Tears in the rain

di Anya_tara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tears in the rain ***
Capitolo 2: *** Funeral song ***
Capitolo 3: *** Bring me to life ***
Capitolo 4: *** The Sound of Silence ***
Capitolo 5: *** Back to the start ***



Capitolo 1
*** Tears in the rain ***


Cammina in silenzio, sotto la pioggia battente.
La cortina è così fitta che non vede dove va, anche se ha tirato il cappuccio sulla testa l’acqua scorre con tanta forza che è praticamente una tenda compatta, scorre sulla faccia, non fa respirare.
Poco male. Tanto la strada non importa, la conosce a memoria: potrebbe rammentare con precisione spaventosa ogni sasso, ogni ciuffo d’erba, ogni macchia d’olio sull’asfalto, marciapiede sbreccato.
Lo fa quasi ogni notte, quando non c’è altro modo d’impegnare il tempo.
Troppo, troppo lungo. E troppo breve è stato quello trascorso insieme; forse vissuto non abbastanza consapevolmente, lucidamente.
Mai ha avuto il coraggio di dire tante cose.
Ma quello di farne tante altre.
E adesso è troppo tardi. Non c’è modo di riavvolgere il nastro dei momenti vissuti e farli tornare all’istante presente, trasfonderli nel “ qui e adesso” e riplasmarli come cera, come creta tra le dita.
Si ferma, sempre nello stesso angolo. Davanti allo stesso palazzone, un condominio di cemento dagli appartamenti stretti come scatole da scarpe per esistenze che forse, lo sono anch’esse.
La luce di quello che fissa è spenta. Si aspettava fosse diversamente, forse?
Non lo sa. Ormai pare non sappia più niente.
A cominciare da quanto resta da vivere.
Senza … quella luce.
 
P.s: l’intro viene da “ Tears in the rain “ di L’Âme - Immortelle
 
Angolo di Anya: salve, bella gente, come va? Allora, questa storia non ha protagonisti, non ha nemmeno un tempo, un luogo, se notate neppure un sesso. Perché mi piacerebbe foste voi a scegliere, tra i personaggi, quelli che vi piacciono di più: stabilite un pairing e fatemelo sapere, la coppia che avrà più “punti” sarà protagonista del seguito. Io ne ho già un paio e più in mente, e proprio perché non sapevo decidermi lascio a voi l’onere ( e l’onore ) di farlo. Visto che siamo vicini a Pasqua, ho pensato che forse le sorprese non è bene stiano soltanto nelle uova, che dite? XD mi raccomando, non vi scordate di farmi sapere eh! Vi aspetto!
Bacioni,
Anya

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Capitolo 2
*** Funeral song ***


 Solo una grossa bugia
Una così perfetta illusione
Ti ho resa mia
Solo per ferirti ancora una volta
Nei miei sogni morivo
Cosa dovrebbe significare?
Mi perdevo nel fuoco
Cercando di raggiungere la tua mano
Il mio desiderio fatale.
 
The Rasmus, " Funeral song" 
 
 
Non ci sono modi giusti o sbagliati di dire determinate cose.
Tanto meno a certe persone.
Forse l’unica soluzione praticabile è non dirle affatto. Tacere e attendere che passi qualcuno più coraggioso di noi, e lo faccia al posto nostro.
Trovarsi per caso in uno spaccio del centro, due giorni dopo essere tornato dai suoi diciotto mesi di lavoro fuori casa. Con addosso non l’uniforme della scuola, non la tenuta Hero. Vestiti quasi di normalità, qualunque sia il significato che questa parola abbia per un Eroe.
Ma sei proprio tu. Da quanto tempo. Come te la passi. Non sei cambiato affatto, e forse quest’ultimo non è un complimento. Frasi di circostanza, tutte tirate fuori da un solo interlocutore. Assieme ad un invito a prendere un caffè insieme, rivolto per cortesia. Perché hanno sempre avuto poco a che fare quei due, non si può dire che si facessero sangue.
E non era certo il caso di iniziare adesso. << Ti trovo bene >>.
Un verso scocciato, un sorso. << Sembra passato così poco che eravamo ancora in classe insieme >>.
<< Uh >>. Fissa il brodo scuro nella tazza di passaggio, senza loghi o decori. Un pezzo anonimo di porcellana industriale, a poco prezzo, come ce ne sono in giro a milioni.
<< Sei stato fuori, ho sentito >>.
<< Uh >>. Un altro sorso. Senza degnare della minima attenzione i dorayaki posti accanto, in un cestino. Anche questo totalmente anonimo.
<< E’ stata dura? >>.
Un cenno con le spalle.
Non sa perché l’ha seguito. E’ stato un impulso inspiegabile e malsano, una di quelle azioni che compi senza una vera ragione, soltanto perché ci sei finito nel mezzo.
Come nel mezzo finisce quel nome, venuto fuori tra un discorso e l’altro.
La reazione è quella solita.
Dissacrarlo. Con un sorrisino irriverente e il nomignolo denigratorio che gli ha appioppato tanto tempo prima.  
Lo sguardo dietro le lenti si fa serio. Come se fin lì non lo fosse stato abbastanza. Non l’ha mai visto rilassarsi un secondo ai tempi della scuola: sempre tutto rigido e impettito, sembra davvero gli abbiano infilato un palo dritto su per il …
<< Senti, io … so che in fondo forse non lo fai di concerto, sei fatto così e basta, tuttavia credo sia il caso di … parlare con un po’ più di rispetto di lui, adesso che … non c’è più >>, osserva abbassando gli occhi blu sulle mani.
Lui smette di respirare. Lo sguardo gli si fa vacuo, perso.
La tazzina resta stretta nelle dita. Per non farle tremare. << Come >>.
Non è una domanda.
In realtà non ha ben capito cos’ha detto l’ex-compagno di classe. Forse che il giapponese abbia cambiato il significato di alcune parole, mentre era via?
L’ex-compagno fraintende, e la risposta è di quelle che lasciano senza fiato. Una parola che nel corso della vita odierna, sempre in bilico tra un attacco dei Villan e l’altro pensava fosse caduta in disuso, che non ci fosse più gente che se ne andasse in questo modo, e gli ospedali fossero pieni solo di feriti.
<< Fulminante >>, prosegue l’altro aggiustandosi gli occhiali sul naso. << Si è … sentito male, in casa. Prima che arrivassero i soccorsi era già entrato in coma. E tre giorni dopo … è spirato >>.
Non può credere di averlo saputo così, seduto al tavolo di una caffetteria, in mezzo ad altre cento persone. Con in mano un caffè, e un vassoio di dolci rognosi scaldati e raffreddatisi chissà quante volte.
E’ una cornice troppo … insulsa, quasi indegna per una notizia simile.
Come anche per … una fine del genere.
Non sul campo, combattendo orgogliosamente. Coprendosi del sangue dei propri nemici.
In un letto dalle lenzuola anonime. In un’anonima stanza d’ospedale.
Tre giorni. Tanti sono bastati a portarsi via un Eroe. Non la vampata gloriosa di un istante, tre giorni di sofferenze ed agonia, prima dello spegnersi come la fiammella di una candela.
Allora, a cos’è servito tutto quanto? La scuola, l’addestramento, il tirocinio? Tutta la fatica fatta, gli ostacoli superati, la rabbia e la voglia di vincere, di essere il primo, di meritarsi col sudore ogni lettera di quella definizione di “Hero” di cui ora potevano finalmente fregiarsi?
Possibile, che sia servito solo ad un cazzo? A … questo? A morire come un qualunque impiegato delle poste, un qualsiasi portiere di uno degli schifosi condomini tutti uguali a mille il mazzo come ce n’erano in ogni città del Giappone?
Vorrebbe alzarsi e andare via.
Ma le gambe sono un blocco di cemento armato piantate sotto il tavolo.
E’ l’altro a mettersi in piedi per primo. Tira fuori il portafoglio, mette fuori due bancone e le appoggia accanto al proprio piattino. << Lascia, faccio io >>, dice, quasi che lui abbia insistito per pagare.
In realtà non si è mosso di un millimetro. Anche il respiro non collabora più.
Quasi come fosse … fosse … anche lui.
No. non ha senso. Non può accettarlo così, come niente.
Cinque mesi che non è più a questo mondo. Cinque mesi sottoterra, e il sole splende ancora alto nel cielo, la pioggia continua a cadere, e gli alberi a fiorire.
Cinque mesi che continuava la sua vita come ogni altro giorno, e lui non c’era più invece.
Com’è che non l’ha saputo? Vero, era lontano, oltre Oceano, ma una notizia simile, anche se non si è trattato di un caduto in battaglia, avrebbe dovuto fare il giro del fottuto mondo in un baleno.
Tanto più …  considerato chi era ad averlo lasciato, quel mondo.
<< La … famiglia ha preferito una cerimonia privata. Niente stampa, niente notiziari >>.
Famiglia? Quale famiglia? Non era una vera e propria famiglia, la sua.
All’allargarsi degli occhi iniettati di sangue, il compagno intuisce. << La madre … ha detto che almeno quel dolore voleva viverselo per conto suo, come non avrebbe più potuto viversi il figlio. Che per quanto comprendesse la grave perdita che quella morte prematura rappresentasse per tutti, la più profonda era tuttavia la sua. E … la … moglie … è stata d’accordo con lei, ovviamente >>.
Questa è una parola che ha ancora meno senso. << Si era … sposato da meno di un anno. Ha lasciato una vedova e un bambino che è venuto alla luce dopo che lui era già … insomma >>.
Il caffè gli risale nella gola. deve trattenersi per non sputarlo fuori, assieme alla piena delle parole, della furia.
<< E chi è questa moglie? >>, si sente chiedere prima di rendersene conto.
Quattrocchi ribatte con un leggero sorriso. << Hai davvero bisogno di domandarlo? >>.
 
