La ballata di Heer Halewijn

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo e Atto primo - Il Signore delle Ombre ***
Capitolo 2: *** L’ arte della fatica ***
Capitolo 3: *** Atto terzo - Il Caos e la Grazia ***
Capitolo 4: *** Non avere altro da dire ***
Capitolo 5: *** Atto quinto - Accanto a te è il mio riposo ***



Capitolo 1
*** Prologo e Atto primo - Il Signore delle Ombre ***


La ballata di Heer Halewijn

 
“Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita.
Non essere ballerino, ma danzare.
Chi non conoscerà mai il piacere di entrare
in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi,
chi smette perché non ottiene risultati,
chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere,
non è entrato nella profondità della vita,
ed abbandonerà ogni qual volta la vita
non gli regalerà ciò che lui desidera.
È la legge dell’amore: si ama
perché si sente il bisogno di farlo,
non per ottenere qualcosa o essere ricambiati.
Altrimenti, si è destinati all’infelicità”
(R. Nureyev, “Lettera alla danza”)
 
 
            1. Prologo e Atto Primo- Il Signore delle Ombre

            Coricata sul suo giaciglio nella casa paterna, la giovane Maghtelt, figlia di cavalieri, ascoltava le voci nascoste nel buio: lo scricchiolio dei tarli e la dilatazione delle travi di legno, simile a un sospiro di dolore trattenuto; il fruscio del torrente dal vicino mulino, dove le acque si avvolgevano su se stesse come un pensiero ricorrente, che non dà pace; contro le imposte s’impigliava un filo di vento e dal bosco proveniva il verso della civetta, a tagliare la notte col suo carico di suggestioni e presagi.
            Nel suo cuore, Maghtelt portava una risoluzione: avrebbe ritrovato la sua amica d’infanzia, Emmeline, della quale si erano perdute le tracce dal giorno in cui si era avventurata nella selva di Heer Halewijn, il Signore delle Ombre.
            La selva era uno spaventoso labirinto di oscurità e alberi pietrificati: gualdrappe di muschio infido sulle rocce, un terreno paludoso che assorbiva ogni rumore, ingoiandolo in un silenzio di morte. A causa dell’intrico dei rami che formava una cupola sulla sua sommità, la luce del giorno non aveva mai accesso a quel luogo d’incanti, e neppure il chiarore limpido della notte.
            Si diceva che là vivessero strani animali, di specie sconosciute e mai viste prima d’allora: ranocchie dotate dell’uso della parola e addirittura in grado di predire il futuro; lumache dai corpi molli, viscidi e trasparenti, capaci di imitare le voci dei familiari e disorientare i viandanti, portandoli fuori strada; cervi dagli occhi dolci, che discorrevano anch’essi come esseri ragionevoli, ed erano in grado di intrattenere su molti argomenti le loro prede umane, per poi divorarne la carne sul fondo di una palude.            
            Il timore della gente aveva arricchito quel luogo di molte visioni, ma era Heer Halewjin a detenere la signoria di quel terrore: il suo maniero si ergeva sul costone di una montagna, lungo una roccia scarnificata dalle intemperie, che di là si levavano per riversarsi in grandine sui frutteti della valle.
            Un’ombra di caligine l’avvolgeva in un’oscurità perenne, interrotta dai lampi freddi dei fuochi fatui: in quell’atmosfera crepuscolare, del tutto deprivata della luce del sole, le piante crescevano completamente bianche, simili a spettri contro il cielo notturno.
            Riguardo alla persona di Sieuwert Halewijn, circolavano le dicerie più bizzarre.
            Si diceva fosse figlio illegittimo di un cavaliere, e che per ottenere ricchezza e potere avesse stipulato il più classico e scellerato dei patti: in luogo del tributo della vita e del sangue di vergini pure, aveva ottenuto da un misterioso Principe delle Rocce il governo della regione, un fascino senza pari e una disponibilità inesauribile di denaro. 
            Neppure si sapeva con certezza se Sieuwert Halewijn fosse una creatura di questo mondo o dell’altro, un’entità malvagia o un semplice essere umano esperto nelle arti magiche: né cosa ne era stato delle giovani scomparse lungo i sentieri accidentati della foresta.
            Si diceva che fossero state attirate da una melodia sospesa tra le fronde come un tranello, capace di avvincere le punte dei piedi, di avvolgere le braccia muovendole irresistibilmente nella danza. Catturate dal ballo, le ragazze finivano per cadere nell’abbraccio di Heer Halewijn, che le sacrificava senza risparmiare di loro neanche un capello: senza rendere alle famiglie nient’altro che il silenzio attorno alla loro sorte.
            Così si era compiuto il destino di Emmeline, sparita per incanto dal sentiero su cui si era avventurata in cerca di una particolare specie di funghi: i funghi d’ombra erano anch’essi candidi, come tutto ciò che cresceva in quel luogo privo di sole, e dotati di un ombrello che emanava una strana luminescenza. I loro corpi molli si diceva fossero in grado di riparare quasi istantaneamente le ferite più gravi.
            Che dalla selva infida di Heel Halewijn potesse scaturire qualcosa di buono, addirittura in grado di condurre alla guarigione, era quanto meno dubbio: sicché molti in paese avevano tentato di dissuadere Emmeline dal proposito di avventurarsi in quell’impresa. Ma neppure Maghtelt, l’amica fidata, era riuscita a distoglierla dall’idea di avventurarsi alla ricerca di quel fungo dall’apparenza cadaverica, per salvare il suo amato straziato in un incidente di caccia. 
            Una mattina prima dell’alba, mentre il villaggio era ancora immerso nella bruma e nel sonno, Emmeline aveva lasciato di soppiatto la casa dei genitori: di lei in breve si era perduta ogni traccia, malgrado l’allarme diffuso in tutto il villaggio e le ricerche serrate, effettuate dai pochi che avevano osato avventurarsi nel bosco.
            Un nastro zuppo di sangue trovato appeso a un ramo era l’unico segno che testimoniava il passaggio della ragazza in quel luogo di seduzioni e d’incanti, di danze irrefrenabili e uccisioni selvagge: lo stesso che la sventurata era solita portare avvolto attorno alla treccia, e che Maghtelt le aveva donato come pegno di amicizia.  
            Alla notizia della morte certa di Emmeline, il villaggio era sprofondato nell’afflizione: una volta di più, gli abitanti della valle avevano la prova che non sarebbero mai riusciti a liberarsi dalla tirannia di Heel Halewijn. In quel clima angoscioso, che gravava sul villaggio come una di quelle nubi che spesso si staccavano dalla cima della montagna, e andavano a riversare grandine sui raccolti, l’innamorato di Emmeline morì per il dolore causato dalla perdita dell’amata.
            Fu allora che Maghtelt prese la sua decisione: avrebbe riportato Emmeline a casa, ammesso che fosse viva, e in ogni caso avrebbe distrutto l’incantesimo che opprimeva l’intera vallata.
            -“Andrò nella foresta”- annunciò ai suoi, risoluta -“vi lascerò la testa, se sarà necessario, ma in ogni caso conquisterò la mia anima”-  
            Prima che fosse giorno Maghtelt si mise in viaggio portando con sé, come un amuleto di protezione e difesa, il nastro di Emmeline. Man mano che si inoltrava nel bosco, un silenzio di morte iniziava ad avvolgerla, simile a sabbie mobili colme di oscurità: già non udiva più il fruscio del vento alle spalle, né il canto del torrente che ruzzolava dalle rocce della montagna, docile fino al mulino. I voli delle farfalle, il loro levarsi come petali su un filo di vento, erano cessati a un tratto.
            Persino la luce si era affievolita nell’intrico dei rami, mentre iniziavano a comparire strane creature: lucertole di una strana materia trasparente palpitavano unte sui tronchi degli alberi, ragni dal pelo bianco zampettavano lungo traiettorie invisibili.
            Fu a quel punto che una strana melodia, simile a lacci pendenti dagli scheletri dei rami, incominciò a diffondersi, ambigua come una nebbia, e a vagare per i sentieri come un tranello. 
            Era una musica dolce, capace di evocare i più struggenti ricordi: Maghtelt vi riconobbe la voce di sua madre che le parlava chinandosi sulla culla, quella delle sorelle che la supplicavano di fare presto ritorno, quella dolce di Emmeline che implorava aiuto dal labirinto della foresta.
            Come scaturito dal fondo di uno stagno coperto da una muffa del colore del sangue, dalla cima di un masso precipitato in tempi remoti dalla montagna, da una radura di teneri fiori di campo, ovunque si insinuava l’eco del pianto di Emmeline: Maghtelt non poté fare a meno di seguirne le tracce, che insieme a un odore penetrante di marcio la spingevano a entrare sempre di più nel cuore insidioso della selva.
            Alle spalle di Maghtelt, come un’apparizione scaturita dalle profondità della terra, nel folto di una radura apparve infine Heer Halewijn. La ragazza cercò di non farsi sopraffare dal panico quando l’apparizione, uomo o entità che fosse, le mostrò un albero carico di teste mozzate, appese come frutti spaventevoli e minacciosi.
            Il fetore di putridume incombeva su di lei e la tenebra la circondava da ogni parte, rischiarata solo dal volto di Heer Halewijn: stringendo a sé il nastro di Emmeline, Maghtelt recuperò il dominio dei nervi, e la forza del suo coraggio. Fosse l’ultima impresa che le toccasse in vita, era più che decisa a rompere una volta per tutte quell’incantesimo.  
            Ritto di fronte a lei, Sieuwert Halewijn presentava vaghe sembianze di essere umano: la luminosità tenue che scaturiva a tratti dalle sue ciglia, simile a quella delle strane creature che infestavano il bosco, non aiutava a capire se il suo volto era quello severo di un uomo, o un viso dolce di donna. Ci volle un po’ di tempo prima che l’apparizione smettesse di oscillare incerta tra un sesso e l’altro, e acquistasse una propria stabilità nelle tenebre: si palesò quindi a Maghtelt nella forma di un giovinetto dal volto liscio, i capelli acconciati in due corna di trecce, gli occhi bianchi abbassati tra lunghe ciglia appuntite.  
            -“Sei giunta fin qui per morire”- Maghtelt udì queste parole chiare nella sua mente, pur senza avere veduto Heer Halewjin dischiudere le labbra.
            La musica la circondava da ogni parte.
            -“La tua bellezza, tuttavia è tale”- proseguì quella voce insinuante -“che io non posso fare a meno di onorarla, concedendoti di esprimere un ultimo desiderio: chiedi quello che vuoi, tranne la vita, e immediatamente sarai esaudita”-  
            -“Voglio morire nel modo più onorevole per una donna che, come me, proviene da una stirpe di cavalieri”- disse Maghtelt, altera -“la gente d’arme muore per mezzo delle armi. Quindi, voglio una spada”-
            -“Sarai accontentata”- rispose Herr Halewijn, e subito il bagliore sinistro di una lama si materializzò dal nulla nella sua mano. La giovane sorrise:
            -“Mio signore, la tua cortesia è così grande che io non posso essere da meno nei tuoi confronti. Perdonami se ti chiedo di levarti il mantello per uccidermi meglio”-
            Heer Halewijn aveva fretta di proseguire, perché il suo patto con il Principe delle Rocce reclamava incessantemente nuove vittime: un fiume di sangue doveva scorrere ogni giorno per consentirgli di mantenere il potere, il privilegio del fascino e della ricchezza. Tuttavia, la bellezza della giovane era così persuasiva, e così triste il suo destino ormai prossimo alla morte, che Heer Halewijn si prese il piacere di assecondarla.
            Levò quindi il mantello dalle sue nere spalle e si apprestò a vibrare il colpo, quando di nuovo lo interruppe la fanciulla:
            -“Mio signore, perdonami se intervengo ancora. Sarai più a tuo agio se ti leverai la giubba, e forse anche il cappello. Avrai maggior facilità di movimento”-
            Anche stavolta Heer Halewijn, irretito dal fascino della sua vittima, decise di accontentarla.
            Tra le ciglia ritorte, i suoi occhi si fecero ancor più luminosi. Levò giubba e cappello, pervaso da un’energia febbrile, e riprese daccapo a brandire la spada.
            Accorata, lo raggiunse la voce della ragazza:
            -“Non adirarti, oscuro signore, se la buona creanza m’impone un’ultima avvertenza. Togliti la camicia, sì che tu non debba macchiarla mentre mi uccidi”-
            Di nuovo Heer Halwijn non poté sottrarsi alla grazia di quella richiesta. Mentre era impegnato a sfilarsi la camicia e aveva le esili braccia avviluppate dal tessuto, rapida Maghtelt gli sottrasse la spada, e la levò decapitandolo di netto. Nascose poi la testa in un recipiente trovato poco lontano: molto probabilmente, si trattava del cesto di Emmeline, caduto dalle sue mani nel momento in cui la vita l’abbandonava, e poi rimasto là, nel verde della radura.
            Spiccata via dal tenero busto di adolescente, gli occhi spalancati e tuttora pervasi da un’eterea luminescenza, la testa di Heer Halewijn incominciò a disfarsi: recuperando il tempo che l’incantesimo aveva fermato per secoli, nel giro di pochi istanti la carne si sciolse in una pozza di larve, fino a restare un teschio dalle orbite vuote. Dentro al cesto di Emmeline, sopra a un letto di funghi altrettanto umidi e bianchi, rimase solo il cranio avvolto da due corna di trecce forti e nere: presto anch’esse sbiadirono coprendosi di una fitta trama di ragnatele, come se quella testa avesse riposato per centinaia di anni nell’oscurità di qualche segreta.
            Ma non era finita: un’identica sorte toccò al corpo da adolescente di Heer Halewijn, che iniziò a spogliarsi della carne e del sangue, mettendo a nudo i lunghi muscoli rossi, i tendini gialli e i nervi, fino a essere fagocitato dalla terra. Mano a mano che il sangue veniva risucchiato le zolle si muovevano, gorgogliavano anch’esse lasciando scaturire il profumo dell’erba durante un temporale, fertile e tonificante.
            In breve, la radura - e da lì, in pochi attimi, tutto il resto del bosco - si ricoprì di fiori, di roveti maturi di more e di lamponi, e lanciò in volo una manciata di farfalle, di uccelli che iniziarono a chiamarsi da un ramo all’altro.             
            Maghtelt era sconcertata, incerta tra la meraviglia e il terrore: chiuse il coperchio al cesto per non vedere più il cranio di Heer Halewijn, col suo ghigno e le corna gremite di ragni: e soprattutto per non sentire più quella voce che proveniva da secoli di morte, e ancora continuava a parlarle nella testa:
            -“Fammi uscire, ti prego”- le diceva con voce infantile e dolcissima, la stessa di sua madre, delle care sorelle, della povera Emmeline. E più Maghtelt cercava di tapparsi le orecchie, più la sentiva echeggiare nella sua mente, straziante nella sua tenera implorazione:
            -“Fammi uscire, ti supplico, amica mia, mia bella”- e non c’era alcun dubbio, quella era veramente la voce di Emmeline -“lasciami andare e permettimi di riunirmi al mio corpo”-
            Il Principe delle Rocce avrebbe certamente trovato la maniera per riportare in vita il suo servo fedele, fosse anche senz’anima:
            -“Tanto, l’anima mia”- diceva Heer Halewijn -“l’ho perduta da tempo, molti secoli fa”- 
            Pur con le lacrime agli occhi, nell’udire la voce struggente di Emmeline, Maghtelt riuscì a resistere: disponeva di sufficiente buon senso per ritenere assurdo, anzi pericoloso, mettersi  a dialogare con un cranio polveroso, che per di più gli usava la scortesia di parlare direttamente nella sua testa. 
            Nel frattempo, il corpo esanime di Heer Halewijn terminò anche i sussulti dell’ultima agonia, e il rivolo degli umori raggiunse anche l’albero delle teste mozzate. Al contatto con il calore del sangue, l’albero fu scosso fin dalle radici: sui teschi delle giovani, appesi per i capelli, la carne iniziò a crescere, quindi le membra si rivestirono di una parvenza di vita e gli occhi si aprirono.
            Sciolte dall’incantesimo, ornate nuovamente della serica trasparenza delle anime libere, le giovani danzarono attorno alla ragazza, prima di scomparire nell’ombra della radura. Da un angolo riposto, un trapestio annunciò il passo lieve di Emmeline col grembo colmo di funghi: le punte delle dita che levavano gli angoli candidi del grembiule erano rosa e già in procinto di dissolversi.
            Incontrando lo sguardo stupito di Maghtelt, quella dolce parvenza che era stata Emmeline chinò il capo e si unì ai ranghi delle compagne, che in lunga processione andavano a raggiungere il luogo del loro riposo.
            Quanto al capo reciso di Heer Halewijn, dal cesto in cui la giovane l’aveva rinchiuso continuò a supplicare di essere ricongiunto al resto del corpo.
            Maghtelt la coraggiosa rimase però sorda a tutte le suppliche, le proteste e le lacrime a cui l’oscuro cavaliere cercò di fare ricorso: con la calma serena di chi ha compiuto il proprio dovere, s’incamminò di nuovo per i sentieri del bosco.
            Sulla via del ritorno, lunghe lame di luce spezzarono per sempre la tetra oscurità dei crinali e delle radure. Sui rami finalmente liberati degli alberi ripresero le corse allegre degli scoiattoli, nei prati i voli repentini delle farfalle. Dagli alberi, gli uccelli si scambiavano i convenevoli come vecchie signore, sedute a filare in uno spicchio di sole.
            La testa di Herr Halewijn fu sepolta col cesto nel punto più profondo di un campo maledetto, e condannata a marcire nell’eterno silenzio. E solo chi si fosse ritrovato a passare per quel luogo nelle notti più cupe, avendo la ventura di porre attento l’orecchio tra il fragore del tuono e il sospiro del vento, avrebbe udito crescere in mezzo al campo un’erba priva di verde, pallida e che diceva:
            - “Dammi indietro il mio corpo, ridammi il mio potere, il fascino e la ricchezza…”.
 
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La soffitta era immersa in un tepore odoroso di legno e di polvere. Il tetto spiovente, come usava da quelle parti per fare scivolare i cumuli di neve, creava un’atmosfera raccolta e simile a un grembo: come un abbraccio caldo, dalle lunghe braccia di legno. Posata sulla mensola interna del davanzale, una lampada da campeggio allungava le ombre dietro alle cassepanche, da dove proveniva un lieve sentore di lavanda. Sui comignoli e i tetti scintillava un manto intatto, percorso solamente dalle piccole orme a salti degli uccelli.
            La luce della lampada lo accendeva di fragili cristalli di ghiaccio.
            All’interno, un pavimento di legno grezzo e una pozza di luce. Al centro, due ragazzi di circa tredici anni: il primo con le gambe allungate su per il muro e le braccia dietro la testa, un corpo nervoso e atletico, una certa difficoltà a restare fermo a lungo; l’altro a gambe incrociate, accovacciato dietro a un grande libro illustrato.
            Sul volto del ragazzo che stirava le membra allungandole sulla parete, la luce delineava la rilassatezza tipica di una lunga amicizia, la felicità intima di poter stare insieme.
            L’altro aveva le dita macchiate di colore - tracce d’inchiostro e tempera, le unghie rosicchiate. Un ritrarsi involontario ad ogni movimento, una traccia di malinconia intorno alle sopracciglia.   
            Si conoscevano da sempre, il ragazzo del libro e quello dalle lunghe membra allenate, perché ancora prima della loro amicizia c’era stata la vicinanza delle case dove erano nati: pitturate di arancio contro il grigio del cielo, le tipiche case a graticcio si aprivano su un cortile di cani, galline nelle stie, conigli e altri bambini con le ginocchia rotte, i capelli rapati per timore dei pidocchi, i calzoni rimboccati dei fratelli più grandi. All’epoca abitavano entrambi al pianoterra, e le porte di casa le avevano utilizzate soltanto nel periodo dei loro primi passi: quando ancora giravano sorretti dagli adulti, due mani sotto alle ascelle e i piedi grassocci e incerti. Non appena la presa si era fatta più stabile, avevano cominciato a scappare in cortile passando dalle finestre, il che comprendeva due divertimenti in uno: quello di trasgredire alle raccomandazioni di non farsi del male e quello, più avventuroso, di farselo sul serio cadendo su un piede storto, oppure nel tentativo di rimettersi in piedi. Comunque andassero le cose, a farne le spese erano i gomiti e le ginocchia crivellati da una ghiaia minuta, dura come pallottole.
            D’inverno, il divertimento consisteva nel ruzzolare dal davanzale sfruttando la neve ghiacciata: come slittino si usava qualsiasi materiale, dalle scatole di cartone alle gomme degli autocarri, che si andava a prelevare - per così dire - direttamente alla vicina base militare. Erano gli stessi rozzi pneumatici che in estate si appendevano agli alberi, per trasformarli in navi spaziali o velieri, nascondigli di pirati o semplici altalene.
            Ruzzolando d’inverno e scorticandosi le ginocchia in estate, i due erano cresciuti accarezzando le cucciolate dei conigli, trottando dietro ai pulcini, costruendo tunnel immaginifici nella neve, scatenandosi con la banda dei bambini del quartiere. Stretto tra case alte, il cortile era un pozzo buio anche d’estate: nelle sue pieghe d’ombra si celebravano le gesta di cow boys e indiani, invasioni di alieni da sperdute galassie, avventure di eroi dei cartoni animati, oppure semplicemente partite di pallone e nascondino dappertutto.  
            Durante il tempo del gioco, Indaco - così soprannominato per via degli occhi e dei lividi che aveva sempre addosso, incerti tra il blu e il viola - era il primo a scappare nel cortile con le sue gambe magre, schizzate di fango e da tutti i punti in cui era andato a sbattere contro a qualcosa. Da bambino, Indaco era fragile e pareva che le gambe lo reggessero appena, lunghe e secche com’erano: anche se c’era un nucleo di armonia nei suoi gesti, e quei suoi arti ossuti gli conferivano una strana eleganza da trampoliere.
            Se Indaco spiccava per la magrezza e i lividi che rimediava ovunque, sempre dentro alla mischia con quelle braccia secche e quelle gambe che non sapeva dove mettere, Larse pareva creato ad arte per sfuggire agli sguardi: composto e riservato, con gli occhi sempre bassi sotto a un velo di ciglia, persino il suo aspetto fisico pareva fatto apposta per restare in disparte con il naso infilato nell’album da disegno. Attorno a lui le scatole di matite e pennarelli parevano un piccolo esercito schierato a difesa.
            Quand’era anche lui in cortile, costretto dalla madre ad aggregarsi agli altri perché non crescesse strano e troppo isolato, Larse s’impegnava a fondo nell’arte in cui era maestro: quella di dare nell’occhio il meno possibile. Già favorito da lineamenti così fini da perdersi nell’ombra, col tempo aveva affinato la sua capacità di ripiegarsi in quattro dietro all’album degli schizzi, persino dietro al formato più ridotto. Le matite formavano davanti a lui come una palizzata, un appuntito arcobaleno di legno.
            Riusciva così a sottrarsi a qualsiasi invito a entrare nel gioco, e solo Indaco Hansen aveva la capacità di stanarlo dal suo mondo, entrandovi all’improvviso con l’impeto della sua gioia: Larse disegnava ed era tutt’uno con la pagina, al punto da non sentire neppure più le grida, le parole lanciate dietro al pallone, le risse, gli spintoni; era appena riuscito a rendersi invisibile al resto del mondo che Indaco arrivava, gettava all’aria lo steccato di matite, scompigliava i suoi fogli e violava il suo spazio con la sua presenza entusiasta.
            A quel punto, Larse non sapeva più come nascondersi.
            Privato del suo involucro, annullate tutte le distanze, aveva l’impressione che Indaco potesse leggergli in fondo agli occhi gli strani sentimenti che covava per lui da quando erano piccoli, e sedevano sui vasini cercando di gettarsi a terra a vicenda: per una sorta di dispetto che di lì a poco si sarebbe trasformato in amicizia.
            Per quanto fosse assurda una cosa del genere, Larse ne era convinto: aveva cominciato ad amare Indaco Hansen fin da quei pomeriggi trascorsi nella casa della nonna di lui, a fare i bisogni per ore e a mangiare biscotti al malto, a sbriciolarli ovunque portandoseli a spasso.
            All’epoca, Larse aveva imparato a dire sì e no dieci parole, storpiate alla maniera buffa dei bambinetti: eppure fin da allora aveva intuito che quello strano turbamento, che lo coglieva quando Indaco gli assestava i suoi spintoni a due mani, lasciandovi un’impronta di gioia inspiegabile, rientrava tra le cose da non dire a nessuno. Anzi, era la cosa segreta per eccellenza.
            Larse sapeva solo che per quanto badasse a nascondere il viso negli album da disegno, una coda inesorabile dei suoi occhi seguiva sempre Indaco, qualsiasi cosa stesse facendo: sia che fosse intento a saltare con la sua grazia ansiosa, come faceva a tre anni guardando i balletti in tivù, sia che mollasse a un tratto il pallone per correre da lui, rimediando calci e lividi dagli altri giocatori; sia che fosse pensoso com’era quella sera, con le gambe in verticale contro al muro della soffitta e la testa all’ingiù, incapace come al solito di star fermo un secondo.
            Larse interruppe la lettura, per osservarlo senza che l’altro se ne accorgesse: da quando frequentava l’Accademia in città, con un lavoro meticoloso Indaco aveva smussato tutti gli spigoli, e la sua magrezza sporgente si era trasformata in elasticità e tempra dei movimenti. Soltanto i lividi erano sempre gli stessi, e li aveva messi insieme daccapo - urtando contro i mobili mentre pensava ad altro - da quando era tornato per le vacanze di Natale. Vacanze che, in realtà, erano poco più di una pausa: tre giorni soltanto, per poi fare ritorno subito agli esercizi senza aver preso un etto, come si erano raccomandati gli insegnanti con l’indice puntato, seguito da certe occhiate che non ammettevano repliche:
            -“Niente frittelle allo sciroppo e niente panettone. Niente biscotti allo zenzero”-
            La classe degli allievi del secondo anno, ancora impegnata negli esercizi alla sbarra, assieme alle ginocchia aveva piegato anche lo sguardo.
            Quando Indaco aveva raccontato quell’episodio imitando il falsetto della Madame Grisi, col cesto da cucito di sua nonna in bilico sulla testa, ad imitare l’acconciatura dell’insegnante, Larse non l’aveva trovato affatto divertente. Non aveva detto nulla, ma era infastidito all’idea di una disciplina così esigente, capace di impadronirsi di una vita e di opprimerla con le sue restrizioni, i suoi divieti assoluti: in verità, provava un’aspra gelosia per la danza, e la considerava alla stregua di una rivale che per di più scorreva nel sangue stesso di Indaco Hansen.
            Dal canto suo, Indaco considerava quella raccomandazione completamente inutile, e non perché detestasse i biscotti allo zenzero: nessuna privazione gli era di peso, purché gli fosse data la possibilità di esprimersi attraverso la danza. In quella prospettiva, qualsiasi divieto assumeva il senso di una conquista: era un passo avanti per entrare più completamente nella sua arte.
            Persino in quel momento, in cui apparentemente oziava con le gambe stese sulla parete, Indaco in realtà era dentro alla danza: l’ascoltava scorrere dentro di sé come un fiume, e mentre con le braccia istintivamente ritornava a un movimento, a un passaggio di musica, socchiudeva le ciglia come sotto l’effetto potente di una carezza.
            Larse, che da dietro al libro non lo perdeva di vista, si sentì trafiggere a un tratto, senza sapere perché. Non fece in tempo a chiederselo, che con un balzo Indaco era già accanto a lui:
            -“Allora, l’hai trovata?”- gli chiese -“se il tuo libro contiene tutte le leggende, dovrebbe esserci anche quella di Heer Halewijn. È una storia olandese, ma la Madame Grisi dice che ne esistono diverse versioni, anche una scandinava”- alzò un poco le spalle -“a scuola, nessuno ne sa niente. Però…”- e qui allargò un sorriso tutto pieno di sogni  -“noi ci faremo lo spettacolo di fine anno. Ci pensi? Anzi, verrai a vedermi?”-
            -“Tu che ruolo avrai?”- le ciglia chine sul libro, Larse sfogliava le pagine per non sentire la punta delle orecchie infiammarsi ogni volta che l’amico accorciava le distanze. Proprio in quel momento, Indaco lo afferrò alle spalle con la presa sicura che stava sviluppando durante i lunghi mesi di esercizi alla sbarra:
            -“Te l’ho detto, io sarò l’albero. L’albero delle teste tagliate”- il suo respiro aveva l’aroma di quello zenzero che gli era proibito mangiare. Larse avvertì quel tepore arrivargli fin nello stomaco, e proseguire più in basso: capì che non avrebbe mai più mangiato zenzero senza risentire lo stesso turbamento. Nel frattempo, Indaco Hansen era già altrove: con una capriola, s’era di nuovo posizionato a testa in giù, con le gambe diritte e la schiena contro al muro, come un bizzarro pipistrello a riposo. Tra le labbra un’aria di musica, e nella mente i movimenti della danza: li ripassava con brevi gesti della mano, arrotolando quel filo di voce tra le sue dita.     
            -“Ti verrà il sangue alla testa”- brontolò Larse, infastidito dalle proprie sensazioni corporee.
            Dentro a quel libro di leggende da tutto il mondo, pesante di illustrazioni e dai bordi dorati, conservava innumerevoli biglietti con frasi più o meno esplicite, che non aveva mai avuto il coraggio di infilare nelle tasche di Indaco Hansen. Così, oltre all’impaccio delle emozioni, gli toccava anche quello di stare bene attento a non far scivolare dal libro i suoi pensieri, scritti convulsamente in momenti ben poco lucidi. 
            -“Ho trovato la storia”- annunciò tutt’a un tratto, già preparandosi al balzo con cui Indaco gli sarebbe arrivato praticamente addosso, per la gioia e la fretta di leggere per intero la ballata di Heer Halewijn.
            Sebbene Indaco studiasse danza da anni, molto gli era rimasto dell’irruenza sconclusionata della sua infanzia, che lo spingeva a gettarsi letteralmente in braccio al prossimo, senza badare al fatto che l’altro fosse fragile, oppure più innamorato. In quell’occasione, malgrado le scuse per gettarsi sul libro ci fossero tutte, Indaco non si mosse. Molto semplicemente, chiese all’amico di cominciare a leggere. Lo fece con una crudeltà involontaria, tipica di chi ignora i sentimenti dell’altro, e non gli dà alcun peso:
            -“Leggi, små mus, piccolo topo, mi piace la tua voce. Leggi cosa fa l’albero delle teste mozzate”-
            Larse diede una breve scorsa al testo, prima di pronunciarsi:
            -“L’albero non fa niente. Sta lì, semplicemente”-  
            -“E’ qui che ti sbagli. Io invece starò lì meravigliosamente”-
   
