L'Altro

di ValeAck
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***
Capitolo 3: *** Terza Parte ***
Capitolo 4: *** Quarta Parte ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


La cravatta annodata in gola lo stava soffocando, per non parlare di quanto strette sentisse le maniche della giacca blu che indossava sopra quell'insopportabile camicia. La sua vecchia scuola non spiccava di certo tra le migliori, ma almeno lì aveva l'assoluta libertà di vestirsi (nei limiti della decenza) come più gli aggradava. E in quel momento, mentre metteva piede nella sua nuova aula, avrebbe dato qualsiasi cosa per rimpiazzare quell'odiosa divisa con una qualsiasi delle sue felpe. Come avrebbe fatto di tutto per ritornare nella sua amata Tokyo e passare l'ultimo anno di liceo in compagnia di Hanji ed Erwin.

Invece suo padre l'aveva letteralmente parcheggiato a casa dei suoi zii, a Shiganshina, giustificando il tutto con un importantissimo viaggio d'affari in Canada che l'avrebbe tenuto occupato fino al mese di settembre dell'anno successivo. E così lui, un eterno solitario, si era ritrovato a convivere con dei parenti che a stento conosceva, con una cugina che aveva visto una volta sola in tutta la vita, in un paesino dimenticato dal mondo che come unico punto a favore aveva un prestigiosissimo liceo privato. E definire quella postilla come qualcosa di positivo era assolutamente un eufemismo colmo di sprezzante sarcasmo. La Shiganshina High School era esattamente il posto in cui, nemmeno per tutto l'oro del mondo, avrebbe volontariamente messo piede: ragazzini ricchi cresciuti nella bambagia che rabbrividivano al concetto di "scuola pubblica", con una vita perfettamente programmata e con ambizioni personali ridotte ai minimi termini. Preconcetti, pregiudizi, ci tenne a ricordare a se stesso per tranquillizzarsi, fallendo miseramente.

La prima cosa che notò non appena mise piede nella propria classe fu il silenzio. Non che i suoi nuovi compagni non parlassero, semplicemente si limitavano a chiacchierare a voce bassa, rimanendo seduti al proprio posto. Fino a quel momento era stato abituato a tutt'altro: nella sua vecchia scuola, in assenza di un docente, ci sarebbe stato, nel più fortuito dei casi, un chiasso assordate. Percepì qualche occhiata incuriosita spiarlo, mentre attraversava con più scioltezza possibile l'aula, ringraziando il cielo che ci fossero sia l'ultimo che il penultimo banco della fila adiacente alle finestre, liberi. Fu proprio lì che si diresse, spogliandosi della tracolla per lasciarla cadere sul ripiano di legno bianco perfettamente lindo.

«Tu sei quello nuovo, non è così?» alzò lo sguardo e insieme ad esso un sopracciglio, ritrovandosi davanti una ragazza con enormi occhi ambrati e un caschetto ramato che appena le sfiorava le spalle.

«Levi Ackerman.» si presentò e la ragazza annuì con esagerata enfasi, sorridendogli affabilmente proprio come farebbe un venditore porta a porta. Vuole qualcosa, capì immediatamente nel notare le sue spalle rigide e i piedi ben piantati al suolo.

«Sono Petra Ral, rappresentante di classe e a tua completa disposizione per qualsiasi cosa! - Non le rispose, limitandosi semplicemente a farle intendere di aver chiaro il concetto, ma quando scostò la sedia, allontanandola dal banco per accomodarsi, la ragazza increspò le labbra, prima di affondarvi timidamente i denti. - Lungi da me l'essere scortese, Levi. Ma questi due posti - posò i palmi aperti su ambedue le superfici - sono occupati. - dunque giunse le mani all'altezza del petto, stringendo gli occhi e facendo un piccolo inchino colmo di mortificazione. - Potresti gentilmente scegliere un posto diverso?» certo, ultimi due posti di fianco alla finestra liberi: troppo bello per essere vero. Avrebbe potuto fregarsene, in fondo era il primo giorno di scuola e non vi era nulla che simboleggiasse l'esclusiva appartenenza di quei posti ad altri studenti; invece sospirò, alzandosi e afferrando la propria cartella, del tutto maldisposto a dare il via ad inutili questioni. Dunque fece un paio di passi, guardandosi intorno ed evitando le occhiate che sentiva arrivare da ogni singola direzione. Posò la mano sul terzo banco della fila centrale, voltandosi e indirizzando a Petra Ral uno sguardo interrogativo e al tempo stesso sarcastico che lei non parve cogliere, in quanto si limitò a sorridergli con un cenno affermativo.

Non appena prese posto, vide la porta anteriore della classe aprirsi e venire solcata da un anziano signore le cui rughe tagliavano di parte in parte il suo volto, intensificandosi all'altezza degli occhi e rendendo calanti le sue palpebre. Nemmeno un capello a coprire il suo capo, ma in compenso folti baffi brizzolati a solcargli il sottile labbro superiore.

«Spero abbiate passato delle piacevoli vacanze estive e che vi sentiate pronti per affrontare l'ultimo anno che, come ben sapete, sancirà la fine della vostra adolescenza. - ridacchiò affabilmente alle flebili proteste annoiate degli studenti, poi si avvicinò alla cattedra, posandovi i libri che stringeva tra le mani. - Come già avrete sentito, da oggi si unirà a noi un nuovo compagno. - tese il braccio e il palmo aperto nella sua direzione, invitandolo ad alzarsi e Levi agitò nervosamente le gambe in risposta: detestava quel genere di formalità. - Pretendo che ognuno di voi collabori affinché si senta come a casa propria.» Petra, seduta al primo banco, si voltò nella sua direzione, rivolgendogli un sorriso d'incoraggiamento, dunque trattenne uno sbuffò limitandosi a sollevarsi, lasciandosi andare solo ad un impercettibile sospiro. Stava per aprire bocca e fare la sua sbrigativa e preconfezionata presentazione, quando la porta posteriore dell'aula si spalancò di colpo, venendo attraversata da due ragazzi sudati e particolarmente affaticati. Levi si voltò per osservarli, un sopracciglio inarcato nel constatare quanto entrambi fossero esageratamente inchinati.

«Mi scusi per il ritardo, professore.» disse il primo, rimanendo in posizione: i capelli biondi che ricadevano verso il basso e una mano stretta alla bretella della tracolla per evitare di farla rovinare al suolo. Venne immediatamente seguito dal compagno.

«Si, ci scusi tanto! Non ricapiterà.» assicurò, alzando lo sguardo e rivelando gli occhi più incantevoli che Levi avesse mai visto. Enormi gemme di smeraldo, impreziosite da pagliuzze dello stesso blu che tinteggiava l'oceano e contornate da folte ciglia che altro non facevano che ingigantirgli naturalmente lo sguardo: semplicemente spettacolari, in particolar modo se accostate all'incarnato naturalmente scuro che lo contraddistingueva da qualsiasi altro componente della sezione. Decisamente non era orientale.

«Che non si ripeta, Kirschtein. - sospirò il professore al primo, facendo un cenno con il capo. - Vai a sederti. - concluse pazientemente, senza rivolgere all'altro nemmeno uno sguardo. Questi non parve farci caso, semplicemente si avvicinò all'orecchio del suo amico, sussurrandogli qualcosa e sghignazzando da solo, prima di prendere posto proprio dove Levi avrebbe voluto sedersi quella mattina. - Riprendiamo da dove eravamo rimasti, a te la parola, ragazzo mio.» annuì infine il docente, rivolgendosi nuovamente a lui. Si schiarì la voce con un colpetto di tosse e raddrizzò la schiena.

«Mi chiamo Levi Ackerman, ho vissuto tutta la vita a Tokyo, ma per via del lavoro di mio padre mi sono ritrovato qui. - fece un veloce inchino, ricacciando indietro una nascente smorfia di fastidio e obbligandosi a mantenere la solita espressione stoica. - Spero potremmo andare d'accordo.» concluse, tornando seduto.

«Io sono il professor Pixis, coordinatore e responsabile di questa classe. Per qualunque problema potrai rivolgerti a me. - fece un cenno d'assenso con il capo, evitando di aggiungere altro e sperando che l'attenzione si focalizzasse il prima possibile sul prossimo argomento. - Passiamo alle cose divertenti e no, non parlo dei vostri compiti delle vacanze, quelli verranno ritirati dalla vostra rappresentante di classe a fine lezione e portati da me in aula insegnanti. Mi riferisco, bensì, al programma che svolgeremo insieme affinché possiate arrivare al diploma con la migliore delle preparazioni.» il ragazzo con la testa rasata, seduto alla sua destra, raccolse le braccia sul banco e vi affondò il volto con una teatrale disperazione, facendo sghignazzare la compagna alle sue spalle

Quando il professor Pixis, libro alla mano, prese ad elencare gli argomenti che avrebbero affrontato nei prossimi mesi, Levi si voltò per spiare da sopra la spalla il ragazzo ritardatario. Lo beccò perso tra i suoi pensieri, un gomito poggiato sul banco e il mento sorretto dal palmo, mentre i suoi occhi erano indirizzati oltre il vetro della finestra. Aveva un bel profilo, la divisa gli calzava a pennello e su di lui sembrava quasi un abbigliamento decente. Forse il vero problema, quello che stonava con tutto il resto, era la massa disordinata di capelli le cui ciocche parevano lottare (e vincere) contro la gravità stessa. Quando si voltò, rivolgendo lo sguardo alla lavagna, Levi si rese conto che, per quanto illegale fosse girare con quella zazzera, l'insieme non era affatto male. Probabilmente quella trasandatezza era addirittura voluta. Quelle gemme verdi scivolarono distrattamente verso il basso, incantandolo con il solo movimento e, quando le vide posarsi su di sé, accompagnate immediatamente dopo da un sorriso radioso, il corvino sentì le guance andare a fuoco e il respiro bloccarsi. Illegali, delle labbra del genere non potevano essere considerate diversamente, in particolar modo se il loro distendersi implicava la formazione di una minuscola fossetta a scavargli la guancia sinistra. Si voltò di scatto costringendosi a mantenere il contatto fisso con la lavagna. Ottimo, non sai neanche come si chiama ma ti fai beccare a fissarlo. Livello figura di merda: avanzato.

...

Un'intera lezione passata con il capo immobile, gli occhi fissi e il collo rigido, gli causò l'indolenzimento dell'intera schiena che lo indusse a stiracchiarsi non appena suonò la campanella che sanciva l'inizio della pausa pranzo. Forse avrebbe fatto bene ad alzarsi per andare a scusarsi (e magari a presentarsi) con quel ragazzo, ma cosa avrebbe potuto dirgli? Scusa se ti fissavo, ma hai degli occhi meravigliosi ed è difficile esserne indifferenti? Assolutamente una pessima idea.

«Connie, andiamo a mangiare?» Kirschtein, l'amico del ragazzo dagli occhi di giada, si diresse verso la porta, sollevando un braccio. Levi capì dunque che Connie, fosse il ragazzo seduto alla sua destra e lo sentì chiamare "Sasha" la sua amica che si trascinò dietro, afferrandole la mano. Sospirò, arrendendosi alla consapevolezza che non sarebbe mai riuscito a memorizzare i nomi di tutti i suoi nuovi compagni di classe.

«Hey, ragazzi, aspettatemi!» fu più forte di lui voltarsi ed intercettare l'unica persone che fino a quel momento aveva trovato vagamente interessante in quelle quattro mura. Aveva le guance gonfie per il disappunto e le sopracciglia aggrottate, mentre raccattava velocemente le sue cose per raggiungere i suoi amici. E che amici, si disse Levi, non si danno nemmeno la pena di rispondergli. Il tempo di tornare a guardare dritto avanti a sé, che il ragazzo dai capelli biondo platino seduto davanti a lui, aveva girato la propria sedia e posato entrambi i gomiti sul suo banco, sorridendogli affabilmente.

