Dove cresce la carice

di _EverAfter_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Alba ***
Capitolo 2: *** II. Meriggio ***
Capitolo 3: *** III. Crepuscolo ***



Capitolo 1
*** I. Alba ***





I
Alba

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    Il Munster era famoso per due cose: la prima era il tempo, generalmente piovoso e poco incline ad accettare sovente i raggi del sole; la seconda era la Contea di Cork, che – a detta dei più – era l’unica cosa per la quale andar fieri d’esser nati nella zona sbagliata d’Irlanda.
    La contea di Cork, il cui nome faceva riferimento al meno celebre appellativo gaelico Corcaigh, era considerata una zona paludosa e inospitale, mangiata dal freddo e dalle cimici verdi, che imperversavano sulle piante come le locuste allorché Mosè assecondò la volontà del Signore
[¹]. La triste nomea s’affiancava all’ingiusto pensiero che il capoluogo, sorgendo dalle rive del fiume Lee, non godesse affatto dei privilegi di un suolo ben drenato, e che quindi nulla, nei dintorni della città putrefatta dall’acqua stagnante, potesse crescervi di sano, all’infuori dell’erbaccia comunemente denominata carice.
    La carice era una pianta insignificante e inodore, tuttavia famosa per la sua endemica presenza: non v’era luogo, nella contea di Cork, dove i suoi fusti non potessero nascere, schiusi nelle torbiere a far compagnia agli sfagni lacustri e all’erica selvatica, di gran lunga più avvenente e degna d’esser definita pianta, tanto da esser estirpata per divenir egregio decoro ai vasi in vetro delle tenute borghesi più raffinate. Ma per quanto bella e delicata, così alta coi suoi fusti robusti e ornata da piccoli germogli bianchi, l’erica non poteva vantarsi d’esser ovunque; la carice, seppur di natali floreali poco illustri, riposava placida sulle paludi, attorno ai ruscelli, spontanea sorgeva sui rivi silenziosi del Lee e s’assopiva sulle sponde dei laghetti campestri. Per quanto insulsa potesse risultare all’occhio della gente comune, il suo pregio era di poter nascere dove più le aggradava.
    A poche miglia dal capoluogo della Contea, v’era un’immensa distesa della varietà brizoides[²], che s’intrecciava ai fusti più robusti della festuca. Lì vicino, divorata lentamente dalla pianta infestante, v’era una magione dai toni pastello che tutti solevano chiamare Sedge[³] Hall – il cui epiteto non avrebbe potuto essere più calzante. Era una vecchia tenuta di caccia dei marchesi del Downshire, che avevano ottenuto il titolo della nobiltà inglese della parìa d’Irlanda[⁴], acquisendo la magione ch’era appartenuta al nobile Florence MacCarthy[⁵] prima della Ribellione di Tyrone[⁶]. Con la segregazione a Londra, ogni suo possedimento fu spartito tra i capisaldi della nobiltà irlandese. Sedge Hall faceva parte di quella ristretta cerchia d’immobili che sobillava non poche controversie burocratiche, per non disquisire delle beghe catastali: sorgeva adiacente alle sponde d’un affluente del Lee, dunque era un edificio spesso oggetto di alluvioni e costretto a continue ristrutturazioni; essendo di proprietà d’un nobile irlandese, molti trovarono inammissibile che fosse stato concesso per privilegio ai marchesi del Downshire.
    Nell’estate del 1838 la tenuta venne comprata dai conti Ó Súilleabháin[⁷], che bonificarono l’area intorno alle mura lateritiche e l’affidarono alle cure della famiglia Mór, uno dei rami cadetti del clan che governava la Contea di Cork, quello meno facoltoso e influente, e quindi per effetto meno incline a fomentare dispute d’alcuna sorta. In particolare, il conte era una persona schiva di carattere e poco avvezzo alla vita dei ricchi; sua moglie, certamente una gran brava donna, non poteva esser definita come l’immagine della bellezza eterea, a causa di quella folta capigliatura ruggine e del seno prosperoso che la rendevano, agli occhi degli altri nobili, una “tipica irlandese”. Nel loro matrimonio, uno dei pochi avvenuto per sincero affetto più che per interesse, v’era stata una sola figlia: Abaigeal[⁸].
    Abaigeal era nata podalica, il che aveva reso il parto più complicato del previsto; ci impiegò un’intera notte per venire alla luce, e quando la madre la sentì piangere si sentì sollevata, salvo poi scoprire l’orrore riflesso negli occhi dell’ostetrica, nel momento in cui si rese conto delle gambe necrotiche della piccola bebè. La diagnosi venne confermata a qualche giorno dalla nascita: la bambina aveva la spina bifida[⁹], che le avrebbe reso impossibile potersi alzare e camminare. Come conseguenza venne sin da piccola relegata su una sedia a rotelle, che le limitava la maggior parte dei movimenti, ma sulla quale riusciva facilmente a gironzolare per Sedge Hall senza l’ausilio di qualche domestico.
    I coniugi Mór non ebbero mai altri figli, carnefici e vittime di quella bambina che, per quanto potessero amare, ritenevano fosse il loro errore più grande. Abaigeal era una donna che non sarebbe mai diventata la sposa di nessun uomo di buoni natali, poiché era storpia e incapace d’esser una brava moglie. Non poteva imparare i mestieri, né tantomeno metterli in pratica. Riusciva a suonare il piano e a intonare l’aria, ma lo stomaco non si riempiva di suoni, né tantomeno la polvere si puliva con le ballate. Ben presto, alle soglie dei suoi sedici anni, s’accorse di quanto in realtà fosse odiata dai genitori: il padre vagabondava per le contee tra un viaggio burocratico ed uno di diletto; la madre, che non poteva addurre la scusa d’essere altrove, l’affidò alle cure di Lady Sadhbh[¹⁰], limitandosi a passare con lei le ore dei pasti, che considerava come le più lunghe della sua giornata.
    Abaigeal, per quanto inabile e con la sola compagnia dell’austera balia, crebbe con un’intelligenza davvero singolare. Aveva attitudine per la musica e le arti, mostrando il suo talento nella resa sopraffine della pittura ad olio e dello schizzo a carboncino. Della prima si faceva gran vanto, poiché con essa creava quadri dall’incredibile fascino, che raccontavano storie ben più avvincenti di quelle scritte sui libri; del secondo, invece, ne faceva un semplice hobby, mentre guardava fuori dalla finestra della sua grande camera al piano terra, dove ogni tanto poteva permettersi di uscire fuori al giardino, al limite del sentiero acciottolato. Oltre quel confine scandito da cinque grandi sassi di pietra sedimentaria, la ragazza non era mai andata.
    Il mondo, per lei, si riduceva a Sedge Hall e a quello che, nelle belle giornate limpide, riusciva a scorgere da dietro le tende: un mondo affascinante e meraviglioso, che non l’era permesso di conoscere. Di fronte all’ineluttabilità di quello scherzo che il dio Fato s’era tanto dilettato a giocarle, Abaigeal non s’intristiva più del semplice dovuto, finendo quasi sempre per adoprare con crescente entusiasmo l’immaginazione, che certo non le mancava. Attraverso i libri apprendeva, e con la pittura andava lontana, tanto più lontana di Sedge Hall e del prato di carice brizoide, a incrociare il cammino di popoli oriundi, a cavallo d’un frisone dal crine ondulato che la conduceva in luoghi mistici e sconosciuti, alla ricerca di tesori, principesse, fate.
    Nello spazio che intercorreva tra la mano che stringeva il pennello e la tela, Abaigeal era davvero libera.





