Death in the Night

di Marti Lestrange
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO UNO ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO DUE ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO TRE ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO QUATTRO ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO CINQUE ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO SEI ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO SETTE ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO OTTO ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO NOVE ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO DIECI ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO UNDICI ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO DODICI ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO TREDICI ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO QUATTORDICI ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO QUINDICI ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO SEDICI - PARTE PRIMA ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO SEDICI - PARTE SECONDA ***
Capitolo 19: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


Titolo: Death in the Night
Rating: arancione
Genere: thriller, romantico, introspettivo
Contesto: nuova generazione, dopo la II guerra magica/pace


 

Note iniziali: questa storia nasce da una nottata delirante in cui non ne volevo sapere di dormire, e da una strana voglia di scrivere ancora di Harry Potter, dopo tanti anni di inattività su questi lidi; ci tengo a precisare che nella storia sono presenti alcuni OC di mia invenzione, introdotti parallelamente ai già noti personaggi della Nuova Generazione, contesto da me particolarmente amato e al quale mi approccio nuovamente dopo tanto tempo; per qualsiasi altra precisazione, vi rimando alle note alla fine di ogni capitolo, che pubblicherò credo una volta a settimana; per qualsiasi altra domanda, potete scrivermi un messaggio o cercarmi qui
 


 

DEATH IN THE NIGHT

 
 

 

“[…] omnis enim ex
infirmitate feritas est.”

“[…] la cattiveria, infatti,
nasce sempre dalla debolezza.”
Seneca, De Vita Beata 

 


PROLOGO

 

 

Hogwarts, gennaio 2023

La notte in cui successe era una notte strana. Su Hogwarts e i suoi prati era sceso il buio, quel buio fitto e pregno di spettri delle notti d’inverno, cariche di presagi e nuvole ammassate come mostri in cieli di piombo e carbone. 

Per il giorno dopo era prevista neve e il parco sarebbe risultato impraticabile per parecchio tempo, e nessuno di loro era pronto a rinunciare ad un’ultima serata insieme, la prima, in verità, successiva al rientro al castello dopo le vacanze natalizie. 

Albus Severus Potter e Scorpius Hyperion Malfoy si stringevano nei loro pesanti mantelli invernali, i cappucci tirati sopra la testa. Ognuno di loro teneva tra le mani un barattolo di vetro, con all’interno un fuoco freddo, di un bel colore blu, che li avrebbe riscaldati nell’attesa. Nuvolette di fumo bianco uscivano dalle loro bocche e nessuno dei due aveva voglia di parlare, lì in piedi nel silenzio immoto della notte. 

Come al solito, aspettavano le altre al margine di una macchia d’alberi a ridosso del Lago Nero, ed entrambi scrutavano il castello e il prato digradante con ansia mista a noia, come succedeva sempre da qualche mese a quella parte, da quando, al termine del loro quinto anno, avevano sorprendentemente realizzato di essere in grado di uscire indisturbati dal castello, con la complicità delle tenebre, e di scorrazzare in giro per il parco quanto volevano, liberi di lasciarsi andare sulle rive del lago e dare fondo alle loro scorte segrete di Burrobirra e FireWhisky, mentre si raccontavano le loro giornate e i loro sogni e le loro paure, e semplicemente si sentivano loro stessi - si sentivano a posto. 

«Meglio se dai un’occhiata alla Mappa1, Albus», sussurrò Scorpius, la voce leggermente arrochita dal freddo. «Non vorrei avessero avuto complicazioni…»

«Arriveranno», rispose solo Albus battendo i piedi sul terreno spoglio, per scacciare il gelo. Nonostante il fuoco freddo, non riusciva a scaldarsi. 

Scorpius non replicò, rimanendo in silenzio. 

Come in risposta al loro breve scambio di battute, intravidero tre figure avvolte nei mantelli e strette l’una all’altra uscire dal castello e dirigersi verso di loro a passo svelto.

Man mano che si avvicinavano, a loro due e alla fonte di luce del fuoco, i tre volti assunsero contorni sempre più precisi e definiti. Scorpius fece qualche passo avanti e una delle tre figure si staccò dal gruppo per andargli incontro, e i due si abbracciarono strettamente e si scambiarono un bacio. Il cappuccio calò dalla testa della nuova arrivata, scoprendo una folta chioma di capelli ramati, attraverso i quali Scorpius passò una mano, prima di prendere Rose Granger Weasley per mano e tornare da Albus. 

«Perché ci avete messo tanto?» chiese Albus, vagamente infastidito.

«La Sala Comune non ne voleva saperne di svuotarsi, stasera», spiegò Caitlin Finnigan2

«Ho proposto di lanciare qualche Caccabomba, ma nessuna delle mie amiche era d’accordo», intervenne Roxanne Weasley, pratica come sempre, scrollando le spalle come a voler dire “io ci ho provato”.

«L’hai portato, Rox?» le chiese Albus ignorando il suo intervento.

Roxanne lo guardò e sorrise sorniona. Sembrava un gatto. «Certo, sta’ tranquillo.»

«Devi ancora spiegarci come riesci a procurartelo», disse Scorpius sedendosi a terra, la schiena poggiata ad un tronco. Fece sedere Rose in mezzo alle sue gambe e le mise in grembo il barattolo col fuoco freddo, per riscaldarla. Rose gli depositò un bacio veloce sul dorso della mano e gli si accoccolò addosso. 

«Questo rimane un segreto del mestiere, mi dispiace, Scorpius.» Roxanne si sedette a terra, poco distante dall’amico e dalla cugina, e si mise ad armeggiare con i cordoni di una grossa sacca che teneva in spalla e che aveva appoggiato sull’erba rada. Caitlin prese posto accanto alla ragazza, tirando fuori da sotto il mantello un altro barattolo di fuoco freddo, mentre Albus le si sedette di fronte.

Trascorsero la mezzora successiva a passarsi la bottiglia di FireWhisky, dopo aver consumato una Burrobirra a testa per scaldarsi. L’argomento principale della loro reunion notturna sembrava essere il Natale e le festività natalizie appena trascorse e tutte le varie disavventure occorse alla Tana, e i giorni di ozio e di compiti all’ultimo minuto e di gite improvvisate a Diagon Alley. 

«Beati voi», commentò Scorpius dopo l’ennesimo racconto di Albus riguardo le partite di Quidditch “ragazzi contro adulti” organizzate nel giardino di nonna Molly. «Io ho trascorso il Natale solo in compagnia di mia cugina Rosaliee delle sue trame, con mio padre quasi sempre impegnato nelle segrete a fare chissà cosa e la zia Daphne che ha preso il Manor come un hotel. Sempre il più fortunato.»

«Oh, povero Re Scorpione, mi fai quasi pena.»

Nessuno di loro lo aveva sentito arrivare, nessuno si era accorto dei passi sull’erba secca del prato, del suo avvicinarsi di soppiatto, del fruscio delle vesti quando aveva estratto la bacchetta. Karl Jenkins4 la stava puntando dritta su Albus. 

Tra i presenti calò il silenzio, e nessuno tranne Albus osò alzarsi in piedi. Teneva la braccia alte sopra la testa e si muoveva a piccoli passi, mentre Jenkins lo teneva sotto tiro. 

«Finalmente sono riuscito a scovarvi, voi e i vostri ritrovi da sballati.» L’ultima parola era come intrisa di veleno, che lui intendeva sputare loro addosso, carico di qualcosa di molto simile alla gelosia e al rancore.

Negli occhi di Jenkins brillava una luce folle e Caitlin si strinse automaticamente a Roxanne, mentre Scorpius, senza dare nell’occhio, si alzava per fare scudo a Rose. 

«Non vedo l’ora di scoprire cosa dirà la preside quando vi scorterò nel suo ufficio…»

«Karl…» cominciò Albus, ma Karl non gli diede il tempo di continuare. 

«Incarceramus!» gridò il Prefetto di Serpeverde. 

Albus schivò l’incantesimo lanciandosi a terra, agile e rapido, mentre Roxanne e Caitlin scattavano in piedi e Scorpius faceva un passo avanti. Albus intanto riuscì a rimettersi in piedi e, sfilando la bacchetta da sotto il mantello, gridò un «Expelliarmus».

Karl lo parò e lanciò a sua volta un incantesimo di disarmo verso Albus. Colto alla provvista, la sua bacchetta volò via, dritta in mano al suo assalitore. 

Scorpius, nelle retrovie, scalpitava per intervenire, ma Rose lo tratteneva.

«Stupeficium!» esclamò infine Karl Jenkins, e tutto successe così in fretta che nessuno di loro capì veramente cos’era appena occorso fin quando non riaprirono gli occhi, dopo lo spavento iniziale e dopo che il silenzio era tornato in riva al lago, e non videro il corpo di Jenkins riverso a terra, privo di sensi. La spilla da Prefetto appuntata sul suo petto brillava alla luce intensa della luna.

I minuti che seguirono, si susseguirono concitati, e confusi, e preda della paura. Albus e Scorpius corsero in avanti, e si chinarono sul corpo del compagno, e Albus imprecò, e Scorpius imprecò, ed entrambi si passarono una mano dietro la nuca e sugli occhi, le dita tremanti e le voci spezzate. 

«Scorpius…» chiamò debolmente Rose da una distanza che sembrava siderale, ma che invece era ridotta solo a qualche metro scarso. «Scorpius, che succede?»

Caitlin fece qualche passo avanti e raggiunse gli amici. Gli occhi di Jenkins erano sbarrati, due profonde cavità inespressive. Senza vita. Caitlin si portò le mani alla bocca, a trattenere un urlo al quale non poteva permettersi di dar voce. 

«Cazzo», sbottò finalmente Albus. 

«È…», iniziò la ragazza, «…è mor—… è morto

«Cazzo, cazzo, cazzo». Albus ora camminava in circolo, entrambe le mani intrecciate dietro la nuca, come un toro nervoso nell’arena. 

«Cosa vuol dire morto?» sussurrò Rose accorrendo. Scorpius la fermò, non voleva che vedesse il viso di Jenkins, ma lei lo respinse. La ragazza si fermò davanti al corpo e lo guardò senza dire niente, per poi chinarsi sulle ginocchia e tastargli il polso, come per accertarsi che fosse effettivamente morto. 

«Non dovresti toccare il corpo», suggerì Roxanne, avvicinandosi a Rose. «Le impronte…»

«Non siamo in uno di quegli stupidi libri Babbani che ti piace tanto leggere, Roxanne», quasi gridò Albus.

«No», disse solo Scorpius. «Questa è realtà.»

Tutti rimasero in silenzio, un silenzio carico di paura, e apprensione, e paura, e angoscia, e paura, e sgomento, e ancora paura, tanta paura, solo paura. 

«James», disse solo Albus scrollandosi le mani di dosso e lasciandosele cadere lungo i fianchi. Ora guardava i suoi amici con una luce strana nei begli occhi verdi, forse una luce di speranza. 

«James cosa?» chiese Scorpius, i capelli biondi spettinati e il viso stanco. 

«James. Bisogna andare a chiamare James. Lui saprà cosa fare.»

Rose si alzò in piedi e fissò Albus a lungo, ad occhi sbarrati. Il bel viso era pallido, ma aveva smesso di torcersi le mani nervosamente. «Vado io.»

«Siete matti?» esclamò Caitlin. «Non possiamo coinvolgerlo, non è sicuro, e se…»

«… se andasse a denunciarci, Cait?» la precedette Albus. «È mio fratello.»

Caitlin non rispose ma annuì, nascondendo il viso tra le mani per poi annuire ancora. «Va bene.»

«Fermi un attimo», esclamò Scorpius. «Ne siamo sicuri? Possiamo ancora fermarci, possiamo raccontare cos’è successo, sono sicuro che la McGranitt capirà. È stato un incidente.»

«Con il nostro curriculum, Scorpius? Ci crederà e basta?»

Scorpius guardò Albus negli occhi e scosse la testa, improvvisamente troppo stanco per replicare.

«Rose, vuoi che vada io?» chiese Roxanne alla cugina, ma questa rifiutò. 

«Ti accompagno», si offrì Scorpius prendendo Rose per mano. 

«Darò meno nell’occhio da sola, e tu dovresti aspettare fuori in corridoio, e non è sicuro, con Pix in giro».

Scorpius accettò la decisione della sua ragazza e Rose si avvicinò ad Albus. 

«Dammi la Mappa.»

Albus tirò fuori la Mappa del Malandrino dalla tasca interna del mantello e la passò a Rose. La ragazza ci diede una scorsa rapida e poi annuì. «Vado. Spero di essere di ritorno con James.»

«Dovresti trovarlo ancora in Sala Comune», aggiunse Caitlin. «Mi ha detto che doveva prepararsi per il test preparatorio ai M.A.G.O. di domani.»

Tutti si girarono verso di lei, come a volerle chiedere come lo sapeva, ma nessuno disse o chiese niente, troppo presi com’erano dall’urgenza del momento per curarsi del rapporto tra Caitlin e James. 

Rose si avviò, ma prima Scorpius la trattenne e le sussurrò un «sta’ attenta» sulle labbra. La ragazza sparì alla loro vista e ai restanti non rimase altro che aspettare, mentre i minuti scorrevano lentissimi e il freddo di gennaio si insinuava nei loro corpi, fin dentro le ossa. Roxanne sedeva a terra, le ginocchia strette al petto, il fuoco freddo stretto tra le gambe; Caitlin le si era rannicchiata accanto, la testa poggiata sulla sua spalla e gli occhi chiusi, e forse dormicchiava, stremata dallo spavento e dall’attesa. Albus era in piedi sopra il corpo di Jenkins, una mano alla bocca, ad accarezzare l’accenno di barba che gli stava crescendo sul mento, gli occhi attenti che vagavano su ogni più piccolo particolare; Scorpius invece camminava avanti a indietro poco lontano da loro, le mani in tasca e il volto stravolto, chiedendosi come fosse possibile morire per un ritorno di fiamma di bacchetta, nel XXI secolo. Tutti loro attendevano il ritorno di Rose - e l’arrivo di James. 

Dopo un tempo che sembrava infinito, i due cugini spuntarono quasi dal nulla, da sotto il Mantello dell’Invisibilità di James: Rose faceva strada e James Sirius Potter, alto e dinoccolato, la seguiva. I capelli spettinati e gli occhiali cerchiati di corno, James si era infilato la felpa dell’uniforme del Quidditch sul pigiama e sembrava fosse stato appena trascinato giù dal letto.

«Stava studiando, come dicevi», esordì Rose rivolgendosi a Caitlin. «Fortunatamente era solo.»

«Albus, cosa…», iniziò James, ma si interruppe quando mise a fuoco il corpo del Serpeverde del sesto anno steso a terra in una posa innaturale, gli occhi aperti sulla notte. Si avvicinò e, proprio come Rose, si chinò sul corpo, quasi fosse un esperto Curatore Mortuario5 del San Mungo. 

«È morto», lo anticipò Albus. 

James alzò gli occhi sul fratello minore, ed erano occhi carichi di paura, di nuovo paura. Paura e preoccupazione e sconcerto.

«Come cazzo è successo, Albus?» esclamò quindi rialzandosi. «Cosa cazzo è successo? E cosa ci facevate qui fuori, si può sapere?» 

«Le domande a dopo, ti prego, James», lo pregò Rose avvinghiandosi al suo braccio, come a volergli risucchiare tutta la forza vitale. Il tragitto fino alla Sala Comune di Grifondoro per chiamare il cugino e ritorno l’aveva distrutta: ora sembrava invecchiata di anni, il viso teso e gli occhi rossi. 

James fece vagare lo sguardo tutt’intorno, come se si fosse reso conto solo in quel momento delle altre persone presenti, e i suoi occhi si soffermarono sulle figure di Caitlin e Roxanne, che si tenevano a braccetto, entrambe spaventate e trepidanti. Forse si soffermò un po’ di più su Cait, a volersi accertare che fosse illesa, ma poi non la cercò più, come se, a guardarla, non potesse fare a meno di giudicarla, lei e la sua presenza lì fuori, a quell’ora tarda, poco distante dalle bottiglie vuote di Burrobirra e da quella del FireWhisky, che Roxanne aveva lasciato cadere a terra con impeto, e tutto il liquido ambrato si era versato sull’erba del prato. 

«Devi aiutarci a sbarazzarci del corpo».

Tutti si girarono verso Albus, stupiti e sconvolti e spiazzati. 

«Cosa vuol dire?» chiese Caitlin piano.

«Quello che ha detto». Scorpius emerse dall’ombra e si mise al fianco di Albus. Vicini, sembravano quasi due volti della stessa medaglia, uno chiaro e armonioso, i bei lineamenti stravolti da un’ombra di intenzione e oscurità, l’altro tutto spigoli e angoli imperfetti, bello di una bellezza misteriosa, gli occhi lampeggianti e i capelli color ebano. 

«Albus e io non possiamo permetterci un altro scandalo, non ora che i nostri genitori si fidano di noi, non ora che la McGranitt ci lascia respirare», continuò Scorpius. «Per questo abbiamo bisogno del tuo aiuto, James. Ci metteremo molto di più, anche a costo di restare fuori tutta la notte, ma lo faremo lo stesso. Con il tuo aiuto, ci metteremo meno. E ci sarebbero meno probabilità che il corpo venga ritrovato.»

«Chiunque di voi tre voglia tornare al castello, questo è il momento di farlo», intervenne Albus rivolgendosi alle tre ragazze. «Vi chiediamo di mantenere il segreto, non di portarne il peso con noi.»

Roxanne, Cait e Rose si guardarono. Rose raggiunse Scorpius e lo prese per mano. «Io non vado da nessuna parte», disse guardandolo in viso. 

«Rose…» cominciò lui.

«No, Scorpius, niente Rose. Ho deciso.»

Lui non potè fare altro che sorriderle, seppur debolmente, e ricambiare con forza la sua stretta.

«Restiamo anche noi», disse Roxanne, impetuosa come sempre, e lei e Cait fecero un passo avanti. 

«Cait…» cominciò James, ma senza guardarla. 

«Visto che non riesci nemmeno a guardarmi negli occhi, credo che tu non sia nella posizione per dirmi cosa fare, Potter», replicò lei categorica. 

Tutti i presenti li guardavano, tesi. 

James annuì, mesto, e girò lo sguardo su Albus. «Lo sai quello che mi stai chiedendo, vero?»

«Mi stai chiedendo di nascondere un corpo», continuò, «di occultare un cadavere, e di restarmene zitto, e di tornarmene in Sala Comune e andare a dormire, e domani di svegliarmi come se niente fosse successo. Ti rendi conto della posizione in cui mi stai mettendo, Albus?»

Albus annuì, laconico come sempre. James si passò una mano sul viso e annuì a sua volta. «Non so perché lo sto facendo, non lo so proprio. Io non sono così.»

In silenzio, tirò fuori la bacchetta e fece un sospiro. Nei minuti successivi, il corpo di Karl Jenkins - ciò che fino ad un attimo prima era stato Karl Jenkins - venne da James trasfigurato in una pietra, non troppo grande, compatta e solida, di un banale color grigio ardesia. Ed ecco tutto ciò che rimaneva di lui. I presenti assistettero con curiosità, incantati dall’abilità di James con la bacchetta.

«Vi ho aiutato con la Trasfigurazione, sta a voi decidere cosa farne», sentenziò James riponendo la bacchetta e incrociando le braccia al petto. 

Albus fece un passo avanti e raccolse la pietra - raccolse Karl Jenkins - e si rivolse ai suoi amici, che lo fissavano. «Pensavo al Lago Nero… Che ne dite?»

«Che ne dite?» esclamò Cait. «Che vuoi che ne diciamo, Albus, abbiamo appena assistito ad una Trasfigurazione Umana, su un corpo morto, che ora dobbiamo nascondere, cosa vuoi che ne pensiamo?»

«Hei, ti avevo detto di tornartene al castello, Cait», replicò Albus con voce dura. Ora era nervoso. E stanco - terribilmente stanco. Sembrava quasi che non vedesse l’ora di tornarsene in Sala Comune e buttarsi alle spalle tutta quella storia. «Sei rimasta qui solo per piagnucolare? Ora che è tutto fatto?»

«Ora che siamo tutti complici?»

I due amici ora si fronteggiavano, tesi e arrabbiati. Gli occhi azzurri di Caitlin Finnigan luccicavano di tensione. 

«Okay, ora basta», intervenne Roxanne mettendosi tra i due, una mano sul petto di Albus e l’altra sulla spalla di Cait. «Siamo tutti sulla stessa barca, per Merlino, dovremmo darci manforte, non attaccarci.»

«Rox ha ragione», disse Rose avvicinandosi ad Albus. «Cait è solo nervosa e spaventata, Albus, come tutti noi. Dalle tregua.»

James si avvicinò a Caitlin. «Ora non puoi farci niente. Siamo tutti coinvolti.»

Cait gli rivolse un’occhiata sfuggente e poi scosse la testa. Alzò le mani in segno di resa e si allontanò leggermente, andandosi a sedere poco lontano, la testa stretta tra le mani. Nessuno le si avvicinò per rassicurarla, erano tutti impegnati a guardare Albus. E la pietra - Karl Jenkins.

«Sul fondo del lago, Albus», disse Scorpius.

I due si guardarono negli occhi, e un lampo di consapevolezza e affetto e appoggio balenò in entrambi gli sguardi. Erano come due metà di una cosa sola, che agivano in comunione. Erano come fratelli.

Albus si avvicinò al Lago e nessuno riuscì a vedere bene il percorso della pietra nell’aria, udirono solo il tonfo prodotto al contatto con l’acqua, e poi più niente. Albus si riavvicinò e annuì. «È fatta.»

«Cosa ne facciamo di questa?» James alzò un braccio. Teneva in mano la bacchetta di Jenkins. 

«La bacchetta!» esclamò Scorpius. «Per Salazar, la bacchetta!»

«Dobbiamo distruggerla», esclamò Roxanne. «Distruggiamola e basta, potrebbe essere una prova a nostro sfavore, dovessero trovarcela addosso.»

«Di nuovo con quelle storie, Rox?» esclamò Albus. «Nessuno distruggerà niente.»

«Io sono d’accordo con Roxanne», disse Rose. «O, per lo meno, buttiamo anche quella nel Lago, dico io.»

«Io non credo che dobbiate distruggerla», intervenne James, pragmatico e, ora, incredibilmente adulto, lì in mezzo a loro, padrone della situazione nella quale si era ritrovato coinvolto suo malgrado. «Credo che dobbiate tenerla. Nel caso, e dico proprio solo nel caso, in cui dovessero risalire a voi per qualche ragione, la bacchetta di Jenkins potrebbe provare quello che è successo. Rose mi ha spiegato che pensate ad un ritorno di fiamma», aggiunse a mo’ di spiegazione. 

Albus annuì. «È la spiegazione più plausibile. Io non ho fatto niente.»

«Lo confermiamo, Albus si stava solo difendendo. E Jenkins ha attaccato per primo», disse Rose facendo un passo avanti. 

«Okay, okay, ci credo. Proprio per questo credo anche che dobbiate conservarla. Dove non lo so, e nemmeno so chi lo dovrebbe fare, penso solo sia meglio, tutto qui.»

Albus annuì. «Chi vota per distruggerla o buttarla nel Lago alzi la mano.»

Roxanne e Rose tirarono su le mani, ma nessun altro. Rose guardò Scorpius scuotendo la testa, arrabbiata, e lui scrollò le spalle, impotente. 

«È deciso, allora», disse Albus, definitivo. 

«Credo che la debba tenere tu», intervenne Caitlin, che li aveva raggiunti. Aveva gli occhi rossi e gonfi, probabilmente aveva pianto. 

«Io vi ho trascinato in questo casino e io pago, giusto?»

Cait annuì. «Chiamala legge del contrappasso, se vuoi.»

Albus annuì, ghignando leggermente. Si passò una mano tra i capelli scuri. «Torniamocene a letto. Abbiamo tutti bisogno di dormire.»

«Cosa succederà, adesso?» chiese Rose. «Cercheranno Jenkins? Faranno domande? Indagini?»

«Chiuderanno la scuola, non appena si saprà che è scomparso?» chiese Cait.  

«Non possiamo saperlo, ora. Nessuno può saperlo», rispose James.

«Qualsiasi cosa verrà, la affronteremo insieme», disse Roxanne risoluta. «Siamo amici, siamo cugini, è ciò che va fatto.»

 
 
 


Note:

1. Mappa del Malandrino: ho pensato che, come Harry ha regalato a James il Mantello del’Invisibilità, decida di regalare la Mappa ad Albus, all’inizio del suo sesto anno
2. Caitlin Finnigan: figlia di Seamus Finnigan; personaggio di mia invenzione
3. Rosalie: Rosalie Greengrass, figlia di Daphne Greengrass; personaggio di mia invenzione
4. Karl Jenkins: studente del sesto anno, io l’ho collocato in Serpeverde e l’ho fatto Prefetto
5. Curatore Mortuario: ho immaginato che al San Mungo dovesse esserci un obitorio e un reparto dedicato alla Medicina Legale, quindi ho inventato la figura del Curatore Mortuario, una specie di medico legale

 

Se siete arrivati fin qui e avete letto anche le note, vi ringrazio tantissimo. Spero che il prologo vi sia piaciuto, fatemi sapere cosa ne pensate. A presto, Marti 🐍

 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO UNO ***


Note iniziali: non sappiamo nulla riguardo la sorte di Teddy Lupin, quindi nella mia mente è diventato un Auror (come sua madre ed Harry) e attualmente lavora presso il Dipartimento Investigativo, una sottosezione dell’Ufficio Auror al Ministero della Magia, quindi tutto ciò che riguarda Teddy in questa veste è farina del mio sacco, a parte i dettagli già resi noti dalla Rowling in merito a questa professione.

 




PARTE PRIMA

1.

CAPITOLO UNO


 

Un ticchettio proveniva da molto lontano, da una regione remota dei suoi sogni. All’inizio gli sembrò parte della bolla indefinita di pesante silenzio e colori stroboscopici che gli circondava la testa, e dentro la quale vorticava leggero e senza peso, cullato dalla notte e dal battito ritmato del suo cuore. Quando realizzò che no, non faceva parte di quel vivido sogno che stava vivendo, fatto di un mare cristallino e Victoire stesa accanto a lui in un costume da bagno rosso, e un tenue vento tra i capelli e l’odore di salsedine, Teddy Lupin capì che proveniva fuori da lì, da quella rumorosa e pericolosa e incivile regione chiamata realtà. 

Aprì gli occhi di soprassalto. Il ticchettio era ancora lì ed era ancora più forte, ora che era sveglio. Gli occhi appannati cercarono di abituarsi alla penombra dell’alba di gennaio tutt’intorno nella stanza. Si voltò, allungando la mano sinistra accanto a sé. Il corpo caldo di Victoire era ancora lì, avvolto nel piumone pesante, su e giù con il suo respiro. Teddy alzò leggermente la testa e lo vide: un barbagianni era appollaiato sul davanzale della finestra e, con le unghie della zampa, batteva contro i vetri. Ticchettava

Teddy si passò una mano sulla faccia, e si sentì improvvisamente stanco, ancora prima di iniziare una nuova giornata. Un gufo a quell’ora - erano le sei del mattino, secondo la sveglia poggiata sul comodino - voleva dire soltanto una cosa: un’emergenza. 

Un altro ticchettio, questa volta più insistente, come se il vecchio barbagianni grigio si fosse reso conto di averlo svegliato e volesse invitarlo ad alzare il culo dal letto e andare a prendere quella dannata lettera che teneva legata alla zampa, così sarebbe potuto volare via, di ritorno, e poi fuori per qualche altra consegna. 

Un altro ticchettio ancora più forte fece tremare il vetro della finestra, e così Teddy si alzò, imprecando a denti stretti per non svegliare Victoire, e aprì la finestra quel tanto che bastava per infilare una mano fuori nel geno invernale, afferrare la missiva, e lasciare qualche biscotto gufico al suo amico pennuto - e stronzo. Sentiva di odiarlo, un po’. Forse più di un po’. 

Il barbastronzo volò via e Teddy richiuse la finestra. Sbuffando e quasi inciampando nei jeans che si era tolto la sera prima, si ributtò sul letto e si portò un braccio davanti agli occhi: non era ancora pronto a leggere quello che conteneva il messaggio. 

Sentì Victoire muoversi lentamente al suo fianco, rigirarsi e sfiorargli un polpaccio nudo con il piede. Lui si girò a guardarla. Lei gli sorrideva, gli occhi socchiusi. 

«Tutto okay?» gli chiese, la voce arrochita dal sonno.

Teddy sventolò in aria la lettera a mo’ di risposta. «Il gufo ti ha svegliata. Scusa.» Allungò un braccio e le carezzò una guancia calda. 

«Il gufo? Veramente sei stato tu quando hai deciso di lasciarti cadere a letto come un Erumpent.»

«Ah, sì? Sarei un Erumpent, adesso? Ti faccio vedere.»

Le si buttò addosso di peso, infilando le mani sotto il piumone e cercando la sua pelle nuda solo per farle il solletico, mentre affondava il viso nel suo collo e le depositava una scia di baci giù giù fino alla clavicola scoperta. Victoire rideva e cercava di opporgli resistenza, ma la sua era una battaglia vana, era sempre una battaglia vana. Ben presto cedette e si lasciò baciare, la lingua di Teddy che le si infilava in bocca a cercare la sua, i denti che cozzavano e i corpi mezzi nudi uno addosso all’altro. Teddy infilò una mano sotto la canotta di raso nero che Victoire usava per dormire (e che lui trovava incredibilmente sexy) e le afferrò un seno, stringendo leggermente. A Victoire scappò un gemito e lui le leccò la mandibola, sfilandole poi la canotta dalla testa. 

«Non la leggi, la lettera?» gli chiese lei ansimando mentre la mano di Teddy scendeva sempre più giù. 

«Dopo», rispose lui facendole scivolare via le mutandine. 

Per qualche tempo nessuno dei due parlò, e fecero l’amore quasi con voracità, come capitava loro quasi sempre, quasi a volersi consumare, l’uno dentro l’altra, ancora e ancora, finché l’orgasmo non li liberava da ogni tormento, e ogni paura, e ogni dubbio. 

Dopo, Teddy si accasciò sul letto, il respiro corto. Si scostò i capelli, biondo cenere e ricci, dalla fronte, e sorrise tra sé e sé. «Come abbiamo fatto senza questi risvegli, quando non vivevamo ancora insieme?»

Victoire gli si appollaiò sul petto, i capelli biondi come il grano che la facevano somigliare a un angelo, gli occhioni di cielo aperti e bellissimi che lo guardavano. «Non ne avrò mai abbastanza, credo.»

«Non dirlo a me». Teddy allungò una mano sul comodino e afferrò la lettera. La fissò per un momento e poi la srotolò. 

 

Ti aspetto nel mio ufficio appena puoi. 
È un’emergenza.
Hestia Jones1

 

«Cazzo!» imprecò Teddy. Lasciò cadere la lettera e si alzò di foga dal letto, facendo quasi cadere Victoire. «Cazzo, lo sapevo che era un’emergenza».

«Be’, avresti potuto aprirla prima, invece di…», iniziò lei, ma Teddy la guardò, quasi pregandola, e lei non andò oltre. 

«Grazie, mi sarebbe d’aiuto un po’ di collaborazione, amore.»

La donna si alzò e recuperò una camicia pulita dall’armadio. Gliela passò e Teddy evitò di indugiare sul corpo nudo di lei, flessuoso e bello, ma cercò di concentrarsi invece solo sul lavoro, e sull’uscire di casa il prima possibile. Odiava quando succedeva, e ora si malediceva per essersi distratto con Victoire nella loro sessione giornaliera di sesso mattutino. E non solo mattutino. Teddy scosse la testa e scacciò via quei pensieri, che in quel momento non lo aiutavano. Per niente.

Vestito di tutto punto, la bacchetta in tasca, si lavò i denti e si diede una rapida occhiata nello specchio del bagno: i capelli erano come al solito ingestibili, e in quel momento avevano assunto un colore rossiccio, in linea con il suo umore variabile e nervoso, sotto gli occhi verdi aveva due leggere occhiaie e il colletto della camicia era abbottonato storto. Ottimo, tutto come al solito. 

Victoire gli aveva intanto tostato due fette di pane e gliele passò prima che lui uscisse. Teddy fu felice di constatare che aveva indossato una vestaglia. Brava, Vicky. 

«Prendi un caffè al volo al bar qui dietro, lo abbiamo finito», gli disse riabbottonandogli per bene la camicia. 

Teddy annuì, morsicando con voracità uno dei toast. Si era appena accorto di essere affamato. 

«Scusa per la levataccia», le disse. 

«Tanto il mio turno comincia alle dieci, sta’ tranquillo.» 

«Ah, sì, me lo hai detto ieri sera, scusa.»

«Hai finito di chiedermi scusa? Sì? Bene, ora fila, prima che Hestia ti licenzi.»

Victoire lo baciò sulle labbra e Teddy se la strinse addosso per un momento. «Ti mando un gufo appena so qualcosa, okay?»

La donna annuì. «Io finisco il turno alle dieci di stasera.»

«Te lo dico sempre che lavori troppo. Al San Mungo non c’è nessun altro?»

Victoire scosse la testa. «Senti chi parla.»

Effettivamente, Teddy era quasi sempre fuori, talvolta anche per giorni, impegnato con il suo incarico di Auror del Dipartimento Investigativo. Victoire lavorava al San Mungo già da qualche anno, al Reparto Incidenti da Manufatti2, e faceva dei turni indecenti. 

La sua fidanzata lo baciò un’ultima volta a fior di labbra e lui uscì quasi di corsa dalla piccola casetta a due piani con vista sul canale che avevano affittato a Little Venice, non lontano dal centro di Londra. A poco distanza, si fermò in una caffetteria Babbana, che a quell’ora era relativamente tranquilla, e si fece preparare un caffè lungo da asporto. Ringraziò Bobby, il barista ventenne pieno di tatuaggi e con i capelli tinti di verde, e consumò il caffè quasi interamente lungo il tragitto fino al solito vicoletto, sordido e puzzolente, situato sul retro di un paio di ristoranti, che in quel momento erano ovviamente chiusi. Si nascose dietro una scala antincendio e si Smaterializzò. 

Riapparve lontano da lì, in un vicolo altrettanto sordido e puzzolente del centro città. Buttò il bicchiere di carta ormai vuoto in un cestino traboccante immondizia vecchia e putrida, facendo una smorfia. Si riassettò velocemente il pesante montone che aveva indossato prima di uscire, diretto a passo svelto verso la via trafficata poco più in là. 

Dietro di sé sentì il classico e ben noto pop che annunciava una Materializzazione. Si voltò e riconobbe un certo Smith3, dell’Ufficio Cooperazione Magica Internazionale. 

«Lupin», lo salutò quello sistemandosi la veste da mago. «Sei stato buttato giù dal letto anche tu, vedo.»

Teddy non aveva alcuna voglia di fare conversazione, quel tipo di conversazione di circostanza tra colleghi, seppur di uffici diversi, ma che si conoscono di vista e che si incrociano davanti ad un ascensore o nell’Atrium affollato. Si sforzò di sorridere debolmente a Smith. Non si ricordava nemmeno il suo nome, ora che ci pensava. Forse iniziava con la “zeta”, ma non ne era sicuro. 

Scrollò le spalle. «Già, sarà una lunga giornata.»

«Scusa, amico, vado di fretta», si affrettò ad aggiungere Teddy, e lanciò un saluto con la mano. «Buon lavoro!»

«Buona giornata a te», sentì che gli rispondeva l’altro.

Teddy sbucò finalmente fuori dal vicolo e, a una cinquantina di metri sul marciapiedi affollato, una ringhiera nera con le aste appuntite divideva due rampe di gradini, una con il cartello ‘Signori’, l’altra con il cartello ‘Signore’4

Prese la rampa di sinistra ed entrò in quello che, all’apparenza, era solo un sudicio bagno pubblico, di quelli che ormai nessuno usava più da tempi immemori, pieno zeppo di incantesimi Respingi Babbani. L’interno era stato sistemato, negli ultimi anni, le piastrelle bianche e nere a scacchiera erano pulite, mentre le pareti erano tappezzate con programmi e idee guida lavorative del Ministero, di poster pubblicitari su nuove pozioni e articoli per il Quidditch e manifesti informativi. 

Teddy entrò dentro uno dei cubicoli e si richiuse la porta alle spalle. Inquadrò il viso nello specchio mezzo arrugginito appeso alla parete e si schiarì la gola. I capelli erano di nuovo biondicci. 

«Identificarsi, prego», pronunciò una voce metallica.

«Edward Remus Lupin. Dipartimento Investigativo».

Sullo specchio apparvero delle luci, e il suo viso venne scannerizzato e analizzato e la sua voce decodificata. Quel nuovo, modernissimo sistema di identificazione era stato introdotto solo da un paio d’anni ed era stato fortemente voluto dal nuovo Ministro della Magia, Hermione Granger, in collaborazione con l’Ufficio Auror. Teddy, in quanto membro del Dipartimento Investigativo, non ci aveva lavorato direttamente, ma Harry lo aveva chiamato nel suo ufficio - nell’ufficio del capo dell’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia - e gli aveva chiesto cosa ne pensasse, e Teddy ne era rimasto fortemente lusingato. Harry Potter che chiedeva un parere a lui. Ancora stentava a crederci, nonostante fosse legato al suo padrino da un affetto che somigliava molto a quello tra un padre e un figlio5

«Edward Remus Lupin, Dipartimento Investigativo», annunciò finalmente la voce. «Benvenuto».