«Io sono Farlan Church! - allungò una mano e Levi gliela strinse titubante, provando a sua volta a presentarsi e venendo interrotto. - Levi Ackerman, il cugino di Mikasa.» il corvino aggrottò le sopracciglia, studiandolo con lo sguardo per alcuni secondi.

«Siete amici?» gli chiese velocemente, occhi puntati in quelli cristallini del ragazzo. Non era sua intenzione risultare scortese, ma non aveva alcuna voglia di entrare nella vita sociale di sua cugina e vivere nel suo gruppo come un parassita unicamente per pietà.

«No, non direi. Ma visto che in questo paesino ci vivono sì e no cento anime, sarebbe strano se non conoscessi qualcuno, specie se questo qualcuno è l'ex del presidente del consiglio studentesco. - Levi scosse il capo, facendogli intendere di non sapere assolutamente nulla. Vero che vivevano insieme, ma da quando si era trasferito a stento si erano rivolti la parola, lei passava la maggior parte del suo tempo chiusa in camera a suonare il pianoforte mentre lui si isolava per poter leggere indisturbato. - Jean Kirschtein, - spiegò velocemente. - sono stati insieme per tre anni.»

«E poi cos'è successo?» non che gli interessasse realmente fare del gossip spicciolo, a maggior ragione se questo riguardava un componente della sua famiglia, semplicemente si adattava a quella che era una convenzione sociale giustificando il tutto con lo "spirito di sopravvivenza del nuovo arrivato". Fu la reazione del suo interlocutore a quella domanda, però, ad incuriosirlo per davvero. Fiato trattenuto, iridi che vagavano in qualsiasi direzione e mano a grattarsi timidamente la nuca: chiaramente l'aveva messo in difficoltà. Anzi, si era messo in difficoltà da solo.

«Diverse cose. - mormorò infine, mordendosi l'interno guancia, soppesando le parole da utilizzare in seguito. - Cose spiacevoli di cui non parliamo. - ancora un volta gli rivolse uno sguardo interrogativo. Cosa poteva essere successo di tanto grave da metterla in quei termini? Magari un tradimento, si disse, senza avere il tempo di chiedere conferma. - Allora vieni da Tokyo?» gli domandò, tornando ad avere un'espressione radiosa. Di qualunque cosa si trattasse, non aveva alcuna intenzione di aprir bocca al riguardo.

«Sì, esatto.» annuì, scorgendo il ragazzo estrarre il proprio bento dal sottobanco e piazzarlo su quello di Levi per aprirlo.

«Oh, spero tanto di essere ammesso in una delle sue università. Vivere in città, lontano da questo posto dimenticato dal mondo, è sempre stato il mio sogno. Dimmi com'è?» scrollò le spalle, imitandolo e prendendo a sua volta il proprio pranzo.

«Bella, se ti piacciono il caos, lo smog, la marmaglia e un'esagerata quantità di automobili.» ironizzò, non preoccupandosi di lasciar trasparire una generosa dose di sarcasmo, finendo poi per sorridere al luccichio negli occhi del suo interlocutore, provocato da quella grossolana descrizione.

«Mi sembra fantastica!» annuì, assorto da chissà quale fantasticheria. Sembrava un tipo decente quel Farlan Church, estroverso al punto giusto, per nulla invadente e con una voce piacevole che faceva quasi passare inosservata la sua evidente logorrea. Quasi allo scadere della pausa, Levi vide nuovamente Jean rientrare in aula, testa bassa sul cellulare, mentre l'amico gli stringeva un braccio intorno alle spalle, parlando a raffica di qualcosa che, data la lontananza, il corvino non riuscì a cogliere. Ancora una volta incontrò quei maledetti occhi, ancora una volta ricevette in cambio un sorriso.

...

Nei giorni che seguirono, Levi capì diverse cose riguardanti il ragazzo con gli occhi di giada.

Era perennemente incollato a Jean Kirschtein ma quest'ultimo non pareva apprezzare sufficientemente la sua presenza, rivolgendogli a stento lo sguardo. Durante le lezioni si distraeva facilmente, preferendo passare intere ore a rimirare il cielo, piuttosto che prendere appunti. Quando invece era particolarmente interessato ad una materia, adorava fare dei piccoli commenti (o meglio, battute poco velate) durante la spiegazione, non venendo mai ripreso. Come se, sia per Pixis che per il resto della classe, fosse un atteggiamento assolutamente normale. Non era, però, ancora riuscito a scoprire il suo nome e, per quanto la curiosità e la voglia di parlargli lo stessero mangiando vivo da giorni, proprio non riusciva ad individuare l'occasione adatta per incalzare una conversazione. Se solo non fosse stato costantemente alle calcagna di quel Kirschtein, probabilmente ci sarebbe riuscito... ma chi voleva prendere in giro? Se Hanji fosse stata lì con lui sicuramente l'avrebbe bonariamente canzonato, accusandolo di saper sedurre solo le persone che non gli piacevano realmente. Ma quella curiosità poteva seriamente essere descritta con il termine "piacere"? Non lo conosceva affatto, non sapeva nulla di lui e perfino associare quell'assurda fissazione ad una cotta gli sembrava esagerato. Eppure, più passava il tempo, più non riusciva a darsi pace, crogiolandosi perennemente nell'incertezza sul come comportarsi.

O almeno, così era stato fin quando, due settimane dopo l'inizio della scuola, l'aveva intravisto alzarsi nel bel mezzo della lezione e uscire dall'aula senza dire una parola. Nemmeno in quell'occasione Pixis lo rimproverò, continuando tranquillamente a spiegare la seconda rivoluzione industriale.

Fu come essere sospinti da una forza maggiore, alzarsi a sua volta per seguirlo fu incontrollabile. A differenza di quel ragazzo, Levi non godeva dello stesso assurdo trattamento di favore, dunque dovette giustificarsi con l'insegnante, rifilandogli la scusa di dover andare in bagno. Quando fu fuori, dopo essersi chiuso la porta alle spalle, si girò a destra e a manca, individuandolo alla fine del corridoio intento a girare verso destra per imboccare le scale. Si apprestò a seguirlo, provando ad ignorare tutti gli improperi della sua coscienza su quanto inopportuno fosse pedinare una persona con la quale non aveva neanche un minimo di confidenza. Ma ancora una volta il desiderio di conoscere ebbe la meglio, concretizzandosi in un vero e proprio bisogno nascente al centro del petto che gli accelerava i battiti passo dopo passo, scalino dopo scalino. Giunse in cima al tetto, lì dove lo vide con i gomiti poggiati sulla ringhiera, il busto appena sporto in avanti e il vento che gli sferzava tra le ciocche castane, tirandole all'indietro e scompigliandole ancor più del solito. Gli si avvicinò lentamente, finché non fu a pochi passi da lui.

«Stai bene?»

Il ragazzo si voltò di scatto, gli occhi spalancati e le labbra a malapena schiuse per la sorpresa, come se l'idea che qualcuno avesse potuto seguirlo fin lì fosse particolarmente assurda. Annuì lentamente, prima di sciogliersi in un sorriso così radioso da far invidia al sole stesso e di appoggiarsi con i fianchi alla balconata.

«Sto bene, avevo solo sentito il bisogno di... pensare? - scosse il capo, ridacchiando di se stesso. - Credi sia strano?» Levi avanzò ancora di qualche centimetro, osservandolo attentamente.

«T'interessa sul serio ciò che pensano gli altri?» un sopracciglio inarcato e le braccia conserte strette contro il busto, mentre azzerava del tutto le distanze, affiancandolo e poggiandosi a sua volta con gli avambracci sul ferro battuto. Parve rifletterci su per alcuni istanti, le iridi che si alzarono lentamente verso l'alto per poi tornare a trafiggerlo con quel colore assolutamente unico nel suo genere.

«Non proprio. - ammise in tutta onestà, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni scuri. - L'opinione delle persone non mi spingerebbe a comportarmi diversamente da quanto faccio, ciò non esclude il fatto che sia curioso di conoscerla.» aveva sperato con tutto se stesso che quel ragazzo si rivelasse un idiota, che una singola conversazione sarebbe bastata a smentire ogni fantasia formulata sul suo conto nelle ultime settimane. E invece (quasi poteva sentire la vocina di Hanji sbeffeggiarlo) quella risposta l'aveva indotto a sorridere flebilmente, incuriosendolo ulteriormente.

«Allora diciamo che reputo strane tante cose e che questa non rientra nella lista.» rispose pacatamente, improvvisamente desideroso di conoscere le riflessioni che l'avevano indotto ad isolarsi in quel modo.

«Quindi hai una lista delle cose che trovi strane? - domandò sinceramente meravigliato, prima di mettere su un ghigno saputo. - Ed io rientro nell'elenco?» quell'ultima domanda quasi la sussurrò, sporgendosi un minimo nella sua direzione.

«Non vedo perché dovresti, non ci conosciamo.» gli fece notare, scrollando piano le spalle.

«Giusto, - convenne con lui con finta condiscendenza. - ma mi hai seguito per vedere se stessi bene e in classe non fai che fissarmi. - disse quell'ultima frase con una naturalezza spiazzante che altro non fece che mandare Levi in agitazione. Ovviamente se n'è accorto.

«Non ti fisso, è solo che... - l'imbarazzo lo costrinse ad abbassare lo sguardo, avvertendo le guance cominciare a prendere fuoco. - Non è facile far finta di niente dinnanzi a determinati comportamenti. - il castano annuì, come se fosse completamente d'accordo con lui, nonostante non avesse fatto esplicitamente riferimento a qualcosa. Quasi si sentì in obbligo di specificare a cosa si stesse riferendo, dunque continuò. - Insomma, parli senza essere interpellato, ti distrai continuamente ed esci e rientri in classe senza nemmeno chiedere il permesso. E Pixis lascia correre, sempre.»

«Sono iperattivo, credo sia per questo che si limiti a lasciarmi fare senza richiamarmi. - Levi schiuse le labbra, richiudendole immediatamente dopo e limitandosi ad annuire. Quella proprio non se l'aspettava, nonostante fosse la più ovvia delle giustificazioni.  - Quando ero più piccolo era peggio, non riuscivo a rimanere seduto per più di cinque minuti e, beh, credo tu possa immaginare il mio andamento scolastico. - spiegò tranquillamente. - Crescendo, comunque, la situazione è migliorata, anche se in alcune occasioni, come quella di prima, il desiderio di evadere ha la meglio. - piegò la testa di lato, assottigliando le palpebre, prima di sorridergli dolcemente. - Tu invece cosa hai fatto all'occhio?» Levi sentì una serie di brividi percorrergli la spina dorsale e diramarsi in tutte le direzioni fino ad accapponargli la pelle, ma si costrinse ad assumere un'espressione neutra.

«Non so di cosa tu stia parlando.» asserì serio, ricevendo in cambio un'occhiata scettica.

«Quindi mi stai dicendo che quella a destra non è una protesi? - domandò, spingendolo a portare le dita alla sua altezza per coprirla. Come aveva fatto ad accorgersene? Si era allenato interi anni a non compiere movimenti con l'occhio sano che rivelassero quello finto, riuscendoci alla perfezione. Aveva smesso di coprirlo a partire dalle scuole elementari e nessuno aveva mai fatto domande o aveva mai dato cenno di aver intuito qualcosa. Ed ora arrivava quel ragazzo, di cui nemmeno sapeva il nome, riuscendo a smascherarlo con una facilità assurda. - Non volevo essere indelicato, mi dispiace.» calò il capo in imbarazzo, dunque Levi abbassò la mano, scoprendosi nuovamente.

