Dove cresce la carice di _EverAfter_ (/viewuser.php?uid=543122)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Alba ***
Capitolo 2: *** II. Meriggio ***
Capitolo 3: *** III. Crepuscolo ***
Capitolo 1 *** I. Alba ***
I
Alba
_______________________________
Il Munster era famoso per due cose: la prima era il tempo, generalmente
piovoso e poco incline ad accettare sovente i raggi del sole; la
seconda era la Contea di Cork, che – a detta dei
più – era l’unica cosa per la quale
andar fieri d’esser nati nella zona sbagliata
d’Irlanda.
La contea di Cork, il cui nome faceva riferimento al meno celebre
appellativo gaelico Corcaigh,
era considerata una zona paludosa e
inospitale, mangiata dal freddo e dalle cimici verdi, che
imperversavano sulle piante come le locuste allorché
Mosè assecondò la volontà del
Signore[¹]. La triste nomea
s’affiancava
all’ingiusto pensiero che il capoluogo, sorgendo dalle rive
del fiume Lee, non godesse affatto dei privilegi di un suolo ben
drenato, e che quindi nulla, nei dintorni della città
putrefatta dall’acqua stagnante, potesse crescervi di sano,
all’infuori dell’erbaccia comunemente denominata
carice.
La carice era una pianta insignificante e inodore, tuttavia famosa per
la sua endemica presenza: non v’era luogo, nella contea di
Cork, dove i suoi fusti non potessero nascere, schiusi nelle torbiere a
far compagnia agli sfagni lacustri e all’erica selvatica, di
gran lunga più avvenente e degna d’esser definita
pianta, tanto da esser estirpata per divenir egregio decoro ai vasi in
vetro delle tenute borghesi più raffinate. Ma per quanto
bella e delicata, così alta coi suoi fusti robusti e ornata
da piccoli germogli bianchi, l’erica non poteva vantarsi
d’esser ovunque; la carice, seppur di natali floreali poco
illustri, riposava placida sulle paludi, attorno ai ruscelli, spontanea
sorgeva sui rivi silenziosi del Lee e s’assopiva sulle sponde
dei laghetti campestri. Per quanto insulsa potesse risultare
all’occhio della gente comune, il suo pregio era di poter
nascere dove più le aggradava.
A poche miglia dal capoluogo della Contea, v’era
un’immensa distesa della varietà brizoides[²],
che
s’intrecciava ai fusti più robusti della festuca.
Lì vicino, divorata lentamente dalla pianta infestante,
v’era una magione dai toni pastello che tutti solevano
chiamare Sedge[³]
Hall – il cui epiteto non avrebbe potuto
essere più calzante. Era una vecchia tenuta di caccia dei
marchesi del Downshire, che avevano ottenuto il titolo della
nobiltà inglese della parìa
d’Irlanda[⁴],
acquisendo la magione ch’era appartenuta al nobile Florence
MacCarthy[⁵]
prima della Ribellione di Tyrone[⁶].
Con la segregazione
a
Londra, ogni suo possedimento fu spartito tra i capisaldi della
nobiltà irlandese. Sedge Hall faceva parte di quella
ristretta cerchia d’immobili che sobillava non poche
controversie burocratiche, per non disquisire delle beghe catastali:
sorgeva adiacente alle sponde d’un affluente del Lee, dunque
era un edificio spesso oggetto di alluvioni e costretto a continue
ristrutturazioni; essendo di proprietà d’un nobile
irlandese, molti trovarono inammissibile che fosse stato concesso per
privilegio ai marchesi del Downshire.