Il pugno batte piano contro lo stipite di legno.
Iida gli ha dato l’indirizzo. Una casa anonima, una tranquilla villetta in periferia. Nulla di strano, di fuori posto.
Sembra quasi che abbia cercato di vivere quanto più normalmente possibile, nonostante tutto. Per il poco tempo che non sapeva gli restasse.
<< Arrivo! >>. Una voce femminile, dei passi concitati sull’assito di legno. Quando gli apre, ha una molletta tra le labbra. Che le sfugge cadendo senza far rumore davanti alle pantofole rosa, l’unica nota di colore stonata nel resto dell’abbigliamento.
Una giacca scura, un paio di pantaloni della tuta neri, un po’ larghi e sformati. Quelli di lui. << T-tu … >>, esala la ragazza, i grandi occhi scuri eppure limpidi che si sgranano esterrefatti.
<< Ciao >>.
Passato il primo momento di sconcerto lo fa entrare, lo accompagna in soggiorno. Anche qui nulla di speciale: pochi mobili, ben tirati a lucido, un televisore acceso che mostra un programma di cucina, l’odore del brodo che cuoce sul fornello nella stanza accanto.
Normalità, sempre e comunque.
Nessuna foto però. Nemmeno un misero portaritratti appoggiato in giro. << Ho … tolto tutto >>, spiega lei, forse notando l’espressione stranita del visitatore inatteso che di certo immaginava di trovare un santuario alla memoria, pensa forse. << I primi giorni non volevo toccassero nulla delle sue cose, neppure una penna, ma mia madre … ha insistito lei. Non … potevo starmene con le foto in mano a piangere da mattina a sera, e poi tutta la notte >>.
Annuisce appena. Vecchia di merda, pensa, però.
Ma la donna l’avrà fatto certo per amore della figlia. Mica poteva immaginarsi che sarebbe tornato lui, davvero come un fantasma, e si sarebbe guardato intorno cercando l’immagine di quel viso.
<< Forse un giorno avrò abbastanza forza da rivederle e non piangere più. Ma ancora … >>. Abbassa lo sguardo, lo punta sulle mani che tiene in grembo, distanti dal ventre piatto. Forse un’abitudine che le è rimasta dalla gravidanza, quando era molto più gonfio di così.
Eppure non è cambiata di una virgola. Sembra sempre la stessa ragazza che frequentava la sua classe.
La loro, classe.
Anche se non sono più a scuola da un paio d’anni ormai ha ancora quella morbidezza quasi adolescenziale dei tratti, malgrado la tragedia che le è piombata addosso tra capo e collo, e le difficili prove a cui deve sottostare un Eroe ha conservato quella purezza, quell’ingenuità.
Per questo l’ha sposata? Per … garantirsi quell’appiglio con dei giorni senza dubbio migliori di quelli che sarebbero venuti? Per sapere che esisteva ancora un legame con gli anni non facili, ma quanto meno spensierati della gioventù?
Non avrebbe più potuto spiegarglielo, ormai.
E forse neppure glielo avrebbe mai domandato, lui. << Ma dimmi di te. Quando sei tornato? >>.
<< Da due giorni. L’ho … saputo soltanto ieri. Ho incontrato Qua … Iida per caso, e me l’ha detto >>.
Stira un breve sorriso, composto ma evidentemente affettuoso. << Iida è molto caro. Chiama quasi tutti i giorni per sapere come sta … come stiamo. Non so cosa avrei fatto senza il suo aiuto. Anche lui è rimasto molto colpito da quel che è successo, in fondo erano molto amici >>.
Non dice nulla. Quell’interesse non sarebbe sospetto, per uno di quelli che era tra i suoi amici più stretti: alla luce dei fatti gli viene spontaneo domandarsi però quanto intima sia stata quell’amicizia.
Ma è più probabile che Quattrocchi si prenda tanta cura della giovane vedova per altri motivi. Che non gl’interessano in realtà.
<< Posso offrirti una tazza di tè? Del caffè … >>.
<< No. Sto bene così >>.
Lei stira di nuovo quel sorriso. << Non sei cambiato affatto. Sarebbe … sarebbe incredulo nel vederti qui, nel salotto di casa sua. Mi pare quasi di doverlo vedere entrare e restare piantato sulla soglia proprio come ho fatto io… >>. La voce si spezza, una lacrima rotola giù dall’occhio. Se la asciuga piano. << Scusami >>.
Annuisce di nuovo. Il dolore composto della ragazza gli suscita qualcosa di inesplicabile dentro, a cui non sa dare un nome, una direzione precisa.
E’ tutto mescolato, dentro. Un magma informe ribollente d’angoscia, nelle viscere.
<< E’ stato … un bel funerale. Hanno fatto tanti bei discorsi, io no, non ne ho avuto il coraggio. Ma è stato bello sentire quanto lo amavano i suoi amici. Mi dispiace che non ci fossi. Penso … che gli avrebbe fatto piacere, sapere che c’eri anche tu >>.
D’impulso serra i pugni sulle ginocchia.
E’ una cosa morbosa. Come avrebbe potuto sapere che era lì? E’ morto, morto e sepolto, non sente più nulla, vorrebbe gridarle su quel viso ancora da ragazzina. Non si sarebbe certo messo a spuntare la lista di chi c’era o non c’era alle sue esequie.
Una lista su cui sicuramente non l’avrebbe neppure scritto, il suo nome. Non avrebbe stimato necessario che ci fosse a celebrare la sua morte, visto come l’aveva trattato in vita.  
Lei sembra intuire il suo pensiero. << D’altronde, anche … quando ci siamo sposati, eri via. Ho … cercato di convincerlo a contattarti, a provare a rintracciarti in qualche modo. Ma … non ha voluto >>.
Ancora tace. Mai ha serbato il silenzio per così tanto tempo.
<< Forse questo non avrei dovuto dirtelo. Ormai non so più cosa dico quando parlo, scusami ancora >>. Tira fuori un fazzoletto dalla tasca della giacca, si soffia piano il naso.
<< Non fa niente >>.
Un tenue miagolio si leva da una camera nel corridoio. << Oh. Si è svegliato. Scusami >>. Si alza, esce dal soggiorno.
Quando torna, ha in braccio un groviglio di coperte. << Devo stare molto attenta agli sbalzi di temperatura. E’ … molto delicato >>. Si siede di nuovo, culla appena quel fagotto. << E’ nato … in anticipo. Purtroppo la gravidanza non è stata delle migliori, dopo … e con il trauma che ho ricevuto, è già stato tanto … non abbia perduto anche lui >>. Se lo serra al seno, con dolcezza. << E’ tutto quel che mi rimane, la mia ragione di vita, adesso >>. Abbassa il volto sul bambino, lo agita piano. << Shhh … dai, stai buono. Buono, piccolo … >>. E pronuncia un nome.
Quel nome.
E’ interdetto. Per un attimo crede che il dolore abbia dato al cervello a quella poveretta.
Che guarda di nuovo lui. << Ha il nome di suo padre. Non … avrei potuto dargliene nessun altro >>.
Ma certo. Che idiota del cazzo.
<< Vieni. Guardalo. Gli somiglia in tutto e per tutto >>.
Come calamitato da una forza a cui non può opporsi si mette in piedi, si avvicina. Spia appena tra le braccia di lei, e un nodo gli si stringe alla bocca dello stomaco.
<< Non è vero che gli somiglia? Vero? >>.
<< S … sì >>.
<< Prendilo in braccio >>, propone la ragazza tendendolo piano verso di lui.
Indietreggia, quasi spaventato. In quel tono generoso, del tutto innocente gli è parso di percepire un leggero anelito di sfida.
O forse è solo la sua immaginazione sconvolta a farglielo sentire. << Oh, no. Meglio … meglio di no. Sai >>. Alza le mani, volgendo i palmi verso loro due. Quasi come che bastasse un tocco, anche lieve, per causare dei danni irreparabili.
Forse non al bambino.
A lui sì, però. Di sicuro. << Certo. Hai ragione >>. Lo guarda con una tenerezza infinita, una mano si adagia lieve sul volto del bimbo. << La cosa che desiderava più di tutte era lasciare un segno nel mondo. Ora è questo è il suo segno, e io me ne prenderò cura. Fino all’ultimo dei miei giorni >>.
 