«A due anni ho avuto un cancro, fermato in tempo affinché non raggiungesse la testa, ma non abbastanza per potermi salvare... - se lo indicò, scrollando le spalle. - Non mi ricordo niente, ero troppo piccolo e non l'ho mai vissuto come un vero problema. Mi ha solo stupito il fatto che tu te ne sia reso conto così facilmente. - sollevò un angolo della bocca abbozzando un sorriso. - Come hai fatto?»

«Magari ti ho osservato più di quanto mi piaccia ammettere, Levi Ackerman.» come poteva dire una cosa del genere con una tale naturalezza?

«E tu? - non poteva più aspettare, doveva saperlo. - Come ti chiami?» annegò in quelle iridi per istanti lunghi quanto ore, il petto in tumulto per l'attesa, la smania a nutrirsi dei suoi battiti.

«Eren. Eren Jaeger.»

 

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


«Jean, muoviti! - lo richiamò Connie, alzando la mano per essere intercettato dallo sguardo del compagno. - La pausa pranzo non è mica infinita.» Sasha annuì animatamente, le dita a circondare il polso di quello che Levi aveva capito fosse il suo ragazzo, e lo sguardo spazientito per l'attesa.

«Andate.» disse semplicemente il biondo, liquidandoli con un gesto della mano, prima di aprire la cartella ed estrarre un panino e una borraccia. Il corvino trovò quella situazione particolarmente ambigua: era la prima volta, da un mese a quella parte, che il rappresentante d'istituto decideva di pranzare in aula. Intercettò l'occhiata sconsolata che Eren rivolse al suo amico, altrettanto confuso da quella decisione così improvvisa, che si dissipò nell'esatto istante in cui Kirschtein girò la sedia posando il suo pranzo al sacco sul banco del castano. Non gli disse nulla, semplicemente prese a mangiare, sfogliando distrattamente il libro di trigonometria e dando di tanto una sbirciata al telefono.

Eren, dal canto suo, sorrideva felice, le braccia raccolte sulla superficie e il mento poggiato su esse, limitandosi a scrutarlo in silenzio, pienamente appagato. Levi proprio non riusciva a capire la natura del loro rapporto. Eren pendeva letteralmente dalle sue labbra e, se da un lato Jean non pareva neanche accorgersene, dall'altro, di tanto in tanto, compiva piccoli gesti del tutto contraddittori rispetto al solito atteggiamento assunto. Erano rarissime e quasi del tutto impercettibili dimostrazioni d'affetto che ad una normale persona sarebbero passate inosservate. Non a Levi che ormai, per quanto strano si sentisse, non riusciva a staccare gli occhi di dosso ad Eren Jaeger. Era diventata una necessità che giorno dopo giorno si era trasformata in vera e propria apprensione. Non importava quante volte avesse ripetuto a se stesso di lasciar perdere, di non intromettersi nella vita altrui: puntualmente, quando Kirschtein ignorava il castano di proposito, proprio non riusciva a trattenersi dallo storcere il naso. Eren l'aveva beccato diverse volte con la medesima espressione contrita, limitandosi sempre a scuotere le spalle e a seguire l'amico con un'assurda (data la situazione) aria serena.

...

Quello stesso pomeriggio, finite le lezioni, Pixis l'aveva trascinato nel suo ufficio per avere un dettagliato resoconto di come fosse andato il primo mese nella nuova scuola. Non l'aveva trattenuto a lungo, giusto il tempo perché potesse essere informato riguardo il procedimento del programma e dell'evoluzione dei rapporti interpersonali con i nuovi compagni di classe. Aveva dato risposte positive ad entrambi i quesiti, nonostante alcune parti del programma le avesse già trattate nella vecchia scuola e la sua vita sociale fosse ridotta al pranzare con Farlan Church e fissare di nascosto Eren Jaeger. E quest'ultima, doveva ammettere, non gli riusciva un granché bene. Quel ragazzo si accorgeva sempre di lui e puntualmente finiva per rivolgergli uno di quei sorrisi spettacolari, capaci di togliergli il fiato.

Uscito dall'ufficio del coordinatore si diresse velocemente verso la sua aula per recuperare la borsa e l'ombrello, sospirando sconsolato nel rendersi conto che la pioggia avesse continuato a venir giù incessantemente. Fu quando rientrò che lo vide, il volto rivolto oltre il vetro e le spalle che a malapena si muovevano sotto il suo respiro. Levi gli si avvicinò titubante, dopo quel giorno sul tetto non avevano più parlato, limitandosi a salutarsi da lontano e a rivolgersi quelle occhiate silenziose. Lo affiancò, cercando i suoi occhi con i propri senza riuscire ad attirare la sua attenzione.

«Hey! - gli posò una mano sul braccio e quel contatto fece sobbalzare il più alto che si voltò di scatto, l'espressione impaurita come quella di un cerbiatto davanti ai fari di un'auto. Parve impiegare secondi eterni prima di tornare sereno, secondi durante i quali sembrava non averlo neanche riconosciuto, dunque tornò a guardare fuori. - Perché sei ancora qui?»

«Aspetto che smetta di piovere, non ho l'ombrello.» Levi seguì la traiettoria del suo sguardo, intercettando Jean fermo in cortile con un ombrello rosso tra le mani, del tutto assorto da una conversazione con Connie Springer.

«E Jean non poteva accompagnarti? - percepì il suo respiro bloccarsi a quella domanda, alla quale seguirono infiniti attimi di silenzio. - Perché continui a frequentarlo? Mi sembra un vero idiota.» Eren sorrise di gusto a quell'aggettivo, annuendo come se fosse completamente d'accordo con lui.

«Infatti lo è! - i loro occhi si specchiarono e Levi sentì le gambe assumere la consistenza della gelatina dinnanzi a quello sguardo. - Da bambini ci odiavamo, venivamo alle mani praticamente tutti i giorni. Poi... non so come sia successo, è semplicemente diventato il mio migliore amico. Ogni tanto fa ancora lo stronzo, ma proprio non riesco ad immaginare la mia vita senza di lui. Semplicemente sarebbe incompleta.» Levi aggrottò le sopracciglia, fissandolo in preda alla confusione.

«Sembra quasi che tu sia innamorato di lui.» pensò a voce alta, arrossendo immediatamente dopo per quella teoria buttata lì in modo così avventato. Eppure non era assurda. Praticamente pendeva dalle sue labbra, lo seguiva ovunque andasse, sorrideva ad ogni sua frase, lo guardava colmo di orgoglio ad ogni intervento fatto durante le lezioni. Nemmeno gli importava che quel ragazzo lo trattasse come l'ultima ruota del carro, gli rimaneva fedele a prescindere da tutto. Quella costatazione fece scoppiare Eren in una sonora e sincera risata, con tanto di lucciconi agli angoli degli occhi.

«Sarebbe come essere innamorati di un fratello, e poi non la conosci la regola? - fece scorrere un dito davanti ai suoi occhi. - I fidanzati delle amiche sono off-limits.» lo istruì scherzosamente, tornando ad ammirare il cortile, questa volta con uno sguardo carico d'affetto.

«Ti riferisci a Mikasa?» Eren s'illuminò, annuendo con veemenza e Levi si sentì rabbrividire. Quindi era un amico di sua cugina, non un semplice conoscente. Allora perché non li aveva mai visti insieme? Possibile che in un intero mese non li avesse intravisti neanche una volta a scambiarsi un saluto?

«È tua cugina, giusto?»

«Già, ma mi pareva aver capito che non stessero più insieme.» quell'affermazione fece scoppiare Eren nell'ennesima risata e Levi, dal canto suo, arricciò le labbra per l'irritazione. Quel ragazzo pareva scambiare ogni sua singola parola come una battuta e, per quanto segretamente adorasse il suo sorriso, proprio non gli andava giù di non essere preso sul serio.

«Mikasa e Jean? Ma se sono la coppia più schifosamente felice del mondo!» gli rivolse un'occhiata diffidente, poco convinto da quell'affermazione. Farlan era stato abbastanza chiaro al riguardo, Jean e Mikasa avevano interrotto ogni tipo di rapporto e a confermare le sue parole vi era il fatto che negli ultimi trenta giorni la corvina non avesse nominato neanche per sbaglio quello che a detta di Eren Jaeger sarebbe dovuto essere il suo ragazzo. Eppure lui pareva così convinto, come se quello appena detto fosse un dato di fatto inconfutabile e lui proprio non ebbe il coraggio di correggerlo ancora. Rivelargli una cosa del genere avrebbe significato mettere in discussione la veridicità dell'amicizia tra lui e Jean, una relazione dalla quale pareva dipendesse la sua intera esistenza. Come faceva a non rendersi conto del fatto che Kirschtein non ricambiasse il suo affetto? Proprio non lo capiva, come anche non capiva il comportamento dell'altro che, invece di sbattergli sotto il naso il suo evidente fastidio, si limitava ad ignorarlo bellamente.

«Senti, io ho un ombrello. - Eren inarcò un sopracciglio, evidentemente confuso, facendolo sospirare. - Se fai strada, ti accompagno io fino a casa. - fece un cenno verso il cielo, lì dove densi nuvoloni scuri parevano essersi stabiliti a tempo indeterminato. - Non credo smetterà presto perciò, a meno che tu non voglia rimanere a scuola per tutta la notte, andiamo via insieme.»

Sorrise compiaciuto quando vide un leggerissimo rosa tinteggiargli le gote «Io non posso... non voglio disturbarti, non mi sembra il-»

Levi lo interruppe, afferrandolo per la mano. Aprì la bocca per inveire contro quegli inutili convenevoli, ma le parole gli si bloccarono in gola, alla luce di due fatti. Il primo: l'aveva toccato senza neanche pensarci su, spontaneamente come mai gli era successo con altre persone prima di allora. Il secondo: Eren Jaeger era tremendamente «Gelido... - sospirò a voce alta, allungando anche l'altra mano per coprire la sua. - Sei congelato.» mormorò sovrappensiero, sfregando i palmi contro la sua pelle con l'intento di riscaldarlo almeno un minimo.

«Dici? - chiese stralunato, facendo scendere lo sguardo sulle loro dita intrecciate. - Eppure non ho freddo. - Levi mantenne salda la presa, prendendo a trascinarlo fuori dall'aula. Non l'avrebbe lasciato lì in quelle condizioni, la pelle così gelida in ottobre poteva indicare solo l'inizio di un'influenza. - Davvero, Levi: sto bene. Ti preoccupi troppo!» gli piaceva il modo in cui le sue labbra si piegavano per pronunciare il suo nome, quasi quanto gli piaceva il suono della sua voce, ma decise di non darlo a vedere, voltando il capo e puntando gli occhi sulla porta dell'aula, prendendo a trascinarlo.

«Dio, mi sembri un ragazzino di dieci anni.» bofonchiò tra i denti, allietandosi della flebile risatina proveniente dalle sue spalle.