Nell’estate del 1838 la tenuta venne comprata dai conti
Ó Súilleabháin[⁷],
che bonificarono
l’area intorno alle mura lateritiche e l’affidarono
alle cure della famiglia Mór, uno dei rami cadetti del clan
che governava la Contea di Cork, quello meno facoltoso e influente, e
quindi per effetto meno incline a fomentare dispute d’alcuna
sorta. In particolare, il conte era una persona schiva di carattere e
poco avvezzo alla vita dei ricchi; sua moglie, certamente una gran
brava donna, non poteva esser definita come l’immagine della
bellezza eterea, a causa di quella folta capigliatura ruggine e del
seno prosperoso che la rendevano, agli occhi degli altri nobili, una
“tipica irlandese”. Nel loro matrimonio, uno dei
pochi avvenuto per sincero affetto più che per interesse,
v’era stata una sola figlia: Abaigeal[⁸].
Abaigeal era nata podalica, il che aveva reso il parto più
complicato del previsto; ci impiegò un’intera
notte per venire alla luce, e quando la madre la sentì
piangere si sentì sollevata, salvo poi scoprire
l’orrore riflesso negli occhi dell’ostetrica, nel
momento in cui si rese conto delle gambe necrotiche della piccola
bebè. La diagnosi venne confermata a qualche giorno dalla
nascita: la bambina aveva la spina bifida[⁹],
che le avrebbe reso
impossibile potersi alzare e camminare. Come conseguenza venne sin da
piccola relegata su una sedia a rotelle, che le limitava la maggior
parte dei movimenti, ma sulla quale riusciva facilmente a gironzolare
per Sedge Hall senza l’ausilio di qualche domestico.
I coniugi Mór non ebbero mai altri figli, carnefici e
vittime di quella bambina che, per quanto potessero amare, ritenevano
fosse il loro errore più grande. Abaigeal era una donna che
non sarebbe mai diventata la sposa di nessun uomo di buoni natali,
poiché era storpia e incapace d’esser una brava
moglie. Non poteva imparare i mestieri, né tantomeno
metterli in pratica. Riusciva a suonare il piano e a intonare
l’aria, ma lo stomaco non si riempiva di suoni, né
tantomeno la polvere si puliva con le ballate. Ben presto, alle soglie
dei suoi sedici anni, s’accorse di quanto in
realtà fosse odiata dai genitori: il padre vagabondava per
le contee tra un viaggio burocratico ed uno di diletto; la madre, che
non poteva addurre la scusa d’essere altrove,
l’affidò alle cure di Lady Sadhbh[¹⁰],
limitandosi a
passare con lei le ore dei pasti, che considerava come le
più lunghe della sua giornata.
Abaigeal, per quanto inabile e con la sola compagnia
dell’austera balia, crebbe con un’intelligenza
davvero singolare. Aveva attitudine per la musica e le arti, mostrando
il suo talento nella resa sopraffine della pittura ad olio e dello
schizzo a carboncino. Della prima si faceva gran vanto,
poiché con essa creava quadri dall’incredibile
fascino, che raccontavano storie ben più avvincenti di
quelle scritte sui libri; del secondo, invece, ne faceva un semplice
hobby, mentre guardava fuori dalla finestra della sua grande camera al
piano terra, dove ogni tanto poteva permettersi di uscire fuori al
giardino, al limite del sentiero acciottolato. Oltre quel confine
scandito da cinque grandi sassi di pietra sedimentaria, la ragazza non
era mai andata.
Il mondo, per lei, si riduceva a Sedge Hall e a quello che, nelle belle
giornate limpide, riusciva a scorgere da dietro le tende: un mondo
affascinante e meraviglioso, che non l’era permesso di
conoscere. Di fronte all’ineluttabilità di quello
scherzo che il dio Fato s’era tanto dilettato a giocarle,
Abaigeal non s’intristiva più del semplice dovuto,
finendo quasi sempre per adoprare con crescente entusiasmo
l’immaginazione, che certo non le mancava. Attraverso i libri
apprendeva, e con la pittura andava lontana, tanto più
lontana di Sedge Hall e del prato di carice brizoide, a incrociare il
cammino di popoli oriundi, a cavallo d’un frisone dal crine
ondulato che la conduceva in luoghi mistici e sconosciuti, alla ricerca
di tesori, principesse, fate.