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La leggenda di Heer Halewijn, del suo patto con le tenebre e della lotta mortale con l’accorta fanciulla che aveva messo fine alla sua carriera di predatore di vergini e di ricchezze, era nata come ballata nella regione immaginifica delle Fiandre. Di là si era diffusa ad opera dei menestrelli nelle aree di cultura germanica, fino a raggiungere la penisola scandinava e i paesi del nord: nelle sue molteplici versioni, la favola nera di Sieuwert Halewijn era entrata nelle case danesi con le travi a vista e i muri degli stessi colori saporiti dei dolci, affacciate su canali di acque silenziose e cieli bianchi di neve. La si trovava nei libri illustrati e nelle raccolte di fiabe, come quelli che Larse leggeva per sfuggire alla malinconia e per accendere la fantasia dei suoi disegni.
            Sulla stessa vicenda, presso l’Accademia del Teatro dell’Opera proprio quell’anno era in corso di allestimento lo spettacolo di fine anno delle ultime classi, ormai prossime al diploma: nella coreografia, pensata per allievi che erano praticamente già ballerini professionisti, una parte era stata riservata eccezionalmente a Indaco Hansen, la promessa della scuola, di appena tredici anni.
            Si compiva così, con la puntualità tipica di tutte le profezie che si rispettino, la predizione rivolta a Indaco dalla maestra Carlotta Grisi, ancora al tempo dell’esame di ammissione all’Accademia:
            -“Turista, tu hai la stoffa e io son qui per tagliartela: tu mettici l’impegno, e vedremo di cavar fuori il puledro dall’asino”-
            L’anziana Madame Grisi era stata un’étoile del suo tempo, e dei suoi successi passati recava ancora un orgoglio sussiegoso e innumerevoli aneddoti: oltre all’ostinazione a voler trattenere, con l’artificio del trucco e i gioielli vistosi, una bellezza che era ormai soltanto un ricordo:
            -“Da giovane sono stata una prima ballerina”- ripeteva ai suoi allievi -“ho danzato al Palazzo dei congressi del Cremlino, davanti alla regina Elisabetta d’Inghilterra, ai reali di Spagna, di Svezia, di Norvegia: ho ricevuto gli applausi dei più grandi teatri d’Europa, e anche se queste cose ormai sono finite, io resterò sempre una prima ballerina, una grande ballerina”-
            Dal canto suo, Indaco ricordava quell’assolato pomeriggio di fine estate, in cui aveva appena compiuto dodici anni e i colori dell’autunno erano così intensi da fare male agli occhi: per le vie della capitale indugiava ancora il tepore dell’estate, nell’arancio e nel giallo delle foglie degli alberi che andavano a morire, danzando, lungo i ponti e i canali. Là sostavano gruppi di musicisti di strada, con le custodie degli strumenti posate a terra, le fodere scarlatte e dentro qualche moneta. C’erano i banchetti del mercatino delle pulci che esibivano insoliti pezzi d’antiquariato, borsette ricamate, catini da toilette posati su lunghe gambe di ferro battuto, trombe di vecchi grammofoni; i venditori di libri usati nascosti dietro a pile di edizioni economiche, copertine arricciate, tomi severi in pelle; famigliole a passeggio e militari in libera uscita si fermavano a osservare il lavoro dei pittori seduti ai cavalletti, con ai piedi le scatole dei pennelli e le tempere, sulla tela vedute dei canali in autunno, odore di solvente e stracci di tutti i colori.
            In contrasto con l’allegro movimento dei viali, snelli lungo i canali e avvolti in un pulviscolo che accendeva di schegge il pelo dell’acqua, il monumentale ingresso del Teatro dell’Opera pareva ancora più cupo, relegato in un’atmosfera fuori dal tempo.
            Era la prima volta che Indaco Hansen veniva nella capitale, dopo aver frequentato la scuola di ballo nella sua piccola realtà di provincia. Accompagnato dalla nonna, che a tratti lo prendeva per mano per infondere coraggio a entrambi, aveva attraversato infiniti corridoi con i soffitti a volta, le pareti drappeggiate da spifferi e tendaggi: nell’aria polverosa volteggiavano trame di esercizi al pianoforte, interrotte da una voce che intimava di ricominciare daccapo, facendo più attenzione.
            Era una voce perentoria e severa, di quelle che anche Indaco avrebbe udito spesso nel corso della sua permanenza in Accademia. Più oltre, il pianoforte aveva ceduto il passo a una cantante che eseguiva i vocalizzi, con uno slancio che a Indaco aveva ricordato i voli dei colibrì visti in televisione.
            Mentre abituava gli occhi alla penombra, per la prima volta aveva respirato l’odore di cera e  legno di un vero palcoscenico. Subito aveva avuto la netta sensazione di conoscerlo da sempre, quell’aroma pungente: in esso c’era il cuore di mandorla della colla, l’odore di segatura e di vernice a olio delle scenografie, il ricambio dell’aria che soffiava da chissà dove. C’era il sudore aspro delle sale di prova, il mistero racchiuso nelle potenti macchine da scena dietro alle quinte, e nei laboratori con le lampadine a filo, dove si preparavano i costumi di scena.  
            I corridoi che si perdevano nel buio, la sequenza di anditi da dove provenivano echi di canto e prove d’orchestra, tutto l’ambiente aveva risvegliato nell’anima di Indaco Hansen la strana impressione di ritrovarsi a casa: non si era mai sentito così familiare in un luogo, come se il paese dove era cresciuto, nel cortile di un caseggiato popolare, non fosse altro che un sogno. E lui se ne rendeva conto soltanto ora, destandosi improvvisamente.
            S’era quindi voltato verso la nonna Mette, che non si era mai spinta oltre le vie del quartiere, ed era persino più emozionata di lui. Indaco era sul punto di confidarle quelle sensazioni insolite, quando incapparono in una donna anziana e altezzosa, coperta di rughe come se indossasse una pelle di due taglie più grandi, le mani inanellate e le unghie laccate scure.
            Indossava un tailleur severo ma ai piedi calzava morbide scarpine da salto, e i capelli erano acconciati con uno chignon da étoile pronta a entrare in scena. Indaco sgranò gli occhi per la sorpresa: per lui che proveniva da un quartiere di periferia, a un passo dalla campagna, faceva uno strano effetto vedere un’anziana abbigliata in modo così bizzarro. Per di più, la donna era magra e piccina come certi folletti dispettosi delle leggende, e si comportava alla stessa maniera.
            Compensava evidentemente la mancanza di altezza - a dodici anni Indaco la superava di almeno due spanne - con un’autorità e un piglio formidabili:
            -“Voi cosa ci fate qua? Qui siamo dietro alle quinte, l’ingresso per le audizioni è dalla parte opposta. Ah, andiamo bene, iniziamo proprio bene!”-
            Incominciò a precederli attraverso labirinti semibui, ballatoi che rimbalzavano sotto ai passi, piani rialzati che tremavano come costruzioni di cartapesta. Mentre si arrampicava lesta come un furetto lungo scale che si perdevano nel buio, Madame Grisi scandiva con un tono da sergente maggiore le regole e i principi ferrei dell’Accademia:
            -“Qui non si fanno sconti, qui non si gira affatto con la testa nel sacco. La puntualità viene prima di tutto, puntualità e disciplina. Palcoscenico e applausi, questo non c’entra niente col fare il ballerino. Togliti dalle testa le luci della ribalta, i saggi di fine anno con il papà e la mamma, la danza è l’arte della fatica. E io, caro turista che giri per il teatro con il naso per aria, ce la metterò tutta per farti faticare, ammesso che tu riesca a passare l’esame, che non è mica detto”- e qui la Madame Grisi tirò un lungo sospiro per riprendere il fiato, perché malgrado tutta la grinta che esibiva, portava pur sempre a spasso sulle sue scarpette da salto settant’anni suonati.
            Si appoggiò un solo istante a un corrimano pericolosamente instabile, poi riprese di slancio:
            -“Il nostro primo compito sarà selezionarvi, tutto il primo anno sarà di selezione. Nel secondo continueremo la selezione, durante il terzo anche. Sarete esaminati ininterrottamente fino al diploma. E dopo il diploma, dimmi un po’, caro turista, cosa succederà?”-  
            Col fiato e le guance in fiamme, non tanto per lo sforzo quanto per la certezza di avere iniziato con i rimproveri ancora prima di essere ammesso ai corsi, Indaco la seguiva tirandosi dietro la nonna: a intervalli, le lanciava infinite raccomandazioni con gli occhi, perché non intervenisse peggiorando la situazione. Quando la Madame Grisi si fermò improvvisamente, voltandosi a fissarlo, Indaco Hansen, un metro e settanta di lunghe ossa che promettevano di crescere ancora, minacciò di travolgerla. Per non farlo, dovette frenare a sua volta, e farsi tamponare col naso dalla nonna:
            -“Cosa succederà, signora maestra? …un’altra selezione?”-
            Madame batté le mani com’era solita fare durante le lezioni, per segnare il tempo dei passi:
            -“Vedi? Quando uno la testa la tiene attaccata al collo, e non a ciondolare come una bandiera al vento, magari riesce pure a capire qualcosa. E sai cosa succede a chi ha due belle spalle come le tue, ma preferisce andarsene in giro da vagabondo, come hai fatto finora?”-
            Massaggiandosi il naso, dolente e indispettita, la nonna stava per obiettare che perdersi nei meandri di quell’infinito teatro non significava andarsene in giro sfaccendati, ma Indaco la bloccò, deciso a stare al gioco:
            -“Chi ha due spalle come le mie farebbe meglio, in quel caso, ad andare a scuola di nuoto”-
            Madame Grisi annuì, e insieme a lei dondolarono le collane, i braccialetti al polso, i pesanti orecchini che ad ogni movimento trascinavano i lobi sempre più pericolosamente verso il basso. Per un attimo, Indaco pensò che al prossimo cenno di compiacimento di Madame, quelle grosse sfere dorate si sarebbero staccate, trascinando con sé le orecchie mozze al suolo.  
            -“ E bravo, caro turista… ci siamo capiti al volo”- Madame lo disse non solo per la risposta semplice e senza pretese di Indaco Hansen, la stessa che il ragazzo si trovò poi a ripetere per tutti gli anni a venire, di fronte a insegnanti più o meno severi. Ma anche perché con il suo occhio esercitato, affinato dall’esperienza, l’aveva inquadrato in un attimo: e dalle doti naturali del corpo, dalla scioltezza e dal controllo dei movimenti aveva già capito che Malthe Hansen, soprannominato Indaco, era una promessa, e sarebbe stato una sfida interessante portarlo a esprimere al massimo le sue potenzialità.
            Poco dopo, ebbe luogo la prima delle infinite selezioni promesse da Madame: si svolse in una sala arredata soltanto da una sbarra alla parete e una teoria di specchi che moltiplicavano i movimenti dei ballerini. Al centro, un pianoforte con una donnina rattrappita sul sedile, della stessa apparente età geologica dell’insegnante. Madame Carlotta Grisi tenne il suo discorso inaugurale da una sedia posizionata in maniera strategica al centro della sala, brandendo una bacchetta che le sarebbe servita, in seguito, per chiarire al bisogno il concetto di mettersi in riga.    
            In quel momento, però, più della bacchetta pericolosamente oscillante di Madame, e persino più della severità del discorso, teso a presentare la danza nei suoi risvolti di sacrificio più tetri, a preoccupare Indaco era piuttosto il fatto di ritrovarsi in una classe di sole femmine.
            Intorno a lui, nella sala col pavimento di legno e una lunga sbarra che correva su tre pareti, sulla quarta uno specchio che ne rimandava l’immagine un poco intimidita, c’era un gruppetto di bambine abbigliate con una strana mescolanza di pagliaccetti e tutine, minuscoli tutù bianchi e rosa, i capelli rigorosamente tirati sulla fronte e acconciati a chignon: alcune arrampicate su scarpette da punta, con l’unico risultato di far sembrare le gambe ancora più fragili, i piedi più lunghi e impacciati.
            Incerte tra la timidezza e l’emozione, si stringevano le spalle una contro all’altra cercando di fare gruppo. In disparte, con la chiara intenzione di non volersi mischiare a quella covata di pulcini senza chioccia, un paio di adolescenti chiacchieravano pigramente: proprio da queste, dallo sguardo ben più tagliente e consapevole, arrivarono dritte su Indaco Hansen le prime occhiate altezzose e di compatimento.
            A Indaco tornò in mente quella frase che Larse soleva rinnovargli tutte le volte che il suo amore per la danza superava la soglia di tollerabilità dell’amico:
            -“Il ballo è roba da donne, e tu sei un maschio”-
            -“E cosa dovrebbe piacere, secondo te, a un maschio?”- domandava Indaco Hansen, con la pazienza di chi, in realtà, non si pone alcun dubbio.
            -“Il calcio. La corsa oppure il nuoto, insomma robe così. Non puoi passare la vita a saltellare in calzamaglia, è roba da finocchi. I ballerini maschi sono donne senza il tutù - come vedi, è persino qualcosa di meno rispetto alle donne vere. Qualcuno a cui manca qualcos’altro”-
            -“Io non sono finocchio”-
            -“Ti piacciono le femmine?”-
            -“A me piace la danza”-
            Eppure quella frase, è roba da finocchi, era destinata a tornare puntuale in varie occasioni: Larse gliela ripeté quando Indaco cominciò a frequentare le lezioni nella piccola scuola del paese; e ancora, a mo’ di saluto, il giorno della partenza per l’esame di ammissione al Teatro dell’Opera. In seguito, dopo aver imparato qualche cosa di più sulla vita dell’Accademia, Larse ritenne opportuno aggiornare il repertorio con una variante:
            -“… E come se non bastasse, da vecchio sarai come la Madame Grisi”- 
            Fino a quel momento, le battute di Larse non avevano avuto alcuna presa su Indaco: gli spiacevano solo perché dimostravano un incomprensibile risentimento da parte dell’amico, ma quanto al resto gli scivolavano addosso senza scalfirlo. La sua risposta, in genere, si limitava a ribadire la propria estraneità rispetto a qualsiasi tipo di ortaggio, oppure ad imitare le pose di Madame con l’aiuto di qualche orpello rimediato al momento, per simulare le strane acconciature della maestra. Con in testa il cestino da cucito di nonna Mette, e in mano una bacchetta cavata a una pianta in vaso, Indaco risolveva ogni altra questione con la voce in falsetto:
            -“Turista, sei tra noi o nel mondo dei sogni? Dritte quelle ginocchia, ricominciamo tutti dalla quinta posizione!”-  
            Mai come in quel momento, in cui si sentiva nervoso e fuori posto, le parole di Larse assumevano uno spessore inatteso, come il presentimento di lunghi mesi difficili.
            D’un tratto si rese conto che gli sarebbe bastato arretrare di un passo per infilare con molta discrezione la porta: con quella leggerezza che gli avrebbe permesso di salvare la faccia senza farsi notare né da Madame né dagli esaminatori, che proprio ora iniziavano a prendere posto dietro a un tavolo di legno scuro.
            Un solo passo ancora e Indaco Hansen sarebbe tornato ad allenarsi nella sua piccola scuola di provincia, dove il suo ruolo fisso era di accompagnare le piroette incerte di altre bambinette col tutù fatto in casa, tra gli applausi di un teatro parrocchiale gremito di genitori, zii e cuginetti.
            Indaco era già sul punto di defilarsi quando, dal salottino adiacente, lo catturò lo sguardo calmo di nonna Mette. Per lui, fu come ricordarsi cosa l’aveva spinto ad arrivare fin lì, a due ore di corriera e di nausea da casa, con in mano una lettera scritta dalla sua insegnante del paese: ripensò alla maestra Sveta, un’ucraina lieve come un soffio di brezza che un bel giorno era capitata nel loro cortile, mentre tutta la banda era intenta a una competizione di gioco a nascondino senza esclusione di colpi.
            Lei era arrivata ancora con le mani e il piccolo naso macchiato dalla vernice con cui stava ristrutturando due stanze, per adibirle a scuola di ballo: era un giunco flessuoso, perennemente in calzamaglia anche quand’era in giro. Il suo aspetto insolito aveva subito richiamato la curiosità delle bimbe del caseggiato: sentendola battere le mani a raccolta, com’era solita fare prima delle lezioni, tutte le ragazzine si erano radunate attorno a lei, abbandonando i rispettivi nascondigli e la sfida del gioco.
             Persino qualche maschio si era avvicinato, attratto dall’incandescenza di quel volto: quella era in assoluto la prima ballerina in carne e ossa che vedevano, e non riuscivano a levarle gli occhi di dosso. Erano affascinati dalla treccia tirata dentro a una reticella e acconciata a chignon, dalla tunica azzurra e soprattutto da un paio di scarpette da punta che la maestra portava a tracolla, legate per i lunghi nastri di raso, e che per le ragazzine rappresentarono subito la meraviglia assoluta.
            La giovane prese per mano le più vicine, accennando un passo di danza:
            -“Allora, mie care! Chi tra voi vorrebbe imparare a ballare?”-
            Incominciò una sarabanda di salti più o meno disordinati, di voci che si arrampicavano una sull’altra:
            -“Io, io!”-
            Le scarpette da ballo le furono letteralmente strappate dalle mani, agguantate dalle bambine che cominciarono a passarsele tra loro sgranando gli occhi. Nel frattempo la maestra continuava a guardarsi attorno, come se stesse ancora cercando qualcosa, o più precisamente, qualcuno.
            Scovò Indaco che se ne stava rimpiattato dietro a un angolo, e la guardava intimidito e incerto: pieno di desiderio ma comunque convinto che quell’occasione d’oro, che era spuntata dal nulla nel bel mezzo del suo cortile popolare, non fosse affatto per lui. Lui che era un maschio e, al massimo, poteva limitarsi a rubare con gli occhi i passi dei balletti visti in televisione, stando attento a non farsi notare per non passare da finocchio. Eppure, lo sguardo che dal suo nascondiglio Indaco rivolgeva alla maestra di danza era altrettanto intenso di quello che la donna posò sopra di lui, costringendolo a uscire allo scoperto.
            -“E tu, giovanotto? Non vorresti ballare?”-
            Indaco si fece avanti, con discrezione eppure rivelando una tale grazia di movimenti che subito conquistò l’occhio dell’insegnante:
            -“Ma io non so ballare”-
            Le bambine esultarono in un tripudio di manine sporche di terra, treccine sudate e scarpette da punta che continuavano a girare raccogliendo ditate, sfilacciando i lunghi nastri, riducendosi ai minimi termini:
            -“Neanch’io so ballare! Neanch’io!”-
            La maestra Sveta sorrise, stringendo attorno a sé quel piccolo corpo di ballo, ma guardando specialmente Indaco Hansen:
            -“Imparerete tutte, vedrete: solamente, ci vuole tanta passione e voglia di far bene”-
            -“Io ce l’ho! Anch’io! Anch’io!”-
            S’erano iscritte in tante per capriccio o per fascino, per seguire le amichette o semplicemente attratte dalla leggiadria di quelle scarpette di raso con la punta di gesso: soltanto Indaco Hansen aveva rilevato dietro alla grazia apparentemente priva di peso della maestra, e ai suoi movimenti così equilibrati, una muscolatura precisa e allenata, che le consentiva di librarsi nei salti come se le sue ossa fossero piene d’aria, cave come quelle degli uccelli.
            E quando le scarpette, già piene di ditate e sempre meno lucenti a forza di girare di mano in mano, erano arrivate fino a lui, non aveva potuto fare a meno di accorgersi di quanto quella punta fosse in realtà consumata, indurita dal gesso ma anche dallo sforzo: l’interno della scarpa recava addirittura una traccia brunastra, come di sangue vecchio.
            In seguito, entrando un pomeriggio a lezione con forte anticipo, aveva scorto la giovane mentre cavava i grossi scarponi da neve, strofinando con forza i piccoli piedi bianchi, indolenziti dal gelo: ed era rimasto immobile, senza fiato a fissarli per quant’erano rovinati dagli esercizi, con le dita incurvate e le unghie letteralmente consumate dalle punte.
            Per carattere, Indaco era facilmente suggestionabile: e quella visione si era fissata nella sua mente come una lezione da non dimenticare: così come il sorriso con cui la maestra Sveta amava sollecitare le bimbette svogliate, le ragazzine indisposte dai primi dolori, che fossero di pancia, di testa o d’amore. Alla richiesta di essere esentate dagli esercizi, lei rispondeva con un’invariabile buonumore che dissimulava una disciplina di ferro:
            -“Facciamo la lezione e vedrete che passa tutto”-
            Le ragazzine tornavano alla sbarra rannuvolate, trascinandosi dietro i piedi e molti lamenti:
            -“Fa presto a dire, quella, tanto non è lei a star male”-
            Eppure, più o meno tutte erano costrette a riconoscere che Sveta aveva ragione, e che non c’era niente di meglio per curare un raffreddore e certe indisposizioni che sciogliere la tensione, espellere le tossine con una sana sudata: niente come la musica, la percezione del corpo che assumeva una consistenza plastica, riusciva ad alleviare dolori e contratture, e addirittura i primi dispiaceri del cuore.
            Indaco se ne ricordò in quel momento, in cui avvertiva una stretta di disagio e incertezza che si andava ad aggiungere all’ansia dell’esame. Cercò di visualizzare davanti a sé la sala della vecchia scuola di ballo, così simile a questa, con la specchiera a muro e la sbarra di legno, alle pareti foto sbiadite di spettacoli in costume.
            Iniziò a concentrarsi negli esercizi di riscaldamento, lasciandosi assorbire dai movimenti del corpo e sperimentando la piacevole sensazione dei muscoli che si allungavano e rispondevano ai suoi comandi, diventando caldi e scattanti, trasformando il blocco della tensione in energia pura.
            Era talmente assorbito dagli esercizi, che quando venne il suo turno di presentarsi alla commissione nemmeno udì la voce della Madame Grisi che chiamava il suo nome:
            -“Hansen!”- lo richiamò l’insegnante -“Hansen naso per aria, ti abbiamo già perduto prima di cominciare! Non c’è che dire… incominciamo bene!”-
            In realtà, nel tono di voce di Madame c’era approvazione, persino il compiacimento di chi trova conferma alle proprie intuizioni: aveva notato subito infatti che quel ragazzetto, unico in quell’infornata di bambine impacciate e adolescenti supponenti, aveva approfittato dell’attesa per prepararsi, scaldando i muscoli come un piccolo professionista.
            Senza smarrire la concentrazione, Indaco prese posto alla sbarra ed eseguì la sequenza degli esercizi richiesti dagli esaminatori: la voce della Madame Grisi lo guidava, e lui sentiva il corpo adattarsi al ritmo come se i comandi arrivassero direttamente alle braccia e alle gambe, in perfetta sincronia, senza neppure passare prima per il cervello.
            La musica gli scorreva semplicemente attraverso, come un fiume di energia, dalle spalle fino alle punte dei piedi: e il corpo rispondeva con la docilità che aveva appreso durante i lunghi inverni alla scuola della maestra Sveta, ma anche con una spontaneità innata, propria del suo talento, della carne e del sangue di Indaco Hansen.  
            Defilata nella penombra, dov’era relegata insieme al suo impolverato strumento a coda, la pianista pestava decrepita sulle note con la fatica dell’abitudine, senza riuscire neppure a leggere lo spartito per il peso degli anni e la semioscurità: ma non appena quelle note raggiungevano Indaco acquistavano vita propria, diventavano espressione dei muscoli delle gambe, dell’arco delle braccia, del perfetto equilibrio delle spalle e del dorso. Arrivavano persino ad aprirgli sul volto quel sorriso raggiante, che ovunque si trovasse e persino durante un esame, esprimeva la sua felicità nel danzare.
            A casa della nonna che l’aveva allevato, Indaco aveva imparato a ricavare armonia e materia per il ballo persino dai rumori. Si trattasse dei motivetti alla radio che nonna Mette ascoltava mentre si affaccendava in cucina, della televisione o addirittura delle liti dei vicini di casa, le urla della moglie e i piatti rotti dal marito, Indaco si abbandonava interamente al ritmo: volteggiava per casa finché inevitabilmente pigliava contro a qualcosa.
            Lo spigolo di un tavolo, l’angolo di un armadio lo richiamavano da quell’atmosfera incantata che era in grado di creare attorno a sé con una giravolta, con un solo movimento del torso e delle braccia: e i lividi che si aprivano come fiori violacei, perché fin dalla nascita Indaco era affetto da problemi di coagulazione che lo obbligavano a controlli periodici, erano grandi almeno quanto i suoi sogni.
            Nell’atto della danza, si estraniava dal mondo: c’erano solamente la musica che lo avvolgeva completamente, e il corpo che rispondeva attraverso lo sforzo dei muscoli, la tensione dei tendini, il calore che lo invadeva in crescendo.
            Fu così anche quel giorno: e Indaco conservò pochissimi ricordi del tempo che trascorse dal momento in cui incominciò a danzare, fino a quello in cui l’ultima nota si dileguò in uno scricchiolio di penne sui misteriosi fogli degli esaminatori.
            Esaurita l’ultima prova, quando anche l’ultima bimbetta in tutù aveva terminato di saltellare alla meglio sulle note della pianista, la Madame Grisi aveva spedito tutti fuori, chiudendo la doppia anta che divideva la sala prove dall’angusto salottino già gremito di mamme. In un angolo più riposto, affondata in una poltrona a riposare le gambe, la nonna Mette si sventagliava con un giornale.
            Le mamme incalzavano con domande su domande su come era andata la prova, senza risparmiare rimproveri di fronte a un tutù strappato, a uno chignon disfatto: quelle tra loro che erano state ballerine costringevano le figlie a mostrare come eseguivano una figura o un passo, come se l’esame fosse ancora da fare ed eventuali correzioni potessero tornare utili. Soltanto nonna Mette, cigolando a fatica fuori dalla poltrona, aveva accolto Indaco in un abbraccio senza pretese.
            -“Tranquillo, figlio mio: hai fatto del tuo meglio, andrà come deve andare”-
            Indaco si rilassò, abbandonandosi alla piacevole sensazione dei muscoli ancora caldi, del sangue che scorreva ancora veloce. La serenità incrollabile di quella donna semplice, che nella sua vita aveva lavato milioni di scale e ancora, nella vecchiaia, faceva il bucato e stirava per tutto il quartiere, sapeva infondergli una calma capace di appianare qualunque ostacolo.
            Da una borsa capiente che portava sempre con sé, solitamente piena di caramelle mou e frizzanti al limone, merendine schiacciate e ogni altro genere di conforto, la nonna aveva estratto una bottiglia di aranciata e una piccola pila di bicchieri di plastica, un pacco di crostatine da supermercato: e si era messa a offrire quel rinfresco improvvisato alle piccole ballerine, che dietro all’ombra ingombrante delle madri avevano volti magri, timidi e preoccupati.
            Indaco si sedette sul bracciolo della poltrona, e cominciò a sgranocchiare. Rassicurato dalla presenza di nonna Mette, allungò una crostatina alla bimbetta che gli era più vicina, accompagnandola con un sorriso così aperto che presto anche le altre si fecero coraggio, e arrivarono in un fruscio di tutù, lustrini e pagliaccetti, scarpine rosa da salto, da punta, da ginnastica. Arrivò anche qualche madre, per strappare quei dolci innocui dalle mani delle rispettive figliole, picchiandole sulle dita:    
            -“Sai che non devi mangiare queste porcherie altrimenti metti su peso, e se ingrassi addio corsi di ballo!”-
            Indaco era stupito: l’associazione tra la magrezza e la danza gli era completamente estranea.
            Per lui la danza era essenzialmente slancio, qualcosa che c’entrava molto con la passione, poco con il rimprovero, nulla con il privarsi di altre soddisfazioni. Gli pareva anzi strano di poter sostenere lo sforzo necessario senza avere buoni muscoli e nutrirsi a dovere. Alla scuola di ballo della maestra Sveta c’era sempre stato posto per tutte le bambine: nessuno era escluso, perché la danza era essenzialmente divertimento.
            Gioia liberatoria, vitalità e forza: così l’aveva sempre concepita Indaco Hansen, almeno fino ad allora.
            Si ritrovò a osservare una di quelle madri gettare nel cestino la merenda strappata alla figlia, con tanta intransigenza da restarne sbalordito. Al posto della crostatina al cioccolato, quella bimba di cinque anni, in tenuta completa da Lago dei cigni - tutù piumato e chignon col diadema - si era ritrovata davanti un indice minaccioso:
            -“Con tutti i sacrifici che ci costringi a fare per farti ballare! Sai che io ho dovuto smettere quando sei nata tu? L’Accademia è una cosa seria ma tu non t’impegni, come al solito fai le cose tanto per fare! L’avessi avuta io, questa possibilità…”-
            La bimba scoppiò a piangere, più per la violenza imprevista che per il rimprovero, e Indaco ebbe la malaugurata idea d’intromettersi. Scuotendosi di dosso la mano di nonna Mette, che già l’aveva visto osservare la scena con occhi grandi e un guizzo nei muscoli della schiena, si era fatto avanti, con la grazia che lo distingueva persino quand’era arrabbiato. Ancora non conosceva la stoffa delle madri di certe ballerine, per cui s’era messo in mezzo con molta naturalezza:
            -“Mi scusi, signora… è solo un po’ di merenda!”-
            La reazione della donna non si era fatta attendere:
            -“Tu che vuoi, ragazzino? Sei un maschio e cosa vuoi saperne, tu, della danza? I maschi non danzano, servono solamente a sollevare le ballerine. Mia figlia è una ballerina, e quindi ha il dovere di mantenersi leggera…”-
            Indaco era rimasto senza parole. S’era voltato a fissare la piccola in lacrime, che per il volume e il tono di voce della madre era sempre più spaventata: levando per un attimo le dita appiccicate dal cioccolato e dal pianto, la bambina a sua volta l’aveva guardato in faccia, e Indaco aveva fatto in tempo a notare le linee pesanti di matita attorno agli occhi, l’ombretto dorato, i lustrini che le decoravano le palpebre e che ora franavano miseramente sotto a quel fiume in piena. 
            Per un attimo ebbe la netta sensazione che l’Accademia non fosse il posto per lui, ma un luogo dove il suo amore per la danza si sarebbe spento in fretta.
            Fortunatamente, quel flusso di pensieri fu interrotto da un trambusto proveniente dalle due ante scorrevoli, che separavano il salottino dalla sala già riservata ai segreti conciliaboli della commissione d’esame: tra i presenti cadde improvvisamente un silenzio assoluto, mentre la Madame Grisi appendeva in bacheca l’esito delle prove e l’elenco degli ammessi.     
 