Sulla superficie dello specchio apparve il simbolo del Ministero della Magia, una “emme” divisa a metà da una bacchetta, e poi Teddy sentì il famigliare tremolio del pavimento che annunciava la “partenza”. Infatti, di lì a qualche secondo il pavimento si abbassò e Teddy si ritrovò travolto in un vortice scuro, e dentro una specie di scivolo che lo condusse direttamente fuori da un camino, e all’interno del Ministero della Magia. 

L’Atrium a quell’ora era pressoché deserto, a parte qualche mago o strega mattiniero come lui, o i pochi che, reduci da qualche turno di notte, partivano in quel momento dalla fila di camini dorati di fronte a lui, assonnati e stanchi. 

Teddy si avviò a passo svelto in direzione della Fontana dei Cinquanta Caduti, eretta in onore delle vittime della Battaglia di Hogwarts del 1998, e oltre verso gli alti cancelli dorati che delimitavano l’Atrium6. Superò lo strillone che vendeva la Gazzetta del Profeta, che stava facendo Levitare copie del giornale fuori da una grossa sacca nera, depositandole poi su un piccolo carretto a due ruote lì accanto. Solitamente Teddy ne comprava una copia ogni mattina, ma quel giorno tirò dritto. Sentiva già Hestia camminare avanti e indietro nel suo ufficio, che lo aspettava, e forse era già infuriata per il suo ritardo. 

La scrivania della Sorveglianza era stata sostituita da un lungo banco di mogano, abbinato ai pannelli di legno scuro delle pareti, al quale solitamente sedevano due streghe e un mago, ma che a quell’ora ospitava solo una strega, che sorrise a Teddy con entusiasmo.

«Teddy», lo salutò. «Già qui?»

«Megan», ricambiò lui. «Purtroppo sì, Hestia mi aspetta.»

Conosceva Megan Hall dai tempi di Hogwarts e, non troppo modestamente, sapeva che aveva sempre avuto un debole per lui, ed era sicuro lo avesse ancora, ma per lui era esistita sempre e solo Victoire, e non aveva mai guardato nessun’altra in tutta la sua vita. 

«Buona giornata, allora».

Teddy rispose con un «grazie, altrettanto» al volo e si diresse verso gli ascensori che, ogni giorno, conducevano i Ministeriali su e giù per i vari Livelli. Entrò dentro uno di quelli e le griglie dorate si chiusero con un cigolio. Schiacciò il bottone con il numero “2” e attese. Solitamente, durante gli orari di punta, l’ascensore si fermava ad ogni Livello, per permettere al fiume di Ministeriali di scendere e recarsi ai propri uffici sparsi sui vari piani, ma in quel momento c’era solo lui, e ringraziò l’ora, che gli permetteva di sbrigarsela ed evitare ulteriori ritardi. 

Il numero “2” lampeggiò in alto sulla pulsantiera e la voce metallica enunciò: «Secondo Livello, Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia, comprendente l’Ufficio per l’Uso Improprio delle Arti Magiche, il Quartier Generale degli Auror e i Servizi Amministrativi Wizengamot7.» Le griglie dorate si aprirono e Teddy si precipitò fuori proprio mentre due Promemoria Interuffici sfrecciavano all’interno della cabina ormai vuota. Abbassò la testa per evitarli e proseguì lungo un corridoio costeggiato da porte chiuse. Girato un angolo, e dopo una porta a doppio battente di solida quercia, sbucò in un open space diviso in postazioni singole, molto simili a dei cubicoli, in quel momento deserto. Una targhetta dorata con la scritta “Quartier Generale degli Auror” troneggiava appesa al muro. 

I cubicoli eran tappezzati dei contenuti più disparati, dalle foto di famiglia a quelle tra vecchi compagni di scuola, da poster delle squadre di Quidditch del cuore a quelli di band musicali, da manifesti Ministeriali ad articoli del Profeta, da relazioni fitte di nomi e luoghi a pergamene di riconoscimenti e titoli accademici e lavorativi. Teddy si diresse al fondo, verso un’apertura ad arco che lo condusse ad un’altra serie di cubicoli, meno numerosi dei precedenti, ed occupati dai membri del Dipartimento Investigativo, una sottodivisione dell’Ufficio Auror che si occupava di indagini e investigazioni di ogni tipo, legate alle Arti Oscure e non, e diretto da Hestia Jones, una tra le streghe più capaci che Teddy avesse mai conosciuto. Individuò Roger Davies8, il suo partner, al fondo, proprio accanto alla porta a vetri del capo-ufficio. Camminava avanti e indietro, una mano sul mento, pensieroso. Lo aspettava. 

Molto probabilmente, Hestia li aveva convocati insieme, e realizzò solo in quel momento che stavano per essere messi di fronte ad un’emergenza, e si chiese di quale emergenza si trattasse, e sperò ardentemente che non fosse nulla di troppo grave, anche se essere chiamati a quell’ora del mattino non prometteva nulla di buono. 

In quel momento, Roger alzò lo sguardo e lo vide. Gli fece segno di muoversi e Teddy lo raggiunse.

«Ci hai messo una vita, per Merlino!» esclamò il suo collega, vestito di tutto punto come sempre, i capelli brizzolati lisciati all’indietro e la cravatta perfettamente annodata. Roger era vicino alla mezza età e aveva più esperienza, e insieme formavano una coppia alquanto stramba, poco amalgamata a vedersi, ma andavano d’accordo e lavorativamente parlando avevano una sintonia fuori dal comune. Sul fronte vita privata, ogni tanto uscivano a bere qualcosa al Paiolo Magico o ai Tre Manici di Scopa, Roger era uno scapolo impenitente e amava troppo la sua indipendenza per avere una relazione stabile o costruirsi una famiglia. Era una delle persone migliori che conoscesse. 

«Scusa, ho avuto un… », esitò Teddy, «… un contrattempo.»

«Meglio se entriamo», disse solo il suo collega, senza fare domande.

«Sai qualcosa di più?»

Roger scosse la testa. «Ho ricevuto un gufo molto presto, so solo che si tratta di un’emergenza.»

Si girò e bussò piano alla porta a vetri, sopra la quale campeggiava la scritta nera “Hestia Jones — Direttrice Dipartimento Investigativo”. Una voce di donna li invitò ad entrare e Teddy seguì Roger all’interno. 

L’ufficio della Direttrice Jones era ordinato come al solito, e di un ordine quasi maniacale: la scrivania in legno lucido ospitava plichi di documenti e pergamene, un porta-piume completo di calamaio, alcune cornici che Teddy sapeva contenevano foto di famiglia, una lampada e un vassoio d’argento, sul quale erano poggiate una teiera e una tazza di vetro. Alle pareti, altre foto di famiglia (due donne, Hestia e la sua compagna Georgia, che stringevano due bambini, un maschio e una femmina, a casa loro oppure al mare, o a Diagon Alley), alcuni poster del Ministero e schedari in legno. Alle spalle della donna, un’ampia finestra incantata riproduceva il centro di Londra, che a quell’ora brulicava già di traffico di automobili e di Babbani frettolosi. 

Hestia Jones sedeva alla sua scrivania, le dita intrecciate, il cipiglio serio. Gli occhi scuri lampeggiavano. «Quale onore, finalmente.»

«Scusa, Hestia, ci hai colti impreparati, stamattina», si scusò Roger prendendo posto su una delle due poltroncine posizionate di fronte alla scrivania e riservate ai visitatori, senza neanche aspettare un invito da parte della donna. 

Teddy richiuse la porta e rimase in piedi, in attesa. Hestia lo guardò e gli indicò la sedia libera. «Non fare il timido, non ti si addice.»

Dopo essersi seduto, Hestia si schiarì la voce e, senza indugiare oltre in convenevoli - non era da lei - affrontò subito il motivo della loro convocazione. 

«Vi sarete chiesti come mai vi abbia chiamati qui in ufficio così presto, e con questo poco preavviso», cominciò, appoggiando la schiena alla sua poltrona e incrociando le mani in grembo. «Stanotte ho ricevuto un gufo. Erano all’incirca le quattro, e posso assicurarvi che non è stato piacevole, se la cosa vi può consolare.»

«Un pochino, devo ammetterlo», rispose Teddy accennando un ghigno, ed Hestia alzò gli occhi al cielo. 

«Era un gufo del Capo Chapman9», aggiunse. 

Teddy alzò le sopracciglia e sentì Roger accanto a sé muoversi nervoso sulla sedia. Eva Chapman era il severissimo Capo dell’Ufficio Auror, e diretta superiore di Hestia. Da lei arrivavano tutti gli incarichi più importanti, tutto ciò che riteneva potesse rientrare nelle competenze del Dipartimento Investigativo. 

«La Chapman ha ricevuto un gufo, ieri sera molto tardi. Un gufo da Hogwarts», precisò.

«Hogwarts?» esclamò Roger accavallando una gamba. 

Hogwarts, pensò Teddy. Cosa poteva essere successo?

Hestia annuì. «Direttamente dalla McGranitt. Sembra che non riescano a trovare uno studente. Lo hanno cercato per tre giorni senza successo, e nessuno sa nulla di certo riguardo il momento della scomparsa, come al solito.»

«È scomparso uno studente?» Teddy era allibito. Era da qualche tempo, ormai, che ad Hogwarts era tutto tranquillo, da quando era successo l’incidente della Giratempo10 e dell’erede di Voldemort nel quale erano stati coinvolti Albus Potter e Scorpius Malfoy. 

«Si chiama Karl Jenkins, Serpeverde del Sesto Anno», spiegò Hestia lanciando verso di loro alcuni fogli, che sembravano formare una sorta di scheda identificativa dello studente, completa di foto (Karl sorrideva beffardo all’obiettivo, ammiccando, il mento alzato; sembrava molto sicuro di sé, e neanche così tanto simpatico, se proprio Teddy avesse dovuto dirla tutta) e dati anagrafici e verbali comportamentali. Teddy lesse che era stato fatto Prefetto l’anno prima, e che aveva ottimi voti in tutte le materie. 

«I suoi compagni hanno dichiarato che, la mattina del 3 gennaio, non era nel suo letto, ma non ci hanno fatto caso perché era solito alzarsi presto. A colazione non c’era, e hanno pensato fosse già sceso, avesse mangiato e si fosse recato in anticipo a lezione. Peccato che non l’abbiano visto né a lezione, né a cena, e così, dopo mangiato, sono andati a riferire alla McGranitt.»

«Hanno cercato Jenkins per qualche ora, e hanno ripreso le ricerche il giorno successivo. Lo hanno cercato per tre giorni interi, fino a quando Minerva ha deciso di scrivere a Eva», concluse Hestia. 

Teddy poteva solo immaginare quanto fosse costato a Minerva McGranitt scrivere quel gufo: la preside non amava le ingerenze del Ministero nella vita della sua scuola, anche se doveva ammettere che il Ministro Granger le lasciava carta bianca, in merito. 

«Come mai non ha scritto direttamente al Ministro?» chiese Roger. «Tutti sanno che la McGranitt è in ottimi rapporti con la sua ex studentessa, e la stessa cosa non si può dire della Chapman.»

«Ha seguito le procedure, immagino», rispose Hestia sorseggiando un po’ di tè dalla sua tazza. «Vi faccio portare qualcosa? Un caffè?»

«Un caffè sarebbe gradito, grazie, Hestia.»

«Anche per me, grazie.» Teddy le sorrise ed Hestia chiamò Emily, la sua assistente, e le chiese di portare due caffè per i suoi Auror. Hestia era severa ma giusta, e trattava i suoi sottoposti sempre con rispetto e gentilezza, unite ad una bacchetta ferma e ad una volontà d’acciaio. 

Aspettarono i caffè e nel mentre lessero il file su Jenkins, nel quale Teddy non trovò nemmeno una sbavatura, una singola crepa o incrinatura che facesse pensare ad un colpo di testa e ad una fuga improvvisa dal castello. Anche in famiglia le cose sembravano andare bene. Si chiese che cosa fosse scattato nella testa di quel ragazzo. 

Emily lasciò due tazze fumanti davanti a loro ed uscì. Teddy sorseggiò piano il liquido bollente e vagamente amaro e posò il fascicolo sulla scrivania, scuotendo la testa. «Non capisco cosa l’abbia spinto a scappare, o comunque a lasciare il castello…»

«E mi chiedo anche come si sia allontanato», aggiunse Roger. «Non gioca a Quidditch, quindi escludiamo subito la scopa. Non ci si può Smaterializzare e Materializzare nei confini del castello e del parco, ma solo a Hogsmeade, e comunque Jenkins è minorenne, non ha ancora seguito il corso e tantomeno sostenuto l’esame. L’unica ipotesi è che qualcuno lo aspettasse al villaggio per poi eseguire una Smaterializzazione Congiunta.»

«Quindi lui sarebbe uscito, magari in piena notte», continuò Teddy, «per recarsi fino ad Hogsmeade, dove se ne sarebbe andato con qualcuno, non si sa chi, per poi sparire nel nulla. Un po’ macchinoso.»

«Ma probabile», aggiunse Hestia. «Potrebbe essere una pista, ma prima non voglio escludere che Jenkins si possa trovare ancora nel parco, magari ferito, senza bacchetta, o prigioniero. Può essersi spinto fin dentro la Foresta Proibita senza il permesso dei Centauri e sappiamo che la cosa li offende, no? Insomma, vorrei che batteste il parco palmo a palmo, e vi scriverò un mandato da consegnare ai Centauri per richiedere un permesso di perquisizione all’interno della Foresta. Non voglio tralasciare niente.»

«Andremo a Hogwarts, quindi?» chiese Teddy, incredulo.

Hestia annuì. «Credo sia la cosa migliore. Siete tra i miei Auror più capaci, e stamattina ho mandato un gufo personale a Minerva dove le promettevo tutto l’aiuto possibile - dove le promettevo i migliori. Voi due.»

Teddy fece un cenno d’assenso, ma dentro di sé non poteva fare a meno di chiedersi se non fosse eccessivo, il dispiegamento di ben due Auror per cercare un sedicenne che, molto probabilmente, aveva solo voglia di fare un po’ il ribelle, decidendo di scappare dal castello per imboscarsi chissà dove e tutto solo per rendersi più interessante agli occhi dei compagni con futuri racconti eroici davanti al fuoco della Sala Comune. 

«Alloggerete ad Hogsmeade, ovviamente, ci sono un paio di camere libere accanto ai Tre Manici di Scopa. Se volete fare un salto a casa per fare i bagagli…» Suonava tanto come un congedo e così i due Auror si alzarono in piedi. Teddy poggiò la tazza del caffè ormai vuota sulla scrivania.

«Mi aspetto rapporti giornalieri», aggiunse Hestia alzandosi in piedi a sua volta. «Mi raccomando, conto su di voi.»

Strinse loro la mano e i due colleghi uscirono dall’ufficio, richiudendosi la porta alle spalle. 

Il Dipartimento aveva cominciato a popolarsi e Teddy sospirò. Si diresse silenziosamente verso la sua postazione, e Roger lo seguì. 

«Ci vediamo a casa tua più tardi, ti basta un’ora per prepararti?» gli chiese il suo collega. 

Teddy annuì. «Sì, sistemo solo alcune cose qui in ufficio, scrivo un gufo al volo a Victoire e corro a casa.»

«Ci vediamo dopo, allora.» Roger gli diede una pacca sulla spalla a mo’ di saluto e si allontanò a passo sostenuto. Salutò alcuni colleghi ma senza fermarsi.

Teddy si sedette alla sua scrivania e aprì un cassetto. Prese della pergamena, afferrò la piuma e si chinò sul foglio. Scrisse due righe a Victoire, dove le diceva che stava per partire per Hogwarts per una missione che riguardava una scomparsa e che si sarebbe fermato fuori a tempo indeterminato. Aggiunse un “ti amo” al fondo e, ripiegata la missiva, se la mise in tasca: l’avrebbe poi spedita al San Mungo con uno dei gufi Ministeriali mentre lasciava l’Atrium. 

L’altro messaggio era diretto a Harry. Era solito informarlo in via confidenziale di tutte le sue missioni, nonostante Eva Chapman fosse comunque sempre tenuta a fare rapporto. Harry si fidava di lui e Teddy era un po’ il suo informatore dall’interno. Gli scrisse un Promemoria con la sua destinazione e lo scopo della sua missione, e promise di tenerlo informato. Spedì il Promemoria e si alzò in piedi. Si passò una mano tra i capelli, cercando di mettere ordine nei suoi pensieri, ma venne interrotto e rimandò l’ordine a più tardi. 

Molly Weasley II11 bussava al suo pannello divisorio e lo osservava con una strana espressione negli occhi azzurri. Teddy le sorrise. «Ciao, Molly.»

«Tutto bene? Hai una faccia strana…» La ragazza fece un passo avanti. 

Teddy aveva sempre considerato Molly come una cugina acquisita, in quanto cugina di primo grado di Victoire. Avevano più o meno la stessa età, ma la ragazza era entrata all’Ufficio Auror da pochi mesi, dopo aver terminato l’addestramento in Accademia. Era stata destinata al Dipartimento Investigativo e a Teddy aveva fatto piacere ritrovare un viso conosciuto. Ora lei lo osservava preoccupata. 

«Sto bene», si affrettò a rispondere lui. «Sto partendo. Per una missione.»

«Oh. Qualcosa di grave?» Molly era sempre stata scrupolosa e precisa, fin dai tempi di Hogwarts. Sarebbe diventata un ottimo Auror, se solo avesse seguito un po’ di più i suoi impulsi e meno la sola, e solida, e logica ragione. Ma aveva ancora tempo. 

«Un problema a Hogwarts, speriamo di risolverlo presto.»

«D’accordo, allora ti lascio andare.»

«Ho scritto un gufo a Victoire, ti scoccia passare da casa, ogni tanto? A volte quando torna dal San Mungo è troppo stanca e si dimentica persino di mangiare. E in questi giorni Dominique è fuori città, altrimenti chiederei a lei…»

«Certo, non ti preoccupare», lo rassicurò Molly annuendo, pratica. «Salutami Hogwarts.»

Teddy le sorrise. «Lo farò.»
 



Note:

1. Hestia Jones: siccome non ci sono informazioni dettagliate sulla sorte di Hestia al termine della Guerra, ho pensato che potesse aver fatto carriera e quindi l’ho inserita a capo del Dipartimento Investigativo
2. Reparto Incidenti da Manufatti: al San Mungo, dove lavora Victoire; dettaglio di mia invenzione
3. Smith: è proprio Zacharias Smith
4. Una ringhiera nera con le aste appuntite divideva due rampe di gradini, una con il cartello ‘Signori’, l’altra con il cartello ‘Signore’: tratto da “Harry Potter e i Doni della Morte” di JK Rowling
5. Per quanto riguarda Harry ed Hermione, mi sono attenuta a quanto è stato detto e scritto su di loro, quindi Harry è il capo dell’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia, mentre Hermione è diventata Ministro della Magia dopo Kingsley Shacklebolt; il nuovo sistema identificavo per accedere al Ministero e voluto da Hermione è invece di mia invenzione
6. Atrium: sono dell’idea che la Fontana dei Magici Fratelli sia stata rimpiazzata da qualcosa di meno razzista, quindi ho inventato la Fontana dei Cinquanta Caduti, eretta per celebrare e ricordare i caduti della Battaglia di Hogwarts; lo strillone che vende il Profeta è una mia invenzione
7. Secondo Livello, Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia, comprendente l’Ufficio per l’Uso Improprio delle Arti Magiche, il Quartier Generale degli Auror e i Servizi Amministrativi Wizengamot: tratto da “Harry Potter e l’Ordine della Fenice” di JK Rowling
8. Roger Davies: nella mia mente, diventa Auror e finisce a lavorare in coppia con Teddy, proprio come due detective
9. Eva Chapman: personaggio di mia invenzione, e madre di Polly Chapman, studentessa di Hogwarts; ho pensato che la donna fosse subentrata come capo Ufficio Auror dopo la promozione di Harry
10. Incidente della Giratempo: uno dei pochissimi riferimenti a “The Cursed Child” presenti nella storia, utile per dare un’idea dei trascorsi “movimentati” di Albus e Scorpius; non è necessario aver letto l’opera teatrale per seguire questa storia, comunque, anche perché i miei Albus e Scorpius avranno caratterizzazioni diverse
11. Molly Weasley II: ho immaginato Molly già fuori da Hogwarts, e quindi perché non inserirla nel Dipartimento Investigativo come Auror appena diplomata all’Accademia?

 

Come avrete notato, nel capitolo sono presenti alcuni dettagli tipicamente “Babbani”, come i jeans e il montone di Teddy, l’andare al bar a prendere un caffè, e forse ho dimenticato qualcosa, perdonatemi, ma sono dettagli volutamente inseriti perché ho sempre pensato fosse un po’… come dire… arcaico (e ridicolo), andare in giro con la veste da mago (rido XD), per cui ho anche pensato che, con il passare degli anni, i tempi siano mutati e anche i maghi si siano in qualche modo “aggiornati” e “modernizzati”, soprattutto i più giovani, come Teddy e Victoire, appunto, e che abbiano diciamo “abbracciato” alcune consuetudini e abitudini tipicamente Babbane. In ogni caso, niente cellulari o smartphone, state tranquilli XD

 

Se siete arrivati fin qui, grazie mille, e grazie a chi ha recensito il prologo e a chi ha messo questa storia tra le seguite/preferite ♥︎ alla prossima settimana!

 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO DUE ***


Teddy Lupin ringrazia tutti i lettori, silenziosi e non, di questa storia, ed è molto contento di piacervi.
Buona lettura.

 




2.

CAPITOLO DUE

 

 

Hogsmeade era sommersa dalla neve che era caduta nella notte. Teddy ci si ritrovò impantanato con tutti e due i piedi e bofonchiò un’imprecazione a denti stretti. Roger invece si era Smaterializzato senza scomporsi, entrambe le scarpe lucide al sicuro su un marciapiede sgombro. Teddy alzò gli occhi al cielo e si scrollò con decisione la neve di dosso, guardandosi intorno. Erano comparsi in un vicolo secondario e si immisero sulla via principale del villaggio, a quell’ora popolato di gente affaccendata che andava e veniva, chi impegnato in compere, chi in commissioni, e qualcun altro ancora semplicemente poggiato a ridosso dei muri sporchi, una pipa tra le labbra, ad osservare il via vai. Teddy li definiva “perdigiorno”.

Lui e Roger si avviarono in direzione dei Tre Manici di Scopa, intenzionati a bersi una pinta, chiedere indicazione delle loro camere e, soprattutto, raccogliere qualche prima impressione sull’aria che tirava al castello. Se c’era un posto dove giravano i giusti pettegolezzi, quello era i Tre Manici di Scopa. 

Una strega ingobbita e quasi cieca, ferma al lato del marciapiede, si offrì di predire loro il futuro per pochi Falci, ma i due Auror la superarono, e Roger mormorò un «no, grazie». Bastarono i loro due distintivi brillanti e dorati, appuntati sui cappotti pesanti, per far mobilitare tutta Hogsmeade. Era raro, in quei tempi di pace, veder arrivare degli Auror in veste ufficiale al villaggio; vi si recavano per lo più per bersi un bicchiere, ma fuori dall’orario di lavoro. Qualcuno cominciò a mormorare sommessamente, ma Teddy non vi prestò alcuna attenzione: era abituato a provocare “strani sommovimenti” nei maghi, faceva parte del pacchetto completo della sua professione. E il fatto che gli Auror comunemente cacciassero maghi oscuri e, in generale, le Arti Oscure, non aiutava. 

All’interno dei Tre Manici di Scopa trovarono un ambiente decisamente più accogliente e caldo rispetto al clima esterno, e non solo quello atmosferico. Si guardarono intorno e solo un paio di avventori alzò la testa dai loro bicchieri per squadrare i nuovi arrivati, tutti gli altri continuarono a farsi i loro affari. 

«Roger! Teddy!»

Si voltarono appena in tempo per veder sopraggiungere una donna ben tornita, Madama Rosmerta, la storica proprietaria del locale. Quel giorno indossava un ampio vestito rosso cremisi e si avvicinò loro quasi veleggiando. 

«Miei cari», aggiunse sorridendo. «Bentrovati.»

«Rosmerta», replicò Roger baciandole la mano. Lei ridacchiò. Il suo partner ci sapeva fare, questo era fuori di dubbio. 

«Teddy caro», continuò la donna avvicinandoglisi e allungando le mani a stropicciargli le guance, come se fosse ancora un bambino. Rosmerta aveva conosciuto suo padre - e aveva conosciuto i nonni Tonks - e lo trattava quasi come se fosse lei stessa una nonna, o una zia. «Sei così magro… Mangi?»

Roger rideva sotto i baffi mentre Teddy cercava di divincolarsi dalla presa ferrea della donna. Annuì, ma lei non gli diede il tempo di aggiungere nient’altro. 

«Venite, venite a riscaldarvi, forza», e li precedette verso un comodo tavolo accanto al camino acceso. Lo ripulì con un colpo di bacchetta e fece loro cenno di accomodarsi. «Fuori c’è un freddo becco, oggi. Ha nevicato tutta la notte e si gela.»

Teddy non poteva che essere più che d’accordo e rabbrividì leggermente. Allungò le mani verso l’allegro fuoco mentre Roger si toglieva il cappotto. 

«Vi faccio portare una bella brocca di idromele, che ne dite?»

«Dico che è l’ideale, Rosmerta, grazie», rispose Roger. 

Teddy la osservò allontanarsi dopo aver fatto loro l’occhiolino e intanto si tolse il montone, lasciandolo cadere sullo schienale della sedia in legno. 

Lui e Roger avevano poggiato il loro piccolo bagaglio a terra, ed entrambi si guardarono intorno, osservando con attenzione gli altri avventori. Deformazione professionale. 

«Non entro qui dentro da…» cominciò Roger.

«… dalla finale di campionato, Holyhead contro Puddlemere», concluse Teddy per lui.

Roger alzò un dito a confermare le sue parole, sorridendo. «Holyhead contro Puddlemere. Che partita…!»

Teddy annuì. «Sembra una vita fa.»

«C’è da dire che la Testa di Porco è molto più discreto», sussurrò Roger sporgendosi verso di lui dopo aver buttato un’occhiata dietro le spalle, per verificare che non ci fosse Rosmerta nei paraggi. «E si carpiscono molte più informazioni.»

In quel momento, la figlia di Rosmerta, Prudence1, si avvicinò al tavolo per servire loro l’idromele. Prudence ormai gestiva il locale al posto della madre, che però non era ancora riuscita a convincere a starsene a casa, al piano di sopra, a godersi la pensione. La donna aveva all’incirca l’età di Roger e Teddy aveva sempre pensato che avesse un po’ un debole per il suo collega, ma ormai aveva fatto il callo alla tendenza dell’amico al celibato e alla sua allergia per i legami duraturi. 

Prudence rivolse loro un ampio sorriso. «Idromele aromatico per voi, e una scodella di pasticcio caldo offerto dalla casa. Per riscaldarvi come si deve.»

«Hai detto pasticcio?» esclamò Teddy, che adorava la specialità del locale. 

«Appena preparato.»

«Grazie, Prudence, sei un angelo», aggiunse Roger rivolgendole un ampio sorriso. Teddy osservò la scena, divertito. Prudence ricambiò il sorriso e li lasciò al loro pranzo, mentre Roger si girava ad osservarla veleggiare via, i fianchi fasciati dal grembiule bianco e i capelli biondi legati in una treccia. 

«Sei un vero scemo, lasciatelo dire», disse buttandosi a capofitto nel suo piatto. Solo in quel momento realizzò quanto avesse fame. Ormai i toast preparategli da Victoire erano un lontano ricordo, per il suo stomaco, che brontolò sonoramente. Roger intanto lo guardava, forse senza capire. «Parlo di Prudence», aggiunse Teddy. «Per quanto ancora negherai che ti piace?»

«Mica lo nego», rispose l’altro scrollando le spalle. «Semplicemente non posso darle ciò che vorrebbe da me. Sai che non sono tipo da matrimonio.»

«Be’, magari nemmeno lei.»

Roger sembrò riflettere sulle sue parole, ma nessuno dei due aggiunse altro, si limitarono a mangiare in silenzio, e a sorseggiare l’idromele aromatico. 

 

 

A pranzo terminato, Roger si alzò per andare in bagno, e Rosmerta ne approfittò per prendere il suo posto davanti a Teddy. Il ragazzo la guardò incuriosito.

«È successo qualcosa, vero?» gli chiese sussurrando, i gomiti poggiati sul tavolo in legno, sporgendosi verso di lui per non farsi sentire. 

Teddy non rispose, e lei continuò: «L’altro giorno è sceso un gruppo da Hogwarts, capeggiato dal vicepreside Paciock. C’erano anche il professor Thomas2 e un paio di Caposcuola. Hanno setacciato Hogsmeade in lungo e in largo, li ho visti con i miei occhi, e mi è stato riferito in serata da qualche cliente. Stavano cercando qualcosa. O qualcuno.»

Teddy si passò una mano sulla mascella, pensieroso. Non poteva riferire nessun dettaglio del caso ai non interessati, soprattutto non a Rosmerta, noto “gazzettino” del villaggio, ma forse avrebbe potuto saperne di più, se solo le avesse servito qualche bell’osso da rosicchiare nell’attesa. 

Si sporse anche lui sul tavolo. «Non posso dire nulla, ma è successo qualcosa su al castello, per questo siamo qui. Dopo andremo a parlare con la preside, e ci faremo un’idea migliore della situazione.»

La donna sbarrò gli occhi. «Spero che non sia nulla di grave, anche se per coinvolgere gli Auror…»

«Sono sicuro che la risolveremo», concluse Teddy. «Intanto, posso chiederti di mantenere calme le voci, Rosmerta? Hai un ascendente non da poco sulla gente di qui…»

Lei gli sorrise sorniona e gli diede due buffetti sul dorso della mano. «Conta su di me, Teddy caro.»

Lui ricambiò il sorriso e poi allungò il collo per cercare Roger, che però si era fermato al bancone a chiacchierare con Prudence, che a sua volta stava ridendo per qualcosa che l’uomo le aveva appena raccontato. Teddy alzò gli occhi al cielo e si alzò sbuffando. «Chissà se Prudence può aiutarci con le nostre stanze…? Hestia ha detto che ne ha fatte preparare una a testa qui vicino.»

Rosmerta si alzò in piedi e chiamò la figlia, che si avvicinò al tavolo seguita da Roger, le mani buttate nelle tasche con disinvoltura; cercava di non guardarlo in faccia, Teddy lo aveva capito. Quello stronzo. 

Salutarono, ringraziarono per il pranzo e l’accoglienza, e seguirono Prudence fuori, nuovamente stretti nei loro pastrani, il fiato che si condensava in nuvolette e la neve che era diventata ghiaccio, scivoloso sotto i piedi. La donna li condusse due case più avanti e aprì la porta della casetta a due piani, facendoli entrare. «Siete stati fortunati a trovarla libera», spiegò. 

Il salotto fungeva anche da ingresso, ed era collegato ad una piccola cucina che a sua volta portava nel cortile sul retro, recintato da assi di legno. Al piano di sopra c’erano due camere, ognuna con un letto, un armadio, una cassettiera e un piccolo bagno privato. Non era una reggia, ma per loro sarebbe andata benissimo. E poi, Teddy era abituato agli spazi ristretti: la casa di Little Venice era molto carina ma essenziale e tutto era incastrato alla perfezione, grazie anche agli ottimi Incantesimi Rimpicciolenti di Victoire, che era di un ordine quasi maniacale, a differenza sua, che ammonticchiava cose e vestiti in giro e non trovava mai niente. 

Prudence li salutò e si mise a disposizione per qualsiasi loro bisogno e li lasciò soli. Teddy e Roger si guardarono, in piedi nel salottino ingombro, il primo che si passava una mano tra i capelli e il secondo che si guardava intorno, stranito. 

«Be’, non male, no?» chiese Teddy. 

 

 

La salita a piedi fino ad Hogwarts fece loro smaltire il pasticcio. Erano allenati, ma avevano entrambi il fiato corto quando arrivarono in cima, e si fermarono di fronte al grosso portone di quercia per riprendersi, piuttosto bagnati dopo la camminata nella neve alta. 

Teddy alzò la testa ad osservare le torri e torrette del castello. Hogwarts. Il posto che, per sette lunghi anni, aveva chiamato casa. Il posto dove i suoi genitori erano morti. Teddy era cresciuto con la nonna Andromeda, e aveva avuto un’infanzia felice, piena di amore e caramelle e giochi spensierati in riva al mare, ma i suoi genitori avevano sempre costituto un vuoto che non avrebbe mai colmato, per quanto si fosse sforzato. Non che volesse farlo, non voleva metterci una pezza e lasciare che quella mancanza semplicemente sparisse, era parte di lui - loro erano parte di lui - ma a volte arrivava a pensare a come sarebbe stata la sua vita, a come sarebbe stato crescere con loro. Suo padre gli avrebbe raccontato tutto ciò che sapeva sulla magia e sua madre gli avrebbe insegnato a trasformarsi, e lo avrebbero amato entrambi - e sarebbero stati vivi, entrambi, e insieme. Prima di partire alla volta di Hogwarts, Teddy aveva lasciato la sacca da viaggio nella sua stanzetta, e aveva poggiato sul comodino una vecchia fotografia dei suoi genitori, racchiusa in una cornice d’argento, che si portava sempre dietro quando lasciava Londra, come un talismano. Remus e Nymphadora gli sorridevano, abbracciati e felici. 

Si riscosse quando sentì Roger bussare al grande portone, e attesero insieme che qualcuno venisse loro ad aprire. Era appena passata l’ora di pranzo, e Teddy sperò di non incontrare nessuno studente, durante il tragitto fino allo studio della preside: non era ancora arrivato il momento di destare domande e bisbigli. 

Il portone di quercia si aprì lentamente e i due Auror si ritrovarono davanti una studentessa alta, dai folti capelli castani dalle sfumature ramate, e due grandi occhi azzurri. Occhi che Teddy conosceva bene. 

«Lucy

«Teddy!»

Lucy Weasley, la cui spilla da Caposcuola lampeggiava sulla divisa nera, sbarrò gli occhi e si fece da parte per lasciarli entrare, per poi richiudere il pesante portone dietro di sé.

«Vi conoscete», constatò Roger guardandoli, mentre Teddy e Lucy si abbracciavano brevemente. 

Lucy faceva parte del clan Potter-Weasley, che si riuniva ogni anno per festeggiare il Natale o la Pasqua alla Tana, che Teddy trascorreva quasi sempre da loro, con Victoire, a meno che non festeggiassero dalla nonna. Aveva sempre considerato Lucy come una Molly in miniatura, ed effettivamente le due sorelle si somigliavano molto.

«Allora sei tu uno dei due Auror convocati dalla McGranitt.»

«Sì, insieme a Roger.»

«Roger Davies», si presentò Roger tendendole una mano. Lucy gliela strinse educatamente.

«Tu rubi il lavoro a Gazza?» le chiese Teddy.

«Mi è stato espressamente chiesto dalla McGranitt», spiegò lei, il petto in fuori, fiera. Teddy constatò che assomigliava in modo impressionante a Percy Weasley. «Gazza non sta bene, i reumatismi non lo lasciano in pace, e così, in quanto Caposcuola, sono stata mandata io ad accogliervi. Vi aspettavamo prima.» L’ultima frase era suonata pericolosamente come un rimprovero. È decisamente uguale a Percy, pensò Teddy.

«Abbiamo pranzato ai Tre Manici di Scopa», spiegò Roger. 

Lucy annuì distrattamente, come se non le importasse più di tanto stare a sentire le loro giustificazioni. «È meglio che vi scorti fino all’ufficio della preside. Non vorremo farla aspettare ancora, no?»

Così dicendo, Lucy fece loro strada. Teddy si ricordava perfettamente, come fosse ieri, il percorso fino all’ufficio della McGranitt, che era stata anche la sua preside, e solitamente lo percorreva dopo averne combinata una delle sue, e ben conscio della strigliata che gli sarebbe stata data. Modestamente, però, doveva ammettere che Minerva McGranitt lo aveva messo in punizione pochissime volte, se rapportate a tutti i guai in cui si era cacciato da studente. Lo avevano sempre salvato i bei voti in tutte le materie e quel sorriso storto al quale pochi sapevano resistere. 

«Montrose Magpies.»

Senza accorgersene, Teddy e gli altri erano arrivati allo studio della preside, al secondo piano, e il gargoyle di pietra, davanti alla parola d’ordine fornitagli da Lucy, fece un balzo di lato per lasciarli passare. La Caposcuola li guidò su per la scala mobile di pietra che saliva in alto, sempre più in alto, attorcigliandosi su se stessa, fino ad una solida e pesante porta di legno con un batacchio a forma di grifone. Lucy lanciò loro un’ultima occhiata silenziosa e poi bussò con garbo. 

«Avanti», risposero dall’interno. 

