Bokeh di Rhymesketcher (/viewuser.php?uid=1092649)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il diamante ***
Capitolo 2: *** Propositi per l’anno nuovo ***
Capitolo 3: *** Orsa Maggiore ***
Capitolo 4: *** Scendendo le scale la molla radice ***
Capitolo 5: *** Alla fine di te ***
Capitolo 6: *** Folk ***
Capitolo 7: *** Cinismo ***
Capitolo 8: *** In Salute e in Malattia ***
Capitolo 9: *** Timidezza ***
Capitolo 10: *** Abbandonarti a me ***
Capitolo 11: *** Polaroid ***
Capitolo 12: *** Figli dei fiori ***
Capitolo 13: *** Lampo di nota verde ***
Capitolo 14: *** Accartocciata ***
Capitolo 1 *** Il diamante ***
IL DIAMANTE
Lei è un profanatore di tombe:
si è fatto strada nelle rovine del mio animo,
e senza ch’io me ne accorgessi, in un attimo
ha fatto suo quel disperso cristallo in cuor mio.
Prima che io sapessi che non era mio,
lei già l’aveva posto nella miglior teca,
e non quelle sterili dove, spettri, ci si reca,
ma più nel profondo... in cuor suo.
Sapeva che io mi innamorai
delle canzoni che credetti non sentire mai,
sapeva che io volessi che quel diamante
fosse rubato da lei soltanto...
Diamante dimenticato dagli occhi della gente,
Rubato da lei
soltanto.
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Capitolo 2 *** Propositi per l’anno nuovo ***
PROPOSITI PER L’ANNO NUOVO
Voglio portarti
fra le mie braccia,
furtivamente,
accanto al tepore dell’uscio,
dinanzi alla porta dell’avvenire.
Scarnificare
ogni singola zolla di te,
fino a che non vi sarà più nulla,
che la calda perla
che hai sotto la pelle.
Librarmi con te
su un alito di brina,
che fa musica d’inverno;
Abiteremo un carillon senza tempo,
a piccoli passi sul ghiaccio,
incastonati nel cuore di cemento
di questo sordo e grigio mondo.
Partire alla ricerca
del suono dell’ossigeno
e delle note del flusso,
quello che ci avvolge da sempre,
deboli atomi scelti
fra la moltitudine di gente.
Ascoltare
poggiando sulla tua spalla
l’albeggiare del mattino,
trovare calore in un piccolo camino
in riva al mare,
mentre fuori della bolla è freddo
E tutto tace.
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Capitolo 3 *** Orsa Maggiore ***
ORSA MAGGIORE
Fermiamoci.
Nel flusso represso dello stesso, solito
trambusto; sornione continua verso valle
l’affluente di persone, senza la cognizione
del traguardo.
Fermiamoci:
guardiamoci un poco.
La tua mano riposa calda nella mia,
soffici nella sabbia i granelli,
umile e freddo tappeto per i polpastrelli
delle nostre dita.
Fra i nostri pensieri tropicali che sanno di ciclone e di vorticosi crucci; sballottati senza
pietà dall’incombere dei punti interrogativi
che ci minacciano come strapiombi senza
valle,
Fermiamoci.
E guardiamo un po’ altrove.
Guardiamo un po’ le stelle:
Non sarà molto, diresti:
“Faremo cose tedianti”
mi dicesti;
come fermarsi,
con le gambe umide del flusso,
e guardarsi,
tenersi per mano
ore,
su granelli di sabbia dispersi.
Fermiamoci,
e facciamo l’amore
trasportati dal Grande Carro
dell’Orsa Maggiore.
Ciao a tutti, è da 42 e passa poesie che non parlo con voi direttamente. Sono tornata con un aggiornamento un po’ diverso... ho cercato di mettere insieme gli opposti come al solito: il flusso inesorabile della vita di superficie, quello che sa di monsoni tropicali, e quei piccoli varchi di luce in cui ti fermi, e anche semplicemente guardare le stelle ti fa ricordare che è da lì che inizi a vivere.
Spero che vi sia piaciuta questa poesia, alla prossima!
RhymeSketcher |
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Capitolo 4 *** Scendendo le scale la molla radice ***
SCENDENDO LE SCALE LA MOLLA RADICE
Ballerina mei sentimenti,
come un giunco che si piega al minimo alito di vento.