«E tu un vecchio ansioso. - lo rimbeccò, facendogli increspare le labbra. - Ti ho detto che sto bene. - concluse, decidendo comunque di seguirlo. I corridoi erano quasi del tutto deserti, la maggior parte degli studenti si era già affrettata a ritornare a casa e quelli rimasti si erano rintanati nelle aule adibite per i club extrascolastici ai quali erano iscritti. Camminarono l'uno di fianco all'altro, immersi nel silenzio ammortizzato unicamente dai loro passi che risuonavano contro il pavimento. Giunti in cortile, Levi aprì il proprio ombrello, attendendo che l'altro lo affiancasse, scrutando in silenzio la sua espressione pensosa. Cosa passava per la testa di quel ragazzo? Il bisogno di saperlo lo indusse a schiudere le labbra proprio per domandarglielo, ma Eren lo precedette. - Tu non ti ricordi di me, non è vero?» rimase interdetto, le sopracciglia aggrottate a quella domanda così inaspettata e gli occhi puntati sul suo volto. Non ricambiò quello sguardo, le iridi puntate dritte davanti a loro, mentre si avvicinavano al cancello, eppure perse nel vuoto, come a ricercare un ricordo lontano.

«Ci siamo già incontrati? - chiese poco dopo, scavando nella sua memoria alla ricerca di un qualsiasi indizio che avvalorasse quella che per il castano pareva una vera e propria convinzione. Non era assolutamente possibile che avesse già visto quegli occhi, se ne sarebbe ricordato. Erano troppo profondi, dai pigmenti troppo particolari: qualcosa di talmente raro da mettere facilmente radici nei pensieri di chiunque. - Credo tu mi stia confondendo con qualcun altro.» concluse, perché quella era la spiegazione più logica, ma l'espressione dell'altro rimase immutata e assolutamente sicura.

«Compleanno di Mikasa, se non ricordo male i suoi undici anni. Fece una festa in casa e tu eri lì con tuo padre, un gesso al braccio destro e un broncio tanto lungo da far invidia a Pierrot. - sorrise di gusto e Levi schiuse le labbra. - Non eri tu?» Certo, certo che era lui. Quella era stata la prima volta, da quando era nato, che aveva visto Mikasa, nonché l'ultima. I loro padri, pur essendo fratelli, non si frequentavano assiduamente; la loro non era una famiglia unita, non passavano assieme le ricorrenze e non condividevano una casa durante le vacanze. I contatti tra i loro genitori si limitavano a sporadiche telefonate, aggiornamenti veloci delle rispettive vite. Di quella giornata rimembrava perfettamente il suo malcontento: al cinema ci sarebbe stata la prima di un film che lui ed Hanji attendevano da mesi e la madre dalla sua migliore amica si era proposta di accompagnarli. Suo padre invece, senza neanche interessarsi del suo parere, l'aveva trascinato a quella festa con l'improvviso e inspiegabile bisogno di riunire la famiglia. Per non parlare di quanto fastidio gli desse il gesso che portava da due settimane, dopo che lui ed Erwin si era sfracellati al suolo cadendo dalla bicicletta di quest'ultimo, la cui catena si era improvvisamente sganciata.

«Ero io.» ammise solamente, cercando tra i volti anonimi di tutti i ragazzini presenti alla festa, quello adornato dalle meravigliose gemme smeraldine che nell'ultimo mese l'avevano reso letteralmente dipendente.

«Il tuo gesso era immacolato e mi ero sentito in dovere di porre rimedio, ma quando mi sono avvicinato con un pennarello mi hai detto di sparire. - ridacchiò dolcemente al ricordo. - Poi mi hai dato le spalle e ti sei allontanato.» plausibile: il pensiero di imbrattare qualcosa che era costretto ad indossare giorno e notte, all'epoca, lo disgustava. Non aveva permesso nemmeno ai suoi amici di toccarlo, figurarsi ad un completo estraneo. Eppure non ricordava minimamente quell'episodio, come se fosse stato del tutto esportato dalla sua mente. Rimase in silenzio fin quando non uscirono in strada, gli occhi puntati sulle scarpe e il rumore della pioggia a battere contro l'ombrello.

«Mi spiace, non riesco proprio a ricordarlo. - non gli rispose, dunque si costrinse ad alzare nuovamente lo sguardo per ricercare il suo, rimanendo del tutto spiazzato nel non vederlo più al suo fianco - Eren?» lo chiamò, guardandosi intorno più volte. Del ragazzo, neanche l'ombra.

...

Fu sollevato e al tempo stesso stranito quando, entrando in aula il giorno seguente, lo vide seduto al proprio posto. Mancava un quarto d'ora all'inizio delle lezioni e lui, da bravo ritardatario qual era, non si era mai presentato con così tanto anticipo. Approfittando dell'assenza dei loro compagni, Levi si affrettò ad avvicinarglisi, senza neanche passare per il proprio posto per posare la tracolla. Si sedette invece sulla sedia di Jean, increspando le labbra quando il castano gli rivolse un sorriso radioso.

«Levi, hai visto? Sto benissimo! Te l'avevo detto che ti preoccupavi troppo.» lo canzonò, poggiando il mento sulle braccia, occhi fissi nei suoi e in volto un'espressione raggiante che il corvino non ricambiò.

«Che fine hai fatto, ieri? Sei praticamente scomparso.» lo vide rabbuiarsi, probabilmente per il tono con cui gli erano state rivolte quelle parole, ma Levi non si lasciò intenerire, rimanendo fermo nella sua posizione.

«Mi sono accorto di aver dimenticato un libro in classe e sono tornato a prenderlo. Uscendo ho incontrato uno dei membri del mio club e mi sono trattenuto a parlare con lui.» Levi sollevò scetticamente un sopracciglio.

«Club?» Eren tornò a sorridergli, sollevando entrambe le mani davanti al volto, stringendo un occhio e simulando lo scatto di una macchina fotografica.

«Faccio parte del club di fotografia dal primo anno. - sorrise compiaciuto, facendo scorrere lo sguardo dai suoi occhi alle sue labbra. - Magari un giorno mi permetterai di farti qualche scatto, saresti un modello perfetto.» ammiccò e Levi si costrinse a distogliere lo sguardo e a sospirare mestamente.

«Magari quando imparerai ad avvisare le persone, invece di dar loro buca. – si scrutarono per lunghi istanti, prima che il corvino riuscisse a tranquillizzarsi. - E io che mi sono anche preoccupato, da non crederci.» Eren si lasciò andare ad una tenera risatina, riuscendo addirittura a coinvolgerlo. Poi, improvvisamente tornò serio, lo sguardo quasi allarmato puntato sulla porta d'ingresso dell'aula e i muscoli tutto a un tratto rigidi.

«Vai al tuo posto. - gli disse senza neanche guardarlo, le voci degli altri studenti che nel frattempo si avvicinavano. - Sta arrivando Jean e a lui non piace vedere altre persone sedute lì. - Levi aggrottò le sopracciglia, scuotendo il capo confuso. Lui non aveva mica intenzione di spodestarlo dal suo trono, semplicemente si era fermato a parlare con Eren. Cosa avrebbe mai potuto dire Kirschtein. Stava per dar voce proprio a quel pensiero quando il compagno lo trafisse con un'occhiata glaciale, seria e ammortizzata da una luce di preoccupazione ad illuminargli le iridi: non l'aveva mai visto così. - Vattene. Adesso.» un moto di irritazione a scuotergli il petto mentre si sollevava di scatto, non riuscendo a credere alle proprie orecchie.

«Lunatico del cazzo.» disse velenoso, prima di avvicinarsi al proprio banco e, non appena lasciò andare la cartella, Jean Kirschtein attraversò l'aula, venendo accolto dal sorriso luminoso di Eren che, come di consueto, non venne minimamente considerato. E quella scenetta assolutamente ridicola fu l'apice della sua frustrazione, mentre nella sua mente di ripeteva come un mantra una singola domanda: perché?

...

La sua tolleranza raggiunse il limite non appena si concluse la lezione di chimica, durante la quale Pixis disse loro di dividersi in gruppi da tre persone per svolgere insieme una relazione. Sentì la voce di Eren, dolce come il miele ed emozionata, rivolgersi al suo migliore amico.

«Jean, lavoriamo insieme! - disse, prima di posare lo sguardo su Levi e dedicargli un sorriso che il diretto interessato interpretò come una sorta di scusa per il comportamento di quella mattina. - Magari Levi potrebbe fare gruppo con noi, che ne dici?» il biondo non si degnò di rispondergli, semplicemente si alzò in piedi, dirigendosi verso la porta e alzando un braccio verso Connie.

«Ci vediamo oggi da me? - disse e il ragazzo dal capo rasato annuì energicamente. - Sasha, non fare tardi. Non ho intenzione di spendere più di un pomeriggio per una stupida relazione.» Levi sentì un centinaio di brividi percorrergli la pelle, il cuore che batteva alla velocità della luce e lo stupore nel vedere il castano con il capo basso e un'aria rassegnata, seguire comunque Jean, nonostante quel brutale rifiuto. Non lo accettava. A tutto c'era un limite e quel bell'imbusto l'aveva appena superato, umiliandolo per l'ennesima volta pubblicamente e ferendolo gratuitamente. Si alzò di botto, ignorando Farlan che nel frattempo gli stava suggerendo di fare gruppo assieme a Petra Ral, e seguendo quei due in corridoio. Non riuscì a trattenersi, la rabbia a concentrarsi nei palmi delle mani fino a solleticarglieli.

«Perché non la pianti di fare lo stronzo, Kirschtein?» domandò a voce alta, immobilizzandolo sul posto e attirando al contempo l'attenzione di qualche studente. Il biondo si voltò lentamente sollevando un sopracciglio e rivolgendogli uno sguardo irritato e al tempo stesso confuso. Levi strinse entrambi i pugni, sfogando la rabbia graffiando l'interno delle mani con le unghie, mentre lo osservava retrocedere e avanzare nella sua direzione. Eren lo seguì allarmato, fissando entrambi con gli occhi improvvisamente lucidi e il labbro inferiore tremante.

«Levi, smett-» provò il castano, ma venne interrotto dal suo migliore amico che fece un ultimo passo azzerando la distanza dal corvino e sovrastandolo in altezza.

«Di cosa diavolo stai parlando, Ackerman? Sei in cerca di rogne, per caso?» stava provando ad intimidirlo, come se lui potesse realmente sentirsi minacciato da un metro e novanta di idiozia.

«Me lo stai chiedendo seriamente? Sei davvero così stupido? - Farlan uscì dall'aula, guardando i due che si fronteggiavano con le labbra spalancate. - Eren-» non riuscì a finire di parlare, un pugno chiuso impattò contro il suo labbro, facendogli girare la testa per alcuni istanti, dunque sentì una mano afferrarlo per il colletto della giacca. Gli occhi iniettati di sangue del più alto che lo guardavano quasi spiritati, il respiro che sbuffava a rantoli contro il suo viso come quello di un animale ferito ma ancora pieno di energia per atterrare il nemico. Alzò a sua volta la mano per assestargli un pugno, ma quando percepì la voce di Eren che pregava entrambi di smetterla si bloccò con il braccio a mezz'aria; immediatamente dopo un secondo colpo si abbatté sul suo zigomo.

«Come diamine osi nominarlo? - ringhiò a pochi centimetri dalle sue labbra, lì dove sentiva un rivolo caldo rigarlo fin giù al mento. - Chi cazzo credi di essere?» lo strattonò in preda ad una furia cieca, prima che un paio di braccia gli circondassero le spalle, riuscendo a stento a trattenerlo dall'ennesima percossa.

«Jean, smettila! - gli urlò Connie, tirandolo all'indietro. - Non ne vale la pena, finirai nei guai!» a lui si aggiunse Farlan che, frapponendosi tra i due, provò ad allontanare Levi e a fargli da scudo con il proprio corpo.

«Non me ne fotte un cazzo se sei il cugino di Mikasa. - abbaiò contro di lui come un folle, provando nuovamente a scagliarglisi contro e venendo fermato per l'ennesima volta da Springer. - Prova a dire di nuovo il suo nome e sei morto.»