    Accadde durante l’estate del 1855.
    I coniugi Mór vennero invitati alla magione degli Ó Súilleabháin, a Killarney, per festeggiare il genetliaco del principe di Beare[
¹¹] – appellativo che non aveva nulla a che vedere con i più illustri natali dei suoi predecessori. Colsero la fausta occasione per potersi allontanare da Sedge Hall, con la scusa che un cambio d’ambiente avrebbe giovato a tutti. «Vedrai, tesoro» le aveva detto la madre tra un sorriso e l’altro, mentre posava sul letto il necessario per la partenza. «Un po’ di tempo da sola ti aiuterà.»
    Abaigeal si risparmiò dal commentare la puerile giustificazione, concedendosi al dubbio di quella menzogna. Forse, se si fosse concentrata, avrebbe potuto scorgervi un sottile velo di sincerità – o quantomeno era quello che avrebbe tanto voluto trovarvi.
    I pomeriggi bruciavano sereni e incontrastati sul manto dei cariceti, brillando d’un intensa luce rossastra quando il Sole – nel sfiorare l’orizzonte prima del suo silenzioso congedo – veniva riflesso dall’acqua celata dal manto vegetativo, irradiando il luminescente raggio cremisi sui fusti giallognoli delle piante. Era come se l’astro più borioso avesse deciso di giungere anche lui sulla terra per far bella mostra di sé, ed Abaigeal pensò che nulla fosse così magnifico come ciò che aveva davanti agli occhi in quel momento: un inferno calmo e taciturno, che ben poco si confaceva all’illustre versione della Comedìa dell’Alighiero[¹²] ch’era solita leggere; non v’erano urla strazianti o contrappassi, ma solo il muto scorrere della giornata che volgeva al termine.
    Si perse a disegnare col carboncino il bel paesaggio, scorrendo delicatamente con la mano lungo il foglio. E tratteggiò con delicatezza i raggi del Sole, il riflesso sull’acqua e le piccole infiorescenze della carice, calcando con la fusaggine[¹³] la linea dell’orizzonte che in altro modo non si sarebbe potuta sufficientemente apprezzare. Si perse nell’opera, indugiando con lo sguardo su quel mondo di bianchi e di neri, in cui i colori non erano né un criterio di bellezza né di significato, poiché era sufficiente il contrasto tra il colore più scuro e quello più brillante: nel loro antagonismo, Abaigeal riusciva sempre a scorgervi un piccolo, insignificante miracolo.
    Calò la notte, e con essa l’entusiasmo della resa su tela. La giovane si ritrovò tra le lenzuola, assonnata e con una gran voglia di addormentarsi, nonostante la prole d’Ipno[¹⁴] stentasse a recarle visita, a causa della sempliciotta incapacità d’assopirsi da sola, senza la presenza familiare di Lady Sadhbh ch’era intenta ad impartire ordini alla servitù – cosa che comunemente era appannaggio della contessa. Si girò qualche volta nel letto, ma non fu possibile descrivere quanta fatica facesse a causa di quel suo handicap che non le permetteva di muovere le gambe. S’era sempre chiesta per quale assurdo motivo le avesse: in fondo, se fosse nata senza quelle insopportabili ancore, si sarebbe sentita almeno più leggera. Teneva per sé queste considerazioni, affinché la madre non s’indispettisse nel sentirla parlare in quel modo, che Abaigeal considerava pragmatico, ma che agli occhi della gente appariva più come lo sclero volgare d’una contadinotta poco istruita. E alla contessa, che s’era sempre sentita d’una spanna inferiore a tutte le altre nobildonne, quelle osservazioni di corte le procuravano terribili mal di testa che la relegavano a letto per giorni, cosicché la ragazza aveva smesso di metter bocca su ciò ch’era la sua stessa condizione. L’era stato tolto persino quello: il diritto di parlare di sé e del suo deficit.
    Persa in quelle tutt’altro che gaie elucubrazioni, sentì un rumore giungere dalla stanza a fianco, lì dove riponeva accuratamente tutte le sue opere d’arte. S’issò freneticamente sulla sedia a rotelle ch’era adiacente al letto, premendo con decisione i palmi delle mani sulle ruote e dirigendosi verso la fonte dell’improvviso strepito. Aprì la porta con fare circospetto, ma quella segretezza non servì poi a granché, quando s’accorse d’esser osservata da un uomo alto e col viso coperto da una sciarpa malconcia, che le sembrava più un pezzo di juta che un vero e proprio tessuto. L’uomo si fermò dall’intento d’infilare un quadro all’interno di quello che doveva esser stato un grande sacco di patate, mentre studiava perplesso il volto della ragazzina di fronte a sé: era minuta, con i capelli rossi scompigliati dal sonno e delle profonde occhiaie violacee a segnarle gli occhi d’un insolito ceruleo, che gli sembrava avessero vissuto giorni migliori. Decisamente non una persona di cui aver paura, constatò, mentre tornava a rapire i quadri attorno a lui senza degnarla neppure d’un ulteriore valutazione.
    «Potreste non rubarli quelli?» Si fermò ancora una volta, tornando con lo sguardo a quella che, a suo dire, doveva esser la fonte della voce. Abaigeal s’avvicinò con la sedia a rotelle, sorprendendo l’uomo che indietreggiò di qualche passo.
    «Ragazzina» la sgridò con voce grave. «Che diavolo hai intenzione di fare?»
    «Nulla» rispose, mentre afferrava un quadro e glielo porgeva. «Questo lo potete prendere.»
    Il ladro sbarrò gli occhi, permettendo ad Abaigeal d’apprezzare più a fondo l’ambra incastonata nel suo sguardo che, non segnato da rughe, le rendeva manifesto che l’uomo dinnanzi a sé non fosse poi così vecchio. «Perché dovresti darmi una mano?»
    «Non vi sto dando una mano» continuò la giovane, «vi sto chiedendo di non rubare quei quadri. Se volete posso dirvi quali potreste prendere.»
    «Ma di che stai parlando?»
    «Non sono quadri di valore.» Abaigeal fece scorrere la mano su una delle tele, indicandogli la sua firma. «Li ho dipinti io.»
    L’uomo sospirò sconfitto, poggiando malamente il sacco a terra e accasciandosi contro il muro. «Quindi cos’è che potrei ottenere, rubandoli? Un quarto di penny?»
    La giovane fece spallucce, non essendo stata propriamente istruita per una conversazione con colui che la denominazione comune avrebbe definito un furfante da quattro soldi. A dir la verità non le sembrava particolarmente sveglio; forse era per quella motivazione che non provava neppure a chiamare aiuto.
    «Però» lo sentì dire poi, rinvigorito da quella constatazione, «sono dei bei quadri. Magari potrei trovare qualcuno disposto a comprarli.»
    Abaigeal gonfiò il petto, piena di sé e dell’orgoglio che permeava ogni centimetro della sua pelle di pittrice. «Davvero credete siano belli?»
    «Non sono un esperto.» L’uomo si tolse lo scaldacollo di juta, mostrandole un viso giovane e irritato da un principio di barba incolta che gl’infuocava la faccia. Abaigeal sfiorò il mento del ragazzo, del tutto ignara dell’intimità di quel gesto, che lo fece sobbalzare. «Ma che fai, mocciosa? Che per caso sei una di quelle
    Chiunque altro al mondo sarebbe stato in grado di capire il significato di suddette parole e a rispondere di conseguenza; tutti, tranne Abaigeal. «Quelle chi?»
    «Ma come quelle chi?» Il giovane uomo sbuffò, lasciando cadere la testa all’indietro. «Certo che sei stramba.»
    La ragazza non ricordava d’aver mai udito prima quella parola. In realtà, l’accento dell’uomo non le pareva d’averlo mai scorto prima nella voce di chiunque fosse entrato nella tenuta: rassomigliava similmente alla fonetica del goidelico degli Scoti[¹⁵], mista alla parlata frenetica delle Highlands scozzesi, quella che si concedeva il lusso di mangiar via tutte le sillabe tronche. Si chiese se non fosse un deportato, mentre con circospezione gli chiedeva: «Signore, non siete di qui?»
    «No» si limitò a risponderle, stordito dalla piccola presenza asfissiante. Era la prima volta che gli capitava di parlare con qualcuno che lui avesse desìo di derubare, e la cosa, oltre a risultargli paradossale, gli sembrava talmente assurda da esser quasi surreale. «Sono dell’Ulster.»
    Abaigeal non aveva mai avuto l’opportunità di poter parlare con qualcuno che non appartenesse ai fasti della corte più squisitamente inglese, quella a cui i suoi genitori inneggiavano con così doveroso rispetto; la stessa che, nei saloni variopinti d’arazzi dentro agli stipetti ageminati d’oro, si dilettava a prenderli in giro, poiché i Mór non avevano nulla di così prezioso da poter essere paragonati agli Ó Súilleabháin, ch’erano nobili irlandesi, ma solo su carta.
    «E com’è l’Ulster?» La curiosità della giovane inferma dovette sorprendere non poco l’animo imperturbabile del fallito ladruncolo, che si ritrovò a rispondere senza neanche rendersene conto, parlandole di Belfast, dell’egregia produzione di tabacco, di Ben Madigan[¹⁶] e delle leggende che aleggiavano sugli Ulaidh[¹⁷], così tanto sapientemente decantati nella Geografia del sommo Tolomeo che Abaigeal aveva letto qualche anno prima.
    Il ragazzo parlava, e nel farlo lei sognava, ritrovandosi di fronte a ciò che il suo inaspettato ospite descriveva, immaginando come apparisse agli occhi dei viaggiatori il Selciato del Gigante[¹⁸] con le sue colonne basaltiche a picco sul mare, e i dialetti dell’Ulter Scots[¹⁹], con le o molto aperte e le e strette. Per Abaigeal quel parlar concitato ed entusiasta era una sensazione nuova e del tutto singolare: il cielo aveva cominciato a scorrere veloce sulla sua testa, e i minuti parvero divenir secondi allorché s’accorse che, in quella conversazione a senso unico, la prima timida luce dell’alba picchiava già delicata sui quadri della stanza. Il ladro si alzò, afferrò nuovamente la sua sciarpa logora e si voltò verso la finestra rotta, maledicendosi per non aver affatto prestato attenzione allo scorrere del tempo.
    «Ve ne state andando?» domandò la ragazza, mentre lo vedeva sistemarsi.
    «Se mi trovassero qui, cosa credi che accadrebbe?» le chiese di rimando l’uomo, sbuffando. Non sapeva neanche bene il perché le stesse rispondendo.
    «Ma potreste sempre rimanere in questa stanza, se non sapeste dov’altro andare» s’affrettò a dirgli nervosamente, «dopotutto qui non viene mai nessuno.»