Quando è tornato in strada, finalmente fuori da quella casa si è sentito un coglione.
Non ha davvero idea del perché fosse andato lì, la ragione per cui fosse andato a bussare a quella porta.
Forse … sperava di trovare ancora qualcosa di lui. Del suo profumo, così com’era rimasto attaccato alle lenzuola.
Dei suoi occhi così belli. Il suono della sua voce.
Ha trovato solo dolore e follia. Una donna che cerca di tenere botta come può per fronteggiare la grave perdita che ha subito; una donna ch’è un Eroe anche lei, ma non ha visto più niente di eroico in quel tono ora dimesso, ora incrinato, ora eccitato.
Due vite sono andate perdute.
Anzi, tre.
E se per una di loro c’è ancora qualche speranza di recupero, per le altre due non c’è più niente da fare.
Sono trascorsi sei giorni. Ha preso una stanza in un motel, non ha ancora inoltrato alcun curriculum a nessuna agenzia. Le referenze che gli hanno fornito e che si è portato dietro ora gli sembrano carta straccia.
Forse dovrebbe bruciare l’intera valigia. Liberarsi di tutto.
Ma è così vuoto che gli sembrerebbe inutile anche questo: non sarebbe che l’ennesimo dei suoi futili gesti dimostrativi.
E non gli è rimasto nulla da dimostrare a nessuno.
Appena fa buio infila la felpa, la calca bene sulla testa.
Là fuori ha ricominciato a piovere. Non fa altro da quando è tornato.
Un altro segno che sarebbe stato meglio restarsene dov’era.
Quello che va a rivedere tutte le notti in realtà è il suo ultimo domicilio prima di lasciare il Giappone. Lo è stato per qualche tempo, dopo il diploma: voleva una tana tutta sua, per starsene in pace: niente più vecchi, niente più idioti intorno. Niente spiegazioni, nessuna rottura di coglioni. Entrare ed uscire quando gli pareva, come gli pareva, con chi gli pareva. Un buco di due stanze e mezzo in uno di quei palazzoni, al settimo piano. Senza ascensore.
Perché ci torna tutte le notti, come fosse un rito da officiare religiosamente o meglio, un’attrazione troppo forte per potersi sottrarre?
Semplice. Perché una volta, una notte come queste, in quella casa c’era finito lui.
Si erano incontrati per caso, anche loro. Dopo la ronda, ognuno per fatti propri. Nella corsia di uno spaccio, intenti a fare la spesa.
Lui era rimasto immobile, senza battere ciglio. L’altro aveva abbozzato un cenno di saluto, tranquillo, quasi neutro.
Da più di un anno non si vedevano.
A rifletterci adesso non sa nemmeno come sia accaduto. Non era lucido, ma stanco: deluso, frustrato, e inzuppato di pioggia dacché non aveva la pianificazione necessaria a prendere un ombrello anche se vedeva in cielo grossi nuvoloni.
E quelle parole, delicate. << Ti accompagno io, se vuoi >>.
Esausto, aveva fatto di cenno di sì con la testa. Non aveva più voglia di prendere metro, far strada a piedi; tutta la sua energia ruggente sembrava evaporata assieme al calore corporeo con la pioggia.
In quel momento gli era parso un appiglio, un porto sicuro. Un rifugio da tutto quell’esaurimento che gli corrodeva le forze dopo aver sprecato inutilmente le forze a camminare e camminare, e camminare ancora tenendosi le mani in mano.
Avrebbe dovuto esserne contento. Un Eroe sa che il suo lavoro è una necessità, non un divertimento: e se non occorre che intervenga allora è un bene, vuol dire che è tutto tranquillo.
Fanculo.
Uscito dal supermercato era salito in macchina, gli aveva dato l’indirizzo. E aveva fatto per accendersi una sigaretta: la prima all’asciutto, da quando quella serata del cazzo era cominciata.
<< Non nella mia auto. Per favore >>, aveva aggiunto lui.
In un altro momento lo avrebbe mandato a farsi fottere, l’avrebbe accesa comunque e magari avrebbe anche incrociato gli stivali pieni di fango sul cruscotto.
Ma non adesso.
Era rimasto in silenzio per tutto il tragitto.
<< Uh. Ferma qui >>, aveva detto, e subito quello aveva accostato per dar modo a quelli in fila dietro di continuare a proseguire.
Fosse sceso in mezzo alla strada, quasi sbattuto come un cane, un pacco postale sotto l’acquazzone, magari col motore rombante d’impazienza sarebbe stato meglio. Di sicuro.
<< Allora buonanotte. Alla prossima, se capiterà >>.
<< Uh >>. Era sceso, stava per chiudere la portiera con la sua solita malagrazia.
Ma qualcosa dentro l’aveva spinto a voltarsi di nuovo. << Senti, perché non scendi? Ti offro da bere. Per il passaggio, sai >>.
<< Non occorre. L’ho fatto con piacere >>.
Al che l’aveva guardato di traverso.
Era parso un po’ esitante, poi aveva annuito piano. Qualche stilla si era staccata dalle ciocche, cadendo nella luce fioca dell’abitacolo con un bagliore scintillante. << Va bene. Se proprio insisti … vengo >>. Era sceso anche lui, aveva messo l’antifurto. Erano entrati nell’androne grondando acqua dappertutto.
Si erano fatti sette piani di scale al buio e in silenzio. Era vagamente consapevole del suo respiro un po’ affrettato, anche lui doveva essere stanco morto.
Di certo il suo quartiere di ronda era più eccitante. Ogni tanto passava al notiziario qualche titolone su come una rapina, un attacco o un altro cazzo di atto improprio era stato brillantemente sventato da quell’agenzia.
Anche lui stesso aveva pensato di inoltrare il proprio curriculum lì, una volta preso il diploma. Era stato richiesto da loro, ma aveva cestinato senza remissione il foglio con su stampata l’e-mail non appena aveva sentito mormorare che avevano richiesto anche quello.
Avrebbe dovuto aspettarselo, era una delle migliori. Ad un passo dalla vetta, dall’infallibilità. Aveva puntato i migliori e mirava ad accaparrarseli tutti, i giovani talenti della Yuuei.
Così era finito in una più mediocre. Malgrado fosse uno dei più promettenti i suoi scatti d’ira, la sua impossibilità a collaborare lo avevano relegato in fondo rispetto ad altri suoi compagni meno dotati, ma più malleabili.
Aveva infilato la chiave, aperto la porta. Teso il braccio libero dalla spesa e acceso la luce. << Entra >>.
Aveva sfilato le scarpe, d’impulso. ma lui non aveva pianelle per gli ospiti: chi passava da lì ci stava troppo poco per meritarsi quella cortesia. << Metti le mie >>, aveva detto liberando i piedi dagli stivali.
<< Sicuro? >>.
<< Quanto cazzo parli >>. Aveva posato la busta sul tavolo, aperto il frigo e messo apposto le confezioni di cibo precotto e le lattine di soda calde. Poi aveva tirato fuori due birre fresche, e ne aveva porta una a lui, ancora in piedi.
E aveva accettato la lattina dalle sue mani, l’aveva alzata in una sorta di brindisi. << Salute, allora >>.
<< Uh >>.
Avevano bevuto qualche sorso, sempre in silenzio. Quegli occhi lo spiavano timidamente di sottecchi, probabilmente incerti delle sue reazioni.
<< Allora, io vado. Grazie della birra. Ci si vede >>.
Per un secondo era rimasto a guardarlo voltargli la schiena. Lo aveva studiato per bene, ed era sata questione di un attimo raggiungerlo, afferrargli il polso.
<< Cosa … >>. Il resto si era perduto in un tocco di labbra. Premute contro le sue. 
Non si era ribellato. Le aveva schiuse permettendogli di entrare a sondarlo con la lingua, così, senza alcuna esitazione.
Non aveva alcun senso.
Eppure lo stava facendo. Baciava quella bocca umida, vellutata e leggermente sapida di malto e la sentiva scaldarsi nella sua, piano, le mani puntate sul petto come per spingerlo indietro erano rimaste lì, artigliando la maglia fradicia.
Gli aveva infilato una mano dietro la nuca, tra i capelli imperlati d’acqua. Erano … davvero soffici come apparivano, anche bagnati. Il suo respiro sapeva di pioggia e tenerezza.
Quando si era staccato da lui, era bastato un solo sguardo.
Non c’era da dubitare del bagliore che si era acceso in quelle iridi. Lo stesso di quella goccia precipitata poco prima in macchina.
Lo aveva tirato su, allacciato le sue gambe ai fianchi e l’aveva portato in camera da letto.
Lì erano rimasti fino all’alba, quando entrambi sfiniti, carichi di sudore e seme rappreso come boccioli ebbri di rugiada ai primi raggi del sole, si erano addormentati.