«Jean...» la voce di Eren rotta dal pianto si intromise di nuovo, colpendolo dritto al cuore, ma il biondo non si curò di rispondergli, né tantomeno di consolarlo.

«Mi hai capito, Ackerman? - Sasha si era unita al suo ragazzo, afferrando il compagno per un braccio e prendendo a tirarlo via, mentre Petra minacciava di chiamare Pixis. - Sei morto!» Eren lanciò uno sguardo distrutto a Levi, prima di affrettarsi a seguire i propri amici con le lacrime che gli rigavano il volto. Farlan strillò contro la marmaglia che si era appostata lì intorno per seguire la vicenda, intimando a quegli impiccioni di andare a caccia di gossip altrove, prima di tendere un pacco di fazzoletti a Levi, ispezionando velocemente le sue ferite. Lo aiutò a ripulirsi dal sangue, trascinandolo nel mentre in infermeria in modo che potesse disinfettare il taglietto all'angolo della bocca.

«Mi spieghi che diamine ti è passato per la testa?» gli domandò, quando fu certo di essere lontano da orecchie indiscrete e Levi lo guardò con gli occhi spalancati prima di rabbuiarsi in un cipiglio infastidito.

«Forse non te ne sei accorto, ma io non ho alzato un dito su di lui.» gli fece notare, ancora del tutto spiazzato da ciò che era appena accaduto. Per non parlare degli sguardi, apparentemente delusi, che Farlan continuava a lanciargli. Neanche il colpevole fosse lui.

«Hai fatto di peggio, credimi. - scosse il capo, passandosi una mano tra le ciocche bionde. - Nominare Eren in sua presenza, sei per caso impazzito?» il tono duro e le labbra appena arricciate. Non aveva mai visto Farlan in quel modo. Lui che rideva continuamente, che se ne usciva con battutacce pessime a ogni occasione, sempre con quell'aria perennemente spensierata, ora lo stava chiaramente rimproverando. Levi aprì le braccia e scosse il capo, incredulo di quanto assurdi fossero i ragionamenti degli studenti di quella scuola.

«Come scusa? - non poteva crederci, quella conversazione non stava avvenendo sul serio. - Mi ha appena preso a pugni, tratta Eren come uno zerbino praticamente tutti i giorni e io sarei il problema? Forse dovreste rivedere le vostre priorità.» Farlan aprì la bocca e la richiuse più di una volta, il volto bianco come un lenzuolo e gli occhi strabuzzati.

«Lo tratta come... - si prese un attimo per assimilare quelle parole, tirando un paio di sospiri prima di rivolgergli un'occhiata sconsolata. - Levi, io non so chi ti abbia detto questa cosa, ma è una menzogna.» asserì, e Levi dovette trattenersi dal mettersi ad urlare come un matto. Chi gliel'aveva detto? L'aveva visto! Un mese intero ad assistere alla fastidiosissima indifferenza di Jean e all'umiliante remissività di Eren. E non era stato il solo. Era sotto gli occhi di tutti i suoi compagni, spettatori silenti e codardi di quell'ignobile comportamento.

«Come puoi dire una cosa del genere?»

«Levi, Jean non potrebbe trattarlo male neppure volendo. - si prese una pausa, mordendosi l'interno guancia e posandogli una mano sulla spalla. - Eren Jaeger è morto l'anno scorso.»

 

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Capitolo 3
*** Terza Parte ***


"C'è stato un incidente lo scorso anno."

Stava tornando a casa a passo lento, le giunture delle gambe che parevano aver perso consistenza, riuscendo a reggere il proprio peso per chissà quale forza divina. E nel frattempo, le parole di Farlan riecheggiavano nella sua mente a ondate, piccoli stralci di un discorso che aveva ascoltato passivamente, senza cogliere la maggior parte delle frasi, se non quelle salienti.

"Non c'è stato nulla da fare, quando i soccorsi sono giunti sul posto aveva già smesso di respirare."

Avrebbe voluto urlargli contro, pregarlo di smettere di mentirgli perché lui, il suo petto gonfiarsi d'aria per poi sgonfiarsi, l'aveva visto. E la sua pelle, seppur gelida, era entrata per effimeri attimi in contatto con la propria, riuscendo a farlo rabbrividire. Ma in fin dei conti, perché Farlan avrebbe dovuto raccontargli una bugia così tremenda? Lui per primo aveva percepito che ci fosse qualcosa di illogico nei comportamenti delle persone che circondavano Eren Jaeger, quell'assurda indifferenza che aveva provato a giustificare in centinaia di modi. Possibile che, il meno concepibile, fosse quello che rispondeva perfettamente ad ogni suo quesito, ricollocando tutti i tasselli, fino a quel momento scollegati, al proprio posto?

"Abbiamo deciso di comune accordo di lasciare libero il suo banco, nella speranza di sentirlo più vicino."

E allora la domanda era una e nasceva spontanea: in quale irrazionale dinamica del mondo era andato ad incappare? Cosa stava pretendendo da lui l'universo, giocandogli un tiro mancino di quella portata?

Eren Jaeger non esisteva più, eppure per lui, nel mese passato, era stato più reale di chiunque altro. La sua voce gli aveva carezzato i timpani, il suo sguardo smeraldino aveva provato a leggergli l'animo e i suoi sorrisi radiosi l'avevano schiavizzato, condannato a non avere occhi che per essi.

Nemmeno si rese conto di essere giunto a destinazione finché, attraversando il vialetto di casa la vide, capendo immediatamente, dalla vacuità della sua espressione, che avesse saputo qualcosa di quel pomeriggio. Mikasa era seduta sulla scaletta di legno del porticato, le ginocchia strette, la divisa scolastica ancora indosso e la solita sciarpa rossa ad avvolgerle il collo, mentre i suoi occhi erano persi ad ammirare il quadernetto che stringeva spasmodicamente tra le mani. Era visibilmente affranta e quella, si rese conto Levi, era la prima volta che riusciva a scorgere sul suo volto una qualche traccia di emozione. Quando le sue iridi incontrarono quelle scure e contornate dal fuoco di lei, provò un tuffo al cuore e con esso la frustrante sensazione di essersi spinto in qualcosa che con lui avesse poco e niente a che fare.

Si aspettava una sfuriata, nonostante sua cugina non fosse affatto quel tipo di persona, invece si ritrovò a trattenere il respiro nel vedere le sue dita colpire con un paio di tocchi leggeri lo spazio libero a lei di fianco. Un invito a farle compagnia che, molto probabilmente, in un'altra occasione avrebbe rifiutato. Nemmeno rientrò dentro a posare le proprie cose, semplicemente la raggiunse, piegandosi sulle ginocchia per mettersi seduto, in attesa che questa fosse pronta a parlare. La vide passarsi il dorso della mano su entrambe le gote per poterle liberare dal peso delle lacrime che ignobili avevano deciso di solcarle.

«Sasha mi ha chiamata e mi ha raccontato tutto.» sospirò, occhi puntati sulle proprie scarpe e presa sul quadernino talmente forte da sgualcirne la copertina e farle sbiancare le nocche. Una leggera folata di vento scompigliò i capelli di entrambi, tinti del medesimo inchiostro, e Mikasa appena rabbrividì.

«Mi dispiace, ho fatto una stronzata.» le rispose, sentendosi quasi un automa, data la meccanicità di quelle parole. In fondo, per quanto lui stesse dando per veritiere tutte le informazioni acquisite nelle ultime due ore, una parte di lui stentava ancora a crederci. Che fosse la parte impulsiva o razionale, proprio non riusciva a stabilirlo. Magari si trattava di entrambe. Eren Jaeger gli aveva parlato, sorriso, raccontato aneddoti del sua vita e poi l'aveva toccato: quelle non erano forse cose concrete? E ancora: l'aveva stregato, attratto a sé, impiantato un'infatuazione letale nel suo petto che giorno dopo giorno non aveva fatto altro che crescere, cibandosi dei battiti che aumentavano di intensità in sua presenza. Impulso.

Ma al tempo stesso, assurdamente, sapeva anche che quel ragazzo non apparteneva più all'unico mondo da lui conosciuto, un po' come se fosse incastrato tra due dimensioni diametralmente opposte, non riuscendo a far parte né di una, né dell'altra.

Mikasa scosse il capo in segno di negazione, tirando su con il naso e mostrandogli per la prima volta un lato estremamente vulnerabile. Avrebbe voluto prenderle una mano, accoglierla in un abbraccio, donarle un minimo di conforto, ma la sensazione che lei si sarebbe potuta sgretolare al minimo contatto lo fece desistere.

«Tu non potevi saperlo, non è colpa tua. - a stento riuscì a trattenere un singhiozzo e Levi si rese conto, per la prima volta, quanto si somigliassero pur essendo vissuti praticamente come due estranei. Quasi riusciva ad individuare lo spessore della corazza di cui si era rivestita, un'armatura d'indifferenza finalizzata a separarla dal mondo circostante e dalla sofferenza che questi prima o poi, inevitabilmente, deciderà di scagliarti addosso. Eppure era rotta, crepe su crepe che, pur provandoci, sarebbero state impossibili da rimarginare. - Quando papà mi ha detto che saresti venuto a vivere qui io... non credo di essermi mai arrabbiata così tanto in vita mia. In quel momento ti ho detestato profondamente.» ammise con un sospiro, le ciglia pregne di sale e il naso a malapena arrossato. Levi la guardò, i pensieri in subbuglio e un centinaio di domande a martellargli le tempie.

«Mikasa, io-»

«Fammi finire, Levi. - lo interruppe, provando a mantenere la voce ferma. - Io non odio te in quanto persona. - annuì, come se stesse cercando di convincere se stessa in primis di quella affermazione. - Ma odio ciò che la tua presenza qui a Shiganshina rappresenta. - schiuse le labbra, il cuore che prese a martellare velocemente contro la cassa toracica mentre la ragazza apriva il quadernetto, rivelando il nome di Eren trascritto con una grafia disordinata ed infantile e quello di Mikasa immediatamente sotto. Gli si mozzò il respiro quando la ragazza voltò la prima pagina, rivelando una fotografia di loro due assieme, seduti sotto quello stesso portico, lei con una coroncina di fiori tra i capelli e un abito rosa, lui con i vestiti sgualciti, un ginocchio sbucciato e gli occhi più belli e luminosi che avesse mai visto. Nessuno dei due guardava l'obbiettivo, Mikasa aveva le iridi rivolte verso l'alto ad ammirare ciò che le stava adornando il capo, Eren che le sorrideva con una tenera complicità. La frase che attirò la sua attenzione era scritta in piccolo appena sotto la data di quel giorno: da grandi ci sposeremo. - Abbiamo iniziato a raccogliere i nostri ricordi non appena abbiamo imparato a scrivere. O meglio, a scrivere ero io. - si morse il labbro inferiore, carezzando dolcemente il loro ritratto. - Eren scattava le foto. A dirla tutta, non credo di averlo mai visto senza una macchinetta fotografica tra le mani. Parlava continuamente di volersi trasferire a Tokyo per poter studiare in accademia e diventare un professionista.» e per un attimo riuscì quasi a figurarselo mentre passeggiava per le affollate vie della sua città natale, a scrutare con quelle iridi enormi ogni singolo dettaglio per poterlo catturare e fare proprio nella memoria.

«Sembrate così...» non riuscì a concludere la frase, un groppo gli si formò all'altezza della gola e dovette zittirsi per reprimere quel sentimento che minacciava di rendersi palese.