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Capitolo 2
*** L’ arte della fatica ***


“Ero lì, con le mie scarpe congiunte ai piedi,
con il mio corpo che si apriva alla musica,
con il respiro che mi rendeva sopra le nuvole.
Io imparavo a danzare e danzavo
perché mi era impossibile non farlo,
mi era impossibile pensare di essere altrove,
di non sentire la terra che si trasformava
sotto le mie piante dei piedi,
 impossibile non perdermi nella musica”
(R. Nureyev, “Lettera alla danza”)
 
“Non dipingo quello che vedo, ma quello che ho visto”
(E. Munch)

 
 

2. Atto Secondo - L’arte della fatica  



           A differenza di Indaco Hansen, che in classe non riusciva a stare immobile al banco per più di una manciata insopportabile di secondi, a dieci anni Larse Kruse passava il tempo delle lezioni in strenui tentativi di mimetismo, al fine di confondersi col pallore lattiginoso della parete di fondo.
            Asserragliato dietro a una pila di quaderni, allo zaino levato come una torre d’assedio, e a mo’ di sentinella un coniglio di pezza con un paio di vecchi occhiali da sole cuciti sul muso, Larse faceva il morto alla maniera di certe bestiole da preda, quando i rapaci iniziano a volargli sopra in tondo: al punto che la sua insegnante alle elementari aveva l’impressione che dietro al banco fosse seduto, come un allievo assai poco interessato, quel curioso coniglio a patchwork, con un orecchio dritto e l’altro a penzoloni, in parte mordicchiato dall’ansia del proprietario.
            Suor Diletta Dahl era una benedettina poco più alta dei suoi bambini: tonda di viso e dentro all’abito del suo ordine, somigliava a una morbida campana di panno grigio, e della campana possedeva anche la voce. Inseguita dal fruscio bianco del velo, si muoveva per l’aula con una grazia che diffondeva intorno a sé una sottile essenza di lavanda e di canfora. Anticonvenzionale e molto intuitiva, si era sobbarcata il compito di insegnare a leggere, scrivere e far di conto a quella classe di figli di operai abbandonati al cortile e a se stessi, cercando di mostrare il lato buono dell’obbligo: in classe si contava con cioccolatini e caramelle, e i conti tornavano sempre - per finire poi nelle pance sempre affamate dei suoi allievi; non si leggevano storielle edificanti per bimbi buoni e saggi, ma antiche fiabe e leggende che tenevano i piccoli con il fiato sospeso, e che a Larse in particolare causarono incubi a più riprese durante tutta l’infanzia.
            Spesso la campanella che segnava la fine delle lezioni li sorprendeva nel bel mezzo di un bosco abitato da animali parlanti, oppure prigionieri nelle segrete di un castello, o nella catapecchia di una strega impegnata in foschi sortilegi: così che il trillo improvviso dal corridoio li ridestava con un sussulto e un brivido, e il desiderio sgomento di proseguire la lettura:
            -“Ancora, maestra, ancora!”-
            Persino Indaco Hansen, catturato dal fascino cupo delle vicende, rinunciava ad alzarsi ogni cinque minuti piroettando per l’aula: mentre Larse era un paio d’occhi terrorizzati che spuntavano appena da dietro alla trincea che in teoria avrebbe dovuto preservarlo dal mondo. 
            In una classe di bambini convenzionalmente educati e intelligenti, Indaco e Larse furono fin da principio le sue spine nella carne: il primo la faceva disperare con la sua incapacità di stare fermo al banco, e seguire la lezione alla maniera di tutti. Non era disattento: semplicemente, era convinto di imparare più alla svelta restando a testa in giù contro una parete: oppure piroettando da un capo all’altro dell’aula, agile e inafferrabile come un fuoco fatuo, obbedendo a un’orchestra che suonava irresistibilmente nella sua testa.
            Il massimo successo che suor Diletta riuscì a realizzare con Indaco fu riuscire a convincerlo che non era opportuno unire due o tre banchi a mo’ di palcoscenico per le sue capriole, calamitando su di sé l’attenzione di tutti:
            -“Tu imparerai lo stesso, ma gli altri si distraggono. Avrai tutto il tempo per fare il ballerino, quando sarai grande”-
            Indaco aveva sgranato gli occhi, ci aveva ragionato, e da quel momento in poi aveva rinunciato agli spettacoli in classe. In compenso, la maestra gli consentiva ogni tanto di andare a sgranchirsi fuori dall’aula: senonché Indaco si infilava nella guardiola della bidella, alzava il volume della piccola radio scovata tra lavori all’uncinetto e ferri da maglia, fotoromanzi e parole crociate, e si scatenava in acrobazie nel corridoio.
            L’effetto era che, in breve, si aprivano le porte di tutte le aule e uscivano le maestre, gruppetti di bambini che si scatenavano a loro volta, e le lezioni andavano a monte in tutta la scuola.
            Ci volle molta e santa pazienza da parte di suor Diletta per convincere Indaco che se non era il caso di attirare su di sé l’attenzione della classe, lo era ancor meno esibirsi in quel modo di fronte a tutta la scuola. La buona suora non era un’esperta di balletto: le sue conoscenze musicali si limitavano al salterio in convento, la pianola in parrocchia e la fatica di inquadrare i piccoli in un coro irrequieto, più o meno stonato per i canti di Natale. Eppure, quando si trattava di comprendere le potenzialità dei suoi alunni, possedeva un intuito che sfiorava la profezia.
            Riuscì così a resistere a tutte le proteste delle altre insegnanti, per le quali Indaco Hansen era semplicemente un moccioso maleducato, iperattivo al punto che sarebbe stato meglio affidarlo alle cure di uno psichiatra infantile. Mandò a chiamare la nonna Mette, che si presentò già in disarmo, a testa bassa e pronta ad affrontare ogni sorta di reprimenda:
             -“Cara signora, suo nipote deve ballare”- suor Diletta arrivò subito al punto, saltando a piè pari tutti i preliminari -“questo bambino è sempre in movimento, non riesce a stare fermo ma in compenso è armonioso, ha un buon controllo del corpo, mette caos con grazia: trovi un corso di danza, lo faccia appassionare”- così anche noi tireremo un sospiro di sollievo, pensò la buona suora, mordendosi le labbra appena in tempo.    
            Una volta affidato Indaco Hansen alla maestra Sveta, e alla scuola di ballo a cui la nonna l’aveva iscritto con l’unica preoccupazione di salvare l’anno scolastico, restava a suor Diletta la sfida più problematica, rappresentata dall’altro estremo della medaglia: Larse Kruse e la sua apatia apparentemente infrangibile.
            Aveva già notato che la vicinanza di Indaco sembrava avere il potere di farlo uscire dal guscio. Quando il piccolo ballerino si fermava presso il banco di Larse, questi riemergeva dal suo torpore consueto, recuperando in faccia una tinta un po’ meno scialba del grigio della parete: e pur ostinandosi nel rifiuto di pronunciare una sola parola, al punto che suor Diletta dubitava persino che avesse una voce, pendeva dai discorsi e dalla vitalità di Indaco Hansen con un rapimento così struggente che la maestra, all’inizio, tentò di riversare l’irruenza dell’uno nel letargo dell’altro, mettendoli in banco insieme. 
            L’alchimia funzionò, nel senso che l’amicizia tra Indaco e Larse, nata già assieme a loro e consolidata durante i giochi nel cortile e le interminabili sedute sui vasini, quando erano a malapena in grado di camminare, si consolidò e i due divennero inseparabili.
            Dal punto di vista caratteriale, rimasero all’opposto. Indaco con la sua vitalità incontenibile, Larse con la sua problematica introversione: per di più complicata da un travaglio di tenerezza nei confronti dell’amico che, se possibile, lo rendeva ancora più impacciato, aumentando a dismisura la sua attrazione per il silenzio e la solitudine.
            Affrontare l’argomento con la madre del piccolo Kruse, un’operaia smunta sulle cui spalle gravavano i genitori anziani e numerosi figli da padri senza nome, servì solo ad aggiungere qualche ruga in più sulla faccia di quella donna oppressa da infinite preoccupazioni.
            Ancora prima che la suora iniziasse a parlare, la donna aveva alzato la mano per bloccarla, iniziando di seguito a elencare i suoi guai, in un crescendo esasperato:
            -“In casa ho mio padre con un cancro terminale, lavoro in fonderia anche al turno di notte, nei giorni di riposo vado a lavare le scale con mia figlia più grande, e a volte mi addormento seduta sui gradini. Quando i più piccoli sono a scuola io sono contenta, almeno non sono in strada: io non pretendo altro, e lei per cortesia non pretenda altro da me”-
            Suor Diletta si rese conto molto rapidamente che anche questa volta doveva affidarsi all’intuito. Ci pensò sopra a lungo, finché s’imbatté in una scoperta casuale e illuminante: passando accanto al banco di Larse durante un intervallo notò un vecchio bloc-notes, un album di schizzi e sotto ancora altri fogli. Ognuno di quelli conteneva dei disegni, bizzarri e inquietanti.
            Le bastò una sola occhiata per accorgersi che il filo conduttore era una forte angoscia: alcuni erano ritratti, eseguiti nello stile approssimativo tipico dell’infanzia, ma che già rivelavano una mano sicura e un tratto visionario. C’erano bimbi al parco, accompagnati da lunghe ombre di adulti, in tutto simili ad alberi, o a pali vestiti di nero. Gli occhi dei bambini erano orbite vuote, i volti inespressivi e disegnati con brevi tratti: il naso verticale, la bocca simile a un taglio.
            Molto era dovuto alla giovanissima età dell’artista, e alla sua difficoltà ad approcciare la figura umana. Ma la precisione con cui era raffigurata la natura del parco, l’erba simile a un prato di aghi dolorosi e sullo sfondo il nero cupo di un temporale, suscitavano un senso di oppressione e sgomento: che, se non era voluto, diceva comunque molto dei segreti pensieri che, all’età di dieci anni, già assillavano Larse Kruse in pianta stabile.
            L’insegnante era sconcertata: malgrado disponesse di un’ampia fornitura di matite e pennarelli, nei suoi disegni Larse privilegiava il bianco e nero, come se quello fosse il filtro privilegiato, o addirittura l’unico, tramite il quale osservava la realtà.
            L’unico disegno in cui appariva una traccia di acquarello, talmente diluito da arricciare la carta, ritraeva una sagoma distesa in un letto: probabilmente un bambino, immobile e imprigionato da un mucchio di coperte, che possedeva i colori di Indaco Hansen. Accanto a lui un’altra figura, rimpicciolita e nuovamente in chiaroscuro, poteva essere Larse.
            Suor Diletta si chiese se il bambino nel letto fosse morto o ammalato: in ogni caso, ciò che attirava lo sguardo, oltre all’ambiguità di quella situazione, era il modo in cui il l’altro appoggiava a sua volta la testa sul cuscino, in modo da sfiorare i capelli del compagno.
            Sulla testa di Indaco, ammesso che fosse lui, si apriva una vignetta che conteneva una piccola figura in movimento, disarticolata nei movimenti, forse un ballerino: mentre sopra alla testa incolore di Larse Kruse non si apriva un bel nulla, segno che i suoi pensieri e la sua devozione erano interamente dedicati a Indaco Hansen.
            La maestra non ritenne opportuno soffermarsi troppo sui contenuti, che riguardavano sentimenti troppo segreti per poterli affrontare direttamente con Larse: preferì invece rallegrarsi per la scoperta di un’interiorità così fine e complessa, anche se molto oscura, probabilmente troppo per un bimbo di quell’età. C’era comunque un canale di comunicazione attraverso cui Larse interagiva col mondo, e lo faceva in modo spontaneo e interessante: si trattava soltanto, pensò la maestra, di assecondare quella passione per il disegno, non tanto al fine di coltivare un talento, quanto per consentire al piccolo Kruse di creare un equilibrio che fosse il più possibile solido e formativo.
            Soddisfatta e inseguita dal perenne fruscio del velo, suor Diletta tornò alla cattedra e cominciò a frugare nei meandri dei suoi cassetti, alla ricerca di un indirizzo che sapeva di avere nascosto da qualche parte.
            Al termine delle lezioni, mentre la classe usciva rumorosa dall’aula, richiamò indietro Larse per fargli una proposta che, immediatamente, accese negli occhi del piccolo una scintilla. Un lampo di energia pura, ma senza alcuna traccia di gioia:
            -“Mi piacerebbe, maestra”-
            Suor Diletta sorrise, sforzandosi d’ignorare quella linea d’ombra che indugiava, appena percettibile, tra le ciglia di Larse. Ripensò al turbamento che le avevano suscitato quei disegni: tutta la saggezza che aveva accumulato durante lunghi anni d’insegnamento le suggeriva di non sottovalutare una simile inclinazione per l’angoscia, del tutto inconsueta per un bambino di dieci anni, e provare a indagare intorno a quell’assoluta mancanza di spensieratezza.
            Non è normale, l’avvertiva la voce dell’esperienza, e anche quell’intuito che la guidava sempre a colpo sicuro.
            I disegni riflettono le ansie dei piccoli, le suggeriva l’ultimo corso di aggiornamento sulle tecniche educative, ed è un bene che Larse riesca a metterle sulla carta, e quindi ad esprimerle.
            E dopo che le ha espresse, che cosa ne facciamo? Le mettiamo in cornice?
            Incerta sul da farsi, suor Diletta decise di non lasciare trapelare quel dubbio che le stava rimescolando le carte in tavola proprio all’ultimo momento. Almeno di fronte a Larse ci teneva a mostrare un piglio sicuro, altrimenti il bambino si disorienta. Già lei era confusa, e persino un po’ intimidita:
            -“Allora, siamo d’accordo”-
            -“Grazie, maestra”- un altro sprazzo di quell’energia pulsante, priva di levità, nello sguardo di Larse, educato e impenetrabile.
            Sono semplicemente le fatiche della crescita, si ripeté suor Diletta, senza crederci affatto, alcuni stentano più di altri a misurarsi col mondo.
            Il lunedì seguente, con tutto il suo corredo di albi, pennarelli e coniglio di patchwork, Larse si presentò a casa dell’anziana signora Abramovich, per prendere le sue prime lezioni di disegno.
  
******
           
Quando la Madame Grisi uscì dalla sala prove, facendosi largo a suon di gomiti aguzzi tra la piccola folla di mamme e ballerine stipata nel salottino, Indaco ebbe un sussulto.
            Non senza difficoltà per mancanza d’altezza, la maestra si arrampicò sulle mezze punte e sul legno della bacheca, col rischio di tirarsi addosso tutto l’insieme: vetrina di antiquariato, cornice di legno appesa per miracolo a due chiodi già sofferenti e inclinati, che tracciavano lunghi reticoli di crepe nella tappezzeria.
            Dalla sua postazione accanto a nonna Mette, Indaco era già in procinto di correre in aiuto, i muscoli della schiena e le gambe nervose già protese nel salto: lo trattenne soltanto la presa della nonna, la sua mano salda ad acchiapparlo come un coniglio per la collottola:
            -“Rimani qui e aspettiamo, senza scoperchiare i nervi”-
            Non scoperchiare i nervi era, da sempre, il pronto soccorso emotivo di nonna Mette di fronte a qualsiasi difficoltà: frutto di un’esperienza che in più occasioni le aveva posto dinanzi i danni spesso irreparabili della fretta. Lasciò andare la presa trasformandola nel semplice peso della sua mano, consapevole del calore che era in grado di infondere: i muscoli di Indaco, già contratti un unico blocco per la tensione, si rilassarono all’istante.
            -“Ricorda che comunque vadano le cose, a te piace ballare e questo mai nessuno te lo potrà togliere”-   
            Nel frattempo, la Madame Grisi era riuscita ad appendere il foglio dei risultati e continuava a starci davanti, cercando di concentrare sopra di sé gli sguardi già in caccia dei nomi sigillati dal vetro macchiato della bacheca:  
            -“Molto bene, signori: per chi è stato ammesso, le lezioni inizieranno domattina alle nove, puntuali. Passerete da me per completare l’iscrizione e per la visita medica. Per chi non è stato ammesso, avviso che non si accettano reclami di nessun genere. Le prossime selezioni si terranno sempre qui, a settembre dell’anno prossimo. Buona giornata a tutti”- 
            Simile a un domatore che liberi i leoni in mezzo al Colosseo, la maestra scomparve da una porta laterale, uno di quegli accessi invisibili dei teatri, celati dagli stucchi e da un pesante tendaggio. Da quel momento in poi, sotto al tabellone sempre pericolante si accalcò una ressa di madri e di allieve senza esclusione di colpi. Gomitate e spintoni ricacciavano indietro le più piccine, che rimanevano prese tra le gambe degli altri con i loro tutù bianchi e rosa, di seguito ripescate dalla rabbia o dalla gioia - parimenti furiosa - delle loro accompagnatrici:                 
            -“Ce l’hai fatta, tesoro!”-
            -“Non sei ammessa, vergogna!”- e di nuovo riprendeva la lista dei sacrifici, delle occasioni perse e delle vite immolate delle madri ex ballerine.
            Quando tutte se ne furono andate, Indaco fu lasciato libero dalla nonna, e insieme a lei che lo sorvegliava alle spalle si avvicinò al tabellone: il suo nome figurava al primo posto nell’elenco degli ammessi.
            Sbucando dal nulla, o meglio da un’altra di quelle porte che si aprivano nella parete come artifizi scenici, dietro di lui si materializzò la Madame Grisi: 
            -“Molto bene, turista. Ma non montarti la testa, sono capaci tutti di fare i cigni in mezzo agli struzzi. Adesso preparati a sudare sul serio”-
            La mano di Madame gli stringeva la spalla, con una presa dal cemento ancora più rapido, avvolgente e inflessibile di quella di nonna Mette. Indaco spalancò sul volto della maestra un sorriso raggiante: Madame fu investita da uno scintillio di occhi e una fila infinita di denti candidi, fossette sulle guance e un’espressione di assoluta beatitudine. Inavvertitamente, si trovò a fare un passo indietro per ristabilire la giusta distanza, e recuperare un poco del suo umore burbero:
            -“Non c’è niente da ridere, turista: ti aspetto domattina alle nove precise, anzi nel tuo caso alle otto e mezza per cominciare con gli esercizi di riscaldamento. Non permetterti neppure un minuto di ritardo, o ti rispedisco subito alla scuola di nuoto”-
            Incominciò così, per Indaco Hansen, una vita di allenamenti quotidiani, impegno e sacrifici che per lui - almeno all’inizio - neppure erano tali, tanto era l’entusiasmo che gli suscitava la sola idea di danzare. Per quanto la maestra insistesse a torchiarlo, pretendendo da lui una perfezione da professionista, Indaco rispondeva accettando ogni appunto, rimprovero e umiliazione con beata sottomissione e il sorriso sulle labbra: neppure si domandava dove volessero andare a parare tutte quelle richieste di arrivare in anticipo e andarsene molte ore dopo la fine delle lezioni, impegnando quel tempo in sessioni supplementari, lezioni di salto, ancora riscaldamento, di nuovo sbarra e salto.
            Per lui si trattava di altrettante occasioni per abbandonarsi alla suggestione della musica, e avvertire la sensazione irrepetibile del corpo che si librava, si fletteva per poi lanciarsi in uno scatto vigoroso che gli riempiva l’anima di una gioia senza stanchezza.
            Non aveva altra aspirazione, Indaco Hansen, che continuare a danzare per il resto della vita, e l’avrebbe fatto senz’altro anche se si fosse trovato in mezzo a un deserto, senza nessun pubblico ad ammirarne lo slancio. Per natura e senza bisogno di rifletterci sopra, aveva compreso appieno lo spirito della danza, che consiste nel possedere interamente la propria arte, con una perfetta tecnica e assimilando le correzioni e la durezza con la grazia con cui si accolgono i doni: le doti naturali - la flessibilità, il senso del ritmo - non erano che il granello di sabbia penetrato nella carne dell’ostrica.
            Per creare la perla occorreva rivestire quella minuzia intessendo la trama della propria fatica: curandola come un tesoro quando era ancora in germe e della brillantezza, della capacità di catturare la luce e restituirla purificata, non c’era alcuna traccia.  
            Ma se per Indaco Hansen la danza era premio a se stessa, al posto suo la Madame Grisi nutriva aspettative piuttosto elevate. L’anziana maestra aveva intuito nel suo allievo la stoffa, e intendeva cavar fuori il puledro dall’asino senza mezze misure: grazie anche al fatto che Indaco era un bambino, con le ossa ancora tenere e quindi in grado di plasmare i movimenti con estrema precisione e massimo rendimento. L’allievo, per di più, era docile e obbediente, non aveva ancora l’età per le smanie da primadonna, possedeva la tenacia sufficiente per non scoppiare in lacrime di fronte a un rimprovero.
            Di lacrime, in realtà, ben nascoste dietro al suo sorriso imperturbabile, Indaco Hansen era costretto a ingoiarne parecchie. Ogni mattina, in aula lo attendeva una fatica estenuante. Lo attendeva la danza, ma anche l’ostilità delle compagne di corso. 
            Come già era accaduto all’esame di ammissione, nella classe del primo anno era l’unico maschio: e per quanto si ostinasse a negarlo per non perdere la concentrazione e l’entusiasmo, s’era sentito come un fuco in un alveare di api regine, che lo osservavano con il distacco che si riserva alle mezze creature.
            I primi giorni di lezione gli era capitato d’incrociare altri ballerini, una folata di giovani con gli asciugamani al collo, che si scambiavano pacche sulle spalle e risate mentre uscivano da un’aula immersa nella piena luce del giorno. Per poco non l’avevano travolto per le scale, mentre scendendo continuavano a scherzare, a colpirsi con gli asciugamani sudati, ad assestarsi spintoni con un cameratismo che Indaco, costretto ad adeguarsi alle buone maniere un po’ artefatte delle compagne, aveva dimenticato. Era dai tempi dei giochi scatenati in cortile, delle battute a guardie e ladri e a nascondino, che non gli capitava di lasciarsi andare alla gestualità tipica del suo sesso, alle spallate amichevoli, alle zuffe tra maschi.
            Quel giorno era rimasto appiccicato come un fuscello al corrimano, fissando il gruppo dei giovani che imperversava lungo le scale con occhi talmente grandi, e colmi di una tale nostalgia e solitudine, che l’ultimo del gruppo, avvertendo quello sguardo insistente alle spalle, a un tratto s’era voltato, notando la sua presenza e sorridendo con simpatia a Indaco Hansen:
            -“Hey, bambino, sei nuovo? Cresci, che ti aspettiamo!”-
            Indaco aveva vissuto un momento di giubilo: si era ritrovato, poco dopo, a danzare nella sua classe mista con il solo obiettivo di raggiungere la perfezione necessaria a far parte di quell’élite.
            Covando quel nuovo sogno spesso li aveva spiati, quei ragazzi più grandi, mentre facevano lezione per conto loro in un’altra sala prove, volteggiando all’unisono con il loro insegnante.
            Li ammirava da dietro a uno spiraglio della porta: tutti alti e slanciati, indossavano come lui una semplice calzamaglia ma volavano alti, al riparo da quelle occhiate di compatimento che puntualmente lo raggiungevano, non appena metteva piede nella sua aula:
            -“Arriva il principe consorte”-
            -“L’étoile senza tutù”-
            -“Lo sai che i ballerini sono tutti finocchi?”-
            -“Devono esser finocchi, la danza è roba da donne”-
            Indaco era tenace, ma anche remissivo; sapeva concentrarsi fino a conquistare l’eccellenza di un passo, ma non era capace di difendersi dal malanimo.  
            Com’era prevedibile incominciò a soffrirne, e parallelamente la sua danza ne risentì: ad ogni stoccata il suo salto perdeva energia e si smorzava; ogni parola sussurrata all’orecchio, in quel modo sgradevole che usavano le femmine con la mano a conchiglia per non lasciar sfuggire nemmeno un bisbiglio, gli pareva rivolta sempre contro di lui, e anche se non l’udiva sapeva che era un concentrato di livore.
            -“Tu avrai anche la stoffa per fare il ballerino”- diceva la nonna Mette quando, una volta a casa, Indaco si sfogava -“ma ci vuole anche la scorza, per stare in quell’ambiente”-
            Era chiaro che Indaco non avrebbe potuto danneggiare in alcun modo le sue compagne: non poteva esserci competizione perché i ruoli nel ballo erano differenti, ma lui era in maniera fin troppo evidente il pupillo della Madame Grisi, che lo portava a esempio.
            Per l’inevitabile legge delle reazioni uguali e contrarie, questo significava che era detestato, neppure troppo cordialmente, da quel gineceo di femmine rivali.
            Facevano eccezione soltanto le più piccole, quella squadra di bambinette che Indaco aveva già incontrato all’esame di ammissione e che erano visibilmente troppo timide e vessate dalle rispettive madri per aver altro a cui pensare.
            A queste, Indaco spesso sorrideva incoraggiante: correggeva una posizione con un lampo degli occhi nei rari momenti in cui la Madame Grisi era distratta, durante gli intervalli le accoglieva presso di sé come una nidiata di pulcini impauriti: divideva con loro le abbondanti merende che nonna Mette stipava nel suo zaino ogni mattina, perché non si sciupasse con tutto quell’esercizio.
            In breve, anche per via del suo aspetto rassicurante, le spalle larghe e l’altezza che a quelle bambinette doveva sembrare imponente, Indaco era diventato una sorta di padre adottivo: sotto la sua ala le piccole venivano a ripararsi, e a confidare i dispetti delle più grandi.
            Quanto a lui, c’era una ragazza più accanita delle altre, una bionda agguerrita che lo batteva in altezza, potenza di salto e addirittura nella misura delle spalle. Una mattina presto, mentre la classe attendeva che Madame entrasse in aula in compagnia della sua bacchetta, l’allieva bionda arrivò alle spalle di Indaco, accompagnata da una scia di occhiate di sottecchi e risate soffocate: il ragazzo era impegnato in quel particolare volteggio che nel gergo della danza si chiama fouetté, ed era concentrato nello sforzo di tenersi in equilibrio su una gamba sola, mentre l’altra ruotava mezzo giro in apertura, per poi chiudersi nel mezzo giro successivo. 
            Era un movimento complesso, che esigeva coordinamento: alla compagna bastò allungare un piede per togliere a Indaco l’appoggio al suolo, e questi cadde di schiena e in mezzo alle risate di tutta la classe. Solamente le piccole non ridevano affatto: ma anche le grandi smisero quando si resero conto che il loro compagno faticava a rialzarsi. Proprio in quel momento entrò la Madame Grisi, sempre a passo di marcia:
            -“Turista, stai facendo la pennichella sul pavimento? Cominciamo proprio bene, stamattina, non c’è che dire”-
            Indaco riuscì a levarsi, senza dare troppo nell’occhio, ma durante la lezione faticava a stare al passo: la Madame Grisi lo riprendeva continuamente, più per convincerlo a spiegare i motivi di quel calo improvviso che per spingerlo a superare il limite delle forze. Malgrado ciò il turista proseguiva impassibile, col fiato corto e gli occhi sempre più dilatati dalla fatica e dal male.
            Di seguito, in spogliatoio - aveva in uso uno dei minuscoli bagni, ma quella volta per il dolore e per l’ansia aveva dimenticato di chiudersi dentro - una delle più piccole lo vide di spalle, mentre levava la maglia cercando di inquadrare la schiena nel piccolo specchio, per fare il conto dei danni: un livido madornale si spandeva lungo metà della schiena, in forte contrasto con il pallore sudato del volto del ragazzo.
            Impressionata, la piccola scoppiò in lacrime e corse a perdifiato a cercare Madame. Le più grandi provarono a fermarla, ma a quel punto la bimba incominciò a urlare - per il terrore provocato da quella macchia scura, perché non ne poteva più di tutte le angherie che in Accademia erano all’ordine del giorno, per il dispiacere provato nei confronti di Indaco e chissà per quant’altro:
            -“Cattive, cattive! Gli avete fatto male, lo dico alla maestra!”-
            Richiamata dal trambusto arrivò la Madame Grisi, che subito chiese conto a Indaco Hansen di quella novità apparsa inaspettatamente sulla sua schiena:
            -“Prima della lezione, durante il riscaldamento sono caduto a terra”-
            La piccola, che quella mattina aveva assistito alla scena, si ribellò iniziando a gridare più forte, rossa in volto e in un parossismo di lacrime:
            -“Non è vero, maestra! Non è vero, è stata lei!”- e segnava col dito la compagna più grande -“l’ha fatto cadere apposta! Maestra, è stata lei!”-
            Nel suo lungo cammino per diventare un’étoile, Madame Grisi aveva subito così tante meschinità e umiliazioni che avrebbe potuto scrivere un trattato sull’argomento, di dimensioni enciclopediche. Quella volta si limitò a imporre il silenzio con un solo gesto della mano, saldo e ben calibrato:
            -“Hansen in ambulatorio, prima che mi diventi un ballerino di colore”- era la prima volta che Indaco si sentiva chiamare col suo nome, e questo rendeva l’idea di quanto fosse arrabbiata Madame -“osserverai il riposo che ti verrà prescritto. Sarà la tua punizione, così imparerai a stare più attento. Voi ragazze, puntuali per la lezione del pomeriggio. Filate, e senza schiamazzi: non voglio più sentire volare una mosca”-         
            Prima di uscire si voltò un’ultima volta, gelida. Rivolse all’allieva bionda una sola occhiata:
            -“Sorensen, in direzione. Se necessario, provvederò io stessa ad avvertire i tuoi genitori”-
            L’allieva Sorensen non si presentò a lezione né quel pomeriggio né nei giorni seguenti.
            Madame, dal canto suo, non tornò più sull’argomento.