Nello spazio che intercorreva tra la mano che stringeva il pennello e
la tela, Abaigeal era davvero libera.
⚜
⚜
NOTE:
[¹]
Riferimento
all'ottava piaga d'Egitto.
[²]
Varietà
del genere Carex
(Linneo, 1753).
[³]
Il
corrispettivo inglese di carice. Ho preferito lasciare il nome inglese
ai fini della storia.
[⁴]
La creazione di una nobiltà sorta durante la monarchia
irlandese, ma sotto la giurisdizione formale del re
d’Inghilterra, che ne faceva da garante.
[⁵] Fu
un nobile irlandese del XVI secolo fu l'ultimo uomo a reclamare, con un
certo diritto, il titolo di capo del Clan MacCarthy prima che gli
inglesi lo sopprimessero (Wikipedia).
[⁶] Conosciuta
come la “Guerra dei nove anni” (1594-1603), fu
combattuta
tra le forze gaeliche dei capostipiti irlandesi e il governo inglese di
Elisabetta I d’Inghilterra. L’apice del conflitto
fu
nell’Ulster, ma molti dei possedimenti dei capi che vi
avevano
preso parte erano nella zona sud-occidentale dell’isola.
[⁷] Pronuncia:
O’Sullivan. Ho preferito lasciare in scrittura la dicitura in
irlandese, così come i nomi.
[⁸] Pronuncia:
Abigail.
[⁹] È
una malformazione neonatale dovuta alla chiusura incompleta di una o
più vertebre, che quindi porta ad una compromissione del
midollo
spinale.
[¹⁰]
Pronuncia: Saiv.
[¹¹]
In
realtà, l’ultimo sovrano indipendente del clan
degli
Ó Súilleabháin fu Donal Cam O'Sullivan
Beare,
morto nel 1618. Da quella data in poi, il clan degli Ó
Súilleabháin aveva legami con gli esponenti della
monarchia inglese.
[¹²]
Riferimento alla Divina Commedia di Dante.
[¹³]
Più
famosa come “berretta del prete”. I suoi rami
servivano
– e servono tuttora – per la realizzazione del
carboncino.
[¹⁴]
Riferimento agli Oneiroi:
Morfeo, Fobetore e Fantaso. Erano i figli d’Ipno, dio del
sonno,
e della Notte. Avevano il compito di plasmare i sogni dei mortali
nell’Antica Grecia.
[¹⁵]
I Celti d’Irlanda.
[¹⁶]
L’attuale Cavehill,
una collina d’origine basaltica che s’affaccia su
Belfast.
[¹⁷]
Popolazione dell’Irlanda nord-orientale, diede
il proprio nome alla provincia dell’Ulster.
[¹⁸]
Composizione basaltica sulla costa nord-orientale
dell’Irlanda.
[¹⁹]
Erano i dialetti irlandesi, che molti consideravano
promiscui con quelli inglesi.
[²⁰] Ho
scelto consapevolmente di far parlare il personaggio in questo modo,
proprio perché non ha avuto alcun tipo
d’istruzione,
quindi s’affida a frasi del volgo.
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Lo sclero di ℰver❞
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Capitolo 2 *** II. Meriggio ***
II
Meriggio
_______________________________
Si chiamava Fearghus[¹]. Era un giovane
borseggiatore di ventisei anni che aveva girato l’Europa a
causa della morte prematura del padre, ammazzato durante una rissa in
un bordello. Non aveva mai conosciuto sua madre, né aveva
altri parenti che potessero prenderlo con sé;
così a Dublino s’era imbucato su un treno
– Abaigeal non ne aveva mai visto uno, neppure sui libri
– e s’era abbioccato nel vagone merci. Al suo
risveglio, s’era ritrovato a Dún Laoghaire[²] e da lì aveva
preso un traghetto per l’Europa, agognando a quella nuova vita che di
frequente sentiva uscire dalla bocca degli avventori della locanda in
cui suo padre era solito portarlo.
