. Volevo che capisse che avrei scoperto tutto, prima o poi; volevo che capisse non mi sarei arresa a nulla; volevo che capisse che non sarei mai stato un suo dominio, come lo erano i figli e il marito. Ero di ben altra stoffa io.
Scesi con lei fino al piano di sotto, dove salutai con un abbraccio Pam e prosi gentilmente la mano  al signor Ondrak che però rimase impassibile, con lo sguardo iniettato di sangue perso nel vuoto. Uscirono e mi liberarono della loro presenza, dei loro riti e costumi affettati, e già mi sentivo più tranquilla. Ma con la mente tornai a pensare all'essere chiuso nella stanza Sollevai gli occhi sul soffitto e lo immaginai lì, al piano di sopra, in quel preciso punto, steso sul parque consumato e lacerato, avvolto dal ferro della catene. Dovevo parlare con Meg, non potevo districare la coltre fitta di quel mistero senza il suo aiuto, senza qualcuno che potesse muoversi liberamente fuori dalle mura della magione in cui, stavo iniziando a rendermene conto solo ora, ero tenuta come prigionera. Preparai velocemente la cena a Brian che, forse grazie alla giornata passata in compagnia della famiglia, era più tranquillo, meno irascibile, per quanto si trattasse sempre di una bestia. Mangiammo insieme, ma mi curai poco di conversare con lui o di correggergli la postura, insegnarli ad utilizzare correttemente le posate, sgridarlo se mangiava con le mani, pensavo ad altro. Programmavo la mia serata. Sarei fuggita, sarei fuggita per tornare, certamente, ma sarei fuggita quella notte. Sarei andata da Meg. Le avrei raccontato tutto. Ma quel tutto era un pretesto, lo sentivo, lo avvertivo sotto la pelle, dentro il cuore. Volevo fuggire una notte e ritrovarmi nel porto sicuro delle sue braccia, della sue parole. Mandai un messaggio a Meg in cui le chiedevo di aspettarmi in macchina fuori dal cancello, ma nascosta tra gli alberi, in modo che le luci dei fari o il rumore del motore e delle ruote sul sottobosco non destassero l'udito attento di Brian. Mi assicurai che la bestia fosse in camera sua a dormire beato, chiusi la mia stanza a chiave e senza far rumore uscii di casa.
Meg era già lì, mi aspettava nella sua utilitaria rossa, appostata dietro una  siepe selvaggia in un' insenatura verde del sentiero principale. Entrai in macchina e le diedi un bacio sulla guancia, lei ricambiò, poi ci fermammo e consumammo tutto il mondo circostante in un incendio di silenzi che solo i nostri sguardi sapevano decifrare. Senza dire nulla, accese il motore della macchina con un movimento di polso così rapido che non  potei far a meno di pensare fosse il prodotto insano di una premura recisa a causa di timori inesprimibili. Non raggiungemmo mai casa di Meg, percorremmo stradine interminabili che segavano in due radure sterminate di grano dorato. Le spighe danzavano a ritmo del vento 
mentre sula linea dritta del loro dorso umido si specchiava il volto algido della luna, riempita solo a metà. Avevo i miei occhi incollati sul viso perlaceo di meg, sui suoi lineamenti , candidi così come la gomma delle ruote aderiva all'asflato lucido. Lei non mi guardava, ma la sentivo, la sentivo rivolgersi a me con tutta se stessa,
la sentivo dirigersi verso di me in tutta la sua imperiosa arresa. 
Guidava, ma non sapeva dove stessa andando. Seguiva una rotta che le sussurava il cuore, e che solo lei poteva ascoltare. La potevo percepire, reclinata, prostrata al muro spesso del suo silenzio, con l'orecchio teso alla parete del suo torace, a carpire con meticolosità ogni suono che ne fuoriuscisse. Ad un tratto scorsi un bagliore riflesso su di una lastra piatta appesa all'orizzonte: era il mare, con la sua pacata immobilità. Raggiungemmo la spiaggia, scendemmo dalla macchina, ci togliemmo le scarpe e iniziammo a rincorrerci sulla riva, giocando con la risacca delle onde. Non parlammo mai. In quelle ore in riva al mare tra di noi aleggiò un silenzio che raccoglieva in sè tutte le parole che né io né lei sapevamo pronunciare.  Poi ci sedemmo stanche sulla sabbia, l'una accanto all'altra, con gli occhi fissi sulla distesa marina di fronte a noi. 
" Ci sono cose di cui dovremmo parlare" disse quasi sussurrando Meg.
" A volte non serve parlare, sai" risposi di istinto voltandomi verso di lei che ora mi era vicina tanto da poter accordare il battito del mio cuore ruggente al respiro dei suoi polmoni.  Alte alte sopra di noi le stelle recitavano liriche di luce e la luna volteggiava ferma sulla sua traiettoria mentre l'aria placida della sera disegnava crespe sulla superficie dell'acqua, come fosse un caldo respiro di una madre sulla nuca quasi calva di un infante. Strinsi la sua mano nella mia e lei contraccambiò quel gesto trafiggendomi lo sguardo con il suo. Ci avvicinammo, l'una verso l'altra, 
lasciai la presa dalla sua mano e feci correre le mie dita sulla sporgenza delle sue gote. Vicine, sempre più vicine, quasi da non poter veder altra realtà se non il suo viso. Dentro, il cuore strepitava come una mandria di cavalli furenti, il suo rombo era così imponente da farmi tremare le viscere. D'un tratto, c'erano solo le sue labbra, bocciolo fresco di rosa.
C'era solo il nostro tacito assenso, nelle pieghe di una volontà mai espressa. Sembrava che tutta la notte rimanesse in attesa del nostro bacio, così come noi restavamo impigliate a questo momento, temendo e sperando non terminasse mai. Ma un trillo di metallo ruppe in pezzi il sogno di quella notte, smantellò la luna dal cielo e spense le stelle come fossero fiammelle di candela. 
" E' il mio cellulare" disse Meg a mezza voce," devo rispondere".

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