 
******
           
Il vicolo s’inoltrava nell’antico quartiere ebraico acciambellandosi su se stesso come un gatto a riposo e facendosi, mano a mano, sempre più ombroso e angusto. Partendo dalla piazza principale del paese, e incominciando a scendere sempre di più in un’oscurità che al principio era semplicemente un tratto di bosco fitto, quel vicolo ritorto era l’unica via vera e propria del ghetto: da là si dipartivano calli ancora più strette, cunicoli che s’insinuavano tra i muri e gli odori delle case, brevi piazze col pozzo rinchiuso da una grata, da cui saliva un odore di muffa che evocava i canali aperti e lontani.
            A ogni svolta si aprivano, a ventaglio, scorci di abitazioni addossate una all’altra: al piano terra botteghe simili a gallerie scavate nel buio, finestre sollevate dal piano della strada poco meno di un palmo, chiuse ordinatamente da tende all’uncinetto, vasi di roselline e piantine di essenze sui davanzali senza sole. Mano a mano che ci si inoltrava nel quartiere, la via maestra si stringeva sempre più, fino a diventare una ripida scala attorcigliata tra le facciate delle case: in certi punti, i muri erano così vicini che Larse riusciva a sfiorarli semplicemente allargando le braccia.
            In quell’ora del dopopranzo non c’era in giro un’anima, sempre ammesso che un’anima riuscisse ad insinuarsi in quegli stretti passaggi: ma dalle porte intagliate, con la mezuzah appese agli stipiti, provenivano odori appetitosi di zuppa, di frittate e bucato riposto in cassapanche odorose.
            Larse aveva fame: appena uscito da scuola, senza neanche prendersi la briga di passare per casa, si era precipitato a cercare quell’indirizzo che suor Diletta gli infilato nella tasca, su un foglio accompagnato da due righe di presentazione in bella calligrafia. Tanto a casa non c’era nessuno ad attenderlo, in fabbrica sua madre aveva il turno diurno, un giro di pulizie da fare nel rione e sarebbe rientrata soltanto a tarda sera.
            Dopo avere rischiato di inciampare su quei gradini sconnessi, consumati nel mezzo e quindi ancora più ripidi, si fermò a sedere levandosi dalle spalle lo zainetto scolastico, e poggiando la schiena fradicia di sudore contro un muro fresco di calce: lo spiffero di una cantina sotto al piano della strada lo afferrò alle caviglie, facendolo sussultare. Si sporse in basso a guardare, ed ecco, là si apriva un piccolo studio, dalle pareti fitte di volumi fino al soffitto, eppure estremamente luminoso per via delle tante lampade accese un po’ ovunque: lunghi steli moderni che emanavano una luce incandescente e senz’ombre, altre piccole e tonde, rivestite di stoffe colorate e ricami, più riposanti e adatte a un salottino buono. Come vecchie signore, quelle lampade stavano accomodate attorno a poltrone con i centrini sulla spalliera: al centro un tavolino con i piedi ritorti, una scatola di biscotti e ancora libri d’arte. Ma soprattutto c’era una serie di faretti puntati attorno a un grande tavolo da lavoro, sul quale si affollavano schizzi ed illustrazioni.
            Larse ricontrollò di nuovo l’indirizzo: bussò a una porticina se possibile ancora più piccola delle altre. Attese a lungo, senza che dall’interno provenisse alcun rumore: alle sue spalle, la scalinata procedeva a precipizio fino a raggiungere un’altra piazzola immersa nell’oscurità.
            L’intero quartiere pareva disabitato, per via della calura sonnolenta dell’ora. Dalla foresta che iniziava oltre l’oscurità dell’ultima piazzetta, proveniva un aroma tonificante di pino. La brezza lo portava fino in quel quartiere immerso nell’odore d’acqua ferma dei pozzi. Nel vano dell’ingresso, accanto a un tralcio di rosa che sbocciava petali bianchi nella penombra, quell’odore dolciastro si faceva più intenso.
            Larse bussò di nuovo, ma pareva che là non ci abitasse nessuno.
            Finalmente individuò un campanello: una mano da marionetta appesa a un filo pendeva accanto alla mezuzah d’ordinanza. Larse ci si attaccò come un naufrago al relitto, scatenando un concerto di orologi a cucù che si mise in moto con un sconquasso di molle, fino a esaurirsi nel motivetto di un carillon. Le note si perdevano nei meandri di quella casa che, prima ancora di entrare, gli pareva già simile a una grotta delle favole.
            La capanna di riccioli di cioccolato e panna della strega di Hansel e Gretel, la bottega di marionette di Pinocchio: Larse le pensò tutte, mentre di nuovo il chiasso di quegli oggetti meccanici cedeva il passo al silenzio; per poi ricominciare con un fracasso da battaglia, dopo che ebbe tirato un’altra volta quella strana mano mozza di legno.
            Con l’orecchio al portone, Larse percepì un fruscio di piccoli passi simile al saltellare senza peso dei passeri: fece appena in tempo a pensare a quanto era curioso quel ritmo saltellante, quando rischiò di cadere lungo disteso per effetto dell’apertura improvvisa della porta.
            Sulla soglia era apparsa una donna piccina, più piccola di lui: con una crocchia imponente di capelli nerissimi, un becco di naso appuntito che frugava l’aria spuntando da un paio di occhiali rotondi e pesanti, che evocavano l’immagine di un uccello notturno, una grossa civetta arruffata e appena sveglia.
            -“La signora Abramovich?”- domandò Larse, incerto. La sua idea di maestra, seppure di disegno, era troppo legata all’immagine di suor Diletta, col suo viso rotondo da mela rassicurante, per potersi anche solo immaginare qualcosa di così diverso. La donna provò a inquadrarlo nel fondo di bottiglia dei suoi occhiali, soppesandolo con le scintille di uno sguardo che, dietro alle lenti spesse, pareva ancora più rapace e smisurato.
            Nonna - si ritrovò a pensare, spaesato, Larse Kruse - che occhi grandi, che hai!        
            -“È per vederti meglio”- rispose puntualmente Leah Abramovich. Si sistemò alla meglio quella che risultò essere una grossa parrucca nera, arruffò un poco le penne - le pieghe di una lunga vestaglia di panno scuro - finalmente si scostò dall’uscio e sorrise:
            -“Tu devi essere il piccolo alunno di suor Diletta”- la donnina alzò un dito, aguzzo e ammonitore -“Mi ha telefonato proprio in questo momento, ma tu ovviamente sei un bambino troppo impaziente per aspettare che una povera vecchia finisca di parlare e metta giù la cornetta”-
            -“Non mi mangerà, vero, signora?”- Larse era quasi sul punto di chiederlo, mentre si avventurava al seguito di quella creatura notturna attraverso una trafila di corridoi e di stanze, dove per orientarsi gli sarebbe servita una bussola. La planimetria della casa ricalcava la medesima bizzarria del quartiere: una serie di percorsi in salita e in discesa, stanze più in basso o in alto, unite da una serie di gradini imprevisti sui quali Larse Kruse si trovò a inciampare più volte, rischiando di sbattere il naso:
            -“Sta’ attento ai gradini, ragazzo”- replicava puntualmente la signora Abramovich, sempre dopo che Larse aveva rischiato l’osso del collo -“se mi capiti addosso con tutto quell’armamentario, mi mandi all’ospedale. Non vorrai far morire una povera vecchia sopravvissuta a una guerra mondiale e a quattro pogrom”-
            -“No di certo, signora”- assicurava Larse, che neppure sapeva che cosa fosse un pogrom.
            A tutte le sventure testé menzionate, Leah Abramovich era scampata per puro caso: originaria di un piccolo villaggio di ebrei lituani, nascosta in una cesta di panni da sua madre, era riuscita a sfuggire all’incendio che aveva raso al suolo la minuscola sinagoga, sparpagliando scintille fin sul carro di fieno dove s’era rifugiata con il resto della famiglia. Insieme al rabbino suo padre, cinque fratelli e le innumerevoli donne della famiglia, in quella stessa cesta aveva cercato scampo dapprima in Boemia, di seguito in Ungheria, puntualmente ricacciata dall’avanzata nazista.
            Erano scesi in Grecia, ma i vagoni per Auschwitz partivano anche da Salonicco.
            Come Mosè abbandonato in balìa delle acque, e senza che nessuno gliel’avesse insegnato, Leah Abramovich aveva imparato a stare ferma e zitta, immersa nell’odore di lavanda e basilico, finché il coperchio della cesta restava sigillato: e a piangere soltanto quando veniva aperto, e poteva tirare un respiro e magari un pianto di sollievo.
            L’ultimo ad aprire la cesta, ad un posto di blocco che avrebbe potuto perdere la famiglia per sempre, era stato un danese della Standarte Westland, di stanza in Croazia. Quando l’uomo aveva scoperchiato quell’umile bagaglio di vimini, pensando contenesse denaro e preziosi, era rimasto talmente stupefatto nell’udire i vagiti di Leah, e nel vedere il suo sorriso fiducioso con le manine tese, che non se l’era sentita di mandare l’intera famiglia al macello: si trattasse di un capriccio momentaneo o di una convinzione più radicata - al riguardo, gli Abramovich non avevano ritenuto opportuno fare domande, limitandosi prudentemente a tenere il capo abbassato - per vie traverse l’ufficiale aveva ottenuto un salvacondotto fino alla Danimarca. Era seguito un altro difficile esodo attraverso l’Europa in fiamme, ma dalla Danimarca, una volta arrivata, la famiglia Abramovich non se n’era più andata.
            -“Mia nipote arriverà a breve. Puoi attenderla qui”- dopo una serie infinita di giravolte, Larse arrivò nel piccolo studio caotico che aveva già intravisto dalla strada. Notando la sua espressione sorpresa, Leah Abramovich rise:
            -“Di certo avrai pensato chissà come farà quella povera vecchia a insegnarmi a disegnare, dal momento che non ci vede un accidente. Ragazzino insolente, sono anche mezza sorda, se è per questo. Ecco perché mio marito ha inventato un sistema di orologi a cucù che suona in ogni stanza, ricollegato al campanello della porta. Ma voi giovanotti non avete di certo la pazienza di aspettare che uno prima senta, e poi venga ad aprire”-
            Larse Kruse passava di stupore in stupore, in fondo affascinato ma per lo più convinto di essere capitato in una casa di matti.
            Quando la vecchia gli mostrò, in una stanza adiacente, il tavolo del marito ingombro di casette di legno a cucù, di molle e di ogni sorta di meccanismi di precisione, cercò di recuperare:
            -“Suo marito si occupa di orologi, signora?”-
            La vecchia Abramovich sbuffò arruffando le penne, ovvero le lunghe maniche della vestaglia che l’avvolgeva come un bozzolo:
            -“Ma non dire sciocchezze! Mio marito si occupa di circoncisioni”-
            Pur non sapendo cos’era una circoncisione, esattamente come non aveva idea di cosa fosse un pogrom, Larse si disorientò definitivamente:
            -“Ma allora come mai tutti quegli orologi?”-
            -“Ragazzo mio”- soffiò Leah Abramovich, alzando gli occhi al cielo -“secondo te, sul tavolo cosa dovrebbe metterci?”-

 
******
           

Dalle radiografie non risultavano fratture costali. Dichiarato guaribile in circa sette giorni, il tempo indispensabile a stabilizzare quell’ematoma da record, la mattina seguente Indaco Hansen si presentò in sala prove con i referti sottobraccio: aveva esibito quelle pellicole in chiaroscuro, che ritraevano il suo torace simile a una gabbia di luce, e senza mezzi termini aveva supplicato Madame di ammetterlo a lezione.
            Abituata a pensare che i malesseri degli allievi fossero al novanta per cento imputabili alla poltroneria degli stessi, e a una malavoglia che occorreva estirpare senza nessuno scrupolo, Madame gli aveva fatto levare la maglietta davanti a tutta la classe, gli aveva esaminato la schiena, con un paio di pizzicotti per accettarsi che i muscoli fossero al loro posto: subito l’aveva rispedito alla sbarra, congratulandosi per la tempra che stava dimostrando il suo allievo migliore.
             Con la coscienza che gli doleva più dei postumi della caduta, Indaco s’era lasciato assorbire dagli esercizi, come se cancellando i fatti dalla memoria potesse far sì che non fossero mai accaduti. 
            A casa, alla nonna Mette non aveva detto niente. Aveva anche nascosto sotto ai mucchi di biancheria di un cassetto la prescrizione che richiedeva ulteriori accertamenti riguardo a quei famosi problemi coagulativi, prima di riconoscergli di nuovo l’idoneità ai corsi dell’Accademia.
            Riguardo a quei problemi, Indaco s’era ben guardato di accennarvi durante la prima visita all’inizio dei corsi: visita che peraltro si era limitata a un sommario controllo dell’altezza e del peso, e a un’occhiata altrettanto sommaria al suo libretto sanitario. Su quel libretto qualcosa doveva pur esserci scritto, ma evidentemente il medico del Teatro non ci aveva fatto caso. Oppure l’aveva annotato su qualche libro nero, ed ecco perché adesso gli veniva richiesto di sottoporsi ad ulteriori accertamenti: soltanto la parola, gli faceva venire l’ansia.
            Seguirono notti insonni, al pensiero che il medico avrebbe prima o poi contattato chi di dovere, e la verità sarebbe venuta a galla miseramente. Senza trovare pace, si rigirava nel letto circondato dai giocattoli della sua infanzia, mentre dall’altra stanza, scivolando attraverso la porta socchiusa, proveniva il respiro, profondo e regolare, della nonna che riposava con la coscienza a posto.
            Nei giorni che seguirono, Indaco continuò a essere colto da un fremito ogni volta che la porta dell’aula si apriva, ed entrava qualcuno a parlare con Madame. Allora quell’angoscia, di solito relegata nel reame degli incubi delle ore notturne, tornava improvvisamente a galla. Indaco si ritrovava con le mani ghiacciate aggrappate alla sbarra, come se fosse solo questione di minuti prima che Madame in persona arrivasse a strapparlo da là, mettendo fine ai suoi sogni.
            Si aggrappava con forza, col cuore in gola e un inizio di lacrime che occorreva ricacciare subito indietro, per non dare nell’occhio:
            -“Turista, oggi sei distratto… che c’è, ti è morto il gatto?”-  
            Nei confronti di nonna Mette, con la quale si era sempre confidato nel modo più schietto, i sensi di colpa raggiungevano vette mai viste: ogni sera, al suo ritorno, Mette gli veniva incontro alla fermata della corriera con gli odori della cena attaccati al grembiule, le mani screpolate dai lavori domestici, sulle spalle il cappotto col collo in finta pelliccia che aveva sempre indossato da quando la conosceva. Indaco smise di abbracciarla in quel periodo, con la scusa d’esser cresciuto e non potersi più permettere smancerie. Alla stessa maniera, non volle più essere aiutato a lavarsi, sostenendo che all’Accademia aveva ormai imparato a fare tutto da solo.
            Ogni giorno era una bugia che si sommava a quella del giorno precedente.
            Nonna Mette si adeguò senza fare domande, imputando gli umori variabili del ragazzo alla crescita in atto: accettò di buon grado le nuove regole imposte dal pudore del nipote, sebbene il corpo di Indaco fosse soltanto irrobustito dagli esercizi, senza mostrare alcun segno di pubertà incipiente.    
            Più il tempo passava, più Indaco rimuginava nel suo letto come sul girarrosto, senza riuscire a concepire una via di scampo: da quando aveva memoria, era sempre stato soggetto a perdite di sangue, simili a fontanelle inarrestabili da tagli e sbucciature sulle ginocchia, e a riempirsi di lividi quando gli capitava di urtare contro qualcosa. Aveva sempre addosso qualche chiazza bluastra, e il soprannome Indaco non gli era stato dato a caso dai bambini del vicinato.
            Di quando era piccino, conservava un vago ricordo di visite mediche, dottori che tentavano di mantenerlo calmo prendendolo su ginocchia che sapevano di disinfettante, apposta per forargli a tradimento le braccia. Di lì a poco suo padre era morto in un incidente al cantiere, e sua madre se n’era andata in un posto lontano, un luogo che nel gergo confidenziale di nonna Mette chiamavano chissà dove: nel paese di chissà dove, la donna aveva trovato un lavoro molto serio e assorbente, che non le permetteva di ritornare a casa a occuparsi del figlio.
            A due anni Indaco era stato affidato alla nonna, e i primi tempi la mamma aveva mandato una persona importante, l’assistente sociale, apposta per controllare che tutto filasse liscio, la casa fosse in ordine e Indaco non facesse troppi capricci.
            Nel frattempo erano continuate le visite periodiche, che si concludevano con la raccomandazione - rivolta a nonna Mette affinché provvedesse - di fare attenzione a lividi, cadute accidentali, botte sulle ginocchia. Cosa oltremodo difficile, perché proprio in quegli anni Indaco stava scoprendo la gioia del movimento: quando all’asilo gli altri bambini cantavano le loro filastrocche, lui si buttava in pista catturato dal ritmo, e saltava e ballava fino a ridursi a uno straccetto di sudore; a casa, si sbracciava in volteggi davanti alla tivù e agli show del sabato sera.
            Dentro di sé, l’aveva sempre saputo: il suo unico sogno era di ritrovarsi ritto su un palcoscenico, ad accogliere lanci di fiori ed applausi, sapendo che sua madre era in mezzo a quel pubblico e presto l’avrebbe raggiunto, per stringerlo a sé e non lasciarlo mai più.      
            Danzare era essenziale per sé e per sua madre, che chissà dove viveva sola e senza di lui, immersa in un lavoro che non le permetteva neanche una visita, una telefonata, una lettera: per questo, negli esercizi Indaco metteva ancora più vigore, tentando di spacciare le lacrime per sudore e lasciandole libere di trovar sfogo solamente in corriera, nella penombra che, alla fine delle lezioni, lo riaccompagnava al paese.
            Di fatto, quel travaglio in luogo di sottrarre intensità alla sua danza la rendeva più intensa, ricca di sfumature, potente e drammatica. La sua presenza scenica, piuttosto che gli esiti del suo infortunio, incominciava ad attirare l’attenzione di chi di dovere.
            Il suo disagio trovava espressione in altri modi: lo stesso viaggio in corriera, che gli aveva sempre provocato una nausea a cui la nonna Mette cercava di rimediare infilandogli nello zaino due spicchi di limone, trascorso un breve periodo di abitudine si ripresentò con tale forza che Indaco era costretto a scendere dal mezzo e fare un pezzo a piedi nella campagna, fino alla fermata seguente e a volte direttamente fino a casa.
            Più di ogni altra cosa, la solitudine in compagnia di quel segreto divenne dura da sopportare: sicché un giorno Indaco approfittò della pausa di mezzogiorno per avvicinare il gruppo degli allievi più grandi, gli stessi che amava contemplare di nascosto dietro alla porta socchiusa.
            Disciplinati con le loro calzemaglie nere e le maglie bianche, lo stesso abbigliamento che indossava anche lui durante le lezioni, sentendosi una mosca nel latte, si erano riservati alla mensa un angolo solamente per loro: ed erano talmente impegnati a mangiare e a scherzare, che c’era voluto un po’ prima che si accorgessero di quel bambino impalato accanto al loro tavolo.
            Nel vedere quel piccolo viso preoccupato, si erano zittiti quasi contemporaneamente.
            Con una faccia tosta che in realtà era soltanto triste, Indaco aveva chiesto al primo che gli aveva rivolto un sorriso se poteva per caso prestargli il suo telefono, un momento soltanto.
            -“Non c’è problema, bambino: devi chiamare casa? Ti è successo qualcosa?”-
            -“Non è niente, signore”- Indaco in realtà aveva già le lacrime agli occhi, e per questo cercò di deviare lo sguardo. Sentiva su di sé gli occhi del ballerino, e non appena l’altro si accorse che non sapeva raccapezzarsi con la schermata e i tasti, sentì anche le mani dell’allievo venirgli in aiuto.
            -“Dà qua, dimmi il numero”- 
            Indaco non aveva mai posseduto un cellulare: quando sarai più grande, rispondeva invariabilmente nonna Mette a tutte le sue richieste, puntualmente rinnovate in occasione del compleanno e a Natale. Secondo il suo parere, mettere in mano un cellulare a un bambino significava renderlo, molto prima del tempo, un automa imbambolato di fronte a uno schermo, capace tutt’al più di agitare i pollici e totalmente alienato dalla vita reale.
            Con l’aiuto del compagno più grande, Indaco compose il numero di casa di Larse. Restò a lungo in attesa, senza neanche sapere cosa dire all’amico, che non sentiva da tempo.
            Si accorse di desiderare il suono di quella voce in modo così struggente che quando Larse non rispose - non era quasi mai in casa, e di recente aveva iniziato a frequentare un corso di disegno che gli occupava tutto il tempo - Indaco si lasciò andare allo sconforto. Restituì il telefono e stava per andarsene, quando l’altro lo trattenne, cordiale ma con fermezza:
            -“Tutto bene, bambino?”- gli tese la mano, schietto -“comunque, io sono Jens”-
            -“Thomas”-
            -“Søren”- fecero eco, a turno, i vicini di tavolo. Tutto il gruppo lo stava osservando, alcuni con simpatia, altri con il distacco che si riserva alle interruzioni fastidiose, a cui non vale la pena di prestare attenzione.
            -“Io mi chiamo Indaco”- imbarazzato a un tratto da tutta quell’attenzione, stentava quasi a ricordare il suo nome: aggrappandosi alla prima cosa che gli venne alla mente, finì per presentarsi con quel soprannome assurdo, che peraltro diceva molto del suo problema.
            -“Indaco?”- rise quello che si chiamava Søren -“dici sul serio?”-
            -“Malthe”- cercò di rimediare l’interessato -“Malthe Hansen”-
            Jens continuava a sorridergli, in modo così aperto che il piccolo ballerino si sentì in dovere di essere sincero a sua volta. La verità anzitutto, gli aveva sempre raccomandato nonna Mette, e di quella verità lui aveva nostalgia ormai da troppo tempo.
            -“A casa mi chiamano Indaco perché mi riempio di lividi. Se cado, voglio dire. Grossi lividi viola, che poi diventano blu. È una specie di malattia”-
            -“Hai sentito, Blu Notte?”- Søren si allungò ad appioppare una pacca sulla spalla di Jens, che gli sedeva di fronte -“ne abbiamo trovato un altro uguale identico a te”-
            Indaco si voltò a fissare Jens, stupefatto. Questi restituì la pacca al compagno, poi strinse la mano a Indaco, come per presentarsi una seconda volta:
            -“Piacere di conoscerla, emofilia tipo B. Lei invece, signore?”-
            -“Io invece, tipo A. Almeno credo”- disse Indaco in un soffio, sentendosi improvvisamente in pace col mondo. Dalla tavolata dei grandi, partì una raffica di applausi:
            -“Hai visto, Blu Notte? Hai trovato l’anima gemella!”-
            -“Qualcuno qui è tipo C? No, dico, così completiamo l’alfabeto per intero!”-
            -“Tipo C non esiste, imbecille”- Jens rideva di cuore, Indaco era esterrefatto.
            -“Puoi ballare lo stesso?”- domandò in un soffio, col cuore in gola.
            -“È questo che ti preoccupa, ragazzino? Posso ballare eccome. Anzi, sono il migliore”-
            -“Questo, poi, è da vedere”- replicò qualcuno dall’altra parte del tavolo.
            Jens strinse forte il braccio di Indaco Hansen, che solo in quel momento riconobbe in lui il giovane allievo che già una volta l’aveva risollevato dalla tristezza, con un sorriso mentre scendeva le scale di corsa, e rivolgendogli quelle stesse parole:
            -“Datti da fare, piccolo. Ricorda, ti aspettiamo”-
 
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Capitolo 3
*** Atto terzo - Il Caos e la Grazia ***


Ogni giorno mi alzavo con il pensiero
del momento in cui avrei messo i piedi
dentro le scarpette. E quando ero lì,
con l'odore di canfora, legno, calzamaglie,
ero un'aquila sul tetto del mondo,
ero il poeta tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa.
(R. Nureyev, “Lettera alla danza”)
 
“Malattia e pazzia furono gli angeli custodi della mia culla”
(E. Munch)
 

3. Atto terzo - Il caos e la grazia


            Larse Kruse rimase ad attendere a lungo nello studiolo ingombro di libri fino al soffitto: dopo averlo invitato a mettersi comodo, e a servirsi dei dolci un poco polverosi in mostra sul tavolino, la signora Abramovich si era defilata per uno di quegli anditi che portavano da un capo all’altro della sua casa, facendola apparire immensa e dispersiva quando in realtà era piccola, praticamente acciambellata su se stessa.  
            Larse ebbe il tempo di esplorare la stanza fin nei particolari: nella libreria erano disposti in buon ordine, di seguito impilati a occupare tutto lo spazio con una sapiente combinazione d’incastri, volumi dedicati alla pittura e all’illustrazione, pubblicazioni sulle tecniche del disegno, fumetti per ragazzi e opere d’autore. La luce del pomeriggio si riversava dalla finestra a livello della strada, con lame di pulviscolo sopra a un tavolo di concezione moderna, dalla superficie inclinata.
            Larse si accomodò sullo sgabello girevole, quattro biscotti tra la bocca e le mani per tappare il buco di fame del pranzo saltato, e cominciò a osservare le tavole in lavorazione che qualcuno - probabilmente la misteriosa nipote della signora Abramovich - aveva fissato al banco con strisce di nastro. Su sfondi temperati da delicate sfumature pastello, che ricreavano l’atmosfera delle stanze da giochi dei bambini, prendeva vita un mondo di bambole dagli occhi spalancati, sognatori e inquietanti: la dolcezza delle fiabe, unita a tratti di crudeltà.
            In una delle tavole, una di queste signorine dai grandi occhi, seduta educatamente dietro a una tovaglia a quadri, tagliava un dolce decorato da boccoli di panna simili ai suoi capelli, facendolo sanguinare: il dolce possedeva i tratti umani di un volto, con i lineamenti contratti in un’espressione angosciata, mentre quelli di lei restavano impassibili.
            Nella figura a fianco, un’altra di quelle innocenti creature esibiva una torta al posto della gonna: dopo aver tagliato una fetta posata su un elegante piattino a parte, un coltello la penetrava in profondità, facendo uscire dalle sue cavità gocce di sciroppo di un tenue colore rosato.  
            Quest’ultima visione lo inquietò così tanto, che quando la fantomatica autrice delle tavole comparve sulla soglia, Larse non se ne accolse, e rispose al saluto di lei con un sobbalzo:
            -“Sei tu il mio piccolo allievo?”- una mano macchiata d’inchiostro e di acrilici si protese verso di lui, sbucando da una manica con pizzi d’altri tempi -“piacere di conoscerti, Shlomtsione Abramovic”-
            -“Cosa?”-
            Larse rimase appeso alla stretta di quelle dita appuntite e un po’ fredde, senza dar segno di volerla lasciare. La figura che gli stava dinanzi era alta esattamente quanto lui da seduto, e sì che Larse Kruse era sempre stato il più gracile di tutti i suoi compagni: abbigliata con strati di gonne e sottogonne che la rendevano simile a una corolla su cui posava il busto esile, pareva scappata fuori da una di quelle tavole che descrivevano atti di ferocia soavi, tratteggiati con sfumature pastello.
            Lunghi capelli neri, in quantità spropositata, erano puntati ai lati del capo con un’analoga quantità di mollette, simili a quelle che usavano le sue compagne di classe, con piccole decorazioni innocenti: una rosellina di tulle, una coppia di ciliegie, una mela rossa di smalto.
            Di là, quella capigliatura esorbitante scendeva lungo le spalle, giù per la schiena e oltre, ma Larse non aveva il coraggio di guardare dove andava a terminare, perché distogliere lo sguardo dal volto della ragazza gli pareva poco educato: attorno al volto, le ciocche che alla luce delle numerose lampade della stanza assumevano una consistenza bluastra, incorniciavano un ovale così pallido che a Larse tornò in mente la seta sottile dei bachi che proprio quell’anno, insieme a suor Diletta, avevano allevato in classe per l’ora di scienze.
            La signorina Abramovich scosse il capo levando da quella capigliatura straordinaria un lieve soffio aromatico, molto simile alla spolverata di vaniglia lasciata dai biscotti tra le dita di Larse. Questi era stupefatto: se la vecchia Abramovich gli era parsa un grosso gufo cespuglioso, questa ragazza era inconcepibile persino per la sua fantasia. La figlia di Barbablù e Biancaneve, pensò Larse ispirandosi a un gioco che era solito fare con Indaco, quando si ritrovavano a osservare la gente in cortile o dai banchi di scuola, da sempre vicini:
            -“Suor Diletta somiglia alla campana della chiesa, quella che dondola di qua e di là e sembra sempre sul punto di caderti sulla testa”- rideva Indaco sotto i baffi, e lui non riusciva mai a guardarlo dritto negli occhi -“con quel faccione tondo, direi che è la figlia del parroco e di un cocomero”-
            -“Il parroco non ha figli”- lo riprendeva Larse, scandalizzato -“non può averne, è un prete. E neanche i cocomeri possono avere bambini”-
            -“Allora, non si spiega”- Indaco gli appioppava uno spintone per costringerlo a ridere, e lui si ritraeva e nascondeva il volto, per evitare che l’altro s’incuriosisse nel vederlo arrossire. 
            Ma ora non c’era di fronte a lui Indaco Hansen, con la fronte sempre accaldata dagli esercizi e sul collo una stilla di quel sudore amarognolo che in certe notti gli impediva di prendere sonno: bensì quella creatura fiabesca dal nome assurdo, che neppure dopo anni Larse imparò a pronunciare.
            D’un tratto, si rese conto che avrebbe dovuto rispondere al saluto: 
            -“Piacere anch’io, signorina…”-
            -“Shlomtsione è un nome assurdo”- un’altra scossa di quella capigliatura simile a un mare di ombre, e la giovane fece scivolare accanto a lui un secondo sgabello -“puoi chiamarmi Shlomit. Anche hey tu! va bene. Salomè invece no, e poi io non so ballare”-
            -“Ho un amico che danza”- stava per dire Larse, ma la ragazza stava già sgomberando il piano di lavoro, pronta ad incominciare subito la lezione:
            -“Per prima cosa inizieremo con lo studio della figura umana”- da un cassetto, Shlomit cavò fuori un paio di fogli bianchi, e un manichino in legno perfettamente snodabile. Più che un oggetto utile a studiare le pose, si trattava di un bizzarro pezzo di antiquariato, che su giunzioni di legno mostrava una perfetta ricostruzione anatomica di quanto si muoveva sotto alla pelle umana: in pratica, la visione di un uomo scorticato, con le vene bluastre affondate nei muscoli e i tendini in bella vista. Il volto era il particolare più ripugnante, con i globi oculari sporgenti dalle orbite e il ghigno esposto dei denti.  
            -“Accidenti, uno spellato!”- non poté fare a meno di commentare Larse, a cui quel manichino costò notti di incubi per molti anni a venire.
            -“Accidenti è precisamente il suo nome”- rispose Shlomit, serafica -“È quello che dicono tutti, non appena lo vedono. Non pensano che anche loro sono fatti così, sotto. Lui ti aiuterà a capire le  proporzioni, a studiare il movimento. È brutto da vedere, ma è un amico fidato”-
            Larse dovette adattarsi all’idea di guardarlo più spesso di quanto avrebbe voluto, ma siccome quella figura diventò l’ospite fisso di tutte le sedute, assumendo le posizioni più disparate - in piedi e in pose danzanti, seduto o nell’atto di correre - alla fine riuscì a prenderci confidenza.
            Per scrupolo, ogni volta che era costretto a disegnare con Accidenti sul tavolo, che lo fissava con quegli occhi da posseduto, Larse gli poneva accanto il suo coniglio di pezza, con un orecchio dritto e l’altro sbilenco, che per via degli occhiali cuciti sul muso fu prontamente ribattezzato da Shlomit il Professore.
            Molto più imbarazzante fu dover mostrare a Shlomit i suoi disegni. Li cavò dallo zaino con la circospezione di chi è costretto a rivelare un segreto: mettendoci tutto il tempo del mondo, come per rimandare il più possibile il momento in cui sarebbe stato scoperto.
            Tutti i disegni ritraevano Indaco Hansen di profilo e di fronte, impegnato in un salto o alla sbarra: spesso Larse lo accompagnava alle lezioni della maestra Sveta, e si rincantucciava in un angolo a disegnare paesaggi che poi non faceva vedere a nessuno.
            Tra questi, relativamente ingenui, ce n’erano anche alcuni che Larse, prima di presentarsi a casa delle Abramovich, non aveva avuto l’accortezza di nascondere altrove: all’ultimo momento, non riuscì a sottrarli allo sguardo della nuova insegnante, che li levò con disinvoltura dalle sue mani per sottoporli a un esame che riguardò, per fortuna, il solo aspetto tecnico:
             -“Per fare un buon nudo maschile”- argomentò Shlomit, regolando i faretti sul tavolo da lavoro, per osservare meglio mentre Larse avvampava in silenzio -“bisogna fare molta attenzione al chiaroscuro. Guarda qui, per esempio”- e insisteva per mettergli sotto a un naso un disegno che ritraeva Indaco come mamma l’aveva fatto -“la prima domanda che ci dobbiamo sempre porre, è da dove proviene la luce. Se viene da sinistra, dovremo ombreggiare a destra, per dare più risalto alle linee del corpo”-
            -“Sì, signorina”-
            Sprofondando nell’imbarazzo, Larse Kruse si domandava piuttosto dove fosse la porta: non ricordava più se era a destra o a sinistra di quel tavolo immerso in una luce cruda da sala operatoria, che scopriva i suoi segreti uno dopo l’altro. Nel vuoto assoluto che la sua mente registrava in quel momento, desiderava soltanto scomparire al più presto.
            Per sua fortuna, almeno quel primo giorno Shlomit pareva indifferente ai motivi che lo avevano spinto a concentrarsi sempre sullo stesso soggetto. Più attenta a verificare la padronanza tecnica da parte del suo allievo, quando venne il momento di esaminare i disegni che avevano già attirato l’attenzione di suor Diletta, Shlomit non batté ciglio di fronte a quegli spettri di bambini in un parco di aghi acuminati, né alla fantasia di Indaco che giaceva morto o dormiente, vegliato dall’amico:
            -“Qui ci siamo, carissimo, ci siamo per davvero. Hai talento per il fumetto, e io ti suggerisco  di concentrarci su quello”-
            Se c’era una cosa che Larse considerava lontanissima dall’arte, questo era il fumetto: una volta messi da parte i giornaletti della sua infanzia non ne aveva più letto uno, infastidito dalla semplicità dei contenuti, dal tratto grossolano e privo di profondità. Non aveva mai approcciato il fumetto d’autore, ma quando Shlomit gli pose dinanzi un grosso albo intitolato “Il Castello”, che attraverso una sequenza di immagini visionarie sviluppava su tavole il romanzo di Kafka, la sua espressione passò dallo scoraggiamento al rapimento più assoluto:
            -“Voglio imparare anch’io a disegnare così”- gli scappò detto, in un mormorio che doveva essere solamente per sé. Anche Shlomit era affascinata da quel tratto deciso, rigorosamente in bianco e nero, che attraverso un uso sapiente del tratteggio delineava l’atmosfera claustrofobica di un piccolo paese sepolto dalla neve, su cui incombeva la sagoma di un castello inaccessibile
            -“Ogni autore ha il suo stile”- spiegò, senza distogliere lo sguardo dalle tavole -“questo, in particolare, appartiene a un autore persino più misterioso delle opere che realizza. Di lui si sa solo il nome, o meglio si conosce soltanto la firma: si chiama Herre Halvorsen, del resto non si sa altro”-
            -“Nessuno l’ha mai visto?”- domandò Larse, soggiogato.
            -“Frequenta di rado le rassegne d’arte, persino quando si espongono le sue opere. Detesta farsi fotografare, le sue foto si contano sulla punta delle dita e di rilasciare interviste non se ne parla proprio. In compenso, fa spesso da giudice ai concorsi per i giovani. Tra pochi mesi, ad esempio, ce ne sarà uno importante”-
            -“Potrò partecipare?”-
            Shlomit rise, lieta di essere riuscita a gettare l’esca:
            -“Vedremo. Intanto dobbiamo imparare alcune tecniche di base”-
            -“Imparerò tutto, maestra!”- assicurò Larse Kruse, con l’entusiasmo di un giovane eroe.
            D’un tratto aveva dimenticato il suo travaglio per Indaco Hansen: il suo unico desiderio, da quel momento in poi, divenne poter partecipare a quel concorso di cui non sapeva nulla, e se possibile vincere. Soprattutto, fantasticava di incontrare quel misterioso Herre Halvorsen di cui sapeva ancor meno, e che da quel momento iniziò a frequentare molto spesso i suoi sogni.
 