Il ladro, che di certo non s’aspettava quella reazione così appassionata, si ritrovò vittima dello sguardo ceruleo e malaticcio, chiedendosi il perché la ragazza fosse così ostinata nel chiedergli di restare, e per giunta proprio ad una persona che aveva tentato di derubarla. Sorpreso e titubante sull’accettare, decise di domandarle: «Ma perché lo fai? Cosa te ne viene in tasca[²⁰]
    Abaigeal non apprezzava molto le lezioni di diplomazia, ma dovette ammettere che, per quella volta, le sarebbero tornate certamente utili. Sulla sedia a rotelle drizzò il busto, porgendo una mano all’ospite desiderato: «Mi riprometto di darvi dei vestiti decenti, di sbarbarvi, di concedervi dei pasti caldi ed un tetto sopra la testa.» Scrutò l’impassibilità del volto più adulto del suo. «Voi, in cambio, dovete solo concedermi una sciocchezza.»
    «Che sarebbe?»
    «Le vostre storie.»
    L’uomo la fissò per qualche istante, cogitabondo sull’insolito accordo. Poi, con delicatezza, afferrò la mano della giovane, borbottando un semplice: «Andata.»






NOTE:

[¹] Riferimento all'ottava piaga d'Egitto.
[²] Varietà del genere Carex (Linneo, 1753).
[³] Il corrispettivo inglese di carice. Ho preferito lasciare il nome inglese ai fini della storia.
[⁴] La creazione di una nobiltà sorta durante la monarchia irlandese, ma sotto la giurisdizione formale del re d’Inghilterra, che ne faceva da garante.
[⁵] Fu un nobile irlandese del XVI secolo fu l'ultimo uomo a reclamare, con un certo diritto, il titolo di capo del Clan MacCarthy prima che gli inglesi lo sopprimessero (Wikipedia).
[⁶] Conosciuta come la “Guerra dei nove anni” (1594-1603), fu combattuta tra le forze gaeliche dei capostipiti irlandesi e il governo inglese di Elisabetta I d’Inghilterra. L’apice del conflitto fu nell’Ulster, ma molti dei possedimenti dei capi che vi avevano preso parte erano nella zona sud-occidentale dell’isola.
[⁷] Pronuncia: O’Sullivan. Ho preferito lasciare in scrittura la dicitura in irlandese, così come i nomi.
[⁸] Pronuncia: Abigail.
[⁹] È una malformazione neonatale dovuta alla chiusura incompleta di una o più vertebre, che quindi porta ad una compromissione del midollo spinale.
[¹⁰] Pronuncia: Saiv.
[¹¹] In realtà, l’ultimo sovrano indipendente del clan degli Ó Súilleabháin fu Donal Cam O'Sullivan Beare, morto nel 1618. Da quella data in poi, il clan degli Ó Súilleabháin aveva legami con gli esponenti della monarchia inglese.
[¹²] Riferimento alla Divina Commedia di Dante.
[¹³] Più famosa come “berretta del prete”. I suoi rami servivano – e servono tuttora – per la realizzazione del carboncino.
[¹⁴] Riferimento agli Oneiroi: Morfeo, Fobetore e Fantaso. Erano i figli d’Ipno, dio del sonno, e della Notte. Avevano il compito di plasmare i sogni dei mortali nell’Antica Grecia.
[¹⁵] I Celti d’Irlanda.
[¹⁶] L’attuale Cavehill, una collina d’origine basaltica che s’affaccia su Belfast.
[¹⁷] Popolazione dell’Irlanda nord-orientale, diede il proprio nome alla provincia dell’Ulster.
[¹⁸] Composizione basaltica sulla costa nord-orientale dell’Irlanda.
[¹⁹] Erano i dialetti irlandesi, che molti consideravano promiscui con quelli inglesi.
[²⁰] Ho scelto consapevolmente di far parlare il personaggio in questo modo, proprio perché non ha avuto alcun tipo d’istruzione, quindi s’affida a frasi del volgo.


Lo sclero di
ver


Ma buongiorno, popolo di Efp!
Eccomi tornata con una mini-long di tre capitoli, ch'è sbucata davvero all'improvviso. Ringrazio da morire molang e il suo fantastico contest "Il lago dei Cigni", che mi ha dato un'ispirazione incredibile, facendomi perdere all'interno di quella che io considero una delle mie più amate countries - dicono che all'inglese faccia più figo.
Sono sempre stata una grandissima amante dell'Irlanda, e ho vissuto a Cork per un po' di tempo. E' sorprendente quanto possa essere bizzarro il paesaggio irlandese, coi suoi colori singolari e che sembrano trascinarti in una di quelle antiche ballate celtiche.
A parte tutto questo, sono davvero contenta d'aver avuto la possibilità di parlare d'una storia che avevo in cantiere da un bel po', per cui ancora un immenso grazie a questo meraviglioso contest che mi ha dato la possibilità di scrivere.
Ovviamente spero che la storia vi piaccia, a presto.


_EverAfter_

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Capitolo 2
*** II. Meriggio ***