«Felici? - sorrise, poggiando un gomito sulle ginocchia per sorreggere la guancia con un palmo. - Lo eravamo. Lo siamo sempre stati. - sfogliò ancora una volta, rivelando l'ennesima foto di loro due, questa volta in compagnia di un ragazzino dai capelli biondi e un cerotto a coprirgli il mento. - Anche quando mi sono innamorata di Jean. - una foto di lei è Kirschtein che si baciavano sulla riva del mare. - Anche quando lui ha fatto coming-out. Credevamo, tutti e tre, di avere il mondo stretto in un pugno e ci comportavamo di conseguenza, come se nulla potesse scalfire ciò che spontaneamente eravamo riusciti a costruire.» si susseguirono svariate foto della loro infanzia, lo scorrere di tre vite racchiuso in immagini immobili e immutabili, capaci addirittura di ingannare lo spettatore, inducendolo a pensare che non fosse cambiato nulla. Invece era tutto dolorosamente differente.

Spalancò gli occhi quando, tra tutte le istantanee, riconobbe se stesso con l'espressione imbruttita e il braccio ingessato appeso al collo, affianco a sua cugina, che sorrideva all'obbiettivo, e... Eren: due dita alzate, un braccio a circondargli le spalle e un sorriso radioso a piegargli le labbra rosee. Sotto una piccola annotazione: il cugino di Mika è così carino!

«Ma questo sono io. - disse appena, il respiro corto e un peso lancinante a premergli sul diaframma, impedendone il regolare movimento. Lei annuì appena, staccando attentamente la fotografia e cedendogliela quasi a malincuore. - Com'è possibile?» domandò, prendendola tra le mani come fosse qualcosa di estremamente prezioso.

«Aveva insistito per fare la foto con noi due dietro la torta e nessuno riusciva a dirgli di no. Ha sempre avuto un particolare ascendente su tutti quelli che lo circondavano: semplicemente non si riusciva a non volergli bene. - scosse il capo, sconvolto da quella rivelazione. - Comunque immaginavo che tu non te ne ricordassi, in fondo non era nulla di rilevante. Un moccioso troppo esuberante per stare al proprio posto non è una cosa che generalmente viene registrata dalla mente di un ragazzino, a maggior ragione se questo ragazzino non è per nulla felice della giornata che sta vivendo. - se non avesse avuto un'aria così sconsolata, molto probabilmente avrebbe inteso quelle parole per una bonaria presa in giro. Ma i suoi occhi non seguivano l'artificioso sorriso che si era formato sulle sue labbra, loro erano semplicemente malinconici, nostalgici e colmi di rimpianto. - Ma Eren ti ha sempre ricordato, periodicamente mi chiedeva se ti avessi visto o sentito. Ogni Natale, da quel giorno, mi domandava se l'avremmo passato insieme. Addirittura aveva iniziato a seguirti su Instagram nella speranza, un giorno, di poterti conoscere per davvero. Blaterava continuamente di quanto fossero meravigliosi i video degli assoli di chitarra che pubblicavi, di quanto gli sarebbe piaciuto ascoltarli dal vivo e non solo tramite l'anonimato di uno schermo. - si passò una mano tra i capelli, tirando le ciocche scure all'indietro e provando a regolare il respiro. - Capisci perché dico che odio ciò che la tua presenza rappresenta? Se lui fosse ancora vivo avrebbe avuto l'occasione di parlare con te, avreste frequentato la stessa classe, avrebbe potuto ascoltarti suonare la chitarra e chissà, magari il piedistallo su cui ti aveva piazzato per qualche assurdo motivo, sarebbe addirittura crollato. Ora tu sei qui e lui... sono sicura che anche lui sia da qualche parte, solo che mi è impossibile raggiungerlo. Semplicemente non mi è concesso. - altre lacrime le rigarono verticalmente il volto, tagliandolo proprio come avrebbero fatto delle sottilissime lame. - Non è giusto, gli avevo promesso che saremo stati sempre insieme e adesso non posso adempiere al mio giuramento, è così... frustrante.» Frustrazione: quella era sicuramente la parola che più si adattava anche alla sua di situazione. Sviluppare un sentimento per una persona che non avrebbe nemmeno dovuto conoscere, essere consapevole di non poter rivelare a nessuno quanto il dolore lo stesse attanagliando in quello momento, sentirsi in difetto addirittura per quella tristezza che gli stritolava il muscolo cardiaco. Che diritto aveva lui, un estraneo, di piangerlo? Nessuno e al tempo stesso tutto.

«Cosa gli è successo?» portò entrambe le mani a coprire gli occhi, i tremiti che le scuotevano le spalle. Levi stava per rimangiarsi la domanda, stava per scusarsi per la sua ingiustificata brama di sapere. Non poteva certamente dirle di aver visto Eren e di aver parlato con lui, una cosa del genere suonava folle perfino alle sue stesse orecchie.

«Avevi postato su Instagram la locandina di un live in un locale che dista più o meno un'oretta da Shiganshina. - smise di respirare e sentì le forza venirgli meno in ogni singolo muscolo. No, non era possibile. Improvvisamente ebbe l'impulso di portare le mani all'altezza delle orecchie e di urlarle di chiudere la bocca, invece, tutto ciò che si limitò a fare, fu stringere le palpebre, cercando di ricacciare indietro le lacrime. - Ero stata categorica, gli avevo detto che non avremmo potuto partecipare assolutamente all'evento. Il giorno dopo ci sarebbe stata scuola, in più eravamo solo dei ragazzini di sedici anni, non avevamo i mezzi necessari per poterci spostare tanto in tre. - notò a malapena il suo tentare di darsi un contegno. - Ma lui insisteva così tanto... ha passato interi giorni ad escogitare piani assurdi per poter venire e ad ogni mio rifiuto si rattristava sempre di più. Talmente tanto che, alla fine, Jean ha ceduto. - scosse il capo con forza, come a voler negare ciò che in seguito era accaduto. - Aveva preso la patente da così poco, la moto gli era stata regalata da appena una settimana, ma lui voleva accontentarlo. Voleva esaudire il suo desiderio, voleva farvi incontrare, anche se solo per un'ora. Te l'ho detto, nessuno riusciva a dirgli di no. Così ha deciso di portarlo al tuo live, nascondendolo sia ai suoi genitori che a me. - chiuse di botto il quaderno, proprio quando questi mostrava una foto dei due ragazzi abbracciati. - Non sono mai arrivati. Hanno avuto un incidente appena a metà strada. Jean è stato in coma per un mese, Eren... - scoppiò in un pianto disperato. - Quando sono arrivati i soccorsi aveva già smesso di respirare, non hanno potuto fare nulla. - le stesse parole che poco prima gli aveva rivolto Farlan, questa volta gli piovvero addosso come una doccia dolorosamente fredda. - È andato via da solo, sul ciglio di una strada, lontano da me. - e il pensiero che seguì fu inevitabile: la colpa era sua. Eren era morto per seguire una persona che aveva idealizzato e mitizzato all'inverosimile. E lui cosa aveva fatto? Del tutto ignaro della sua esistenza si era limitato a suonare in un locale del cazzo con sì e no venti spettatori disinteressati, poi era tornato a casa, giurando a se stesso che non avrebbe fatto mai più una cosa del genere ed era andato a dormire colmo di frustrazione, inconsapevole che qualcuno di relativamente vicino aveva fatto di tutto pur ascoltare la sua chitarra, perdendo la vita. E per cosa era morto? Per un ragazzino irascibile che, dopo appena un live mal pagato, aveva messo sottochiave il suo strumento, promettendosi di non riprenderlo in mano mai più.

«Mi dispiace. - mormorò, la voce spezzata come mai gli era successo prima di allora. - Mi dispiace tantissimo.» sobbalzò quando percepì il capo di Mikasa poggiarsi sulla sua spalla, le lacrime di lei che gli ricadevano sulla giacca.

«No Levi. Non sto cercando di scaricare la colpa su di te. So che non è così, proprio come so che non è colpa di Jean. È la prima volta che parlo ad alta voce di quel giorno e probabilmente sarà anche l'ultima, ma tu dovevi sapere proprio perché so che lui avrebbe voluto così. Non ti conosceva per niente, eppure gli piacevi; il minimo che potessi fare era parlarti di lui. - si portò le mani al cuore, artigliando con forza la camicetta bianca. - Ho sempre saputo che non sarei riuscita a tenerlo ancorato a me per sempre, la sensazione che prima o poi mi avrebbe lasciata è stata radicata in me per anni. Ogni mio sforzo è stato vano, Eren parlava continuamente di voler andare via da Shiganshina, di volere una vita nuova, di sentire il bisogno di ricominciare in un posto dove nessuno lo conoscesse e io non l'ho mai accettato. Desideravo che tutto rimanesse immutato. Lui aveva me e Jean, io avevo loro due: ero convinta che non avessimo bisogno di altro per essere felici, che andasse bene così. Il mio egoismo è stato ripagato con la peggiore delle punizioni. La colpa è solo mia. Se non mi fossi opposta al suo desiderio di venire ad ascoltarti, probabilmente non sarebbe andata in questo modo.»

«Questo non puoi saperlo.» ma come si faceva a consolare una persona distrutta dai sensi di colpa, quando lui era il primo a sentirsi nel medesimo modo?

«Lo amo ancora. Jean intendo. E so che per lui è lo stesso. - sorrise dolcemente, asciugandosi l'ultima gocciolina salata che le bagnava il mento. - Lo vedo come mi guarda. - nascose il naso nella sciarpa rossa avvolta attorno al collo. - Ma due persone distrutte dal senso di colpa non possono stare insieme, finirebbero per annullarsi a vicenda. È per questo che ho deciso di chiudere con lui. - si alzò in piedi, stringendo il quaderno tra le mani, senza chiedere indietro la fotografia che gli aveva ceduto. - Lo so cosa stai pensando, che avremmo potuto farci forza l'uno con l'altro. - nemmeno si voltò a guardarlo mentre pronunciava quelle parole. - Ma non è facile stare con una persona che ti ricorda costantemente l'assenza di un'altra.»

«Non sto giudicando la vostra scelta, Mikasa. Non potrei mai.» stava piangendo ormai, forse proprio per quel motivo la ragazza aveva scelto di allontanarsi da lui. In fondo era un'Ackerman anche lei: l'arte della consolazione non spiccava tra le loro qualità.

«No, hai ragione. Sono io che cerco di giustificarla con me stessa.»

...

«Ti avevo già detto che, di tanto in tanto, strimpello con la chitarra?»

Quasi si sentì rassicurato quando quel pomeriggio lo trovò sulla stessa terrazza della prima volta, di nuovo gli occhi puntati verso il cielo che, quando scesero a specchiarsi nei suoi, si sgranarono, accompagnando quel gesto con un dolce rossore a colorargli le gote. Fece scivolare la custodia dalla spalla destra, stringendola tra le mani e sporgendola nella sua direzione. Lo vide passarsi una mano tra i capelli arruffati, le labbra increspate in un mezzo sorrisetto imbarazzato, che s'incrementò quando Levi gli si avvicinò con un sopracciglio inarcato.

«Mikasa te l'ha detto, non è vero? Che sono un tuo fan, intendo.» Sei il mio unico fan, si ritrovò a pensare, mentre annuiva lentamente, giungendo ad appena due passi da lui. Bello, bello e strappato ingiustamente alla vita così presto. E lui sentiva una connessione così profonda con quell'entità che sapeva di per certo non far parte del suo stesso mondo, incastrata in quell'istituto scolastico.