La nave attraccò a Dordrecht
la primavera del 1838. Iniziò a rubare poiché non
sapeva fare altro; dapprima si diede allo scippo per le strade
succursali, poi divenne più avido, alla ricerca dei
portafogli di vera pelle in cui poteva trovarvi da vivere per una
settimana. Tuttavia, s’accorse presto di quanto fosse
complicato il concetto di domanda e offerta: con l’inflazione
alle porte a causa dell’avvento della Rivoluzione
Industriale, ciò che rubava non bastava a garantirgli la
sopravvivenza per nemmeno un giorno; poteva rinunciare
all’alloggio – dormire per strada non gli era mai
parsa una cattiva idea –, ma di qualcosa doveva pur sfamarsi.
Giunse ad Amsterdam la primavera del
1839, quando aveva solo undici anni. Si unì per qualche
tempo ad una compagnia d’artisti di strada, in cerca
d’un lavoro che gli permettesse di guadagnarsi da vivere
senza dover rubacchiare come aveva fatto in passato. Ma
l’accento spiccatamente straniero e l’aspetto
malandato non furono mai dei buoni biglietti da visita, specie in
quella città: a causa della guerra contro la Gran Bretagna,
la città aveva iniziato lentamente il proprio declino, e nel
giro di qualche mese le tratte commerciali si spostarono verso Londra.
Nel bel capoluogo, consumato da un popolo in cui perfino lui non si
riconosceva – era irlandese,
non gl’importava affatto degli inglesi –, Fearghus
veniva sempre etichettato con soprannomi come “lo
straniero”, “l’inglesino”,
“il lord”; tutti nomi che, se avesse potuto,
avrebbe appioppato volentieri a qualche ignaro passante con
l’accento di Canterbury.
Così, sconfitto dalla
città da cui sperava di poter ricominciare, si
ritrovò a vagabondare per l’Europa, non trovando
mai un posto dove poter sistemarsi: si diresse a sud, giungendo a
Plombières, in Vallonia; dopo qualche settimana di viaggio,
proseguì per Parigi, incupita dagli stralci dei moti
popolari del 1830. S’affacciò in Spagna, fino ad
arrivare nel Golfo di Guascogna, la parte dell’Oceano
Atlantico che da un lato bagnava la Francia coi suoi Pirenei Atlantici,
dall’altro si riposava sulle coste frastagliate dei Paesi
Baschi sino alla Galizia. Visitò l’Italia, ma non
giunse mai fino a Roma, dove avrebbe tanto voluto vedere
quell’arena dei gladiatori che tutti chiamavano il Colosso[³].
Crebbe nomade, Fearghus, e non
pensò mai di tornare sui suoi passi per capire cosa fosse
andato storto nella vita: non incolpò mai suo padre per
averlo lasciato allo sbando, né sua madre per non essere
stata con lui. Non si pentì mai d’essersene andato
e d’aver viaggiato, seppur non avesse condotto una vita che
avrebbe potuto definire esemplare o esente da privazioni. Non
s’era più interrogato su quante volte fosse stato
costretto a dormire sotto al cielo gonfio di stelle, ma finì
per abituarsi anche a quelle che, col passare del tempo, gli parvero
più belle delle lanterne delle città.
Dormì poco, ma sognò molto. E in quei sogni non
patì mai il freddo, né il caldo.
Fino al giorno in cui decise di
tornarsene a casa.
Abaigeal lo ascoltava rapita, con lo
sguardo perso ad osservare il solito, monotono paesaggio che, al suono
delle parole del ragazzo, si ravvivava e prendeva vita dai suoi
racconti in modo del tutto nuovo; un mondo a colori che sovente si
ritrovava a dipingere, chiedendo all’ospite se ciò
che aveva realizzato fosse vagamente simile a quello che lui aveva
visto dal vivo.