Lo studio della McGranitt era proprio come Teddy lo ricordava: un’ampia stanza circolare, luminosa e ordinata, con i soliti tavoli in legno pieni di strani strumenti d’oro e d’argento che ticchettavano e brontolavano. Le pareti erano tappezzate dai ritratti dei presidi passati, alcuni profondamente addormentati (Teddy ricordava di averli visti svegli pochissime volte), altri assenti, in giro per qualche altro quadro del castello. Come se fosse ieri, e come se fosse tornato ad essere uno studente, Teddy cercò il ritratto di Albus Silente, che però in quel momento era vuoto, la cornice dorata abbandonata a se stessa, appesa al muro di pietra. Severus Piton invece lo fissava dalla sua cornice, le braccia incrociate, il cipiglio serio. Teddy restituì lo sguardo, deciso. 

Dietro l’enorme scrivania dalle zampe ad artiglio era drappeggiata una sciarpa bianco-nera dei Montrose Magpies, la squadra di Quidditch scozzese preferita dalla preside e, accanto, luccicava il medaglione dorato con nastro verde dell’Ordine di Merlino, Prima Classe, conferitole da Kingsley Shacklebolt al termine della Seconda Guerra Magica. Sullo scaffale di fianco, stava poggiato il Cappello Parlante. Teddy ricordava lo Smistamento come se fosse successo solo il giorno prima. Tutta l’emozione, l’ansia, l’agitazione che gli faceva tremare le gambe… La mente vuota, l’assenza totale di pensieri e desideri, solo l’assoluta certezza che il Cappello sapeva, conosceva i profondi desideri del suo cuore, e avrebbe scelto bene per lui. Harry lo aveva rassicurato, prima della partenza. E non solo Harry, ma anche la nonna. Teddy aveva trascorso sette meravigliosi anni in Tassorosso, proprio come sua madre. 

«Era ora.» 

Tutti e tre si girarono. Minerva McGranitt scendeva alcuni piccoli scalini, stringendosi in uno scialle di lana a stampa tartan. I capelli erano ancora più grigi, e raccolti in uno stretto chignon, gli occhi seri e fermi erano incorniciati da un paio di occhialini rettangolari e la bocca era piegata nella solita, temuta e ben nota piega che sfoderava quando qualcosa la indispettiva. Teddy si sentì nuovamente un ragazzino. 

«Scusi per il ritardo, professoressa», cominciò Roger. «Ci siamo attardati ai Tre Manici di Scopa.»

«Io li ho portati subito qui, signora preside», aggiunse Lucy.

«Molto bene, Weasley, puoi andare, grazie mille», la congedò la McGranitt, e Lucy annuì. Salutò Teddy e Roger con un cenno della mano e lasciò l’ufficio.

«Sedetevi, forza», li invitò la donna, indicando le due poltroncine sistemate davanti alla sua scrivania, alla quale aveva preso posto sospirando. Sembrava stanca.

I due Auror si sedettero. La preside li osservò da sotto gli occhiali. «Direi che possiamo venire al dunque, se siete d’accordo.»

Entrambi annuirono. «Hestia ci ha raccontato cos’è successo, ma vorremmo sentirlo da lei», aggiunse Teddy accavallando una gamba e sistemandosi sulla sua poltrona. 

La McGranitt annuì, incrociando le dita sul ripiano lucido della scrivania. «Come Hestia vi avrà detto, non riusciamo a collocare con esattezza la scomparsa di Jenkins. Ovviamente, possiamo restringere il campo tra la sera del 2 gennaio, quando è stato visto l’ultima volta a cena nella Sala Grande dai suoi compagni di dormitorio, e la sera del 3, quando quegli stessi compagni sono venuti da me, allarmati, affermando di non aver visto il ragazzo dalla sera prima.»

«Lo abbiamo cercato dappertutto, per due giorni, prima di allertare Eva Chapman», continuò, e qui le labbra si assottigliarono ancora di più. Era ben noto a quasi tutti il rapporto non particolarmente idilliaco tra la preside di Hogwarts e il Capo Ufficio Auror. 

«Anche nella Foresta Proibita?» chiese Roger.

La McGranitt scosse la testa. «Speravamo che poteste procurarvi un mandato da presentare ai centauri.»

Teddy annuì. «Non è un problema, Hestia ci sta già lavorando.»

«Qualche altra informazione? Comportamenti strani da parte del ragazzo…? I compagni cosa dicono?»

La McGranitt sospirò. «Jenkins era all’apparenza uno studente modello, non so davvero cosa dire… L’anno scorso ha ottenuto l’incarico di Prefetto, che onorava con serietà e dedizione. Aveva ottimi voti in quasi tutte le materie, e ai G.U.F.O. è andato più che bene.»

«Che mi risulti non aveva particolari problemi con i compagni. Si è ficcato in qualche discussione, nel corso di questi anni, ma a chi non è capitato?» E lanciò un’occhiata a Teddy da sotto gli occhiali. Sembrava quasi che ridesse sotto i baffi. 

Teddy le rivolse un ampio sorriso, una bella ammissione di colpe. Non aveva problemi a riconoscere il suo passato da studente scapestrato. 

«Vi consiglio però di ascoltare gli studenti. Ci sono cose che a noi docenti non arrivano.»

«Lo faremo assolutamente», la rassicurò Roger annuendo. Aveva preso appunti a mano su un blocco, senza la Penna Prendiappunti, che aveva lasciato giù al villaggio, e i fogli erano tutti disordinati e pasticciati. Li scorreva come se stesse ricapitolando le idee. 

«Penso che si tratti di una bravata», disse Teddy distogliendo lo sguardo dagli appunti di Roger e tornando a guardare la preside, che lo ascoltava con attenzione. «Insomma, quelle cose che si fanno a scuola, un po’ per mettersi in mostra con i compagni e per fare colpo sulle ragazze. Sono sicuro che Jenkins riapparirà a breve con un bel racconto colorito delle sue avventure in giro per il parco. Se la caverà con una bella punizione e saremo tutti contenti.»

La McGranitt si appoggiò allo schienale della sua sedia, le dita incrociate in grembo. Sembrava pensierosa. 

«Per quanto io voglia essere d’accordo con la tua teoria, Lupin, ho come un brutto presentimento, su tutta questa faccenda», rispose quindi la donna. Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, verso il prato bianco di neve. «Ricordiamoci che Jenkins è fuori ormai da due, tre giorni, e ha nevicato, e si gela, questo credo sia uno degli inverni peggiori degli ultimi anni… Non posso pensare che abbia scelto proprio questo momento per la sua bravata. E non è da lui, la professoressa Simson3, la direttrice di Serpeverde, ha asserito più volte che si tratta di un ragazzo assennato e con la testa sulle spalle. Ambizioso e scaltro, questo sì, ma non avventato, e tantomeno stupido. Per questo non posso trovarmi d’accordo con te, mi dispiace.»

Teddy prese atto e annuì.

«Anche se spero ardentemente che tu abbia ragione», aggiunse lei. «Lo spero davvero tanto. Perché se Jenkins non si trovasse, potremmo essere costretti a chiudere la scuola…»

«Non dobbiamo disperare», esclamò Roger, sempre positivo. «E non dobbiamo in nessun modo pensare al peggio. Anche io spero che Teddy abbia ragione e che tutto si risolva con una bella punizione, ma al momento non so cosa pensare, detto in tutta sincerità. Spero di riuscire a farmi un’idea migliore parlando con gli studenti.»

«Intanto cominciamo a ricevere il mandato, così potremmo concentrarci sulla Foresta», intervenne Teddy sistemandosi meglio a sedere sulla sedia. «Direi che è un buon punto di partenza.»

La McGranitt annuì. «Molto bene. Vi ho fatto sistemare una vecchia aula in disuso al piano terra, poco lontano dalla Sala Grande, che potrete usare come base operativa per le ricerche, un posto facilmente raggiungibile dagli studenti in caso di bisogno. Questa sera a cena farò un annuncio al riguardo. A tal proposito, mi farebbe piacere avervi ospiti al tavolo degli insegnanti.»

«Il piacere è tutto nostro», rispose Roger con un sorriso. 

«Ottimo», concluse la preside alzandosi in piedi. «Questo è l’elenco dei compagni del sesto anno di Jenkins, divisi per dormitori. Per questioni di riservatezza non posso fornirvi l’elenco di tutti gli studenti della scuola, ma questo è un buon inizio.» E passò loro un foglio di pergamena fittamente scritto, e in perfetto ordine. Teddy intravide parecchi nomi conosciuti.

«Troverete Lucy Weasley fuori dal mio ufficio. Vi accompagnerà lei.»

«È la sua assistente, professoressa?» ghignò Teddy.

La McGranitt alzò gli occhi al cielo. «Mi fa piacere constatare che sei sempre il solito impertinente, Teddy Lupin.»

Teddy scrollò le spalle. «Mi conosce bene.»

Si congedarono dalla preside e ridiscesero per la scala a chiocciola di pietra, e Roger barcollò leggermente quando si lasciarono il gargoyle di pietra alle spalle. Lucy Weasley li aspettava davanti ad una delle ampie finestre, le mani nascoste nelle tasche del mantello. 

«Vi accompagno», disse solo. 

Teddy le si accostò mentre lei faceva loro strada verso il piano terra. «Caposcuola, eh?»

Lucy annuì.

«Perché non ne sono stupito?»

La ragazza scrollò le spalle. «Forse perché sono figlia di mio padre? Credo sia un motivo sufficiente.»

Teddy scosse la testa divertito, le mani in tasca. «Dimmi un po’, cosa ne pensi di tutta questa storia?»

Lucy gli lanciò una rapida occhiata. «Sinceramente? Credo che Jenkins sia un pallone gonfiato, e che sia tutta parte di una bravata bella e buona.»

«Mh», commentò Teddy, evitando di dirle che la pensava allo stesso modo. Non voleva e non poteva esporsi con gli studenti. «Un pallone gonfiato, dici?»

«Ah-ah», confermò la ragazza. «Sai, un po’ sbruffone, sicuro di sé, e anche piuttosto imprevedibile. Una di quelle persone che non inquadri mai davvero, e che celano sempre qualcosa sotto la superficie…»

«Ne parli come se lo conoscessi bene», asserì Teddy.

Lucy si fermò davanti ad una porta chiusa: dopo aver percorso una serie di corridoi e aver sceso lo scalone di marmo, erano giunti al pianterreno, e davanti all’aula di cui parlava la McGranitt, e che dava su un corridoio che univa la Sala d’Ingresso alla Sala Grande. Roger era rimasto poco più indietro e curiosava dentro una teca in vetro contente alcuni trofei. Erano abituati a far finta di “tergiversare” quando l’altro era in vena di domande, per non “spezzare” il filo conduttore che si instaurava a volte con le persone interrogate. Non che Teddy stesse interrogando Lucy Weasley, ma stava cominciando a farsi un’idea su tutta la faccenda.

La ragazza, dal canto suo, distolse lo sguardo da Teddy e lo lasciò vagare alle sue spalle. Sembrava imbarazzata. 

«Tanto lo verrai a sapere, è meglio che te lo dica io», disse infine. «Ho avuto… ecco, una storia… diciamo… con Karl. Con Jenkins», si affrettò a specificare. «L’anno scorso.»

Teddy annuì. «Quindi lo conosci bene.»

Lucy si appuntò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio. «Sì, insomma… non posso dire di conoscerlo bene, ma un pochino sì.»

«È per questo che parlavi di una bravata?»

«È nel suo stile, capito? Dietro la maschera da Prefetto-perfetto e ottimo studente, in realtà c’è ben altro.»

Lucy incrociò le braccia al petto, sulla difensiva, e Teddy capì che, per quel giorno, non gli avrebbe detto nient’altro. 

«Okay», disse quindi lui passandosi una mano dietro la nuca. «Ne terrò conto, Lucy, grazie.»

Il bel viso della ragazza si illuminò, contenta di essergli stata d’aiuto. Aprì la porta dell’aula e Roger si avvicinò, seguendoli all’interno. 

 

 

Teddy e Roger trascorsero l’intero pomeriggio a sistemare l’aula-quartier-generale, che consisteva in un ambiente di dimensioni medio piccole, con due finestrelle che davano sul retro del castello, piuttosto freddo e infestato dalla polvere, e che un tempo doveva essere stato un magazzino o un ripostiglio. Qualcuno - quasi sicuramente Gazza, prima di cadere vittima dei reumatismi - aveva dato una spazzata sommaria e negli angoli regnavano ancora incontrastate le ragnatele. Teddy aveva fatto levitare i banchi trovati accostati alle pareti al centro della stanza, a formare due scrivanie, una per lui e una per Roger. Avrebbero utilizzato la lavagna per i loro appunti sul caso, e una delle pareti libere come bacheca per raccogliere i vari indizi. Infine, con un colpo finale di bacchetta, avevano dato una pulita generale al tutto. 

«Stai scrivendo un appunto a Hestia sui centauri?» chiese Teddy a Roger avvicinandosi al collega, chino su un banco. Questi annuì. «Prima lo riceviamo, meglio è.»

Finito di scrivere, annunciò che sarebbe andato alla guferia, dove avrebbe preso in prestito uno dei gufi della scuola (messi a disposizione dalla preside) per spedire il messaggio a Hestia Jones, e lasciò quindi Teddy da solo. Quest’ultimo sedette sulla sua sedia e si guardò intorno, pensieroso. Studiò l’elenco degli studenti del sesto anno fornitogli dalla McGranitt. I ragazzi del Serpeverde erano cinque, compreso lo scomparso, tra i quali spiccavano i nomi di Albus Potter e Scorpius Malfoy. Se ricordava bene, non aveva mai sentito Albus nominare Karl Jenkins, ed era quindi arrivato alla conclusione che fossero semplici compagni di dormitorio, ma non amici stretti, non come Albus lo era di Scorpius, un’amicizia singolare, ma che tutti nel clan Potter-Weasley avevano ormai accettato. Teddy, dal canto suo, non si sentiva in dovere di giudicare nessuno, tantomeno suo cugino - gli veniva naturale come respirare, chiamarlo così, lui e tutti gli altri della famiglia. Decise che, quella sera a cena, avrebbe fatto quattro chiacchiere con suo cugino e il suo migliore amico, magari provando ad imbucarsi al loro tavolo. La McGranitt avrebbe capito, se avesse declinato il suo invito a sedere con lei e gli altri insegnanti. In fondo, si sentiva più vicino agli studenti che ai professori, non era mica vecchio come Roger. Teddy trattenne a stento una risata. 

 

 

La Sala Grande era sempre la stessa. Quattro lunghi tavoli, che in quel momento erano stipati di studenti riuniti per cena, e di piatti stracolmi di squisite pietanze, e il tavolo degli insegnanti al fondo, dove Teddy individuò subito la preside McGranitt, seduta al centro. Roger sedeva alla sua destra, si era già accomodato e si stava riempiendo il piatto, senza tanti complimenti. Candele accese fluttuavano sui tavoli e i fantasmi svolazzavano qua e là, a metà tra le teste degli studenti e il soffitto della sala, che riproduceva il cielo color notte di fuori. 

Numerose teste si girarono a guardarlo e Teddy si strinse nelle spalle, le mani buttate nelle tasche dei jeans. Prima di cena aveva fatto una corsa al villaggio e si era fatto una doccia - si sentiva addosso tutta la stanchezza di quella giornata cominciata prestissimo - e aveva trovato un gufo da parte di Victoire, dove gli scriveva di non preoccuparsi, che lei sarebbe stata bene, e di concentrarsi sull’incarico e che lo amava tantissimo. Si era lavato e cambiato ed era tornato al castello in tempo per la cena. Anzi, forse leggermente in ritardo. E ora si doveva beccare gli sguardi basiti degli studenti. Si era anche fatto i capelli blu per l’occasione. 

Individuò Albus e Scorpius al tavolo di Serpeverde, e James, da quello di Grifondoro, gli faceva segno di avvicinarsi, mentre mezza famiglia Weasley si sporgeva per salutarlo. Teddy fece loro un cenno della mano e raggiunse la McGranitt. Le spiegò brevemente la sua idea di sedersi con gli studenti per cominciare a carpire qualche impressione, e lei si dimostrò d’accordo. Invitò Roger a non scomodarsi, e si diresse verso i Grifondoro. Il fantasma del Frate Grasso agitò un bicchiere verso di lui a mo’ di saluto e Teddy ricambiò con un sorriso.

I Potter-Weasley lo accolsero proprio con il calore che si era immaginato. Lily Luna Potter gli si buttò addosso e lo abbracciò con affetto, stampandogli un bacio sulla guancia, fregandosene di essere sotto gli occhi di tutta la scuola. Hugo, seduto accanto a lei, gli rivolse un sorrisone e un «hei, Teddy». Roxanne gli allungò la mano e lui le diede il cinque, e la ragazza gli fece l’occhiolino. Con James si strinsero la mano, come due adulti, ma si vedeva che il ragazzo non vedeva l’ora di sommergerlo di domande. 

«Ri-ciao, Teddy», lo salutò Lucy ad alta voce, compiaciuta.

I suoi cugini si girarono a guardarla. 

«Come sarebbe a dire, ri-ciao?» esclamò Roxanne. «Quando vi siete visti, voi due?»

«L’ho scortato fino all’ufficio della preside, oggi. Andata e ritorno», spiegò la Caposcuola. «Ordini diretti della McGranitt.»

Roxanne alzò gli occhi al cielo e, girandosi, fece una smorfia. Erano sempre state come cane e gatto, quelle due.

«Senza Lucy mi sarei perso, non ricordavo quanto fosse grande il castello», mentì Teddy, e Lucy gli rivolse un sorrisone. 

«Okay, okay, abbiamo capito, ha fatto il suo dovere di Zuccaposcuola4», continuò Roxanne. 

«Teddy?» esclamò una voce dietro di lui, che andò a coprire le proteste di Lucy contro la cugina. 

Teddy si voltò e si ritrovò faccia a faccia con Rose Weasley. 

«Hei, Rose.»

«Che ci fai qui?» gli chiese lei abbracciandolo brevemente. 

«Ce lo stavamo chiedendo tutti quanti», intervenne James. 

«Be’, Roger e io siamo qui per cercare Jenkins», spiegò quindi Teddy, indicando con una spallata il suo collega, seduto al tavolo dei professori. «Siamo arrivati stamattina.»

Tra i ragazzi scese il silenzio. Roxanne si attorcigliava un ricciolo scuro su un dito e Rose, ancora in piedi accanto a Teddy, si portò una mano al viso, pensierosa. James fu l’unico a guardarlo in faccia, serio e imperscrutabile. 

«Abbiamo saputo», disse. «Della scomparsa, voglio dire. Nei corridoi non si parla d’altro, ormai.»

Teddy trovava comprensibile che gli studenti fossero sconvolti e preoccupati, che Jenkins fosse un amico stretto, un compagno o un semplice conoscente. Era pur sempre scomparsa una persona a Hogwarts, non succedeva tutti i giorni. 

L’arrivo trafelato di Louis Weasley tolse Teddy d’impaccio. Louis era ancora più alto e largo di spalle di quanto Teddy ricordasse e la pacca che gli assestò sulla spalla lo fece vacillare un momento. Anche lui rinnovò la curiosità sulla sua presenza e James gli spiegò quello che Teddy aveva appena detto loro su Jenkins.

«Ah, immaginavamo che la vecchia Minerva avrebbe allertato il Ministero, ma due Auror…» commentò Louis riempiendosi il piatto di purè. Non andò avanti e si limitò ad afferrare qualche salsiccia. 

«Ti fermi a cena con noi?» chiese James, entusiasta. 

«Stasera no, preferirei mangiare al tavolo dei Serpeverde, se non vi dispiace», rispose Teddy. «Vorrei raccogliere le prime impressioni dei compagni di Jenkins.»

James annuì e così fecero gli altri. A Teddy sembrarono per un momento sollevati, ma forse era tutta una sua impressione. 

«Allora andiamo, stavo giusto per raggiungere Scorpius», esclamò Rose prendendolo sottobraccio per condurlo via. 

«Ci vediamo in giro, ragazzi», li salutò Teddy agitando una mano e i suoi cugini ricambiarono con entusiasmo. 

Albus e Scorpius avevano assistito alla scena dal loro tavolo, e Teddy constatò che non avevano ancora toccato cibo, incuriositi da ciò che stava accadendo al tavolo dei Grifondoro. Lanciarono dapprima un’occhiata intensa a Rose e poi a Teddy, e gli sorrisero. L’accoglienza fu leggermente più tiepida che tra i Grifondoro, e Teddy la giustificò col fatto che era sempre andato molto più d’accordo con James e Lily, Albus era come se lo tenesse a distanza, e non volesse coinvolgerlo più di tanto nella sua vita, a differenza degli altri cugini, e con Scorpius aveva parlato poche volte, solo quando entrambi si ritrovavano  invitati a casa Potter. Quella coppia era stata davvero una sorpresa per tutti, ma dopo che Scorpius era diventato migliore amico di Albus, il fatto che uscisse con Rose era sembrato a tutti un naturale proseguo del suo rapporto con il clan. 

Dopo i primi saluti, Teddy si accomodò di fronte ai ragazzi, e Rose sedette accanto a Scorpius. Teddy notò che gli altri studenti del Serpeverde sembravano come aprirsi intorno a Scorpius e Albus, e nessuno si sedeva loro troppo vicino, quasi a non voler dare fastidio. O, piuttosto, come se volessero evitarli e tenerli a distanza. Qualcuno osservò Teddy per qualche minuto, incuriosito, ma distolse in fretta lo sguardo. 

«Allora, Teddy», cominciò Albus servendosi delle patate arrosto e passandogliele, «quindi la McGranitt ha chiamato gli Auror, eh?»

Teddy si versò alcune patate nel piatto, e Rose gli passò le braciole grigliate. «Grazie, Rose», disse. «Comunque sì, siamo stati allertati questa mattina.»

Albus annuì. «Cosa sperate di scoprire?»

Teddy osservò Albus da sopra il suo piatto e mandò giù un boccone. «Be’, speriamo di trovare Jenkins, prima di tutto.»

«Certo, ovviamente», intervenne Scorpius, diplomatico. «Ritrovare Jenkins è la priorità.»

Teddy osservò per un momento Albus, che giocherellava con le sue patate. Il ragazzo alzò lo sguardo e lo fissò su di lui. «Cosa vuoi sapere, Teddy?»

«Teddy vorrebbe sentire le nostre impressioni», intervenne Rose. «In quanto compagni di Karl…»

«Le nostre impressioni, Rose», la corresse Albus. «Di noi Serpeverde. Dico bene, Teddy?»

Teddy non distolse lo sguardo da Albus, chiedendosi quando il cugino fosse diventato così stranamente sottile. Lo ricordava silenzioso, ma senza quella luce di sospetto e furbizia che ora gli brillava negli occhi. 

«Siete suoi compagni di dormitorio», rispose quindi annuendo. «Mi interessa sapere cosa ne pensate di tutta questa storia.»

«Be’, non siamo propriamente amici, con Jenkins», disse Scorpius. «Dividiamo il dormitorio, e seguiamo alcune lezioni insieme. Tutto qui.» Dal suo tono, sembrava quasi che volesse chiudere il discorso, ma Teddy non glielo permise.

«Tutto qui? Avete trascorso quasi sei anni con questa persona e tutto ciò che mi sapete dire è che eravate compagni di scuola? Pronto, fin qui c’ero arrivato da solo. Tante grazie.»

«È normale andare più d’accordo con qualcuno e meno con qualcun altro, no?» Rose scrollò le spalle, ma Teddy non potè fare a meno di notare l’occhiata che le lanciò Albus.

«Quello che Rose vuole dire è che siamo sempre stati io e Scorpius», spiegò il ragazzo. «Solo noi due. Se vuoi saperne qualcosa di più su Jenkins, dovresti parlarne con Pucey e Rosier, laggiù», e Albus indicò col mento al fondo del tavolo. Teddy intercettò il suo sguardo e individuò due ragazzi, seduti l’uno di fronte all’altro, ed entrambi sembravano alti e ben piazzati, quasi sicuramente giocatori di Quidditch. 

Annuì. «Ci parlerò sicuramente.»

Teddy finì le sue braciole e intanto osservò i tre ragazzi seduti di fronte a lui. Albus non aveva più toccato cibo e aveva nascosto il viso in un foglio di pergamena dispiegato lì accanto, molto probabilmente un tema che doveva terminare per il giorno dopo. Scorpius stuzzicava dei fagiolini, ma con scarso interesse, e Rose gli sedeva accanto, spalla contro spalla, e beveva del Succo di Zucca. Teddy ne intercettò lo sguardo, ma non riuscì a leggervi niente.

 




Note:
 

1. Prudence: figlia di Rosmerta, storica proprietaria dei Tre Manici di Scopa; personaggio di mia invenzione.
2. Il professor Thomas: Dean Thomas, professore di Difesa Contro le Arti Oscure.
3. Professoressa Simson: Elizabeth Simson, professoressa di Pozioni e Direttrice di Serpeverde; personaggio di mia invenzione. 
4. Zuccaposcuola: il soprannome è ovviamente farina del sacco di Fred e George, ed è tratto da “Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban” di JK Rowling.

 

Non ho particolari precisazioni da farvi, quest’oggi, a parte che la storia procede, Teddy e Roger sono arrivati ad Hogwarts e hanno cominciato a raccogliere qualche impressione tra gli studenti; posso anticiparvi che, nel prossimo capitolo, ci sarà ancora un mono-POV di Teddy (che tra l’altro sta piacendo tantissimo e non sapete quanto ne sia felice!), tornerà una nostra vecchia conoscenza e i nostri Auror preferiti scopriranno una parte di verità. 

 

Vi ricordo che mi potete trovare su Instagram, nel caso vogliate aggiungermi per anticipazioni sui prossimi capitoli, æsthetics sui personaggi o anche solo quattro chiacchiere ♥︎ grazie a tutti come sempre, Marti.

 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO TRE ***


3.

CAPITOLO TRE

 

 

Teddy lasciò Roger di fronte alla porta della loro casa a Hogsmeade. Il suo collega avrebbe fatto colazione ai Tre Manici di Scopa, mentre Teddy aveva deciso di salire fino al castello e unirsi agli studenti, sia perché cenare in Sala Grande, la sera prima, lo aveva fatto tornare ai bei vecchi tempi, e quindi si era ritrovato come smanioso di ripetere l’esperienza, sia perché desiderava raccogliere informazioni e pettegolezzi e voci degli studenti in merito al caso Jenkins. 

La Sala Grande a quell’ora non era particolarmente popolata e Teddy sorrise constatando che l’abitudine di fare colazione all’ultimo minuto prima di correre a lezione era dura a morire. Individuò però un solitario James Sirius Potter al tavolo dei Grifondoro, e gli si avvicinò.

Il bilancio della cena con i Serpeverde non era stato così proficuo come aveva sperato. Aveva ritrovato un Albus Severus più silenzioso di quanto già non fosse stato in passato, e quasi circospetto, come se avesse di fronte un Dissennatore pronto a squarciargli il petto e risucchiargli l’anima, e Teddy non pensava davvero di risultare così ostile. Con il giovane Malfoy non aveva una particolare confidenza, quindi non si era stupito più di tanto dei suoi modi, nonostante fossero risultati più accomodanti di quelli dell’amico. E Rose, invece, non gliela contava giusta, Rose era quella più strana, come se fosse seduta sui tizzoni ardenti e fosse lì, tesa e attenta a non fare neanche un solo passo falso. Si era sentito osservato da lei durante tutto il resto della loro (silenziosa) cena, e ogni tanto aveva cercato di incrociarne lo sguardo, ma inutilmente. Sentiva che avrebbe dovuto lavorarci sopra, forse Rose era l’anello debole tramite il quale avrebbe potuto scoprire qualcosa in più su Jenkins. E si ripromise anche di parlare ancora con Lucy, a tal proposito. 

Raggiunto James, gli si sedette davanti senza tante cerimonie, sorridendogli.

«Teddy!» esclamò il ragazzo richiudendo un libro con un tonfo sonoro. 

«Spero di non disturbarti.»

«No, affatto. Fai colazione?»

«Be’, devo dire che sono venuto apposta.»

James rise e scosse la testa. «E pensare che speravo fossi venuto per me.»

«Ahimè no, ma posso dirti che sono corso qui non appena ti ho visto.» Teddy agguantò tre o quattro fette di pane tostato e cominciò ad affogarle di burro e marmellata. Poi si versò una generosa tazza di caffè e addentò il pane di gusto. Aveva sempre fame, per Tosca.

Per un po’, i due cugini mangiarono in silenzio. James polverizzò due porzioni di uova sode e quattro tazze di caffè, mentre Teddy, dopo aver dato fondo ai toast, si servì un bel po’ di uova strapazzate spruzzate con del ketchup. Faceva schifo, sì. 

«Non mangi da quanti anni?» gli chiese James osservandolo divertito.

Teddy scrollò le spalle. «Da ieri sera. Un tempo molto lungo.»

Osservò per un attimo James e si accorse solo in quel momento delle occhiaie viola che gli cerchiavano gli occhi, e che spuntavano da sotto gli occhiali, e dei capelli spettinati - spettinati più del solito, cioè - e della cravatta di Grifondoro mal annodata. James era sempre stato un po’ uno scavezzacollo, per questo andavano così d’accordo, loro due, ma in ambito scolastico e puramente accademico era preciso come pochi, aveva un rendimento piuttosto alto (secondo le parole di Ginny Weasley) e, una volta fuori da Hogwarts, avrebbe potuto intraprendere qualsiasi carriera avesse desiderato. Intelligente, brillante e divertente, James era praticamente l’anima della festa, a Grifondoro, e vederlo così stanco mise Teddy sul chi va là. Ma James non gli diede il tempo di fargli domande.

«Com’è andata la cena, ieri sera?» gli chiese. «Con i Serpeverde?»

«Oh, piuttosto bene», mentì Teddy. «Certo, la conversazione è stata un po’… come dire… spenta. Albus non è uno da tante parole, ma questo lo sapevo già.»

«Vero», disse solo James, portandosi alle labbra la tazza. 

«Mi ha consigliato di parlare con Pucey e Rosier, ha detto che sono amici di Jenkins», buttò lì Teddy ingoiando l’ultimo boccone di uova. 

James annuì. «Sì, così risulta anche a me. Se te l’ha detto Albus, è senz’altro vero.»

«Mi ha anche fatto capire che non sa assolutamente niente a riguardo. Sembrava quasi non avere un’idea su tutta quanta la faccenda…»

«Be’, sai, forse perché non aveva particolari rapporti con Karl. Né lui né tantomeno Scorpius.»

«Sì, è quello che hanno detto anche loro», constatò Teddy, pensieroso, afferrando la tazza del caffè. 

James lo guardava, inespressivo. In quel momento somigliava in modo incredibile a suo fratello. 

La loro conversazione venne però interrotta dall’arrivo dei gufi con la posta del mattino. Teddy alzò gli occhi al cielo al primo frullare d’ali e osservò un gufo marrone fermarsi proprio sul bordo del tavolo, accanto a James, la prima edizione de “La Gazzetta del Profeta” stretta nel becco. Il cugino buttò alcuni Zellini nel borsellino legato alla zampa dell’animale e questo riprese il volo. 

«Mi sono abbonato al Profeta», spiegò quindi dispiegando il giornale. «Per Godric!» aggiunse ad alta voce. 

Nella Sala Grande corse un brusio diffuso tra tutti quelli che avevano appena ricevuto il quotidiano.

«Che c’è?» chiese Teddy, incuriosito e vagamente allarmato.

James girò il giornale verso di lui e Teddy si ritrovò davanti l’immagine di uomo e una donna, con sopra un titolone in grandi caratteri neri: 

 

DOV’È KARL?

 

Teddy afferrò il giornale dalle mani del cugino per leggere l’articolo. Aveva un brutto presentimento.

Melinda Jenkins1 (secondo quanto diceva la didascalia sotto la foto) stringeva tra le mani una fotografia del figlio, scattata, a quanto sembrava, nel giardino di casa, e Karl a sua volta sorrideva e salutava con la mano. Sembrava quasi angelico. La donna piangeva senza tregua. Stuart Jenkins1, invece, il padre del ragazzo, cingeva le spalle della moglie con fermezza e annuiva, e parlava, probabilmente con i giornalisti. 

 

Dov’è Karl? Questa è probabilmente la domanda che i poveri coniugi Jenkins continuano a porsi, ancora e ancora, in questi giorni di angoscia e paura. 

Risale al 2 gennaio la scomparsa del loro unico figlio, Karl, studente modello della casa di Serpeverde. Nessuno dei suoi compagni ricorda di averlo visto dopo quella sera, né al tavolo della colazione, il giorno successivo, né durante le lezioni alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. 

La scuola della direttrice McGranitt non è nuova agli scandali e agli incidenti, dopo l’ormai tristemente noto “incidente della Giratempo” che ha recentemente coinvolto il figlio del salvatore del mondo magico, Albus Severus Potter, e il suo migliore amico, l’equivoco Scorpius Malfoy. 

Viene da chiedersi in cos’abbia sbagliato la cara, vecchia Minerva. Perché questo nuovo “incidente” ci fa sorgere innumerevoli interrogativi: la preside è ancora in grado, nonostante l’età avanzata, di dirigere la scuola dove i nostri figli - il futuro del mondo magico - dovrebbero essere al sicuro?; è in grado di mantenere alta la vigilanza?; il corpo insegnanti è un valido aiuto o è solo un branco di maghi incompetenti buono solo a tenersi calda la sedia?; e, più importante di tutte, ora, alla luce della scomparsa di Karl Jenkins: Minerva McGranitt sta facendo tutto il possibile per ritrovarlo? 

I coniugi Jenkins, genitori del ragazzo, lanciano un appello: «vogliamo sapere dov’è nostro figlio», chiedono. «Solo questo ci interessa, che Karl torni a casa sano e salvo», biascica la povera Melinda Jenkins tra le lacrime. 

«La scuola non ci sta rassicurando sulla situazione, siamo tenuti all’oscuro di tutto», aggiunge Stuart Jenkins, esimio membro dell’Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche. «La McGranitt ci ha assicurato che il Ministero sarebbe stato allertato, ora vogliamo qualche certezza, vogliamo che gli Auror mandati sul posto facciano tutto il possibile per trovare nostro figlio, cosa che la scuola non sta facendo.»

Sono amare le parole del signor Jenkins, e qui al Profeta non possiamo che empatizzare con questa povera coppia. E anche noi pretendiamo risposte. 

 

Rita Skeeter, inviata.

 

Teddy lasciò cadere il giornale sul tavolo. Era incazzato nero.

«Che stronza infame», esclamò, schifato.

James agguantò il giornale e scorse velocemente l’articolo, per poi scuotere la testa con amarezza. Teddy si guardò intorno: tutti i presenti lo stavano guardando, e i bisbigli cominciarono a susseguirsi rapidi. Entro mezzogiorno, avrebbe avuto gli occhi di tutta la scuola puntati proprio al centro della schiena - come se non li avesse già avuti prima. 

«Lascia perdere la Skeeter», disse James sistemandosi gli occhiali sul naso. «Quella vive per scrivere cazzate e seminare veleno. Mi chiedo come faccia a lavorare ancora…»

«Cazzate o meno, intanto sono scritte nero su bianco, e la gente vive per le tragedie e le storie lacrimose», commentò Teddy passandosi una mano tra i capelli, che erano ancora blu. «Siamo abituati a lavorare sotto pressione, ma non oso immaginare cosa dovesse succedere se…» Si interruppe, alzando gli occhi su James.

«… se?» lo incalzò l’altro.

Teddy scosse la testa. «Niente, sto solo dando voce a quel 10% di negatività che mi balla nel cervello, ma non gli darò modo di uscire. Lo troveremo.»

James ora lo guardava, ma non aggiunse altro. 

«È meglio che vada, devo mettermi al lavoro, prima che qualcuno avverta la Skeeter che me la spasso al tavolo degli studenti a ingozzarmi di uova e caffè.»

«Be’, a quanto vedo è la verità.»

Entrambi alzarono la testa e si trovarono di fronte una ragazza alta e magra, dai lunghi capelli biondi e due occhi azzurrissimi. Indossava la divisa del Grifondoro e stringeva al petto alcuni libri. 

«Polly», la salutò James, rigido. «Perché non la fai finita?»

«James, caro, ho appena iniziato», cinguettò lei.

Teddy realizzò all’improvviso chi aveva di fronte: Polly Chapman2, unica figlia di Eva Chapman, Capo dell’Ufficio Auror. La conosceva di nome, perché la Chapman non faceva altro che decantare le lodi della figlia, di quanto fosse bella, brava a scuola, retta e intelligente, e che un giorno avrebbe fatto una carriera brillante lì al Ministero e bla bla bla.

«Polly, hai anche un cognome?» chiese Teddy, fintamente ingenuo.

Lei girò la testa verso di lui, scocciata. «Chapman. Polly Chapman. Credo che lei conosca molto bene mia madre, Lupin

A Teddy non piacque come pronunciò il suo nome. Le sorrise falsamente, annuendo. «Oh, sì, certo che la conosco. Non parla mai molto di te, però, che strano.»

Polly gli lanciò un’occhiata furiosa e poi girò sui tacchi, uscendo dalla Sala Grande borbottando qualcosa come «mia madre lo verrà a sapere».