Aveva aperto un occhio ch’era pomeriggio pieno. La sveglia sul comodino indicava le tre meno un quarto.
E lui era ancora lì. Nel suo letto.
Che gli teneva un braccio intorno alle spalle.
Facendo piano per non svegliarlo si era alzato, andando nel bagno. Si era rasato, aveva fatto la doccia, lavato i denti e si era vestito.
In realtà non doveva andare al lavoro, era il suo giorno di riposo. Ma non riusciva a sopportare di starsene chiuso tra quelle quattro pareti soffocanti, di solito: o andava comunque in ufficio a rompere le palle agli altri colleghi, oppure si rinchiudeva in palestra finché non sentiva i muscoli implorare pietà.
Oggi però era animato da un’urgenza diversa. Non era sicuro di reggere un allenamento, a stento si teneva in piedi sotto il getto caldo, mentre si lavava via i residui della nottata trascorsa.
Ma doveva uscire, altrimenti sarebbe impazzito. Aveva fatto una cazzata madornale, anche se mentre la faceva, e la rifaceva ancora non gli sembrava tanto grande.
Adesso però, a mente lucida si rendeva conto di tutte le conseguenze di quel gesto sconsiderato. Di tutto … quel sesso pieno, caldo, sussurrato e gridato e c’era di che stupirsi che quelli del piano di sotto non fossero andati a sfondargli la porta di casa o non si fossero lamentati con l’amministratore, facendolo piombare lì in piena notte o di primo mattino per rompere i coglioni.
Non era certo vergine, no. Ma tutto ciò che c’era stato prima adesso sembrava distante anni luce, una sorta di linea di confine scavata a fondo come una voragine si era delineata tra quelle scopate estranee e quell’unione profonda, intensa, meravigliosamente folle che c’era stata tra i loro corpi e le loro intenzioni.
Era stato come tornare a casa. Riaffondare in qualcosa che non sapeva di aver perduto e d’un tratto aveva ritrovato, così, dal nulla, quando quasi non ci pensava più.
E questo gli faceva tanta paura. Scoprirsi così fragile, sospeso quasi come una bolla di sapone tra quelle mani che avevano percorso la sua pelle più e più volte come volessero consumarla. Guardarsi in quegli occhi diventati d’un tratto così grandi, annegarvi quasi, come in un mare dalle infinite sfumature. Sentirsi stretto tra quelle braccia così forti e sapere di essere davvero al sicuro.
Ma non poteva affidarsi tanto ad un’altra persona. A lui poi meno che mai.
Rientrato in camera per un attimo il suo petto e le sue saldissime intenzioni avevano tremato. Si stava svegliando, la testa si era voltata sul cuscino cercando il suo sguardo. << Buongiorno … >>, aveva sospirato piano, con voce roca e impastata mentre stiracchiava i muscoli scolpiti, i tratti del volto addolciti dal sonno.
<< Uh >>. Aveva aperto l’armadio e preso il borsone, come ogni altro giorno. << Io vado. Di là in bagno ci sono degli asciugamani puliti nell’armadietto >>.
<< Oh … ehm. Va bene >>.
<< Nel pensile della cucina c’è un po’ di roba, se ti va. Attento al bollitore che va a corrente alternata, funziona solo se tieni la spina conficcata nella presa, sennò amen. Quando finisci chiudi bene >>. Aveva girato sui piedi nudi, pronto ad allontanarsi velocemente da lì.
<< Ehi >>, l’aveva richiamato dal giaciglio, avvolto tra le lenzuola. Nella luce grigiastra del pomeriggio nuvoloso sembrava pallido.
Si era voltato un istante.
<< Grazie. Per stanotte >>, aveva sussurrato, mettendosi a sedere e fissandolo di sottecchi, tra le lunghe ciglia scure.
La sua risposta era stato uno sguardo seccato e un medio alzato. Quasi che in quella frase vi fosse celata un’accusa, e non un semplice moto di gratitudine.
Chissenefregava. Mica gli aveva fatto un favore: se l’era fatto da solo, semmai. Questo aveva pensato sbattendosi dietro la porta.
Il giorno dopo aveva inoltrato domanda per partire, andare a svolgere il suo lavoro presso un’altra agenzia, lontano, oltre Oceano. E aveva tagliato tutti i ponti, semmai ne restava ancora qualcuno; per provare a dimenticarlo, ad azzittire quel fuoco che aveva attizzato, nutrito, e infine fatto esplodere dentro di lui, tra loro, tra quelle lenzuola che aveva preso, appallottolato e gettato via con rabbia.  
E adesso quel dito alzato, quella freddezza esasperante erano l’ultima cosa di lui che si era portato via con sé.
Nella tomba.
No, non può crederci. Non può essere vero che quel corpo caldo, morbido, sensibile ora sia cibo per i vermi. Che sia polvere, marciume. Che quel suo odore così buono adesso sia mutato in fetore di decomposizione, e dalle labbra soffici non escano più gemiti, non più sospiri ma un liquido nerastro.
D’un tratto s’inginocchia, su quell’asfalto lurido. Il dolore lo torce dentro.
Dovrebbe odiarlo. Si è … sposato, ha dato a … ad un’altra, quell’altra ciò che ha dato anche a lui. Ha concepito un figlio, e la giusta punizione per quel tradimento è stata che non l’abbia neppure visto, prima di andarsene per non tornare mai più.
Ma non riesce a pensare a questo.
Il cuore glielo sussurra come fosse gli accanto, in ginocchio anche lui.
E’ stata colpa sua. Se quel pomeriggio invece di andarsene sbattendo la porta fosse tornato accanto a lui in quel letto, avessero ricominciato a fare l’amore, e al posto di fare richiesta per un periodo di gavetta presso un’agenzia in terra straniera, per fuggire da lui non l’avesse lasciato più non sarebbe mai accaduto. Avrebbero avuto poco tempo, certo, e forse adesso starebbe anche peggio di così, sapendo di averlo visto morire senza poter fare nulla per salvarlo: ma almeno adesso il rimpianto, il rimorso non lo starebbero uccidendo su quel marciapiede bagnato, piegato sotto il peso di un fardello che non può sostenere in alcun modo. Ci sarebbe stato lui al suo fianco, non avrebbe mai sposato lei, non avrebbe mai sentito quel morso gelato dentro stritolargli le ossa e le viscere.
Ma così non si sarebbe lasciato dietro alcuna eredità. Non avrebbe lasciato alcun segno nel mondo, quel bambino che gli somiglia tanto, ed ha il suo stesso nome.
Si pente di non averlo preso in braccio. Di non averlo stretto al petto, sul cuore, quel cuore che adesso si sta strizzando nel petto dall’angoscia, dal dolore puro e fiero che pensava di non poter mai provare in vita sua. di non averlo abbracciato come avrebbe dovuto fare col padre, quel giorno, invece di scappare spaventato perché le ultime difese stavano cedendo dentro di lui, dopo essersi scambiati la pelle e l’anima.
Apre le labbra, gli sfugge un gemito roco, disperato. Intriso di sofferenza fisica, emotiva, un tutto raggrumato e confuso così piccolo eppure prende così tanto spazio dentro di lui: un piccolo grumo di peli spaiati sulla testolina e gli occhietti appesantiti dal sonno degli innocenti, dentro cui le iridi del padre splendevano come gemme.
Ma non è il nome del bambino quello che gli sale alle labbra, lo sa mentre lo urla senza voce.
Una luce intensa gli esplode davanti agli occhi, si tiene la mano sul petto come per impedire al cuore di scoppiare. Spalanca la bocca, inspira aria pesante e pioggia, un verso strozzato viene fuori dalla gola serrata in un blocco di cemento.
Quella luce. Da essa all’improvviso emerge una forma umana, un volto amorevole, conosciuto dal sorriso caldo, quieto e bellissimo, rassicurante.
Tende una mano verso di lui, gli accarezza il volto. Avverte il calore, il tocco gentile e vorrebbe tendere la propria a stringerla, adesso, per rimediare a tutte le volte in cui l’ha allontanata da sé con ira, per stupido orgoglio, per quella smania di voler essere il migliore quando è chiaro che non è più nulla.
Quando il tuo avversario non è più che cenere, non sei che cenere anche tu.
E allora tanto vale mutarvi.
Non ha più senso andare avanti così. Mentre la fiamma viene soffocata dalla pioggia un ultimo pensiero cosciente coagula nel fondo della sua gola, spinge per tirarlo fuori come se fosse quello a strozzarlo, impedendogli di respirare. << Prendimi … con te >>.
La luce sembra trattenere il fiato anche lei. Spalanca gli occhi ora senza colore e di tutti i colori, scintillanti d’oro, di riflessi adamantini. << Bakugō … >>.