«Sei brava» le aveva
detto un giorno, con il volto immerso nella tela.
«È davvero identica.»
Era uno schizzo della Cattedrale di
Notre-Dame, ch’era nato dalle parole di Fearghus e da qualche
descrizione rubata al drammaturgo francese[⁴]. Abaigeal si sorprese della
facilità con cui riusciva ad utilizzare la pittura per dar
vita a ciò che il ragazzo le raccontava, e nel giro di poco
si ritrovò a parlare con lui di tutto ciò che le
passava per la testa: delle sue paure, dei suoi dilemmi, persino dei
fedeli tabù cui sua madre aveva messo un beneplacito divieto.
Fearghus, dapprima restio e poco incline
ad accettare come compagnia una ragazzina di sedici anni che non sapeva
nulla del mondo, si scoprì ben presto intenerito
dall’ingenuità di lei e del suo mondo,
ch’era ridotto a Sedge Hall e a qualche pezzetto di cariceto.
«Non sogni mai di andartene
via?» le chiese un giorno, mentre la vedeva intenta a
dipingere.
«E dove potrebbe mai andare,
una come me?» Il ragazzo non scorse alcun vittimismo in
quella frase. Era ciò che Abaigeal considerava
realisticamente la verità: la sua incapacità
motoria la inibiva, e chiedendo aiuto a qualcun altro si sarebbe
certamente trovata in difetto, consapevole di quanto potesse
rappresentare un peso il suo handicap.
Fearghus non vi pensava spesso, alla sua
malattia; s’era ritrovato qualche volta a fissare la
carrozzella su cui passava le sue giornate, ma presto divenne quasi
normale per lui trovarsela attorno. Non definì mai quel
sentimento di tranquillità che la ragazza gli trasmetteva,
perché non gli era mai stato insegnato, limitandosi a
credere che fosse ormai necessario alla sua esistenza. Fu in quel modo
che smise di rivolgersi a lei con il nome di Abaigeal e
iniziò a chiamarla Abby, poiché era
più semplice per lui da ricordare e più bello per
lei da sentire. E, per giusto
compromesso, permise alla giovane di smettere di dargli del voi, che
proprio non gli si addiceva.
«Sono un vagabondo»
continuava a dirle, «e tu continui a chiamarmi signore.
Quanti anni pensi che io abbia, mocciosetta?»
Allora la ragazza rideva e Fearghus
s’univa a lei col suo ghigno storto e sciancato, chiedendosi
da quanto tempo non si concedesse al benessere del cuore. Quella pacata
emozione l’accompagnava perfino quando circospetto la
riportava nella sua stanza ed Abaigeal gli chiedeva di raccontargli
un’altra storia, e un’altra ancora,
cosicché dovette iniziare ad inventarsene sempre di nuove
per evitare che scoprisse il trucco: che lui, quelle storie, non le
aveva davvero vissute tutte, ma aveva iniziato a farlo stando con lei.
«Un giorno» gli
capitò di dirle una sera, mentre le carezzava i capelli
rossi, «prometto che ti porterò via da qui,
Abby.»
«Voglio andare a
Belfast» gli rispose con gli occhi socchiusi. «E
voglio vedere il Selciato del Gigante.»
Fearghus si ritrovò,
nonostante tutto, a sorriderle.
Voglio.
Non capitava mai che lo manifestasse così apertamente.
S’era così affezionata a Sedge Hall e ai cinque
sassi del confine della tenuta che non l’aveva mai sentita
chiedere altro, soddisfatta di quel misero coccio di
felicità che l’era stato offerto dalla vita. In
confronto a lei si sentiva tremendamente fortunato, eppure prima di
allora non aveva mai posto la mente al fatidico pensiero: Abaigeal
faceva solo finta che la vita le andasse bene così
com’era, poiché se così non fosse stato
non gli avrebbe mai chiesto di rimanere. Ciò che le
permetteva di vivere era proprio lui, Fearghus. Lui con le sue storie.