«Per Godric, che palla al piede», esclamò James. «Sei stato un grande, Teddy.»

«Non sono solito abbassarmi agli stessi livelli dei Vermicoli, ma se lo meritava», sospirò alzandosi in piedi.

James rise di gusto. «Non passerai dei guai con il tuo capo, spero?»

Teddy alzò le spalle. «Forse sì, anche perché Polly non perderà tempo per raccontare tutto a mammina, ma tanto Eva Chapman non piace a me e io non piaccio a lei, per cui… poco cambia.»

«Ora se non ti dispiace me ne vado davvero», aggiunse. «Raggiungo Roger e ci mettiamo al lavoro.»

«Da dove avete intenzione di partire? Se posso chiedere, ovvio.»

«Dalla Foresta Proibita. Non vedo l’ora di trovare quel cretino e andarmene. Senza offesa, ma mi ero dimenticato come fosse la vita dei sedicenni.»

James alzò le mani. «Nessuna offesa.»

«Ah, Teddy», aggiunse quindi mentre lui si allontanava. «Spero che lo ritroviate.»

Teddy annuì ed uscì.

 

 

Teddy trovò Roger davanti alla capanna di Hagrid, come stabilito. Era immerso in una fitta conversazione con l’insegnante di Cura delle Creature Magiche, nonché guardiacaccia di Hogwarts, che era come sempre alto e possente, e ormai aveva quasi tutti i capelli e la barba grigi. 

«Teddy!» lo salutò con entusiasmo quando li ebbe raggiunti. Lo strinse immediatamente in uno dei suoi abbracci stritolanti, sollevandolo da terra.

«Ciao, Hagrid», riuscì a biascicare a stento in mezzo a quell’intrico di braccia, vestiti di talpa e peli di barba.

Hagrid lo rimise giù e gli scompigliò i capelli. «Assomigli sempre più alla tua mamma e al tuo papà», quasi singhiozzò il mezzo-gigante, tirando fuori un immenso fazzoletto da una delle ampie tasche del cappotto. «E guardati un po’, un Auror fatto e finito!»

Teddy, vagamente imbarazzato come ogni volta in cui gli si parlava dei suoi genitori, cambiò discorso, anche e soprattutto per togliere Hagrid d’impaccio. 

«Non ti ho visto, in Sala Grande, ieri sera a cena.»

Hagrid si soffiò il naso fragorosamente, mentre Roger assisteva alla scena facendo finta di non esistere. Lanciò a Teddy un’occhiata nervosa ma divertita. 

«C’ho avuto da fare», rispose il guardacaccia. «Ho parlato con i centauri, abbiamo trovato un accordo. Il permesso ce l’avete, no?»

Roger si fece avanti e tirò fuori un foglio di pergamena da dentro il mantello, porgendolo poi ad Hagrid. «Lo abbiamo ricevuto ieri sera tardi.»

Hagrid annuì. «Benone. Ci stanno aspettando.»

Fece loro cenno di seguirli e Teddy e Roger, dopo essersi scambiati un’occhiata, gli andarono dietro. Hagrid camminò in silenzio per qualche metro, e si fermò ai margini di una radura debolmente illuminata dal sole di gennaio. Quella mattina faceva freddo e il fiato si condensava in grosse nuvolette nell’aria immobile.

Davanti a loro, un fruscio tra le fronde anticipò l’arrivo di due grossi centauri. Quello a sinistra aveva un bellissimo manto dorato e lunghi capelli biondi e un viso amichevole, quello a destra invece era scuro tanto quanto il primo era chiaro, con i capelli neri come l’ebano e un’espressione dura. Durissima. Hagrid prese l’iniziativa e fece un passo avanti, andando loro incontro. I centauri fecero altrettanto. Teddy e Roger seguirono Hagrid che, una volta raggiunto il centro esatto della radura, ruppe il silenzio. 

«Magorian», salutò il centauro scuro, «Fiorenzo», e rivolse un pallido sorriso a quello biondo. E fu proprio questo a prendere la parola per primo.

«Rubeus Hagrid, bentrovato.»

«Grazie per averci detto di sì.»

«Avete solo questa giornata, fino al calar del sole», intervenne il centauro chiamato Magorian che, Teddy ebbe modo di notare, visto da vicino era ancora più grosso e più alto di Fiorenzo. «I centauri non si curano delle vite umane, e i cieli ci chiamano a loro.»

«Questa giornata basterà», intervenne Teddy facendo un passo avanti. Magorian girò lo sguardo e lui si sentì improvvisamente piccolissimo e quasi invisibile, sotto quegli occhi neri e pulsanti. 

«Avete questa giornata, ma non troverete nulla, nella nostra foresta», rispose quindi il centauro, definitivo. «Umani», aggiunse alla fine. 

Fece un cenno a Fiorenzo ed entrambi sparirono nel folto della Foresta, da dove erano venuti.

 

 

Il sole era ormai quasi tramontato dietro le torri e le torrette del castello di Hogwarts, quando Teddy e Roger riemersero dalla Foresta Proibita, stanchi, sporchi di fango e demoralizzati. 

Quella giornata trascorsa quasi interamente nella foresta, a parte per una breve pausa all’ora di pranzo, non era stata prolifica come entrambi si erano aspettati - e augurati. Di Jenkins nemmeno l’ombra, e non avevano trovato neanche tracce di magia recente. Niente di niente. Nessuna traccia, nessuna anomalia, nessun incantesimo. 

Dopo aver fatto un breve rapporto alla professoressa McGranitt, nel suo studio, rapporto che si rivelò essere piuttosto scarno e deludente, visti i risultati delle ricerche, i due Auror tornarono a casa, a Hogsmeade, ma prima decisero di andare a farsi una bevuta alla Testa di Porco, dove non avevano ancora messo piede da quando erano arrivati. Percorsero un breve tratto di strada, superando l’Emporio degli Scherzi di Zonko, che in quel momento era chiuso, e l’ufficio postale, dal quale uscirono un paio di streghe, stanche e trafelate dopo aver concluso un’altra giornata di lavoro. Svoltarono in una viuzza e, al fondo, scorsero la ben nota insegna di legno con sopra riprodotta una testa di cinghiale mozza stillante sangue.

Il vecchio pub era proprio come al solito: buio, fumoso, e piuttosto squallido. Era illuminato a malapena da alcuni mozziconi di candela sparsi qua e là, e Teddy scorse un paio di maghi dai mantelli sudici e sporchi di fango seduti accanto ad una finestra incrostata, mentre una strega dai capelli rasati sedeva al lungo bancone appiccicaticcio. Roger ordinò due Burrobirre e lui e Teddy se le portarono ad un tavolino accanto al caminetto acceso, tranquillo e lontano dagli altri avventori. 

Bevvero dapprima in silenzio. Stranamente, era una serata tranquilla, al vecchio pub, con pochi e mansueti clienti che si facevano gli affari loro.

«La McGranitt non era affatto contenta», constatò Roger. 

Teddy scosse la testa. Ora la stanchezza lo stava piano piano sopraffacendo. Si sentiva esausto e avrebbe tanto voluto farsi una doccia e buttarsi a letto, soltanto a letto. E dormire per dieci ore filate. E gli mancava Victoire.

«Ero così sicuro che lo avremmo trovato, magari ferito da qualche parte, ma che lo avremmo trovato.»

«Sai bene che non mi ero ancora fatto un’idea precisa di tutta questa storia», disse l’altro. «A questo punto, i miei brutti pensieri si stanno rivelando qualcosa di più che dei presentimenti.»

«Non starai dicendo che pensi che sia…» iniziò Teddy. Non poteva crederci. Non voleva crederci. 

«Non lo so, okay?» si affrettò a precisare Roger alzando le mani. «Non lo so, ma quello che so è che quel ragazzo è ormai fuori da cinque giorni, cinque, Teddy, e la notte la temperatura scende sotto lo zero. Non sto dicendo che lo sia, sto solo dicendo che potrebbe benissimo esserlo.»

«Morto, dici?» replicò lui, quasi scocciato. Non aveva messo in conto che un banale caso di sparizione potesse trasformarsi in un’indagine su una morte. 

Roger alzò gli occhi al cielo e bevve un altro sorso di Burrobirra. «Dico. E non lo dico perché spero di avere ragione, Teddy, lo dico perché dobbiamo essere pronti a questa eventualità.»

«Noi siamo sempre pronti, siamo Auror», gli ricordò Teddy.

«Già, ma non qui. Non ad Hogwarts. Non dopo tutti questi anni, capito?» Il viso di Roger si adombrò, come a voler ricacciare indietro ricordi troppo amari da rievocare, soprattutto non quella sera, in quel pub buio e polveroso che puzzava di animali selvatici e sudore. 

Teddy annuì. Pensava di capire. 

Harry gli aveva parlato della Seconda Guerra Magica, sapeva tutto della Battaglia di Hogwarts, e di come erano morti i suoi genitori, e tanti altri insieme a loro. I Cinquanta Caduti. Il bene aveva trionfato, ma ad un caro prezzo. 

«Okay, ma siamo Auror, saremo in grado di gestire tutto ciò che verrà», disse. 

In quel momento, sperava che, aggrappandosi alla sua professione, alla sua vocazione, tutto il buio e l’incertezza e i dubbi sarebbero spariti, e che sarebbe rimasta solo la fredda analisi, la ferma lucidità che lo contraddistinguevano. 

«Hai letto l’articolo di quella Skeeter», aggiunse Roger. «Non oso immaginare quanta merda ci spalerà addosso, dovesse capitare il peggio…»

«Siamo abituati alla merda. Ci sguazziamo, nella merda.»

Roger non potè fare a meno di ridere e scuotere la testa. «Hai ragione, in fin dei conti.»

«Domani da dove iniziamo?» gli chiese Teddy scolando l’ultimo goccio di Burrobirra e poggiando il boccale con forza sul tavolaccio di legno.

«Procederemo a perquisire il resto del parco. Sperando di ottenere dei risultati. Sento il fiato dei genitori di quel ragazzo sul collo.»

Teddy annuì e si alzò in piedi. «Be’, domani è un altro giorno, no? Dài, andiamocene, offro io, stasera, non vedo l’ora di andarmene a dormire.»

 

 

«Revelio.»

«Revelio.»

Teddy rialzò la bacchetta, deluso. 

«Non demordiamo», disse Dean Thomas. Il docente di Difesa Contro le Arti Oscure si era offerto di aiutare nelle ricerche, e così ora affiancava Teddy nella perquisizione del parco di Hogwarts. 

Quella mattina, lui e Roger si erano divisi. Erano partiti dalla capanna di Hagrid, al limitare della Foresta, e avevano battuto la zona palmo a palmo, ma ancora senza risultati. Rimaneva più solo il Lago Nero, e Teddy e il professor Thomas erano nelle sue prossimità. 

«Ancora grazie per l’aiuto», bofonchiò Teddy. «Non avrebbe dovuto.»

«Oh, sciocchezze», replicò quello. «Sono un professore, è il minimo che possa fare per rendermi utile.»

Teddy non disse nulla, mormorando un altro «revelio». 

Alcuni studenti affollavano le rive del lago, imbacuccati per combattere il freddo ma intenti a lanciarsi palle di neve e a rincorrersi. Teddy ricordò con piacere i suoi anni a scuola, quando alla prima nevicata correva fuori con gli amici a rotolarsi nelle neve fresca, a ingaggiare aspre battaglie e a fare passeggiate con le ragazze - anche se, da quando aveva preso ad uscire con Victoire, al quarto anno, non c’erano state altre ragazze con cui passeggiare. 

«Cosa mi dice di Jenkins?» chiese Teddy. Pensò di approfittare di quel momento per saperne qualcosa in più. 

Dean Thomas si girò a guardarlo e si strinse nelle spalle. Teddy aveva avuto modo di conoscerlo tramite Harry, visto che l’uomo aveva cominciato ad insegnare solo da un paio d’anni, ma non avevano alcun tipo di confidenza, nonostante Dean sembrasse un tipo alla mano. 

«Era un bravo studente», rispose quindi il professore. «Non posso lamentarmi, nel complesso. L’anno scorso ha preso Eccezionale, ai G.U.F.O. della mia materia, quindi direi… eccezionale», aggiunse sorridendo. 

«A livello comportamentale, più che accademico, invece?»

Teddy mormorò un «homenum revelio», imitato da Thomas. 

«A livello comportamentale mi è sempre sembrato un ragazzo esuberante, di quelli che non stanno mai fermi, se capisce cosa intendo. Questo soprattutto i primi anni, poi si è calmato notevolmente, soprattutto dopo essere diventato Prefetto, l’anno scorso. Ha preso molto sul serio questo suo incarico fin da subito.»

«Sa se avesse delle antipatie tra gli studenti? Qualcuno che potesse avercela con lui?»

Dean Thomas si fermò per guardare Teddy in viso. Aveva il fiato corto dopo aver scarpinato su e giù per il parco.

«Queste mi sembrano le classiche domande che seguono una morte, Teddy Lupin», constatò, gli occhi sottili di chi cerca di decifrare chi ha davanti. 

Teddy lanciò un’occhiata al castello e ai ragazzi riuniti sulle rive del lago. «Dobbiamo essere preparati a tutto. A qualsiasi eventualità. Anche senza pensare al peggio, potrebbe essere stato vittima di un’aggressione o un dispetto, e potrebbe trovarsi impossibilitato a tornare al castello o a chiedere aiuto…»

L’uomo annuì. Si rigirò la bacchetta magica tra le dita. «Gira sempre con due ragazzi, due compagni di dormitorio…»

«Pucey e Rosier», lo anticipò Teddy. «Me lo hanno detto.»

«Spero che questo non lasci sottintendere nulla, ma non andava particolarmente d’accordo con Potter e Malfoy», aggiunse Thomas. 

Teddy lo guardò fissamente, cercando di elaborare le sue parole. Effettivamente, coincidevano con l’affrettata necessità di Albus Potter nel consigliargli di parlare con Pucey e Rosier, piuttosto che con loro, e con le pratiche constatazioni di Rose Weasley quando gli aveva detto che era normale andare d’accordo più con alcuni compagni piuttosto che con altri. 

«Definisca “non andare d’accordo”.»

«Be’, sa, le classiche cose che corrono tra adolescenti», spiegò l’altro. «Antipatia, competizione a livello scolastico, invidie e piccole gelosie… Tutto all’ordine del giorno.»

«Per esperienza personale, nulla è all’ordine del giorno, ormai.»

«Ha ragione anche lei, certo», annuì Dean. 

«Homenum revelio», enunciò intanto Teddy agitando la bacchetta. 

«Diciamo che, finché queste antipatie non sfociano in duelli improvvisati, allora una semplice scazzottata non desta particolari preoccupazioni.»

«Una scazzottata, dice?»

«È successo all’inizio dell’anno… all’incirca intorno a novembre, dopo la prima partita di Quidditch, se non ricordo male… Dovrebbe chiedere maggiori dettagli alla professoressa Simson, la direttrice di Serpeverde, lei saprà dirle qualcosa di più.»

«Ne terrò conto, grazie.»

In quel momento, un grido di terrore spezzò la bianca immobilità del pomeriggio. Teddy girò la testa di scatto verso il lago, sulle cui rive si affollavano tre o quattro studenti. Teddy e il professor Thomas si affrettarono e Teddy raggiunse i ragazzi per primo, affondando leggermente nella neve, la bacchetta alzata e pronta.

«Cos’è successo?» esclamò. «Cosa c’è?»

I ragazzi si fecero da parte, indicando la riva lì vicino, le dita tremanti.

«C’è… », iniziò una ragazza bassina e mora che non doveva avere più di tredici anni, «… c’è… un c-corpo… un cor-po…»

Teddy si avvicinò alla riva. Impigliato ad alcune canne lacustri, a faccia in giù nell’acqua gelida, c’era veramente un corpo. Teddy fece qualche passo dentro l’acqua, mentre Dean Thomas, raggiuntoli, cercava di calmare le ragazze, spaventate e tremanti. 

«Forza, forza, calma, adesso», lo sentì sussurrare. In risposta, le ragazze piansero ancora più forte. 

Teddy girò il corpo zuppo d’acqua e si ritrovò davanti il cadavere mezzo congelato e senza vita di Karl Jenkins.

 

 

Erano tutti riuniti nello studio della McGranitt: Teddy, Roger e i principali membri del corpo docente (tra i quali Neville Paciock, direttore di Grifondoro, era anche vicepreside). 

I Curatori Mortuari avevano appena lasciato il castello con il corpo di Karl Jenkins, diretti al San Mungo: lì sarebbe stata effettuata una Magi-autopsia3 per definire le cause della morte del ragazzo. Anche i coniugi Jenkins avevano appena lasciato Hogwarts. Erano stati avvertiti subito dopo il ritrovamento del cadavere e si erano Smaterializzati a Hogsmeade, dove una carrozza li aveva poi condotti al castello. Teddy aveva dovuto comunicare parecchie brutte notizie, nel corso della sua carriera, ma quella fu una delle occasioni più dure. Melinda Jenkins piangeva e singhiozzava in silenzio, compostamente, senza eccessi. Stuart Jenkins le cingeva le spalle, proprio come nella foto per il Profeta, e aveva lo sguardo duro ma pieno zeppo di dolore di chi vorrebbe piangere ma non può - di chi non può permettersi di crollare. Avevano insistito per vedere il corpo del figlio, avevano gridato e preteso, ma i Mortuari erano stati irremovibili. I Jenkins sarebbero stati ricevuti all’obitorio del San Mungo nel tardo pomeriggio dell’indomani, quando la Magi-autopsia sarebbe stata conclusa e il corpo ricomposto. Avevano lasciato Hogwarts in sordina, non prima che Stuart Jenkins addossasse alla McGranitt ogni colpa, minacciando di farle perdere il posto, ché avrebbe raccontato tutto alla stampa e per lei sarebbe finita. Inoltre, aveva dato a Teddy e Roger degli incompetenti, tutto sotto i singhiozzi disperati della moglie. E aveva girato i tacchi sbattendo la porta. 

Ora, la McGranitt sedeva alla sua scrivania, una mano alla fronte, immersa nei pensieri, e stanca, mortalmente stanca. Il litigio con Stuart Jenkins l’aveva provata, glielo si leggeva in faccia. 

La professoressa Simson, l’insegnante di Pozioni, nonché direttrice del Serpeverde, era in piedi accanto alla preside, e la guardava preoccupata, mentre del tè nero si auto-versava da una teiera in una tazza di ceramica a fiori. 

Neville Paciock si torceva le dita con ansia, seduto su una delle poltrone di fronte alla scrivania, mentre Dean Thomas se ne stava in piedi, le braccia incrociate sul petto, poco lontano da un tavolo in legno coperto di fogli di pergamena e mappe sulle Lune di Giove. 

Il piccolo Vitious, con tutti i capelli ormai grigi e i baffi bianchi, sedeva nell’altra poltroncina, sopra una pila di libri, e Simon Bones4, l’eccentrico insegnante di Trasfigurazione e direttore di Tassorosso, era in piedi accanto a Roger, entrambi scuri in volto. 

Teddy, infine, era poggiato alla mensola del caminetto e fissava a tratti le fiamme scarlatte, a tratti il resto delle persone riunite nella stanza, la testa piena del pianto composto di Melinda Jenkins. 

«Minerva, bevi un po’ di tè», la pregò la Simson, spingendo verso di lei la tazza a fiori.

La McGranitt alzò il viso, ed era una maschera di tante cose diverse: furia, forse, e sconcerto, tanta preoccupazione, ma anche la sua solida e ben nota determinazione. Teddy si voltò a guardarla e ne ebbe quasi paura. 

«Non posso credere che sia successo», disse quindi la donna. «Qui. Nella mia scuola. A Hogwarts

«Minerva…» cominciò Neville, ma lei non lo lasciò parlare. Si alzò in piedi, e sembrava altissima, quasi riempiva tutto quanto lo studio circolare. 

«Uno studente… morto… Non succedeva da…»

«Non penso sia bene rivangare il passato, ora», intervenne Teddy facendo un passo avanti. Tutti lo guardarono, stupiti che avesse interrotto proprio Minerva McGranitt. «E penso sia controproducente addossarsi colpe e responsabilità.»

Minerva lo guardava, gli occhi lampeggianti. 

«Lupin ha ragione», squittì Vitious agitandosi sulla sua pila di libri, che non sembrava particolarmente comoda. «Non è colpa tua, preside.»

«Sono d’accordo», annuì Dean Thomas, laconico ma fermo, e Teddy lo guardò, riconoscente. 

«Insomma, sì, Lupin potrà anche avere ragione, ma è indubbio che la scuola sia a rischio, Minerva.» Simon Bones fece un passo avanti, e il mantello blu notte gli si agitò intorno alle caviglie. «Il Ministero farà pressioni. Potremmo dover chiudere.»

«Non fasciamoci la testa prima di essercela rotta», disse di nuovo Teddy fermandosi dietro la sedia di Neville Paciock.

«Per esperienza personale, al momento è meglio attendere il rapporto dei Curatori Mortuari», intervenne Roger, professionale come sempre. «Ci darà infatti un’ottima indicazione, una chiara idea, di quello che potrebbe essere successo a Jenkins.»

«Quello che penso», disse Paciock grattandosi il mento, «è che si sia trattato di un tragico incidente. Gli incidenti succedono, quando si ha a che fare con degli adolescenti. Non vi ricordate i vostri anni qui a Hogwarts?»

«Ricordiamoci però che non aveva la bacchetta con sé», fece notare a tutti Elizabeth Simson, che intanto aveva lasciato il fianco della preside e si era avvicinata al professor Thomas. «Nessun mago abbandona mai la sua bacchetta.» Scosse la testa ma non aggiunse altro, gli occhi lucidi. Dean le passò un fazzoletto e lei lo ringraziò debolmente.

«Per stasera non c’è più nulla che si possa fare, temo», continuò Teddy, pratico. «Domani sera arriverà il rapporto e allora potremo cominciare a tirare le somme. Intanto, Roger e io stileremo degli elenchi di nomi di studenti che vorremmo sentire, e li forniremo ai direttori delle Case.»

La McGranitt annuì. «Molto bene. Allora non c’è davvero nient’altro che io possa fare, o dire, al momento.»

Teddy le sorrise in risposta. 

La preside congedò quindi i colleghi, e per ultimi rimasero solo Teddy e Roger, che le augurarono la buonanotte prima di dirigersi verso la porta di quercia. 

«Lupin», lo richiamò la donna. 

Teddy si girò, a metà strada tra lo studio e le scale. Roger stava già scendendo.

«Professoressa McGranitt…?»

«Credi che sia stato un…» ma non concluse la frase. Lo guardava fissamente, gli occhi espressivi, come a volergli dire quello che, a voce, non era in grado di esplicitare. 

«Non lo so, professoressa», rispose lui scuotendo la testa. Era sincero. «Proprio non lo so.»

 

 

FINE PARTE PRIMA

 


 

Note:
 

1. Melinda e Stuart Jenkins: genitori di Karl; personaggi di mia invenzione
2. Polly Chapman: studentessa del sesto anno Grifondoro
3. Magi-autopsia: come nel caso dei Curatori Mortuari, immagino che anche nel mondo magico vengano effettuati esami e “accertamenti” per verificare l’esatta causa della morte di una persona e, in questo caso, immagino anche che vengano effettuate speciali verifiche di tipo magico
4. Simon Bones: fratello della più nota Susan Bones; personaggio di mia invenzione

 

Eccoci qui con uno dei primi capitoli decisivi di questa storia, il capitolo nel quale finalmente viene ritrovato il corpo senza vita di Jenkins e le cose si mettono piuttosto male, visto che ora Teddy e Roger si ritrovano a dover indagare su una morte, e non più su una semplice sparizione; detto ciò, non dimenticatevi della nostra Rita perché la rivedremo molto presto; nel prossimo capitolo torneranno i ragazzi, e cominceremo a capire come se la passano (spoiler: non troppo bene, quindi preparatevi). 

 

Ringrazio come sempre chiunque segua questa storia e chi spende volentieri del tempo per farmi sapere cosa ne pensa, siete preziosi ♥︎ alla prossima settimana con il nuovo capitolo, Marti.

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Capitolo 5
*** CAPITOLO QUATTRO ***


Note iniziali: ci tengo a specificare che ciò che Rosier e Pucey pensano di Lucy Weasley non rispecchia nel modo più assoluto il mio pensiero, e me ne discosto, ma ho voluto inserirlo per esigenze di trama e di caratterizzazione.

 



PARTE SECONDA

 

4.

CAPITOLO QUATTRO

 

 

Quel martedì mattina di gennaio, James Sirius Potter si svegliò presto. Si girò e si rigirò nel suo letto, sprimacciò il cuscino, si tirò le coperte fin sopra la testa. Tutto inutile: il sonno lo aveva ormai abbandonato. 

L’orologio poggiato sul comodino diceva che erano le sette, quindi aveva ancora due ore prima dell’inizio delle lezioni. Si alzò scalciando via il piumone e, seduto sul bordo del letto a baldacchino, si stropicciò i capelli castani e sbuffò. Si diresse in bagno quasi barcollando e si lavò la faccia con l’acqua fredda, rabbrividendo nel pigiama leggero. 

I suoi compagni dormivano ancora e Louis Weasley russava leggermente. James si era abituato, il russare del cugino era ormai una ninnananna. 

Si liberò del pigiama e indossò la divisa da Quidditch. Dopo essersi infilato la felpa rossa dalla testa (un capo di vestiario che era stato recentemente aggiunto al “corredo” in dotazione ai giocatori, molto più pratico e caldo da utilizzare durante gli allenamenti invernali), agguantò gli occhiali sul comodino, il suo manico di scopa (una modernissima Firebolt 30001) e uscì senza fare rumore.

La Sala Comune di Grifondoro - un ampio spazio circolare affollato di divani, poltrone e tavoli in legno - era ovviamente deserta, ma il fuoco già crepitava allegro nel caminetto. James si arrampicò nel buco del ritratto e sbucò nel corridoio. Sperò ardentemente di non incontrare nessuno, perché non si era portato dietro il Mantello dell’Invisibilità. Poco male, avrebbe rifilato la solita scusa: allenamento mattutino. La divisa da Quidditch e la scopa da corsa lo avrebbero giustificato. 

Uscì dal castello e raggiunse il campo da Quidditch senza vedere anima viva, per fortuna. Non aveva voglia di parlare e di interagire con altri esseri umani, non a quell’ora e non con la mente affollata di pensieri che si ritrovava in quel momento. 

Non era la prima mattina che sgattaiolava fuori nel parco così presto, ormai senza sonno e preda delle preoccupazioni. Erano passati circa dieci giorni dall’incidente, ma a James sembrava fosse successo appena il giorno prima. Non riusciva a togliersi dalla testa la faccia di Karl Jenkins, che ormai popolava persino i suoi sogni. 

Salì sulla sua scopa, si diede una spinta con i piedi e in un attimo fu in alto, nel cielo grigio dell’inverno, a sorvolare le gradinate deserte e le montagnole di neve ammucchiate qua e là. Da lì poteva vedere il Lago Nero, ma distolse lo sguardo. Si concentrò solo sul volo. Volare gli schiariva la mente, lo faceva sentire più leggero, cancellava tutto lo stress e gli dava modo di respirare a pieni polmoni. Era un po’ la sua terapia, quella, meglio di qualsiasi altra cosa avesse mai provato e vissuto. Volare per James era sempre stato un po’ come camminare, e la scopa da corsa era come se fosse un naturale prolungamento del suo corpo. Suo padre gli aveva regalato il suo primo manico di scopa quando aveva compiuto sei anni, ed era un manico di scopa vero, non uno di quelli giocattolo per i bambini più piccoli, e gli aveva insegnato a volare come un adulto, nel giardino di casa Potter. E, da quel giorno, James aveva capito che non avrebbe voluto fare nient’altro, nella vita, a parte quello. 

Poi era cominciata la scuola, e sua madre gli aveva fatto capire, categoricamente, che avrebbe dovuto sudare sui libri, se voleva ancora continuare a volare. E così James aveva messo tutto se stesso anche nello studio e, al suo secondo anno, aveva passato le selezioni per la squadra di Quidditch, come Cercatore, naturalmente, proprio come suo padre e suo nonno. 

E così, James Sirius si era ritrovato ingabbiato in una duplice natura: era sempre lo scavezzacollo al quale bastava un sorriso impertinente e uno sguardo in tralice per cavarsela anche nelle situazioni più difficili, e al quale piaceva da morire fare scherzi agli studenti più piccoli e azzuffarsi con i Serpeverde, ma era anche lo studente modello, intelligente senza essere secchione, che imparava tutto con estrema facilità, amato dagli insegnanti per il suo acume e rispettato dai compagni, che a lui guardavano come una specie di “eroe mitico”, irraggiungibile, un modello per le future generazioni di maghi e streghe. Il suo cognome gli aveva aperto molte porte, e mai James se n’era vergognato, mai aveva desiderato di rinnegarlo. Era fiero di essere un Potter. 

Il pensiero di suo padre - e di quello che avrebbe pensato se solo avesse saputo - lo colpì in pieno petto. Cos’avrebbe pensato di lui? Lo avrebbe guardato deluso, e mortalmente triste, avrebbe scosso la testa abbassando le spalle, facendosi piccolo e abbattuto, e stropicciandosi gli occhi stanchi da sotto le lenti degli occhiali. E James si sarebbe vergognato amaramente delle sue azioni, e lo avrebbe pregato di perdonarlo, proprio lui che non lo aveva mai, mai deluso. Ora invece si sarebbe vergognato di suo figlio, sì, e forse il loro rapporto non sarebbe più tornato come prima. Aveva rovinato tutto. 

James scosse la testa, aggirando i tre anelli della porta e ripartendo a gran velocità, l’aria che gli scompigliava i capelli e gli entrava nei polmoni come mille aghi ghiacciati. 

Quello che aveva fatto non gli dava pace, e non solo per via di suo padre e di ciò che avrebbe pensato di lui, ma anche per se stesso, e per cosa James pensava di James. Quello che era successo andava ben al di là di qualsiasi scorribanda e scherzo e malefatta ordita ai danni del vecchio Gazza, di qualsiasi festa clandestina organizzata nella Sala Comune o diversivo per distrarre qualche insegnante e saltare le lezioni. «Io non sono così», aveva detto a suo fratello. Come se poi Albus lo fosse stato… uno che andava in giro ad occultare cadaveri e fare come se niente fosse, ma in quel momento, lì sulle rive del Lago Nero, aveva sentito di odiarlo un po’, e ora se ne vergognava, ché Albus era suo fratello, il suo stesso sangue, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggerlo. Nonostante tutte le burle, e gli scherzi, e le prese in giro bonarie di quand’erano bambini, e freschi studenti di Hogwarts, James gli voleva un bene dell’anima, come ne voleva a tutta la sua famiglia, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, neanche sotto tortura. Era pur sempre James Sirius Potter, aveva una reputazione. 

Scese in picchiata, quasi a sfiorare l’erba del prato, perfettamente tagliata ma ghiacciata, e poi risalì in alto, sempre più in alto, quasi a voler toccare il sole. Poi chiuse gli occhi e si lasciò planare dolcemente verso terra, guidato solo dall’aerodinamica della sua scopa e dall’aria che gli sfiorava dolcemente le orecchie. 

Quando si permetteva di abbassare le palpebre, vedeva come prima cosa il volto di Jenkins, gli occhi aperti e sbarrati nella notte, privi di vita, il corpo abbandonato sull’erba; vedeva se stesso allungare la bacchetta e Trasfigurarlo; vedeva Albus buttare la pietra nel Lago, e poi tutti e sei che risalivano verso il castello, lui a chiudere il corteo, il Mantello a drappeggiargli le spalle stanche; e infine era di nuovo nella Sala Comune, e a Rose tremavano le mani, e Roxanne gliele stringeva, e Caitlin… Caitlin lo aveva guardato un’ultima volta ed era salita nel suo dormitorio, e James l’aveva guardata allontanarsi. Non si parlavano da quella sera. 

James scese a terra, barcollando leggermente. Si passò una mano tra i capelli, ed era un po’ un tic, per lui, quel gesto che faceva da che aveva memoria, e che lo faceva sentire al sicuro. Si allontanò dal campo, diretto al dormitorio, dove si sarebbe cambiato prima di andare a colazione. 

Si fermò di colpo fuori dallo stadio quando intravide Teddy Lupin scarpinare sul prato, diretto al castello, le mani buttate nelle tasche del montone e i capelli verdi. James rimase nascosto finché non lo vide raggiungere il portone di quercia e sparire all’interno. Borbottò leggermente a mezza bocca e si incamminò a sua volta. In un’altra occasione avrebbe raggiunto il cugino e si sarebbe unito a lui, e sarebbe stato felice di vederlo e scherzare e chiacchierare. Aveva sempre amato le visite di Teddy a casa Potter, e il loro era un rapporto quasi fraterno. Odiava quella situazione, odiava dovergli mentire e odiava la maschera che doveva mettersi addosso tutte le volte in cui l’Auror gli si avvicinava e gli parlava. Avrebbe tanto voluto raccontargli tutta la verità, e liberarsi di quel peso, ma non poteva, non poteva farlo, non poteva permettersi che succedesse. 

James strinse i denti ed entrò nel castello. 


 

«… grazie, Prudence, buona giornata anche a te.»

Teddy e Roger si alzarono dal loro tavolo, dopo aver consumato una veloce colazione ai Tre Manici di Scopa a base di uova, bacon e caffè forte. Si strinsero nei cappotti e presero la porta, diretti al castello. 

Quello che non si aspettarono fu la gente che li stava aspettando all’esterno del locale. Una piccola folla si era riunita sulla strada e sul marciapiede, e si stringeva intorno ad una donna alta, i capelli biondi acconciati in perfetti boccoli e un completo gonna e mantello di un bel verde acceso, il colletto bordato di piume color porpora. Rita Skeeter. L’affiancava un fotografo, vestito di nero, che accanto a lei sembrava un corvo denutrito. 

La donna stringeva tra le mani un blocco e una Penna Prendiappunti e, non appena vide uscire i due Auror, sbarrò gli occhi, pervasi da una gioia quasi malsana, e si avventò su di loro, vorace come un rapace. 

«Lupin! Davies!» esclamò con voce acuta.

Dopo tutti quegli anni, la Skeeter non aveva ancora perso la voglia di assaltare la gente per intervistarla. 

Teddy girò leggermente il viso, alzando gli occhi al cielo. Roger fece un passo avanti. Era solito gestire lui il rapporto con la stampa, dopo quello che era successo una volta con un inviato della rivista “Il male oggi2, che aveva insistito per chiedere a Teddy come facesse a celare la sua natura di licantropo e lavorare allo stesso tempo come Auror, e lui per poco non gli era saltato addosso. 

«Rita», bofonchiò Roger, diplomatico come sempre.

«Ditemi un po’, come procedono le indagini?» chiese la donna avventandoglisi contro, e quasi abbarbicandosi sul suo petto.

«Sai che non possiamo rilasciare dichiarazioni in merito alle indagini, Rita, si tratta di informazioni riservate.» Roger l’allontanò con garbo, mentre lei alzò gli occhi al cielo con fare teatrale. Intanto, il fotografo scattava foto all’impazzata. Teddy si grattò un sopracciglio. 

«Uffa, ma neanche una piccola chicca per i lettori del Profeta, Roger caro? Piccola piccola.»

«Posso solo assicurare i tuoi lettori che stiamo facendo tutto il possibile per fare chiarezza su questo caso.»

«Peccato, speravo che potessi dirmi qualcosa in più sul rapporto dei Mortuari… » attaccò lei, il sorriso trasfigurato in un ghigno. «Quello dove c’è scritto che si tratta di una morte magica…»

«E lei come diavolo fa a saperlo, eh?» sbottò Teddy. Non ce la faceva più a starla a sentire, e quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Decisamente.

Roger si girò a trattenerlo e Rita quasi sobbalzò. 

«La vuole smettere di sputare veleno?» continuò Teddy. «È morto un ragazzo e lei viene qui solo per sperare di vendere qualche copia in più scrivendo cazzate!»

«Teddy, Teddy, ora basta», esclamò Roger. «Non dire altro.»

«Interessante, Lupin, la sua reazione denota un certo nervosismo di fondo, una sorta di… come dire… senso di colpa? Magari per non essere ancora riuscito a fare chiarezza? Per non essere riuscito a trovare il povero Karl ancora vivo? O per non avere avuto il coraggio di consigliare alla Preside di farsi da parte vista la sua Magi-sclerosi3

Il mondo di Teddy si fece rosso. Era tutto un trionfo di cremisi e borgogna, un arazzo di furia e odio e rabbia cieca. Sentì le braccia di Roger stringerlo ancora più forte, mentre interveniva un altro paio di maghi. 

«Lo ripeta!» esclamò quindi. «Lo ripeta se ne ha il coraggio. Non le permetto di insultare Minerva McGranitt davanti a me, ha capito? Se ne vada al diavolo, brutta stronza piena di—»

«Silencio!»

Teddy aprì la bocca ma non ne uscì alcun suono. Puntò gli occhi su Roger e questo lo guardò, serio, la bacchetta in mano, e poi lo spinse via, lontano dalla folla, lontano dalla Skeeter, lontano da tutto. Si fermarono solo ai margini del villaggio, quando Roger ringraziò i maghi che gli avevano dato una mano e liberò Teddy dall’incantesimo di silenzio. 