«Ti piacerebbe ascoltarmi?» s'illuminò e quel sorriso radioso, questa volta, gli colpì il cuore come un proiettile. Se l'intuizione che aveva avuto il giorno prima, dopo aver parlato con Mikasa, si sarebbe rivelata giusta, non avrebbe potuto vederlo mai più. Una parte di lui, molto egoista, avrebbe fatto finta di niente, lasciando immutate le cose e accontentandosi di poterlo vedere e di potergli parlare in attimi come quelli. Ma che valore avrebbe dato ai suoi sentimenti un comportamento così vile?

«Ti prego!» disse solamente, sedendosi a gambe incrociate, la schiena poggiata contro la ringhiera. Levi lo affiancò, posizionando la custodia dinanzi a sé, tamburellando con le dita contro la stoffa nera mentre ragionava su ciò che si era prefissato di dirgli.

«Prima devi fare una cosa per me, però. - iniziò ed Eren lo guardò spaesato, intenerendolo con quelle ciglia che sbattevano ripetutamente. Gli afferrò una mano, carezzandone piano il dorso con il pollice, disegnando cerchi invisibili con il fine unico di rassicurarlo e il contatto con la sua pelle fredda lo fece rabbrividire. - Solo rispondere ad un paio di domande, - portò la mano libera contro il petto. - lo giuro. - Non gli rispose, fece di sì con la testa, la preoccupazione dipinta in volto. - Quanti anni hai?» quella domanda lo rasserenò visibilmente, i muscoli contratti si rilassarono all'istante.

«Ne ho sedici.» disse, confermando la teoria di Levi: i suoi ricordi erano fermi ad un anno prima, Eren, o almeno ciò che di lui era rimasto, non si era ancora reso conto di nulla.

«Hai iniziato ad andare a scuola un anno prima?» chiese ancora, per confermare la sua teoria, e quel quesito fece ridacchiare il castano.

«No. Sono in regola.»

«Allora com'è possibile che frequentiamo la stessa classe? Io ho diciassette anni, ne compirò diciotto a dicembre.» Eren si portò un paio di dita sotto il mento, guardandolo con circospezione.

«Sei stato bocciato?» fu lui ad interrogarlo questa volta e Levi sentì il bisogno di stringerlo tra le sue braccia, di consolarlo ancor prima di dirgli effettivamente qualcosa.

«No, Eren. Sono all'ultimo anno.» ricevette una leggera gomitata dal compagno, mentre una risata bassa e roca gli sfuggiva dalle labbra rosee.

«Al penultimo, vorrai dire. - Levi scosse il capo, facendolo rabbuiare. Inevitabilmente risalì con le dita a carezzargli l'attaccatura dei capelli, digrignando i denti nel constatare quanto anche quella zona del suo corpo risultasse gelida. - Dove vuoi andare a parare, Levi?»

«Jean non ti rivolge la parola, mai. - Eren provò a protestare, ma glielo impedì, nella speranza che potesse capire. - Ma quando ti ho nominato mi ha preso a pugni senza pensarci sopra due volte. Il tuo migliore amico è forse un violento?»

«No! No, Levi! Non so che gli sia successo ieri, non era in sé, ma lui non è così. Sono pronto a giurarlo.»

«Ti credo, Eren, ma questo non giustifica la sua totale indifferenza nei tuoi confronti. - le sue labbra si strinsero in una linea dura, mentre con il corpo provava ad allontanarsi, combattendo contro la stretta delle dita di Levi sulla sua nuca. - Sai dirmi il perché?»

«No. - ringhiò, come un animale ferito e ingabbiato. - E non vedo cosa c'entri questo. Non volevi suonare?»

«Sì, ma prima voglio raccontarti una cosa. - insistette, riuscendo a bloccarlo, percependo comunque il sospetto celato i quei meravigliosi smeraldi. - Non suono più o meno da un anno.» ammise, facendogli sgranare gli occhi.

«Non è vero.» chiaramente si riferiva al suo profilo Instagram, inattivo da mesi. Ma lui era bloccato ad un anno prima, a quando ancora si dilettava a postare video di se stesso chiuso in camera a suonare.

«Invece è vero. Ho fatto un live in un locale non troppo distante da Shiganshina, l'inverno scorso. Non è venuto praticamente nessuno ad ascoltarmi, se non i miei migliori amici. Gli altri clienti nemmeno hanno fatto caso a me. Ho posato la chitarra quel giorno.» Eren scosse ripetutamente la testa.

«Mi stai mentendo.» lo accusò fermamente convinto, anche un po' risentito e Levi sentì i propri occhi gonfiarsi in risposta.

«No, Eren.» due parole che uscirono fuori con un bisbiglio spezzato.

«Tu vicino a Shiganshina? Chiaramente è una bugia! L'avrei saputo e sarei venuto a vederti, a qualunque costo.»

«Lo hai fatto.» Eren si ritrasse dalla sua presa, come scottato dalle sue parole e dal suo tocco. Gli occhi improvvisamente gonfi di lacrime, arrossati e furenti come mai li aveva visti prima di allora. Si alzò in piedi di scatto, dando un paio di buffetti al proprio pantalone.

«Non starò qui ad ascoltare queste stronzate. Il fatto che tu mi piaccia non ti dà il diritto di prendermi in giro, è semplicemente orribile.» borbottò, le orecchie rosse e le pupille che puntavano in tutte le direzioni, fuorché nelle sue. Avrebbe dovuto aiutarlo, non rivelarsi un nemico: stava evidentemente sbagliando qualcosa e doveva rimediare prima che fosse troppo tardi.

«Eren, io-» la mano che allungò per afferrare la manica della sua giacca venne scansata agilmente, quel verde che gli illuminava solitamente lo sguardo che pareva trasformarsi secondo dopo secondo in veleno.

«No, stammi lontano!»

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Capitolo 4
*** Quarta Parte ***


Si era ripromesso che avrebbe provato a riparlargli l'indomani, magari iniziando una conversazione con delle scuse. D'altronde, quanto poteva risultare doloroso per lui percepire come nemesi l'unica persona che non ignorava la sua esistenza? Ma Eren Jaeger non si fece vivo quel giorno, né tantomeno quello successivo. Passarono intere settimane, il tempo cominciò lentamente a mutare, lasciando spazio alla stagione più fredda, ma di lui non vi fu traccia, né sul tetto, né in classe, né per i corridoi. Svanito nel nulla.

Quei giorni furono scanditi da un'alienante monotonia e l'unica cosa che beneficiò di essa fu il suo rapporto con Mikasa. Dopo lo sfogo di quel pomeriggio non le aveva più permesso di isolarsi, imponendole la sua presenza e cercando nella sua compagnia stralci di quello che un tempo era stato Eren. Si rifugiavano il più delle volte nella camera della ragazza, lei puntualmente seduta al pianoforte, lui che passava dal leggere steso sul suo letto, all'ammirare tutti quegli oggetti che puntualmente richiamavano la sua passata presenza. Fotografie delle vacanze, cartoline scritte dal castano di suo pugno, vasetti di sabbia raccolta in tutte le spiagge che visitavano assieme.

E quante cose scoprì di lui in quel modo, a partire dal suo incondizionato amore per il mare fino ad arrivare al profondo odio che nutriva per l'inverno. Era ovunque e Mikasa non risparmiava di narrargli i dettagli con quella solita malinconia nella voce. Era nei vestiti che aveva dimenticato in quella casa che aveva frequentava così assiduamente, nell'angolo smussato del posacenere che aveva fatto cadere al suolo facendo puzzare di fumo l'intera camera per giorni, nella statuetta a forma di gatto che da bambino aveva fatto con la creta assieme alla sua migliore amica e poi ancora nella sciarpa rossa che le aveva regalato senza nessun apparente motivo e dalla quale Mikasa non si separava per nessuna ragione al mondo.

Quelli erano i momenti migliori, in cui riusciva quasi a sentirlo vivo e vicino, dai quali traeva una parvenza di sollievo, almeno per il pomeriggio. Poi, puntale come un orologio svizzero, la realtà gli si scagliava contro ogni mattina, alla vista del suo banco vuoto, omaggio a quella vita che si era spenta prematuramente, segnando indelebilmente i cuori che negli anni aveva sfiorato fino a diventarne una parte integrante.

Jean, probabilmente influenzato dalla costante presenza di Mikasa al suo fianco, non gli aveva più rivolto la parola, né tantomeno lo sguardo. E Levi non riuscì a non provare empatia per la persona che probabilmente era stata colpita più di chiunque altro da quella perdita e che, evidentemente, ancora si colpevolizzava. Ma esisteva davvero qualcuno contro cui puntare il dito quando quel tragico epilogo altro non era stato che la concatenazione di eventi e decisioni prese da una moltitudine di persone?

Se Levi non avesse fatto quel live.

Se Eren non avesse avuto una cotta per lui.

Se Mikasa fosse stata più permissiva e comprensiva.

Se Jean non lo avesse assecondato.

Se i suoi genitori gli avessero impedito di uscire

Se fossero partiti di casa appena un minuto prima.

Se il conducente di quell'auto contro cui erano andati a scontrarsi non fosse uscito di casa.

Nessun carnefice, una vittima. Forse la coscienza umana non sarebbe mai stata pronta ad avvenimenti di quel tipo. D'altronde, non era forse naturale cercare un colpevole su cui sfogare la frustrazione di una perdita tanto atroce? Levi per primo non era esente da quel circolo vizioso e proprio come tutti i coinvolti, non riusciva a darsi pace. E quando ci si rendeva conto che quella forsennata caccia all'uomo non avrebbe condotto ad alcun risultato soddisfacente, all'arrendersi all'ineluttabilità del destino si preferiva addirittura addossarsi la colpa di quanto accaduto.

Qualunque cosa, pur di condannare un responsabile.

...

«Jean non parla con me. – quelle parole lo fecero sobbalzare. Come tutte le mattine dal loro ultimo incontro, ad ora di pranzo si era trascinato sul tetto della scuola e seduto su quel pavimento polveroso. Chitarra alla mano, non si era permesso di suonare un singolo accordo, nella speranza che quei gesti così ripetitivi, potessero richiamare Eren a lui. Ed ora eccolo lì, a pochi passi, quando ormai aveva perso ogni speranza. – Prima che me lo dicessi non ci avevo fatto caso, ora invece non riesco a pensare ad altro.»

E che reazione avrebbe dovuto avere alla sua improvvisa ricomparsa? Una parte di sé aveva pensato (aveva sperato) che Eren fosse semplicemente evaporato via, ricongiungendosi a ciò a cui apparteneva di diritto. Eppure, il Levi egoista, quello che avrebbe sfidato finanche le leggi della natura per il proprio tornaconto, aveva pregato che non fosse andata in quel modo. E quel desiderio viscerale che gli aveva sedotto la mente, era riuscito unicamente a farlo sentire un mostro, incapace di distinguere ciò che era giusto da ciò che non lo era. Razionalmente sapeva che in quel malefico mondo a cui apparteneva non vi era spazio per i non viventi, addirittura lo accettava, ma Eren... come poteva non considerare umano quell'essere che era riuscito a scavargli la pelle per insidiarvisi al di sotto? E così era rimasto lì nel mezzo, in attesa di una risposta che lo aiutasse ad affrontare quella sfida, troppo grande per un uomo insulso come lui.

Un grande eroe non avrebbe avuto dubbi sul da farsi, avrebbe messo da parte i sentimenti e sacrificato se stesso pur di regalare la pace alla controparte amata. Ma lui non si sentiva un eroe, né tantomeno reputava la sua persona così valorosa da affrontare il tutto senza fare una piega.

E poi la consapevolezza: avrebbe sofferto a prescindere dalla decisione. L'ago della bilancia, in nessuna occasione, avrebbe potuto pendere in suo favore.