******
 
            Quando Indaco era stato ammesso ai corsi di danza del Teatro dell’Opera, lasciando di fatto la scuola e tornando al paese la sera tardi e soltanto per buttarsi sul letto in un sonno di sasso, Larse si era sentito un poco più solo: quando poi, alla fine delle vacanze estive, il suo unico amico nonché oggetto di infiniti sogni e disegni si trasferì definitivamente nella capitale, Larse sperimentò per intero l’angoscia dell’abbandono.
            Quando ci si innamora si spera sempre qualcosa, e anche se sapeva di non potersi attendere nulla dal suo unico amico, separarsi da Indaco fu un altro vetro infranto nella fragile personalità di Larse Kruse.
            A scuola, divenne ancora più introverso e arroccato dietro alla trincea del banco: entrambe le orecchie del Professore in patchwork risentirono, in quel periodo, degli effetti di un’afflizione che non poteva essere confidata a nessuno. Dei suoi tormenti, Larse non faceva parola: si era votato al silenzio più assoluto, e parlava soltanto quand’era interrogato da suor Diletta. Quanto al resto, in classe come a casa passava il tempo chino sui fogli da disegno.
            Il giorno della partenza, aveva accompagnato Indaco alla corriera senza guardarlo in faccia, fissando solamente il marciapiedi che scorreva sotto ai suoi passi, dell’identico grigio del cielo basso di pioggia. L’autunno incominciava presto da quelle parti, già col rigore e il buio dei mesi più freddi. Dentro di sé percepiva un dolore che lo pungeva ovunque, mentre a braccia conserte, nel tentativo di mantenersi in piedi senza svelare niente, salutava Indaco Hansen come se dovessero rivedersi il giorno seguente.
            Con quell’atteggiamento gelido e indifferente, intendeva punirlo per la sua decisione di andare a vivere altrove: ma la curiosità e l’entusiasmo di iniziare un altro anno all’Accademia, rendevano Indaco Hansen impermeabile a qualsiasi senso di colpa.
            La decisione di permettere a Indaco di andare ad abitare da solo in città, non fu presa con leggerezza da nonna Mette: durante tutto il primo anno il ragazzo aveva fatto vita da pendolare, con sveglia all’alba e due ore in corriera per essere puntuale alle otto e mezza in sala prove. Spesso, durante il viaggio, Indaco si addormentava: con il rischio, all’andata, di essere svegliato di soprassalto dall’autista - Nureyev, capolinea! - e di dover attraversare mezza città, perdendo e riacchiappando la strada più volte, prima di approdare sano e salvo in Teatro.
            Al ritorno, nessuno si pigliava la briga di svegliarlo per tempo su quel convoglio affollato di pendolari esausti, reduci da otto ore rumorose di fabbrica: col risultato che spesso nonna Mette era costretta a disturbare i vicini per un passaggio in auto, per andare a recuperarlo in qualche borgata dispersa nella nebbia della pianura. Arrivata alla stazione delle corriere, trafelata e con le gambe che le scoppiavano, lo trovava di solito al calduccio nella guardiola degli autisti, che l’avevano preso sotto alla loro ala pensando, inizialmente, a un bambino scappato di casa.
            Nel paese di Tabt, spesso era il signor Nillson, che ormai lo conosceva, a telefonare a casa alle dieci di sera:
            -“Abbiamo qui la stella della danza, signora. Lo viene a prendere lei, oppure domattina lo carichiamo sulla prima corsa per Copenhagen?”-
            Angosciata, la nonna domandava anzitutto se Indaco stesse bene:
            -“Meglio di me e di lei, che siamo ancora in piedi a quest’ora: ha bevuto tutto il caffè dei nostri thermos, ha svuotato il distributore di merendine, adesso dorme come se fosse nel suo letto. Dia retta a me, signora: ci pensiamo noi a caricarlo domattina in corriera”-
            A Fundet, il capostazione era una donna. La signora Birgit era una mamma di quattro figli che non si faceva nessun problema ad accoglierne uno in più nella sua guardiola:
            -“Buonasera, frue Mette. Ho qui il suo piccolo Nureyev, che ha sbagliato fermata. Se crede, lo tengo a dormire da noi, domani provvedo io a preparargli la colazione e a metterlo in carrozza”-
            A seconda di chi chiamava, Mette sapeva sempre dove era andato a finire il nipote. Alla fine, decise di appoggiarsi a quella rete improvvisata di aiuto, gentilmente fornita dalla compagnia dei trasporti: pur non sentendosi del tutto tranquilla nel sapere che Indaco trascorreva la notte sulla brandina di un gabbiotto dove chiunque, in teoria, avrebbe potuto entrare.  
            Soltanto dopo l’incidente della caduta, Indaco aveva cominciato a rientrare puntuale, perché la preoccupazione lo teneva ben sveglio durante tutto il viaggio: era però sempre scostante e irritabile, evenienza dovuta, secondo nonna Mette, a un eccesso di stanchezza.
            Non senza ripensamenti, e previa autorizzazione dell’assistente sociale, la nonna decise infine di metterlo a pensione presso un’affittacamere a Copenhagen.
            Fu così che Indaco Hansen, a tredici anni compiuti, si trasferì a vivere da solo nella grande città. Là avrebbe potuto frequentare anche i corsi serali di una scuola che si trovava a due passi dal Teatro, sì da non diventare, secondo un’espressione azzeccata di suor Diletta, un somaro da ballo.
            La buona suora gli aveva certificato la frequenza da privatista per tutto l’anno scolastico, impegnandosi a dargli qualche ripetizione nei fine settimana: ma era chiaro che quelle lezioni frammentarie, durante le quali Indaco - tanto per cambiare - spesso si addormentava per tutta la stanchezza che si portava dietro dall’Accademia, non erano sufficienti a garantirgli un livello d’istruzione sufficiente.
            Indaco aveva accolto la notizia con la spinta felice propria della sua età.
            Al termine del suo primo anno in Accademia, poco prima delle vacanze era stato chiamato in Direzione: alla presenza della Madame Grisi, gli era stata offerta la possibilità di partecipare, l’anno seguente, a lezioni supplementari con la classe maschile, e di avere una piccola parte in un balletto che sarebbe andato in scena l’estate successiva.
            Ancora frastornato, Indaco aveva abbracciato la vecchia maestra: nello slancio, l’aveva sollevata da terra facendole fare mezzo giro per aria. Oltre alla tempra inossidabile, della sua giovinezza Madame conservava la levità di un passero: a Indaco era sembrato di sollevare in volo uno di quegli uccelletti che ogni primavera cadevano dai nidi, e per i quali lui e Larse approntavano dei pronto soccorso in miniatura con scatole da scarpe e stuzzicadenti per steccare le ali, fino al momento di lasciarli di nuovo liberi di librarsi in un soffio.
            -“Mettimi giù, turista! Un po’ di rispetto per questa povera vecchierella!”- Madame in realtà rideva, felice di constatare che le sue previsioni relative al talento di Indaco Hansen si erano rivelate assolutamente fondate. Una volta tornata con i piedi per terra, l’aveva minacciato con la bacchetta:
             -“Stai attento, turista! Sarò io a organizzare tutto quanto il balletto, ruoli e coreografia e persino i costumi: metterò becco su tutto, per cui sta’ in gamba e sveglio, perché adesso si inizia a lavorare sul serio!”-
            -“Molto bene, Hansen”- si era intromessa a quel punto la direttrice, una donna minuscola che reggeva a stento sul lungo naso un enorme paio di occhiali -“quindi dall’anno prossimo avrai con noi un impegno raddoppiato. Per formalizzare il tutto, ci occorre solamente sottoporti alla solita visita d’idoneità. Anche perché dal tuo fascicolo non risulta la certificazione dell’anno scorso”-
            Emofilia A di grado moderato: questa era la diagnosi stilata dal pediatra quando Indaco aveva poco più di due anni. Da allora, erano stati fatti controlli annuali i cui esiti erano conservati con cura da Mette, in fondo a quel famoso cassetto di biancheria dove Indaco, con la medesima diligenza ma con ben altro intento, aveva sotterrato la richiesta di analisi del medico del Teatro.
            Fu Indaco stesso a riesumarla dopo avere parlato a lungo con Jens, quel ragazzo alto e piantato che pareva una quercia giovane, simile a quella che cresceva nel cortile ampio dell’Accademia: e che, in mancanza d’altre piante vicine, con gli anni s’era allargata a occupare tutto lo spazio, forte nei rami e folta al punto che là sotto, durante i giorni di pioggia, non cadeva una goccia. Di quella quercia che sollevava con la potenza delle radici il selciato che la stringeva, Jens possedeva la padronanza della scena, la stessa ampiezza di braccia a cui si aggiungeva l’estensione del salto: tutto sembrava quel ballerino formidabile, tranne che un invalido non idoneo a danzare.
            Così pensava Indaco mentre lo contemplava in religioso silenzio, non più nascosto dietro al filo della porta ma finalmente ammesso nella sala dei grandi, all’inizio in virtù di quell’amicizia, in seguito per prendere parte alle stesse lezioni.  
            A Indaco, che conservava ancora la leggerezza da giovane pioppo dalla sua infanzia, e non aveva ancora cominciato la crescita poderosa dell’albero adulto, il vigore di Jens pareva una promessa: era la prova certa che con quel male, fosse di tipo A, B o di qualsiasi altra lettera dell’alfabeto, si poteva non solo convivere, ma addirittura diventare un’étoile.
            Essere come Jens, divenne un’urgenza. Condividere con lui una fragilità da vincere divenne quasi un segno di predestinazione, un motivo segreto di vanto.
            Fu quindi con stupore che, dopo essersi sottoposto agli esami già richiesti all’indomani del suo infortunio, e messi di nuovo come un bastone tra le ruote all’inizio del secondo anno di corso, si ritrovò in mano un referto che in base ai dosaggi di un misterioso fattore VIII, e ai conseguenti gravi rischi di emorragie, sconsigliava di intraprendere alcune attività elencate in allegato, tra cui figurava la danza.
            Indaco si sentì crollare il mondo addosso.
            Per sua fortuna, la nonna non aveva fatto in tempo a leggere l’allegato: appena fuori dall’ambulatorio del paese, dove Mette aveva ritirato per lui i risultati, Indaco le aveva cavato la busta dalle mani, con la scusa di doverla consegnare il giorno stesso in Direzione:
            -“È un controllo normale, che fanno fare a tutti”- rassicurò la nonna e se stesso, deciso a far prevalere a tutti i costi il suo desiderio -“e comunque qui è scritto che i valori sono a posto”-
            L’allegato era stato il primo a sparire, in mille pezzi gettati nell’immondizia - il più in fondo possibile, per sicurezza - non appena Indaco si ritrovò da solo.
            Quella stessa sera si era presentato a casa di Larse, e l’aveva convinto a rimaneggiare l’esito con l’aiuto di pennini e solventi, in modo da eliminare, sulla carta e una volta per tutte, ogni possibile ostacolo tra lui e la danza.
            -“Sei matto? Vuoi farmi falsificare un documento?”- aveva risposto Larse, mentre l’ansia già superava la gioia di trovarselo davanti improvvisamente. Non era venuto per lui ma per ottenere qualcosa, per di più qualcosa che gli pareva illegale: l’amico era deluso, ma non poteva sottrarsi al potente magnetismo di Indaco Hansen, al dominio del fascino che lui stesso gli aveva attribuito in tutti quegli anni di sogni e di ritratti.
            -“Soltanto tu puoi aiutarmi, små mus”- lo aveva blandito Indaco, del tutto inconsapevole di quale piaga andasse a stuzzicare la sua semplice vicinanza, ma anche convinto che per lui Larse Kruse avrebbe fatto qualsiasi cosa, in nome dell’amicizia -“andiamo, si tratta solo di numeri”-
            -“Anche i numeri sono importanti”- aveva temporeggiato Larse, cercando di tenere a bada le sensazioni che la prossimità di Indaco Hansen gli suscitava -“e se tu fossi rimasto a scuola con noi…”- stava per dire con me -“…di certo lo sapresti”-
            -“Anche nella danza i numeri sono importanti. Aiutano a seguire il ritmo. È questo numero, invece, che non serve a niente, anzi potrebbe impedirmi di danzare per sempre. E allora sarebbe solamente colpa tua”-
            -“Colpa mia? Ma che dici?”-
            A questo punto Indaco l’aveva supplicato:
            -“Ti prego, fai questo per me. Non ti chiederò mai più niente”- e Larse, come un automa, fece precisamente quello che l’oggetto dei suoi desideri gli aveva richiesto. Utilizzando i suoi solventi da disegno aveva sciolto la stampa dei parametri alterati. Di seguito, in punta di pennino e d’inchiostro li aveva ricondotti nei limiti della norma.
            Ultimato il lavoro, continuava a sentirsi con la coscienza sporca:
            -“Ma sei proprio sicuro di non rischiare niente?”-
            Indaco aveva riso:
            -“Guardami un po’, små mus, e dimmi se ti sembro così malandato”-
            Di guardarlo dritto in faccia, proprio non se ne parlava. In sua presenza, Larse non levava lo sguardo al di sopra dei piedi, come se avesse timore di rimanere incenerito dall’incandescenza che emanava Indaco Hansen: e solo quando l’amico era a debita distanza si lasciava andare alle sue improbabili fantasie, altrettanto roventi.
            Dal canto suo, Indaco aveva accennato a una mezza piroetta, poi improvvisamente aveva afferrato Larse, alla stessa maniera e con la stessa leggerezza che aveva adoperato con la Madame Grisi: l’aveva sollevato, e poi al momento di rimetterlo a terra l’aveva stretto a sé.
            Da parte di Indaco Hansen, in quell’abbraccio c’era solamente la gioia di sapere che l’ultimo scoglio che si era frapposto tra lui e la danza era stato aggirato: se c’era riconoscenza nei confronti dell’amico, veniva molto dopo. Di affetto d’altro genere, dal più blando al più equivoco, non c’era alcuna traccia. Persino l’amicizia che aveva sempre nutrito nei confronti di Larse, stava ormai per diventare un ricordo, esattamente come i lunghi pomeriggi trascorsi da bambini, seduti sui vasini e a giocare in cortile: ormai c’era la danza, c’era il secondo anno di corso all’Accademia, c’era la prospettiva di lezioni supplementari con la classe di Jens. C’era il trasferimento nella grande città, dove all’impegno quotidiano con l’Accademia si sarebbe sommato quello della scuola serale. Come aveva auspicato Jens, Indaco era cresciuto: ormai non c’era più tempo per le stupidaggini da bambini, per l’affetto melenso del suo amico d’infanzia, non c’era tempo per altro che non fosse la danza.
            Per questo quando Larse, interpretando l’abbraccio alla sua maniera, si lasciò andare a baciarlo su una guancia, Indaco reagì malamente: se lo levò di dosso spingendolo via con forza, dicendogli le peggiori parole che potessero uscirgli di bocca:
            -“Perché non cresci, Larse? Non siamo più bambini e non si baciano gli uomini, è roba da finocchi”-
            Lo disse con un disprezzo esasperato da troppe cose: le frecciate maligne delle compagne di corso, le smorfie di compatimento che troppo spesso vedeva spuntare sulle facce quando si presentava e diceva che sì, studiava danza classica. Al punto che, ultimamente, quando gli capitava di conoscere gente nuova, non faceva parola dei corsi e dell’Accademia.
            Chi non amava la danza, non avrebbe mai potuto capire.
            Larse lo vide allontanarsi con le sue analisi falsificate sottobraccio, scrollando la testa senza neanche un saluto, senza neanche voltarsi. Restò a guardarlo mentre scendeva le scale maleodoranti del condominio con la grazia consueta, che non gli veniva meno neppure quand’era alterato: e poi uscire libero nell’aria della sera, quasi senza toccare terra per quella sua invincibile leggerezza, e sempre senza un sorriso.
            Malgrado la sua paura istintiva del buio, quando la luce delle scale si spense Larse rimase a lungo fermo sul pianerottolo, ripensando al sapore della pelle di Indaco che avrebbe alimentato i suoi sogni a venire, e cercando di cancellare un dolore che cominciava a infilarsi sotto la pelle e a far male: ciò che più gli bruciava era la sensazione di essere stato usato, tra l’altro per ottenere qualcosa che a Larse non era neppure chiaro, quanto meno sul piano delle possibili conseguente.
            Forse anche per questo sentiva crescere dentro di sé un senso oscuro di panico, un’inquietudine che non sapeva dove sarebbe andata a parare.
 
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            La vecchia corriera s’era scrollata lentamente dal piazzale, destandosi dal sonno con uno sbadiglio di ferramenta arrugginita per poi filare via liscia, ingoiata senza rumore dalla nebbia dell’orizzonte. Dopo la partenza di Indaco Hansen le giornate si erano fatte sempre un poco più corte, grigie e prive di luce, incamminandosi anch’esse lente verso l’inverno.
            Il mondo si era spento attorno a Larse Kruse, ma non era soltanto un fatto di stagione.
            Gli unici colori in grado di restituire vigore a quell’autunno, in cui i giorni si staccavano come foglie e cadevano senza rumore, Larse li ritrovava nello studio di Shlomit Abramovich: sulle poltrone morbide in cui sprofondava in attesa che arrivasse l’insegnante, avvolto dal tepore friabile dei biscotti e del thè allo zenzero e latte, e i fasci di luce che provenivano dalle lampade sparse un po’ dappertutto.
            Attorno alle poltrone c’erano semplici abat-jour basse e panciute, più adatte in realtà a una stanza da letto: col paralume a cono che schermava i riflessi, lo aiutavano a rilassarsi conciliando anche il sonno. C’erano poi i faretti che Shlomit accendeva sul tavolo da lavoro, con la loro luce raggiante e senz’ombre: capace di cacciare anche dal cuore triste di Larse ogni altro pensiero che potesse turbare la concentrazione necessaria al disegno.
            Trafficando nella cucina minuscola come un grosso uccello che salti da un trespolo all’altro, la vecchia Leah Abramovich iniziava a preparare il suo thè allo zenzero e latte all’una e mezzo precise, quando alla scuola di Larse suonava la campanella che segnava la fine di un altro giorno di lezioni.
            S’era messa addirittura una sveglia delle sue, di quelle che all’ora esatta esplodevano in un concerto di schiamazzi a cucù, per esser certa di preparare per tempo e offrire a quel ragazzo, che sembrava covare qualche pena nascosta, il sapiente conforto di una bevanda calda e aromatica.
            Frue Abramovich sapeva che non c’era niente di meglio di una tazza bollente per rinsaldare gli animi, e ristorare già che c’era anche i corpi intorpiditi da quell’autunno particolarmente gelido: ma era soprattutto ai rigori interiori che era dedicato quel thè al latte e zenzero, accompagnato da un’infornata di biscotti che la buona vecchia portava personalmente a Larse, affrontando col suo passo d’uccello in volo i tornanti che dalla cucina portavano allo studiolo.
            Ben presto, quell’angolo di mondo divenne per Larse Kruse un luogo di conforto, in cui si sentiva più a suo agio che a casa: qui non c’era sua madre, che ritornava sempre stremata dalla fabbrica, non aveva tempo per nulla ed era praticamente soltanto di passaggio tra un lavoro e l’altro;
non c’erano i fratelli che si scapricciavano a piangere, a bisticciare e a darsele di santa ragione, sollevando tempeste dentro al ditale d’acqua di quei pochissimi metri quadri d’appartamento; non c’era soprattutto il pensiero di Indaco, che ritornava puntualmente a visitarlo come un incubo nelle ore di solitudine.
            Immerso nel silenzio del piccolo studio, reso ancor più profondo dal fruscio della pioggia che lo circondava come un’isola in mezzo al buio, Larse usciva dal mondo esattamente come, solo mezz’ora prima, era uscito da scuola: appollaiato sullo sgabello girevole, sotto allo sguardo attento di Shlomit Abramovich e quello meno rassicurante di Accidenti, Larse entrava nel regno del fumetto e dell’inchiostro, delle vignette da allestire sulle tavole, delle trame e dei personaggi - e fino a sera, per lui, non esisteva nient’altro.
            Con la supervisione attenta di Shlomit, sviluppò un fumetto articolato su quattro tavole che raccontava una versione di Scarpette rosse persino più tetra e angosciante di quanto già non fosse l’originale: nella trasposizione di Larse, i calzari stregati che costringevano il malcapitato a danzare fino alla morte erano un semplice paio di scarpette da salto, del tipo che indossavano i ballerini e che Indaco aveva calzato la prima volta alla scuola della maestra Sveta, sperimentando l’insolita sensazione d’essere a piedi scalzi:
            -“Ma che scarpe sono queste, sembra di stare senza”- s’era stupito all’epoca, gironzolando avanti e indietro sul legno grezzo dell’aula di lezione, per poi iniziare a correre, saltare e volteggiare come se quelle scarpe del tutto inconsistenti gli mettessero le ali ai piedi. Da quel momento, Indaco aveva cominciato a danzare e non s’era più fermato, esattamente come il protagonista della storia di Larse: anche questi era un giovane che pur essendo affetto da una grave malattia si ostinava a ballare, trasferendo alle scarpe, insieme col sudore e l’attrito dei muscoli, una frenesia che in breve si era trasformata in incantesimo. Dopo la sua morte, provocata da quel desiderio che l’aveva consumato fino allo sfinimento, fino a che si era spento come un moccolo di candela annegato nella cera, le scarpette s’erano intrise a tal punto della sua follia e del suo sangue, che smaniavano anch’esse di continuare le piroette, per condurre a una fine orribile qualcun altro.
            Le scarpette erano rosso vivo, e parevano fatte apposta per attirare l’attenzione  degli incauti che le avrebbero indossate fino a morire: rosse per la passione e scarlatte per il sangue che avevano assorbito dal primo proprietario, e non c’era verso di farle tornare bianche, come tutte le scarpine da salto che si rispettino. Neanche in candeggina, e neppure a strofinarle con tutti i solventi del mondo ritornavano candide: non solo, ma a contatto con qualsiasi detergente quelle scarpe diaboliche iniziavano a far scintille, e a levare fiamme così feroci e alte che neppure a volerle accendere nel camino sarebbero venute su meglio, e neanche all’inferno avrebbero bruciato con maggiore entusiasmo.
            La storia terminava con un finale aperto: durante una tranquilla passeggiata pomeridiana, un bambino vedeva le scarpette nella vetrina di un negozio, e riusciva a convincere la nonna a comprarle.
            Incuriosita dal fatto che nel volto del ballerino e di tutte le altre vittime delle scarpette rosse ritornavano sempre gli stessi lineamenti, lo stesso viso dolce che aveva visto più volte nei ritratti di Larse, Shlomit Abramovich aveva sottolineato la necessità, per un disegnatore, di variare un po’ i tratti per evitare di confondere i personaggi.
            A quell’osservazione, peraltro formulata nel tono più conciliante, Larse si era incupito e le aveva risposto con una parolaccia, sfuggita a mezza voce nel tentativo di riprenderla indietro subito: era un’oscenità di calibro così grosso che avrebbe fatto saltare la parrucca e probabilmente anche le penne alla vecchia Abramovich, se solo si fosse trovata a passare per di là.
            Per fortuna, frue Leah stava trafficando in cucina, e comunque era sorda più di tutte le campane del mondo: ciò non cambiava il fatto che quell’enormità sfuggita di bocca a Larse era parecchio strana, come sentir bestemmiare il rabbino allo shabbat.
            Stupefatta, Shlomit aveva provato a informarsi:
            -“Ma questo ragazzo che tu disegni dappertutto, è per caso un tuo amico? Qualcuno che conosci? Oppure è solo un modo per disegnare i volti?”-
            Colto nel vivo, Larse si era chiuso a riccio:
            -“È importante saperlo?”- aveva risposto, secco.
            Shlomit capì che, al momento, era meglio far marcia indietro:
            -“La mia era solamente curiosità”- soltanto dopo si rese conto che di fronte a quel ragazzo riservato, in grado di cambiare faccia improvvisamente per via di qualche pena segreta, s’era sentita addirittura in soggezione.
            -“In realtà, non è niente”- aveva tagliato corto Larse Kruse -“anzi, non è nessuno”-
            Con Shlomit, che pure rappresentava la sua ancora di salvezza in un mare agitato in cui tutte le onde, tutti i flutti recavano le sembianze di Indaco protese nel salto, avvolte su se stesse in una piroetta, distese a terra in esercizi di allungamento, Larse non parlò mai dei suoi tormenti segreti: molto semplicemente, aveva deciso che a Indaco non era consentito superare la soglia di quello studio che era l’unico luogo in cui le sue angosce trovavano uno sfogo, e in cui riusciva a sentirsi sereno e persino forte, almeno per qualche ora.         
            Ricacciato durante il giorno in un angolo della memoria, con tanti giri di chiave che neanche frue Abramovich avrebbe potuto far meglio, quando a sera chiudeva la porta alle sue spalle con una tempesta di chiavistelli e catenacci, l’immagine di Indaco tornava puntualmente a visitarlo in sogno: e come nei disegni che Larse realizzava, paziente, durante il giorno, quelle nebbie notturne prendevano la forma delle belle spalle di Indaco, dei suoi capelli corti che stavano su come aghi, bagnati di sudore; dei suoi lividi sparsi sempre un po’ dappertutto, dei grandi occhi che non vedevano altro se non i movimenti riflessi nello specchio della scuola di ballo.
            Quegli occhi limpidi e attenti, collegati solo alle orecchie per seguire la musica, non badavano a niente e tanto meno a lui: al centro della sala, riempita interamente della sua presenza ricca di tensione e talento, Indaco controllava la sequenza dei passi con una concentrazione totale.           
Anche lui, nel suo mondo, non lasciava entrare nessuno: a malapena ci entravano l’insegnante di danza, i compagni che interagivano con lui in qualche coreografia, ma Larse era escluso e non c’erano sconti, eccezioni o pietà.
            Con Scarpette rosse, Larse partecipò a un concorso nazionale per ragazzi dedicato al fumetto. Insieme alla sua insegnante, e per la prima volta, salì anche lui sulla corriera per Copenhagen: durante il viaggio di andata, seduto accanto a Shlomit che con la grazia delle sue gonne sovrapposte occupava da sola due posti e lo stringeva in un angolo, Larse pensava a Indaco con tanta intensità che più di una volta gli sembrò di riconoscerlo in qualche passeggero addormentato sui sedili più avanti, o che saliva o scendeva alle fermate intermedie. Ormai aveva deciso: al momento opportuno, e a costo di dover dare tutte quelle spiegazioni che aveva sempre evitato, avrebbe chiesto in prestito a Shlomit il telefono, quell’arnese ultrapiatto che spesso aveva visto tra le unghie laccate di rosa della maestra. Avrebbe provato a contattare l’Accademia: meglio, poteva chiedere a Shlomit di accompagnarlo direttamente in Teatro, una volta terminato il concorso.
            D’un tratto non gli importava più nulla della gara: man mano che si avvicinava alla capitale cresceva il suo desiderio di rivedere Indaco, e più lo desiderava più lo vedeva ovunque, nei volti delle persone che affollavano la corriera e nella sua memoria, in ricordi che neppure sapeva di avere conservato, e che invece d’un tratto ritornavano tutti in massa ad assediarlo: così rivedeva Indaco allungato in verticale contro al muro della classe, coi piedi arcuati sulla cartina geografica, che a forza d’essere infastidita da quel solletico gli era caduta addosso; Indaco sulla neve, nelle giornate in cui s’erano abituati a uscire sfruttando la passerella di ghiaccio che scendeva dal davanzale della finestra, fino in cortile; Indaco coi cristalli di ghiaccio tra i capelli, Indaco con i lividi presi contro agli spigoli, perché fin da bambino aveva sempre una musica che suonava incessantemente nella sua testa, e quando si muoveva badava solo a quella e neanche si accorgeva di dove andava a sbattere: per lui il mondo era un palcoscenico per la danza, dove non c’erano mobili, né ostacoli di sorta, né referti di analisi in grado di fermarlo. E lui, Larse Kruse, che lo amava da sempre proprio come l’amico era pazzo per la danza, con la stessa intensità e il medesimo desiderio, lo aveva disegnato con le scarpette rosse in un lago di sangue un po’ per vendicarsi: ma anche perché nutriva un brutto presentimento, e pensava che forse fissarlo sulla carta bastasse a scongiurarlo, e a impedirgli di diventare realtà.
            Larse Kruse pensava, più veloci i suoi pensieri del ritmo sonnolento, dondolante della corriera: eppure la corriera riuscì ad arrivare al Palazzo delle arti di Copenhagen prima che lui riuscisse a trovare il coraggio di chiedere a Shlomit il telefono in prestito, oppure di accompagnarlo al Teatro dell’Opera.