Angolo di Anya: ehilà bella gente! Grazie per le letture e le vostre opinioni. Come avrete notato, questo secondo capitolo ha trovato uno dei protagonisti ( non facciamo nome, vero, Signore delle esplosioni? XDXDXDXD ) e qualche personaggio di contorno. Ora sta a voi decidere chi sarà l’altro, visto che avete esplicitamente richiesto una Bakudeku o una Todobaku, ho deciso di accontentarvi a metà ( non è una battuta! XD) e lasciare in sospeso il secondo pezzo del pairing. Chiaro che da questo dipenderà anche l’identità della dolce, povera vedova e tutto il resto. Se ci siete battete un colpo, e scrivete, scrivete, scrivete!
Con affetto,
Anya.
 

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Capitolo 3
*** Bring me to life ***


Ora che so cosa mi manca
non puoi lasciarmi
Respira in me e rendimi vero
Riportami in vita
Svegliami dentro
(Non riesco a svegliarmi)
Svegliami dentro
(Salvami)
Chiama il mio nome
e salvami dalle tenebre
(Svegliami)
Ordina al mio sangue di scorrere
(Non riesco a svegliarmi)
Prima che io venga distrutta
(Salvami)
Salvami dal nulla che sono diventato

Bring me to life, Evanescence 
 
<< Bakugō. Ehi, Bakugō. Ci sei? >>.
Il dolore alla tempia è esasperante.
Aprire gli occhi è uno sforzo immane. La luce diviene biancastra, asettica.
Un ospedale.
Muovere le iridi gli fa un male cane. Abbassa appena lo sguardo, quando gli permette di incrociare quello bruno della ragazza che chiamava il suo nome.
Uraraka Ochaco. Uravity.
La donna di Deku. Sua moglie.
La sua … vedova.
Fa per aprire la bocca, ma ciò che viene fuori è un gorgoglio senza senso. << Ehi. Ciao. Ben tornato. Come ti senti? >>.
Di merda. Fottiti, stronza. << Anguhghhhf … >>.
<< Che c’è? Cosa vuoi? >>.
<< Angufffff! >>.
<< Sta’ calmo, non ti agitare. Vado a chiamare un’infermiera, va bene? Cosi tolgono il tubo >>. Esce di corsa, andando fuori ma ricordandosi di chiudere la porta.
Per lasciarlo meglio in balia dei propri pensieri.
Guarda il caso. Adesso anche lui è finito in una camera bianca, anonima.
Cos’è successo? Non se lo ricorda. Non ricorda nulla, a parte quegli ultimi attimi sul marciapiede, con la vita che scivolava via dalle membra in una luce intesa.
Una luce che aveva il suo volto, i suoi occhi.
Cos’è successo poi? Non ne ha idea. Forse qualcuno di passaggio l’ha soccorso.
Quella luce conosceva il suo nome.
Forse una di quelle allucinazioni che dicono si abbiano prima di crepare.
Una ragazza in camice bianco entra, si muove intorno a lui, armeggia con degli strumenti. Controlla i monitor con fare professionale, poi si volta, accenna un sorriso. << Facciamo subito, okay? Non abbia paura >>.
<< Vaffgnggjgh >>.
<< Come? >>.
<< I…gnhn …on … pa …ngngh >>. Io non ho paura.
Di cosa potrei più averne, ormai?
Per un attimo si incazza, avrebbero potuto lasciarlo in pace. Lui non voleva essere salvato, voleva lasciarsi avvolgere da quella luce e farsi prendere, così come si era fatto prendere, ancora e ancora, sudato e gemente, dolorante e in fiamme, ma per nulla disposto a cedere, che ne voleva fino ad annullarsi, libero finalmente da tutti i suoi dubbi, quelli che non aveva mai osato ammettere nemmeno con se stesso.
Ma il Fato ha deciso diversamente, nel suo caso.
La gola è un deserto di sabbia riarsa, spine e cocci taglienti. Gli fa un male cane, non può neppure deglutire.
<< Ora rimettiamo tutto apposto. Non si preoccupi >>.
Apposto un cazzo.
Non c’è più niente da mettere apposto.
Poi la figura di Uraraka si materializza di nuovo sulla soglia. << Ti senti meglio, Bakugō? >>.
<< Uh >>. Meglio. Che parola.
Anche lui voleva esserlo. Il meglio, il Plus Ultra, quello sopra tutti gli altri.
Ma non ha più alcun senso.
Nulla ha più senso. Adesso.
A parte … forse …
Lui. Quel piccolino.
Vorrebbe chiederglielo. Ma sicuramente non glielo porterà, non è certo l’ambiente più sano e indicato per un bambino di pochi mesi.
Però può domandargli di lui. E perché cazzo è lì, invece di stare a casa con suo figlio. Già non ha più il padre. << An … aghnfff … >>.
<< Sta’ calmo, non agitarti. Ci vorrà un po’ prima che possa ricominciare a parlare normalmente >>.
Non dirmi cosa devo fare, Faccia Tonda.
<< Hai avuto un brutto scontro con un Villan. Hai … riportato un trauma cranico. E qualche danno. Ti hanno tenuto sedato forzatamente. Ricordi qualcosa? >>.
No. Non ricorda un cazzo, e nemmeno gli importa.
Allora è così che è andata.
Ha lottato finché non ha trovato qualcuno che l’ha steso sulla schiena.
Ma gli riesce difficile capire quando, come sia accaduto.
Credeva di esser spirato in quell’istante, stringendosi a lui.
E invece no.
Destino bastardo. Nessuna gliene dà vinta, nessuna. << Riesci a muovere la mano? >>.
Ci prova. Le dita rispondono. << Aspetta >>. Fruga in una borsa, tira fuori una penna, un blocnotes. Gli infila la prima contro il palmo, il secondo sotto di essa. << Scrivi. Dimmi cosa vuoi >>.
Occorre qualche istante perché riesca a tracciare sul foglio qualche ideogramma.
Portami … tuo figlio.
Non vuole scrivere quel nome.
Gli fa ancora troppo male. dentro.
<< Vuoi che ti porti un coniglio? Che coniglio? >>. Ochaco lo fissa perplessa, allargando i grandi occhi nocciola su di lui. << Non capisco >>.
Katsuki punta la penna con più rabbia. Ma forse non ha scritto bene.
<< Aspetta >>. Tira fuori il cellulare di tasca, apre l’applicazione di messaggistica.
Glielo mette davanti agli occhi. << Mostrami qui >>, dice.
Stavolta i caratteri sono relativamente più semplici.
Portami. Tuo figlio.
Il tuo bambino. Il figlio … di Deku.
Fammi vedere i suoi occhi, ancora una volta.
Questo però non lo scrive.
Non è proprio il caso. E lo capisce persino un disadattato anaffettivo come lui.  
Ma può davvero definirsi tale? Dopo essersi distrutto dal dolore della perdita di lui?
<< Bakugō, perdonami, ma non capisco. Cosa vuoi dirmi? >>.
La porta si schiude. Forse è tornata quell’infermiera del cazzo. << Ah, meno male. Vuole dirmi qualcosa ma non può parlare e io non riesco a capire …  >>. Il battente ora si apre, la figura che si materializza sulla soglia entra nella camera.
E gli restituisce la voce, miracolosamente. << Tu >>.