«Ma sei matto?» esclamò quindi, infuriato. In parte la bolla di rabbia si era sgonfiata, ma si sentiva ancora scosso e tremante, pieno di ceneri fumanti di furia trattenuta. «Non farlo mai più, okay?»

«Scusami», disse Roger dandogli una pacca sulla spalla. «Non ho avuto altra scelta. Ti saresti pentito di tutto ciò che stavi per aggiungere, te lo assicuro.»

«E invece no», replicò Teddy. «Penso tutto ciò che ho detto e non vedo l’ora di rivedere quella stronza maledetta per finire ciò che ho iniziato.»

«Teddy, ehi, ascoltami bene», disse Roger duramente, afferrandolo per le spalle e scuotendolo. Teddy non lo aveva mai visto così serio e quasi arrabbiato, se non con lui, per tutta la situazione che si era venuta a creare. 

«Camminiamo su un filo, capito?» continuò. «Dobbiamo cercare di fare luce sulla faccenda e credimi se ti dico che non vedo l’ora di tornarmene a casa, questa gita a Hogwarts si sta rivelando più ostica del previsto, e non solo perché non abbiamo trovato Jenkins vivo.»

«Anche io avrei voluto spaccarle la faccia per ciò che ha detto, soprattutto sulla McGranitt, ma è il suo lavoro, okay? La conosciamo, sappiamo ciò che fa e ciò che ama dire e scrivere per seminare zizzania e veleno e per vendere copie, per cui non possiamo permetterci di cedere alle sue provocazioni. Soprattutto non ora.»

«Dobbiamo già tenere a bada i Jenkins, e questo basta. E andare avanti con il nostro lavoro. E non posso permettermi di perderti e di vederti sollevato dall’incarico per aver risposto male a quella stronza, d’accordo? Siamo intesi

Teddy annuì stancamente. Il suo collega era stato chiarissimo. 

«Ora io torno là a cercare di riparare ai tuoi casini», concluse Roger. «Tu avviati al castello e mettiti al lavoro, io ti raggiungo.»

«Va bene», rispose Teddy passandosi una mano dietro la nuca. 

«Posso lasciarti solo o tenterai di assaltare qualche studente?» Roger lo guardò alzando le sopracciglia, e sorridendo.

Teddy scosse la testa. «Tranquillo.»

«Okay.» Gli diede un’altra pacca sulla spalla e tornò sui suoi passi. Teddy invece sospirò e si diresse a passo sostenuto verso il castello. 

Ora, a mente fredda, si vergognava profondamente della sua scenata. Roger aveva ragione: la Skeeter viveva per provocare gli altri, e lui ci era cascato con tutti e due i piedi. Stupido che non era altro. Si era comportato da ragazzino inesperto e tronfio, bravo solo ad alzare la voce per farsi valere. Si era trasformato in tutto ciò che aveva sempre disprezzato. 

Solo che l’accenno della giornalista al rapporto dei Mortuari lo aveva fatto uscire dai gangheri: come diavolo faceva ad esserne al corrente? Doveva essere un’informazione riservata, quella, e immaginò ci fosse stata una fuga di notizie dal San Mungo. Il rapporto era arrivato loro la sera prima, tramite Hestia Jones, e li aveva lasciati basiti e contraddetti: Jenkins non era morto per cause naturali, quindi avevano dovuto escludere la caduta accidentale, e la successiva morte per annegamento e/o assideramento, ma per cause magiche, nello specifico per un ritorno di fiamma di una bacchetta, presumibilmente la sua, che però non era stata rinvenuta presso il cadavere, e nemmeno nei dintorni del luogo del ritrovamento (avevano perquisito la zona e chiesto aiuto ai Maridi del Lago Nero tramite la McGranitt, ma con scarsi risultati); inoltre, la relazione medica riportava che il corpo di Jenkins era reduce da una Trasfigurazione recente, che lasciava tracce magiche sul corpo o sull’oggetto trasfigurato, tracce che potevano essere rinvenute con speciali Incantesimi Avanzati. Teddy e Roger erano quindi rimasti piuttosto di stucco nell’apprendere tali notizie, e questo apriva loro davanti svariati scenari, e il più plausibile di tutti era quello in cui Jenkins avesse tentato un incantesimo, contro chi non lo sapevano ancora, e che un ritorno di fiamma lo avesse ucciso, e che poi il suo corpo fosse stato Trasfigurato da colui che era stato vittima del suddetto attacco; successivamente, il corpo era finito nel Lago. Oppure, ipotesi agghiacciante, vi era stato gettato di proposito. Teddy si era arrovellato il cervello per buona parte della notte, prima di addormentarsi sfinito intorno alle tre, senza essere arrivato ad una conclusione. Quella mattina, prima di scendere a colazione, aveva scritto frettolosamente un appunto a Harry, allegando anche una copia del rapporto, per tenerlo informato sulle ultime novità.

Ora, arrivato davanti al portone di quercia, e trovatolo semiaperto, entrò nella sala d’ingresso, dove si imbatté nella professoressa Simson, l’insegnante di pozioni e direttrice di Serpeverde. Quando lo vide, la donna si fermò in mezzo al passaggio. La Simson era stata anche la sua insegnante, e Teddy ricordava che gran parte dei ragazzi aveva una cotta colossale per la bella professoressa dai lunghi capelli corvini e gli occhi azzurri che sapeva farli sentire piccoli come Asticelli. 

«Lupin», lo salutò. 

«Professoressa Simson», ricambiò lui. 

«Ti unisci a noi per la colazione?»

«Ho già mangiato ai Manici di Scopa, la ringrazio», rispose sorridendole. 

Era tornato all’improvviso uno studente, e sperò vivamente di non essere arrossito di fronte all’invito della Simson.

«Colgo l’occasione per comunicarle che avrei piacere di parlare con Pucey e Rosier, oggi», disse cercando di scacciare quei pensieri dalla testa.

La donna annuì. «Non dovrebbero esserci problemi, parla direttamente con loro per sapere quando avranno un’ora libera.»

«Molto bene.»

La Simson gli sorrise. «Sappi che puoi contare sulla mia più completa disponibilità, Lupin. Jenkins è—», ma si interruppe, girando gli occhi intorno, sospirando e scuotendo la testa, «era… un mio studente… Lo farei per chiunque studente, sia ben inteso, ma ovviamente capirai quanto io mi senta responsabile… e coinvolta…»

Teddy fece un passo avanti. «Non deve, nel modo più assoluto. E sappia che la collaborazione di voi insegnanti è molto importante, per noi, per cui grazie.»

La donna annuì e, rivolgendogli un ultimo, triste sorriso, veleggiò in Sala Grande e scomparve. Teddy sospirò e si diresse all’aula-studio. Si lasciò cadere sulla sua sedia e poggiò i gomiti sul ripiano in legno della scrivania. Sarebbe stata un’altra lunga giornata. 

 

 

Benjamin Pucey4 e Morgan Rosier4 attendevano fuori dall’aula quando Teddy arrivò. Il primo era basso e largo di spalle, i capelli biondicci tagliati corti e le maniche della camicia arrotolte fino al gomito, la stazza da Battitore. Il secondo era più fine e smilzo e leggermente più alto, fisico perfetto per un Cacciatore, i capelli scurissimi e spettinati e gli occhi più neri che Teddy avesse mai visto. 

«Salve», li salutò tirando fuori la chiave dell’aula e aprendo la porta. «Prego, entrate.»

Teddy aveva avuto modo di parlare con i due ragazzi durante il pranzo, quando si erano messi d’accordo per vedersi proprio quel pomeriggio, e gli avevano dato l’impressione di essere disponibili e volenterosi nell’aiutare a far luce sulla morte del loro amico. Li fece sedere su due sedie di fronte alla sua scrivania e sedette a sua volta, togliendosi il montone e facendo un po’ di ordine in mezzo alle pergamene spiegazzate e le piume d’oca spennacchiate. 

«Il suo collega non c’è?» chiese Rosier togliendosi il mantello. Sembrava a suo agio e per nulla teso, a differenza di Pucey, che continuava a mangiarsi le unghie. Teddy gli lanciò un’occhiata stranita e poi si rivolse all’amico. «Sta arrivando, ma noi possiamo cominciare.»

Tirò fuori il blocco degli appunti e fece mente locale sulle domande che si era prefissato di porre ai due studenti, ma poi chiuse tutto, decidendo di andare a braccio. Non gli erano mai piaciuti gli schemi pre-impostati che amavano tanto i suoi colleghi. Sistemò una Penna Prendiappunti su un foglio intonso di pergamena e poi poggiò i gomiti sul ripiano in legno, guardando in viso i due ragazzi che gli sedevano di fronte, e loro ricambiarono il suo sguardo, ora vagamente guardinghi. 

«Tutti mi hanno detto che eravate ottimi amici di Karl.»

Morgan Rosier annuì, lanciando un’occhiata circospetta alla Penna. «Ignorala», disse solo Teddy. «È una formalità.»

«Ci conosciamo da quasi sei anni», rispose quindi il ragazzo.

«Ci conoscevamo», lo corresse Pucey guardandosi intorno circospetto. 

L’amico lo guardò e annuì. «Ci conoscevamo, sì. È strano, non credo mi ci abituerò mai.»

«È normalissimo, soprattutto i primi tempi. Non fatevi problemi», li rassicurò Teddy.

«Ci siamo conosciuti ovviamente durante il nostro primo anno», continuò Rosier, che gli sembrò fin da subito il più loquace dei due. «Siamo stati Smistati tutti e tre a Serpeverde e abbiamo legato fin da subito.»

«Quindi non eravate solo semplici compagni di scuola e di dormitorio, ma anche ottimi amici.»

«Sì», intervenne Pucey. «Sa come succede… quando capisci subito che con quella persona ti troverai bene? Perché ragionate allo stesso modo e vi piacciono le stesse cose?»

Teddy annuì. Eccome se lo sapeva… Ripensò a tutti i suoi amici dei tempi della scuola, e ai pochi con cui ancora aveva dei contatti, seppur sporadici. Da quando era entrato all’Accademia Auror, le cose erano cambiate, le amicizie si erano sciolte e lui si era creato un nuovo giro tra i suoi compagni e futuri Auror e poi tra i colleghi del Dipartimento. 

«Ben e io facciamo parte della squadra di Quidditch, ma per Karl non è mai stato un problema, anzi, molto spesso ci raggiungeva agli allenamenti, per stare in compagnia e farsi due risate.»

«Eravate i suoi unici amici, qui? Nessun altro?»

Pucey scosse la testa, muovendosi a disagio sulla sedia. Sembrava seduto su un branco di Knarl. «Solo noi. Karl era una persona schiva e silenziosa, si faceva gli affari suoi e si dedicava allo studio. Non era l’anima della festa, se capisce cosa voglio dire…»

«Forse sì, ma magari il concetto è cambiato, con gli anni», rise Teddy, che voleva che quei due si lasciassero andare e tirassero fuori i dettagli “succosi”. Sapeva che dovevano essercene.

«Non è cambiato, glielo assicuro», rise a sua volta Rosier. Il suo era un sorriso che voleva essere affascinante, e Teddy lo immaginava a sfoderarlo quando più gli faceva comodo, e per ottenere tutto ciò che voleva e quando voleva. «Non era tipo da organizzare feste clandestine e portare dentro Firewhisky e altre cose così, per intenderci.»

«Qualcuno porta dentro Firewhisky?» si stupì Teddy, facendo finta di non ricordarsi quando lo facevano anche loro, al sesto e settimo anno, e nascondevano le bottiglie sul fondo dei bauli. 

«Oh, », asserì Rosier sempre con il solito sorrisetto. 

Pucey gli diede una gomitata e scosse la testa. L’altro si scansò e lo guardò irritato. 

«Hei, hei, hei», intervenne Teddy. «Allora? Cosa non mi volete dire? Vi devo ricordate che è un colloquio ufficiale con un Auror, nonostante vi sembri una normale chiacchierata ai Tre Manici di Scopa?»

Lo guardarono entrambi in silenzio, e Teddy capì che il suo tono autoritario e serio aveva sortito gli effetti desiderati. Era ora di ristabilire una certa gerarchia. 

«Pucey?»

«Non penso sia giusto buttare merda sugli altri.»

«Be’, potresti anche avere ragione, ma io voglio sapere tutto, quindi… Rosier?»

Morgan Rosier sorrise soddisfatto e accavallò una gamba sulla sua sedia. «Mi riferisco a Potter e Malfoy», iniziò. «So bene che li conosce, ma forse conosce una versione di loro ben diversa da quella che tirano fuori qui a scuola… Sono loro che procurano il Firewhisky e organizzano feste e fanno casino, e numerose volte hanno messo Karl in difficoltà, considerato il suo ruolo di Prefetto. E ovviamente la volontà di Karl di adempiere al proprio incarico e di riportare l’ordine in sala comune gli ha attirato le loro antipatie.»

«Vai avanti», gli fece cenno Teddy con una mano.

«Non si sono mai stati molto simpatici, ecco. Diciamo proprio per niente», si corresse subito. «Quei due sembrano i padroni del dormitorio, vanno in giro agitando la coda come pavoni e snobbando tutti noi, come se solo loro portassero dei cognomi celebri…»

Teddy cercò di non farsi scappare una smorfia. Se per cognomi celebri Rosier parlava del suo… be’… forse il suo concetto di “celebrità” andava rivisto. 

«Mi sembra che anche a voi non stiano così simpatici, o no?»

«Be’, a me sono piuttosto indifferenti», intervenne Pucey scrollando le spalle larghe. «E Scorpius gioca con noi nella squadra, io cerco di conviverci. Certo, non siamo amici», aggiunse. «Direi proprio di no, ma nemmeno ci odiamo, ecco.»

Teddy annuì. Rosier, davanti a lui, digrignava i denti. 

«Cos’è successo dopo la prima partita di Quidditch?» chiese loro Teddy sganciando la bomba.

Rosier sbuffò e Pucey scosse la testa, portandosi una mano alla fronte. 

«È meglio se glielo racconto io», rispose quindi quest’ultimo. 

«Sono tutt’orecchi.»

«Diciamo che non c’è molto da dire, in realtà. Abbiamo perso la partita e c’è stato un piccolo alterco fuori dagli spogliatoi, una di quelle situazioni dove ci si addossa la colpa a vicenda e si cerca di trovare un colpevole, nonostante un solo colpevole non ci sia.»

«Già, il Quidditch è uno sport di squadra, da quel che mi risulta.»

«Esatto, però si sa, quando si perde si è tutti incazzati, e i toni si alzano e scappano parole che normalmente nessuno direbbe… Insomma, per farla breve, Karl è sopraggiunto perché, come al solito, si unisce a noi nel dopo-partita, e ci aspetta fuori dagli spogliatoi. Noi siamo usciti discutendo e litigando e, in quanto Prefetto, ha cercato di riportare la calma. E lui e Albus si sono attaccati. Se le sono date di santa ragione, per Salazar!»

«Albus ha attaccato Karl, Ben», esclamò Rosier con veemenza, pronunciando il nome di Albus come se stesse parlando del diavolo. Teddy si chiese cosa mai avesse fatto o detto Albus Potter per suscitare una tale antipatia in Morgan Rosier. «Non cercare di difenderlo! Lui non doveva neanche essere lì!»

«Non lo sto difendendo, dico solo che tutti e due le hanno prese, quindi non vedo differenza.»

«Okay, calma», esclamò Teddy. «Fatemi capire bene: chi ha iniziato? E mi pare di capire che Albus abbia raggiunto la squadra come aveva fatto anche Jenkins, no?»

«Karl ha cercato di placare gli animi», cominciò a spiegare Pucey, ignorando l’ultimo appunto di Teddy. «In quanto Prefetto, appunto. Albus gli ha detto di non mettersi in mezzo, e Karl gli ha risposto che lui si metteva in mezzo quanto e come gli pareva, visto che tra l’altro neanche Albus era nella squadra, e poi gli ha tipo indicato la spilla da Prefetto che portava sempre… Mi sembra che Albus lo abbia snobbato, o comunque insultato, e allora Karl ha replicato e da lì Albus è scattato e gli è saltato addosso.»

«Be’, Albus lo ha insultato pesantemente, c’è da dire», si mise in mezzo Rosier con tono aspro. «Dicendogli qualcosa come “figlio di cagna” e altri insulti che non mi piace ripetere. Per questo dico che Karl è stato provocato ad alzare le mani.»

Teddy aveva qualche dubbio a riguardo. Gli sembrava praticamente impossibile che Albus Potter arrivasse a chiamare qualcuno “figlio di cagna”, ma mai dire mai, non voleva escluderlo ma neanche fidarsi più di tanto: aveva capito che le parole di Rosier erano filtrate dall’antipatia che provava verso il giovane Potter e, per tanto, erano da considerarsi poco attendibili.

«Dài, Morgan, si sono provocati a vicenda, non è che Karl se ne stia stato zitto, no? Gli ha risposto insultando a sua volta la madre di Potter, e allora si sono azzuffati», disse Pucey, vagamente infastidito. Teddy si chiese quanto avrebbero discusso, quei due, una volta usciti di lì.

«Ho capito, ho capito», disse lui quindi alzando le mani per sedare un altro volitivo intervento di Rosier nei confronti dell’amico. «Credo di avere piuttosto chiara la situazione. State certi che chiederò in giro, voglio far luce sul rapporto tra quei due.»

Rosier lo guardò, leggermente spiazzato. «È certo che le verranno fornite svariate versioni dell’accaduto. La nostra è la più fedele, glielo assicuro.»

«Ah, sì? E perché mai?» chiese Teddy ironico. Quel Rosier stava cominciando a dargli seriamente sui nervi. 

«Be’, siamo amici di Karl, e abbiamo a cuore ciò che è successo, e vogliamo che sia fatta chiarezza, e che venga preso il colpevole.»

«Il colpevole? Chi vi dice che ci sia un colpevole?»

«Credo che Morgan intenda dire la persona che molto probabilmente si trovava con Karl quella sera…»

«Allora, mettiamo ben in chiaro una cosa», iniziò Teddy. «E vorrei che spargeste un po’ la voce anche presso i vostri compagni, vista la vostra celebrità», qui rischiò seriamente di scoppiare a ridere, ma riuscì a trattenersi. «Non credete alle voci che girano, e a nulla che non sia frutto di un comunicato ufficiale da parte della autorità. In questo caso, di noi Auror. Non c’è nessun colpevole da acciuffare e nessun omicidio da risolvere, siamo intesi? Toglietevelo dalla testa.»

I due ragazzi annuirono, anche se non gli sembrarono particolarmente convinti.

«Siete stati voi a denunciare la scomparsa di Karl, dico bene?» Rosier rispose di sì, e Teddy continuò: «Mettiamo caso che sia scomparso proprio la notte del 2 gennaio… Nessuno dei due si è accorto di niente? Nessuno si è accorto che Karl si alzava e lasciava il dormitorio?»

«Eravamo tutti piuttosto stanchi, temo», rispose Pucey.

«E il tuo russare copre qualsiasi altro rumore», aggiunse Rosier alzando gli occhi al cielo. 

«Io non russo, cretino.»

«Okay, okay, non mi interessa, detto sinceramente», intervenne Teddy, paziente. 

«Lo abbiamo visto l’ultima volta mettersi a letto, e il giorno dopo, non vedendolo a colazione, abbiamo pensato che fosse già andato a lezione», spiegò Rosier. «Quel giorno non seguivamo lezioni insieme, e quando la sera a cena non lo abbiamo visto arrivare, abbiamo deciso di andare dalla Simson. E lei ci ha portato dalla preside.»

Teddy annuì. Il racconto coincideva con quello che gli aveva fornito Hestia quando aveva presentato il caso a lui e Roger. 

«C’è qualcos’altro di cui mi vorreste parlare?» chiese infine appoggiandosi alla sua sedia.

«Tenga d’occhio Potter e Malfoy», rispose Rosier. «Quei due sono sempre lì che tramano cose.»

«Pucey?» Teddy si rivolse all’altro, cercando di ignorare l’istinto che gli suggeriva di spedire un “Silencio” a Rosier. 

«Per adesso nient’altro», rispose stringendosi nelle spalle. «Spero solo che riusciate a capire cos’è successo, tutto qui.»

«Ah, a proposito!» esclamò Teddy. «Me ne stavo dimenticando… Ho saputo che Karl ha avuto una storia, diciamo, con Lucy Weasley. L’anno scorso, se non sbaglio…»

I due si scambiarono uno sguardo, sghignazzando. Per la prima volta da quando si erano seduti su quelle sedie, Teddy li vide coesi. 

«Che c’è tanto da ridere?»

«Niente, niente», rispose Pucey alzando le mani. 

«Ma no, è che Karl ha dovuto lasciarla perché la Weasley è una pazza furiosa», spiegò Rosier continuando a ghignare.

«Pazza furiosa?»

«Pazza furiosa», confermò l’altro. «Gli diceva quando parlare e cosa dire, si lamentava quando lui passava del tempo con i suoi amici ed era gelosa, non poteva tollerare di vedere Karl parlare con altre ragazze… E Karl… be’, riscuoteva un certo successo presso il pubblico femminile, mi capisce, no?»

I due si guardarono e scoppiarono a ridere, e si spintonarono come due orchi. Teddy avrebbe tanto voluto cacciarli via a calci nel sedere.

«Quindi si sono lasciati per colpa di Lucy, ho capito bene? Karl ha dovuto lasciarla…?»

«Eh, sì, amico, dopo un po’ non ne poteva proprio più. Tu cosa avresti fatto?» Rise Pucey.

Cercando di non mettere le mani al collo a Benjamin Pucey per quell’amico, Teddy ritirò tutte le attenuanti precedentemente fornite alla sua coscienza a favore del ragazzo, e ripensò alle parole di Lucy Weasley: «Credo che Jenkins sia un pallone gonfiato… Sai, un po’ sbruffone, sicuro di sé, e anche piuttosto schizzato. Una di quelle persone che non inquadri mai davvero, e che celano sempre qualcosa sotto la superficie…», e si chiese quanto di ciò che gli avevano detto quei due deficienti corrispondesse alla realtà. Sinceramente, tendeva a credere di più a Lucy. 

«Quello che farei io importa poco, direi», disse alla fine alzandosi in piedi. Ne aveva abbastanza di Pucey e Rosier, per quel pomeriggio e per il resto della sua esistenza. «Abbiamo finito, potete andare.»

I due Serpeverde si alzarono e Rosier recuperò il suo mantello, mentre Pucey si schiariva la gola. 

«Dovesse venirvi in mente qualcosa, qualsiasi cosa, sapete dove trovarmi, d’accordo?»

Annuirono e poi Rosier tese la mano a Teddy, che gliela strinse, e Pucey lo imitò prontamente. Volevano comportarsi da adulti, ma tutto ciò che Teddy aveva capito parlandoci era che erano solo due ragazzini, proprio come tutti gli altri. 
 



Note:

1. Firebolt 3000: erede della più nota Firebolt; di mia invenzione.
2. “Il male oggi”: rivista di mia invenzione.
3. Magi-sclerosi: ovviamente, non esiste nel canon, ho pensato ad una versione magica della nota malattia Babbana.
4. Benjamin Pucey e Morgan Rosier: Serpeverde del sesto anno; personaggi di mia invenzione.


Come vi avevo anticipato nelle note allo scorso capitolo, tornano i ragazzi e ritroviamo un James piuttosto combattuto e preoccupato, mentre Teddy ha a che fare niente di meno che con Rita Skeeter, in persona, questa volta, e alla fine deve pure sorbirsi Pucey e Rosier, che però gli forniscono un quadro piuttosto interessante delle vicende - seppur con i dovuti filtri. La pressione comincia a farsi sentire, ma il prossimo capitolo si apre con una bella (o almeno spero) scena tra Rose e Scorpius e continua con altri interessanti sviluppi, quindi mi raccomando non perdetevelo. E sappiate che sto già pensando ad un prequel o un sequel "delle fantastiche avventure di Teddy Lupin", vi terrò aggiornati.

 

Grazie come sempre per l’attenzione e per l’interesse che continuate a dimostrare per questa storia. Alla prossima settimana, Marti.

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Capitolo 6
*** CAPITOLO CINQUE ***


5.

CAPITOLO CINQUE


 

«Andrà tutto bene.»

Rose Weasley allungò la testa e depositò un bacio sulla mascella di Scorpius Malfoy, e un altro sul collo. Baci lievi, quasi frettolosi. Scorpius le sorrise e la baciò sulle labbra, a lungo. 

Avvolti nei loro mantelli invernali, le braccia di Scorpius stringevano Rose per tenerla al caldo, la schiena di lei contro il suo petto, le gambe intrecciate. Sedevano in cima alla Torre di Astronomia, poggiati al muro di fredda pietra, sicuri che nessuno li avrebbe scovati, non a quell’ora del mattino. Si incontravano spesso lassù, per stare un po’ da soli e parlare - o non parlare. 

«Andrà tutto bene, capito?» ripetè Rose. «Conosco bene Teddy, è una persona ragionevole.»

Scorpius annuì. Rose sembrava che stesse rassicurando più se stessa che lui. Non aveva gestito molto bene i giorni conseguenti l’incidente, dormiva male ed era sempre tesa e nervosa, pronta a scattare per un nonnulla, distratta e incostante. Parecchie volte la sorprendeva a fissare il vuoto, persa in chissà quali pensieri. Scorpius cercava di tirarle fuori quell’inquietudine che le colava dagli occhi come lacrime spesse e pesanti, ma a stento. Da quando si erano messi insieme ed era iniziata la loro storia, Rose gli si era aperta come un libro, misterioso e bello, ma un libro che Scorpius aveva imparato a leggere, nonostante i primi anni lì a scuola, che non erano stati facili, quando lei lo evitava nei corridoi e non mancava occasione per insultarlo e fargli capire quanto lo disprezzasse. Il loro rapporto era cambiato così tanto… Ora, Scorpius non avrebbe mai potuto concepire un futuro senza di lei ma, in quei momenti, temeva che Rose gli scivolasse via dalle dita come fumo. 

«Sta’ tranquilla», disse quindi lui. «Credo di essere in grado di gestire tuo cugino.»

«Lo so che lo sei.»

«Allora non preoccuparti, finirà prima di quanto pensiamo.»

Quel pomeriggio, Teddy Lupin lo aspettava nell’aula al piano terra nella quale aveva allestito una sorta di quartier generale, per fargli alcune domande riguardo il caso Jenkins. Anche Albus era stato convocato, e molto probabilmente sarebbero stati sentiti insieme, e questo pensiero consolava Scorpius. Con Albus al fianco, sarebbe stato in grado di affrontare anche un esercito di Teddy Lupin.

«Ci pensi mai, a come sarebbero potute andare le cose?» le chiese dopo alcuni minuti di silenzio.

Sentì il corpo di Rose irrigidirsi leggermente. «Quali cose?»

«Quella sera… quello che è successo…»

Rose sospirò. «Ci penso sempre. Ogni minuto.»

Scorpius capì che avrebbe dovuto procedere con i piedi di piombo, se avesse voluto arrivare al fondo di quella conversazione. 

«Non dovevamo neanche uscire… Poi Albus e Roxanne hanno insistito…»

«Sarebbe potuto succedere un’altra sera qualunque, Rose. Non possiamo saperlo…»

«Sì. Oppure no.»

«Certo, qui si gioca nel campo delle probabilità, allora.»

«Sei tu che mi hai chiesto come sarebbero potute andare le cose, o no?»

«Sì, sì, certo, ma mi riferivo a Jenkins…» si fermò Scorpius, passandosi una mano dietro la nuca, come faceva sempre quand’era nervoso. «Se quell’idiota non avesse alzato la bacchetta contro Albus… Se non si fosse comportato da deficiente, a quest’ora non saremmo finiti in questo casino.»

«Era fatto così. Prima o poi la resa dei conti sarebbe arrivata.»

«Nessuno poteva prevedere che sarebbe stata una resa definitiva, però.»

I due ragazzi rimasero in silenzio, entrambi pensierosi. Scorpius carezzò le braccia di Rose e lei si girò per guardarlo negli occhi, allungando le mani a cingergli il collo, e ad accarezzargli la schiena. 

«Ce la caveremo, non è vero?» gli chiese. Nei suoi occhi, Scorpius poteva leggervi tutta l’angoscia che anche lui provava, tutta la paura, tutto lo smarrimento. Le parole di Rose erano quasi una preghiera.

Scorpius annuì. «Come facciamo sempre. Non permetterò che ti succeda niente, capito?»

Rose inclinò leggermente la testa verso destra, in quell’automatismo che la faceva sembrare una bambina, piccola e sottile, fragile come porcellana. E altrettanto bella. 

Si mise in ginocchio e lo baciò, e Scorpius ricambiò il suo bacio, e fu un bacio vorace, quello, disperato, quasi, come se entrambi volessero annegare l’uno nell’altra, solo per trovare la pace. Rose gli infilò le mani sotto il maglione pesante, a cercare la pelle nuda del suo petto, e Scorpius la fece accoccolare in braccio a lui, anche le sue mani sotto il suo maglione, e la sentì sussultare per il freddo della sua pelle a contatto con quella calda di lei. Scorpius scese a baciarle il collo, succhiandole leggermente la pelle, e Rose gemette, cercando però di non fare rumore. Scorpius si lasciò scappare un singulto quando sentì la mano di Rose insinuarsi dentro i suoi pantaloni, e il minuto dopo, ripresosi dalla sorpresa, fece altrettanto, scendendo dal seno di lei fin sotto la gonna, facendole scivolare giù le spesse calze della divisa e cercando l’orlo delle sue mutandine. 

Non era la prima volta che lo facevano in cima alla Torre, ma era la prima volta che lo facevano con quella voracità tutta nuova, forse dettata dall’incertezza del momento, forse dalle parole che si erano scambiati, da ciò che sarebbe potuto succedere - da tutto ciò che sarebbe potuto andare storto, da quel pomeriggio in avanti, ché Scorpius aveva mentito, aveva mentito a Rose e aveva mentito a se stesso: non era per nulla tranquillo, affatto, all’idea di parlare con Lupin, a pensare alle domande che quello gli avrebbe posto, alle occhiate indagatrici da Auror, a ciò che avrebbe potuto leggere nei suoi occhi. Scorpius non era mai stato bravo a dire le bugie, non come Albus. E, da quella sera, anche lui dormiva male, solo che non lo aveva detto a nessuno; anche lui si sentiva nervoso e distratto, solo che cercava di nasconderlo; anche lui aveva paura, solo che provava a ricacciarla indietro, nei meandri della sua mente, e ad essere coraggioso abbastanza anche per Rose, solo per Rose. 

Intanto, Rose gli aveva abbassato i pantaloni in tutta fretta, e l’aveva guidato dentro di lei, mentre con le braccia gli si aggrappava alla schiena, e Scorpius abbassò la testa sul suo seno, i capelli rossi e sciolti di lei a fare loro da rifugio. Ora gemevano entrambi, gettando così alle ortiche ogni proposito di non fare rumore, incuranti di chi avrebbe potuto scoprirli, e incuranti anche del freddo di gennaio che si insinuava sotto i vestiti mal messi, ma che gli rendeva solo più vivi. 

«Rose…» gemette lui, e il tremore dell’orgasmo li travolse infine uno dopo l’altra, e Rose gli si abbandonò addosso, togliendogli i capelli biondi dalla fronte e baciandogli il viso, e gli occhi, e le labbra, soprattutto le labbra. Scorpius passò le mani sui suoi fianchi, sul sedere, sulle gambe, per poi risalire al suo viso e baciarla, dolcemente ora, senza fretta, scostandole i capelli ramati e passandoci poi una mano attraverso. 

Rimasero stretti ancora un po’, una addosso all’altro, lassù, in quel mondo che era solo loro, e che nessuno avrebbe potuto distruggere. 

 

 

Terminata la lezione di Erbologia, Scorpius raccolse le sue cose e corse fuori dalle Serre, diretto all’aula numero undici, dove lo attendeva Teddy Lupin. Spintonò leggermente alcuni ragazzini del secondo anno di Tassorosso, fermi in mezzo alla Sala d’Ingresso, e intravide Albus, in piedi, in attesa, le mani buttate nella tasche dei pantaloni, la borsa in pelle nera a tracolla. 

«Non preoccuparti, Teddy non è ancora arrivato», gli disse quando Scorpius l’ebbe raggiunto, il fiato corto. 

Albus gli sembrava impaziente, e scocciato, proprio come se quella convocazione costituisse per lui motivo di disturbo. Scorpius non aveva fatto altro che pensarci, da quando era sceso dalla Torre con Rose per andare a colazione. Non aveva paura, ma era preoccupato. Tutti loro si trovavano in una situazione di precario equilibrio, senza contare il fatto che chiunque avrebbe potuto cantare e andare a raccontare tutto alla Preside o a Teddy, solo per togliersi un peso dallo stomaco e sentirsi meno in colpa, proprio ora che la pressione cominciava a salire e sarebbe stato sempre più difficile simulare e mentire. 

Albus, almeno all’apparenza, sembrava tranquillo, come se quella situazione in fondo non lo toccasse e riguardasse qualcun altro, ma non loro. Rose lo preoccupava, ché non sapeva se sarebbe stata in grado di reggere lo stress, e temeva che, forse, prima o poi, avrebbe ceduto di fronte alla realtà di ciò che avevano fatto. Nonostante fossero suoi amici, Scorpius non sapeva bene cosa pensare degli altri. Roxanne non gli era sembrata particolarmente scossa, anzi, e la ragazza aveva la tempra dura di chi era abituato a resistere. Caitlin era forse quella più preoccupata e tesa tra tutti, ma Scorpius sapeva che non era tipo da fare la spia. James invece era un’incognita, ma era sicuro non li avrebbe messi nei casini. Per Albus. E poi, in fondo anche lui ci era dentro fino al collo, con quello che aveva fatto per aiutarli.

In quanto a lui… be’, non gli veniva facile parlarne, né ad ammetterlo con se stesso, né tantomeno con Rose o con Albus, ma sperava davvero che quell’interrogatorio - ché di un interrogatorio si trattava, era inutile girarci intorno - si sarebbe concluso con un buco nell’acqua e che Teddy non avrebbe trovato elementi per sospettare di lui - o degli altri. 

In quel momento, il flusso dei suoi pensieri venne interrotto proprio dall’arrivo di Teddy Lupin, tutto trafelato. «Scusate, aspettate da tanto?» chiese loro armeggiando con la porta. 

«Più o meno da qualche ora», rispose ironicamente Albus.

Teddy si girò a guardarlo severamente, scuotendo la testa. Si fermò davanti alla porta aperta e allungò una mano come a volerli fermare. «Ah-ah, uno alla volta, ragazzi», disse. 

Scorpius, ora preda di un primo accenno di puro panico, si voltò a guardare Albus, che a sua volta fissava Teddy duramente. «Pucey e Rosier sono entrati insieme, a quanto ne so.»

Teddy spalancò le braccia. «Non credo di essere tenuto a spiegarti i miei metodi, Albus. Scorpius», aggiunse, «prima tu.» Senza degnare Albus di un secondo sguardo, fece strada all’interno. Scorpius lanciò un’ultima occhiata all’amico, gli occhi sbarrati, e quello gli restituì l’occhiata, imperscrutabile come sempre. Sembrava non avere paura di niente e di nessuno. Scorpius seguì l’Auror nell’aula, richiudendosi la porta alle spalle. 

«Accomodati», disse Teddy prendendo posto in una sedia dietro una scrivania improvvisata con dei vecchi banchi. 

Scorpius si sedette e si guardò intorno. A quanto gli risultava, quell’aula era sempre stata chiusa, nonostante ogni tanto lui e Rose vi si fossero insinuati per cercare un po’ di privacy, e Gazza la utilizzava come magazzino e deposito. Ora, Teddy e il suo collega l’avevano sistemata, ripulita e organizzata come una sorta di Quartier Generale, da dove gestire e portare avanti la loro indagine. Scorpius adocchiò alcune foto di Karl Jenkins, pagine di appunti fittamente scritti e due prime pagine della Gazzetta del Profeta: una era quella del sabato, con l’articolo dedicato alla scomparsa del Serpeverde, l’altra quella uscita la sera del lunedì, quando era trapelata la notizia del ritrovamento del corpo, con articoli firmati ovviamente da Rita Skeeter. Scorpius li aveva letti entrambi, visto che era abbonato al quotidiano, che gli arrivava tutti i giorni via gufo. 

Teddy tirò fuori dalla borsa un altro numero del Profeta, che lanciò sulla scrivania quasi con rabbia. Scorpius riconobbe l’edizione di quella mattina, dove la Skeeter aveva definito Teddy Lupin un “maleducato e un cafone che sguazzava nei sensi di colpa e si sfogava sugli altri con insulti e deprecabili esternazioni”. Scorpius non stentava a immaginare cosa ne pensasse l’Auror che ora gli sedeva davanti. 

«Bene», cominciò quest’ultimo dando una scorsa ad alcuni appunti. Sistemò la Penna Prendiappunti e alzò il viso su di lui. «Comincerei con il chiederti quando hai visto Jenkins per l’ultima volta…?»