Lui con i luoghi in cui era stato e dove lei non sarebbe mai potuta
andare.
Alla palese scoperta, il ragazzo si
ritrovò a trattenere un insolito groppo alla gola,
chiedendosi cosa fosse quel peso sul cuore che gli toglieva il fiato.
«Abby.»
La giovane schiuse un occhio, ma non
rispose.
«Posso darti un
bacio?»
Un sorriso fiorì sulla bocca
sottile, e Fearghus si ritrovò a sfiorarle la fronte con le
labbra secche e raggrinzite dal continuo mangiucchiarsele.
Era bello per entrambi, il tempo
trascorso a Sedge Hall.
⚜
⚜
NOTE:
[¹] Pronuncia:
Fergus.
[²] L’attuale
Kingstown.
[³]
Ai tempi ancora un bambino/adolescente, Fearghus non
conosceva la corretta pronuncia del Colosseo.
[⁴] Victor Hugo.
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Capitolo 3 *** III. Crepuscolo ***
Dove cresce la carice
III
Crepuscolo
_______________________________
Il cocchiere arrestò la corsa al trotto degli Irish draught[¹]
dal manto baio. Il ritorno dei coniugi Mór era stato
previsto per quella mattina. A giudicare dalle epistole sempre meno
frequenti, tutta la servitù s’era allestita e
fatta cosciente di dover attendere ancora del tempo prima di veder
nuovamente tornare i due proprietari. Tuttavia, un pomeriggio di quelli
ch’annunciavano sventura, il fattorino
s’accanì sul picchiotto di bronzo, consegnando la
missiva che annunciava il ben poco lieto ritorno.
Tra i corridoi si bisbigliava che, in
fondo, non fosse tanto male vivere senza di loro: la signorina Abaigeal
non parlava con nessuno e si limitava a lasciar fare loro tutto
ciò che Lady Sadhbh disponeva – e Lady Sadhbh non
era certo austera e rigida come la contessa Mór. Il clima di
Sedge Hall non era mai stato così rilassato e calmo come in
quei giorni; la giovane proprietaria passava la maggior parte delle sue
giornate nella stanza misteriosa – così tutti
erano soliti chiamarla, poiché Abaigeal non aveva mai
permesso a nessuno di entrare lì dentro –, la
governante si concedeva il lusso di gestire la casa seduta sulla
poltrona di fronte al vasto camino della sala principale, sorseggiando
un bicchierino di whiskey, e i domestici s’organizzavano per
pulire solo quelle parti della casa che la contessa aveva
più a cuore, dimentichi della soffitta e della cantinola,
luoghi in cui non l’avevano mai vista andare –
c’era chi diceva che avesse la fobia dei ragni, altri quella
dei topi.
Abaigeal accolse i due genitori
all’entrata del muro di laterizi, con le mani strette alla
coperta che le copriva le gambe. Chinò leggermente il capo
in gesto di saluto, mormorando un semplice: «Bentornati,
padre e madre.»
«Buongiorno, cara.»
La contessa si limitò ad un distratto cenno della mano,
mentre con impacciata grazia tentava di togliersi i guanti di raso
bianco che s’impigliavano tra le pellicine delle dita
– che, a differenza di quelle della figlia, non erano poi
così affusolate come voleva far credere. «Hai
mangiato adeguatamente?»
«Sì»
rispose, e la mano del padre si portò a carezzarle la testa
in un gesto dovuto e privo d’affetto.
«Bene» le disse il
patriarca, sorpassandola per entrare nella tenuta. «Questo
è importante.»
Abaigeal s’affacciò
distrattamente con lo sguardo alla finestra del suo studio: con gli
occhi puntati sulla penosa riunione, Fearghus osservava e non capiva.