II
Meriggio

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    Si chiamava Fearghus[¹]. Era un giovane borseggiatore di ventisei anni che aveva girato l’Europa a causa della morte prematura del padre, ammazzato durante una rissa in un bordello. Non aveva mai conosciuto sua madre, né aveva altri parenti che potessero prenderlo con sé; così a Dublino s’era imbucato su un treno – Abaigeal non ne aveva mai visto uno, neppure sui libri – e s’era abbioccato nel vagone merci. Al suo risveglio, s’era ritrovato a Dún Laoghaire[²] e da lì aveva preso un traghetto per l’Europa, agognando a quella nuova vita che di frequente sentiva uscire dalla bocca degli avventori della locanda in cui suo padre era solito portarlo.
    La nave attraccò a Dordrecht la primavera del 1838. Iniziò a rubare poiché non sapeva fare altro; dapprima si diede allo scippo per le strade succursali, poi divenne più avido, alla ricerca dei portafogli di vera pelle in cui poteva trovarvi da vivere per una settimana. Tuttavia, s’accorse presto di quanto fosse complicato il concetto di domanda e offerta: con l’inflazione alle porte a causa dell’avvento della Rivoluzione Industriale, ciò che rubava non bastava a garantirgli la sopravvivenza per nemmeno un giorno; poteva rinunciare all’alloggio – dormire per strada non gli era mai parsa una cattiva idea –, ma di qualcosa doveva pur sfamarsi.
    Giunse ad Amsterdam la primavera del 1839, quando aveva solo undici anni. Si unì per qualche tempo ad una compagnia d’artisti di strada, in cerca d’un lavoro che gli permettesse di guadagnarsi da vivere senza dover rubacchiare come aveva fatto in passato. Ma l’accento spiccatamente straniero e l’aspetto malandato non furono mai dei buoni biglietti da visita, specie in quella città: a causa della guerra contro la Gran Bretagna, la città aveva iniziato lentamente il proprio declino, e nel giro di qualche mese le tratte commerciali si spostarono verso Londra. Nel bel capoluogo, consumato da un popolo in cui perfino lui non si riconosceva – era irlandese, non gl’importava affatto degli inglesi –, Fearghus veniva sempre etichettato con soprannomi come “lo straniero”, “l’inglesino”, “il lord”; tutti nomi che, se avesse potuto, avrebbe appioppato volentieri a qualche ignaro passante con l’accento di Canterbury.
    Così, sconfitto dalla città da cui sperava di poter ricominciare, si ritrovò a vagabondare per l’Europa, non trovando mai un posto dove poter sistemarsi: si diresse a sud, giungendo a Plombières, in Vallonia; dopo qualche settimana di viaggio, proseguì per Parigi, incupita dagli stralci dei moti popolari del 1830. S’affacciò in Spagna, fino ad arrivare nel Golfo di Guascogna, la parte dell’Oceano Atlantico che da un lato bagnava la Francia coi suoi Pirenei Atlantici, dall’altro si riposava sulle coste frastagliate dei Paesi Baschi sino alla Galizia. Visitò l’Italia, ma non giunse mai fino a Roma, dove avrebbe tanto voluto vedere quell’arena dei gladiatori che tutti chiamavano il Colosso
[³].
    Crebbe nomade, Fearghus, e non pensò mai di tornare sui suoi passi per capire cosa fosse andato storto nella vita: non incolpò mai suo padre per averlo lasciato allo sbando, né sua madre per non essere stata con lui. Non si pentì mai d’essersene andato e d’aver viaggiato, seppur non avesse condotto una vita che avrebbe potuto definire esemplare o esente da privazioni. Non s’era più interrogato su quante volte fosse stato costretto a dormire sotto al cielo gonfio di stelle, ma finì per abituarsi anche a quelle che, col passare del tempo, gli parvero più belle delle lanterne delle città. Dormì poco, ma sognò molto. E in quei sogni non patì mai il freddo, né il caldo.
    Fino al giorno in cui decise di tornarsene a casa.
    Abaigeal lo ascoltava rapita, con lo sguardo perso ad osservare il solito, monotono paesaggio che, al suono delle parole del ragazzo, si ravvivava e prendeva vita dai suoi racconti in modo del tutto nuovo; un mondo a colori che sovente si ritrovava a dipingere, chiedendo all’ospite se ciò che aveva realizzato fosse vagamente simile a quello che lui aveva visto dal vivo.
    «Sei brava» le aveva detto un giorno, con il volto immerso nella tela. «È davvero identica.»
    Era uno schizzo della Cattedrale di Notre-Dame, ch’era nato dalle parole di Fearghus e da qualche descrizione rubata al drammaturgo francese
[⁴]. Abaigeal si sorprese della facilità con cui riusciva ad utilizzare la pittura per dar vita a ciò che il ragazzo le raccontava, e nel giro di poco si ritrovò a parlare con lui di tutto ciò che le passava per la testa: delle sue paure, dei suoi dilemmi, persino dei fedeli tabù cui sua madre aveva messo un beneplacito divieto.
    Fearghus, dapprima restio e poco incline ad accettare come compagnia una ragazzina di sedici anni che non sapeva nulla del mondo, si scoprì ben presto intenerito dall’ingenuità di lei e del suo mondo, ch’era ridotto a Sedge Hall e a qualche pezzetto di cariceto.
    «Non sogni mai di andartene via?» le chiese un giorno, mentre la vedeva intenta a dipingere.
   «E dove potrebbe mai andare, una come me?» Il ragazzo non scorse alcun vittimismo in quella frase. Era ciò che Abaigeal considerava realisticamente la verità: la sua incapacità motoria la inibiva, e chiedendo aiuto a qualcun altro si sarebbe certamente trovata in difetto, consapevole di quanto potesse rappresentare un peso il suo handicap.
    Fearghus non vi pensava spesso, alla sua malattia; s’era ritrovato qualche volta a fissare la carrozzella su cui passava le sue giornate, ma presto divenne quasi normale per lui trovarsela attorno. Non definì mai quel sentimento di tranquillità che la ragazza gli trasmetteva, perché non gli era mai stato insegnato, limitandosi a credere che fosse ormai necessario alla sua esistenza. Fu in quel modo che smise di rivolgersi a lei con il nome di Abaigeal e iniziò a chiamarla Abby, poiché era più semplice per lui da ricordare e più bello per lei da sentire. E, per giusto compromesso, permise alla giovane di smettere di dargli del voi, che proprio non gli si addiceva.
    «Sono un vagabondo» continuava a dirle, «e tu continui a chiamarmi signore. Quanti anni pensi che io abbia, mocciosetta?»
    Allora la ragazza rideva e Fearghus s’univa a lei col suo ghigno storto e sciancato, chiedendosi da quanto tempo non si concedesse al benessere del cuore. Quella pacata emozione l’accompagnava perfino quando circospetto la riportava nella sua stanza ed Abaigeal gli chiedeva di raccontargli un’altra storia, e un’altra ancora, cosicché dovette iniziare ad inventarsene sempre di nuove per evitare che scoprisse il trucco: che lui, quelle storie, non le aveva davvero vissute tutte, ma aveva iniziato a farlo stando con lei.
    «Un giorno» gli capitò di dirle una sera, mentre le carezzava i capelli rossi, «prometto che ti porterò via da qui, Abby.»
    «Voglio andare a Belfast» gli rispose con gli occhi socchiusi. «E voglio vedere il Selciato del Gigante.»
    Fearghus si ritrovò, nonostante tutto, a sorriderle.
    Voglio. Non capitava mai che lo manifestasse così apertamente. S’era così affezionata a Sedge Hall e ai cinque sassi del confine della tenuta che non l’aveva mai sentita chiedere altro, soddisfatta di quel misero coccio di felicità che l’era stato offerto dalla vita. In confronto a lei si sentiva tremendamente fortunato, eppure prima di allora non aveva mai posto la mente al fatidico pensiero: Abaigeal faceva solo finta che la vita le andasse bene così com’era, poiché se così non fosse stato non gli avrebbe mai chiesto di rimanere. Ciò che le permetteva di vivere era proprio lui, Fearghus. Lui con le sue storie. Lui con i luoghi in cui era stato e dove lei non sarebbe mai potuta andare.
    Alla palese scoperta, il ragazzo si ritrovò a trattenere un insolito groppo alla gola, chiedendosi cosa fosse quel peso sul cuore che gli toglieva il fiato. «Abby.»
    La giovane schiuse un occhio, ma non rispose.
    «Posso darti un bacio?»
    Un sorriso fiorì sulla bocca sottile, e Fearghus si ritrovò a sfiorarle la fronte con le labbra secche e raggrinzite dal continuo mangiucchiarsele.
    Era bello per entrambi, il tempo trascorso a Sedge Hall.





    Passò un mese dalla partenza dei coniugi Mór. L’epistola scritta in calligrafia d’inchiostro ferrogallico rassicurava la ragazza sul loro stato di salute, adducendo i migliori omaggi a lei e a Lady Sadhbh, e specificando che la data del loro rientro era ancora da stabilire.
    «Perché ci mettono tanto a tornare?» le domandò Fearghus, steso sulla cassapanca di legno frassino, accanto alla finestra.
    «Perché non vogliono» rispose Abaigeal, rilassando il pennello sulla tela. «Credo che, se ne avessero l’opportunità, rimarrebbero a Killarney.»
    Il ragazzo si mise seduto a gambe incrociate, osservandola di sottecchi. Abaigeal non parlava poi molto dei suoi genitori, si ritrovò a pensare, e si chiese se non fosse dovuto a delle tensioni nel loro rapporto. Non era stato abituato a pensare prima di dire qualcosa, per cui gli venne spontaneo chiederle: «Com’è che non vai d’accordo con loro?»
    Il pennello s’allontanò dalla tela. «Loro non volevano una figlia storpia.»
    «Nessuno la vorrebbe.» Abaigeal si ritrovò a sorridere. Fearghus era davvero incapace di filtrare ciò che diceva, perciò non si sorprese affatto di sentirlo continuare: «E comunque non sei storpia. Le tue gambe sono drittissime come dei grissini. È solo che non funzionano.»
    «Giusto.» Ciò che per l’aristocratica rasentava un difetto insanabile e osceno, per il ladro non costituiva che uno dei tanti incidenti di percorso che aveva visto spesso nel suo vagabondar senza meta. «Al mondo, c’è di peggio.»
    «Puoi ben dirlo» le rispose, con le braccia dietro la nuca e gli occhi a fissare le nervature legnose del soffitto, «pensa se fossi stata cieca, oppure sorda. Non avresti potuto leggere, né dipingere. Non avresti potuto sentire il suono del pianoforte, né l’opera.»
    Abaigeal pose il pennello sul cavalletto in rovere, portandosi le mani in grembo. Non vi aveva posto molta attenzione, forse perché i suoi genitori non accettavano affatto l’idea che si potesse parlare del suo handicap – quanto tempo avevano passato, facendo finta di non vederlo? Quante volte avevano distolto l’attenzione da lei, nella speranza di non lasciar cadere lo sguardo su quella sedia, ch’era stata da sempre il suo mondo?
    Il discorso di Fearghus le parve un’ancora di salvezza, nel significato etimologico del termine: la stessa che veniva gettata in mare per favorire il flusso del moto ondoso, evitando che la nave potesse ribaltarsi. Era così anche per lei, poiché di fronte all’impiccio d’una vita senza il suo sguardo o senza le orecchie, la sua non le appariva poi così misera. «Chissà» disse infine, stemperando la tensione, «magari un giorno camminerò.»
    Fearghus sorrise. «E dove andrai?»
    «A vedere il cariceto.»
    Il giovane si mise a sedere, lamentandosi: «Che diavolo di senso ha andare a vedere qualcosa che sta qui a due passi?»
    Due passi. Certo, dovevano apparirgli proprio insignificanti, due passi. Abaigeal rise, lasciando nuovamente scorrere il pennello tra il pollice e l’indice della mano destra. «Beh, da qualche parte dovrò pur cominciare, non trovi?»
    «Sì, ma cerca qualcosa di più bello da vedere» si giustificò lui, resosi conto della sua mancanza di tatto, «non so, potresti vedere un roseto.»
    «Non mi piacciono le rose, preferisco la carice.»
    «Non la capisco questa tua ossessione.»
    La ragazza sbuffò, offesa da quelle parole. «Non è un’ossessione.» Si perse con lo sguardo oltre la finestra, posandolo sulla distesa di piccoli fiori bianchi che sbocciavano minuscoli sullo stelo della pianta. «Sono solo un po’ invidiosa, tutto qui.»
    «Di una pianta?»
    «Non di una pianta qualunque» contestò Abaigeal, «di una pianta che fa quello che le pare. Di una pianta non degna di nota, che quindi nessuno coglie, e che può stare tutto il giorno a godersi il sole e a rinfrescarsi nella torbiera. Di una pianta che cresce ovunque, e che può andare dove vuole.»
    Fearghus non le rispose subito, com’era solito fare. Era abituato a sentirla parlare poco; eppure, quando diceva qualcosa, la ragazza era in grado di stregarlo. Perché lui, a quelle cose, non vi pensava e non l’avrebbe fatto mai, se non ci fosse stata lei a farglielo notare. Abaigeal era la voce della sua mancata coscienza, più giovane di lui di molti anni e tuttavia così esperta del mondo, nonostante non l’avesse mai visto.
    «Vuoi che vada a prendertela?»
    Era una domanda semplice, detta con l’ingenuità di un bambino. La giovane fissò a lungo lo sguardo ambrato dell’ospite, chiedendosi se fosse mai stata così spensierata come lui; più l’osservava, più si rendeva conto di quanto le sarebbe piaciuto rassomigliargli, anche solo in minima parte: la stessa che magari in quel momento le aveva posto la domanda. Quella puerile meraviglia che gli vedeva dipinta addosso era la sua liberazione più grande, poiché nella sua prigione Abaigeal non aveva mai avuto compagni, né amici. Era cresciuta da sola, divenendo vittima di quella fragilità che i suoi genitori le vedevano dipinta addosso e che avevano il timore potesse nuocerle, se avesse provato anche solo a combatterla.
    «No» gli rispose decisa, «voglio che mi accompagni a prenderla.»
    E si ritrovarono fuori dal confine dei cinque sassi, con il giovane che spingeva la sedia a rotelle sul terreno fangoso e ostile. «E se ci becca la governante?»
    «A quest’ora non c’è mai nessuno, e il custode sonnecchia nello studiolo.»
    Un uccello planò sopra le loro teste, costringendoli ad abbassarle prima che potesse afferrare il laccio che teneva unite le ciocche rosse di Abaigeal. La ragazza lo fissò con stupore, mentre voltava la testa per incrociare lo sguardo infastidito di Fearghus: «Quello cos’era?»
    «Un falco pellegrino.»
    «Davvero?» L’emozione le si dipinse sul volto con estrema nitidezza, mentre si lasciava andare ad una risata così piena da far sorridere anche lui. «Sono dispettosi, i falchi pellegrini.»
    «Sono attratti dalle cose colorate» fece notare il ragazzo, sfiorandole il nastro azzurro. «Sta’ attenta agli occhi, potrebbe mangiarteli.»
    «I miei occhi non sono azzurri.»
    «No» mormorò Fearghus ridendo, «non lo sono.»
    Non era una bugia; gli occhi di Abaigeal erano cerulei, dello stesso colore dell’empireo più sereno o d’una pozza d’acqua sorgente. In quello sguardo lui aveva scorto molto più d’una semplice sfumatura: una limpidezza disarmante, una gioia timida e incapace di mostrarsi, fragile ed inconsistente, tuttavia abbastanza forte da sopravvivere fino a quell’istante, nel momento in cui s’accorse d’esser giunta al cariceto. L’afferrò per le spalle, poi per le gambe, posandola delicatamente sul prato, così vasto da rincorrere l’orizzonte.
    Abaigeal sentì per la prima volta i fili d’erba tra le dita sporche di fango e l’odore penetrante dell’humus sotto lo strato d’acqua stagnante. Vide la carice vibrare leggera nell’aria, con gli steli lunghi ed elastici che combattevano contro le raffiche calme del vento estivo. Osservò l’incedere volitivo delle nuvole sopra le loro teste, che correvano veloci lungo il cielo terso di quel primo pomeriggio.  
    E non le importò del vestito insozzato dal pantano acquitrinoso, né delle scarpe. In quel luogo, a due passi da Sedge Hall, c’era quel primo pezzo di mondo ch’era riuscita a scoprire.
    «Grazie» disse solo, lasciando che la mano callosa dell’accompagnatore si posasse sulla sua, più minuta e fredda. «Grazie davvero.»