Scorpius lanciò un’occhiata alla Penna, che forse non faceva che alimentare il suo nervosismo, ma cercò di non guardarla, e si rivolse a Teddy. 

«La sera del due, se non ricordo male…» Con gli altri, si erano messi d’accordo su una versione unanime, e sul non rivelare troppi dettagli, per non destare sospetti. «Albus e io eravamo seduti in Sala Comune dopo cena, e quando ce ne siamo andati a dormire Jenkins era ancora lì con Pucey e Rosier.»

«Quindi quella è stata l’ultima volta in cui lo hai visto», ripetè Teddy, e Scorpius lo guardò leggermente interdetto. Annuì.

«D’accordo, e non ricordi di aver sentito nulla, nel corso della notte? Nulla che possa averti fatto pensare che qualcuno stesse sgattaiolando fuori dal dormitorio?»

«Nulla di nulla. E poi Pucey russa», aggiunse a mo’ di spiegazione, scrollando le spalle.

«Sì, così ho saputo», commentò Teddy ridendo sotto i baffi.

In quel momento, a Scorpius sembrò tutto a un tratto un ragazzino, con i capelli verdi e un inizio di barba, e quello sguardo scanzonato e quasi provocatorio, ma si disse di non cascare nella trappola che forse Teddy voleva tendergli, come se quella fosse una normale chiacchierata al pub e loro fossero due amici che si raccontavano la loro giornata. 

«Tornando a noi… Risulta che, il giorno dopo, nessuno abbia visto Jenkins al castello, né in Sala Grande per i pasti, né in classe. Avevate qualche lezione in comune, voi due?»

Scorpius si portò una mano al viso, riflettendo. «Be’, sì, sicuramente Pozioni e Incantesimi… E poi…», esitò, «… no, solo quelle, mi sembra.»

«Mh», commentò Teddy. «Non l’hai visto a nessuna delle due?»

«Quel giorno non avevamo lezione di Incantesimi. E a Pozioni non l’ho visto, no.» Ora Scorpius cominciava a trovare scomoda quella vecchia sedia di legno, e gli sembrava di esservi seduto da ore e non solo da qualche minuto. 

Teddy annuì. «Leggo testualmente: “Karl era una persona schiva e silenziosa” che “si faceva gli affari suoi e si dedicava allo studio”. Inoltre “non era tipo da organizzare feste clandestine e portare dentro FireWhisky e altre cose così”…», iniziò. «Ti risulta?»

Scorpius scosse la testa, amareggiato. Pensava di sapere da chi provenivano quelle cazzate. «Se possiamo definire schiva una persona sempre pronta ad impicciarsi negli affari degli altri e a controllare tutto ciò che fai per coglierti in fragrante, allora sì.»

«Mi hanno detto che prendeva molto sul serio il suo incarico di Prefetto…»

«Fin troppo sul serio, direi. Era come ossessionato dalla mania di mantenere l’ordine e di acciuffare i colpevoli di qualche immaginario reato», rispose Scorpius, irritato. «Non si poteva vivere, in Sala Comune. E cercava di contrastare qualsiasi cosa facessimo.»

«Facessimo

«Albus e io.»

«Mh», sembrò riflettere Teddy. «Cosa mi dici del FireWshisky e delle feste, invece?»

Scorpius si lasciò scappare una risata ironica. «Cosa vuoi che ti dica? Sono cose che si fanno, tu non le facevi, ai tuoi tempi? Le fanno tutti, e Jenkins era solo buono a lamentarsene…» Forse non avrebbe dovuto lasciarsi scappare quell’ultima frase, ma per Salazar!, Pucey e Rosier (ché sicuramente erano stati loro a raccontargli quelle cose) avevano fornito a Teddy un quadro ben poco lusinghiero di lui e Albus. D’accordo, non erano due santi, ma non pensavano di comportarsi né meglio né peggio di tutti gli altri studenti della scuola. 

Fino a quella sera… 

Scacciò la voce della sua coscienza e tornò a concentrarsi su Teddy, che lo stava osservando attentamente. 

«Cos’è successo invece dopo la prima partita di campionato? Tu sei nella squadra…» Teddy sfogliò i suoi appunti, «…come Cercatore, giusto?»

Scorpius annuì. «Nel dopo-partita, Albus è solito aspettarmi fuori dagli spogliatoi. Proprio come fa Jenkins con i suoi amici. Peccato che quel giorno fossimo tutti piuttosto tesi… e incazzati per aver perso contro Grifondoro… E così abbiamo cominciato a darci addosso e ad incolparci a vicenda per aver giocato così male.»

«Nott1, il capitano, ha cercato di rimetterci in riga, ma una volta che anche Albus e Jenkins sono entrati nella discussione, non c’è stato verso, anzi, i toni si sono alzati ancora di più. Karl si è messo in mezzo affermando come al solito la sua superiorità, in quanto Prefetto, e Albus gli ha detto di non immischiarsi. L’altro ha replicato dicendo che lui aveva ogni diritto di farlo, e ha tipo concluso sussurrando un insulto ad Albus che riguardava sua madre… Ginny», specificò Scorpius, «… e quindi anche Albus ha insultato la madre di Jenkins, Jenkins ha tipo rincarato la dose su Ginny e alla fine Albus gli è saltato addosso.»

«Lo so che non avrebbe dovuto», aggiunse in fretta. «Gliel’ho detto e ripetuto, ma sai com’è fatto Albus… Scatta per qualsiasi cosa, e quello che gli ha detto Jenkins non era una cosa qualsiasi, quindi puoi immaginare la scena.»

«Singolare», commentò Teddy leggendo alcuni appunti.

Scorpius si limitò a guardarlo, e a chiedersi cosa ci trovasse l’altro di così singolare in ciò che lui gli aveva appena raccontato. Sapeva che Teddy era una persona… particolare, diciamo, ma in fondo non avevano mai interagito molto, loro due. 

«Pucey e Rosier mi hanno raccontato lo stesso episodio ma con… parole diverse», spiegò tornando a guardare Scorpius.

Quest’ultimo sbuffò, mettendosi meglio a sedere sulla sua sedia. «Ci credo. Quei due erano pappa e ciccia con Jenkins, è normale. Com’è normale che io l’abbia vissuta dal punto di vista di Albus… Quegli insulti erano davvero pesanti.»

«Tipo?»

«Tipo “figlia di cagna”, o una roba molto simile.»

«Singolare anche questo.»

«Okay, cioè?» gli chiese Scorpius, che cominciava ad averne abbastanza di tutta quella messa in scena. 

«Cioè che quei due mi hanno detto che Albus ha chiamato “figlia di cagna” la madre di Jenkins, e da lì è partita la rissa.»

«Non ci posso credere», esclamò Scorpius. «Non pensavo che sarebbero caduti così in basso…»

«Be’, tra voi non scorre buon sangue, e su questo siamo d’accordo.»

Scorpius annuì. Tutta la stanchezza della giornata minacciava di sopraffarlo. In quel momento voleva solo sprofondare il viso tra i capelli di Rose e dormire cullato dal suo profumo.

«Siamo d’accordo, sì.»

«Forse dipende dalla vostra… come dire… tendenza a “darvi le arie”?»

Scorpius capiva che Teddy volesse provocarlo, volesse tirare fuori una reazione forte, sbattendogli in faccia le dichiarazioni di quei due deficienti dei suoi compagni, ma lui non avrebbe ceduto. Non ora che sentiva che ce la stava facendo.

«Sarà», commentò solo scrollando le spalle. «Non ci interessa ciò che gli altri pensano di noi, in fondo.»

Teddy annuì, pensieroso. Si grattò il mento. «Questo lo avevo capito.»

Scorpius non disse altro, si limitò a guardare Teddy negli occhi finché quello non lo costrinse ad abbassare i suoi. C’era come una strana luce, al fondo di quegli occhi… una luce che non gli piaceva. 

«Un’ultima domanda e poi faccio entrare Albus», iniziò Teddy poggiando i gomiti sulla scrivania e sporgendosi verso di lui. «Tu cosa pensi sia successo?»

 

 

Albus strinse gli occhi. Cercava di studiare Teddy, come a volergli cavar fuori ogni intenzione e ogni allusione, ma l’uomo che aveva di fronte era intelligibile - proprio come lui. Be’, non avrebbe dovuto stupirsene, dopotutto era un Auror.

«Cosa penso che sia successo? Io

Teddy annuì, invitandolo a continuare.

«Sinceramente, penso che Jenkins sia uscito in piena notte, per fare cosa non lo so, e neanche mi interessa, e che abbia fatto il coglione e che quel suo atto di estrema e banale stupidità abbia causato il ritorno di fiamma, e la sua prematura dipartita», spiegò, chiaro e conciso, senza giri di parole. 

Dentro di lui provava una sottile, impalpabile e ruvida ansia, un tarlo che lo consumava e che partiva dalle profondità più nere della sua anima, da quel fondo torbido e inesplorato dal quale nasceva ogni cosa, in lui, ogni turbamento, ogni accesso d’ira, ogni preoccupazione, tutto ciò che di più oscuro riusciva a contenere, un retrogusto amaro che aveva imparato ad accettare e che lo rendeva diverso dai suoi fratelli, e dalla sua famiglia, da loro che erano semplicemente buoni, e limpidi, e giusti. Albus Severus Potter aveva paura, forse per la prima volta nella sua vita. E non era così bravo a gestirla, la paura, e si limitava a tenerla a bada il più possibile, almeno fino a quando non si ritrovava da solo e allora poteva togliersi la maschera e sudare dalla fronte, e quel sudore si mischiava alle lacrime, ed era salato e spesso. 

Teddy ora lo guardava con attenzione. Infine annuì. «Diciamo che Scorpius ha detto più o meno la stessa cosa, senza la parte del “coglione” e della dipartita.»

«Scorpius è un piccolo Lord, sempre stato.»

«Tu invece sei più grezzo, no? Più… come dire… diretto, e quasi brutale.»

Albus si passò una mano tra i capelli, e quel gesto gli fece pensare a James. Ricacciò indietro il ricordo del volto allucinato del fratello maggiore quando lo aveva guardato negli occhi e gli aveva chiesto che cazzo era successo. 

«Analisi perfetta, signor Auror.» Avrebbe voluto applaudire, ma si trattenne. 

Dopo alcune domande di prassi, come per esempio quando Albus ricordava di aver visto jenkins per l’ultima volta, Teddy gli aveva buttato lì quella questione, quasi aspettandosi che Albus gli fornisse maggiori dettagli, o forse un appiglio per incastrarlo. 

«Hai letto il Profeta, quindi? Dove si parla di un ritorno di fiamma?»

Albus annuì, incrociando le gambe sulla sua sedia. «L’ho letto, sì, ma vorrei chiarire che anche io avrei mandato la Skeeter al diavolo, fossi stato nella tua posizione.» Ed era sincero: da buon Potter, non aveva mai amato quella donna e il suo modo di lavorare. 

«Fonti certe non hanno negato quando ho chiesto ragguagli in merito al FireWhisky e alle feste che siete soliti organizzare in Sala Comune…»

«Allora», cominciò Albus, aggrottando le sopracciglia, leggermente infastidito. Ora ci teneva proprio a chiarire un paio di cose. «Di solito, le feste le organizziamo dopo il Quidditch, e l’anno scorso per festeggiare la fine dei G.U.F.O., non è che ogni settimana facciamo baldoria. Mi sembra eccessivo definirla un’abitudine.»

«Chiaro», rispose Teddy.

La Penna Prendiappunti sfrecciava su una pergamena intonsa, ma Albus non ci diede peso. Era abituato a vederne in giro per casa, così come era abituato agli interrogatori velati da chiacchierate che suo padre gli propinava quando aveva voglia di fargli una ramanzina.

«Ora passerei ad una questione più spinosa, se così vogliamo definirla.» L’Auror allungò una mano e recuperò alcuni fogli di pergamena fittamente scritti con la grafia ordinata e senza sbavature della Penna. Li scorse per un momento e, quando trovò ciò che stava cercando, si schiarì la gola. «Leggo testualmente: “Nel dopo-partita, Albus è solito aspettarmi fuori dagli spogliatoi. Proprio come fa Jenkins con i suoi amici. Peccato che quel giorno fossimo tutti piuttosto tesi… e incazzati per aver perso contro Grifondoro… E così abbiamo cominciato a darci addosso e ad incolparci a vicenda per aver giocato così male.”» Alzò gli occhi e Albus gli restituì l’occhiata. Quella si trattava senza ombra di dubbio della dichiarazione di Scorpius fatta poco prima, e Albus sentì la preoccupazione fluire via, come la marea che si ritira. Si fidava del suo amico più che di se stesso. 

«“Nott, il capitano, ha cercato di rimetterci in riga, ma una volta che anche Albus e Jenkins sono entrati nella discussione, non c’è stato verso, anzi, i toni si sono alzati ancora di più”», continuò Teddy. «“Karl si è messo in mezzo affermando come al solito la sua superiorità, in quanto Prefetto, e Albus gli ha detto di non immischiarsi. L’altro ha replicato dicendo che lui aveva ogni diritto di farlo, e ha tipo concluso sussurrando un insulto ad Albus che riguardava sua madre Ginny e quindi anche Albus ha insultato la madre di Jenkins, Jenkins ha tipo rincarato la dose su Ginny e alla fine Albus gli è saltato addosso.”, ecc. ecc.» L’Auror posò i fogli sulla scrivania. Albus continuava a guardarlo negli occhi.

«Quindi?» chiese alzando le sopracciglia.

«Quindi? Dimmelo tu.»

«Cosa dovrei dirti?» Sapeva fin troppo bene che Teddy voleva vedere la sua reazione, e capire se sotto le parole di Scorpius ci fosse dell’altro, ma lui non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione. «Ha detto tutto Scorpius. Jenkins ha insultato mamma, io ho risposto, e da cosa nasce cosa.»

«Da insulto nasce sberla, dico bene?»

Albus scrollò le spalle. Non ricordava che Teddy fosse un pacifista, men che meno dopo aver quasi demolito Rita Skeeter a parole fuori dai Tre Manici di Scopa, come la giornalista si era affrettata a denunciare sul Profeta. 

«Sono stato provocato.»

«Mi è parso di capire che Jenkins ha un bel curriculum fatto di provocazioni e fraintendimenti…»

«Fraintendimenti? Io non li definirei così», rispose Albus sciogliendo le gambe e poggiando i gomiti sulle ginocchia, stiracchiandosi la schiena come un gatto nero e sinuoso. «La spilla da Prefetto gli aveva dato alla testa, secondo me. Troppa autorità fa male, se ne andava in giro a fare il poliziotto cattivo. Nel suo stesso dormitorio. Di certo non ti rende granché simpatico, no?»

«Stai dicendo che aveva dei nemici?»

Albus aprì le braccia, come a voler dire “tutto è possibile, che ne so io”. Si stava divertendo a provocare Teddy, a insinuargli strane idee in testa, nonostante lui stesso si trovasse in bilico su un burrone scosceso e tutto spuntoni, pericolosamente vicino al bordo. In fondo, gli era sempre piaciuto giocare col fuoco.

«Chi non ne ha? La scuola è grande, e noi Serpeverde non siamo propriamente amati, ecco.»

«E tu e Scorpius? Voi siete amati?»

«Noi ce ne stiamo per conto nostro. Ci va bene così.»

«Solo voi due?»

Albus incrociò nuovamente le mani sotto la scrivania, torcendosi le dita con forza, ora, ma senza distogliere lo sguardo da Teddy.

«Solo noi due.»

«E Rose…»

«Ah, sì, certo», aggiunse Albus, lasciandosi scappare un sorrisetto che però era più un ghigno, l’angolo sinistro della bocca piegato all’insù. «Ma mia cugina sta più con Scorpius, se capisci cosa intendo… Però mangiamo insieme quasi tutti i giorni.»

Teddy continuò a guardarlo in silenzio e in quel momento Albus si chiese cosa avesse risposto Scorpius, sempre se gli fosse stata posta la stessa domanda: aveva parlato di Roxanne e Caitlin?, aveva raccontato che erano una sorta di gruppo?, o, peggio, aveva accennato alle loro “uscite notturne”? No, pensava di no. Scorpius non se lo sarebbe mai fatto scappare, non un dettaglio così importante e così pericoloso. 

«A proposito di Rose… L’ho vista strana, l’altra sera a cena… Sta bene?»

«Dovresti chiederlo a lei, non a me.» Albus si riappoggiò allo schienale della sedia, irrequieto. Quell’interrogatorio si stava rivelando più lungo del previsto, e lui era stufo. E a forza di mordersi la carne tenera delle labbra, sentiva in bocca il sapore del sangue, ferroso e greve.

«Credo proprio che lo farò.»

 

 

Uscito dall’aula, Albus non trovò Scorpius ad aspettarlo fuori, e ne rimase stupito e turbato, ma poi si ricordò che l’amico aveva lezione di Cura delle Creature Magiche, e così si affrettò verso il dormitorio di Serpeverde, nei sotterranei del castello. La borsa di pelle gli batteva sul fianco e si allentò leggermente la cravatta, sbottonandosi la camicia. 

L’aria dentro quell’aula si era fatta viziata, e si sentiva tutto sudato sotto le ascelle e dietro la schiena, e la testa gli ronzava fastidiosamente. Era arrivato al limite massimo della sua sopportazione, il cuore che gli batteva forte nel petto, troppo forte. Superò la parete di pietra dopo aver fornito la parola d’ordine (Python Regius2) e quasi corse per la Sala Comune, attirandosi gli sguardi curiosi di alcuni ragazzi del settimo anno, diretto come un fulmine nella sua stanza, che divideva con Scorpius, Pucey, Rosier e, prima che morisse, Jenkins. 

Lasciò andare la borsa a terra e poi si lasciò cadere sul letto. Ora respirava a fatica, boccheggiando e rantolando, mentre l’attacco di panico prendeva velocemente possesso di lui. Si passò una mano tra i capelli sudati e sul viso, come a voler levarsi di dosso ogni dolore e ogni paura, ma inutilmente. Si sfilò la cravatta, che minacciava di strozzarlo, e la gettò via, e si avviò barcollando in bagno, dove si bagnò la faccia con l’acqua gelata, cercando di scuotersi e di ritrovare se stesso, mentre il ritmo del suo cuore non accennava a rallentare. Si permise un’occhiata allo specchio, e quello gli restituì l’immagine di un viso stravolto, e quasi Trasfigurato, lo stesso viso che lo aveva guardato quella sera, quando lui e Scorpius erano tornati in Dormitorio, e Scorpius si era infilato a letto senza dire niente, e lui si era chiuso in bagno, a luci spente, solo la luce della bacchetta a illuminare quel bel volto screziato di terrore. Ora, si rannicchiò per terra, sulle piastrelle bianche e fredde e pulite, odorose di disinfettante, le gambe strette al petto.
 



Note:

1. Caleb Nott: Serpeverde del settimo anno; personaggio di mia invenzione.
2. Python Regius: il pitone reale, detto anche pitone palla per la caratteristica forma che assume se disturbato o intimorito nascondendo la testa tra le spire, è un serpente appartenente alla famiglia dei Pitonidi, originario dell'Africa occidentale [fonte: wikipedia.it].

 

Siamo già arrivati al capitolo cinque, quando è successo? A parte questo, si tratta di un capitolo bello denso di cose: Rose e Scorpius, che spero vi siano piaciuti, e gli interrogatori di Scorpius e Albus. Come vi avevo anticipato, i ragazzi cominciano a cedere e a sentirsi sotto pressione per tutta la situazione, e difatti Albus non sta molto bene, proprio lui che, da fuori, sembra il più sicuro e il più fermo. Tutto questo perché le apparenze ingannano. Nelle recensioni allo scorso capitolo mi avete scritto che man mano che andiamo avanti scopriamo cose nuove su Jenkins e lo conosciamo un po’ alla volta: ecco, in questo capitolo avete potuto constatare quanto fosse stronzo.

 

Concludo ringraziandovi veramente di cuore per tutto l’entusiasmo e l’interesse, sono immensamente felice che questa storia vi stia piacendo, continuerò a ribadirlo. Tra l'altro, a breve potrebbe arrivare una breve oneshot su Lucius e Narcissa, che finirebbe inclusa in un'ipotetica serie insieme a "Death in the Night", quindi, se siete amanti del pairing o comunque vi piace la Old Generation, vi invito a rimanere sintonizzati sul mio profilo. Alla prossima settimana, Marti.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO SEI ***


6.

CAPITOLO SEI


 

Quella mattina, Teddy Lupin bevve più caffè del solito. Aveva dormito poco e male, sia perché il letto non era il suo, e il cuscino nemmeno, e perché gli mancava Victoire; sia perché non era riuscito a zittire la sua mente, presa com’era dall’indagine che stava conducendo e che si stava rivelando ben più complessa di quanto avesse immaginato solo cinque giorni prima. Ora sedeva alla sua scrivania, al castello, il bicchierone di caffè che gli aveva preparato Prudence che ancora fumava poggiato lì accanto, vicino ai verbali degli interrogatori, tutti spiegazzati per tutte le volte in cui Teddy li aveva riletti, cercando di cavarci fuori qualcosa di utile. 

L’idea che si era fatto era molto semplice: Jenkins era uscito dal suo dormitorio, ancora non sapeva per quale motivo, e, durante la sua peregrinazione notturna, aveva incontrato qualcuno, e lui e quel qualcuno si erano aggrediti - da lì l’incidente del ritorno di fiamma; l’altra persona doveva aver Trasfigurato il corpo senza vita del Serpeverde per poi buttarlo dentro il Lago Nero, sperando così di occultarne il ritrovamento. La Trasfigurazione doveva essere stata effettuata da uno studente del settimo anno, la McGranitt gli aveva confermato che nessuno studente più piccolo ne sarebbe stato capace, come già lui stesso aveva preventivato. 

A detta degli amici, la vittima era un ragazzo tranquillo e ligio al dovere, soprattutto considerando la sua carica di Prefetto, e studioso; a detta di altri, Jenkins era solo uno spocchioso pallone gonfiato bravo solo a fare la spia e a denunciare i suoi stessi compagni - e ad insultare pesantemente le altrui madri. Teddy propendeva per un compromesso, ché si sa, la verità sta nel mezzo, nonostante la conoscenza che pensava di avere di Albus Potter e, seppur in misura minore, di Scorpius Malfoy. 

Teddy poggiò il mento sul palmo della mano, il gomito puntellato sulla scrivania, e si guardò intorno, soffermandosi su alcuni appunti affissi alla lavagna. Nei due giorni precedenti, quando non era impegnato con qualche interrogatorio, aveva bazzicato in giro per la scuola a raccogliere dichiarazioni e impressioni degli studenti (di ogni studente che avrebbe potuto essere legato, direttamente o indirettamente, a Jenkins), solo per cercare di capire come giravano le cose tra i corridoi e nelle Sale Comuni, e qualcuno gli aveva fatto una confidenza interessante citando “il gruppetto di Albus Potter”. Davanti alla faccia interrogativa di Teddy, e alla sua richiesta di ulteriori spiegazioni, questo gli aveva raccontato ciò che sapeva sulla “cricca” di Potter, sul gruppetto, appunto, formato da lui, Scorpius, Rose e Roxanne Weasley, e Caitlin Finnigan - quest’ultima era una Grifondoro del sesto che però Teddy non conosceva. Si era quindi appuntato gli altri nomi, deciso a sentire cos’avessero da dirgli le tre ragazze. Aveva già intenzione di parlare con Rose, e infatti si erano dati appuntamento per quella mattina, durante un’ora buca della Grifondoro. Come aveva accennato ad Albus, l’aveva trovata strana, ed evasiva, e voleva andare a fondo e fare chiarezza. Ma soprattutto, voleva capire come mai né Albus né Scorpius gli avessero raccontato del loro gruppo, asserendo anzi di essere abituati a stare tra loro. Solo il giorno prima, Albus gli aveva risposto che sì, erano sempre stati loro due, lui e Scorpius, e non c’era mai stato nessun altro - a parte Rose, ma Rose era la fidanzata di Malfoy, e il ragazzo gli aveva fatto capire che era una sorta di extra, un’appendice. Le versioni dei due amici combaciavano, senza alcuna sbavatura, e ovviamente Teddy si era chiesto se non ci fosse sotto qualcosa, un piano preventivamente ordito per dire la stessa cosa e non fare così scappare nulla che avrebbe potuto comprometterli - nonostante Albus, e Scorpius in misura minore, non avesse fatto nulla per nascondere la sua avversione per Jenkins. 

Teddy, ora, si chiese, non senza un’allarmante urgenza e quasi un sottile disagio, se avrebbe dovuto sospettare di loro. Gli elementi di sospetto c’erano, visti i rapporti tra i due amici e la vittima, ma il dettaglio della Trasfigurazione ovviamente lo portava fuori strada, e lontano da loro.
 
Sentì bussare e girò il viso. Rose Weasley era inquadrata nel vano della porta, indossava la divisa ma era senza mantello, e a tracolla portava una borsa di pelle color cuoio, che sembrava molto pesante e che doveva contenere grossi volumi scolastici. Aveva legato i lunghi capelli rossi in una coda alta e gli sorrideva timidamente. 

«Posso? Sono in anticipo?»

«Rose!» esclamò Teddy alzandosi in piedi. «Vieni pure, entra e chiudi la porta, grazie.»

Rose obbedì e poi lo raggiunse alla scrivania, dove prese posto di fronte a lui senza essere invitata. Lasciò scivolare la borsa a terra e portò le mani in grembo, intrecciando le dita. Sedeva sulla punta della rigida sedia in legno, e sembrava sulle spine, un po’ come Benjamin Pucey seduto sui Knarl. 

«Il tuo collega non c’è? È da un po’ che ti vedo in giro tutto solo…»

Lui però non aveva visto Rose, e questo voleva dire che lei doveva averlo intravisto in giro per Hogwarts, ma aveva fatto finta di niente e si era defilata con prontezza. Rose dovette fare lo stesso pensiero, perché le sue guance si tinsero di rosa. Teddy era abituato a vedere Rose in un ambiente informale, alla Tana, dove si sentiva a suo agio, qui invece sembrava irrequieta, e vagamente agitata, proprio come quella sera a cena in Sala Grande. 

«Roger è tornato a Londra, doveva sbrigare alcune incombenze, e ha lasciato me qui a continuare le indagini.»

Roger era partito due giorni prima, quando Hestia Jones lo aveva richiamato al Dipartimento per compilare alcuni verbali, e montagne di scartoffie, e per recarsi al San Mungo a sbrigare alcune commissioni legate alla Magi-autopsia. 
Rose annuì e rimase in silenzio. Teddy sorseggiò il caffè e alzò il bicchiere in direzione della Grifondoro. «Scusa, ti dispiace se finisco il caffè mentre parliamo? È stata una lunga nottata…»

«No, no, nessun problema.» Rose gli sorrise e lui poggiò il bicchiere. Tirò fuori la Penna Prendiappunti e la sistemò su un foglio intonso. «Non preoccuparti della Penna», la precedette prima che avesse il tempo di notare qualche strana impressione. «È la prassi.» Rose annuì senza parlare, e lui diede un’ultima scorsa ai verbali di Scorpius e Albus, come a voler raccogliere le idee. Poi guardò nuovamente Rose negli occhi e la ragazza distolse in fretta i suoi dalle pergamene, quasi come se Teddy l’avesse beccata in flagrante a spiare dal buco della serratura.

«Sono i verbali di Albus e Scorpius», disse agitando i fogli. La ragazza lo guardò senza rispondere. «Dalle loro parole è emerso qualcosa di interessante», continuò grattandosi il mento. Doveva proprio farsi la barba. «Vuoi sapere cosa?»

Rose inclinò la testa. «Be’… sì…?»

Teddy incrociò le braccia sulla scrivania. «Tutti e due mi hanno fatto capire che non ci sono altri amici, che stanno tra loro, e poi ci sei tu, ma tu… com’è che ha detto tuo cugino?…» così dicendo prese in mano un foglio e lo scorse rapido, «… ah, ecco qui…: “mia cugina sta più con Scorpius, se capisci cosa intendo”», concluse abbassando la pergamena. «Io capisco cosa intendeva Albus, la vostra relazione è alla luce del sole, e capisco bene quali siano le dinamiche all’interno di un’amicizia quando uno dei due si fidanza… Le occasioni per stare insieme diminuiscono… niente più gite a Hogsmeade a fare i malandrini… molte volte ti tocca fare la candela…»

«Albus non si è mai lamentato della cosa», intervenne Rose.

«Oh, no, certamente, non davanti a te.» Teddy voleva cercare di provocare in Rose una reazione, ché magari sarebbe esplosa e gli avrebbe detto qualcosa di più sul cugino. «Ma ieri Albus sembrava infastidito, diciamo così.»

«Be’, certo gli sarà scocciato dividere Scorpius con me, ma non ha mai detto niente. Neanche a Scorpius, o lui me lo avrebbe detto», aggiunse in fretta, e quasi trionfalmente.

«Mh», rifletté Teddy. «D’accordo, mettiamo che sia così.» Fece una pausa e guardò per un attimo il soffitto dell’aula, come a voler raccogliere i pensieri. «Quello che è ancora più interessante è che ieri mi è stato raccontato della famosa cricca di Albus Potter, questo fantomatico e noto gruppetto di amici scavezzacollo che si diverte a gironzolare e fare malefatte e infrangere le regole. Tu ne sai qualcosa?»

Ora Rose si torceva le dita, che erano diventate rossissime. Si mise meglio a sedere e, dopo aver fatto vagare lo sguardo tutt’intorno a sé, tornò a guardarlo. «Chi te l’ha detto? Albus o Scorpius?»

Ah-ah, pensò Teddy. Ti ho presa nel sacco.
«Singolare», commentò. «Nessuno dei due.»

Rose lo guardò con un’espressione che sembrava voler dire “cazzo, mi aveva anche detto che tutti e due avevano negato l’esistenza di altri amici”, e Rose sapeva che lui sapeva. 

«Rose», cominciò quindi Teddy sporgendosi verso di lei. «Ti darò la possibilità di ricominciare da zero e di parlarmi del vostro gruppo. Preferisco sentirlo da te che da qualcun altro, capisci?»

Rose si toccò la coda di capelli, pensierosa. Poi annuì. «Non c’è molto da dire, in verità», iniziò. «Siamo amici, e facciamo cose. Cose tipo vederci e sparlare degli altri… bere qualche Burrobirra… e stare in compagnia. Niente di pericoloso o illegale, sia chiaro.» Teddy annuì, invitandola a proseguire. «Va avanti dall’inizio dell’anno scorso. Scorpius e io non stavamo ancora insieme, è successo dopo, quando mi ha chiesto di uscire e io ho accettato, quindi all’inizio ci frequentavamo da amici. Noi due e Albus. Poi si sono aggiunte anche Roxanne e Caitlin. Caitlin Finnigan», specificò. «Anche lei è del sesto Grifondoro.»

«Quindi vi limitate a stare tra voi, ho capito bene? E perché allora nessuno di quei due mi ha detto nulla? E, quando l’ho chiesto ad Albus, perché ha espressamente negato?»

Rose scosse la testa. «Non lo so, forse perché la loro posizione scomoda nei riguardi di Karl era già abbastanza…», tentennò, come a voler trovare il termine giusto, «… scomoda, non saprei come altro definirla… E quindi non volevano farti credere che avessimo un gruppo e che andassimo in giro a fare i bulli o cose così…»

«Andate in giro a fare i bulli?»

«NO!» esclamò con veemenza Rose. Poi si rese conto del suo tono e alzò una mano. «Scusa», aggiunse. «È che già mezza scuola pensa che lo siamo, e non mi importa, ma non mi va che sia tu a pensarlo.»

«Non lo penso», rispose Teddy, ripromettendosi però di tenerli d’occhio. «Però penso che appaia un po’ sospetta, tutta questa faccenda… Questo loro silenzio…»

Rose si alzò di scatto, e Teddy si allontanò per la sorpresa, andando a sbattere contro lo schienale della sua sedia. La ragazza si diresse ad una delle due finestre e guardò fuori. I vetri erano sporchi di polvere e appannati, ma si intravedevano il Lago Nero e la capanna di Hagrid. Ora lei gli dava le spalle e lui si limitò ad osservarla, in attesa.

«Noi non vogliamo attirare l’attenzione, okay?» disse infine la ragazza girandosi, le braccia incrociate sul petto. Sembrava giovanissima, ora. E lo è, pensò Teddy. «È solo che i nostri cognomi è come se fossero un’insegna luminosa appesa sopra le nostre teste, grande così», e spalancò le braccia per tutta la loro lunghezza. Poi le fece ricadere lungo i fianchi, stancamente. «E siamo stufi di venire additati, chi per una cosa, chi per l’altra, per questo teniamo un profilo basso, cerchiamo di vederci senza dare nell’occhio, ma immagino che le nostre interazioni non possano sfuggire ad un occhio attento.»

«Metà di voi è imparentata, è normale stare insieme. Avrei dato qualsiasi cosa per avere un gruppo di cugini così, ai miei tempi ad Hogwarts…»

Rose sorrise, ma era un sorriso amaro, il suo. «Non so, a volte penso che sia tutto troppo rumoroso, e affollato… A volte avresti solo bisogno di startene per conto tuo, ma non puoi.»

«Be’, sarà che andare a cena da Harry era il massimo del divertimento, per me… E passare alla Tana e stare con voi lo era ancora di più.» Inaspettatamente, Teddy si trovava bene, a parlare con Rose, e forse perché lei era capace di ascoltare, e a lui mancava così tanto Victoire che chiacchierare con sua cugina gli sembrava un po’ come chiacchierare con lei - trovava che quelle due si somigliassero più di quanto pensassero. «Ma non siamo qui per parlare di me, mi sembra», si affrettò però ad aggiungere. «Ora ti faccio una domanda che non ho fatto né ad Albus, né a Scorpius: dov’eri la sera del due gennaio?»

Rose distolse lo sguardo e si andò a risedere. «Dormivo.»

«E prima?»

«Prima… be’, dopo cena sono tornata in Sala Comune, e sono stata in compagnia di Rox e Cait… E poi siamo andate a dormire. Verso le dieci, mi sembra…»

Teddy annuì. «C’è qualcuno che può confermarlo?»

Ora Rose lo guardava e c’era qualcosa di duro al fondo dei suoi occhi, che Teddy non aveva ancora visto da quando era entrata in quell’aula e gli si era seduta di fronte. «Sono sospettata?»

«Rispondi alla domanda, Rose.»

La ragazza incrociò le braccia al petto, come a volersi difendere da lui e da ogni attacco le volesse sferrare. «Può confermartelo mezzo dormitorio di Grifondoro. Chiedi pure in giro.»

«Molto bene, allora», concluse Teddy. Tolse la Penna dal foglio e la poggiò sul ripiano in legno. Si stropicciò gli occhi e sospirò. «C’è qualcosa che vuoi dirmi, Rose? Come vedi, non verrà verbalizzato…»

Rose lo guardò, seria, silenziosa. Pensierosa. Poi scosse la testa con decisione. «No, ti ho detto tutto quello che sapevo.»

«D’accordo.» Si alzò in piedi, e la ragazza fece altrettanto. «Dovesse venirti in mente qualcosa…», aggiunse. «Qualche dettaglio, qualche idea… O dovessi sentire delle voci… Mi raccomando, fammelo sapere, okay?»

Rose annuì, nonostante a Teddy non sembrasse particolarmente collaborativa. Forse dentro di lei dubitava di potersi fidare di lui al cento per cento. E aveva ragione: Teddy faceva il suo lavoro, e aveva intenzione di portare a termine quell’indagine. 

«Teddy», iniziò Rose sulla porta, e lui alzò il viso a guardarla, e le ricordò James, quando quel mattino a colazione il ragazzo lo aveva richiamato e lo aveva fermato. Rose ora lo guardava con gli stessi occhi nocciola del cugino. «Anche noi eravamo contenti quando venivi a trovarci.»

Teddy non potè fare a meno di sorriderle, e lei uscì. 

 

 
Roxanne si richiuse la porta alle spalle e si incamminò a passo svelto lungo il corridoio, diretta allo scalone di marmo. Salutò alcuni compagni del Grifondoro che conosceva di vista, il sorriso tirato e l’andatura spiccia di chi ha fretta. La borsa dei libri le sbatteva contro il fianco, ma non se ne curò. Voleva solo raggiungere la vecchia aula al quinto piano e chiudere un’altra porta e tirare un profondo sospiro.

Teddy Lupin aveva voluto parlare con lei di Karl Jenkins e l’aveva riempita di domande riguardo il “gruppetto” di amici di cui faceva parte, e che comprendeva i suoi cugini Albus e Rose, più Caitlin e Scorpius. Roxanne non ne era rimasta sorpresa, Rose l’aveva avvertita e messa in guardia, e lei era riuscita a mantenere una certa disinvolta scioltezza per tutta la durata dell’interrogatorio, ma ora, una volta fuori, all’altezza dello stomaco le si era come formato un nodo, un intrico di budella stretto stretto che cominciava a pesare, mentre un bruciore insolito le risaliva lungo lo sterno e su su in gola, minacciando di farle vomitare anche l’anima. 