Così mi si crede: spadaccina notturna
e bendata, crudele come la fortuna
mentre come trottola fende senza pietà.
Ma al di sotto del nero velluto
si respira l’umido del pianto,
Il tremore della paura del
rimpianto.
Scrigno impolverato all’angolo,
custodisco fra le coperte ben poco:
quel che rimane d’una voce
e di un profumo blu dolce.
Così mi si crede: piatto abisso.
Ma sotto la coltre c’é un flebile spiraglio di me,
mai morto, mai risorto,
unica luce che non m’hanno tolto
i mattoni che mi fanno paura.
E scendo a poco a poco queste scale,
Prima diciannove,
poi ventuno,
e subito quarantadue...
Trecento mila e più,
tenendo audace la neonata luce
salda al petto,
mentre ad una molla radice mi reggo.
Sorda scendo e perdo
briciole di sicurezza,
di consapevolezza:
ho paura di dimenticare e di odiarti,
di confonderti uno fra tanti,
e che tu faccia lo stesso,
lasciandomi sirenetta su un sasso.
E mentre scendo le scale
dando il braccio alla molla radice,
mi fermo,
e penso
e ricordo
che al primo scalino,
in equilibrio sul ballatoio,
c’eri tu e mi prendesti la mano,
mi baciasti per primo,
e mi dicesti
che mi avresti condotto lontano.
E piango...
Di gioia.
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Capitolo 5 *** Alla fine di te ***
Alla fine di te
Cala forte un sipario di stelle:
muto.
Una cortina di lana luccicante pesa
sulla testa, sul mio petto, su di me,
mi costringe a pensare
ai chiodi arrugginiti
che varcano le viscere:
cosa faró
finita la notte,
finita la musica,
finita l’arte, l’amore e la danza?
Cosa farò
finita la sottile bellezza?
Finito te?
Mi schiaccia il forte sipario di stelle:
muto:
un panno umido sulla faccia;
Cosa faró
alla fine dell’arcobaleno,
finito il colore,
finito l’incanto, l’odore,
l’irresistibile ardore?
Cosa faró
col giradischi rotto,
nelle tenebre del lutto,
scoperta la carne, la lisca
una volta in cenere la lista?
Cosa faró
alla fine di te?
Risposta:
come il sole, inseguiró le stelle
e come le stelle sarò dietro al sole:
solo con la gloria
e la speranza
dell’eterno, tedioso rituale,
il manto forte di stelle si scioglie,
sospira e piano sale:
cosa faremo
noi due
alla fine della danza?
Se solo ti stringessi forte
qui ed ora,
il manto inizierebbe a volare:
senza farci domande,
noi,
anche se la musica non c’é,
continueremo a ballare.
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Capitolo 6 *** Folk ***
Folk
Salgo le scale,
scricchiolano consumate
da concerti di scarpe,
di gente che salta e che sale;
cigolano i cancelli dell’arte
su un ventre di mura e graffiti,
e ti da il benvenuto
un soffio lontano:
t’abbandona in un angolo del quadro,
sussurrando di polvere,
sedie in vimini e tessere
del parquet, divani
che raccontano storie
di musica ubriaca insieme,
di balli di amici le sere,
all’ombra di poche luci nere.
Ci si rannicchia
al caldo, all’indietro,
come capriole di fumo,
ed è subito casa:
di legno è il giardino
dello scenario che fu,
pochi amici, una birra, poco più.
Folk: coordinate lontane
di una cartina dimenticata su un tavolo,
colora pieni i polmoni
che respirano vita, amore, pane,
la semplicità di esistere.
Ed è semplice esistere agli albori
dell’avvenire,
se mi volto e posso guardarti,
seduti e in piedi, abbracciarti,
mentre si snodano baci
che sanno di malto;
sognare un raggio cobalto
in una stanza di paglia
si direbbe non sia poi molto,
ma mentre la stella si staglia
sulle risate della folla,
il laccio blu e verde
solo due ombre abbraccia:
la mia,
la tua,
mentre intorno procede lo spartito,
si fa strada l’ovatta
del suono attutito
di una moneta, una bottiglia che cade:
si frantuma al ricomporsi degli sguardi;
e sulla strada all’ovatta si cede,
e iniziammo a ballare,
a tempo degli accordi incerti,
e tutto sembrò melodia.