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I didn't know that it was so cold
And you needed someone to show you the way
So I took your hand and we figured out that
When the time comes I'd take you away.






NOTE:

[¹] Pronuncia: Fergus.
[²] L’attuale Kingstown.
[³] Ai tempi ancora un bambino/adolescente, Fearghus non conosceva la corretta pronuncia del Colosseo.
[⁴] Victor Hugo.


Lo sclero di
ver


Buongiorno, popolo di Efp!
Questo secondo capitolo della mia insolita originale spero possa far luce finalmente sugli aspetti di questo fantomatico co-protagonista. Fearghus è un personaggio che ho molto a cuore perché - incredibile ma vero - l'ho inventato parecchio tempo fa, solo che non ho mai trovato un posto per lui degno d'esser definito tale.
Vi chiedo infinitamente scusa se puntualmente vi ritrovate con un sacco di note da leggere, ma purtroppo quando scrivo di queste storie mi viene naturale fare molti riferimenti, sia di carattere descrittivo che narrativo in sè e per sé, per cui necessito del loro utilizzo per rendere il tutto un filino più chiaro - specie se mi concentro su abitudini, storia e cultura irlandese, che immagino non siano poi così famosi, dato che a scuola non se ne parla mai, per cui o si studiano per diletto o non si studiano affatto.
Spero capiti anche a voi ogni tanto, di creare un personaggio che non c'entra assolutamente niente con le storie che state scrivendo, perché se così non fosse dovrei cominciare davvero a farmi delle domande.
Comunque, mi dispiace che la storia finisca al prossimo capitolo, ma per motivi di trama e di caratteri soprattutto ho dovuto mantenermi stretta. Chi di voi mi segue, sa che sono una grande amante del dramma, per cui mi rendo conto che la storia non sia una boccata d'aria fresca. Nonostante ciò, spero vi possa piacere.
A presto,


_EverAfter_

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Capitolo 3
*** III. Crepuscolo ***