Raggiunse il primo bagno disponibile e si precipitò dentro un cubicolo giusto in tempo per sentire tutto il pranzo risalirle dallo stomaco per poi uscirle dalla gola in fiamme e riversarsi nel gabinetto, al quale si aggrappava come un’àncora in mezzo ad un mare in tempesta. Dopo che si fu svuotata, si accasciò sul pavimento, incurante dello sporco che le si sarebbe appiccicato alla divisa, e appoggiò la testa alla parete in legno che divideva gli ambienti, chiudendo gli occhi e cercando di regolarizzare il respiro. Si sentiva uno schifo.

Non era insolito, per lei, vomitare per colpa del nervosismo e dello stress, le succedeva piuttosto spesso, soprattutto il primo anno, prima di una lezione, o in vista degli esami finali; l’anno prima, in occasione dei G.U.F.O., era scappata in bagno prima dell’esame di Difesa Contro le Arti Oscure e il professor Thomas era stato gentilissimo nel darle la possibilità di partecipare nonostante il ritardo. Ricordava come fosse ieri quanto era stata male la vigilia della sua prima partita di Quidditch…: era al secondo anno, e allora il capitano era Connor
Finnigan1, il fratello di Caitlin, che l’aveva scelta ai provini ad inizio anno in mezzo a ben quindici aspiranti Cacciatori, e Roxanne, quel weekend di novembre, davanti alla prospettiva di giocare per la prima volta davanti a tutta la scuola e, per giunta, di dover affrontare i Serpeverde, aveva trascorso la notte prima dell’incontro in infermeria, perché era disidratata e quasi febbricitante, e meno male che Connor era riuscito a convincere Hannah Paciock2, l’infermiera (anche grazie all’intervento di Neville, il marito, direttore di Grifondoro e primo fan della squadra di Quidditch del suo dormitorio), a farla dimettere e permetterle così di giocare. Il Grifondoro aveva vinto, e quello era stato uno dei giorni più belli e felici della sua vita.

Roxanne si tirò in piedi e uscì dal cubicolo. Si avvicinò ad un lavandino e poggiò le mani sul bordo bianco e fresco, inspirando dal naso. Si riavviò i capelli sudati dalla fronte e si guardò nello specchio, leggermente arrugginito sui bordi e sbeccato qua e là. Si bagnò il viso con l’acqua fredda, e si chinò per bere dal rubinetto, sciacquandosi la bocca e la fronte. Sentì il cuore tornare alle sue normali pulsazioni mentre infilava i polsi sotto l’acqua corrente e il gelo la faceva tornare se stessa, come quando giocava a Quidditch in pieno inverno e l’aria ghiacciata la faceva concentrare e lei filava via veloce sulla sua scopa, verso le porte avversarie. 

Recuperò dalla borsa alcune Gomme 
Fredde3 (una delle invenzioni di suo padre, erano gomme da masticare che sprigionavano menta ghiacciata e il cui effetto durava fino a otto ore) e se ne ficcò un paio in bocca e chiuse gli occhi quando le ruppe e il liquido ne fuoriuscì, ma non poteva permettersi di incontrare Elena4 senza prima mangiare una Gomma Fredda. Il pensiero di Elena la fece subito star meglio, e si diede un’ultima occhiata nello specchio prima di uscire dal bagno, pettinandosi alla bell’e meglio con le mani i capelli ricci e scuri e dando una sistemata veloce alla gonna dell’uniforme. 

Raggiunse in breve tempo il quinto piano, e trovò Elena che l’aspettava nella loro aula vuota preferita, e nella quale erano solite vedersi quando volevano stare un po’ da sole. La Corvonero sedeva a gambe incrociate su un banco e leggeva un libro bello grosso e antico chinata leggermente in avanti, i capelli neri appuntati dietro un orecchio e la camicia dell’uniforme leggermente sbottonata, la cravatta bronzo e blu allentata. Il cuore di Roxanne perse un battito, come tutte le volte in cui la vedeva - come da quella prima volta in cui, tre anni prima, era caduta dalla scopa per colpa di un Bolide scagliatole addosso da un Battitore di Corvonero ed Elena era stata la prima a raggiungerla a terra, ed era venuta a trovarla in infermeria, e da quel giorno Roxanne non aveva mai smesso di pensare a lei. 

Elena Ridley alzò lo sguardo e le sorrise. «Oh, eccoti.»

«Scusa, sono andata un attimo in bagno», disse Roxanne chiudendo la porta. Mentre le si avvicinava, Elena richiuse il libro. La Grifondoro poggiò le mani sulle ginocchia dell’altra e le sorrise. «Cosa leggi?»

«Un libro di approfondimento che mi ha prestato il professor Vitious.»

«È per questo che sei andata nel suo ufficio?»

Elena annuì, i begli occhi scuri accesi di entusiasmo. «È interessantissimo, sai?»

«Immagino, guarda», rispose Roxanne con una risatina. «Magari me lo presti, quando lo finisci? Sai, per leggere qualcosa di leggero prima di dormire…»

Elena le pizzicò una spalla e Roxanne cacciò un urlo, per poi toglierle il libro di dosso e sporgersi verso di lei per baciarla. Elena rispose al bacio, afferrando le mani con cui Roxanne le aveva cinto le guance e mettendosele sui fianchi, mentre le loro lingue si cercavano voraci. 

«Aspetta, aspetta…» la fermò Elena, proprio mentre una delle mani di Roxanne stava risalendo verso il suo seno. «Gomma Fredda? Roxanne…»

Quest’ultima si staccò da Elena e la guardò in viso. «E allora?»

«E allora? Sei stata male di nuovo? Perché non me lo hai detto?»

«Certo, secondo te la prima cosa che ti dico quando ci vediamo è: “sai, Elena, ho appena vomitato l’anima in un bagno di sotto”?»

«Stiamo insieme, Roxanne», protestò Elena, ma Roxanne pensava che lei non capisse, ché lei non voleva appesantirla con i suoi problemi, non voleva angustiarla con le sue preoccupazioni, ché c’erano cose che proprio non poteva dirle, e che avrebbe dovuto custodire fino alla fine dei suoi giorni, un fardello che la faceva sentire marcia dentro, e che forse non le avrebbe mai dato tregua, mai, e non voleva, nel modo più assoluto, rovinare quei loro momenti insieme. Non voleva rovinare loro due, e tutto ciò che avevano. 

«Hei», continuò Elena scendendo dal banco in un balzo e afferrandole le mani. Cercò i suoi occhi, ma Roxanne non voleva farsi trovare, teneva i suoi bassi sul pavimento polveroso, le sopracciglia contratte. «Cosa c’è, eh? Sai che puoi dirmi tutto.»

«Non c’è niente, cosa dovrebbe esserci?» sbottò, la voce roca.

«Non prendermi in giro, mierda!» esclamò Elena cominciando a misurare l’aula a grandi passi, i capelli lunghi e scuri che le ricoprivano la schiena come un mantello lucente. «Capisco quando c’è qualcosa che non va, e sei troppo strana, ultimamente, Roxanne… Cosa ti succede?»

Roxanne sbuffò, e si sedette nel posto vuoto lasciato da Elena sul banco scricchiolante. Come faceva a dirglielo? Come? “Allora, l’altra sera sono uscita dal castello con Albus, Rose, Cait e Scorpius, ci siamo ubriacati e poi è spuntato Jenkins, sai, quel Prefetto coglione di Serpeverde, ha attaccato Albus e poi è successo che è morto, allora Rose è andata a chiamare James, James ha trasfigurato il cadavere in una pietra e poi Albus lo ha gettato nel Lago Nero. Ora hanno ritrovato il corpo e capisci che siamo tutti in paranoia, perché Teddy Lupin, che è un Auror, sta facendo domande, e ha voluto proprio parlare con me, prima. E ho dovuto dirgli un sacco di cazzate. E sono stata male proprio per questo motivo. Ecco, è tutto”. 

Elena era al corrente delle loro uscite “clandestine” dal castello, e sapeva che Teddy aveva voluto parlare con lei riguardo il loro “gruppetto”, ma niente di più. Non sapeva del FireWhisky e non sapeva della Mappa della Malandrino, e non avrebbe saputo mai e poi mai quanto era successo quella notte. Elena era un Prefetto, e Roxanne non voleva metterla nella posizione di scegliere tra lei e le regole.

«Un po’ di stress, penso», rispose quindi scrollando le spalle. «Sai, gli allenamenti ricominciano questo fine settimana, James ci vuole mettere sotto in previsione dei Tassorosso e ci mette un sacco di pressione addosso… E poi ci sono le lezioni, e—»

«Ma se i Tassi quest’anno fanno schifo», la interruppe Elena. Ora il suo tono di voce era stanco, e parlava lentamente, e non era da lei. «Me lo hai detto tu. Sarà un gioco da ragazzi per voi batterli. E segui pochissime lezioni, Rox… Non prendermi in giro.»

Roxanne sapeva bene con chi aveva a che fare. Elena Ridley era una delle persone più sveglie e intelligenti che conoscesse. Era nata in una famiglia di Babbani di origini spagnole, il padre lavorava come medico e la madre aveva un negozio da parrucchiera, dove lavava e acconciava i capelli alle signore Babbane, e una volta Elena l’aveva anche portata lì e la signora Ridley le aveva stirato i capelli solo con l’utilizzo sapiente di una spazzola e di un aggeggio dalla forma strana chiamato “phon”, dal quale usciva aria calda se solo lo si attaccava ad una presa
eclettica5 - o elettrica, non si ricordava mai bene. I signori Ridley erano brava gente, ridanciani e solari, sempre pronti a versarti un bicchiere di sangria fatta in casa e ad invitarti a cena. Elena aveva una sorellina più piccola, Monica, in trepidante attesa di sapere se anche lei avrebbe ricevuto la lettera da Hogwarts. La magia non si era ancora palesata in nessun modo, ma era possibile che fosse in ritardo, e lei non demordeva. Era sicura che sarebbe venuta ad Hogwarts, e sarebbe finita a Corvonero come sua sorella. Elena era incredibilmente dotata, una studentessa modello, la prima della sua classe, Prefetto (e molto probabilmente sarebbe diventata Caposcuola, l’anno successivo), e aveva ottenuto ben dodici G.U.F.O., un risultato raro e più che sorprendente. Era una delle persone più belle e gentili che Roxanne avesse mai conosciuto - ed era la sua ragazza, e in quel momento era lì, in piedi, e la stava guardando, e le chiedeva di dirle la verità, ma lei proprio non poteva. Non poteva e basta. 

Elena dovette capire, o almeno dovette capire la parte in cui Roxanne non le avrebbe detto niente, perché si riavvicinò al banco e ficcò il librone di Incantesimi nella sua borsa, stipato in mezzo ad altri sei o sette volumi e innumerevoli fogli di pergamena fittamente scritti. 

«Dove vai?» le chiese Roxanne, allarmata dall’espressione del suo viso.

«Me ne vado, devo finire un tema per il professor Bones, mi mancano ancora dodici centimetri, e mi devo preparare per il test propedeutico di Erbologia per lunedì», rispose, tesa, senza girarsi a guardarla.

«Non te ne andare, resta ancora un po’… Per favore», la pregò Roxanne. Sentiva le lacrime premerle agli angoli degli occhi: non avevano mai litigato, loro due, da quando si erano messe insieme, al termine della finale Grifondoro contro Corvonero dell’anno prima. “Abbiamo perso la coppa, ma io ho vinto te”, le aveva detto Elena dopo averla baciata. Quello era stato un altro dei giorni più felici della vita di Roxanne.

«Per cosa, Rox? Per finire a baciarci e fare l’amore per terra come al solito? Mentre ti guardo negli occhi e fingo che tu non mi stia dicendo cazzate? Non ce la faccio, mi dispiace», rispose Elena scuotendo la testa. «No puedo hacerlo, simplemente no
puedo6» Quando parlava spagnolo non era mai un buon segno, e Roxanne le afferrò una mano, in un ultimo, disperato tentativo. Elena alzò lo sguardo su di lei.

«Se riguardasse solo me, te lo direi, ma non posso, Elena. Non posso. E non voglio metterti in mezzo a questo casino, non te lo meriti.»

«Non dirlo come se lo stessi facendo per proteggermi, non ho bisogno di essere protetta. Stai proteggendo solo te stessa.»

Roxanne scosse la testa. «Elena, te lo chiedo per favore…»

Elena sfilò la mano da sotto quella di Roxanne e la guardò un’ultima volta negli occhi. «Quando vorrai parlare, sai dove trovarmi. Lo
siento6», aggiunse sussurrando prima di voltarle le spalle e lasciare l’aula. 

La mano di Roxanne ricadde sul banco, spenta e inerme. 

 

 
Hogwarts, maggio 2022

«Potter contro 
Scamandro7: è ormai un testa a testa, questo!»

Roxanne si immobilizzò, e con lei entrambe le squadre di Grifondoro e Corvonero. Tutti si voltarono verso i due Cercatori: il primo, vestito di rosso, era alto e muscoloso ma magro e scattante, l’altro sembrava invece ancora più piccolo di quanto già non fosse, nella sua uniforme blu, il corpo appiattito sulla scopa nello sforzo di stare al passo. Era un testa a testa, proprio come aveva detto suo cugino 
Hugo8, il cronista. 

«Il piccolo Scamandro è stato un ottimo acquisto, per la squadra di Corvonero», sbraitò Hugo. «Veloce e rapido, ha dato del filo da torcere a Cercatori molto più esperti di lui, quest’anno. Ci aspettiamo grandi cose… E intanto la battaglia per il Boccino continua, e James Sirius Potter guadagna sempre più terreno… Si allunga sulla sua scopa…  Una Firebolt 3000, signore e signori… Allunga una mano… Ancora un po’, James… E PRENDE IL BOCCINO! GRIFONDORO VINCE! BATTE IL CORVONERO CON UN PUNTEGGIO DI 200 A 20! GRIFONDORO VINCE LA COPPA DEL QUIDDITCH!»

Hugo non aveva quasi ripreso fiato, ed esplose in un boato, e lo stadio con lui, quando James afferrò il piccolo Boccino d’oro e risalì dalla sua picchiata con il braccio alzato, il pugno chiuso, e un sorriso di pura estasi e felicità dipinto sul viso. Roxanne e il resto della squadra di Grifondoro gli volò incontro e gli si accalcò addosso, in un intrico di gambe, braccia e manici di scopa. Quello era il primo anno senza il leggendario capitano - e Cacciatore - Connor Finnigan, che tante volte aveva portato Grifondoro alla vittoria; quello era il primo anno di James da leader della squadra, e aveva vinto. Loro avevano vinto.

Scesero tutti a terra, dove il dormitorio di Grifondoro al completo li travolse per festeggiarli e portarli in trionfo. Roxanne non capiva più nulla. Riuscì a cogliere Caitlin Finnigan che correva incontro a James e lo abbracciava, prima che il Capitano venisse trascinato via: Alexander 
Baston9 (il portiere), Michael McLaggen9 (uno dei Battitori che aveva preso il posto di suo fratello Fred) e Rose, che giocava come Cacciatrice, lo circondarono e, coadiuvati da alcuni compagni, lo presero in braccio per portarlo in giro per il campo, alto sopra le loro teste, in un tripudio di urla, festeggiamenti, e cori di «perché Potter è il nostro re!10» 

Prima di essere investita a sua volta, Roxanne intravide suo cugino Louis, l’altro Battitore, baciare con veemenza sulle labbra una sorpresa Lynn 
Collins11, la minuta Cacciatrice che era subentrata a Connor Finnigan proprio quell’anno e che aveva dato loro numerose soddisfazioni.
 

Intanto, Elena Ridley le aveva gettato le braccia al collo, e Roxanne si ritrovò ad abbracciarla tenendola per i fianchi, mentre il cuore le batteva all’impazzata. Cosa ci faceva lì, Elena? Era una Corvonero, sarebbe dovuta rimanere con la sua Casa, a leccarsi le ferite per la sconfitta…

«Che ci fai qui? Nella tana del leone?» le chiese quindi.

Elena le scostò i capelli sudati dalla fronte e le sorrise, con quel suo sorriso bellissimo che a Roxanne faceva girare la testa. «Non potevo non venire a congratularmi con te…»

«Avete perso la coppa, Elena», le ricordò. 

Elena scosse la testa, senza smettere di guardarla, e Roxanne fece lo stesso, anche lei non riusciva a smettere di guardarla, e avrebbe voluto guardarla per tutta la vita, per sempre, senza smettere mai. Sentiva il seno di Elena premere contro il suo, e le sue mani erano poggiate sui suoi fianchi, e non erano mai state così vicine… così esposte…

E poi, in un attimo, Elena la baciò. Roxanne rispose prontamente a quel bacio, nonostante la sorpresa. Non aveva mai baciato nessuno, prima di quel momento e, quando la lingua di Elena le schiuse le labbra per insinuarsi nella sua bocca, Roxanne sentì un fuoco dirompente sbocciarle dappertutto, dalla testa fino alla punta dei piedi, e avrebbe tanto voluto toccare il corpo di Elena, toccarlo dappertutto, ma si ricordò di dov’erano e cercò di controllarsi. Elena, forse leggendole nel pensiero, o forse spinta da un’esigenza dettata dalla sua stessa cognizione, si ritrasse, e Roxanne tornò a respirare, sconvolta e con la testa che le girava. 

«Abbiamo perso la coppa, ma io ho vinto te», le sussurrò quindi la Corvonero sulle labbra prima di prenderla per mano.

Roxanne le sorrise e, fronte contro fronte, rimasero lì, in mezzo al campo e al caos dei festeggiamenti, almeno fino a quando Roxanne non venne richiamata per la consegna della coppa alla squadra di Grifondoro. Si divisero, ma fu solo per poco.

 


Note:
1. Connor Finnigan: ex Grifondoro, fratello maggiore di Caitlin Finnigan; personaggio di mia invenzione. 
2. Hannah Paciock: Hannah Abbott, che è diventata Paciock dopo il matrimonio con Neville; sulla Wiki dice che Hannah ha studiato come Guaritrice e si è candidata al posto che era stato di Madama Chips, ad Hogwarts; ora, non sappiamo se Hannah abbia effettivamente ottenuto il posto, ma io ho immaginato di sì.
3. Gomme Fredde: come spiego nel testo del capitolo, sono delle gomme da masticare alla menta il cui effetto però dura molto di più di quanto duri una gomma da masticare Babbana; sono di mia invenzione.
4. Elena Ridley: Corvonero del sesto anno; personaggio di mia invenzione.
5. Ecleticca: questo è ovviamente un omaggio a nonno Arthur.
6. “No puedo hacerlo, simplemente no puedo”/“Lo siento”: "non posso farlo, proprio non posso/mi dispiace"; con lo spagnolo sono parecchio arrugginita, perdonate eventuali imprecisioni.
7. Scamandro: Lysander Scamandro, Corvonero del terzo anno, gemello di Lorcan, figlio di Luna Lovegood e Rolf Scamandro. 
8. Hugo: Hugo Weasley-Granger, che ho pensato di impiegare nel ruolo di cronista delle partite di Quidditch. 
9. Alexander Baston/Michael McLaggen: Grifondoro del sesto anno; il primo è figlio di Oliver Baston, il secondo di Cormac McLaggen; personaggi di mia invenzione.
10. “Perché Potter è il nostro re!”: ovviamente, non c’è nemmeno da specificarne la provenienza.
11. Lynn Collins: Grifondoro del quinto anno; figlia di Cho Chang e James Collins (Babbano); personaggio di mia invenzione.


Buon pomeriggio e ben ritrovati con il solito aggiornamento settimanale del venerdì! Spero che questo capitolo sei vi sia piaciuto. Rose è stata interrogata da Teddy, e credo che questo sia l’ultimo interrogatorio che vi racconterò puntualmente. Cosa ne pensate di Rose? Fatemi sapere. Inoltre, conosciamo un nuovo personaggio, uno degli OC presenti in questa storia, oltre Caitlin Finnigan, che avete già conosciuto (ne manca uno, ma arriverà presto): sto parlando di Elena Ridley, Corvonero del sesto anno, fidanzata della nostra Roxanne. Personalmente, ho amato scrivere di Elena, e spero tanto che vi sia piaciuta tanto quanto piace a me - che però sono di parte, ovviamente XD


Il prossimo capitolo è uno dei miei preferiti, e ritroveremo entrambi i fratelli Potter con alcuni colpi di scena particolarmente interessanti, quindi non mancate 😉 


Nelle note allo scorso capitolo vi avevo accennato ad una Lucius/Narcissa, purtroppo non sono riuscita a pubblicarla, credo che arriverà a metà settimana, a questo punto, ma ieri ho scribacchiato una piccola flashfic su Rabastan Lestrange, vi lascio il link qui, per chiunque sia interessato a dare una lettura e magari un parere.


Concludo questo papiro ringraziandovi come sempre per il tempo e l’entusiasmo che state dedicando a questa storia, mi fate davvero felice. Se volete mi trovate su instagram.

Alla prossima settimana, Marti.

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Capitolo 8
*** CAPITOLO SETTE ***


7.

CAPITOLO SETTE

 

 

Albus raccolse i libri e gli appunti e ficcò tutto nella borsa. Sentì addosso lo sguardo di Scorpius. 

«Ho un’ora libera», spiegò. 

«Io ho Erbologia.» Il suo amico afferrò la sua borsa e se la buttò a tracolla. «Poi raggiungo Rose per cena. Tu che fai?»

«Vado in biblioteca, devo finire quella relazione per la Simson…»

«Ma è per lunedì, abbiamo tutto il weekend.»

I due ragazzi furono gli ultimi a uscire dall’aula di Difesa Contro le Arti Oscure.

«A proposito di Rose», iniziò Albus cambiando discorso. «Dov’è finita?»

«Non stava tanto bene, infatti l’ho spedita in infermeria per farsi dare qualcosa per il mal di testa. Spero stia meglio.»

Albus annuì. Cercava di temporeggiare, non voleva che l’altro vedesse dove andava. 

«Mi conviene andare o farò tardi da Paciock», disse ancora Scorpius guardando l’orologio. «Ci vediamo a cena?»

«Sì, certo.»

Osservò il suo migliore amico camminare a passo spedito lungo il corridoio e poi sparire dietro un angolo. Albus rimase di fronte alla porta aperta dell’aula, le mani buttate nelle tasche dei pantaloni.

«Potter», si sentì chiamare.

Si voltò: il professor Thomas era in piedi di fronte alla lavagna e, con un colpo di bacchetta, aveva appena fatto sparire ogni traccia di gesso bianco dalla superficie scura, che tornò lucida e intonsa. «Una parola, per favore.»

Albus imprecò tra sé e sé. Quel ritardo non ci voleva. Aveva calcolato tutto con precisione, e sarebbe riuscito a fare quello-che-doveva-fare entro l’ora successiva, quando lui e Scorpius si sarebbero rivisti in Sala Grande per la cena. Per Salazar! Che diavolo voleva da lui il professor Thomas, ora?

Fece dietrofront e tornò dentro l’aula, andando a fermarsi davanti alla scrivania ingombra di pergamene e spessi volumi. 

«Va tutto bene, Albus?» gli chiese l’uomo guardandolo da sotto un paio di occhiali dalla sottile montatura argentata che usava solo quando faceva lezione e che gli davano un po’ l’aspetto di una talpa mezza cieca. 

Albus alzò le sopracciglia, stupito. «Certo, va tutto bene.»

«Mi sembri distratto ultimamente…» continuò Thomas. «Preoccupato, quasi. Ogni tanto hai lo sguardo perso e forse neanche ascolti la lezione. Prima ti ho fatto una domanda e ti sei salvato in extremis, ma so che non stavi ascoltando, ho sufficiente esperienza per capirlo, ormai. Che ti succede?»

Albus lo guardò, gli occhi ridotti a due fessure. Non gli era mai piaciuto granché, Dean Thomas. Lui e il professor Paciock tendevano ad impicciarsi troppo nelle loro vite solo perché conoscevano suo padre ed erano stati a scuola con lui. Forse pensavano di potersi comportare come degli zii acquisiti mentre loro erano ad Hogwarts, e preoccuparsi e fare domande invadenti e fuori luogo.

«Abbiamo un sacco di lavoro da fare», spiegò cercando di non risultare troppo scocciato. Voleva liberarsi da quella seccatura in fretta e non voleva dare modo al professore di trattenerlo oltre. «Sa, siamo pieni di compiti ed è sempre dura riprendere dopo le vacanze natalizie…»

Thomas annuì, grattandosi pensieroso il mento. «D’accordo. Voglio però che sia chiaro che non ammetterò ulteriori distrazioni, okay? Voglio e pretendo impegno da parte tua come da chiunque altro.»

«Certo, professor Thomas, non si ripeterà più.» E strinse i denti per impedirsi di mandarlo a quel paese. 

«Voglio anche dirti che se dovessi aver bisogno di parlare con qualcuno… » aggiunse sfilandosi gli occhiali, «… con un qualcuno di adulto, intendo, non esitare a venire da me, Potter.»

«Lo terrò a mente, signore, grazie.»

«Puoi andare, ora.» E Thomas gli indicò la porta con un’occhiata. Albus non se lo fece ripetere due volte. Camminò tranquillamente fuori dall’aula, per non dare l’idea che stesse fuggendo, e poi affrettò il passo quasi a correre, diretto alla Sala Comune di Serpeverde. 

Probabilmente erano quasi tutti a lezione, o in biblioteca, perché Albus notò solo un gruppo di ragazzi del quinto anno semi-distesi su alcuni divani, e i gemelli Nott, Caleb e Lizzie1,  del settimo, seduti ad un tavolino e chini uno verso l’altra a confabulare chissà cosa. Non lo notarono nemmeno, e Albus corse dritto dritto nella sua stanza. Lasciò cadere la borsa a terra e aprì il baule. Tirò fuori dei vestiti, alcuni calzini spaiati, un sacchetto di monete, e una busta con alcuni scherzi di zio George e una scatola di dolci di Mielandia, e trovò ciò che stava cercando, avvolta in una vecchia t-shirt scolorita dei Cannoni di Chudley: la bacchetta di Karl Jenkins gli ricadde sulle ginocchia piegate. Era crepata in più punti e lui la prese in mano e se la rigirò tra le dita, ed era calda al tatto, quasi come se fosse viva. La lasciò cadere come se scottasse e la bacchetta scivolò a terra, rotolando verso il centro della stanza. Albus si sporse, affrettandosi ad afferrarla, gli occhi sbarrati. 

E se qualcuno fosse piombato nel dormitorio proprio in quel momento? Se uno tra Pucey e Rosier fosse passato a prendere un libro, o a farsi un’ora di sonno tra una lezione e l’altra? Se lo avessero visto con la bacchetta di Jenkins, lui cos’avrebbe detto? Cos’avrebbe fatto? Avrebbe afferrato la sua bacchetta e l’avrebbe puntata addosso al malcapitato intruso? E poi cosa? Lo avrebbe provocato?, sfidato?, minacciato? O lo avrebbe attaccato?, osteggiato?, aggredito? O, in ultima istanza, ucciso? Proprio come hai fatto con Jenkins quella sera, sulle rive del Lago, gli sussurrò una voce nella sua testa. È tutta colpa tua, Albus. È solo colpa tua, ricordatelo. Se tu non avessi risposto, Jenkins non si sarebbe sentito minacciato e a quest’ora sarebbe ancora vivo. Cosa dici a tua discolpa? Cosa dirai a tua discolpa quando verrà fuori la verità? Perché la verità verrà fuori, oh, sì, puoi starne certo, gli Auror prendono sempre il colpevole. Cosa dirai a tuo padre e a tua madre? E a tua sorella, che ti guarderà lasciare Hogwarts in lacrime, e profondamente scossa, e preda di un’immensa vergogna…

«BASTA!» esclamò Albus, quasi gridando nel silenzio del dormitorio, le cui pareti di spessa pietra grigia e spoglia gli restituirono la sua stessa eco, propagata ancora e ancora, finché lui non si accasciò sulle ginocchia, la testa tra le mani, mentre quel riverbero gli rimbombava nel petto, battendogli contro lo sterno e mozzandogli il respiro. 

Si dondolò ancora un po’ avanti e indietro, mentre il groppo che gli era risalito in gola cominciava a sgonfiarsi, e a ritrarsi, finché non scomparve del tutto. Allora si ricordò cosa doveva fare, e quel ricordo lo accese, spazzando via ogni paura. Era tornato lucido, e quella lucidità gli diede la forza necessaria per alzarsi in piedi e riprendere il controllo di se stesso. Raccolse la bacchetta di Jenkins e la riavvolse nella maglietta dei Magnifici Sette - un vecchio regalo dello zio Ron, ora che ci pensava. Ficcò l’involto nella borsa e se la buttò a tracolla, non prima però di aver lanciato dentro il baule tutto ciò che ne aveva tirato fuori. Non voleva che qualcuno capitasse nella stanza e si insospettisse: non era mai stato un tipo disordinato, a differenza dei suoi fratelli. 

Si riavviò i capelli scuri e uscì, diretto al settimo piano, il passo affrettato. Nascosto in un anfratto buio dei sotterranei, poco fuori la Sala Comune di Serpeverde, tirò fuori la Mappa del Malandrino e batté sopra la sua ruvida superficie e mormorò: «Giuro solennemente di non avere buone intenzioni». Hogwarts si dischiuse davanti a lui in un complicato intrico di corridoi, passaggi e stanze e scale. Lo sguardo di Albus corse ai sotterranei, dove si trovava attualmente, e individuò il suo cartiglio, con sopra scritto “Albus S. Potter” in eleganti caratteri, proprio dove doveva essere. Negli immediati dintorni non c’era nessuno, a parte i pochi studenti rimasti in Sala Comune o, poco lontano, quelli che in quel momento erano a lezione di Pozioni con la professoressa Simson. Albus si affrettò così lungo il corridoio, tenendo sotto controllo il suo percorso fino al settimo piano, dove sapeva si trovava la Stanza delle Necessità che, in quanto Indisegnabile, non compariva sulla Mappa. 

Ad un certo punto, mentre saliva le scale, a metà tra il quarto e il quinto piano, si nascose in fretta dentro un’aula vuota e impolverata per sfuggire a Pix, che passava proprio di lì fluttuando allegramente, in cerca di qualche soggetto per uno dei suoi scherzi tremendi. Scampato il pericolo, Albus non incontrò ostacoli o rallentamenti e raggiunse il corridoio del settimo piano, fermandosi solo quando ebbe raggiunto l’arazzo di “Barnaba il Babbeo bastonato dai Troll”. Prese a camminare davanti alla lunga e liscia parete di pietra grigia che gli stava di fronte, mormorando tra sé e sé: «Ho bisogno del luogo dove si nasconde tutto», e così per tre volte, avanti e indietro, avanti e indietro, finché al centro della parete non apparve una porta lucidissima. Albus afferrò la solida maniglia d’ottone ed entrò, richiudendosi velocemente la porta alle spalle. 

Davanti a lui si apriva un labirinto, un fitto intrico di strade tortuose, sentieri e passaggi e intercapedini, formati da tutti gli oggetti che migliaia di studenti vi avevano nascosto negli ultimi 25 anni, dopo che la precedente mole di secoli di vergognosi esperimenti e manufatti proibiti era andata distrutta durante la battaglia di Hogwarts. La Stanza era sempre il fedele nascondiglio di illeciti e colpe da occultare, errori e oggetti illegali, come gli articoli dei Tiri Vispi, ai quali il vecchio Gazza dava sempre una caccia disperata. 

Albus superò alcune cataste di cianfrusaglie e oggetti impilati alla rinfusa, e alcune erano talmente alte che anche solo un minimo movimento rischiava di farle crollare. C’era un po’ di tutto: bottiglie vuote, vecchi cappelli di ogni tipo e foggia, casse contenenti non si sapeva bene cosa, sedie mezze rotte, libri strappati o proibiti, armi (come un vecchio arco e un pugnale intarsiato), manici di scopa modificati (che però non erano ammessi nelle partire ufficiali), mazze da Battitore truccate, ma anche bauli rotti e sfondati, vestiti di dubbio gusto e altri oggetti non meglio identificati come delle manette, una palla da calcio Babbana, una bandiera dell’Inghilterra e alcuni striscioni dei Ballycastle Bats. Albus sapeva esattamente dove andare e camminò a zig-zag in mezzo a quel mare di oggetti che testimoniavano altrettante vite, e ricordi, e pezzi di passato, fino a raggiungere un baule aperto e traboccante di vecchi vestiti da mago e strega che nessuno usava più e che forse erano andati di moda tra i maghi adulti una quindicina di anni prima - anche se parlare di moda era davvero eccessivo. 

Albus poggiò la borsa a terra, si chinò, e ne tirò fuori l’involto contenente la bacchetta. Sospirò, e lo aprì un’ultima volta, come se a riguardarne il contenuto provasse quasi un sottile piacere, una corrente che gli stringeva lo stomaco e gli dava i brividi, che lo faceva stare male ma che allo stesso tempo gli procurava un’insensata attrazione. Ne era attirato come un’ape dal miele, ma voleva anche disfarsene, o quanto meno nasconderla, non vederla più, e lasciarla lì, finché tutti se ne sarebbero dimenticati, gli anni sarebbero passati e nessuno avrebbe più ricordato Karl Jenkins e la sua triste storia. Forse qualcuno l’avrebbe trovata, tra dieci, venticinque, cinquant’anni, ma sarebbe stato solo un altro oggetto dimenticato, e nascosto, e preda dell’oblio, come tutto ciò che quella stanza conteneva. Magari quella catasta di roba sarebbe anche andata nuovamente distrutta, come era successo con l’Ardemonio tanti anni prima, e allora tutto quanto si sarebbe ridotto in cenere. Per un momento, sperò quasi che succedesse.

Albus avvolse la bacchetta in una vecchia camicia bianca ingiallita con delle ruches sul davanti, e ficcò il tutto al fondo del baule, sotto il resto degli abiti. Lanciò un’ultima occhiata al mucchio disordinato e, dopo aver ficcato la maglia dei Cannoni nella borsa, si rialzò e tornò sui suoi passi. Ora che l’aveva fatto, voleva solo andarsene di lì per non rimetterci più piede. Si sentiva sollevato, come se la borsa pesasse chili e chili di meno, e la stretta che gli attanagliava il petto si fosse attenuata e distesa, e lui fosse tornato a respirare. Sì, sarebbe andato tutto bene, ora che la prova di ciò che avevano fatto non era più in suo possesso. Anche se Teddy e Roger Davies avessero perquisito il dormitorio, non avrebbero trovato nulla che avrebbe potuto far ricadere i sospetti su di lui o, peggio ancora, incriminarlo. 

Albus afferrò la maniglia e uscì in corridoio. Non osservò la Mappa, preso com’era dai suoi pensieri, perché altrimenti avrebbe visto Cassandra Zabini2 ferma in mezzo al passaggio, appoggiata accanto all’arazzo di Barnaba, le braccia incrociate sul petto. Ne incontrò immediatamente lo sguardo e sbarrò il suo. Cazzo, pensò. 

Si richiuse in fretta la porta alle spalle e imprecò tra sé e sé. Cosa ci faceva lì Cassandra Zabini? Se fosse stata lì per la Stanza, avrebbe benissimo potuto usarla anche con lui al suo interno. Quindi voleva dire che non era lì per la Stanza; era lì per lui

«Cassandra?» esclamò quindi, interrogativo, cercando di suonare disinvolto.

La Serpeverde si staccò dal muro e lo raggiunse. «Stai bene?» gli chiese quindi, stupendolo. Perché gli stava chiedendo come stava? 

Albus inarcò le sopracciglia. «Sì… Perché?»

Cassandra annuì e le belle labbra piene si schiusero leggermente mentre espirava e lo guardava. Sembrava sollevata, ma allo stesso tempo non particolarmente convinta. 

«Mi sei passato davanti, in Sala Comune, poco fa…» cominciò a spiegare lei, le mani nelle tasche dei pantaloni - un paio di vecchi pantaloni di Roland Zabini2, suo fratello, quando ancora frequentava Hogwarts; a Cassandra non importava stravolgere le vecchie e obsolete regole della scuola, che come divisa per le ragazze prevedevano una gonna; questa era una delle ragioni per cui ad Albus piaceva così tanto. «Ti ho chiamato ma non mi hai sentito… Sei uscito come una furia, e così ti ho seguito.»

«Oh, scusami», rispose lui passandosi una mano tra i capelli. «Ero soprappensiero.»

Cassandra continuava a guardarlo e questa cosa non faceva bene al suo tentativo di dissimulare. E non faceva bene neanche al suo stomaco, se doveva proprio dirla tutta: Cassandra esercitava su di lui un’attrazione non indifferente, con quegli occhi neri e scintillanti e la pelle scura color ebano, e i capelli soffici e quelle labbra irresistibili e quel corpo alto e flessuoso, come un giunco… Albus scosse la testa, cercando di tornare concentrato. Non poteva permettere che la sua compagna di classe scoprisse qualcosa, qualsiasi cosa, su tutta la faccenda di Jenkins. Nessuno poteva sapere, e poi Albus non voleva coinvolgere Cassandra, non voleva che lei lo giudicasse e lo ritenesse colpevole. Non avrebbe potuto sopportarlo. 

«Tu che ci fai qui?»