Le luci si spengono,
vola la polvere:
poco rimane
di quella serata che fu,
quando fuggì la nota
fuori dal tempo,
e si sfocó lo sfondo attorno a noi,
e sembró che il vinile che non c’era
inizió sotto la puntina
a far musica, quella sera;
ma non ero più lì,
io ero nel letto,
a contare i granelli dell’istantanea
di quella notte infinita
e temporanea.
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Capitolo 7 *** Cinismo ***
Cinismo
Da quando piantarono in me
Il germoglio del cinismo
Niente sembrò più vero in sé:
Colossi di cenere
Pronti a cedere ad un soffio.
Ancora in queste ore
Brancolo nel buio del dubbio
Che iperbolico mi squarcia le viscere,
Non importa quante preghiere
Levi io al nulla che aleggia:
Niente sembrò più vero da allora, ed io
In equilibrio su un filo di prato,
In avanti guardo
E confido nella nascita di ogni fiore
Che su quel filo, le mie dita intende sfiorare.
E se fosse di carta questa banchina
Il sudore della mia fronte, una goccia,
L’avrebbe resa già vana,
L’avrebbe sgretolata un petalo di ansia,
Posatosi sul filo di seta della ragnatela,
Se fosse la banchina di sogni
Un coccio di realtà la lacererebbe.
Due fantasmi
Sospesi nel nulla
Di belle parole
Di belle persone
Fra canzoni,
Canzoni d’amore,
Eppure
Già non più sembra di carta,
La banchina che mi trasporta.
Con gli occhi bassi nel vuoto
Avanzo fra la cenere del fuoco,
In questo che non so se sia vero
O un sadico gioco. Non riesco
Ad abbandonarmi alle rime di menta
Come farebbe un’anima bambina:
Il mio cinismo ogni notte aumenta,
Mi fa sentire burattina, mentre
Il legno della banchina marcisce.
Tu, intanto, perdona la mia precarietà,
Abita la mia anima come termiti.
Sentimento di inutilità, di invisibilità:
La paura di perderti
Pur essendoti legata
Su questo scoglio
Nel mare calmo
Che io vedo in burrasca.
Tu, intanto, perdonami.
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Capitolo 8 *** In Salute e in Malattia ***
In salute e malattia
E sul letto d’ospedale,
sognò certamente di scappare
per spiagge sterrate,
in preda alla gioventù ancora
da scontare.
La tenerezza di una coperta
rimboccata
da piccole dita d’amore:
ah che grande virtù
il puro sentimento di gioventù!
Di sicuro, sulla barella
sgangherata, poco importó
dell’ossigeno e dell’acqua:
l’unica che cercasse era nel porto,
assieme al suo piccolo amore,
lì, su un lettino, ma in riva al mare.
Sopracciglia intenerite dalla fragilità
svuotano il corridoio color menta,
e con pietà e felicità
riaccese la lucciola, spenta
dei teneri denti non già di uomo,
ancora di bambino.
Per un momento l’oceano
gli sembrò tanto meno lontano,
così addomesticato ormai,
da tenerlo in un barattolo,
sul modesto comodino,
in un angolo
dimenticato.
Era un bicchier d’acqua:
ci si perse come zucchero
sparso sul bordo della medicina
dalle dolci labbra bambine
di lei.
Le bastò un bacio grande
come un granello di polvere
per passar da menta a verde
speranza,
nel trambusto di barelle della stanza
d’ospedale:
bastó così poco
per veder ancora
il mare.
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Capitolo 9 *** Timidezza ***
Timidezza
Guardati che dolce:
distogli lo sguardo
con quel sorriso fragile,
breve afflato di lampo.
Non farlo affievolire,
resta così:
appoggiati, ora, se vuoi
colibrì ciano, sul mio palmo
e non aver paura.
I bulbi dorati nella stanza
si rannicchiano con timidezza,
illuminano poco di te:
sottili spiragli verdi
che quasi sospirano,
morbide guance
che quasi tremolano,
petali di labbra rosa
che quasi si schiudono,
un viso di casa,
che, non quasi, fa tepore.