Dove cresce la carice



III
Crepuscolo

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    Il cocchiere arrestò la corsa al trotto degli Irish draught[¹] dal manto baio. Il ritorno dei coniugi Mór era stato previsto per quella mattina. A giudicare dalle epistole sempre meno frequenti, tutta la servitù s’era allestita e fatta cosciente di dover attendere ancora del tempo prima di veder nuovamente tornare i due proprietari. Tuttavia, un pomeriggio di quelli ch’annunciavano sventura, il fattorino s’accanì sul picchiotto di bronzo, consegnando la missiva che annunciava il ben poco lieto ritorno.
    Tra i corridoi si bisbigliava che, in fondo, non fosse tanto male vivere senza di loro: la signorina Abaigeal non parlava con nessuno e si limitava a lasciar fare loro tutto ciò che Lady Sadhbh disponeva – e Lady Sadhbh non era certo austera e rigida come la contessa Mór. Il clima di Sedge Hall non era mai stato così rilassato e calmo come in quei giorni; la giovane proprietaria passava la maggior parte delle sue giornate nella stanza misteriosa – così tutti erano soliti chiamarla, poiché Abaigeal non aveva mai permesso a nessuno di entrare lì dentro –, la governante si concedeva il lusso di gestire la casa seduta sulla poltrona di fronte al vasto camino della sala principale, sorseggiando un bicchierino di whiskey, e i domestici s’organizzavano per pulire solo quelle parti della casa che la contessa aveva più a cuore, dimentichi della soffitta e della cantinola, luoghi in cui non l’avevano mai vista andare – c’era chi diceva che avesse la fobia dei ragni, altri quella dei topi.
    Abaigeal accolse i due genitori all’entrata del muro di laterizi, con le mani strette alla coperta che le copriva le gambe. Chinò leggermente il capo in gesto di saluto, mormorando un semplice: «Bentornati, padre e madre.»
    «Buongiorno, cara.» La contessa si limitò ad un distratto cenno della mano, mentre con impacciata grazia tentava di togliersi i guanti di raso bianco che s’impigliavano tra le pellicine delle dita – che, a differenza di quelle della figlia, non erano poi così affusolate come voleva far credere. «Hai mangiato adeguatamente?»
    «Sì» rispose, e la mano del padre si portò a carezzarle la testa in un gesto dovuto e privo d’affetto.
    «Bene» le disse il patriarca, sorpassandola per entrare nella tenuta. «Questo è importante.»
    Abaigeal s’affacciò distrattamente con lo sguardo alla finestra del suo studio: con gli occhi puntati sulla penosa riunione, Fearghus osservava e non capiva. S’aspettava un incontro di quelli raccontati nei romanzi che tanto piacevano alla ragazza, quelle storie irte di peripezie e dei finali lieti e favolistici che vedevano il protagonista vivere una vita serena e gioiosa. Abaigeal, però, non le appariva affatto felice: aveva il viso mortificato e le mani che stringevano la coperta di lana bianca sulle gambe immobili, in antitesi con le braccia pallide e tremolanti. Il vetro era troppo opaco perché riuscisse a capire se stesse piangendo, e tuttavia s’accorse facilmente della mascella indurita e degli occhi gonfi, mentre la vedeva sciogliersi con rabbia la sofisticata acconciatura su cui s’era incaponita dalle prime luci dell’alba.
    Aveva un vestito più carino di quelli ch’era solito vederle addosso: era d’un delizioso lampasso d’amamelide
[²], ricamato con lussureggianti fili d’oro che impreziosivano il petto minuto e la vita sottile. S’era coricata la sera prima con in testa una spropositata abbondanza di fiocchetti bislacchi, stranezza che lui aveva commentato con un semplice: «A che ti servono tutti quei nastri?»
    «È per i boccoli» aveva sbuffato infastidita la ragazza, mentre si lasciava avvolgere dalle pesanti coperte che il giovane le aveva messo addosso. «Così i capelli sono più graziosi.»
    Fearghus non riuscì a trattenere la pena. Abaigeal, dalla personalità eccentrica e un po’ svampita, non gli era mai parsa così fragile come in quel momento, riflessa nel vetro della stanza dei quadri, con il suo bel vestito, i suoi bei capelli ed una solitudine che la tormentava, trascinandola nel baratro di quell’incubo che si ostinava a chiamare vita. Se solo avesse potuto sarebbe andato a dirle che era stupenda e che non aveva bisogno del conforto dei genitori per crederlo; tuttavia s’accorse lesto che ciò che lui aveva visto in quelle settimane, lei non l’avrebbe mai potuto apprezzare: riflessa nello specchio, ciò che le sarebbe sempre apparso era l’orrenda immagine d’una ragazza nata per sbaglio, un terrificante aborto della natura, l’anomalia illogica d’un corpo nato con le gambe e incapace di usarle. Un fallimento, progettato da un burattinaio sadico e negligente.
    Ciò che vedeva lui non contava poi molto. Gli era capitato spesso di soffermarsi sui lineamenti sottili della ragazza, sul naso socratico solcato da mille lentiggini e sugli occhi cerulei, persi a fissare un panorama che aveva visto mille volte, ma ch’era in grado di rapirla ogni volta. Forse non era bella davvero, Abaigeal; eppure gli pareva la donna più aggraziata che avesse mai visto, e non sapeva se fosse dovuto all’affetto o al mero giudizio d’un uomo che, lentamente, s’affacciava al sentimento platonico e irraggiungibile: Abaigeal era una giovane aristocratica e lui un povero bastardo che non aveva alcuna ragione d’insozzarla con le sue mani sporche e peccatrici, nonostante la coscienza gl’intimasse subdolamente che, forse, avrebbe potuto renderla felice, portandola via da quel mondo misero e disgraziato.
    Quale presunzione, la sua. Un vagabondo stanco, con le gambe indolenzite dal troppo viaggiare e il cuore sedotto dalla tenerezza d’una fanciulla non ancora donna e tuttavia così amabile e raffinata, dolce e leggiadra come i quadri che dipingeva, come le storie che immaginava. Attese impaziente il ritorno della ragazza, con la devozione d’un cane che avesse visto il proprietario tornare dalla vendemmia. E lui si sentiva proprio in quel modo, una bestia selvaggia sfiorata dal sorriso malinconico di lei, addomesticata dalle sue maniere cortesi e piene di premure.
    La osservò spingersi con la carrozzella dentro la stanza, mentre richiudeva cautamente la porta dietro di sé. Non vi pensò molto Fearghus, prima d’abbracciarla come avrebbe dovuto fare suo padre e sua madre prima di lui. La strinse, impacciato da quel gesto troppo audace, che in sé pareva più la stretta d’un fratello rattristato che d’un amante fedele. «Abby, piccola Abby.»
    Ed Abaigeal pianse, mentre si lasciava cullare dalla voce roca e gentile del suo ospite che le raccontava una storia, in quella debole e opaca speranza di poterla veder tornare a sorridere. Era l’unica cosa che aveva imparato a fare da quando l’aveva conosciuta, e l’unica cosa che l’aveva sempre fatta ridere. Ma più s’ingegnava per intricar la trama, più lei singhiozzava e si faceva piccola contro il suo torace. «Ti hanno fatto del male» le aveva detto poi, incapace di trattener oltre il tormento, «e nonostante questo tu provi ancora affetto per loro.»
    «Perché non mi vogliono?» aveva singhiozzato, come fosse il capriccio d’una bambina viziata. «Perché non possono amarmi?»
    Fearghus non sapeva risponderle, e non provò ad inventare scuse, perché proprio non c’era tagliato – lui – per quelle. «Perché sono due stupidi ciechi.» Prese tra le mani il viso della giovane, lasciando che lo sguardo disperato di lei si rifrangesse nell’ambra del suo. «Sono ciechi perché non ti vedono affatto, Abby. Non vedono quanto tu sia meravigliosa e simpatica e allegra. Non vedono quanto tu sia brava nella pittura, né vedono quanto tu sia eccezionale nel raccontare le storie. Non possono vederti. Ed è per questo che non ti meritano affatto.»
    Abaigeal tirò su col naso, sprofondando ancora una volta nell’abbraccio sicuro e paterno del ragazzo, che le stringeva la piccola vita, le baciava i capelli, cercando di colmare il vuoto insanabile d’una consanguineità distaccata e indifferente al suo dolore. La cullò per tutta la notte, parlandole di tutte le cose a cui pensava, cercando d’allontanar quei pensieri infausti e straziati, mentre sentiva il piccolo cuoricino assopirsi e la testa rossa farsi pesante sul suo petto.
    Lì, persa nel mondo che Fearghus continuava a narrarle, Abaigeal si sentiva un po’ meno fragile.

__________________________________________________________
If you want to I can save you
I can take you away from here
So lonely inside
So busy out there
And all you wanted was somebody who cares.