 
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Capitolo 4
*** Non avere altro da dire ***


“Ero lì, con le mie scarpe congiunte ai piedi,
con il mio corpo che si apriva alla musica,
con il respiro che mi rendeva sopra le nuvole.
 Era il senso che davo al mio essere,
era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia,
era il vento tra le mie braccia,
erano gli altri ragazzi come me che erano lì
 e forse non avrebbero fatto i ballerini,
ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, la fatica.”
(R. Nureyev, Lettera alla danza)


“Questo paese sconosciuto da cui nessun viaggiatore è tornato”
(William Shakespeare)
 

           
4 - Atto quarto – Non avere altro da dire

 
            Contrariamente alle aspettative di Larse, che non l’avrebbe mai confessato ma quanto ad ambizione aveva gli occhi grandi quanto Indaco Hansen, Scarpette rosse non riuscì ad ottenere il podio: non vinse il primo premio, neppure il secondo o il terzo. Quegli scenari cupi, il senso di inquietudine che ispiravano quelle tavole in cui prevaleva il nero, e dove l’unica macchia di colore era il rosso delle scarpe e del sangue, non riuscì a fare breccia in una giuria composta da insegnanti che lavoravano nelle scuole, ed erano abituati ai disegni dei loro allievi, più semplici e innocui, e a trame meno angoscianti.
            Scarpette rosse si classificò quindicesimo.
            Malgrado la soddisfazione di Shlomit Abramovich, che non cessava di parlare e di gesticolare per sciogliere la tensione - anche per lei si trattava del primo evento importante a cui prendeva parte un suo allievo - Larse accusò il colpo con un senso di disfatta totale.
            Seduta a un tavolino del piccolo caffè del Palazzo delle arti, circondata dai molteplici strati delle sue gonne e accompagnando le parole con un tintinnio di bracciali che a Larse dava sui nervi ogni minuto di più, Shlomit rimarcava il fatto che quello era il loro primo concorso nazionale, non una semplice gara tra compagni di classe, e che il piazzamento era di tutto rispetto, essendo i partecipanti ben più di duecento, duecentoventi per l’esattezza: c’erano tutti i motivi per essere contenti, anzi per festeggiare.
            Dal canto suo Larse Kruse, considerando che al rifiuto di Indaco si andava ora a sommare quello del mondo intero, almeno per quanto concerneva il fumetto, riteneva piuttosto che il quindicesimo posto fosse un motivo più che legittimo per un suicidio onorevole, alla maniera degli antichi samurai giapponesi.           
            Seduto al tavolino di quel caffè d’altri tempi - ricco di volute e di stucchi, in quello stile ridondante che si addiceva a Shlomit Abramovic, e che Larse cominciava a odiare - il ragazzo cercava di sviare lo sguardo: come se anche le orecchie potessero seguirlo, e risparmiargli i discorsi con cui la sua insegnante cercava di convincerlo che aveva vinto lo stesso. Fu in quel momento che Larse intercettò un signore distinto, un gomito appoggiato al bancone del bar, due occhi come pozzi neri che lo fissavano. Shlomit andava avanti a parlare dei prossimi progetti, dei maestri che aveva incontrato al concorso, di una selezione che si sarebbe tenuta entro il mese prossimo, per la pubblicazione di una raccolta dedicata al fumetto giovane.
            Larse guardava altrove, precisamente in direzione di quell’uomo elegante, i capelli corti e ravviati in onde scure, così simili alla frangia sempre disordinata di Indaco Hansen. Nei rari momenti in cui l’estraneo smetteva di fissarlo, con quegli occhi come pozzi in cui Larse stava già precipitando senza neanche accorgersene, il suo profilo gli faceva pensare allo stesso volto di Indaco: o meglio, a Indaco Hansen a trentacinque anni, forse anche quaranta.
            Sentendosi osservato come lui l’osservava, lo sconosciuto gli rivolse un sorriso educato.
            Larse rispose con un’alzata di spalle e un sorriso a una volta, accennando a Shlomit che gli sedeva accanto come a dire vedi cosa mi tocca sopportare, non c’è modo di farla star zitta un secondo.   
            Una strizzata d’occhi da parte dell’estraneo, un altro sorriso triste da parte di Larse.
            Poi il ragazzo si girò verso Shlomit, che ancora gesticolava di maestri e progetti, e di punto in bianco le chiese chi fosse lo sconosciuto in piedi al banco del bar. Non fece neppure a tempo a udire la risposta che l’uomo era già lì, in piedi dinanzi a lui, e gli tendeva la mano:
            -“Piacere, Herre Halvorsen”-
            Shlomit s’interruppe all’istante, bloccando quel fiume in piena di gesti e di parole e trasformandosi in una statua di sale coi boccoli. Tra l’eventualità di cadere dalla sedia o  restare congelata con la tazza da thè in una mano e un biscotto nell’altra, Shlomit Abramovich scelse la terza via: si alzò in piedi col rischio di ribaltare teiera e tavolino per l’impatto delle sue gonne a nastri e balze, nonché per l’entusiasmo di trovarsi di fronte all’Autore per eccellenza, che ammirava da quando aveva imparato a tenere la matita in mano.
            Herre Halvorsen, però, badava solo a Larse, ignorando completamente quella che in fin dei conti era la sua insegnante:
            -“Sei tra i partecipanti? Con quale punteggio ti sei classificato? Soltanto quindicesimo?”- e qui Larse non poté fare a meno di rivolgere a Shlomit un’occhiata che era una via di mezzo tra il rimprovero e la rabbia, come a sottolineare che lei, evidentemente, non aveva capito niente. -“Mi faresti la cortesia di mostrarmi le tue opere?”-           
            Seppur bizzarra e stravagante per molti versi, Shlomit aveva sale in zucca da vendere: era prudente, soprattutto quando si trattava di accompagnava i suoi allievi in quella città che, proprio perché era grande, doveva necessariamente esser piena d’insidie, come la vecchia Leah non si stancava di ripetere; oltre a questo, Shlomit era dotata di un sesto senso infallibile: tenendo d’occhio il suo allievo mentre si allontanava verso i pannelli espositivi insieme a Herre Halvorsen, avvertì un senso d’irrequietezza e di gelo, come un avvertimento
            Abituata a dar credito alle proprie intuizioni, decise di non lasciarsi piantare così, in asso: sono pur sempre la sua insegnante, si ripeté, soprattutto per mettere a tacere quella voce che la spingeva a intervenire con urgenza, come se stesse succedendo chissà che cosa.
            Li trovò di fronte al pannello su cui erano esposte le tavole di Larse. L’uomo, che pure aveva fatto parte della giuria, si era lanciato in un lungo discorso che andava a ricercare nell’opera di Larse strani significati, riferimenti stilistici che potevano essere colti solo da un occhio esperto, non certo da quegli zotici che sedevano sul palco ed erano abituati a trovarsi sotto al naso scarabocchi da poppanti.
            Larse pendeva letteralmente dalle sue labbra, con gli occhi dilatati dallo stupore, il viso e tutto il corpo protesi verso di lui come una pianta verso l’unico raggio di sole: senza neanche pensare che, a conti fatti, il quindicesimo posto lo doveva anche a quell’uomo.           
            In contemplazione estatica come davanti a un’apparizione, Larse beveva i discorsi di Herre Halvorsen senza capirci niente: realizzava soltanto che i suoi disegni piacevano a quel tizio che gli ricordava Indaco ma che era ben più fascinoso e consapevole, oltre che un mostro sacro nel regno del fumetto.
            Alle parole di Halvorsen si limitava ad annuire in adorazione, crogiolandosi nei toni caldi di quella voce che lo adulava con paragoni improbabili, riferimenti ad autori di cui non sapeva nulla, tracciando attorno a lui una tela in cui Larse si lasciava sprofondare pericolosamente, ma anche con piacere. 
            Accanto a loro nella parte del terzo incomodo, ma ben lungi dall’idea di star lì a reggere il moccolo, Shlomit era infastidita dai discorsi dell’uomo, che esaltava lo stile visionario di Larse, paragonandolo a illustratori rinomati che il ragazzo non aveva mai sentito nominare appunto perché era poco più che un bambino: e anche la sua mano, pur essendo di certo dotata e promettente, era pur sempre quella di un allievo agli inizi.
            Ancor di più la indispettiva l’atteggiamento di Larse, che come una spugna bisognosa di conferme assorbiva le parole di quello sconosciuto, con un’attenzione così cristallina che non aveva mai visto, quanto meno durante le lezioni nel suo studio. Pur trattandosi del famoso Herre Halvorsen - si ritrovò a pensare Shlomit, esasperata - quell’uomo non era l’insegnante di Larse: e anzi il tono con cui criticava alcuni aspetti tecnici, come l’uso degli spazi e la disposizione delle vignette, facendo intendere a Larse che chi l’aveva istruito non aveva capito niente, la faceva tremare di rabbia dalla punta delle scarpe a quella delle mollette con cui teneva in ordine le volute dei capelli.
            Supponente e arrogante: fu questa l’opinione che Shlomit Abramovich riportò dal suo primo e unico incontro col grande illustratore, la stessa che, più tardi, non esitò a comunicare anche a Larse, quando furono finalmente in separata sede, di nuovo sulla corriera che li riportava al paese.
            -“Spero non crederai a una sola parola di tutti gli spropositi che ha detto quell’uomo”- minacciò Shlomit, decisa a non farla passare liscia al suo allievo - “mi auguro soprattutto che non avrai intenzione di incontrarlo di nuovo”-
            Poco prima, difatti, al Palazzo delle arti, quando lei s’era decisa a recuperare Larse afferrandolo per un braccio con una scusa qualunque - la corriera è in partenza tra meno di mezz’ora, ed è l’ultima - Herre Halvorsen stava appunto promettendo al ragazzo di prenderlo a lezione presso lo studio d’arte che aveva aperto da poco in un posto speciale: interamente circondato dal bosco in modo da consentire la massima concentrazione, e dove l’unica voce era quella del fiume. Un luogo di cui nessuno conosceva l’esistenza, neanche i giornalisti che gli stavano alle calcagna come cani affamati, e tutti quegli stupidi che collezionavano i suoi albi: gli stessi che copiavano lo stile delle sue tavole, con risultati che facevano solo pena - e qui Herre Halvorsen aveva rivolto a Shlomit un’occhiata mista di compatimento e alterigia. Questo, naturalmente non era il caso di Larse, che sarebbe stato ben accetto nel suo studio professionale, in quel posto speciale che guarda caso si trovava proprio a un tiro di schioppo dal paese.
            Ora, sulla corriera che segnava di nuovo il ritmo sonnolento della vita di tutti i giorni, accomodata sul sedile di fronte a Larse con tutte le sue gonne un poco spiegazzate, Shlomit Abramovich intendeva fare i conti e parlare chiaro:
            -“L’arte s’impara, caro. Non è solo questione di vincere i concorsi, quelli a volte sono solo questione di fortuna, e lasciano il tempo che trovano. Non è neppure sufficiente avere talento, occorre il lavoro duro, è necessario imparare come fare le cose. Accettare una sconfitta è essenziale per  migliorare, perché l’adulazione, come dice mia zia, è il pane dolce dei fessi”-
            Seduto di fronte a lei, Larse Kruse l’ascoltava, di nuovo con l’aria dello scolaro diligente, educato e rispettoso. Stavolta però si trattava soltanto di apparenza. E quando la maestra gli pose una domanda, io e te abbiamo un progetto: te la senti di continuare, e di portarlo avanti insieme?, Larse non disse niente. Pareva ancora mortificato dall’esito della gara, mentre in realtà pensava allo studio di Herre Halvorsen in mezzo al bosco, all’unica voce del fiume, alle stupende tavole che avrebbe realizzato in quel luogo segreto, così fuori dal mondo che là non prende neanche il telefono cellulare.
            Dal finestrino della corriera che s’inoltrava nel buio, le sagome degli abeti emergevano dalla nebbia che era improvvisamente calata insieme alla notte, e che si diradava in una pioggerella di aghi lunghi e gelidi solo in prossimità dei canali.
            Larse pensò che Herre Halvorsen gli aveva promesso di contattarlo la sera stessa per prendere accordi, e non vedeva l’ora di arrivare a casa. Come lo stesso Indaco gli aveva detto in faccia, era tempo di crescere e iniziare a fare sul serio.

 
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All’Accademia il secondo anno era appena iniziato e già Indaco Hansen si ritrovava sovraccarico di impegni: allo sforzo richiesto dal corso con Madame, si aggiungeva quello delle lezioni supplementari con la classe di Jens. A insegnare danza nella classe maschile era stato chiamato, quell’anno, un primo ballerino dell’Opera di Berlino, un tizio alto e biondo dall’aria feroce che a quanto si diceva riusciva a essere persino più intransigente di Madame, ammesso che ciò fosse possibile: di fatto, fin dal primo giorno herr Halle diede prova di meritarsi appieno l’appellativo di iena. Era un fanatico dell’ordine e della disciplina che faceva lezione in un clima di terrore, e tirava certe urla da far rizzare i capelli in testa come chiodi, se soltanto notava una minima sbavatura negli esercizi. Correva voce che misurasse l’altezza dei salti con il metro, e che questa trovata fosse in realtà una scusa per spiare gli allievi in mezzo alle gambe: fosse realtà o leggenda dettata dal dispetto di fronte all’eccessivo rigore dell’insegnante, di fatto Indaco Hansen non ebbe l’occasione per accettarsene. All’inizio, durante le lezioni di herr Halle si muoveva disagio, come se si trovasse a camminare sulle uova o in un campo minato: in breve, si rese conto che più ce la metteva tutta per non sbagliare, più l’ansia lo tradiva e gli errori scappavano da tutte le parti.
            Molto più saggiamente, prese la decisione di non lasciarsi intimorire e di considerare le urla dell’insegnante come parte dell’accompagnamento musicale. Fu così che herr Halle lo prese a benvolere, e quando si trattò di assegnare le parti per il balletto lo raccomandò alla Madame Grisi.
            Una volta conclusa la giornata in sala prove, Indaco era impegnato con la scuola serale.
            A differenza degli anni precedenti, quando s’addormentava di schianto sulla corriera, e soprattutto durante le ripetizioni con suor Diletta, la novità della nuova vita nella capitale e il moltiplicarsi vertiginoso degli impegni gli aveva donato una sferzata di energia: sicché persino a scuola riusciva a stare fermo e composto al banco, senza cedere al sonno e neppure alla tentazione di alzarsi e cominciare a volteggiare tra i banchi.
            In realtà, dopo avere trascorso un’intera giornata in esercizi spossanti, Indaco era troppo stanco per aver voglia di saltellare. Ma c’era in lui anche una nuova consapevolezza, che lo spingeva a mettere lo stesso tenace impegno in qualsiasi attività gli fosse richiesta: si trattasse di mettere a punto un nuovo passo o di imparare a calcolare l’area del cerchio, di affinare la tecnica per eseguire più salti senza cadere sfinito, o di mandare a memoria una pagina di storia.
            Presso l’affittacamere che lo teneva a pensione insieme a un gruppo di commessi viaggiatori che periodicamente si fermavano a Copenhagen, Indaco attirava quella curiosità che da sempre circonda il mondo del teatro agli occhi dei profani: la sua presenza portava una nota allegra, un soffio di originalità un po’ scapigliata in mezzo a quegli uomini in giacca e cravatta che passavano il tempo tra rendiconti e commesse e lo consideravano senza troppa serietà, come se quel ragazzo fosse dedito a un passatempo e non a uno studio serio.
            -“Beato te, ragazzo!”- gli diceva ogni tanto il decano dei commessi, un tizio con la bombetta e l’orologio al panciotto che sembrava uscito da un romanzo d’altri tempi. E subito intonava con voce gracchiante: -“Vissi d’arte, vissi d’amore…”-
            Dell’arte Indaco conosceva le fatiche, dell’amore non ne sapeva ancora niente, ma conosceva bene quella romanza che li citava entrambi e insieme, perché a pensione da frue Margarethe c’era anche un tenore, un pezzo d’uomo che pareva il figlio del pirata Barbanera e della strega di Biancaneve, tanto per stare a quel gioco con cui Indaco e Larse erano soliti sghignazzare alle spalle del prossimo: anche se, in questo caso, il tenore pareva Barbanera in persona, anche senza il contributo della strega. Di notte, herre Clausen faceva vita bohemienne, confermando negli austeri commessi viaggiatori l’idea che l’arte fosse un darsi alla pazza gioia nel modo più sfrenato.
            Rientrava in casa all’alba, ubriaco e spesso portato di peso da altri che facevano le veci delle sue gambe. Dormiva qualche ora poi, con una capacità di recupero formidabile, attaccava a cantare romanze d’ogni sorta: compensando con la potenza della voce e tutta la passione possibile e immaginabile a certe stecche tremende, da far tremare i piatti sulla credenza del soggiorno e i vetri delle finestre. Frue Margarethe si tappava le orecchie, preoccupata per i vetri e per le sue porcellane dell’ottocento inglese.
            Indaco non sapeva se trovarlo spassoso oppure terrificante: di certo, lo spettacolo di quell’omaccione peloso fin dentro alle orecchie, con la barba da bucaniere e la pancia capace di reggere ettolitri di birra senza colpo ferire, che intonava Celeste Aida con la boccuccia a cuore per forbire le note era un’esperienza che valeva la pena di vivere.
            In quei momenti, Indaco avrebbe voluto avere accanto a sé Larse, per godere dello spettacolo e sbellicarsi insieme. Ma Larse era più introvabile di prima, e Indaco non riusciva mai a contattarlo, per quanto ci avesse provato tramite il cellulare che ora anche lui possedeva, e che gli aveva regalato nonna Mette all’indomani del suo trasferimento in città, per qualsiasi evenienza.
            Segno chiaro ed evidente che Indaco, alla veneranda età di tredici anni, poteva considerarsi grande a tutti gli effetti.
            Di fatto, proprio in quell’anno Indaco cominciò una crescita accelerata che lo portò in breve tempo ad assumere la fisionomia di un giovane uomo. Mentre la danza continuava a forgiarlo con l’esercizio quotidiano, come obbedendo a un ordine impartito da qualche centralina segreta il suo corpo cominciò a svilupparsi in altezza, poi a buttar fuori una voce più traballante e incerta, e per un certo tempo assunse le fattezze del brutto anatroccolo: troppo alto e dinoccolato per essere un bambino, ma ancora troppo imberbe per spacciarsi da adulto.
            In quel periodo in cui non era né carne né pesce, i grandi del corso maschile lo prendevano bonariamente in giro, chiedendogli se si era fatto la barba al mattino, se per caso era cresciuto qualche pelo, se ogni tanto cresceva anche il resto. Ridevano con tanto di pacche sulle spalle, e Indaco doveva puntare tutti e due i piedi per non finire a gambe all’aria: lungi dal vergognarsi era fiero dei cambiamenti, e non attendeva altro che di essere come loro. Tanto che quando un giorno finalmente un pelo spuntò, non mancò di esibirlo di fronte a tutti gli altri con l’orgoglio di chi ha ottenuto una promozione a pieni voti.
            Quel periodo da frutto acerbo durò una sola stagione: già prima dell’estate il suo fisico aveva ricomposto le tessere, coperto quella nuova struttura da spilungone con una muscolatura più definita, riempiendo le spalle e assottigliando i fianchi, rimpolpando le lunghe gambe da trampoliere, donando al viso un’espressione più matura. Solamente i suoi occhi, estatici e sognanti, erano sempre gli stessi, e anche i lividi che ogni tanto rimediava urtando da qualche parte.
            Alla fine del corso, Indaco Hansen non era più un moccioso nella classe dei grandi. Era alto esattamente quanto loro, dotato della stessa muscolatura potente, come se la sua ammirazione per quei giovani uomini avesse avuto il potere di spingere qualche tasto e attivare un comando segreto nel suo organismo, in grado di trasformarlo in uno di loro.
            Alla scuola serale, come al pensionato, Indaco era considerato la vedette della classe: in quell’aula frequentata da giovani operai con turni massacranti, ex detenuti che riprendevano gli studi e apprendisti occupati nei più svariati lavori, Indaco era una sorta di calamita che attirava l’attenzione di tutti. Gli insegnanti erano tolleranti nei confronti delle numerose assenze dovute alle prove per il balletto, a lezioni supplementari, a tour de force di ogni genere.
            Il professore di matematica gli chiese addirittura l’autografo con largo anticipo:
            -“Così, quando sarai famoso, non sarò costretto a correrti dietro”-
            Soltanto l’insegnante di ginnastica - un omone tatuato e appassionato di culturismo, che gestiva una palestra piena di macchinari che a Indaco sembravano strumenti di tortura - detestava la danza come roba da checche, e per questa ragione ce l’aveva con lui.  
            -”La bella statuina, là in fondo!”- sbraitava quando lo vedeva sollevare le braccia in posa plastica -“Hansen, non stai ballando Il Lago dei Cigni: sei a ginnastica!”-
            Di solito, il rimprovero finiva lì senz’altre spiacevoli conseguenze. Solamente una volta, vuoi perché l’omaccione era di pessimo umore per motivi suoi, oppure perché Indaco s’era reso colpevole di un eccesso di moine nel sollevare le braccia, alla consueta reprimenda l’omone aveva aggiunto quanto c’era di peggio:
            -“Diritte quelle braccia, maledetto finocchio!”-
            Indaco non aveva risposto all’offesa, non s‘era lamentato né dopo né in seguito. Non s’era ripromesso di andare in direzione a piantare una grana: aveva preferito risolverla lì e subito. Era già un metro e ottanta, superava di almeno due spanne l’insegnante e anche se le proporzioni del suo fisico erano molto diverse da quelle di un culturista, non era più mingherlino.
            Si era avvicinato al robusto insegnante, che peraltro si era già pentito di quanto gli era appena uscito di bocca, e stava già pensando a come rimediare e scusarsi con l’allievo.
            Nel mentre ci pensava, in un silenzio di tomba perché l’intera classe stava trattenendo il fiato, Indaco Hansen gli era venuto davanti, e senza tanti preamboli gli aveva sferrato un calcio, dritto e potente in mezzo alle gambe. L’insegnante si era piegato in due come un salice, recuperando da qualche parte - probabilmente tra agli alluci - la presenza di spirito e l’autocontrollo necessari per non lasciarsi scappare nemmeno un gemito.
            Quanto a Indaco Hansen, suggellò la sua impresa con poche parole che caddero nel silenzio generale, come altrettanti semi sopra a un terreno fertile. Fatto sta che da allora divennero leggenda:
            -“A me non piacciono gli uomini. Io, le palle degli uomini le schiaccio sotto i piedi come si fa con l’uva”-
            Nessuno si prese la briga di contraddirlo.

 
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            Finalmente il progetto del balletto di fine anno si stava concretizzando, era stata resa nota la trama su cui sarebbe stata allestita la coreografia, era già stato scelto Jens Lilin per la parte di Heel Halewijn, il leggendario cavaliere che traeva ricchezza, fascino e giovinezza dal sangue delle sue vittime. Per la parte di Maghtelt era stata designata una giovane ballerina dei corsi avanzati. A Indaco era toccata la parte secondaria dell’albero delle teste mozzate, ma non se ne lagnava: gli altri allievi della sua classe avrebbero partecipato come corpo di ballo, mentre a lui spettava un assolo ancora da definire - perché in realtà non si capiva molto bene come avrebbe fatto un albero, per di più appesantito da teste di cartapesta, a volteggiare qua e là.
            La Madame Grisi, che nella sua lunga esperienza di teatro, oltre ad aver danzato davanti a tutte le teste coronate del suo tempo, vantava anche l’allestimento di più di cento balletti in giro per il mondo, aveva già iniziato a impostare la coreografia imponendo agli allievi prove supplementari che si sapeva quando iniziavano - alle diciassette puntuali ogni giorno, domeniche incluse - ma non si sapeva quando finivano: spesso si andava avanti fino a notte inoltrata, e l’indomani le lezioni ricominciavano daccapo. Madame e herr Halle facevano a gara a spremere i ballerini come i famosi chicchi d’uva per i quali Indaco Hansen s’era ormai fatto un nome alla scuola serale, al punto che chicco era ormai diventato uno dei suoi tanti soprannomi.
            All’Accademia, neanche a dirlo, restava sempre il turista, perché la propensione a viaggiare con il naso per aria non gli era venuta meno malgrado i cambiamenti dell’adolescenza, e anche se a vederlo pareva già un uomo fatto.
            -“Turista, riga dritto!”- lo riprendeva Madame, con sempre maggior fervore man mano che il balletto prendeva forma -“oppure, invece dell’albero, reciterai la parte di una delle teste tagliate! Che tanto tu, la testa, l’avrai sempre nel sacco!”-
            Ben presto, anche iena Halle incominciò a chiamarlo turista, o meglio a urlargli dietro, con quella sua voce terrificante da comandante di eserciti all’assalto, quello che in bocca a lui pareva un nome da battaglia all’ultimo sangue.
            Il soprannome di turista affibbiato al loro allievo più talentuoso era l’unica cosa su cui Madame e Halle si trovassero d’accordo: per il resto, l’organizzazione del balletto e la preparazione degli allievi era occasione di liti che si rinfocolavano ogni giorno, con una puntualità e un impegno inappuntabili, e declinate in tutte le possibili maniere con cui un essere umano può attaccare un altro.
            Si andava dallo scontro diretto, con urla da squarciare la gola a entrambi, e da cui neppure Madame si tirava mai indietro, malgrado l’innegabile superiorità vocale dell’altro, ai duelli all’arma bianca, dove l’arma in questione era ovviamente la lingua, di cui entrambi i maestri sapevano far uso con un’abilità strategica eccellente. Madame, che era una signora e non perdeva il suo aplomb neanche quand’era inferocita oltre ogni limite, preferiva colpire in punta di fioretto, laddove il suo avversario preferiva la scure, e andava giù di parole come se si trattasse di abbattere la quercia che cresceva possente nel cortile dell’Accademia:
            -“Halle, lei lo capisce che Heer Halewijn non è una testa di cuoio che si muove a spallate, ma una figura avvolta da un alone di mistero? Il suo ballerino deve muoversi lentamente per suggerire l’idea di una minaccia incombente, e non saltare come un saltimbanco da fiera! Non stiamo mica allestendo uno spettacolo di burattini per scaricatori di porto! Se proprio non ci arriva con la testa, caro collega, posso farle un disegno”-
            Iena Halle non aveva ancora dimestichezza con la lingua danese, sicché spesso prendeva lucciole per lanterne, pur obbedendo puntualmente alla consegna - che lui stesso si era dato - di non darla vinta al nemico per nessuna ragione. Per non saper né leggere né scrivere, affondava l’ascia a caso - o meglio, in base a quello che aveva capito al momento:
            -“Vecchia strega, che dici? Testa da culo sarà lei, tanto per cominciare”-
            Queste scaramucce, che erano all’ordine del giorno e solitamente finivano per far slittare gli orari previsti per le prove e accumulare altri ritardi, si svolgevano tutte lontano dagli occhi - anche se non dalle orecchie - dei solisti e del corpo di ballo. Molto lealmente, sia Madame che herr Halle di fronte alle classi mostravano il massimo rispetto l’uno per l’altro, esigendo dagli allievi lo stesso comportamento ineccepibile.
            Questi, dopo un breve periodo di disorientamento, impararono alla svelta quando Jens Lilin, per troppa confidenza, rischiò addirittura di essere escluso dallo spettacolo. Accadde un pomeriggio quando, esasperato dall’ennesimo rimprovero per un serie di piroette che non riusciva a rendere con sufficiente slancio, Jens sbottò esasperato, nel corso di una prova della classe maschile:
            -“Ma insomma, herr Halle, l’ha detto anche quella vecchia gallina della Grisi che in questi passaggi occorre meno spinta!”-
            Iena Halle aveva scatenato un pandemonio. Le sue urla avevano fatto tremare il Teatro, e si erano sentite fino alle aule insonorizzate degli orchestrali. Fatto sta che, di lì a poco, era comparso il primo violino - un vecchietto azzimato in doppiopetto e papillon - a chiedere se per caso era successo qualcosa. Non appena aveva visto in faccia herr Halle, era sparito subito con la stessa rapidità con cui era comparso. L’insegnante di ballo non se n’era neanche accorto, impegnato com’era a fare i contropelo a Jens Lilin:
            -“Cazzo dici, imbecille! Sei fuori dal balletto! Fuori dalle lezioni! Sei fuori da tutto, coglione deficiente! Impara l’educazione, razza di delinquente!”-
            Ma senti da che pulpito, pensò tra sé Indaco cercando di rendersi al contempo invisibile, non fosse mai che Iena potesse leggergli i pensieri scritti in faccia. Quella volta c’era voluto l’intervento della Madame Grisi in persona per rimettere ordine, e soprattutto per consentire a Jens di riprendere il suo ruolo da protagonista. Indaco era stato felice per l’amico, anche se herr Halle l’aveva già convocato in disparte per affidargli su due piedi la parte.
******
            A Natale, durante quella pausa di tre giorni concessa agli allievi a patto che si astenessero da panettone e dolci allo zenzero, Indaco e Larse s’erano ritrovati nella soffitta del condominio, dove si rifugiavano quando il tempo era brutto ed entrambi sentivano il bisogno di un rifugio: là, sotto al manto di neve che ricopriva i tetti e custodiva il silenzio, mentre i fiocchi continuavano a cadere da giorni e anche il cielo era bianco come un’alba perenne, il calore che proveniva dai piani sottostanti intiepidiva il legno grezzo del pavimento, e Indaco lo sentiva salire sulla schiena simile a una carezza: come di consueto se ne stava appoggiato al muro in verticale, con le lunghe gambe diritte contro alla parete. Accanto a lui, Larse Kruse cercava la leggenda di Heel Halewijn sfogliando un grosso libro: girava le pagine con cautela, facendo bene attenzione a non lasciar cadere certi biglietti su cui, nei momenti più tristi, aveva scritto lettere, poesie o anche solo parole che non aveva mai osato rivolgere a Indaco Hansen.
            La luce di una lampada da campeggio, posta sul davanzale interno della mansarda, accresceva le ombre sul volto di Larse: in quel periodo si sentiva come chi vaga in un tunnel senza più via d’uscita, e il suo umore era sempre instabile, oscillante tra la rabbia e il pianto.
            Neppure la visita del suo migliore amico aveva contribuito a migliorare il suo stato d’animo. Mentre continuava a cercare la ballata di Heer Halewijn in quel volume di antiche leggende, Larse in realtà pensava che anche se un biglietto fosse scappato fuori e Indaco l’avesse intercettato con la rapidità che gli era consueta, non gliene sarebbe importato più di tanto.
            Dentro di sé sapeva che il suo amore per Indaco non sarebbe mai venuto meno, e più che mai in quel momento si aggrappava a quel sentimento pulito, in cui c’era spazio solo per il bene dell’altro. Altri pensieri però tormentavano Larse Kruse da qualche tempo: precisamente da quando erano cominciate le lezioni di disegno in quello studio che era grande il doppio di quello di Shlomit, e che era situato in un luogo sperduto in mezzo al bosco e vicino al fiume.
            Il posto speciale di Herre Halvorsen era un’antica fortezza medievale sottoposta a parziale restauro, eseguito con cura e senza badare a spese, ma che aveva riadattato solamente gli interni: vista da fuori, la rocca continuava a esibire le fattezze poco rassicuranti di un cumulo di rovine, dall’aspetto talmente malandato e pericolante da invitare i curiosi - cercatori di funghi, bambini appassionati di storie di fantasmi, satanisti allucinati e viandanti sperduti in cerca di un riparo - a tenersi prudentemente alla larga. Dal sentiero sterrato su cui l’auto di Halvorsen si era impantanata almeno quattro volte, per via delle buche profonde e trasformate in altrettanti acquitrini dalla pioggia, la dimora esibiva un aspetto sinistro, anche considerando che sia la sterrata, sia la radura dove sorgeva all’improvviso, mancavano totalmente di illuminazione.
            La prima volta che Herre Halvorsen vi aveva condotto Larse, questi aveva avvertito un senso di inquietudine non appena l’auto del nuovo insegnante aveva abbandonato la statale per inoltrarsi nel buio di un viottolo: lasciandosi alle spalle la fila di lampioni che peraltro fendevano la nebbia a malapena, quel tanto che bastava a evitare incidenti.
            In quel tardo pomeriggio d’inverno, il buio era già assoluto come in piena notte.
            Quando l’auto aveva cominciato a inoltrarsi sulla sterrata, traballando scossoni sul terreno accidentato e rischiando addirittura la rottura di un asse, finché il conducente non s’era deciso a procedere a passo d’uomo tra mille improperi, Larse aveva già voglia di ritornare a casa: di più, ne avvertiva il bisogno urgente, come se ad ogni scricchiolio delle ruote, ad ogni tonfo sordo dentro a una buca d’acqua, ad ogni imprecazione di quello sconosciuto che stava alla guida, un pericolo che fino ad allora non aveva minimamente considerato si stesse condensando, enorme, sulla sua testa.
            Senza neanche accorgersene, mano a mano che l’auto s’inoltrava in nell’oscurità Larse si era appiattito contro la portiera, la mano sulla maniglia.
            Aveva persino timore di guardare in faccia l’uomo che gli sedeva accanto, impegnato nel difficile compito di mantenere il veicolo stabile e in equilibrio su quel tratto accidentato.
            Quel profilo tagliente che chissà come gli aveva ricordato Indaco Hansen, adesso gli appariva per quello che era: il volto di un estraneo di cui non sapeva nulla, dai tratti congelati nello sforzo di mantenere il controllo dell’auto, la bocca come un taglio da cui uscivano parole a cui Larse Kruse, che pure proveniva da una periferia misera, non era mai riuscito a fare l’abitudine.
            A un certo punto l’urgenza di sottrarsi a quella situazione si era fatta così pressante, che Larse si era rivolto al suo accompagnatore con un tono di supplica:
            -“Scusi se glielo chiedo, signore, ma vorrei tornare a casa”-
            Herre Halvorsen si era voltato verso di lui all’improvviso, con un cambiamento così repentino che Larse era rimasto letteralmente sbigottito. Di colpo, dall’espressione tesa e accigliata con cui scrutava la strada, sterzando con violenza e manovrando il cambio come se volesse strapparlo, il volto dell’uomo s’era aperto in un sorriso insinuante: nelle intenzioni, quel sorriso  voleva essere rassicurante, ma siccome aleggiava soltanto sulle labbra mentre il resto del volto rimaneva di pietra, appariva talmente falso che persino Larse Kruse, che non aveva mai brillato per intuito, se ne accorse immediatamente. Adesso più che mai desiderava scendere, a costo di buttarsi dall’auto in corsa e finire affogato dentro a qualche pozzanghera: a costo di smarrirsi nella nebbia e non riuscire mai più a trovare la via di casa.
            Incominciò a trafficare con la maniglia ma subito Herre Halvorsen, allungando le mani ben curate sul cruscotto, azionò un comando adibito a serrare le portiere definitivamente.
            -“Ma dove vuoi andare?”- sorrise divertito -“e la nostra lezione?”-
            Gli allungò sulla guancia una strizzata complice. Dovette allungarsi un bel po’, perché Larse era ormai tutt’uno con lo sportello:
            -“La prego, mi faccia scendere”-
            -“Hai paura del buio? Guarda, siamo arrivati”-
             Dinanzi a loro sorgeva quel rudere diroccato, e a quel punto Larse era ormai in preda al panico:
            -“Ma dove mi ha portato?”-
            L’estraneo rise: evidentemente, la paura del ragazzo lo divertiva. Sbloccò le porte di uscita, ma Larse non fece in tempo a mettere piede fuori dall’auto, che già Herre Halvorsen gli si parava dinanzi:
            -“Adesso, vieni dentro”-
            Larse puntò i piedi:
            -“Voglio tornare a casa”- l’altro lo afferrò per un braccio, con l’intenzione di guidarlo dentro allo studio, in realtà trattenendolo con una presa d’acciaio:
            -“Andiamo, ragazzino. Ci aspetta una lunga lezione di disegno”-