Lascia che le mie dita
posandosi, api, sul volto,
ti lascino riposare l’iride:
sei dolce, sognante, al sicuro.
Senza musica, sento le corde
della canzone della timidezza,
che contornano brevi baci
che non riesco a darti;
mi regali un sorriso così fragile,
senza vento, senza tempo:
resta così,
tu.
adagio la mia frangia
sulla fronte mogia, tua:
non aver paura,
vedo che sorride la tua aura,
(tenero fantasma cobalto)
al dischiudersi del mio volto.
Questa tiepida lana
ci rassicura, ci ammorbidisce,
ovatta la stanza:
e non è mai troppa,
solo larga, con qualche toppa,
come potrebbe altrimenti contenere
due anime così grandi eppure tenere?
Piccolo colibrì a riposo,
sfiori la mia diafana mano nascosta
fra la maglia,
che sul tuo viso poso,
resta così:
ora, se vuoi, schiudi il verde,
e cullami in penombra di cuoio
con un tuo fragile sorriso...
... così flebile, fiamma
di candela,
quasi...
mi commuove.
Non aver paura:
lasciami volare, lucciola
nella dolce valle
fra collo e spalle di lana.
Non ti spaventare:
sono di carta, ma puoi scrivere
su di me, se ti va
tutte le dolci note che sai,
ecco:
raccogli gli spariti
in un flebile abbraccio di maglia,
grazie.
Resto così:
a volte la debolezza muove anche me,
mi spinge, filo d’erba, a sorrisi di tenerezza.
Ora, se vuoi,
semina cauto carezze di grano
su questo campo di cotone,
mentre collezioni sapori di note
che gli anni passati cantavano.
Non aver paura, me stessa:
questo tepore non può
farti del male,
lascia seminare la tenerezza
di piccoli baci di timidezza,
senza più lana,
sulla pelle diafana...
... quasi una lacrima
scivola via: un frammento di luna,
entrata nella baita, di sera.
Tenere mani imbevute,
tremolanti, insicure, eppure ormai
coro di lucciole d’oro su di noi,
morbide, tiepide,
non hanno più paura:
cantiamo di dolci sospiri,
timidi, ci brilliamo dei nostri stessi respiri,
mentre senza musica, sentiamo le corde
della canzone
della timidezza.
Salve a tutti!
Di solito non parlo molto, soprattutto adesso che la mia voce è in stallo, purtroppo. Maledetto inverno.
La musica ed il ricordo di dolci carezze non fanno nascere poemi epici e solenni, ma piccole banalità di dolcezza... e a volte va bene così, va bene lasciarsi abbandonare alla semplicità, come sono semplici gli accordi del folk con l’acustica... eh già: scusate se è poco *spallucce*, ma anche le luci in effetti Bokeh sono molto semplici, come delle lampadine gialle in una baita... eppure riscaldano eccome.
Alla prossima!!
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Capitolo 10 *** Abbandonarti a me ***
Abbandonarti a me
“Manca un po’ di musica, non crede
Madame?”
Eravamo soli,
timidi a splendere
fra le mura di creta
blu.
Come un coro d’amici
cominciano tamburi lenti,
corde a sonagli e altri strumenti,
albeggia la gioia dell’Outback.
Ci culla un’onda di fortuna,
una voce, la tua
mi rende a piccole briciole oro:
Mida.
Inciampiamo sui nostri passi,
“Va tutto come dovrebbe”,
si muovono a passo di poesia
le nostre ombre, e scivolano via,
nella magia della penombra.
Rimasugli di corde
ci accompagnano, mi adagiano al muro:
siamo soave affresco d’innocenza,
mentre la musica riparte,
e non vorremmo essere che qui,
da nessun’altra parte
che noi.
Salgono sommesse le note di libertà,
piccoli fremiti come canarini incerti,
mentre indugia la musica nell’oscurità,
ed è subito morbida magia.
Ti sento vivo
oltre ogni barriera,
che mi troveresti, rannicchiata,
in ogni piccola tasca, al di là
di me, misera, stessa.