    Le campane distanti di Shandon Church scoccarono allo zenit di quella calda giornata di fine agosto; il suono, benché lontano, si propagò in tutta Sedge Hall, facendo sobbalzare l’accidioso custode nel suo piccolo studiolo e cadere il bicchiere di whiskey di Lady Sadhbh.
    Fearghus sgattaiolò furtivo nella stanza d’Abaigeal, sorprendendosi di trovarla ancora addormentata tra le ingombranti coperte di lana – ancora non si spiegava il perché avesse sempre così tanto freddo nonostante il caldo vento di quei giorni. Le si sedette accanto, scostandole i capelli dalla fronte sudata e pallida. Le carezzò la testa e si stupì di quanto fosse terribilmente accalorata.
    «Abby» la chiamò preoccupato, «tu scotti.»
    La intravide schiudere una palpebra, mentre tentava di mettersi seduta con la schiena contro la spalliera d’ottone del letto. «Non preoccuparti» s’affrettò a dire, strofinandosi gli occhi, «ho sempre la febbre, io.»
    «Che significa?» Fearghus, per grazia ricevuta, non aveva la benché minima idea di cosa significasse essere ammalati, poiché il Signore l’aveva dotato d’un corpo sano e robusto, immune alle influenze stagionali.
    «Io non sono molto forte» gli rispose, con una scrollata di spalle, «per cui è come se fossi sempre malata.»
    Il ragazzo si concesse al silenzio, rinunciando a continuare quella conversazione. Il tempo scorreva superfluo, divorando implacabile i giorni più beati, portandosi via la gioia e la spensieratezza degli attimi più preziosi. Fearghus s’era accorto in fretta di quanto le condizioni d’Abaigeal fossero peggiorate: un giorno aveva spiato il dottore che, nel grande salone assieme ai coniugi Mór, s’era subito spiegato sull’aggravamento della malattia congenita, associata ad un’affezione definita melancolia
[³], che si stava portando via la ragazza e, con lei, ogni cosa che le appartenesse. Dapprima sconvolto, s’era rifugiato nella stanza dei quadri, chiedendole disperato se lei ne fosse a conoscenza.
    «Ma certo» gli aveva risposto, non distogliendo lo sguardo dalla tela, «per questo non posso uscire da qui.»
    Le chiese il perché non gli avesse detto niente, più in pena per la giovane che per se stesso.
   «Non avresti potuto fare nulla comunque» aveva continuato Abaigeal, con insolita risoluzione, «arriverà il giorno in cui io non riuscirò più ad alzarmi dal letto. E non riuscirò a muovere le braccia, né a girare la testa verso la finestra per vedere gli uccelli posarsi sui rami del pino. So che quel momento arriverà presto, per cui non voglio parlarne, poiché significherebbe ammettere ch’è già qui.»
    Fearghus, al sentir quelle parole così spaventose e reali, si sorprese dello strano dolore allo sterno; non aveva mai passato abbastanza tempo con qualcuno per abituarsi alla sua presenza, tantomeno affezionarvisi. Con Abaigeal, tuttavia, era diverso: s’era così assuefatto alla presenza della bizzarra ragazza che non aveva mai pensato all’eventualità che lei potesse lasciarlo da solo.
    «Significa che morirai?» Glielo aveva domandato senza pensarci troppo, vittima del panico e dell’incertezza che trasparivano come specchi sul viso contratto e lo sguardo atterrito.
    La giovane interruppe il certosino lavoro di pittura, posando il pennello e lasciando trasparire un velo di rassegnata sconfitta. «Già.» All’espressione inebetita del ragazzo, Abaigeal rise, stemperando la tensione ch’imperversava furiosa all’interno della stanza. «Non crucciarti in quel modo. Non siamo poi tutti destinati alla stessa fine?»
    , avrebbe tanto voluto risponderle, se ne avesse avuto il coraggio. Sì, ma tu morirai senz’aver mai vissuto.
    Quel giorno Fearghus comprese che la promessa che le aveva fatto – quella di portarla via da Sedge Hall per farle vedere il mondo –, non si sarebbe mai avverata. Il tempo, che di certo era più sagace e vispo di lui, s’era già appropriato del piccolo corpo che in quell’istante riposava quieto sul letto, mentre il ragazzo si lasciava cogliere da un improvviso attacco di panico, stringendo la mano minuta tra le sue.
    «Non è da te» lo sgridò la voce flebile della giovane. «Non è proprio da te piangere.»
    Fearghus non s’era affatto accorto delle gocce che scendevano copiose a bagnare la coperta sotto la quale era stesa Abaigeal. Colto dagli spasmi d’un dolore lancinante e dall’inatteso singhiozzo, si limitò a risponderle: «Senti male?»
    La ragazza scosse il capo, tranquillizzandolo con una lieve smorfia, così dissimile dai sorrisi ch’era solita rivolgergli. «No.» Strinse leggermente la presa sulle dita dell’ospite. «E non ho paura.»
    Era una bella consolazione, sapere che lei fosse abbastanza forte da comprendere la situazione e d’accettarla senza batter ciglio. Peccato che lui, al contrario, non fosse affatto sicuro, né pronto. Si sentiva come in una bolla, Fearghus: una grande, immensa bolla dalla quale non era in grado di raggiungerla.
    «Io sì, invece» ammise, asciugandosi il contorno arrossato degli occhi. «Credimi, ho molta più paura io di perderti che tu di andartene.»
    Andartene. Non era in grado d’usare l’altra parola, quella insidiosa e terrificante, che non era capace di pronunciare perché troppo dolorosa – almeno per lui. Per un ignaro passante che si fosse trovato per caso ad osservare oltre la finestra di Sedge Hall, sarebbe stato difficile comprendere chi tra le due persone presenti in quella stanza fosse il più adulto. Fearghus appariva come un ragazzino spaventato e insicuro, mentre Abaigeal recava in sé l’immagine eterea d’una vera signora, seppur col pallore mortale a imbiancarle il viso sempre più emaciato e gli occhi che del ceruleo d’un tempo avevano conservato solo la sfocata ombra di ciò ch’erano stati.
    Fu in quel momento che il ragazzo apprese l’ennesima, estenuante verità: il tempo non gliela stava solo portando via, ma s’era viziato al punto da costringerlo a guardare l’amata fanciulla sfocarsi, mentre l’iconica visione di lei nel cariceto mutava in quell’orribile scena che aveva davanti agli occhi. Abaigeal stava lentamente scomparendo, e lui non poteva far altro che sperare in quell’ingenuo miracolo che Dio avrebbe potuto concedergli, se solo fosse stato una persona migliore.
    Si chiese se il vederla spegnersi non fosse la sua lex talionis
[⁴] per esser stato un ladro e un borseggiatore, l’inaffidabile e disonesto vagabondo che aveva passato la vita cercando d’imbrogliare il prossimo. Strinse i denti, vietandosi di piangere ancora davanti a lei, mentre le cullava l’udito stornellandole Molly Malone[⁵]. Abaigeal, che sentiva la debolezza permearle le viscere e irretirle ogni senso, s’assopì al suono della ballata, chiedendosi per quanto ancora le sarebbe stato concesso di poter ascoltare la voce di Fearghus raccontarle storie o cantarle poesie. Nonostante ciò che s’era lesta premurata di dirgli, era atterrita dall’idea della morte: non sapeva cosa ci fosse dopo la parola fine, non l’aveva mai visto. E si consolò solo al pensiero che, forse, essa sarebbe stata il primo posto, dopo il cariceto, ch’avrebbe finalmente potuto vedere.
«And that was the end of sweet Molly Malone.
Now her ghost wheels her barrow,
Through streets broad and narrow,
Crying, "Cockles and mussels, alive, alive oh![⁶]»
    S’addormentò serenamente, con l’immagine della pescivendola che trasportava il suo carrello per le strade trafficate di Dublino.





    Nella stanza dei quadri, sul cavalletto di rovere, v’era un quadro dipinto a metà. Fearghus riuscì a scorgervi il bel gregge di nuvole bianche che attraversavano il cielo azzurro e le carici ondulate nel vento che l’osservatore poteva solo dedurre dalla surreale curvatura dei loro steli. Mancava parte dello sfondo, lì dove i colori si diradavano a mostrar l’intreccio della tela. Rimase a fissarlo per tutto il giorno, in attesa di poter finalmente andare da Abaigeal, ch’era sotto stretto controllo del dottore e dei domestici sempre più ansiosi. I coniugi Mór s’erano affannati alla ricerca d’un erborista che fosse in grado d’alleviare i sintomi della figlia, ma si ritrovarono di fronte all’ineluttabilità del destino ch’era già in moto dal giorno della sua nascita infausta, e che certo non avrebbe arrestato la sua corsa per colpa di qualche mero infuso di belladonna o d’echinacea.
    Attese paziente l’ultimo sbattere della porta, prima d’entrare come di consueto dalla finestra.
    «Abby.» Le prese una mano, poiché la vista della giovane s’era fatta meno acuta e non voleva spaventarla. «Sono io.»
    «Lo so» rispose lei, ridendo, «sei l’unico che entra dalla finestra, Fearghus.»
    Vi fu silenzio, prima che il ragazzo potesse sentire nuovamente la voce della ragazza. «Dove sto andando, Fearghus?»
    Non sapeva cosa risponderle. S’era trovato molte volte a mentirle, quando le raccontava le storie, oppure quando si trattava d’aggiunger romanzo ad una vicenda altrimenti noiosa, eppure in quel momento l’unica cosa che avrebbe voluto dirle era che non voleva rimanere di nuovo solo. Voleva infonderle speranza, coraggio e forza, ma non sapeva farlo. Non c’era portato, lui, per quelle cose. E così, per non impensierirla, s’affidò ad una mezza verità, dolorosa e tuttavia l’unica che fosse in grado di replicare degnamente al suo quesito.
    «In un posto molto, molto lontano da qui, Abby.»
    «Ci sei mai stato?»
    Fearghus deglutì a stento, mostrandosi impassibile. «Non ancora, no. Però me ne hanno parlato in tanti.»
    «E com’è?»
    «È un posto bellissimo» continuò, stringendo le palpebre per evitare di lasciarsi andare all’isterismo del pianto, «è pieno di luce, suoni, colori; e, pensa, potrai camminare lì, Abby. Potrai viaggiare e andare in tutti i posti che vorrai.»
    «Fearghus?»
    «Sì?»
    «Cresce anche lì, la carice?»
    Il ragazzo si concesse alla debolezza delle lacrime silenziose, persuaso che lei non fosse più capace di poterlo vedere com’era solita fare al bel tempo. «Ma certo» rispose poi, per paura che potesse accorgersi dei suoi pietosi vagiti, «non sei stata tu a dirmi che cresce ovunque?»
    «Sì, l’ho detto.» Sentì la mano della giovane tastare il bordo del letto, cercando a tentoni la sua, più fredda e tremolante rispetto al solito. «Spero di poterla vedere ancora.»
    «La vedrai, Abby.» Le scivolò accanto, abbracciandola e portandosela contro il petto, ignaro di quanto tempo gli fosse rimasto prima di dirle addio. «E vedrai il Selciato del Gigante e Belfast, anche. Vedrai tutto ciò che vorrai, e non avrai più limiti. Vivrai davvero questa volta, non patirai la solitudine né il dolore. Sarai felice, serena e potrai dipingere ogni cosa nuova che vedrai, senza doverla immaginare. Non è fantastico?»
    Si fermò all’improvviso, accortosi di non sentire più il suo respiro premerglisi contro il collo. Chinò lo sguardo, ma non vide quello della ragazza: aveva le palpebre chiuse ed un meraviglioso sorriso dipinto sul volto, d’un tratto meno emaciato. Sembrava che fosse sereno.
    Abaigeal non c’era più.
    «Potevi almeno dirmi dove saresti andata» singhiozzò Fearghus, stringendola e lasciandosi andare a quel dolore che nessuno gli aveva mai detto che potesse esistere.
    Ché la donna che amava così tanto era morta, e non sarebbe mai stata sua. Pianse, per quella promessa di portarla via da Sedge Hall. Le accarezzò il volto sottile con la mano intirizzita, e in quella carezza v’erano tutte le anime di coloro che avrebbero potuto conoscerla, se solo fosse stata altrove. Sfiorò con le dita le labbra rubate dal freddo, e in quell’affettuoso contatto v’erano tutte le storie che non le avrebbe mai più raccontato. Poggiò la sua fronte su quella della ragazza, mentre le lacrime scendevano silenziose a inumidirgli le guance per cadere goccia a goccia sul volto pallido di colei che gli aprì le porte del cuore.
    «Grazie, Abby» mormorò.
    C’era una cosa che Fearghus non aveva mai saputo e che comprese solo in quell’istante. Una verità sciocca e irrilevante ai più, ma che lui sentiva d’aver raggiunto solo per merito della sua piccola donna: la morte faceva paura a tutti. Terrorizzava l’uomo fin dai tempi antichi, imponendosi con la sua austera fatalità a ghermire le anime che più le confacevano, gridando e mostrandosi ai loro sguardi spaventati e penosi.
    Ma c’era una cosa che non poteva prendersi. Un’emozione che sbocciava ovunque, come la carice; e ch’era fiorita persino nel cuore d’un misero ladro di Belfast.
    Quel sentimento si chiamava amore.
    E la morte non era in grado d’ucciderlo.