 
******
 
            Quella sera, in realtà, avevano disegnato.
            A Larse non era accaduto proprio niente di male, così s’era convinto a tornare una volta e un’altra volta ancora: dandosi del cretino per avere pensato che in quello studio elegante, attrezzato con ogni genere di conforto, potesse capitargli qualche cosa di strano.
            Lo allettava l’idea di acquistare importanza agli occhi di un adulto, di essere protetto e guidato da qualcuno che credeva davvero nelle sue possibilità: Herre Halvorsen era una persona importante, la migliore nel suo campo, e averlo incontrato ben poteva considerarsi, secondo Larse, la giusta ricompensa e un equo indennizzo per tutte le delusioni patite fino ad allora, in amore come al concorso.
            In quello studio modernissimo e luminoso, arredato con lampade a stelo, un divano lungo quanto il soggiorno di casa sua e un tavolo da lavoro che pareva una piazza d’armi, Herre Halvorsen gli aveva mostrato i suoi lavori: quelli in corso d’opera e le numerose pubblicazioni, tutte stampate da editori di prim’ordine. Con in mano una tazza di cioccolata calda e finissima, qualcosa di ben diverso dalla risciacquatura di piatti allo zenzero di Leah Abramovich, Larse aveva ammirato le tavole appuntate sul piano da disegno: al confronto, le opere di Shlomit, per non parlare delle sue, parevano scarabocchi da bambini dell’asilo.
            Nello studio della maestra, Larse aveva già avuto l’occasione di sfogliare le tavole ispirate al “Castello” di Kafka: ora, voltando le pagine con una sorta di timore reverenziale, poteva ammirare anche le cupe ambientazioni e il clima surreale de “La metamorfosi”, le trincee devastate di “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, la laguna malsana di “Morte a Venezia”.
            Appuntate sul tavolo e ancora in lavorazione, c’erano altre immagini torbide e impressionanti, ispirate a “La Caduta degli dei” di Luchino Visconti. Da queste, in particolare, che rappresentavano l’ultima fatica di Halvorsen e ritraevano un festino decadente ed equivoco, Larse Kruse non riusciva a staccare gli occhi: pensava che neppure tra un milione di anni sarebbe riuscito a raggiungere quel livello di perfezione stilistica, di padronanza nel tratteggiare le linee dei corpi, di suggestione nel ritrarre gli ambienti.
            In quelle scene sontuose c’era un personaggio che somigliava a lui - o almeno così gli sembrava, e il suo compiacimento raggiunse picchi mai visti: un giovincello dall’aria ingenua e confidente, ritratto su un palcoscenico a suonare un violoncello. Nelle scene successive, non era molto chiaro cosa gli capitava, ma quello che era certo era uno dei protagonisti aveva gli stessi lineamenti di Herre Halvorsen: lusingato di essere parte di una sua storia - sempre ammesso che non si trattasse di un abbaglio - quando si volse a guardare il suo interlocutore, adulto, affascinante e ora anche geniale, Larse era senza parole.
            Herre Halvorsen gli scompigliò i capelli con una carezza che si soffermò un istante di troppo, ma Larse non vi fece caso: poi cavò da un cassetto una serie di fogli bianchi, come aveva già fatto Shlomit Abramovich in un tempo che ora sembrava lontanissimo, lo invitò ad accomodarsi sullo sgabello e a iniziare a comporre una scena.
            A sua volta, si era seduto accanto a lui per dedicarsi in perfetta concentrazione alle sue tavole: procedeva con tratti brevi e precisi, e Larse, dopo qualche istante, si era già dimenticato del compito assegnato e s’era messo a osservarlo in religioso silenzio, concedendosi solo il fiato necessario per poter respirare.
            Herre Halvorsen aveva sorriso quando Larse gli aveva domandato, con un sussurro appena percettibile, se poteva stare a guardare: gli aveva risposto con un sussurro a sua volta, a cui aveva fatto seguito una breve risata imbarazzata di Larse, lieve come un ruscello, e un’altra carezza.
            Era trascorsa così la prima mezz’ora: uno che disegnava con le sue lunghe mani, affusolate ed esperte, l’altro in adorazione.
            Più tardi, Herre Halvorsen si era occupato esclusivamente di lui: gli aveva messo di fronte un costoso manuale sulle tecniche del fumetto, gli aveva fornito le stesse nozioni di Shlomit a proposito della prospettiva e del chiaroscuro, tutte cose che Larse già sapeva da un pezzo ma che sulle labbra di quell’uomo dal fascino sicuro parevano novità da ascoltare a bocca aperta, e alle quali votarsi per il resto dell’esistenza. Di seguito, l’insegnante lo aveva abbandonato un poco a se stesso, chiedendogli di realizzare una tavola che descrivesse il loro arrivo allo studio, la nebbia sulla strada, il terreno accidentato e la difficoltà di proseguire in auto.
            Larse si era messo all’opera con la devozione di un monaco incaricato di miniare, a lode e gloria di Herre Halvorsen, tutti e quattro i Vangeli in una sola sera. Voleva a tutti i costi stupire il suo maestro, desiderava ricevere da lui anche solo un decimo di quell’ammirazione che provava nei suoi confronti: si trovò addirittura a desiderare un’altra carezza di quelle mani così preziose, in grado di operare con tanta perfezione.
            Quando Herre Halvorsen si accorse della sua difficoltà nel disegnare l’auto in bilico nel pantano, si chinò su di lui e gli prese la mano per guidarlo: Larse sentì il tepore di quelle dita penetrarlo fin nelle ossa con un brivido. Si abbandonò a quella presa e si lasciò condurre, senza capire più cosa stava facendo ma desiderando solo che quell’istante continuasse all’infinito: e intanto assaporava l’aroma di menta del respiro di Halvorsen, con la coda dell’occhio ammirava la tessitura delle sue ciglia chine sopra di lui e sul foglio, e decideva che la sfumatura dei suoi occhi non era bruna come la corteccia degli alberi, bensì di un verde scuro che ricordava i pini che crescevano fitti attorno allo studio, separandoli dal mondo.
            Durante la prima lezione, Larse e il suo insegnante riuscirono a realizzare una tavola completa, e a impostarne altre due. Durante la seconda ne abbozzarono una, dal terzo incontro in poi non ne fecero nessuna.
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            -“Che succede, små mus? Lo sai come si dice: un soldino per i tuoi pensieri”-
            -“Non valgono così tanto”-
            -“Qualcosa ti preoccupa. È da quando sono arrivato che ti vedo con quell’aria da cane bastonato. Prima che me ne vada, dimmi cosa succede”-
            Seduti e intirizziti sotto alla pensilina in attesa della corriera che avrebbe riportato Indaco a Copenhagen, riconsegnandolo all’Accademia, alla bacchetta di Madame e alle urla terrificanti di iena Halle, i due amici si stringevano per sentir meno freddo: con un gesto inconsueto per lui, da sempre convinto che i gesti affettuosi non fossero roba da uomini, Indaco aveva posato il braccio sulle spalle di Larse, attirandolo a sé per convincerlo a parlare.
            Conosceva fin troppo bene il suo amico, e sapeva che stava nascondendo qualcosa: ed era triste, Indaco, triste per la partenza e perché indovinava che c’era turbamento nel cuore di Larse, un peso che l’amico non riusciva a confidare. 
            Il giorno prima, in realtà - un bel giorno dal cielo sgombro, che invogliava a uscire a far palle di neve come ai vecchi tempi - Larse era stato sul punto di raccontargli tutto. L’aria intorno era tersa come i ghiaccioli che scintillavano a penzoloni dai davanzali, e per il freddo che c’era non si riusciva a star fermi. Il sole, in quella stagione, riusciva a malapena a sparpagliare intorno una luce polverosa.
            Con la scusa di camminare per scrollarsi via il gelo e gli eccessi del pranzo di Natale, Larse aveva condotto Indaco fino al posto speciale: addentrandosi per i vialetti che gli spalatori avevano scavato come trincee, avevano camminato fin fuori dal paese, e di seguito nella pineta incappucciata dove si udiva, a tratti, solamente lo schiocco di qualche ramo spezzato.
            Alla luce del giorno che già iniziava lentamente a declinare, la rocca non aveva un aspetto sinistro: pareva solamente un luogo desolato, un ammasso di pietre sotto alle quali nessuno che avesse un briciolo di buon senso si sarebbe fermato neanche in caso di pioggia, per quanto appariva instabile e pericolante.
            Quando Larse, che lo precedeva, si era avvicinato alle mura con la stessa disinvoltura che avrebbe usato per entrare in casa sua, Indaco lo aveva acchiappato al volo per la giacca:
            -“Sei diventato scemo? Non vedi che sta su per miracolo, e solo a parlar troppo forte c’è il rischio che crolli tutto?”-
            Larse, che in sua presenza era sempre imbarazzato e non riusciva mai a levare gli occhi da terra, lo aveva guardato dritto, con un’aria che non prometteva niente di buono.
            Il suo viso era terreo.
            -“Io qui ci vengo sempre. Ci vengo tutti i giorni, qui, a disegnare”-
            -“Disegni fuori, al freddo?”- Indaco s’era guardato intorno, sconcertato.
            Nella radura che circondava la rocca c’erano solo i pini con i rami abbassati dal peso della neve: l’oscurità iniziava a salire dalla terra, portando via gli scampoli di quel sole troppo distante per far luce fino a tardi.
            -“Tra poco è buio, andiamo”- Indaco si stava già incamminando, e solo allora fece caso alle tracce di pneumatico lungo il vialetto che portava all’ingresso. La neve era stata spalata di recente e accumulata ai bordi, in modo da costruire una di quelle trincee candide che si vedevano anche in paese. Quell’anno, era venuta giù davvero senza risparmio.
            -“Ho spalato io qua intorno, se proprio vuoi saperlo”- gli fece eco Larse, che nell’ultima luce del giorno pareva ancora più livido, con certe occhiaie fonde che mettevano spavento.
            -“Si può sapere che succede? Hai una faccia da morto”-
            -“Vieni a guardare dentro”- Larse l’aveva spinto verso una finestrella che la neve alta portava a livello del suolo -“guarda qua, che bel posto. Io ci vengo ogni giorno”-
            Indaco s’era allungato per guardar dentro e aveva intravisto qualcosa dello studio: dalla penombra che avvolgeva l’interno emergevano, coi lunghi colli inclinati, le costose lampade a stelo, la sagoma di uno spazioso tavolo da disegno, il divano lunghissimo.
            Malgrado l’apparente stato di abbandono, la rocca celava un luogo raffinato e accogliente.  
            -“Me l’hai già detto, che vieni qui ogni giorno. E quindi? Beato te che vieni in un posto del genere”- e stava per aggiungere e a me che me ne frega, ma l’espressione dipinta sul volto dell’amico, in tutte le sfumature possibili del grigio, continuava a preoccuparlo.
            Larse aveva staccato un ghiacciolo che penzolava dal telaio della finestra, e l’aveva scagliato lontano:
            -“Hai detto bene, beato me. Proprio!”-
            -“Se non mi dici cosa succede, ti piglio a calci nel culo”-
            -“Mi manca solo quello”-
            Il gelo cominciava a mordere forte. Non c’era quasi più luce:
            -“Perfetto, come vuoi. Me lo dirai dopo”- Indaco aveva cominciato ad avviarsi, pensando che l’amico l’avrebbe seguito. Larse rimase un poco, e sentendosi meno a disagio senza gli occhi dell’altro puntati addosso, era quasi sul punto di iniziare a parlare. Ma invece delle parole gli uscì fuori un fiotto di vomito, e pochi istanti dopo Indaco lo reggeva mentre il pranzo di Natale finiva in volute calde, bollenti ai piedi di un albero. Dalla neve fusa saliva un odore di marcio.
            Con un’avventatezza che non riuscì mai a perdonarsi, Indaco pensò che la chiave di quel comportamento indecifrabile di Larse fosse il mal di stomaco, molto probabilmente un principio d’influenza:
            -“Andiamo a casa, subito”-
            L’aveva sorretto lungo tutto il tragitto, malgrado Larse fosse perfettamente in grado di camminare. Stare abbracciato a Indaco Hansen, sentire sulla guancia il suo fiato che usciva in nuvolette tiepide, se non era al primo posto era comunque ben piazzato nella classifica dei sogni proibiti di Larse: sicché in quel momento si stava realizzando qualcosa che non aveva mai osato sperare, neppure nelle sue fantasie più azzardate. Ma ora non gl’importava, anzi temeva che per effetto di quel contatto il suo amico finisse per scoprire qualcosa: che quel segreto che desiderava confidargli senza riuscire a trovare il modo, finisse per scappare fuori da solo.
            A un certo punto, l’aveva spinto via da sé in malo modo:
            -“Smettila con questi atteggiamenti da finocchi. Ce la faccio da solo”-
            Alla stessa maniera, il giorno dopo alla fermata s’era levato il braccio di Indaco dalle spalle:
            -“Dovevo immaginarlo che a furia di ballare diventavi uno di quelli”-
            -“Ancora con questa storia?”- Indaco aveva capito che quello era solo un modo per sviare il discorso. Cercò di tornare al punto:
            -“La corriera sta arrivando. Non hai altro da dirmi?”-
            -“E per giunta, da vecchio, sarai come la Madame Grisi”- andando a ripescare quella vecchia battura, Larse si era sforzato di ridere. Ma era livido in faccia anche più del giorno prima, e Indaco non poté fare altro che fissarlo costernato.
            La corriera, sbuffando, si fermò e pareva sul punto di sfasciarsi. Davanti a Indaco Hansen, si aprì la portiera. Salendo a capo chino, si sentì come se Larse lo stesse scacciando. Non c’era bisogno di avere gli occhi dietro alla schiena: tanti anni di amicizia e di condivisione erano sufficienti per sapere che Larse, dietro alle sue spalle, stava tirando un lungo sospiro di sollievo.
            La corriera ripartì, immettendosi nel traffico con quella sua andatura ondeggiante da pachiderma. Indaco si voltò indietro per salutare, ma la fermata era deserta.
 
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Capitolo 5
*** Atto quinto - Accanto a te è il mio riposo ***


“Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere
e che mi seguirà ovunque:
quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere
al di sopra della fatica
e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando,
 se ci si siede per lo sforzo,
se compatiamo i nostri piedi sanguinanti,
se rincorriamo solo la meta
e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci,
non comprendiamo la profonda essenza della vita,
 dove il suo significato è nel divenire e non nell'apparire”
(R. Nureyev, “Lettera alla danza”)
 
“Ci sono pugnali nei sorrisi degli uomini”
(W. Shakespeare, “Macbeth”)


 

5 - Atto quinto - Accanto a te è il mio riposo
 

            Al rientro all’Accademia, una sorpresa attendeva Indaco Hansen. La vigilia di Natale, nel corso di una gita in montagna con gli amici, Jens Lilin aveva subito un infortunio grave.
            Le cose erano andate più o meno così: un abete solenne, alto come una torre e dotato di rami flessibili e vigorosi, fatti apposta per reggere interi inverni di neve senza battere ciglio, aveva avuto la malaugurata idea di crescere in prossimità di una pista da sci. Sotto alla terra sdrucciolevole del pendio aveva piantato nodi di radici possenti e s’era abbarbicato con tutta la forza: senza pensare che, settantacinque anni dopo, Jens Lilin e i suoi compagni avrebbero avuto la brillante idea di lanciarsi in un fuoripista proprio da quel versante.
            L’elegante curva in piena velocità di Jens, detto anche Blu notte, era stata bloccata da un cumulo di neve che non voleva saperne di farsi spazzare via in modo prepotente, né di disfarsi in una sventagliata di fiocchi a far da coda e strascico a quell’impertinente. Quel blocco di neve solida, corposa e poco socievole mostrò i denti levigati di un lastrone di ghiaccio: Lilin ci cadde sopra con tutte e due le ginocchia, e a fermarlo ci pensò il buon cuore dell’albero.
            Dopo averlo aspettato per un pezzo a fondo valle, i compagni dovettero risalire la china per andare a recuperarlo. Ci misero più di un’ora di fatica improba, perché se la neve fresca era disposta a farsi cavalcare in discesa, in salita faceva sudare sette camicie: in più, non si sapeva da che parte Blu notte fosse andato a finire. A districarlo senza ulteriori danni ci pensarono gli uomini del soccorso alpino, arrivati sul posto con l’elicottero: due metri e novanta l’uno muniti di cinghie, collare cervicale, tavola spinale, coperte e metallina per evitare al malcapitato, che più blu di così non era mai stato, di finire i suoi giorni assiderato ai piedi dell’albero.
            Mentre si adoperavano intorno all’infortunato, aggiornando in tempo reale la centrale operativa sulle sue condizioni, i quattro del soccorso trovarono pure il tempo di fare una ramanzina a quegli sprovveduti: silenziosi e compunti, gli incauti amici di Jens s’erano radunati attorno al compagno adagiato sulla spinale, simili a una ghirlanda su un monumento ai caduti.
            Jens esibiva un volto di cera preoccupante, la temperatura corporea era di trentaquattro gradi, le sue ciglia irraggiavano minuti cristalli di ghiaccio.
            -“Siete degli imbecilli”- aveva espresso in sintesi il soccorritore più grosso, piantato e poderoso, quello che dava gli ordini perché era medico e capo di tutta la spedizione -“il vostro amico, qui, poteva lasciarci le penne”-
            Persino le imprecazioni più truci uscite dalla bocca di quegli uomini, mentre cercavano di cavar fuori Jens Lilin da un metro e passa di neve caduta dall’albero, e da quella che s’era tirata addosso in quella caduta rovinosa, erano fiori di campo in confronto a quelle che uscirono dalle fauci di iena Halle, non appena la notizia dell’infortunio arrivò all’Accademia.
            Le condizioni dell’infortunato erano preoccupanti, perché nella caduta aveva riportato la rottura dei legamenti di entrambe le ginocchia, oltre a un trauma cranico, il tutto complicato dal tipo B con cui conviveva dalla nascita: i risultati delle analisi sui fattori coagulativi fornirono esiti ben diversi da quelli presentati dallo stesso Jens Lilin alla visita d’idoneità all’Accademia.
            Herre Halle era furibondo: già solo con la danza a livello professionale quell’idiota di Lilin aveva rischiato grosso, e adesso in ospedale si stava giocando la pelle. Iena Halle si prese la briga di andare a trovarlo apposta per insultarlo: salvo rinunciare all’ultimo perché Jens riposava, il volto scavato e pallido in tinta col lenzuolo, e circondato da una tale quantità di fleboclisi che persino Halle ebbe timore di avvicinarsi.
            Tutti gli insulti con cui l’insegnante di danza avrebbe voluto omaggiare Jens Lilin, li riversò in uno sfogo epocale nel corso di un colloquio in direzione, alla presenza della Madame Grisi e di tutto lo stato maggiore. Relegato in un angolo, c’era anche Indaco Hansen:
            -“Che razza di coglione, maledetto imbecille! L’avessi qui, lo ammazzerei con le mie mani! Fottuta testa di cazzo!”- Halle alzava i toni e all’unisono tremavano i vetri delle finestre, la scrivania della direttrice e un’esile pianta in vaso che nessuno si ricordava mai di annaffiare. 
            Quattro piani più sotto, i membri dell’orchestra ormai lo conoscevano, così come gli allievi della scuola di canto e di recitazione: ormai nessuno saliva più a protestare o anche solo a vedere che cosa stava succedendo, anche perché nessuno ne aveva il coraggio.
            -“Va bene, va bene, Halle”- intervenne Madame, che ci teneva a mantenere uno straccio dl decoro di fronte al turista Hansen -“veniamo subito al punto, che qui il tempo stringe”-
            Indaco continuava a starsene in disparte, ben concentrato a reggere il muro con le spalle e a pensare a Jens Lilin nel letto dell’ospedale, dove anche lui andava a trovarlo ogni giorno: spesso aveva saltato persino qualche lezione per via di quelle visite, durante le quali si limitava a sedere al capezzale di Jens senza poter scambiare neppure una parola, perché l’amico era perennemente assopito. Oltre che per le condizioni di Blu notte, Indaco era preoccupato che in virtù di qualche congiunzione sfavorevole, o per qualche nefasta concatenazione di eventi, saltasse fuori che pure lui aveva alterato le analisi, perché non fossero d’intralcio alla sua carriera di étoile.  
            Si ritrovò a fissare la pianta in vaso semisepolta dalle scartoffie, una stella di Natale che già cominciava a seccare le foglie, e raggrinziva mestamente per la sete sopra alla scrivania della direttrice. Probabilmente si trattava di un dono che si stava spegnendo per l’incuria, come forse si era spenta la sua amicizia con Larse, come sicuramente s’era spenta la carriera da ballerino di Jens Lilin. Chissà se il suo amico sarebbe mai riuscito a riprendere a danzare, dopo il lungo recupero che lo attendeva e ammesso che riuscisse a salvare la pelle. Chissà se Larse Kruse, in quel preciso momento, si trovava nel suo posto segreto a disegnare o a spalare la neve: altre cose, Indaco Hansen non riusciva ad immaginarle, ma temeva che dietro agli sbalzi d’umore di Larse, ai suoi attacchi di vomito, al desiderio di confidarsi e poi fuggire ci fosse qualcosa di molto grave.
            Era completamente assorto nei suoi pensieri: non s’era neppure accorto che finalmente iena Halle aveva terminato di esprimere il proprio cordoglio nei confronti di Jens Lilin, urlando ai quattro venti con quella voce da bombardiere in attacco alla contraerea.
            Lo ridestò d’un tratto la stretta d’acciaio della Madame Grisi:
            -“Turista è mai possibile che tu stia nelle nuvole persino quando gli insegnanti ti parlano?”-    
            Il volto di Madame era corrucciato, ma sotto a quel cipiglio s’indovinava la gioia.
            Soltanto in quel momento, Indaco realizzò che la parte da solista principale nel balletto, in mancanza di Lilin, era stata affidata a lui, allievo appena tredicenne dell’Accademia.  

 
******
 
            Era la prima volta che Indaco Hansen metteva piede in un vero teatro: il saggio del primo anno, sulle note de “La danza delle Ore” di Ponchielli, con le piccole allieve di Madame che vestivano tunichette rosa, gialle e violette a seconda dei colori della luce del giorno, si era tenuto nell’aula magna dell’Accademia. Già in quell’occasione, a Indaco era stato affidato un piccolo ruolo, la parte della Notte da interpretare assieme ad altri due allievi della classe maschile.
            Insieme a Jens e a Søren aveva avuto la sua parte di lezioni supplementari: ma mentre per i due grandi ballare insieme alle bambinette del primo anno era poco più che uno svago, Indaco aveva il cuore che gli batteva forte.
            Il pubblico era composto prevalentemente dalle mamme delle sue compagne di corso, ma seduta su una poltrona presa a prestito in direzione, a conforto delle sue gambe sempre più malandate, c’era anche nonna Mette. All’inizio del balletto erano entrate in scena le più piccine, a interpretare le ore dell’alba che nasceva, vestite in tutte le sfumature del rosa e sotto l’occhio attento di Madame, che in un angolo controllava i movimenti con una semplice alzata di sopracciglia.
            L’esibizione si era conclusa senza troppi incidenti e alle piccole si erano unite le più grandi, tutte vestite di giallo e di bianco perché ormai era giorno fatto. Al tramonto avevano ballato altre ragazze vestite di viola e di azzurro; poi era giunta la notte ad addormentare tutte, ed era interpretata da quei tre ragazzi in calzamaglia nera. Dietro a quella calzamaglia, c’era tutta una storia.
            Il costume dei ballerini della notte, in teoria, avrebbe dovuto essere realizzato in altrettante sfumature di blu: ma per quanto riguardava Indaco, l’ordine si era perso in chissà quali meandri della sartoria del teatro.
            Come ai suoi compagni, anche a lui le sarte avevano preso le misure, riportandole su foglietti sparpagliati un po’ ovunque: il tempo di appuntarle, e subito sia le misure che l’ordine erano andati perduti nel caos di quel laboratorio pieno zeppo di stoffe, tutù appesi di tutti i colori del mondo, corti o lunghi al ginocchio, costumi per la lirica, maschere da teatro. Mentre una sarta con gli occhiali a catenella e un grembiule severo lo avvolgeva con il metro, Indaco s’era guardato intorno affascinato: poco più in là Jens e Søren, sghignazzavano, mimavano oscenità mentre le giovani assistenti del laboratorio, in ginocchio davanti a loro, rilevavano l’esatta misura delle gambe. Sopra di lui, file di armadi a muro e costumi da nobildonna, da principe e cavaliere, parrucche di ogni genere.
            Indaco aveva respirato per la prima volta l’odore del teatro: era un odore misto di segatura e di legno, di scarpette usurate e della stoffa che si usava per realizzare i costumi, del raso e del tulle; era ancora un leggero tepore di sudore che si mischiava a quello rovente delle luci di scena, e all’odore acre di compensato degli scenari.
            Indaco si era emozionato, al punto da far gli occhi lucidi: ma forse più di lui era emozionata la vecchia sarta, che a differenza delle assistenti, meno esperte ma più prudenti, aveva smarrito ordine e misure chissà dove. Fatto sta che nei giorni seguenti, mentre i costumi delle ore del giorno, della sera e dell’alba iniziavano pian piano a comparire sulla scrivania di Madame, accompagnate dai gridolini di gioia delle compagne, per lui non arrivava mai niente.            
            A due giorni dal saggio, finalmente Madame si era decisa a chiamare in sartoria:
            -“Turista, non ho parole”- aveva sbottato, esasperata -“riesci a fare disordine anche quando non è colpa tua!”-
            Alla fine, s’era deciso di mandare Indaco in scena così com’era, con la calzamaglia nera di tutti i giorni e una maglietta in tinta. Per solidarietà, gli altri due ballerini avevano rinunciato ai costumi di scena, sicché quell’anno la notte era stata buia e profonda nel vero senso della parola.
            L’esibizione dei ragazzi aveva ricevuto pochissimi applausi, perché il pubblico delle mamme non era lì per la danza, ma solo per ammirare le rispettive figliole.
            In compenso nonna Mette, non potendolo prendere sopra alle sue ginocchia, perché le ginocchia erano più invalide e doloranti di quelle di Jens Lilin, l’aveva fatto accomodare sul bracciolo della poltrona e l’aveva abbracciato stretto:
            -“Figlio mio, ti ho visto felice mentre ballavi, e questo è l’importante. Anche senza lustrini, ricordatelo sempre”-
            L’anno seguente, in occasione dello spettacolo dedicato alla leggenda di Heel Halwijn, che Madame aveva scovato in qualche vecchio libro noto soltanto a lei, tant’è che quella storia non la conosceva nessuno, di lustrini addosso Indaco Hansen ne aveva fin troppi: molto probabilmente, c’erano anche quelli dell’anno precedente. Con un lavoro certosino, eseguito in spirito di penitenza per espiare gli errori dell’anno precedente, la sarta aveva dovuto riadattare il costume, già eseguito su misura per Jens, tenendo conto del fisico meno massiccio del turista.
            Quell’anno, peraltro, Indaco era cresciuto così in fretta che a primavera la sarta aveva dovuto riadattarlo di nuovo, augurandosi di non dover rifare tutto a giugno:
            -“La vuoi smettere di crescere? Vuoi proprio farmi ammattire?”-
            In piedi davanti allo specchio di quel laboratorio sepolto nelle fondamenta del Teatro, illuminato a stento da lampadine appese a fili di polvere, Indaco s’era sentito calato più che mai nella sua parte di creatura scappata fuori da qualche abisso infernale: il costume consisteva in un’uniforme da cavaliere, e fin qui niente di male, con l’aggiunta di un mantello e due corna ritorte sopra alle orecchie, che di là proseguivano fino a diventare lunghissime e affusolate sopra alla testa.          
            Con quell’arnese addosso e il metro e ottanta che già aveva di suo, doveva stare attento a passare dalle porte per non doverci rimettere, per l’appunto, le corna.
            I compagni ridevano e facevano battute. Il suo senso del ridicolo era messo a dura prova, anche perché a tutto quell’apparato si aggiungeva un trucco pesante, riguardo al quale Indaco aveva subito messo in guardia la responsabile:
            -“Stia attenta, signora: non sono una donna”-
            Per età, la truccatrice avrebbe potuto benissimo essere sua madre, se solo sua madre non fosse partita chissà quando per il paese di chissà dove. Abituata ai capricci degli artisti, sia che fossero attori, cantanti o ballerini, non era tipo da farsi intimidire facilmente:
            -“Salute, ragazzino. Sei al secondo anno e già detti legge?”-
            -“Lei capisce benissimo che cosa intendo dire”-
            -“Chiudi gli occhi e anche il becco, e lascia fare a me”-
            Con in testa le corna e la matita intorno agli occhi, Indaco non aveva il coraggio di entrare in scena per la prova finale. Era anche preoccupato, e il suo stato interiore accresceva un cipiglio che, inaspettatamente, riscosse l’approvazione della Madame Grisi:
            -“Turista, finalmente sei entrato nella parte! Sei perfetto, non c’è che dire”-
            Ad angosciarlo, erano sia lo stato di salute di nonna Mette, che quell’anno non sarebbe stata in grado di assistere allo spettacolo, sia il fatto che da un pezzo non aveva alcuna notizia di Larse.
            Aveva provato a contattarlo più volte, ma in casa non c’era mai. E se questo combaciava con le sue abitudini solite, di mezzo c’era stata una novità che l’aveva turbato. Era una novità che risaliva a mesi addietro, quando erano ricominciate le lezioni dopo la breve pausa delle vacanze di Natale.
            Una sera, inaspettatamente, il suo telefono cellulare, quello che nonna Mette gli aveva regalato per qualsiasi evenienza, aveva cominciato a suonare. Indaco, che era in doccia, era scappato fuori nudo così com’era: col bagnoschiuma che gocciolava da ogni parte e il cuore in gola al pensiero che a casa fosse successo qualcosa.
            -“Pronto, nonna, sei tu?”-
            Attendendo una risposta - che peraltro non era giunta, perché dopo un lunghissimo minuto di silenzio il suo interlocutore aveva riattaccato, Indaco aveva fissato la parete di fronte: il grande orologio a muro, che insieme a due vecchie stampe di paesaggi invernali arredava la sua stanza nel pensionato, segnava quasi le undici. Un orario insolito per qualsiasi chiamata che non fosse il preludio a un evento spiacevole - infarto, morte, incidente. Sul display non compariva il numero da dove era partita quella strana telefonata. Angosciato, Indaco Hansen aveva chiamato in paese buttando giù dal letto la vicina di casa, perché andasse a controllare che Mette fosse viva e vegeta.
            In seguito, più tranquillo, aveva realizzato che solo tre persone erano a conoscenza del suo numero di telefono: Jens Lilin, che al momento era ancora in rianimazione più morto che vivo; la nonna e Larse Kruse. Il cerchio si stringeva, ma ci vollero ancora numerose chiamate prima che Indaco si decidesse a rispondere senza filtri, ben sapendo chi c’era all’altro capo del filo:
            -“Larse, sono qui, dimmi”-
            Il misterioso interlocutore non rispondeva, e i primi tempi Indaco, per liberarsi almeno di un timore su tutti, chiamava nonna Mette che puntualmente era in casa, in coda alla posta o al mercato.
            La donna, a sua volta, si allarmava:
            -“Malthe, ma che succede? Ti sento strano, per caso è successo qualcosa?”-
            Indaco decise di tener la nonna fuori da quello scompiglio, per non farla preoccupare col rischio che qualcosa le accadesse sul serio. Si concentrò su Larse, rivolgendosi a lui che certo lo ascoltava da dietro a quel muro di silenzio:
            -“Larse, sono qui, se vuoi parlarmi. Se invece non vuoi”- Indaco non si azzardava neppure a pensare che l’amico, in realtà, non potesse parlare -“se tu non vuoi, Larse, sappi che io sono qui e per te ci sarò sempre. Non avere paura, amico mio, non ti lascio. Qualunque cosa stia succedendo in questo momento”- qualche volta la commozione gli faceva tremare la voce, o forse era solo panico.
            Non sapeva se era il caso di chiamare a casa di Larse e parlare con sua madre.
            Telefonò a suor Diletta, ma la buona suora era partita in missione, e non c’era maniera di contattarla in quel villaggio dell’Africa dove ora dirigeva una piccola scuola.
            Intanto il tempo passava, e le telefonate silenziose continuavano. Finché proprio la sera delle prove finali, a meno di ventiquattr’ore dal debutto, all’altro capo aveva risposto una voce di donna, che si sforzava di mantenere un distacco cortese ma che era chiaramente preoccupata quanto lui:
            -“Parlo con Malthe Hansen? L’amico di Larse Kruse? Sono la sua insegnante di disegno. Scusa se ti disturbo, ma non riesco in nessuna maniera a contattare Larse. Ha saltato diverse lezioni, e sua madre mi ha detto che è a venuto a Copenhagen per assistere al tuo balletto. Puoi passarmelo, per favore?”-
            Indaco si era sentito gelare. Gli era occorso un attimo per riprendere il fiato, poi dalla gola che gli bruciava per lo spavento era riuscito a cavare solo cinque parole:
            -“Signora, io non so dov’è”-
            Quella sera, Indaco Hansen e Shlomit Abramovich avevano parlato a lungo, cercando di far quadrare quel poco che sapevano e provando a dargli un senso.
            Shlomit aveva chiamato più volte la madre di Larse, che non era mai in casa, sempre occupata in fabbrica o in giri di pulizie.
            Una volta aveva parlato con la sorella, che molto le aveva detto riguardo ai cambiamenti nel carattere di Larse, oltre al fatto che il ragazzo rientrava sempre tardi, sempre per via di quelle lezioni di disegno: sì, aveva un nuovo insegnante, un signore distinto che almeno un paio di volte lo aveva accompagnato a casa con l’auto. Un uomo molto galante, educato, cordiale: a differenza di Larse, che rispondeva a monosillabi ed era sempre intrattabile. La madre non sapeva più da che parte prenderlo, e spesso non ne aveva neanche il tempo.                 
            Dopo molti tentativi, perché oltre ad avere sale in zucca da vendere era anche molto tenace e perseverante, finalmente Shlomit era riuscita a parlare con la signora Kruse. Dopo aver ascoltato per un buon quarto d’ora le lamentele della donna, aveva appreso che Larse al momento non era in casa: fin qui, niente di nuovo. La novità era che il suo insegnante si era offerto di accompagnarlo a Copenhagen, per assistere al debutto del suo amico d’infanzia, Indaco Hansen.
            All’inizio, la signora non era stata affatto d’accordo, perché non esisteva che un ragazzo di tredici anni se ne andasse in giro così, con estranei. Ma poi, a ripensarci, aveva convenuto che quel signore era veramente gentile a occuparsi di Larse, che senza le lezioni di disegno il ragazzo sarebbe stato abbandonato a se stesso, tutto il giorno per strada come tanti nel suo quartiere: lei stessa non aveva tempo di portarlo - figurarsi - a teatro, ma con Indaco c’era sempre stata un’amicizia che risaliva all’infanzia, sicché alla fine le era sembrata una buona cosa che questo galantuomo si prestasse ad accompagnarlo con la sua bella auto.  
            La signora, peraltro, le aveva fornito il numero di cellulare di Larse, perché da qualche tempo il ragazzo possedeva un apparecchio di ultima generazione, anche se erano più le volte che lo teneva spento di quelle in cui era raggiungibile. Ma sa come sono i ragazzi, aveva aggiunto la madre, Larse poi ultimamente è sempre di cattivo umore, sarà che sta crescendo, sarà che da poco è morto suo nonno: sì, viveva con noi, e Larse ci era affezionato in modo particolare. Era malato da tempo, e anche per lui io ho fatto il possibile.
            Con molto tatto, Shlomit aveva cercato di ottenere dalla signora il numero di Larse, e anche quello di Indaco. In breve, si era accorta che almeno su una cosa frue Kruse aveva ragione: anche se qualcuno aveva provveduto a dotarlo di un cellulare ultimo modello, Larse era introvabile.
            Quanto a Indaco, frue Kruse disponeva soltanto del recapito di Mette: siccome Shlomit non era tipo da arrendersi, e le notizie apprese riguardo al suo allievo le piacevano sempre meno, aveva ritenuto opportuno contattare la nonna Mette, e di seguito quel ragazzo che così spesso aveva veduto nei ritratti eseguiti dalla mano - all’epoca felice - di Larse Kruse.
            Mentre Shlomit parlava, Indaco non poteva fare a meno di pensare a quel vecchio rudere, apparentemente disabitato e pericolante, che dentro di sé celava un appartamento di lusso: quel posto segreto che l’amico l’aveva portato a visitare il giorno di Natale, verosimilmente con l’idea di confidargli qualcosa. Chissà se Shlomit conosceva quel posto. Si trovava più o meno a un miglio dalla statale, in una radura dove non c’era nient’altro - soltanto pini e neve a perdita d’occhio, nessuna illuminazione, e un freddo tale che a Larse, quel giorno, si era scombussolata la pancia: il pranzo di Natale s’era bloccato a mezza strada, al punto che il ragazzo s’era piegato in due a vomitare.
            Secondo Indaco Hansen, e questo nessuno poteva levarglielo dalla testa, in quel preciso momento Larse era là, tra le lampade a stelo dal lungo collo ricurvo, il tavolo da lavoro simile a una piazza d’armi, il divano spazioso con i cuscini candidi: quel che era certo, era che Larse Kruse non era insieme a lui, e forse non era mai arrivato a Copenhagen.