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Capitolo 4
*** The Sound of Silence ***


Salve oscurità, mia vecchia amica
sono venuto a parlarti nuovamente 
perchè una visione che fa dolcemente rabbrividire
ha lasciato i suoi semi mentre dormivo
e la visione che è stata piantata nel mio cervello
ancora persiste
nel suono del silenzio

Nei sogni agitati io camminavo solo
attraverso strade strette e ciottolose
sotto l'alone di un lampione
sollevo il mio colletto al freddo e all'umidità
quando i miei occhi furono colpiti dal flash di una luce al neon
che spaccò la notte
e toccò il suono del silenzio

Simon and Garfunkel, " Sound of Silence" 


 
                                 
Non è una vera e propria sorpresa, in fondo.
Anzi. Da un certo lato se lo aspettava, di trovarlo lì. Non era stata forse la stessa Uraraka a dirgli che le era molto vicino, in quel periodo? << Oh, Bakugō-kun. Ben svegliato >>.
Katsuki alza gli occhi al soffitto. E soffoca una mezza imprecazione, che gli lampeggia tutto nel cervello ancora scollegato quando lo fa. << Come ti senti? Non parlare, basta solo un cenno >>.
Se potesse alzerebbe la mano e gli mostrerebbe il medio. Ma è assicurato a tanti di quei cavi e fili, che solo a costo di strapparseli via potrebbe.
Cazzo. vaffanculo. << Eravamo preoccupati >>.
Immagino. Sicuro.
Iida si volta verso Uraraka, che ha ancora il cellulare in mano. << Posso … portare qualcosa? >>, domanda.
Lei apre le mani. << Credo dovremmo chiedere prima al medico se può mangiare o bere. In fondo l’hanno appena … stubato, per cui >>.
<< Bene. Ci vado subito >>. Iida esce, richiude la porta.
Bakugō inarca un sopracciglio.
Gli pare improbabile quell’ipotesi, eppure non riesce a tenersela, deve chiederglielo. << Stai con … Quattrocchi, adesso? >>, gracchia. La voce non è più che un graffio.
Uraraka si volta, avvampa. << Cosa? No! >>.
Bakugō annuisce. Gli basta come risposta, almeno per il momento.
Anche se in realtà non dovrebbe fregargliene nulla.
Tuo figlio.           
Tace, e Uraraka con lui per qualche minuto, fissa lo schermo del telefono come stesse cercando di decifrare ancora quelle parole, neanche fossero scritte in codice.
Come fa a non capire, cazzo?  
Non sa come dirglielo. E preferisce star zitto.
Però gli freme il petto, dal desiderio che ha di rivederlo. Vedere quei piccoli, enormi occhietti verde smeraldo, quei ciuffi dello stesso colore tutti arrotolati intorno alla piccola testa perfetta.
Prenderlo finalmente in braccio.
Un desiderio struggente che deve assolutamente appagare.
Sta per aprir bocca quando bussano di nuovo, Ochaco rialza lo sguardo dal cellulare. << Sì? Ehi …  ciao >>.
<< Ciao. Posso entrare? >>.
<< Certo >>, risponde Uraraka accennando un sorriso.
Katsuki non fiata, interdetto. 
Quella voce.
Stavolta sì, è sorpreso. Questo ad esempio non si aspettava di vederlo.
Sono … pff, mesi e mesi, anni a dir poco che non lo incontra. Volontariamente.
Ha fatto tutto il possibile per evitarlo, che solo a guardarlo in faccia gli viene voglia di spezzargli tutte le ossa.
Anche adesso. << Che cazzo ci fai qui, bastardo? >>, si sforza di tirar fuori. Ora la voce è simile allo stridio delle unghie sulla lavagna.
Gli occhi spaiati si fermano su di lui.
Non è cambiato affatto. E’ sempre il solito stronzo arrogante che scruta la gente dall’alto in basso. << Bakugō. Mi fa piacere vedere che ti sei ripreso, e non hai riportato alcun genere di danni >>, osserva con quel tono indifferente che gli è solito.
E che fa montare i nervi a Katsuki. Come al solito, pure questo.
Aspetta che mi alzi da qui, e vedrai quanti ne farò a te, stronzo.
Fottiti, bastardo.
Questa volta non è per il raschio alle corde vocali che non gli risponde, quanto per il piacere di infastidirlo.
Visto che di piacere si parla … bisogna darsene da parte a parte, giusto?
<< Quando sei arrivato? >>, gli chiede Uraraka.
<< Non più di mezz’ora fa. Il tempo di atterrare >>.
Lei annuisce. << Iida e Yaoyorozu sono di sotto, insieme a Kaminari e Jirou. Kirishima sarà qui per il turno della sera, doveva lavorare >>.
<< Mhmm >>.
<< Resti tu? Vado a prendere un caffè >>.
<< Sì, naturalmente >>.
<< Tu vuoi qualcosa? >>.
<< No, grazie >>.
Ehi, no, portatelo via, fate uscire questo stronzo da qui … pensa Bakugō.
Ma quando Ochaco gli passa accanto, e gli prende la mano sinistra nella propria stringendola piano e sollevando la testa per incrociare quegli occhi che la guardano intensamente, il cervello gli va di nuovo in black-out.
La sorpresa è un calcio che lo colpisce allo stomaco. A bocca aperta guarda la scena come se non fosse ben sicuro di quel che vede, neanche fosse un’altra allucinazione di merda.
Ma non lo è. Così come non lo è il lieve bacio che lo stronzo a metà si china a posarle sul lato della gola, con fare possessivo.
<< Torno tra poco >>, annuncia Uraraka, sorridendogli.
<< Fa’ con comodo >>, risponde il dannato, stirando un sorriso a sua volta.
Lui gira gli occhi intorno, appena Uraraka si chiude dietro la porta si fermano accanto al proprio braccio immobilizzato.
Il trespolo della flebo è l’unica cosa che ha a portata di mano.
Dio, come vorrebbe poterglielo tirare addosso. Di piatto in mezzo alla fronte, giusto per rendere più definitiva quella separazione. << Sapevo … che eri un bastardo. Ma non pensavo lo fossi … così tanto >>, sibila, sfiatato.
Gli occhi eterocromi si spalancano, fissandolo. Ma non mostrano stupore.
L’azzurro del sinistro è un laser gelido che lo trapassa. << Scusa? >>. 
<< Sei … un pezzo di merda. Come … puoi? >>.
<< Come posso, cosa? Non capisco >>,
<< Questo, cazzo. Con … >>. No, non riesce a dirlo tanto è schifato.
Era suo amico. Il suo migliore amico, anche più di Quattrocchi.
Come ha potuto fare una cosa simile?
E’ …osceno. << Oh, Cristo >>, biascica, non trovando né parole né forze.
E’ sempre stato un po’ geloso di Todoroki. Antipatia istintiva e logica competizione a parte, il rapporto che si è andato instaurando con Deku ha teso ancora di più la situazione tra loro due. << Mi sa che ho parlato troppo in fretta. Non credo tu ti sia ripreso abbastanza bene, ancora >>, dice quello stronzo in tono tranquillo.
<< Oh no, mi sono ripreso benissimo invece. E anche tu mi pare. Tant’è che non ti fai alcuno scrupolo >>. Riprende fiato, ansimando. << Te la porti a letto? >>, sbotta, sentendo le pareti della gola ardere di furia.
Gli occhi bicolore si riducono in due fessure taglienti. Il grigio scuro fa un po’ meno effetto dell’altro, sembra vero ghiaccio, luminescente e freddo. Affilato. << Questi non sono affari che ti riguardano >>, sentenzia infastidito Todoroki.
<< E certo. Ti scopi la donna del tuo migliore amico, ci credo che non ne vuoi parlare >>, replica Bakugō sardonico. Poi cambia tono, per quanto gli è concesso. << Ma non ti vergogni neppure un po’? O sei peggio di tuo padre? Non hai neppure un briciolo di rispetto? >>.
Il metà e metà sbuffa una risata sarcastica. << Tu parli di rispetto? Non farmi ridere >>.
Bakugō serra le dita con rabbia. Gli aghi sottopelle pungono, ma vaffanculo.
Non fanno male quanto quel tono altero, disinvolto. Nient’affatto.
E un po’ di male vuole fargliene anche lui. Anche se solo un pizzico, una leggera puntura a paragone di quello che vorrebbe infliggergli seriamente. << E meno male che ho sempre pensato fossi frocio >>.
Todoroki gli scocca un’occhiata dura. << Ti lascio perdere solo perché ti sei appena svegliato. Ma mi sembra che tu abbia le idee un po’ confuse, quindi te le schiarirò io >>. Si avvicina al letto, senza distogliere lo sguardo. << Quello ormai è un capitolo chiuso. Per cui non capisco di cosa dovrei vergognarmi >>.
<< Come cazzo puoi parlare in questo modo?! >>.
<< Parlo come cazzo mi pare. D’altronde ho avuto anch’io la mia parte di dolore, mi sembra giusto rifarmi, in qualche modo. Se ora posso essere felice non intendo privarmi di questa possibilità >>.
Katsuki è incredulo. E’ così assurdo quel che sente che non riesce nemmeno ad incazzarsi, tanto lo sconvolge.  << Oggesù … >>.
<< Cosa pensi, Bakugō? Non sono un pezzo di ghiaccio. Sono un uomo anche io >>.
<< No, tu sei solo un bastardo schifoso che si è approfittato di … >>.
<< Io non mi sono approfittato di nessuno. Io ho cercato di consolare Ochaco, e lei ha provato a confortare me. Abbiamo sofferto entrambi, ognuno a suo modo. Ma quando qualcosa finisce, quel che rimane da fare è piantare l’ultimo chiodo nella bara, seppellirla e andare avanti >>.
Katsuki storce la bocca, gli viene da vomitare. Per un attimo pensa di premere il pulsantino collegato al campanello e chiamare un infermiere con il catino.
Che … disgustoso egoista. E non si fa remora di sbatterglielo su quella faccia da cazzo a metà, ripetendolo ad alta voce. << Mi fai pena. Non sei che un cane rognoso che raccoglie gli avanzi altrui nel peggiore dei modi >>, sbotta.  
Ma quello non se ne dà per inteso. Lo guarda ancora, dritto in faccia, senza battere ciglio.
Katsuki non tollera quel silenzio. Non tollera neppure quello sguardo spaiato puntato nel suo, che non rivela nulla. << Allora è questo, ci ho visto giusto. Te la stai facendo … nel tentativo patetico … di avere qualcosa di suo >>.
<< Assolutamente no. Ma tanto anche se ti spiegassi non capiresti, resteresti comunque della tua opinione quindi mi risparmio il disturbo >>. Fa per girare sui tacchi, ma Bakugō ancora non ha finito.
Anzi, ha appena cominciato. << Ah. E dimmi ancora una cosa, bastardo … come farai con il bambino, eh? >>.
<< Bambino? >>.
<< Quello che porta il suo nome. Oh, già, suppongo gli darai il tuo glorioso cognome. D’altro canto, forse non sarai neppure capace di farne, quindi tanto vale prenderti anche quello, no? O sbaglio, Todoroki-kun? >>, getta in tono maligno, insinuante.
Shouto ora è allibito. Per la prima volta da quando ha messo piede in camera pare aprirsi una crepa, nella sua imperturbabilità. << Io penso che il trauma cranico sia stato peggiore di quel che suppongono i medici >>, mormora. Sembra davvero … raggelato, è il caso di dire. << Non c’è nessun bambino. Midoriya ha lasciato Ochaco dopo otto mesi che stavano insieme. Io ho cercato di farle comprendere che era inutile anche provarci, ma lei non ha sentito ragioni. Ha voluto tentare comunque e quando è finita l’ha presa male, ma con una certa rassegnazione. Così abbiamo iniziato a vederci per … parlare di lui. E alla fine, è andata così. E sai una cosa? Sto bene. Stiamo bene. Ochaco sa capirmi, e sono contento di non aver mai fatto cenno ai miei sentimenti per Izuku con lui >>, conclude, lasciandolo di merda.
Katsuki non riesce a credere alle sue orecchie. O ha frainteso, e il matrimonio era finito ancora prima di cominciare, oppure …
Nulla di quel che ha vissuto è mai accaduto. E’ stato soltanto un sogno, mentre era in coma indotto.
E’ talmente scioccato che non riesce a soffermarsi neppure su ciò che Todoroki ha appena ammesso, di essere stato innamorato di Deku.
Tutto ciò che sente è l’eco della sua stessa voce mentre chiede tremante: << Cioè, mi stai dicendo che … Deku è vivo? >>.
<< Ma certo che è vivo. Perché non dovrebbe esserlo? >>.
I macchinari a cui è collegato iniziano a suonare. Forte. << Mi stai prendendo per il culo?! >>, sbotta mentre quello li disattiva per impedire che accorrano dal reparto.
In un attimo, Todoroki gli è addosso, le mani piantate intorno alla sua testa, vicinissimo alla sua bocca. Il suo odore glaciale lo investe come un ceffone, una folata di vento improvvisa, che sbatte le finestre e manda in pezzi le lastre di vetro. << Ci ho pensato, qualche volta. Ci ho pensato. Ma a differenza di te, io ce l’ho il rispetto per i sentimenti altrui, soprattutto per quelli delle persone che considero mie amiche >>. Sottolinea con forza quell’ultima parola.
<< Unghf … >>.
<< Altrimenti non mi sarebbe spiaciuto farti assaggiare un po’ di fuoco >>, gli sussurra sulle labbra spalancate per l’incredulità.
Quell’occhio turchese s’illumina, rivelando bagliori incandescenti. E’ … ipnotico, a dir poco.
Per un attimo, un brivido scuote Katsuki dal profondo. Ma immediato si riprende. << Levati, finocchio di merda. O ti faccio ingoiare tutti i denti >>.
Per nulla offeso Todoroki si rimette dritto, incrocia le braccia e gli scocca un mezzo sorriso storto, appena accennato. << Sai, Bakugō, io non ho mai capito molte cose di te. Se odiavi davvero Midoriya, oppure la tua era una scusa per nascondere quello che provavi realmente per lui dacché il tuo fottuto orgoglio non poteva digerire che non avesse più alcun bisogno di te, visto che anche lui era in grado di farsi valere adesso. Ma a questo punto immagino non importi >>, nota ritrovando la sua solita compostezza. << Tuttavia … se fossi in te non getterei nel cesso … l’avvertimento che hai ricevuto tramite qualsiasi cosa tu abbia creduto di vedere >>.
Bakugō non osa respirare, tanto il commento di Todoroki lo colpisce con la sua giustezza.
Allora non è coglione come pensava, quel mezzo uomo. << Ho sempre creduto fosse inutile lottare contro i fantasmi del passato. Ma … a volte è l’unica cosa giusta da fare. Guardarli in faccia e affrontarli, perché possiamo realmente renderci conto che non sono poi così spaventosi come crediamo >>. Stira un sorrisetto, si china di nuovo su di lui, sistemandogli il guanciale sotto la testa con cura esagerata.
Lo sta facendo apposta. Si prende tutto il tempo di controllare le flebo appese sopra il letto, i macchinari che ha spento poco prima.
Ci sta godendo nel tenerlo sulle spine. Gli ha dato del frocio, e adesso ci sta prendendo gusto a provocarlo con quei gesti lenti, studiati, nel terrore che possa azzardare qualche movimento poco ortodosso senza che lui possa difendersi, bloccato com’è.
Ah, ma può sempre morderlo. Rifilargli una testata, rompergli quella testa di cazzo e spedire lui a farsi ricoverare.
Ma non fa niente. Alla fine infila le mani spaiate nelle tasche dei costosi calzoni blu scuro, di ottimo taglio.
E lo fissa. Ancora.
Quell’occhio ora sembra liquefarsi. La luce gelida diventa … comprensiva? A momenti dolce, l’azzurro della fiammella che rischiara l’oscurità dandole calore.
Quasi sentisse di aver compiuto la sua missione, in un modo o nell’altro. << Rimettiti in fretta, Bakugō. Non penso ci rivedremo tardi quanto ti auguri tu >>, si congeda. Esce dalla camera chiudendosi dietro la porta, piano, lasciandolo da solo.
Nel silenzio che si fa assordante. 
Fottuto … bastardo di merda. Maledetto finocchio del cazzo.
Forse non è affatto vero quel che gli ha detto, che ci ha pensato.
Voleva solo stuzzicarlo, prendendosi la meritata rivincita dopo tutti quegli anni.
E fargli capire qualcosa.
Torna a fissare il soffitto. Bianco, come una pagina tutta da scrivere.
Poi chiude gli occhi, e osserva il nero davanti alle palpebre.
Rivede quel casermone. Risente quelle gocce di pioggia scivolargli sulla pelle, insinuarsi dietro la nuca.
Quelle lacrime spaccargli il cuore.
E poi li riapre, a vedere la luce.
Nessun figlio. Nessuna vedova inconsolabile consolatasi tra le braccia spaiate del bastardo a metà.
E lui … 
Nel silenzio spezzato da quell'occhio azzurro, trova le risposte che per anni non ha avuto il coraggio di darsi. 
Resta solo una cosa da fare.  
Premere quel pulsante.
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Back to the start ***