    Abaigeal Mór morì il 28 agosto del 1855, senza poter vedere i suoi diciassette anni.
    Non fu mai celebrato alcun funerale, poiché i coniugi Mór si scoprirono restii all’invito degli altri capisaldi degli Ó Súilleabháin, gente che non avrebbe fatto altro ch’insozzare il nome della figlia con le romanzate più variopinte. Per quanto addolorati, non si pentirono mai della loro indole sciatta e superficiale nei riguardi d’Abaigeal, giustificando i loro comportamenti con scuse ben più patetiche di quelle che i domestici s’erano attesi.
    Venne seppellita nel cimitero di Cork, e fu surreale pensare che avesse dovuto aspettare la sua morte per poter visitare un luogo che aveva sempre desiderato vedere. Non poté salutare Sedge Hall, e la stanza dei quadri venne dimenticata, sigillata con delle pesanti sbarre di legno: nessuno prestò attenzione al vetro rotto che affacciava sul giardino, né dell’ospite che continuava a far visita ai dipinti ormai scordati. Ci andò solo un’altra volta per contemplare l’ultimo quadro che aveva pitturato, l’incompiuto. Quella tela, al cui centro vi era un immenso vuoto, gli ricordava un po’ lui. Se avesse potuto, avrebbe sanguinato anch’essa, ne era certo.
    L’afferrò saldamente, portandosela sotto al braccio: sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe mai rubato, mentre diceva silenziosamente addio a Sedge Hall e a tutto quello che per lui aveva significato. Non vi avrebbe più fatto ritorno.
    Si recò a Belfast per un breve periodo e affidò la tela alle sapienti mani d’un artista locale, facendogli dipingere in quel buco al centro una ragazza dai folti capelli rossi che sorrideva, stesa sul pratone. In fondo quella non era una bugia. Era un ricordo. E dei più preziosi.
    Tornò a Cork solo dopo aver lavoricchiato come garzone da un fabbro, venendo poi assunto da un giovane imprenditore agricolo a cui serviva un bracciante per i campi. Fearghus accettò, trasferendosi nella città poco dopo; visitò molte case, affittando l’unica che fosse abbastanza vicina al cimitero. Per andarla a trovare non avrebbe dovuto impiegarci poi molto. Doveva solo percorrere parte del lungofiume: prima di recarsi al St. Oliver
[⁷], impiegava qualche minuto per raccogliere la carice che cresceva rigogliosa sulle sponde del corso d’acqua, e gliela portava ogni giorno. Quello era per lui il momento più bello della giornata, l’istante in cui s’accostava alla piccola lapide di marmo bianco, le cui nervature di lapislazzuli gli ricordavano quegli occhi che tanto aveva amato. Che tanto amava ancora.
    E se ne stava seduto davanti al nome di Abaigeal Mór degli Ó Súilleabháin, posando la pianta estirpata accanto alla data di nascita, così spietatamente vicina a quella di morte.
    «Mi scusi» venne chiamato un giorno dalla voce di un’anziana signora che incrociava spesso a quell’ora del mattino. «Posso chiederle una cosa?»
    «Ma certo, signora» rispose il ragazzo, senza scomporsi.
    «È da un po’ che me lo domando. Ma perché le porta sempre questa erbaccia?»
    Fearghus sorrise tra sé e sé, immaginandosi la reazione che avrebbe potuto avere la sua Abby al sentir pronunciare quella parola. Erbaccia.
    «Perché le piaceva» si limitò a rispondere.
    «Ah sì?» La signora sembrò perplessa. «E perché?»
    Una risposta concreta, Abaigeal, non gliel’aveva mai data. Non sapeva il perché le piacesse tanto, così azzardò ciò che aveva potuto dedurre nel poco, prezioso tempo che aveva passato a Sedge Hall.
    «Credo dipendesse dal fatto ch’era in grado di crescere ovunque.» S’interruppe, consapevole che il ricordo di lei fosse ancora troppo doloroso per parlarne come se nulla fosse. «È una pianta davvero insignificante e senza valore, diceva. Ma può fiorire in tutti i luoghi dove lei non è mai potuta andare. Una volta mi disse ch’era un po’ invidiosa, a dirla tutta.»
    La signora non rispose, mentre osservava il giovane di fronte a lei: lo vedeva ad ogni alba, lì seduto a parlar da solo. Cosa raccontasse, questo non lo sapeva. Ma v’era qualcosa in quello sguardo ambrato, una nostalgia tremenda e malinconica, che le incuteva un’insolita tenerezza. «Doveva amarla molto.»
    Non capì se si stesse riferendo all’amore che Abaigeal aveva per la carice o a quello che lui provava per la ragazza, e tuttavia Fearghus annuì, portando le dita a massaggiarsi delicatamente le palpebre stanche e pizzicate dall’imminente pianto.
    «Da morire.» In entrambi i casi la risposta sarebbe comunque stata quella.
    «Crede che un giorno la ritroverà?»
    Fearghus vi pensò per qualche istante. Aveva condotto una vita miserevole e gretta, concedendosi ai peccati molto più sovente di quanto non avesse fatto qualcun altro.
    «Non mi ha detto dove sarebbe andata» disse infine, sospirando come chi fosse consapevole del lungo cammino d’espiazione da compiere prima di raggiungerla. «Ma la conosco abbastanza bene da sapere dove sia.»
    Non gli sarebbe importato il tempo che avrebbe impiegato per assolvere ogni sua colpa. E qualora il reverendo Padre avesse deciso di confinarlo alla settima bolgia
[⁸], legandolo con serpi e sfigurandogli il volto, lui avrebbe accettato, poiché nulla sarebbe mai riuscito ad addolorarlo come il giorno in cui la sua Abby smise di respirare, concedendosi all’agognato oblio. Avrebbe sopportato ogni cosa, Fearghus.
    E se mai vi fosse stato un Paradiso, lui avrebbe dovuto mostrarsi d’esser degno.
    Perché era certo che, dovunque fosse, Abaigeal si trovasse lì.

__________________________________________________________
Please can you tell me
So I can finally see
Where you go when you're gone.





Fine

NOTE:

[¹] Cavalli originari dell’Eire, Connemara.
[²] Una gradazione di giallo.
[³] La melancolia, a quei tempi, era considerata una forma molto grave di depressione, che sui soggetti immunodepressi portava a perdita di peso, inappetenza, allucinazioni e, nei casi più gravi, anche alla morte. In questa storia è chiaramente da intendersi nella sua accezione antica, non in quella moderna.
[⁴] Pena del taglione, è un principio di diritto consistente nella possibilità riconosciuta a una persona che avesse ricevuto intenzionalmente un danno causato da un'altra persona, di infliggere a quest'ultima un danno, anche uguale all'offesa ricevuta (Wikipedia).
[⁵] L’inno di Dublino, risale al XVIII secolo.
[⁶] «Quella fu la fine della dolce Molly Malone
ma il suo fantasma spinge ancora il carretto
per strade strette e larghe
gridando "vongole e cozze vive!»
[⁷] Cimitero di Cork.
[⁸] Le bolge sono i gironi dell’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco. La settima è quella riservata ai ladri, che hanno le mani legate dietro la schiena da serpenti e subiscono orribili metamorfosi.


Lo sclero di
ver


Immagino che la domanda che un po' tutti vi stiate ponendo è: "Ma carissima Ever, come diavolo è che le tue storie non hanno mai un cappero di lieto fine?"
La colpa non è mia, ci tengo a specificarlo. Ho una passione incommensurabile per il dramma, che ritengo molto più bello e coinvolgente delle storie a lieto fine. Ho anche cercato di trovare razionalmente una spiegazione, ma l'unica abbastanza valida è che mi reputo una persona dalla discutibile sensibilità. Non piango mai, per il lavoro che faccio devo sempre mostrarmi una specie di bestia di satana, per cui quando posso dare sfogo alla mia piccola anima piagnona lo faccio e basta, senza pensarci troppo.
Oltretutto diciamolo, non trovate che i lieto fine siano un pochettino superati? Realisticamente parlando, quante volte potrebbe davvero essersi risolta con uno scontatissimo "e vissero per sempre felici e contenti"?
E qui ci starebbe un bel commento sarastico sul mio nickname, ma vi prego di risparmiarvi xD.
Spero che la storia vi sia piaciuta, a presto.

_EverAfter_

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