S’aspettava un incontro di quelli raccontati nei romanzi che
tanto piacevano alla ragazza, quelle storie irte di peripezie e dei
finali lieti e favolistici che vedevano il protagonista vivere una vita
serena e gioiosa. Abaigeal, però, non le appariva affatto
felice: aveva il viso mortificato e le mani che stringevano la coperta
di lana bianca sulle gambe immobili, in antitesi con le braccia pallide
e tremolanti. Il vetro era troppo opaco perché riuscisse a
capire se stesse piangendo, e tuttavia s’accorse facilmente
della mascella indurita e degli occhi gonfi, mentre la vedeva
sciogliersi con rabbia la sofisticata acconciatura su cui
s’era incaponita dalle prime luci dell’alba.
Aveva un vestito più carino
di quelli ch’era solito vederle addosso: era d’un
delizioso lampasso d’amamelide[²], ricamato con lussureggianti
fili d’oro che impreziosivano il petto minuto e la vita
sottile. S’era coricata la sera prima con in testa una
spropositata abbondanza di fiocchetti bislacchi, stranezza che lui
aveva commentato con un semplice: «A che ti servono tutti
quei nastri?»
«È per i
boccoli» aveva sbuffato infastidita la ragazza, mentre si
lasciava avvolgere dalle pesanti coperte che il giovane le aveva messo
addosso. «Così i capelli sono più
graziosi.»
Fearghus non riuscì a
trattenere la pena. Abaigeal, dalla personalità eccentrica e
un po’ svampita, non gli era mai parsa così
fragile come in quel momento, riflessa nel vetro della stanza dei
quadri, con il suo bel vestito, i suoi bei capelli ed una solitudine
che la tormentava, trascinandola nel baratro di quell’incubo
che si ostinava a chiamare vita.
Se solo avesse potuto sarebbe andato a
dirle che era stupenda e che non aveva bisogno del conforto dei
genitori per crederlo; tuttavia s’accorse lesto che
ciò che lui aveva visto in quelle settimane, lei non
l’avrebbe mai potuto apprezzare: riflessa nello specchio,
ciò che le sarebbe sempre apparso era l’orrenda
immagine d’una ragazza nata per sbaglio, un terrificante
aborto della natura, l’anomalia illogica d’un corpo
nato con le gambe e incapace di usarle. Un fallimento, progettato da un
burattinaio sadico e negligente.
Ciò che vedeva lui non
contava poi molto. Gli era capitato spesso di soffermarsi sui
lineamenti sottili della ragazza, sul naso socratico solcato da mille
lentiggini e sugli occhi cerulei, persi a fissare un panorama che aveva
visto mille volte, ma ch’era in grado di rapirla ogni volta.
Forse non era bella davvero, Abaigeal; eppure gli pareva la donna
più aggraziata che avesse mai visto, e non sapeva se fosse
dovuto all’affetto o al mero giudizio d’un uomo
che, lentamente, s’affacciava al sentimento platonico e
irraggiungibile: Abaigeal era una giovane aristocratica e lui un povero
bastardo che non aveva alcuna ragione d’insozzarla con le sue
mani sporche e peccatrici, nonostante la coscienza
gl’intimasse subdolamente che, forse, avrebbe potuto renderla
felice, portandola via da quel mondo misero e disgraziato.
Quale presunzione, la sua. Un vagabondo
stanco, con le gambe indolenzite dal troppo viaggiare e il cuore
sedotto dalla tenerezza d’una fanciulla non ancora donna e
tuttavia così amabile e raffinata, dolce e leggiadra come i
quadri che dipingeva, come le storie che immaginava. Attese impaziente il ritorno della ragazza, con la devozione
d’un cane che avesse visto il proprietario tornare dalla
vendemmia. E lui si sentiva proprio in quel modo, una bestia selvaggia
sfiorata dal sorriso malinconico di lei, addomesticata dalle sue
maniere cortesi e piene di premure.