Tutto parte dalla tua pelle:
siamo dimenticate carte
d’Australia, lontano dal grigio,
sbiadite e sgargianti,
esplorate con i nostri canti,
senza muoverci oltre che
sulla nostra pelle.
Ed ora
“Se le mie difese cedessero”
il passo a te, opera d’arte,
vorresti entrare
in questa costellazione,
“Abbandonarti a me?”
“Vorrei fare l’amore con lei,
Madame.”
Brillarono i cocci di rugiada
nei miei occhi di gioia,
ed i tuoi di giada mi abbracciarono.
All’unisono
eravamo,
fin sopra Urano,
scivolati i veli di difese
dello spazio solo nostro.
La più bella musica fu
in un secondo:
il tuo viso di poesia, che senza parole
mi scriveva fiumi d’amore,
pur senza dirlo, senza colore;
eri lì, tu, bellissimo
Apollo,
proteggevi la tua galassia
un numero prima del tredici,
sussurrando poesie
alla tua dolce musa.
Mai passò prima nei miei occhi
un incolmabile desiderio di canto,
che fra le sue braccia
rannicchiata nel mio sorriso
lasciò andare caldo un pianto.
Recuperai forse, commossa
l’innocenza di diamante
che dalla tela era stata rimossa
tante lune nuove prima:
l’innocenza della vita
nel guardarti vivere, da viva
dapprima sconosciuto,
poi amante,
ed ora sapendoti
mai più da me distante.
Ti avrò forse amato da sempre,
infinita parte di me, dispersa,
e ti ho avuto per due ore.
Ma trabocca ancora la gioia,
sapendoti esistere qui ed ora,
al mio fragile fianco,
finché il mondo esisterà
e sarà per la nostra biro
foglio bianco.
Salve a tutti.
Ci sono cose che per ricordarle per sempre basta chiudere gli occhi, ma per ricordarle vivide e pure ci vuole poesia...
Un’abbraccio cosmico e assoluto sulle note del grande Vance Joy: credo che sia stato uno dei pezzi più belli del puzzle della mia vita fin ora se non IL più bello. Indescrivibile: ci ho provato...
Alla prossima!
Rhymesketcher
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Capitolo 11 *** Polaroid ***
POLAROID
Scomposti,
Sfocati eppure nitidi,
Sorridenti,
Spettinati:
così vorrei il nostro scatto
di Polaroid,
istantaneo come la miccia
che bruciò ieri sera nel blu,
sotto le carezze di ciò
che mi sussurrasti tu:
parole dolci, di luce ricolme.
Comunque si muovano le ombre,
lasceremo la pellicola così,
ad asciugare:
bisogna aspettare
che si ricordi i piccoli dettagli
nell’ombra dispersi,
lasciarli riapparire...
per quanto è concesso
ricordarcene
nitidamente com’è successo.
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Capitolo 12 *** Figli dei fiori ***
Figli dei fiori
Nella mattina imbevuta d’alba,
Aloni di sogni evanescenti
Sono petali incandescenti
che dal girasole al vento
Vanno.
Ruggiscono feroci
Le lacrime del dente di leone:
Lentamente in paradiso
Con un soffio di speranza;
Ne era intriso
Il tuo viso, umido,
Battezzato di gioia,
Adagiato nel mio palmo,
Debole come carta,
Ma sicuro come l’olmo.
E si snodano lente,
Cadenza di nozze
Le nostre dita, imperfette
Come affettuose bozze,
Sbiadite ossa di gesso,
Impalcature per il successo.
Si sradicano le radici
Dei nostri nomi e luoghi:
Che sia lettera o prato,
Ogni angolo di questo mondo
Farà al caso nostro
E sarà dal nostro lato;
Tu intanto chiamami col tuo nome:
Rimarró sempre io, qui
Irrimediabilmente ebbra di giada,
E tu, sempre verde poesia,
Irresistibilmente ebbro di cielo,
Al mio fianco, diafano, bianco,
Dimenticato ogni velo.
Morbidi confini di labbra
Si stendono: arcobaleni
In sella alle distese di nuvole,
Che ci sfioreranno
Guance, cosce, busti,
Deboli rimasugli di uomini,
In preda ai soffioni,
arenati negli arbusti.