Se potessi andare, andrei nel mio cuore
E la ricerca di tutti i luoghi che ho lasciato la scintilla
Trovare un modo, un modo per tornare al passato
Prima di iniziare a cadere a pezzi

" Back to the start", Michael Shulte 
 
 
Alla fine, ha ceduto.
Inverosimilmente è stato Quattrocchi a dargli l’indirizzo e tutto. Come nel sogno che voleva avvertirlo, ha creduto fosse bene proseguire lungo quel filo e vedere dove lo conduceva, come gli aveva consigliato il bastardo.
Tanto non aveva più nulla da perdere.
Solo da guadagnare.
Faticosamente ha rimesso insieme i pezzi. Dopo il diploma ha pensato bene di prendere e piantare tutto, ché tanto le agenzie in cui era stato accettato non gli andavano a genio. Ha fatto un anno e mezzo fuori porta, ha sputato sudore e sangue lontano da casa, lontano dai suoi affetti –perché sì, anche lui ne ha a dispetto di ciò che vuol far credere- pur di non doversi rodere fegato e cuore nel pensiero di lui.
E’ tornato giusto in tempo per finire in mezzo ad un casino. Ha fatto il cane sciolto e si è lanciato senza pensarci, che ancora non si era presentato da nessuna parte a cercare lavoro. Senza la tenuta da Hero, così com’era; e si era rimediato un fottuto trauma cranico che l’ha lasciato incosciente per giorni.
Ha rivisto i suoi ex-compagni, i suoi professori. I suoi genitori, Mitsuki che fremeva dalla voglia di dargli una testata e abbracciarlo contemporaneamente, Masaru che gli sorrideva e cercava di trattenere le lacrime.
Ha stretto di nuovo la mano di Capelli di merda, il suo migliore amico. E cominciando a muovere i primi passi ha beccato lo stronzo a metà e Faccia Tonda a baciarsi davanti ai distributori automatici come due cazzo di piccioncini.
Non l’avrebbe detto mai, ma stanno bene insieme quei due. La piccoletta ha abbastanza buonumore anche per quello stoccafisso, e lui abbastanza quattrini da farle mettere da parte i suoi guai; e spera che non sia stato tanto infame da raccontarle della conversazione alquanto accesa che hanno avuto loro due.
E poi quelle parole.
E’ venuto qui tutti giorni. Non ha mai osato varcare quella soglia, perché aveva paura che ti svegliassi e vedendolo … non la prendessi bene. E’ rimasto qui fuori, come un cane, in attesa, chiedendo notizie “.
Todoroki è un bastardo e su questo non ci piove.
Ma non un bugiardo. Mai. La menzogna è estranea alla sua natura.
E lui … Katsuki … non può essergli da meno.
Ha smesso di nascondersi.
Il tempo dei giochi è finito.
Adesso tocca essere uomini.
Ha voluto rivedere la loro scuola, prima. No, non la Yuuei, le medie. Quando erano ancora poco più che bambini e lo tormentava e bullizzava senza pietà; ma lui non aveva esitato un attimo, quirkless com’era, a corrergli incontro per soccorrerlo dal Villan che lo stava risucchiando.
Quanto tempo, quante occasioni gettate via inutilmente.
E’ lui il vero Deku, in fin dei conti. Quello davvero inutile, che ha sprecato metà della vita a fargli del male quasi non potesse perdonargli di ispirargli … quello.
Poi si decide. Va’ all’indirizzo che gli ha dato Quattrocchi, un appartamento simile in tutto e per tutto a quello del suo sogno.
Azzittendo l’inquietudine suona. Quando la voce inconfondibile emerge dal citofono, lui tace tanto gli si contorce lo stomaco. << Sì? Chi è? >>.
E’ vivo. E’ vivo per davvero.
Appena la porta si apre è un tuffo al petto.
Non è cambiato per niente dall’ultima volta che l’ha visto.
Nulla. Neppure una virgola. Niente di niente.
A parte che adesso non riesce più a trattenere la piena dell’emozione nell’incrociare i suoi occhi.
<< Bakugō >>, mormora incredulo Midoriya. << Ci-ciao >>.
Gli occhi gli si riducono in due fessure.
Che cazzo è quella storia? Perché non lo chiama più Kacchan?
<< Co- come stai? >>, continua, sforzandosi di mantenere un tono neutro senza riuscirci.
E’ sempre lo stesso emotivo del cazzo. Troppo sensibile e rivelatore. << Uh >>.
Midoriya sembra intuire il suo sconcerto. Oltre che mettere fuori il proprio. << Quando … quando sei … uscito? >>.
<< Stamattina >>.
<< Ah ah. Bene. Sono felice >>.
<< Mhmm >>.
<< Scusa se non sono venuto a farti visita. Pensavo … ti sarebbe dispiaciuto vedermi >>.
<< Mhmm >>.
Ma che bella conversazione da mentecatti. Nella lista delle sue peggiori questa è la seconda.
La prima resterà quella con lo stronzo a metà. Per un bel pezzo, teme. << Ero … preoccupato. Sono … venuto ogni giorno in ospedale per avere tue notizie. E per il resto … avevo chiesto di tenermi informato … ad Iida e … Uraraka >>. Quel nome pare bruciargli le labbra.
<< La tua ex >>.
Midoriya trasale. Tanto forte che la chiave si stacca dal retro della serratura e finisce a terra con un tintinnio. << Ehm … già >>.
<< Non mi fai entrare? >>, sbotta ruvido.
Midoriya annuisce, sembra confuso. Adorabilmente interdetto. << Sì, certo … scusami. Sono un po’ distratto, di questi tempi >>.
Katsuki stira un mezzo sorriso. << Immagino. La carriera di Eroe deve occupare gran parte dei tuoi pensieri, uh >>.
<< Be’ … sì. Abbastanza >>. Lo vede muoversi incerto, come in sogno.
Ma di sogni Bakugō ne ha avuto abbastanza. Per tutto il resto della sua vita.
Quell’incubo terribile ha colmato tutte le falle nel suo essere, riempito i buchi nel suo ego.
Ora vuole che lo faccia Izuku.
<< Posso … offrirti qualcosa? Non so, un tè … >>. Si volta, guardandolo mentre si prende le tempie tra le mani.
Quel desiderio si è fatto urlo e gli schianta il cervello.
In un attimo Izuku smette i convenevoli fasulli, si fa amorevolmente preoccupato. << Bakugō … va tutto bene? Forse potrei … accompagnarti in pronto soccorso >>.
<< No. Vieni qui >>.
<< Cosa?! >>.
<< Non farmi incazzare Nerd di merda. Vieni qui e basta >>.
Deglutendo, Midoriya si avvicina a lui.
Ha sempre lo stesso odore. Di buono. Innocente. << Di … dimmi cosa posso fare … >>.
<< Ci sei andato a letto? >>, sbotta d’un tratto, brutale.
Izuku trasale più forte. << Con … con chi?? >>.
<< Con Uraraka. Con il bastardo. Con chiunque … ma che cazzo, sai che c’è? Non me ne frega nulla >>. Gli afferra il polso e lo attira a sé, posandogli la bocca sulle labbra.
Soffice e caldo. Dolce come lo zucchero, anche se lui detesta i sapori dolci.
Anche se adesso è un uomo, per lui è sempre Deku.
Il suo Deku. Che va in panico arrossendo e agitandosi, gli occhioni verdi febbrili.  << Ka- Kacchan! >>.
<< Ah, allora te lo ricordi come mi chiamo >>. Gli sfila la maglia, abbassandosi a baciarlo di nuovo, ovunque, come capita: sulla gola, che si muove frenetica seguendo il ritmo confuso, accelerato del respiro, sotto l’orecchio, sulla spalla.
Sul viso. Quel viso che perfino nell’incoscienza l’ha tormentato, facendogli credere che non l’avrebbe mai più rivisto. Che mai più … avrebbe specchiato i suoi occhi in quei due laghi di smeraldo, ammirato quelle piccole lentiggini sugli zigomi.
Si ferma un attimo, raccogliendogli il viso tra i palmi.
Izuku deglutisce, ma non cede. Lo fissa a sua volta, senza timore, con la stessa determinazione di allora.
Anch’io … posso essere un eroe
Oh, sì, amore mio. Tu lo sei.
Stavolta è Izuku ad andare in cerca del suo bacio, sollevandosi sulle punte dei piedi scalzi.
Katsuki non lo accontenta però. Anzi, solleva la testa, negandogli la bocca. << Sto aspettando >>, gli sussurra.
<< Co – cosa? >>.
<< Che me lo dici >>.
<< Io … ecco, io … >>.
<< Non quello >>. Gli porta le labbra a distanza di un respiro dall’orecchio, lo lambisce piano col suo fiato mentre Izuku s’irrigidisce.
Sta tremando. << Sai cosa voglio che tu mi dica >>.
Gli occhioni verdi si fanno lucidi. Come due pozze d’acqua scosse da una brezza leggera, profumata dell’estate che si porta dentro. << Ti – ti amo >>.
<< Bravo, Deku. Bravo >>. Gli restituisce finalmente la possibilità di baciarlo, Izuku alza le braccia, gliele avvolge al collo mentre le mani di Katsuki gli percorrono la schiena. Quella pelle così morbida malgrado tutti i graffi che la costellano gliele fa prudere, bruciare.
Vorrebbe legarsele, ferirsele, per tutte le volte che gliele ha messe addosso solo per picchiarlo.
Per tutte le volte in cui l’ha ferito anche con esse, in cui l’ha buttato giù. L’ha deriso, solo perché no, non poteva accettare che non potesse più essere il suo eroe, il suo mito.
Che non potesse più guardare a lui con quegli occhi pieni di pagliuzze scintillanti. Chiamarlo … Kacchan.
La lingua di Izuku è morbida contro la sua. E’ un bacio dolce, prolungato, il preludio ad una lenta discesa lungo sentieri sconosciuti eppure familiari, una strada che si è attraversata tanto tempo prima, una sola volta e poi non più; ma di cui non si è mai scordato il percorso.
Midoriya si aggrappa alle sue spalle, fa per tirargli via la maglia a sua volta; Katsuki non perde tempo e approfitta della pausa per slacciargli i jeans.
La mano di Izuku si posa sulla sua, lo ferma. I suoi occhi gli entrano dentro, ancora. << No >>.
Katsuki rimane interdetto. Ma cazzo, ha ragione, sta correndo troppo e … forse lui non è preparato, in fondo si è presentato alla sua porta dopo tanto tempo con delle richieste – pretese- assurde e …
<< Non l’ho fatto. Con nessuno >>, ammette, abbassando il capo smeraldino e deglutendo di nuovo, le guance innaturalmente rosse.
Il cuore di Bakugō si contrae, per poi riprendere a battere più forte. << O … Okay >>.
<< Aspettavo te >>.
Ora respira a fatica. L’aria gli raspa in gola, come dopo essere uscito dal coma. << E se … se .. non fossi … arrivato mai? >>.
<< Avrei continuato ad aspettarti … Kacchan >>. Rialza gli occhi, e con essi la mano con cui l’ha fermato per posargliela sulla guancia.
<< Allora … te lo sei guadagnato >>.
<< Cosa? >>.
<< Dov’è che hai il letto? >>.
 