 
******
 
            Il brusio del teatro che iniziava a riempirsi saliva fino al palcoscenico, si mescolava all’odore del legno lucidato da generazioni di scarpette da punta, da salto, dal fruscio delle stoffe preziose dei costumi, dall’incandescenza delle luci della ribalta: dietro al sipario, dove un gruppo di piccole allieve già in costume si affacciava a cercare tra il pubblico le mamme, i tecnici eseguivano gli ultimi controlli sulle scenografie, gli addetti alle luci trascinavano cavi e apparecchi nell’ombra, la voce di Madame risuonava per ogni dove.
            Nei camerini riservati ai ballerini, herre Halle arringava i suoi ragazzi come un colonnello prima della battaglia: disciplinati e sull’attenti, i grandi erano già pronti a entrare nella scena del primo atto, dove una danza di cavalieri e damigelle avrebbe introdotto il pubblico nel castello di Maghtelt. A seguire, sarebbe scesa la notte con le allieve di Madame a interpretare le creature del bosco: civette e falene, ma anche lucciole dotate di code fosforescenti, avrebbero danzato insieme alla luna e alle stelle.
            Dal suo camerino, mentre la sarta dava gli ultimi ritocchi al costume di scena, e mentre la truccatrice già lo aspettava al varco con ceroni e matite, Indaco osservava tutto quel movimento, lasciandosi contagiare dall’eccitazione delle bimbe che ogni tanto si affacciavano a salutarlo, e scoppiavano a ridere ogni volta che gli vedevano in testa quelle corna che ogni volta, a indossarle, parevano più lunghe e affilate. A intervalli, si affacciava qualcuno dei grandi, pavoneggiandosi nel suo costume da cavaliere:
            -“Turista, poi ci dirai chi te le ha fatte spuntare, quelle: caspita, se son lunghe!”-
            -“Vai turista, a testa alta, e il resto in proporzione”-
            La sarta sbuffava scrollando i suoi occhiali a catenella come un cavallo innervosito dalla cavezza: ad arrivare a giugno Indaco era cresciuto di altri due centimetri, e non solo in altezza. Due centimetri in realtà son poco più di niente, ma come per far dispetto si erano equamente ripartiti sulle spalle, avevano stretto i fianchi e allungato il torace, avevano affusolato ancora di più le gambe.
            -“Diventerai un bell’uomo”- aveva detto la truccatrice iniziando a rimestare il suo barattolo di cerone, al solo ed evidente scopo di mettere fretta alla sarta:
            -“Bell’uomo un corno!”- le aveva risposto quell’altra, la bocca piena di spilli col rischio di inghiottirli. Alzando gli occhi a osservare il lavoro finito, subito s’era corretta:
            -“Un corno… anzi, due!”-
            In quel momento s’era affacciata la Madame Grisi, vestita a festa: in giacca e gonna scura, una spilla preziosa e l’immancabile chignon da étoile in cima alla testa, pareva anche lei pronta ad entrare in scena, anche perché aveva gli occhi lucidi ed era più elettrizzata dei suoi allievi.
            -“Ci siamo, turista: sei emozionato?”- l’anziana maestra si era avvicinata, e aveva dato a Indaco un buffetto sulla guancia. Indaco aveva l’impressione di muoversi dentro a una bolla di sapone, che splendeva di mille colori e di suoni, ma che era anche fragile e sul punto di rompersi: si sentiva sulle spine, preoccupato di non riuscire a ricordare i passi e ad eseguirli bene, malgrado li avesse ripetuti più volte durante le prove. Si sentiva impacciato da quel costume da uccellaccio del malaugurio, ma soprattutto sapeva che in fondo a tutto covava, come la brace sotto alla cenere, la preoccupazione per Larse. Quel giorno il telefono, che lui teneva sempre a portata di mano, non aveva squillato neppure una volta.
            Di fronte a Madame, aveva sollevato le braccia in un gesto di resa, stendendo quel mantello da conte di Transilvania:
            -“Mi sento orripilante”-
            -“È quello che ci vuole”- aveva replicato, serafica, Madame - devi essere orribile: sei Heel Halwijn, il signore delle tenebre, mica il principe Siegfried del Lago dei Cigni. Per quello, devi crescere. Magari l’anno prossimo, se ti comporterai bene”-
            Poi di colpo Madame aveva cambiato faccia: gli occhi le luccicavano, non più per l’entusiasmo ma per la commozione. Aveva abbracciato Indaco, per lo meno fin dove riusciva ad arrivare perché era minuta, e nel cupo mantello di Heel Halewijn lei ci spariva tutta:
            -“Mi raccomando, Hansen”- lo chiamava per nome, e questo significava che ciò che aveva da dire era fondamentale -“l’importante non è ricevere gli applausi, l’importante è danzare. È essere felici di farlo, in palcoscenico come nella più squallida sala prove. Se tu possiedi questa felicità, come l’ho avuta io e la conservo ancora, sarai un uomo felice. Potrai non avere fortuna, quella è una conseguenza e non dipende da noi, però dovunque andrai ti sentirai realizzato, perché porterai sempre con te la tua danza. I passi li conosci, tutte le correzioni ormai le hai assorbite, non ti manca nient’altro: vai e non pensare al pubblico, perché su quel palcoscenico ci sarete soltanto tu e la tua arte”-
            Indaco era commosso, e a quel punto era intervenuta la truccatrice:
            -“Adesso tocca a me, e guai a te se piangi, che la matita non tiene!”-

 
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            Nello zaino di Indaco - sepolto in mezzo a vecchie calzamaglie sudate, ricambi di scarpette, magliette alla rinfusa - il telefono cellulare aveva cominciato a suonare.
            Seduto a faccia in su, sottoposto all’attacco in massa di cerone, ombretti e matite Indaco aveva accennato a un guizzo per alzarsi e rispondere, ma la truccatrice l’aveva bloccato all’istante, brandendo una matita pericolosamente appuntita:
            -“Adesso, per favore, mi lasci lavorare”- l’aveva minacciato -“si va in scena tra mezz’ora, e io devo truccare altri quattro ragazzi. Guai a te se ti muovi”-
            Aveva dovuto attendere la fine di quella complessa operazione, e quando finalmente la donna aveva recuperato tutto il suo armamentario di colori e pennelli, ed era corsa in fretta fuori dal camerino, Indaco detto il turista s’era potuto alzare: il tempo di guardarsi di sfuggita allo specchio - era irriconoscibile, più che un essere demoniaco somigliava a una donna, per giunta a una donna brutta - e subito il cellulare segregato in fondo allo zaino aveva ricominciato a suonare.  
            -“Larse, sono io, parlami”- nella fretta di rispondere, il mantello si era impigliato in un chiodo, uno di quei chiodi piccoli che sporgono di fuori e non si sa mai a che servono, se non a far danno: in quel caso, e per la foga, il mantello s’era strappato. Cominciamo proprio bene, avrebbe detto la Madame Grisi.
            Per la prima volta, qualcuno gli rispose all’altro capo di quell’ennesima, misteriosa chiamata: non era la voce di Larse come lui la conosceva, neppure quella sempre un po’ sostenuta ma cortese di Shlomit. Più che una voce, era un pianto: lunghissimo, disperato.
            A Indaco Hansen, corna permettendo, si rizzarono i capelli. Il suo corpo, da ogni parte, cominciò a spillar fuori un sudore di ghiaccio:
            -“Larse”- sotto a quel fiume in piena di singhiozzi strazianti, aveva riconosciuto a voce del suo amico -“Larse, dove ti trovi? Che succede, små mus?”- era lo stesso pianto che conosceva bene, per averlo sentito più volte quando Larse cadeva dalle scale, durante le loro scorribande infantili in cortile, o quando qualche spavaldo gli si faceva innanzi e strappava i suoi disegni, e allora lui, Indaco Hansen, partiva al contrattacco e giù botte da orbi: e mentre Larse ancora piangeva angosciato - stavolta per le sorti incerte della battaglia - Indaco riportava, fierissimo, dallo scontro, almeno due o tre lividi insieme alla vittoria. Perché Indaco amava profondamente Larse, e guai a chi lo toccava: E questa regola, crescendo, non era venuta meno: valeva anche in quel momento, adesso più che mai.
            -“Små mus, dimmi dove ti trovi e io verrò a prenderti. Non m’importa del balletto, non m’importa un cazzo di niente. Dimmi dove ti trovi, små mus, per favore”-
            Ma il pianto era cessato, con uno scatto lieve a indicare che la comunicazione era stata interrotta.
            Indaco chiuse gli occhi: non sapeva che fare, ma dal suo corpo ebbe subito la risposta.
            Il suo corpo abituato a rispondere subito agli stimoli della musica, e con cui si sentiva profondamente in contatto, la sua mente in cui da sempre risuonava una melodia incessante, adesso lo guidavano: in testa non aveva pensieri né incertezze, i tendini erano tesi, i muscoli pronti all’azione. Si risolse ad agire, e lo fece immediatamente.
            Riprese in mano il telefono, formò quel numero di tre cifre che nonna Mette gli aveva insegnato a tenere a mente fin da bambino. Dall’altro capo gli rispose una voce ferma:
            -“Polizia di stato”-
            Mancava un quarto d’ora all’entrata in scena, e dalla platea già si udivano i primi applausi.
 
******
 
            -“Mi porti per favore al paese di Y. Le dirò io dove fermarsi”-
            Una mano sul volante, l’altro braccio appoggiato sullo schienale del posto di guida, l’aria di chi ha a disposizione tutto il tempo del mondo, il tassista si era voltato a guardarlo in faccia. Era un uomo bonario, di mezza età e con la pancia, molto simile a un Babbo Natale in versione estiva: con la camicia a quadri e gli occhiali da sole in bilico sulla pelata, al posto della consueta casacca col pelo bianco e in spalla il sacco dei doni.
            -“Il paese di Y. è a due ore da qui”-
            L’abitacolo era avvolto da un leggero tepore di resina e mentolo, che proveniva da un alberello che pendeva dal retrovisore interno. Dal cruscotto, una musica leggera di sottofondo, il classico tormentone che li avrebbe accompagnati durante tutta l’estate.
            -“Partiamo, per favore”- Indaco si stringeva nella felpa, a disagio. Solo allora si accorse che nella fretta di rivestirsi, buttandosi addosso gli abiti alla rinfusa, aveva dimenticato di levarsi la calzamaglia del costume di scena. Ed ecco perché l’autista, trovandosi di fronte a quello strano soggetto con il volto truccato e le gambe inguainate in quel tessuto aderente, che alla luce creavano mille curve e riflessi, era quanto meno perplesso.
            -“Fino al paese di Y. sono un sacco di soldi, signorina… ragazzo”-
            -“Sono uno del teatro”- Indaco aveva capito che era meglio tagliare corto -“ho il denaro che serve. Quindi, o lei mi porta o chiamo un altro taxi”-
            -“Ci mancherebbe, agli ordini”-
            Il taxi finalmente si mise in movimento, infilandosi senza rumore in mezzo al traffico.
            Indaco appoggiò il capo sullo schienale, cercò di rilassarsi ma gli veniva da piangere: per se stesso, stavolta, e per quello che si era lasciato alle spalle.
            Sul quadrante elettronico collegato al tassametro, rettangoli di luce formavano le ore ventuno precise: da almeno un quarto d’ora lo spettacolo sarebbe dovuto iniziare, ma era stato sospeso dopo che uno dei protagonisti principali aveva deciso in punto e in bianco di andarsene.  
            Quando la Madame Grisi era venuta a saperlo, gli aveva sguinzagliato alle calcagna iena Halle. Questi si era precipitato nel suo camerino alla velocità di una raffica di mitragliatrice, furioso come non mai: davanti alla falcata con cui herre Halle arrivava di spinta, gli altri allievi s’erano fatti da parte ed era tutto un fuggi fuggi di damigelle, cavalieri in teoria senza macchia e senza paura, lucciole con le loro code fosforescenti, coniglietti, civette e altre creature del bosco.
            -“Cazzo succede, Hansen!”- con il garbo consueto, iena Halle aveva approcciato di petto l’allievo -“te la faccio passare io, la paura del palcoscenico! Vuoi mandare a puttane il lavoro di tutti? Bada che non c’è un sostituto, fottuto rottinculo!”-
            Indaco aveva fronteggiato l’assalto:
            -“Devo andare, herre Halle. Un mio amico sta male”-
            Halle l’aveva guardato trasecolato:
            -“Il tuo amichetto sta male? Cazzi suoi, se gli brucia il culo. Sentimi bene, Hansen…”-
            -“No, invece mi ascolti lei”- Indaco gli si era parato dinanzi, e non era mai stato così deciso: aveva iniziato a togliersi il costume e a rivestirsi in fretta. In breve, aveva spiegato all’insegnante ciò che stava accadendo: la scomparsa di Larse, le strane telefonate, il posto segreto.
            Alla fine, persino iena Halle sembrava disorientato. Capiva, ma d’altronde c’era in ballo lo spettacolo:
            -“Lo spettacolo si può sospendere”- aveva detto Indaco, mentre qualcosa, dentro di lui, singhiozzava. Aveva una terribile voglia di mettersi a piangere -“oppure potete fare senza di me. Per quel che mi riguarda, io devo andare”-
            -“Non essere irragionevole, Hansen”- aveva detto iena -“lascia che a queste cose ci pensi chi di dovere. Non fotterti con le tue stesse mani”-
            Già pronto per uscire, Indaco gli si era fatto dinanzi. Con la sua mole, Halle gli bloccava l’uscita:
            -“Se fai un passo, sei fuori”-
            Indaco aveva ricacciato le lacrime. Di nuovo, non sapeva cosa era meglio fare. Di nuovo, la mente e il corpo decisero per lui. Con una spallata respinse via da sé l’insegnante:
            -“lo so bene, signore”-
            Un passo, ed era fuori.
******
 
            Per un poco avevano continuato a viaggiare in silenzio.
            Babbo Natale alla guida, Indaco stretto a sé stesso dentro alla felpa, la testa sullo schienale, lo sguardo che si perdeva fuori dal finestrino.
            La campagna scorreva, nell’oscurità che iniziava a farsi profonda e poi d’un tratto fu livida, finché si aprì all’orizzonte facendo scaturire un lampo improvviso: un guizzo silenzioso, che sussultò illuminando una campagna bassa, l’ala bianca di una casa colonica, cumuli di nubi cariche di pioggia nera. A quella prima saetta ne seguirono altre, come quando compare il primo ballerino e illumina la scena, e poi seguono gli altri.
            L’abitacolo dell’auto conservava il suo tepore di menta e resina, ma l’alberello appeso allo specchietto retrovisore iniziava già a oscillare, preso da un filo d’aria che lo buttava qua e là: alla stessa maniera con cui, nella pineta che iniziava oltre il fiume, il vento piegava fino a terra gli alberi giovani, quelli che non avevano sufficiente forza nel fusto, e li spogliava delle foglie a manciate, gettandole fin sulla strada. E si agitava, il vento, rasoterra levando mulinelli di polvere, altre foglie strappate, e più in alto faceva galoppare le nuvole, una di sopra all’altra fino a che un altro lampo le ricacciava indietro, aprendo lunghe crepe.
            Un brontolio lontano.
            -“C’è il diavolo in carrozza che porta a spasso sua moglie”- diceva nonna Mette quando il vento iniziava a spazzare la terra gelido, a rivoltarsi contro ai muri delle case e a ritornare indietro, segno sicuro di un temporale in arrivo. Allora Indaco e Larse - perché c’era sempre Larse accanto a lui nell’infanzia, a scuola, in cortile - si attaccavano alle sottane di nonna Mette e la seguivano in giro per la casa a chiudere le finestre: sobbalzando man mano che il buio aumentava e i primi tuoni arrivavano, mugolando e ringhiando come grossi cani randagi.
            -“Tutto bene, ragazzo?”- Babbo Natale lo scrutava  guardingo, un occhio alla strada e l’altro allo specchietto retrovisore interno -“ormai ci siamo quasi. E c’è anche un bel temporale che ci viene dritto incontro”-   
            Sul vetro del finestrino, prima del temporale veniva incontro a Indaco uno strano volto di donna, truccato pesantemente e dall’aria impaurita: lunghe tracce nerastre gli attraversavano le guance, colate dalle lacrime che continuavano a scendere senza riuscire a fermarle: ed erano lacrime per Larse che chissà dove piangeva a sua volta disperato, lacrime per sua madre che chissà dove ci viveva e per lui non aveva mai tempo, per nonna Mette che non era più in grado di assistere ai suoi spettacoli; lacrime per se stesso che, molto probabilmente, sarebbe stato espulso dall’Accademia, e forse già lo era, anche se ancora non ne era al corrente.
            Immerso nei suoi pensieri, Indaco continuava a guardare dal finestrino: quel vento spietato cominciava a dar colpi contro la carrozzeria, e sembrava avere la forza di scaraventarla fuori strada con un calcio. Eppure l’auto continuava a procedere liscia, senza nessun rumore, sulla statale deserta.  
            D’un tratto, alla sua sinistra, nella pineta immersa nell’oscurità della notte, vide accendersi una sequela di luci accompagnata da una coda perforante di allarmi sonori:
            -“Ambulanze e polizia, sarà un bell’incidente. Strano, perché non mi pare che là ci sia una strada”-
            Indaco riconobbe all’istante il punto esatto in cui la statale deviava verso il sentiero sterrato che aveva affrontato con Larse, in quel pomeriggio invernale.
            -“Per di là, grazie”-
            Babbo Natale accostò, dopo di che si voltò a guardarlo dritto in faccia:
            -“Giù per di là non c’è niente, ragazzo. E comunque non posso andarci con il mio taxi”-
            Indaco si ricordò delle impronte di pneumatico che aveva notato davanti all’antica rocca riadattata a posto segreto:
            -“Sì, che ci si può andare”- inventò sul momento -“i miei ci vanno sempre, con l’auto”-
            Babbo Natale continuava a non essere del parere. Guardava la strettoia che s’incuneava a tornanti stretti nella boscaglia, i rami così bassi che non attendevano altro che di graffiargli la carrozzeria in lungo e in largo:
            -“Non se ne parla, ragazzo. Non con il mio taxi”-
            Per essere più chiaro, scese dalla vettura e andò ad aprire lo sportello del passeggero. In quel momento, un’auto a sirene spiegate si stava giusto infilando a capofitto per la sterrata, sparendo nell’intrico di ramaglie e siepi basse. Il lampeggiante sopra al tetto della vettura continuò a balenare per un lungo tratto, apparendo e poi scomparendo tra gli arbusti. Indaco si ricordò a malapena di pagare la corsa, poi si precipitò a capofitto verso il sentiero, incurante del buio, dei lampi che continuavano a riempire il cielo di crepe, delle prime gocce di pioggia che iniziavano a cadere.
            Dietro di lui, sul ciglio della strada con lo sportello del passeggero ancora aperto, Babbo Natale provò a richiamarlo indietro:
            -“Ma dove vai, ragazzo! Non c’è niente, laggiù!”-
            All’improvviso, dinanzi a lui si fece giorno: Indaco pensò a un lampo più abbagliante degli altri, ma dovette ricredersi. All’improvviso comprese il perché della strana luminescenza che aveva intravisto dalla strada, ora che il vento gli portava un odore forte di legna che bruciava, e addirittura scampoli di quello che pareva tessuto incenerito. Si fece avanti, fino al cuore della radura: là, circondata da un camion dei vigili del fuoco indaffarati a predisporre gli idranti, auto della polizia e almeno due ambulanze, il posto segreto ardeva simile a una candela, in preda a un violento incendio.

 
******
 
            Dalla bottiglia di vetro della fleboclisi scendeva un liquido limpido. Accanto, una grande sacca di un bianco lattiginoso conteneva una nutrizione parenterale. Stampati ordinatamente su un lato, il nome del preparato e di seguito i componenti in percentuale: lipidi, carboidrati, amminoacidi ed elettroliti. Stringendo a Larse la mano che l’amico teneva distesa lungo il fianco, e su cui un cerotto fermava entrambi i deflussori, Indaco fissava i contagocce che, in sincronia, facevano scendere i liquidi fino a un grosso cerotto che manteneva l’accesso in sede. Solo un istante prima, e dopo lungo tempo, Larse si era destato, aveva aperto gli occhi: ma Indaco non sapeva se l’aveva riconosciuto.
            Ad ogni buon conto, continuava a parlargli, come già aveva fatto al tempo delle lunghe e silenziose telefonate con cui Larse aveva tentato più volte di spiegarsi, senza mai avere il coraggio.
            Era successo tutto talmente in fretta, che Indaco ancora faticava a raccapezzarsi: l’incendio e la distruzione totale del posto segreto, raso al suolo in un cumulo di lapilli e di cenere che aveva continuato a spargersi per giorni, sollevata dal vento e portata per il bosco, fino quasi al paese. Il nubifragio che s’era scatenato d’un tratto, quando Indaco si trovava ancora a mezza strada, aveva per lo meno impedito all’incendio di estendersi alla pineta, dando luogo a un disastro.
            A quanto risultava, l’incendio era stato appiccato all’interno del lussuoso appartamento interamente rivestito di legno: di là era dilagato rapidamente all’esterno, divorando in un solo boccone i preziosi parquet lucidi, le travi del soffitto in stile rustico, i bei volumi d’arte, il tavolo e il lunghissimo divano su cui il proprietario si era appisolato durante una pausa del suo lavoro.
            Con tutto quel ben di Dio a sua disposizione, il fuoco era andato a nozze: aizzate dalla dose di solventi per vernici che Larse Kruse aveva sparso ovunque in un tripudio di catastrofe, le fiamme erano divampate piroettando come prime ballerine sul palcoscenico, ed Herre Halvorsen s’era tramutato in una torcia insieme al suo divano, ai volumi stampati da editori di prim’ordine, alla tavole viziose della sua ultima opera, ultima in senso stretto, data la situazione.
            Larse s’era salvato per un pelo e per miracolo, trascinato di peso dai vigili del fuoco che erano riusciti a entrare nello studio solo un attimo prima che le travi cedessero, con uno scricchiolio che aveva anticipato di pochissimi secondi il crollo definitivo.
            Aveva riportato ustioni gravi: Indaco era riuscito a vederlo solo per un brevissimo istante, mentre due marcantoni in uniforme ignifuga lo conducevano fuori e subito veniva preso in carico dai soccorritori dell’ambulanza. Per quel che ne sapeva, di Herre Halvorsen non s’erano trovate neanche le ossa: il fuoco se l’era mangiate a quattro palmenti insieme ai suoi disegni, né c’era stato modo di cavarlo fuori da quell’inferno per tempo: Larse era stato appena adagiato sulla barella, i vigili del fuoco che l’avevano tratto fuori si stavano ancora spolverando la faccia appiccicata e arsa da quel fumo bruciante, che il tetto del posto segreto era crollato, con buona pace di tutto quello che c’era dentro. Nei giorni successivi, s’era scavato a lungo in mezzo ai detriti, erano saltati fuori brandelli di tendaggi, fodere di divano, persino pezzi di tavole disegnate a china con quel tratto vigoroso, affascinante e sicuro: tutto s’era trovato ed era venuto alla luce, tranne i resti umani di Herre Halvorsen, che a quanto pare era scomparso in una spirale di fumo alla stessa maniera con cui Heel Halewijin, l’oscuro cavaliere della leggenda, s’era squagliato in una pozzanghera di marciume ed era stato ingoiato dalle profondità della terra.
            Indaco si sentiva profondamente stanco: posò il viso sopra al cuscino di Larse Kruse, che proprio in quell’istante aprì gli occhi e girò il capo, lentamente e per quanto gli consentivano le forze: aveva il volto ustionato, i capelli inceneriti fino alle radici, ma la frangia sempre spettinata di Indaco era un’onda fresca, e gli donava sollievo:
            -“Indaco”- mormorò -“da quanto sei qui?”-
            -“Non me ne sono mai andato, amico mio, små mus”-
            -“Com’è andato il tuo debutto in teatro?”-
            Indaco si sforzò, ma riuscì a malapena a stirarsi sul volto mezzo sorriso triste:
            -“Diciamo che è stato rimandato a data da destinarsi”-
            -“Mi dispiace, turista: avrei tanto voluto essere là ad applaudirti. Me lo aveva promesso, ma poi non ha voluto”- Larse socchiuse gli occhi, parlava con fatica -“a quel punto ho perso la testa. Non ne potevo più”-
            -“Adesso è finita. Stai tranquillo, små mus”-
            Indaco continuava a stringergli la mano, a tenere il suo capo posato sul cuscino, accanto al suo amico. La lunga sera estiva cominciava già a tingersi d’arancio, e un alone dorato di pulviscolo filtrava attraverso le tapparelle. Indaco era spossato, ma il suo corpo gli comunicava un senso di soddisfazione e di pienezza: la mente era svuotata, ma tutto sommato serena.
            -“Hai l’aria stanca, forse dovresti riposare anche tu un poco”- gli sussurrò Larse.
            -“Accanto a te è il mio riposo”- mormorò Indaco, rilassato e a occhi chiusi.
            Fuori, il sole di giugno si scioglieva in un orizzonte di nubi rosse e viola, un tramonto sontuoso e immerso in un perfetto silenzio. 
            Nella stanza ugualmente silenziosa del reparto grandi ustionati, l’immagine di Larse disteso nel letto con accanto a sé Indaco, i due visi vicini sopra al cuscino candido, ricordava un disegno che in un tempo lontano era capitato in mano a suor Diletta Dahl, durante un intervallo ancora ai tempi della scuola elementare, prima che tutto iniziasse.
 
 

Colonna sonora: “Giselle”, Adolphe Adam
                        “The Swan lake”, Pëtr Il’ilic Tchaikovsky
                          “Sinister cabaret” e “The rose of winter” Nox Arcana

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