Se Eren Jaeger fosse rimasto, sarebbe stato costretto a vederlo relegato in quell'istituto, vagabondo per le aule, invisibile a chiunque. Un'anima la cui infelicità non avrebbe fatto altro che crescere. Certo, così avrebbe potuto godere della sua compagnia, ma mai sarebbe potuto essere suo in quanto uomo e questo, altro non avrebbe fatto che incrementare la sofferenza di entrambi. Non subito, ma con il tempo. E quanto sarebbe durata? Cosa sarebbe accaduto alla fine di quell'anno se avesse optato per la decisone sbagliata? Nulla di buono.

Allora doveva arrendersi alla realtà dei fatti, non per valore o per principi morali solidi, bensì per aspra accettazione. I loro destini, seppur incrociati, non prevedevano alcun futuro. Il tempo di quel ragazzo era ingiustamente scaduto mentre il suo continuava inesorabilmente a scorrere.

«Non ti ho visto in classe. – si costrinse a rispondere, una smorfia a contorcergli le labbra e lo sguardo basso, incapace di cercare quello dell'altro. Il paradossale terrore che, se l'avesse guardato negli occhi, non vi avrebbe trovato quella vitalità spensierata che inizialmente l'aveva attratto. – Non ti ho visto affatto, in realtà.» percepì un suo sospiro ad accompagnare i passi leggeri. I passi... una persona inesistente poteva davvero produrre un rumore del genere, interagendo con l'ambiente circostante? Levi si portò una mano tra i capelli, stringendoli forte in un pugno e sentendo gli occhi inumidirsi a quel pensiero. Che crudele realtà quella che stava vivendo.

«So rendermi invisibile e... ti evitavo di proposito. – confessò, senza riuscire a celare una nota d'imbarazzo. – Scusa. – quella parola gli fece sgranare gli occhi, dunque, finalmente si permise di guardarlo. Studiò i movimenti del suo corpo mentre, con le mani nascoste nelle tasche del calzone blu, si calava per affiancarlo. – Qualcuno si è preoccupato per la mia assenza? – chiese ancora, mozzando il fiato a Levi con quel quesito. Cosa avrebbe dovuto rispondergli? No, Eren. Non ci hanno fatto nemmeno caso. Non avrebbe potuto essere così brutale neppure volendolo. – Era una domanda retorica, Levi. Conosco già la risposta. – la sua voce risuonò amara, eppure al contempo delicata quanto i petali di ciliegio che cadevano al suolo in primavera, impregnando l'aria di quella fragranza unica. – Mi dispiace, mi sono comportato da idiota.»

«Smettila, Eren. – il castano spalancò gli occhi, indirizzandogli uno sguardo confuso. – Smettila di scusarti, smettila di dirmi che ti dispiace. Rendi tutto più difficile così.» il petto che batteva inferocito, succube della sua voce che, parola dopo parola, arrivava a renderlo sempre più schiavo.

«Mi disp... - si morse il labbro inferiore, gli occhi annacquati. – Non so cosa fare, sto morendo di paura. – sospirò affranto, poggiando il capo contro la ringhiera. – Ti ho mentito, ho freddo. Continuamente. Nemmeno starmene qui al sole mi è di aiuto. E sento un... non so nemmeno come definirlo. Una sorta di vuoto al centro del petto, come se avessi un enorme buco. E fa male. Fa dannatamente male. – tirò le ginocchia per poggiarvi la fronte. – Credo di aver cominciato a ricordare qualcosa.»

«Magari parlarne potrebbe farti bene.» le loro spalle si sfioravano appena, da quella vicinanza riusciva a vedere ogni suo piccolo dettaglio, a partire dalle ciglia lunghe e intinse di pianto mal trattenuto, fino al bagliore di quelle iridi che, lo sapeva, sarebbe rimasto impresso nella sua mente fino alla fine dei suoi giorni.

«Non voglio parlarne, voglio solo che finisca tutto e al tempo stesso voglio che non cambi nulla.»

«È lecito avere paura dei cambiamenti, ma non per forza questi dovranno essere negativi.» quanto gli costava dire quelle parole quando tutto quello che avrebbe voluto fare era stringerlo tra le braccia e impedirgli di compiere anche un solo passo lontano da lui.

«Come puoi dire una cosa del genere? Non vedrò più Jean, non ascolterò più la risata di Mikasa e non potrò più passare del tempo con te. Io non riesco a vedere nulla di positivo in tutto questo, non ora che ho avuto l'opportunità di conoscerti. – ma ciò che era successo ad Eren era tanto doloroso quanto irreversibile. – E so che per te non è la stessa cosa, che tu-»

«Ti sbagli. – lo zittì, ed Eren alzò di scatto la testa ritrovandosi a pochi millimetri dal suo volto. – Il solo pensiero di lasciarti andare mi dà la nausea. – un sorriso amaro a piegargli le labbra, mero scudo della distruzione che sentiva nel cuore. – Mi piaci, Eren. – le guance dell'altro s'imporporarono di conseguenza, gli occhi gonfi e le labbra tremanti. E vide nella sua espressione l'intento di ricambiare quelle parole, ma queste furono interrotte da un sibilo di dolore e con le dita andò a tastarsi il braccio destro, la cui mano era ancora nascosta nella tasca. – Che succede?»

«È iniziata dopo che abbiamo parlato l'ultima volta, quando ho cominciato a ricordare. – sussurrò, il viso ancora distorto da una smorfia mentre scopriva la mano, mostrandogliela. E quella vista lo spiazzò del tutto. – Non riesco a fermarlo.» concluse, tirando la manica fino al gomito, rendendolo partecipe di uno spettacolo raccapricciante. Le dita affusolate di quella mano erano evanescenti, appena se ne distinguevano i contorni. La stessa mano che Levi aveva raccolto tra le sue stava lentamente scomparendo e quando il corvino si protese per afferrarla, semplicemente vi passò attraverso, riuscendo a percepire unicamente il gelo.

«No. – scosse la testa più volte, provando nuovamente a far intrecciare le loro dita, fallendo per l'ennesima volta. – No. – ripeté, più a se stesso che al castano. – No, è troppo presto.» sentì il volto di Eren nascondersi nell'incavo del suo collo, freddo come il ghiaccio eppure ancora così reale, e le dita che ancora avevano una parvenza di sostanza, carezzargli la base del collo.

«Suoneresti per me?» quella richiesta, sussurratagli direttamente all'orecchio, rimase sospesa tra loro per infiniti attimi. Levi lo sapeva, aveva capito quale fosse il motivo per cui nessun altro eccetto lui, riuscisse a vedere il castano. Quel conto in sospeso, che impediva ad Eren di andare oltre, riguardava unicamente loro due. Da vivo non era riuscito a realizzare il desiderio di ascoltarlo e la sua anima non avrebbe trovato pace fino a quel momento. Sarebbe stato l'ultimo tassello, quello che una volta inserito avrebbe posto fine a tutto, lasciandosi dietro l'amaro retrogusto di una nostalgia che nemmeno sarebbe dovuta esistere. Lo sapeva. Lo sapevano entrambi.

Annuì piano, passandosi la manica della giacca sulle gote per asciugarle, prima di allungarsi ad aprire la cerniera della custodia ed estrarre la propria chitarra classica, precedentemente accordata. E quanto fu strana la sensazione di averla nuovamente stretta tra le braccia, il peso della cassa che poggiava tra le sue gambe incrociate e i polpastrelli che tastavano timorosamente il nylon delle corde, mentre il plettro stretto tra le dita gli pareva quasi inesistente. Quanti ne aveva rotti, quante volte si era graffiato le mani fino farle sanguinare, tutto per amore di quello strumento che adesso rappresentava il suo incubo più grande. L'aveva generosamente condotto ad Eren, che ora se ne stava lì in attesa, e con altrettanta perfidia gliel'avrebbe strappato via, riducendolo ad essere un passivo spettatore di quella natura matrigna che non si risparmiava di annientare i suoi figli con brutalità.

Sentì un brivido percorrergli la pelle fino a rizzargliela quando il plettro perlato carezzò con dolcezza le corde, assecondando il semplice giro di sol dettato simultaneamente dall'altra mano, dando il via a quella che a tutti gli effetti, percepiva come la colonna sonora della sua distruzione. Levò lo sguardo per alcuni istanti, puntandolo sul suo viso. Aveva gli occhi socchiusi puntati verso l'alto in un punto indefinito, una nota di sofferenza che gli scavava i lineamenti e le spalle che si muovevano velocemente sotto il respiro che usciva fuori a rantoli quasi agonizzanti. Continuò a suonare, componendo gli accordi con ferocia, sperando che il dolore del ferro che scavava nella sua carne riuscisse a distrarlo da quello insopportabile che gli dilaniava il petto.

E si ritrovò costretto a stringere gli occhi quando scorse anche l'altro braccio di Eren cominciare a perdere consistenza a partire dalle unghie e attraversando le vene dei polsi che passarono dall'essere bluastre al non essere nulla. Continuò a ripetersi che quella era la cosa giusta da fare, che in quella terra non esisteva alcun posto che avrebbe garantito la felicità di entrambi. E se quella era la crudele verità, che almeno Eren conquistasse quella serenità che tanto meritava. Continuò a far cantare quello strumento, mentre la chimera di quello che sarebbero potuti essere in un'altra vita e in un altro tempo lo abbandonava lentamente, lasciando spazio all'amara rassegnazione di dover continuare ad andare avanti lontano dal verde dei suoi occhi.

«Ciao, sono Eren Jaeger. Tu forse non ti ricordi di me, ma non importa. Da oggi in poi farò tutto ciò che è in mio potere per risultare indimenticabile. Cominciamo con il bere qualcosa insieme? – la sua voce era poco più che un bisbiglio sofferente, il suo corpo quasi del tutto trasparente, quando Levi immobilizzò le mani. – Se fossi riuscito ad arrivare ti avrei detto una cosa del genere, mi avresti scambiato per un folle?»

«Sicuramente. – annuì, gli occhi che bruciavano. – Ma non ti avrei respinto. Ho sempre avuto un debole per i folli.» Eren accennò una risatina, Levi avrebbe ricordato anche quella per sempre.

«Se avessi la capacità di riavvolgere il tempo, tornerei ad un anno fa, solo per cercarti e dirti queste stesse parole.» Levi lasciò andare la chitarra contro il pavimento, avvicinandosi al suo volto.

«Mi dispiace essere arrivato in ritardo.» lo vide provare ad allungare le dita per carezzarlo, ma tutto ciò che avvertì contro la pelle fu la fredda sensazione di uno spostamento d'aria che gli scosse i capelli.

«Ma sei arrivato. – si sporse nella sua direzione, facendo sfiorare le loro fronti, i nasi ad un soffio di distanza. – Grazie, Levi.» sussurrò, posando le labbra sulle sue in una collisione così irreale da causare del vero dolore fisico. E proprio non riuscì a non domandarsi che tipo di sapore avrebbe avuto quel bacio se fosse stato dato un anno prima: magari mentolo, magari alcol, sicuramente vita. Non chiuse gli occhi, lo guardò per tutto il tempo desideroso di imprimere quell'insipida dolcezza nel proprio cuore, conscio di aver superato uno dei confini invalicabili della realtà. Non durò che pochi effimeri attimi, una brezza leggera li avvolse ed Eren si miscelò ad essa, permettendole di cullarlo, per poi dissolversi definitivamente, lasciandogli in dono l'euforica consapevolezza che, in un modo o nell'altro prima o poi, l'universo li avrebbe fatti ricongiungere.
 

-Fine

 

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