Le dita di Izuku tremano leggermente. << Di più. Stringi. Forte >>.
<< Ma … ma ti farò … male e … >>.
<< Non fare il solito nerd di merda. Stringi >>.
Izuku obbedisce, il legaccio si serra intorno al polso fin quasi a bloccare la circolazione.
Non sembra convinto. Poi ci infila un dito in mezzo, allentandolo quanto basta a non recargli danno.
E’ avvampato con violenza. Sembra sia sul punto di piangere, tanto i suoi occhi sono lucidi.
Se la sua eccitazione non fosse un fluido dolce e denso che riempie l’aria intorno ad ogni suo movimento, Katsuki penserebbe quasi che lo sta terrorizzando.
Ma la sente, nitida. Gli preme sul fianco mentre termina di assicurarlo al montante del letto.
Non gli ha chiesto perché. L’ha fatto e basta.
Quel che ha provato mentre era in balia di Todoroki l’ha colpito, svegliandolo per davvero.
Se c’è una cosa che non è mai stato in grado di fare, è affidarsi a qualcun altro. Si, vero, forse con Kirishima ha instaurato un rapporto un po’ più paritario: ma mai l’ha considerato al suo livello, mai si sarebbe affidato ciecamente a lui. Anzi, semmai è sempre stato Bakugō a vegliargli addosso finché ne è stato in grado.
Ora vuole donare a Deku tutto ciò che ha di più prezioso.
L’abbandono alla volontà altrui. In realtà non sarebbe servito neppure legarlo: ma ha il dubbio che la sua fame possa finire col sottometterlo comunque in qualche modo, e poi voleva un modo per dimostrarglielo chiaramente.
Fa’ di me quello che vuoi.
Sono nelle tue mani.
Quelle mani che si sono sempre tese per accorrere in suo aiuto, anche quando non lo meritava. Anche quando ha mandato quelle di qualcun altro a salvarlo, sapendo che non sarebbe stato accettato.
Quante volte si è rifiutato di stringerle quelle piccole mani così forti.
Ora vuole sentirle.
Mentre gli slaccia piano i calzoni, glieli fa scivolare dalle cosce tremano ancora ma non esitano. Lentamente lo spogliano, lo accarezzano, si fermano sull’orlo dei boxer e non si muovono più.
Poi con lentezza non studiata, spontanea le porta su se stesso. Libera le proprie gambe, con quel suo fare timido ma deciso a non farsi indietro.
Deku non si è mai fatto indietro. Nemmeno davanti ai peggiori nemici; anche se strangolato dal terrore più puro non ha mai rifiutato nulla, ha accettato dolore e paura, ne ha fatto una spinta, un monito a non arrendersi mai.
Nemmeno adesso retrocede. Appena si spoglia gli si sdraia addosso, cauto.
Il calore della sua pelle basta a mandarlo in estasi. La purezza del suo corpo, del suo sguardo è una dose di adrenalina piantata dritta nel cuore.
Finalmente. Dopo tutto questo tempo …
Lui.
Non riesce a togliergli gli occhi di dosso mentre lo bacia sul petto, sulle braccia. Piccoli tocchi ingenui che lo riempiono di brama, gli arroventano il respiro e fanno montare l’eccitazione a livelli disumani.
I montanti del letto scricchiolano. << Fa’ presto, Deku >>.
Midoriya avvampa una volta di più. << Ho bisogno di te. Adesso >>.
Raccoglie il coraggio a due mani, si fa avanti e torna a catturargli le labbra. Bakugō si lascia sfuggire un ansito rovente, affamato.
<< Fammi tuo … Izuku >>.
Il ragazzo inspira con forza. Porta due dita alla bocca, le inumidisce con la sua saliva. Katsuki le guarda luccicare un istante, prima che svaniscano per andare a cercare l’accesso alle sue viscere.
Serra gli occhi.
Fa male.
E’ un dolore celestiale. Le sente scavargli dentro, allentarlo, aprirlo e non vuole nient’altro che lo facciano ancora di più; muove il bacino contro la sua mano, ode il suo verso esterrefatto e prova a contrarre quanto più possibile i muscoli intorno alle dita che lo esplorano, con innocente ingordigia.
<< Deku … >>.
Estrae le dita, sistemandosi tra le sue cosce.
Ora è lui a prendere fiato.
E’ un affondo secco. Che lo fa gridare. << Oddio, scusa, scusami Kacchan! >>, esclama immobilizzandosi.
<< Sta’ zitto >>. Lottando con il dolore, il bruciore dimena i fianchi, accogliendolo in sé più a fondo, dimostrandogli di essere ospite gradito.
Trema, Izuku. Ma non demorde; osserva con piacere crescente l’espressione sul suo volto mutare, i tratti bellissimi e delicati da ragazzino contrarsi nella passione.
<< Kacchan … ah >>. Immediatamente riprende animo, torna a stendersi sopra di lui e a condurre il gioco, entrando ed uscendo, ansimando, gli spasmi che gli scuotono le membra si trasmettono a lui quasi per osmosi.
Cazzo, quant’è bello. Soffre da matti, ma non gliene frega niente.
E’ Deku. Che si prende il posto che gli spettava da troppo e che non ha voluto concedergli finora perché troppo spaventato da quel sentimento così immenso e profondo.
Ora vuole gustarlo appieno. Vuole sentirlo dilaniargli le carni, invaderlo, stordirlo completamente.
I loro gemiti si confondono, sbattono l’uno contro l’altro intrecciandosi come i loro corpi, le loro dita. Anche se legato Midoriya gliele cerca ugualmente, le stringe restando a distanza d’un respiro spezzato, caldo, spinge con misurata energia ma senza sosta.
L’attimo in cui si affaccia all’orgasmo è terribilmente soave. Strizza le palpebre ma subito le riapre, si china a baciarlo ancora dandogli ogni suo
<< Kacchan … >>, sussurra sulle sue labbra. << Ti amo … >>. E si lascia andare, riversandogli dentro il suo seme, fluido e bollente.
Katsuki si morde le labbra, inarcandosi. Lo accoglie sul suo torace sfinito, col fiato corto e la pelle incandescente.
<< Kacchan … >>, mormora teneramente, con un sospiro gonfio di appagamento. Gli sfrega i capelli sulla spalla, solleticandolo.
Bakugō non gli chiede nulla.
Non ne ha bisogno. Istintivamente Deku scivola sul suo torso, si ferma in basso.
Il suo bacio è anche più dolce adesso. Lento e morbido, insiste sull’ombelico seguendone i contorni con precisione millimetrica prima di addentrarsi nella leggera peluria appena dorata del sesso e affondarvi senza remora.
Katsuki reclina il capo, rovescia gli occhi.
Oh…  Deku. Il suo meraviglioso, sorprendente Deku.
Lo porta fino alla fine. Quando gli strappa dalla gola serrata in un ansito strozzato il suo nome, quelle parole troppo a lungo taciute, negate.
Appena ha anche lui il suo apice Midoriya lo slega con due semplici tocchi. La sua forza è sovraumana.
Come la sua bellezza. La sua dolcezza. << Izuku … >>.
 Restano cuore a cuore, così, abbracciati. Le braci del sole morente li scaldano, nudi, sudati, sul letto in cui hanno trovato compimento i loro affanni, le loro speranze e i loro desideri.
<< Senti >>.
<< Mhmm? >>.
<< Io ho avuto una visione. Mentre ero in coma. Eri morto. Un ictus, dice >>.
Midoriya rialza gli occhioni su di lui.
<< E’ stato orribile. E ora … temo che possa succederti qualcosa >>.
<< Ma, Kacchan … >>.
<< Chiudi il becco. Ora, non so se accadrà o meno, ma … quello che voglio è … insomma, starti … vicino. Quanto meno … per accertarmi che tu sia … al sicuro >>.
<< Va bene, Kacchan … >>. Gli posa un delicato bacio sul plesso solare. << Ma non devi temere. Io sto bene. E anche se accadesse … adesso … io sono … felice. Davvero >>. Si raggomitola contro l’incavo della spalla. << Ma se proprio vuoi … >>.
<< Sennò non te lo starei dicendo, no? Sei sempre il solito nerd di merda >>, borbotta, serrandolo tra le braccia.
Izuku sospira, di abbandono e beatitudine. << E va bene. Ma con te … io non ho paura di niente, Katsuki. Tu sei il mio eroe. Lo sarai sempre, anche tu >>.
Bakugō sorride. Gli sfiora la tempia con le labbra, gli scompiglia appena i boccoli smeraldini. << Non importa quel che avverrà, se ti avrò al mio fianco. Con te, potrei sfidare anche la morte >>.
<< Sta’ zitto, idiota >>. Gli cerca la bocca, la carpisce in un bacio senza grazia, quasi un morso. Per tenerlo quanto più possibile vicino. << Sta’ zitto >>.
 
 
Nessuno può prevedere il destino.
E quasi per fargli scontare quella capacità, la Nera Signora si è portato via l’Eroe Veggente, tanti anni prima. Che a nessuno è dato di conoscere le vie oscure per cui s’inerpica il sentiero di ognuno.
Sono passati tre anni. E ne hanno prese di batoste, di ferite.
Tanti altri segni si sono aggiunti a quelli che già avevano. Tanti altri giorni sono trascorsi, dietro la scrivania dell’ufficio in agenzia; tante altre notti, insieme, tra le lenzuola.
A cercarsi. Ad amarsi.
A temere e aspettare.
Uraraka sorride. Il suo pancione è ormai così grande che sembra sia quello a reggere lei e non il contrario. Arma il cellulare, fa cenno con la manina dai magici polpastrelli di stringersi. << Dai, Bakugō! Sorridi! >>.
Katsuki non ne ha alcuna voglia. Stretto tra il bastardo e Quattrocchi, passerebbe a chiunque.
Midoriya è davanti a lui. Si gira un attimo, gli rivolge uno dei suoi sorrisi più belli e spontanei.
La cicatrice sulla tempia non si vede più. I capelli sono ricresciuti, anche se i boccoli verdi e folti hanno ceduto da tempo il posto ad un taglio più virile.
Quando quel mattino di un anno e mezzo prima, dopo aver fatto l’amore, gli ha detto che andava a fare la doccia mentre lui preparava la colazione, nel non vederlo uscire dal bagno si era inquietato ma non troppo.
Aveva subito compreso. E prima ancora di andare a spalancare la porta e trovarlo riverso sul pavimento aveva già composto il numero delle emergenze.
L’avevano ripreso subito. Era stato leggero, non gli aveva lasciato alcun segno oltre quel piccolo graffio in rilievo sulla pelle delicata, e qualche mese di riabilitazione.
Bakugō non aveva avuto paura, stranamente. Il suo animo era in pace, sapeva che sarebbe dovuto accadere e una volta successo, sapeva anche che sarebbe andato tutto bene.
Izuku stava bene. Era perfino tornato al suo lavoro, insieme a lui. Aveva aperto una propria agenzia e la portavano avanti, giorno per giorno e notte dopo notte, combattendo il male, crescendola e occupandosi di lei con amore come fosse una loro creatura, un figlio.
Katsuki cede. Davanti a quel sorriso, a quegli occhi di smeraldo sorride infine anche lui.
E’ il suo compleanno in fondo.
Il terzo, insieme. Anche a tutti i loro amici.
<< Dite “ cheese” … >>. Il rumore dello scatto, la giovane futura madre che correva incontro al gruppo dopo aver immortalato ad eterna memoria quel momento e le altre ragazze che si davano da fare per riempire i calici e passarli agli altri.
E’ una bella sera di luglio, calda e quieta.
Sembra che anche i Villan abbiano voluto concedere loro un attimo di respiro, quei maledetti.
Todoroki si avvicina a lui, allunga il bicchiere a battere piano contro il suo. << Allora, Bakugō. Avevo ragione o no? >>.
<< Tsk. Non montarti la testa, bastardo. Solo perché alla fine sei riuscito a mettere incinta Faccia Tonda, non vuol dire che debba sempre dirti bene tutto >>.
Shouto ridacchia. << Non ti chiederò di darmi soddisfazione fino a questo punto, sta’ tranquillo >>. Beve, e Katsuki gli scocca un’occhiataccia di traverso.
<< Fottiti, stronzo >>.
Lui alza le spalle con fare filosofico. << Fa’ come ti pare. Ma … se gli fai del male, verrò a cercarti, non dubitarne. E’ pur sempre mio amico >>.
Bakugō fa un verso scocciato. << Senti, faccia a metà. Vuoi vedere tuo figlio con tutti e due gli occhi, o devo gonfiartene uno così tanto che ti riprenderai solo dopo che avrà preso la licenza? No dico regolati eh? >>.
Todoroki stavolta scoppia a ridere. Svuota il calice, scuotendo la testa bicolore. << Ti sto solo punzecchiando. Lo so che ci tieni >>.
<< Coglione >>.
Shouto alza l’indice dal cristallo, glielo punta dritto contro. << Vedi di esserci, piuttosto. O non te lo perdonerò >>.
<< Verrò solo per il bambino e tua moglie. Non certo per vedere la tua faccia da cazzo, idiota >>.
<< Sta bene >>. Si leva di torno, finalmente, tornando dalla sua donna.
Ora è Izuku ad avvicinarsi. Lo abbraccia, e Bakugō gli posa le mani sulle spalle forti. << Grazie, Kacchan >>.
<< Di che? Di non aver ficcato il bicchiere in gola a quell’imbecille? Prego. Non ti avrei mai rovinato la festa per una cosa del genere >>.
Midoriya sorride. Gli prende le mani nelle sue. << Stiamo bene, vero, Katsuki? >>.
<< Sì, Deku >>. Si china su di lui, gli bacia la cicatrice quasi invisibile. << Stiamo bene. Staremo bene >>. Gli prende il mento tra le mani, gli alza il viso accaldato, arrossato di eccitazione e per il bagliore sanguigno del sole che cala ad ovest. Ora le labbra sfiorano quelle di lui. Con dolcezza. << Staremo bene. Sempre >>.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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