Non di molto abbiamo bisogno:
Un silenzio tremolante,
Un riparo fra la gente,
Un fragile mazzo di soffioni
Pronto a volar via
Al minimo palpito d’anima tua
E mia.
Note dell’autrice:
Quando parte “All you need is love” dei Beatles succedono cose... e queste cose per quanto probabilmente banali vanno pubblicate.
Alla prossima,
Rhymesketcher
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Capitolo 13 *** Lampo di nota verde ***
Lampo di nota verde
Petali di carta raccontano di
Pigmenti d’inchiostro, si librano:
soavi scintille di fumo,
Onirici nodi di nulla;
Eppur un punto nero su carta
Mi sfiora l’orecchio e mi culla,
Eterea polvere di sogni,
Concreta come fiori in terra.
Sono forse nulla i colori
Delle luci della sua corona,
mio lampo di nota verde?
Disincanto nel suono che disperde,
E a sentire dolci parole mi incanto;
Spicciola poesia senza monete,
Dita bambine sul viso,
Un corpo, una scaglia d’anima,
Uno schivo sorriso:
Molto da offrirti non ho,
Mio lampo di nota verde,
Niente che possa farmi avanzare
Senza tremare, al suono del nome
Con cui decidesti di baciarmi.
E di baciarti ho deciso questa sera,
All’ombra del palco, sorretti da una tenda,
Per donarti una misera goccia di vertigine,
Ma mai quella della raggiera che in te
Riposa, e al mio sguardo, tenue, si desta.
Soffuso, piccolo cuore, ti prego,
Affaticati nei limiti del sogno,
E voi, vene, bevete il sangue che riuscite:
Di voi su questa stella ho bisogno,
E di te,
mio lampo di nota verde,
Non andare mai altrove che
dove possa ascoltare la tua voce
recitare il nome con cui decidesti
Di baciarmi.
Si è frantumato un mondo di specchi,
E i cocci di pittura conservano i tratti
Sanguinanti del mondo corrotto:
Da soli, con un gesto, con un bacio,
Con inchiostro e musica adagio
L’abbiamo finalmente rotto,
Ed ora girerà al contrario
L’orologio del musicista e dell’artista,
Con tutti i numeri a posto,
Come dovrebbe essere.
Niente più dolori,
Niente più domani,
Solo tempo incalcolabile,
Strada di carta interminabile,
Carburante di pittura;
Tutti i colori sono al loro posto:
Insieme sono bianca luce
E nerissima terra,
E noi saremo eco
Attraverso il suono che disperde,
Mio lampo di nota verde.
Note dell’autrice:
Salve!
Una piccola one shot ogni tanto non guasta mai, ma era troppo in tema per non metterla in “bokeh”, quindi nulla, mi sa che questa raccolta verrà continuamente aggiornata con queste spicciole idee che mi vengono in testa durante situazioni molto molto speciali!
Perdonatemi se sono scomparsa per un po’, ma è periodo di esami e sono impegnata per dare il massimo di me stessa, ma sto riprendendo a lavorare alla raccolta di Vernice Calibro 42, quindi a breve la aggiornerò con piacere, sperando che voi abbiate gradito questa poesia e gradirete le prossime!
A presto,
Rhymesketcher
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Capitolo 14 *** Accartocciata ***
Accartocciata
Mi rannicchio verso casa,
Lungo il vialetto desolato,
Ogni tanto passo di qua, e
Mi ricordo della pagina
Accartocciata
Sull’altra soglia.
Da tempo ormai l’ho abbandonata,
Logora, distrutta,
Dimenticata,
In un angolo di pioggia.
Mi rannicchio nel tepore del pensiero
Dei sospiri dell’alba notturna,
Ma non mi dimentico di te,
Accartocciata,
Abbandonata:
Sola, ti ritrovo imbruttita
All’angolo della strada.
Ogni qualche goccia
Passo di quà,
A chiederti, muta,
“Come stai?”
E ti ritrovo persa,
Smarrita senza la penna
Che da tempo ormai altrui impugna.
Il gelo è troppo verace per tornare
Da te, essere di nuovo cornice
Di un mediocre foglio sterile.
Mi dispiace:
Mi rannicchio verso casa,
Lungo il vialetto desolato,
Passerò ancora di qua,
Sperando di averti dimenticato.
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