La osservò spingersi con la
carrozzella dentro la stanza, mentre richiudeva cautamente la porta
dietro di sé. Non vi pensò molto Fearghus, prima
d’abbracciarla come avrebbe dovuto fare suo padre e sua madre
prima di lui. La strinse, impacciato da quel gesto troppo audace, che
in sé pareva più la stretta d’un
fratello rattristato che d’un amante fedele. «Abby,
piccola Abby.»
Ed Abaigeal pianse, mentre si lasciava
cullare dalla voce roca e gentile del suo ospite che le raccontava una
storia, in quella debole e opaca speranza di poterla veder tornare a
sorridere. Era l’unica cosa
che aveva imparato a fare da quando l’aveva conosciuta, e
l’unica cosa che l’aveva sempre fatta ridere. Ma
più s’ingegnava per intricar la trama,
più lei singhiozzava e si faceva piccola contro il suo
torace. «Ti hanno fatto del male» le aveva detto
poi, incapace di trattener oltre il tormento, «e nonostante
questo tu provi ancora affetto per loro.»
«Perché non mi
vogliono?» aveva singhiozzato, come fosse il capriccio
d’una bambina viziata. «Perché non
possono amarmi?»
Fearghus non sapeva risponderle, e non
provò ad inventare scuse, perché proprio non
c’era tagliato – lui – per
quelle.
«Perché sono due stupidi ciechi.» Prese
tra le mani il viso della giovane, lasciando che lo sguardo disperato
di lei si rifrangesse nell’ambra del suo. «Sono
ciechi perché non ti vedono affatto, Abby. Non vedono quanto
tu sia meravigliosa e simpatica e allegra. Non vedono quanto tu sia
brava nella pittura, né vedono quanto tu sia eccezionale nel
raccontare le storie. Non possono vederti. Ed è per questo
che non ti meritano affatto.»
Abaigeal tirò su col naso,
sprofondando ancora una volta nell’abbraccio sicuro e paterno
del ragazzo, che le stringeva la piccola vita, le baciava i capelli,
cercando di colmare il vuoto insanabile d’una
consanguineità distaccata e indifferente al suo dolore. La
cullò per tutta la notte, parlandole di tutte le cose a cui
pensava, cercando d’allontanar quei pensieri infausti e
straziati, mentre sentiva il piccolo cuoricino assopirsi e la testa
rossa farsi pesante sul suo petto.
Lì, persa nel mondo che
Fearghus continuava a narrarle, Abaigeal si sentiva un po’
meno fragile.
__________________________________________________________
If you want to I can save you
I can take you away from here
So lonely inside
So busy out there
And all you wanted was
somebody who cares.
⚜
⚜
⚜
NOTE:
[¹] Cavalli
originari dell’Eire, Connemara.
[²] Una
gradazione di giallo.
[³] La
melancolia, a quei tempi, era considerata una forma molto grave di
depressione, che sui soggetti immunodepressi portava a perdita di peso,
inappetenza, allucinazioni e, nei casi più gravi, anche alla
morte. In questa storia è chiaramente da intendersi nella
sua accezione antica, non in quella moderna.
[⁴] Pena del
taglione, è un principio di diritto consistente nella
possibilità riconosciuta a una persona che avesse ricevuto
intenzionalmente un danno causato da un'altra persona, di infliggere a
quest'ultima un danno, anche uguale all'offesa ricevuta (Wikipedia).
[⁵] L’inno
di Dublino, risale al XVIII secolo.
[⁶] «Quella
fu la fine della dolce Molly Malone
ma il suo fantasma spinge ancora il carretto
per strade strette e larghe
gridando
"vongole e cozze vive!»
[⁷] Cimitero di
Cork.
[⁸] Le bolge sono i
gironi dell’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco.
La settima è quella riservata ai ladri, che hanno le mani
legate dietro la schiena da serpenti e subiscono orribili metamorfosi.
❝
Lo sclero di ℰver ❞
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