«Te l’ho detto, ti ho seguito», rispose lei stringendosi nelle spalle e sorridendogli. «Avevi uno sguardo da pazzo, poco fa…»

«Ah, sì.» Albus strinse con forza la tracolla che portava a spalla e sentì le unghie conficcarglisi nelle pelle. Sei un coglione, pensò. Smettila di fare l’idiota

«Per cosa hai usato la Stanza, quindi?» gli chiese lei indicando con un cenno della testa la parete di pietra, dove fino ad un attimo prima si apriva la porta per la Stanza delle Necessità. 

Cazzo

«Oh, niente, ho nascosto qualche bottiglia che tenevo in dormitorio», rispose prontamente. «Ho sentito parlare di una possibile ispezione… sai, per via della storia di Karl… e non volevo che le trovassero, tutto qui.»

Cassandra lo guardò furbescamente. «Lo sai che dovrei fare rapporto, vero?» E si indicò il petto, al quale era appuntata la spilla da Prefetto. 

«So che non lo farai», disse lui a bassa voce facendo un passo in avanti e guardandola negli occhi. 

Lei sbatte un paio di volte le ciglia e ad Albus si accartocciò lo stomaco. Cazzo, se è bella

«Mi fai infrangere le regole un po’ troppo spesso, Potter.»

«È divertente.»

Lei scosse la testa. «No, è pericoloso. Tu sei pericoloso.»

Si guardarono per un momento, e poi Albus distolse lo sguardo, ed era come se Cassandra gli avesse detto «tu sei pericoloso, so cos’hai fatto a Karl, so che sei stato tu», accompagnato da un pugno nello stomaco così forte che gli mancò il fiato. 

«È meglio se andiamo a cena, prima che Scorpius allerti la scuola per la mia scomparsa.»

E così si incamminarono in silenzio, spalla contro spalla, pensierosi. O almeno, Albus era pensieroso. 

Forse Cassandra Zabini gli piaceva da sempre, da quando i suoi occhi avevano incontrato quelli di lei, durante lo Smistamento. Albus era già seduto al tavolo dei Serpeverde, accanto a Scorpius, a metà tra lo sconvolto e il sorpreso, non sapendo bene cosa pensare di ciò che gli era appena successo. Aveva sempre desiderato finire in Grifondoro, insieme a tutto il resto della sua famiglia che, a parte qualche eccezione (come Dominique, che era stata una Corvonero4), apparteneva interamente alla casa rosso-oro. E invece era stato smistato in Serpeverde, proprio dove aveva pensato - e temuto - che sarebbe finito. Il Cappello lo aveva trattenuto a lungo, più a lungo di chiunque altro, e alla fine aveva deciso e forse aveva assecondato le paure più radicate nel suo cuore, quelle che gli sussurravano all’orecchio che sarebbe stato un perfetto Serpeverde e che lì, e solo lì, avrebbe potuto trovare se stesso. Con il senno di poi, aveva ringraziato il Cappello Parlante innumerevoli volte, ché non avrebbe potuto fare meglio, per lui. E così, seduto a quel tavolo, spaesato e tremante com’era, aveva guardato quella bambinetta alta e sottile, più alta di qualsiasi altra bambina della sua età, incedere con passo sicuro e sedere sullo sgabello. Il Cappello le aveva sfiorato appena la testa e aveva gridato «SERPEVERDE!» con forza e il tavolo era esploso per Cassandra Zabini, e lei gli si era seduta accanto, e gli aveva teso la mano, dopo che i ragazzi più grandi l’avevano festeggiata a dovere. «Ciao, Albus, piacere di conoscerti», gli aveva detto sbattendo le ciglia. Albus non aveva mai visto creatura più bella. «Mi chiamo Cassandra.»

Albus si sentì afferrare per un braccio e trattenere, e si fermò ai piedi dello Scalone di Marmo. Cassandra lo guardava in modo strano e lui si sentì sprofondare. Con lei, ogni sicurezza andava a farsi benedire, e si sentiva di nuovo un undicenne. 

«Albus…» iniziò lei. «Mi chiedevo…»

«Sì?» chiese lui, trattenendo il respiro. Ora sì che sembrava un undicenne. 

«Hai già scritto la relazione per la Simson?»

Le spalle di Albus si afflosciarono leggermente, forse perché sperava che Cassandra gli chiedesse qualcosa di più importante della relazione per la Simson. «In realtà non l’ho ancora iniziata… Perché?»

«Mi chiedevo se ti andasse di lavorarci insieme. È da tanto che non studiamo, tu e io. Da soli.» Gli sorrise timidamente, quasi come se prevedesse un rifiuto e avesse paura della sua risposta. Albus comprendeva bene quanto lui e Scorpius si fossero trincerati in quel loro gruppo a due, da che aveva ricordi, praticamente, e solo di recente avevano permesso a Rose di entrarci, ma molto spesso era Albus ad andarsene e a lasciare Rose e Scorpius da soli, e si rifugiava in biblioteca o in Sala Comune, e studiava per conto suo, senza avvicinare nessuno. I primi anni, lui e Cassandra erano soliti studiare insieme Pozioni, solo quella materia, nessuno dei due sapeva bene perché, ma col passare del tempo quell’abitudine era scemata, andando a perdersi man mano. 

«Sei sicura che alle tue amiche non dispiacerà?»

«Sei sicuro che a Scorpius non dispiacerà?» Cassandra lo guardava sorridendo sorniona, e prendendolo bellamente in giro senza tante cerimonie. Questa era un’altra ragione per la quale gli piaceva da morire. 

«Ci vediamo qui davanti domani dopo pranzo?» le chiese quindi.

Cassandra annuì e Albus sentì il suo stesso viso trasfigurarsi, e aprirsi in un vero, e spontaneo, e autentico sorriso, come non succedeva da giorni. Gli faceva quasi male la mascella.

I due entrarono in Sala Grande e Albus captò numerose paia di occhi osservarli e seguirli mentre raggiungevano insieme il tavolo di Serpeverde. Si sorrisero ancora una volta e poi Cassandra raggiunse le sue amiche e Albus prese posto accanto a Scorpius. 

«Tu e la Zabini?» gli chiese l’amico. «Non è una storia vecchia, questa?»

Albus lasciò cadere la borsa a terra e si precipitò ad afferrare una focaccina di mais, che si infilò in bocca senza farsi alcuno scrupolo. Moriva di fame, ora che ci pensava bene. 

«Domani —udiamo inscieme», raccontò ingozzandosi e riempiendosi il piatto di pasticcio.

«Come, scusa?»

«Hai sentito», continuò ingoiando un boccone. «Studiamo insieme, domani.»

«Ah, allora avevo capito bene.»

«Che c’è di strano?»

«Nulla, devi solo stare attento», rispose Scorpius sussurrando e chinando la testa in modo che nessuno potesse sentirlo.

Albus gli lanciò un’occhiata in tralice. Quella conversazione stava già minacciando di stufarlo. «Attento a cosa? La mia virtù è andata, ormai.»

«Ah-ah, divertente», commentò l’altro piegando la testa. «Sai bene a cosa mi riferisco. Cassandra ti piace da… vediamo… dal primo giorno di scuola? Quindi da secoli. Non vorrei che ti lasciassi sfuggire qualcosa di tutta questa storia mentre sei con lei, ecco…»

Albus lasciò cadere la forchetta nel piatto e un CLANG risuonò sonoro lungo quel tratto di tavolo. Alcune teste si girarono a guardare, ma distolsero subito lo sguardo quando videro di chi si trattava. 

«Insomma…» cominciò recuperando la forchetta e infilzando un pezzo di carne. «Per chi mi hai preso, si può sapere? Non sono mica rimbambito, sai?»

«Non scherzare, Albus, per favore, è un discorso serio, il mio», lo pregò l’amico e Albus, dal canto suo, alzò gli occhi al cielo. Scorpius era sempre stato teatralmente esagerato. «Ti sto solo consigliando di fare attenzione, è facile lasciarsi andare e dire cose di cui poi ci pentiremmo, tutto qui.»

«Oh, Scorpius, ma perché devi sempre essere così serio?» esclamò versandosi del succo di zucca. Si sentiva moderatamente euforico, dopo che l’ansia non gli aveva dato pace per tutto il giorno. In quel momento pensò che avrebbe sicuramente chiesto a Cassandra di uscire, in occasione della visita ad Hogsmeade fissata per il fine settimana successivo. «Non ho intenzione di lasciarmi andare, e poi anche se fosse? Non è che sei geloso?»

Scorpius scosse la testa e si passò una mano sugli occhi, trattenendo però a stento una risata. Alla fine, Albus riusciva sempre a farlo ridere, a volte anche solo per sfinimento.

«Non sono geloso, anzi, sono felice perché così finalmente mi sentirò meno in colpa quando vorrò passare del tempo con Rose», replicò quindi. 

«Ecco, vedi? Siamo tutti contenti. Anche se», aggiunse, «Cassandra e io studiamo insieme, mica ci sposiamo.»

«Uff», sbuffò Scorpius. «So come funzionano queste cose… Da un momento all’altro ti ritrovi in una coppia e les jeux sont faits

«Odio quando parli in francese, lo sai, vero?»

Scorpius lo guardò furbescamente. «Lo so.»

Nonostante la conversazione fosse sfociata in una delle loro solite tiritere ironiche e canzonatorie dove si dicevano cose in modo sottile, e allo stesso tempo non si dicevano niente, ché i sottintesi erano meglio, Albus aveva capito cosa intendeva dire il suo amico: stai attento perché potresti innamorarti e allora sarebbe difficile tacere. E il fatto era che lui sapeva di correre quel rischio, perché Cassandra gli piaceva troppo per non provarci, proprio lui che pensava di non meritarsi niente, men che meno qualcuno che lo amasse e che non fosse solo la sua famiglia, ma che inaspettatamente lo avesse scelto - avesse scelto di amarlo e basta. E forse era proprio ciò che anelava, ed era probabilmente un desiderio sciocco, e debole, quasi patetico, ma se lo sentiva strisciare addosso, e insinuare sotto pelle, e pulsare nel petto, e non poteva fare nulla per fermarlo. Lo teneva a bada da quasi sei anni, ed era stanco di dissimulare, di trattenersi, di far finta di niente, solo perché non si sentiva all’altezza - non si sentiva all’altezza di lei

Lui e Scorpius rimasero in silenzio per il resto della cena, entrambi immersi nei propri pensieri vorticanti. 

 

 

Due ore prima

James Potter e Louis Weasley furono gli ultimi a uscire dall’aula di Aritmanzia della professoressa Vector, carichi e stracarichi di compiti con i quali avrebbero riempito il loro weekend, che si prospettava splendido. E avevano anche gli allenamenti di Quidditch. Nonostante il primo incontro del nuovo anno sarebbe stato Serpeverde contro Corvonero, e il Grifondoro non avrebbe affrontato il Tassorosso prima di marzo, James aveva comunque messo sotto la sua squadra con allenamenti serrati e intensi, e aveva prenotato il campo per due ore il sabato pomeriggio, durante le quali avrebbero studiato le tattiche dei Tassi osservate durante il loro incontro con Corvonero di fine novembre. Era fermamente intenzionato a portarsi a casa la coppa per un altro anno - il suo secondo anno da Capitano. 

In più, al Quidditch si sommava tutta la marea di preoccupazioni legate ai M.A.G.O. Il test preparatorio era andato molto bene, nonostante quello che era successo la sera prima… E, a tal riguardo, James si sforzava di non pensarci troppo, cercava di svuotare la mente e di scacciare via l’immagine di Jenkins, e la situazione stava migliorando rispetto a qualche giorno prima, ma comunque, tutte le volte che incrociava nei corridoi qualcuno come le sue cugine, o Scorpius Malfoy, distoglieva sempre lo sguardo e cercava di non fermarsi a fare conversazione, ché pensava che qualsiasi tipo di coinvolgimento potesse poi portare a lui, e Albus gli aveva raccontato degli interrogatori ai quali Teddy aveva sottoposto lui, Scorpius, Rose e Roxanne, gliene aveva parlato giusto la sera prima, subito dopo cena, prima di raggiungere le loro Sale Comuni, e James, dal canto suo, non riusciva a smettere di pensare alla bacchetta di Jenkins, nascosta al fondo del baule del fratello minore, e anche alla sua bacchetta che, se fosse stata sottoposta ad esame, avrebbe rivelato a tutti la Trasfigurazione Umana eseguita sul Serpeverde - e lui sarebbe stato fregato. E fregato alla grande. 

«Dobbiamo proprio, James?» gli chiese Louis interrompendo il suo flusso di pensieri e incamminandosi lungo il corridoio.

«Dobbiamo», rispose. «Sai com’è fatta Lucy, non possiamo darle buca.»

Louis alzò gli occhi al cielo e si scrocchiò le dita con fare minaccioso. James lo guardò e Louis lo guardò e tutti e due scoppiarono a ridere. 

«A quest’ora avrà già preparato due terzi della ricerca, conoscendola», commentò il cugino.

«Appunto.»

Il professor Thomas, durante l’ultima lezione di Difesa contro le Arti Oscure, aveva assegnato loro una ricerca sulle tre Maledizioni Senza Perdono, argomento che era stato inserito nel programma di studio del settimo anno dall’Ufficio per l’Istruzione Magica5 del Ministero, ma solo in tempi recenti, da quando cioè il Primo Ministro Hermione Granger aveva convenuto fosse meglio conoscerle, per riuscire a combatterle, piuttosto che «ficcare la testa sotto la sabbia come gli struzzi» (come aveva detto lei, anche se non tutti avevano capito il riferimento) ed evitare di affrontare l’argomento. E così, Dean Thomas li aveva divisi in gruppi da tre persone e ad ogni persona era stata affidata una Maledizione. Lui e Louis erano finiti con Lucy, e il professore aveva assegnato l’Imperius a Louis, la Cruciatus a Lucy e l’Anatema che Uccide a James. Non sapeva se si sentiva totalmente a suo agio con l’idea di fare ricerche nel Reparto Proibito e scavare a fondo sull’argomento, dopo che suo padre era sopravvissuto a quell’Anatema non una (e già sarebbe stato un miracolo) ma per ben due volte. Aveva quindi pensato di chiedere a Thomas se potesse fare cambio con uno dei suoi cugini, ma poi ci aveva rinunciato, non voleva attirare l’attenzione su di sé e non voleva che l’uomo lo considerasse un ragazzino facilmente preda dei sentimentalismi. 

Arrivati davanti alla biblioteca, James imprecò sottovoce e affondò la testa nella borsa, alla ricerca del libro di Difesa. Cazzo, lo aveva dimenticato in dormitorio.

«Devo passare a recuperare il libro, Louis», disse.

«Okay», replicò l’altro. «Vuoi che venga con te?» 

Molto probabilmente si sarebbe persino buttato dalla finestra, se James glielo avesse chiesto, tutto tranne affrontare la cugina Lucy da solo. Louis e Lucy avevano un rapporto strano, praticamente da sempre. Erano molto simili, sotto gli strati di muscoli e baldanza di uno e di perfezionismo ai limiti del maniacale dell’altra, ma nessuno dei due lo avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura. Erano due poli opposti che si attraevano, irrimediabilmente, nonostante le loro apparenti diversità e i loro scontri cuore contro cervello. Louis era molto più istintivo e distratto, agiva di getto e parlava solo quando costretto, non era mai stato un chiacchierone; Lucy invece era ponderata e misurata, offriva opinioni non richieste a tutti, persino a chi non conosceva direttamente, e voleva sempre avere l’ultima parola, cascasse il mondo. James si divertiva sempre un mondo con quei due, e si ritrovava più spesso di quanto volesse a fare da giudice imparziale in qualche disputa o vivace diatriba.

«No, raggiungi Lucy, così la calmi», rispose quindi James scuotendo la testa. «La sento già scalpitare da qui.»

Louis sbuffò, passandosi una mano tra i capelli e riavviando il ciuffo biondo, che gli ricadde sulla fronte, scomposto e spettinato. «Va bene, ma vedi di fare in fretta o potresti trovare un pasticcio di carne di Lucy quando torni.»

«Fai il bravo, cugino», gli gridò dietro James mentre prendeva il corridoio, diretto a passo svelto al dormitorio di Grifondoro. 

Non incontrò nessuno durante il suo percorso, probabilmente erano tutti a lezione o a studiare in biblioteca, ma quando varcò il buco del ritratto («Re Ragnuk6» era la parola d’ordine) si fermò di botto, quasi al centro della Sala Comune deserta - a parte per una persona. 

Caitlin Finnigan sedeva accanto al caminetto acceso, su una poltroncina laterale, quasi defilata, si cingeva le ginocchia con le braccia e si dondolava avanti e indietro, i capelli castani spettinati e gli occhi rossi e gonfi di pianto. Singhiozzava. James si limitò a guardarla, dapprima senza sapere bene cosa fare, ma poi, quando la ragazza alzò lo sguardo e lo vide, allora lui fece qualche passo avanti, quasi d’istinto, spinto da una forza invisibile che non sapeva neanche di possedere. Lasciò cadere la borsa dei libri per terra e si dimenticò di tutto quanto: di cosa era venuto a cercare, del libro di Difesa, della ricerca sulle Maledizioni e del pasticcio di carne che Louis avrebbe fatto di Lucy. 

«Cait…» cominciò avvicinandolesi. Si inginocchiò al lato della poltrona, una mano sullo schienale per tenersi in equilibrio. «Cait, cos’è successo?»

Caitlin scosse la testa e la seppellì in mezzo alle ginocchia piegate. 

«Cait, hei…» James allungò una mano e le carezzò dolcemente i capelli, scostandoglieli un pochino dal volto, al quale si erano appiccicati per via delle lacrime che le rigavano le guance. «Dài, dimmi cos’è successo… È colpa di qualche professore?»

Caitlin alzò la testa e tirò su col naso, schiarendosi la gola mentre i singhiozzi quasi non la facevano respirare. Era sconvolta e in James cominciò a farsi largo un’idea… Un’idea spaventosa e folle, un’idea che gli chiuse lo stomaco e gli fece accelerare il battito cardiaco: se Caitlin fosse andata da Teddy a raccontargli tutto? 

No, non poteva essere. C’era una parte del suo cervello, la parte razionale e ragionevole, quella che rifletteva sulle cose prima di giungere ad affrettate conclusioni, che gli diceva di non essere sciocco, ché Cait non li avrebbe mai traditi, e consegnati, mai e poi mai. 

«Io…» cominciò lei, e la voce le uscì così bassa e tenue che James dovette avvicinarsi per sentirla. «Io ho…» si interruppe mentre un altro singhiozzo le scuoteva la gola e il petto e la ragazza abbassò le gambe e si portò una mano sul cuore, mentre le lacrime la sconquassavano dall’interno, e un malessere che James non riusciva a definire era dipinto in fondo ai suoi occhi chiari. 

Caitlin alzò la testa a guardarlo negli occhi e il suo viso si accartocciò in una smorfia, e sembrava una bambina piccola, indifesa e in balia di un terrore senza nome. «Ho paura, Jamie.»

James allungò le braccia e la strinse a sé, istintivamente, senza neanche pensarci. Caitlin non lo chiamava Jamie da così tanto tempo… Nessuno lo chiamava più così, ormai. 

Caitlin si rifugiò tra le sue braccia e James la sollevò dalla poltrona, ed era quasi senza peso talmente era leggera, come un piccolo fiore delicato che rischiava di sgualcirsi se solo qualcuno lo avesse raccolto con troppa foga. Sedettero sul divano lì di fronte, Caitlin accoccolata tra le sue braccia e James che la cullava come si culla qualcosa di prezioso e caro, in silenzio, mentre lei piangeva e piangeva e le lacrime gli bagnavano il maglione della divisa, ma a lui non importava, non importava nulla, a parte lei. 

Rimasero lì, stretti, aggrappati l’uno all’altra, per un tempo imprecisato. Forse ore, giorni, o forse solo minuti, frazioni di secondo che sembrarono lunghe secoli. James non avrebbe più voluto lasciarla andare, ora che l’aveva così vicina, ora che sentiva che si sarebbe potuta disfare tra le sue dita, se solo lui avesse lasciato la presa. 

Fu Caitlin ad alzare il viso per prima, e James le appuntò i capelli dietro un orecchio, e le liberò la fronte bollente, e le carezzò una guancia umida. Cait lo guardò e c’era qualcosa di nuovo, al fondo dei suoi occhi, qualcosa che James non aveva mai visto prima. 

«Scusa, ti ho bagnato tutta la maglia…» iniziò lei distogliendo lo sguardo e passandogli una mano sulla spalla. James si sentì come punto da un’Acromantula: un’elettricità gli si propagò in tutto il corpo ed era un po’ come se un veleno, bello ma letale, gli si stesse diffondendo nelle membra. 

«Non fa niente, davvero», rispose quindi cercando gli occhi di lei. Cait li teneva insistentemente bassi. 

«Stai meglio, ora?» continuò lui. «Mi vuoi dire cos’è successo?»

«Credo di aver avuto un attacco di panico», disse lei a mezza voce. «Ora sto bene.»

«Cait…»

La ragazza ora alzò lo sguardo e James rimase ancora una volta colpito da ciò che poteva e riusciva a leggervi. 

«Teddy mi ha interrogata, poco fa», iniziò. Abbassò nuovamente lo sguardo e cominciò a torcersi le dita, strettamente. 

«Teddy ti ha interrogata? E perché?»

«Perché anche io faccio parte della cricca di Albus Potter, no?» spiegò lei scrollando le spalle, forse a volergli dare l’idea che in fondo non le importasse il motivo. 

«E…?»

«È stato molto insistente. Mi ha fatto domande sul nostro gruppo… su Jenkins…» e rabbrividì istintivamente, «… su cosa ne pensassi del rapporto altalenante tra lui e Albus… se sapevo qualcosa della rissa fuori dagli spogliatoi… E poi mi ha chiesto dov’ero quella sera…»

«Cazzo», imprecò James passandosi una mano sugli occhi stanchi da sotto le lenti degli occhiali. 

«Mi dispiace, James, ho paura di aver fatto un casino…»

«Tu non hai fatto nessun casino, d’accordo?» esclamò lui prendendola per le spalle e guardandola negli occhi, fermo e deciso. «Tu non hai fatto niente

Lo sguardo di Caitlin vacillò per un momento e poi lei gli prese una mano e gliela strinse. «Non è colpa tua.»

«Certo, continuo a ripetermelo. Se non è mia, allora di chi è? Sono stato io a trasfigurarlo, Cait… io…», aggiunse abbassando la voce. 

Lei si chinò per cercare i suoi occhi. «Lo hai fatto per aiutare tuo fratello… Per aiutare tutti noi. E sarò pronta a testimoniarlo, se mai dovesse succedere qualcosa, non permetterò che tu ci vada di mezzo…»

«Hei hei hei», si affrettò a dire lui continuando a tenerle stretta la mano. «Non succederà niente, okay? E nessuno dirà niente. Staremo bene.»

Lo aveva detto più per convincere se stesso o per convincere Caitlin? Non lo sapeva. 

«Teddy ti ha chiesto altro?»

Cait scosse la testa. «No, ma non è stato piacevole. Mi faceva una domanda dietro l’altra, come se sapesse che io sapevo e volesse tirarmelo fuori, capito? È stato orribile…»

«Per questo sei stata male?» James sentiva montare dentro una rabbia cieca, una rabbia che non sapeva quanto ancora sarebbe stato in grado di contenere. 

«Sono corsa qui non appena uscita da quell’aula. So che probabilmente la mia reazione è stata esagerata, Lupin stava solo facendo il suo lavoro, ma ho avuto paura, e sono crollata.»

«Meno male che stamattina ho dimenticato il libro di Difesa, allora…» aggiunse James sorridendole.

Lei ricambiò il sorriso. «Grazie, Jamie.»

«Mi piace come suona. Jamie

«Sei sempre il solito egocentrico», rise lei dandogli un buffetto sulla spalla. «Jamie», aggiunse però alla fine.

Lui le afferrò una mano e gliela baciò. «Non devi avere paura. Non permetterò che ti succeda qualcosa.»

«James…» cominciò lei, ma James si alzò dal divano e la guardò. 

«Devo fare una cosa», disse. 

Cait alzò entrambe le sopracciglia, stupita. 

«Sei sicura di stare bene?»

«Sto bene, sì», rispose lei annuendo. «Ma cosa devi fare? Resta qui…»

James capiva cosa significava quella richiesta, ma al momento proprio non poteva. Doveva prima parlare con Teddy Lupin. 

«Ci vediamo a cena?»

«Ti aspetto.» Caitlin si alzò in piedi e gli depositò un bacio sulla guancia, lieve e che sapeva di sale. 

James la guardò un’ultima volta e, con tutta la forza del mondo, uscì dal buco del ritratto.


 


 

Note:

1. Elizabeth Nott: Serpeverde del settimo anno, sorella gemella di Caleb; personaggio di mia invenzione.
2. Cassandra Zabini: Serpeverde del sesto anno, figlia di Blaise Zabini e Alhena Lestrange; sia Cassandra, sia Alhena sono personaggi di mia invenzione.
3. Roland Zabini: ex Serpeverde, fratello maggiore di Cassandra; personaggio di mia invenzione.
4. Dominique in Corvonero: visto che non abbiamo informazioni precise sulla sua Casa, ho improvvisato.
5. Ufficio per l’Istruzione Magica: ho fatto ricerche e mi sembra che non esista un Ufficio del genere, per cui ho deciso di inventarlo.  
6. Re Ragnuk: re dei goblin ai tempi di Godric Grifondoro, nonché colui che ne forgiò la leggendaria spada [fonte].

 

Allora, vorrei aggiungere solo alcune cosette in conclusione. Quando descrivo la bacchetta di Jenkins, scrivo che è crepata in più punti, questo perché è stata soggetta ad un ritorno di fiamma; non sappiamo quali siano le conseguenze di tale incidente, per cui sono andata d’inventiva personale. Riguardo la “stanza in cui vengono nascoste le cose”, so che viene distrutta da Tiger quando evoca l’Ardemonio, ma ho pensato che, con gli anni, sia stata ricostituita una nuova “stanza delle cose nascoste” da tutti gli studenti che sono venuti dopo. L’elenco del contenuto della Stanza è stato da me ripreso e modificato dal testo originale della Rowling. 

Passando al discorso delle Maledizioni Senza Perdono, ho pensato che siano state reintrodotte nei programmi di studio di Hogwarts proprio da Hermione, quando diventa Ministro della Magia; subito dopo la guerra erano state tolte, ma penso che i tempi siano nuovamente maturi per affrontarle e poi è meglio conoscere per poter prevenire, piuttosto che far finta di niente e rimanere impreparati.

Ebbene, è un Albus innamorato quello che abbiamo conosciuto in questo capitolo, molto diverso dal solito Albus - e dall’Albus di cui abbiamo letto anche solo all’inizio di questo capitolo. Spero che Cassandra vi sia piaciuta, lei avrà un ruolo importante nei confronti di Albus e la sua vicinanza sarà determinante, per lui. E con questo vi ho dato già una bella anticipazione.

Il finale con James e Cait… be’, che dire, James ci tiene tanto, e ho amato scrivere questa scena perché l’ho trovata molto tenera. Leggiamo un lato inedito di Jamie che però mi piace tanto. La conclusione lascia il capitolo aperto per il prossimo: chissà dove andrà James tutto convinto? Previsioni? 

Nel prossimo capitolo torneranno Teddy e Roger, non temete 😏

 

Ringrazio come al solito tutti coloro che leggono, recensiscono e amano questa storia, grazie davvero ♥︎ se vi va, sono riuscita a pubblicare la famosa oneshot sulla Lucius/Narcissa di cui vi parlavo, Golden Hour, per chi fosse amante della coppia.

Alla prossima settimana, Marti.

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Capitolo 9
*** CAPITOLO OTTO ***


Per chiunque avesse voglia di approfondire il rapporto tra Roger e Prudence, vi lascio qui una piccola shot scritta proprio su di loro: Azzurro nell’azzurro.
Fatemi sapere cosa ne pensate ♥︎

 


 

8.

CAPITOLO OTTO

 

 

James percorse a passo sostenuto i corridoi e le scale che lo dividevano dal piano terra, dove si trovava l’ex aula in disuso che la McGranitt aveva destinato a Teddy e alle sue indagini. 

La rabbia fuoriusciva da lui a ondate, che andavano ad infrangersi contro le rive esterne, minacciando di sommergere chiunque avesse provato a fermarlo, e qualsiasi cosa si fosse messa sul suo cammino. Capiva perfettamente che Teddy stesse solo facendo il suo lavoro, ma ciò che non capiva era dove volesse arrivare, e quali mezzi fosse disposto ad utilizzare per raggiungere il suo fine. Quest’ultimo gli era ben chiaro: scoprire la verità su Karl Jenkins e su quello che era realmente successo quella notte - e chissà quali e quante altre cose sapevano, lui e il suo collega Davies: sicuramente sapevano del ritorno di fiamma, sapevano della Trasfigurazione, sapevano persino che qualcuno aveva gettato Jenkins nel Lago Nero, per occultarne il ritrovamento. Ciò che presumibilmente non sapevano - almeno non ancora - era chi avesse fatto tutte quelle cose - e perché. Ma forse un’idea il buon vecchio Teddy se l’era già fatta, ché gli interrogatori di Albus, Scorpius, Rose, Roxanne e adesso Caitlin erano troppo evidentemente palesi nelle loro finalità per risultare una semplice coincidenza, o comunque a lui non apparivano come tale, ed era sicuro anche a molti altri - di sicuro a tutti coloro che erano al corrente dell’esistenza della cricca di Albus Potter. 

Come si era permesso, però, Teddy Lupin, di mettere sotto torchio Caitlin così? Con quale arroganza si era arrogato il diritto di convocarla e farle domande inopportune e insistenti? Cosa sperava di ottenere, una confessione, forse? Un’ammissione di colpa? Pensava forse che Caitlin gli avrebbe snocciolato tutto quanto, tutto ciò che era successo, e tutti i nomi delle persone coinvolte? A quanto pareva sì, lo pensava. E lo sperava, anche. 

Forse si era sbagliato nel pensare che l’arrivo di Teddy in qualità di Auror potesse assicurare loro una sorta di protezione, un’assicurazione che tutto sarebbe andato bene e loro l’avrebbero passata liscia; forse aveva sottovalutato la dedizione del suo quasi cugino alla causa e al suo lavoro; forse aveva mal riposto le sue speranze; forse poteva - e doveva - contare unicamente su se stesso per risolvere quella storia. 

Difatti, Caitlin era a pezzi, si era rivelata un tassello debole, i nervi tesi; Rose era sempre nervosa e stava spesso male, con quei suoi continui mal di testa, e faceva spesso visita all’infermeria; Scorpius sembrava interessato unicamente a Rose, alla sua salute e alla sua sicurezza e, in ogni caso, per James costituiva un mistero intelligibile e celato; Roxanne gli era sembrata sempre la stessa, in un primo momento, ma recentemente gli era parsa silenziosa e scostante e sulle sue, proprio tutto l’opposto di com’era sempre stata; infine, suo fratello Albus era ancora più adombrato e cauto e scrutava tutti con sguardo sottile e indagatore, come un animale braccato. 

Raggiunta l’aula accanto alla Sala Grande, entrò senza nemmeno bussare. Spalancò la porta e trovò Teddy seduto alla sua scrivania improvvisata, sommerso di carte e pergamene, una mano immersa tra i capelli, in quel momento biondicci e spettinati. Alzò di scatto la testa e sbarrò gli occhi, sorpreso dal suo irruente ingresso. 

«James?» lo accolse, stranito.

«Cosa cazzo pensavi di fare?» esplose James fermandosi davanti a lui, in piedi, le mani poggiate sul ripiano in legno. 

«Come, scusa?» Le sopracciglia di Teddy si sollevarono talmente tanto che andarono quasi a sfiorare l’attaccatura dei capelli. 

«Cosa pensavi di fare interrogando Caitlin come se fosse uno di quei Maghi Oscuri che sei solito catturare e portare al Ministero? Chi ti credi di essere, eh?» Ora che era arrivato fin lì, la diga era esplosa e la rabbia si era riversata fuori, andando a sommergere tutto quanto. 

«James, credo sia meglio se ti calmi», rispose Teddy alzandosi in piedi a sua volta. «Perché non ti siedi e ne parliamo?»

«Non voglio sedermi, okay? Voglio sapere perché.»

Tra i due cadde il silenzio. Teddy lo guardava con un’espressione strana dipinta sul volto, e una vaga ombra di delusione gli appuntava gli occhi chiari. 

«Siediti e parliamone», ripetè, e non suonò come una domanda, questa volta. 

James scosse la testa. Forse Teddy non capiva, lui non voleva parlarne, voleva delle risposte.

«Ti ho detto che non mi interessa parlare, tutto ciò che voglio è sapere perché l’hai torturata con tutte quelle domande e quelle insinuazioni», ripetè. «Sai come l’ho trovata, poco fa, in Sala Comune? Tremava come una foglia e piangeva. Questo cosa ti fa pensare? Non pensi di aver esagerato?»

«Sai cosa mi fa pensare, James Sirius?» Teddy non lo chiamava mai con tutti e due i suoi nomi, e James fece un passo indietro, colpito e spiazzato dai suoi modi e dal suo tono di voce. Non aveva più davanti il cugino Teddy, ma Teddy Lupin, l’Auror. «Mi fa pensare che la tua amica abbia una coda di paglia talmente grande da riempire tutta questa stanza, e che sia crollata per lo sfinimento e l’ansia, e che sappia più di quello che mi ha detto di sapere, cioè niente. E penso anche altre cose, molto altre cose, su tutta questa storia, e puzzano, puzzano talmente tanto che si sente l’odore di merda da miglia e miglia di distanza.» 

«E questo è il mio lavoro», aggiunse, risentito, e ora la voce era più alta, e seria. «Che ti piaccia o no, è il mio lavoro, e ho intenzione di eseguirlo come sono solito fare, a prescindere dalle persone coinvolte, o che ritengo coinvolte. Pensavi forse che avrei chiuso un occhio su alcune… stranezze… per definirle in modo gentile… solo perché siamo quasi come parenti?»

James lo guardò e si sentì schiacciato. Non aveva mai visto Teddy così, e non lo aveva mai sentito parlare con una tale fermezza, per lui era sempre stato solo Teddy, quello più grande, da guardare con ammirazione, da imitare, quasi, colui che gli raccontava di Hogwarts e dei suoi segreti, e che lo trattava come un adulto, un suo pari, e non come uno stupido ragazzino, troppo piccolo per capire. Ma, in quel momento, James si sentiva proprio così: un ragazzino. Teddy lo stava facendo sentire piccolo come uno scarafaggio. 

James abbassò gli occhi e fece un passo indietro. Improvvisamente, aveva perso le parole. Era arrivato lì carico di tutta la sicurezza del mondo, sperando che Teddy si sarebbe scusato, dicendogli quanto gli dispiaceva, e invece adesso non sapeva neanche più cosa dire, si sentiva solo svuotato. 

L’altro si passò una mano dietro la nuca, distogliendo lo sguardo e facendo qualche passo intorno, e sembrava indeciso, dubbioso, titubante. Poi lo guardò nuovamente. «Non ne avevo l’intenzione, James, davvero… » iniziò. «Non avevo messo in preventivo tutta questa situazione, sono venuto qui per risolvere un caso, perché è quello che faccio. Mi farò vivo io per una tua convocazione ufficiale in merito al caso Jenkins.»

«Verrò interrogato?» chiese James ritrovando la voce. 

«Verrai interrogato, sì. E ora esci di qui prima che dica qualcosa di cui poi potrei pentirmi…»

James gli stava dando le spalle, e proprio in quel momento nell’aula sbucò sua sorella. Lily li guardava smarrita, gli occhioni azzurri spalancati e sorpresi e feriti. Da quanto tempo era lì fuori? Aveva sentito tutto? L’ultima cosa che James voleva era coinvolgere Lily.

«Lily?» esclamò, forse con un po’ troppa veemenza, perché lei aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia al petto. 

«Si può sapere che sta succedendo, qui? Vi ho sentiti gridare…»

«Non preoccuparti, Lils, è tutto okay», rispose Teddy, alle sue spalle. «James se ne stava andando.»

James lanciò un’occhiata all’altro e poi prese la porta, uscendo in corridoio come una furia. La rabbia di prima aveva di nuovo preso possesso delle sue membra e avrebbe fatto meglio a mettere quanta più distanza possibile tra lui e quell’aula. Dietro di sé sentì però un rumore di passi, cadenzati e leggeri. Si voltò appena, ma giusto per intravedere una chioma rossa che lo tallonava. Sua sorella.

«Lasciami in pace, Lily!» gridò dietro le sue spalle, ma il rumore di passi non accennava a scemare, quindi James dedusse che Lily non demordeva. 

E così si fermò di botto, proprio davanti all’ingresso della Sala Comune di Grifondoro. Era ormai ora di cena, e non c’era quasi nessuno, in giro. Chissà cos’avevano pensato Louis e Lucy, non vedendolo arrivare. Scacciò via quel pensiero.

Lily lo fronteggiava, di nuovo le braccia incrociate sul petto e quel cipiglio serio e combattivo che a James ricordava la loro madre in modo fin troppo inquietante. 

«Cos’è successo con Teddy, si può sapere?»

«Niente che ti riguardi.»

Lei scosse la testa. «Non me lo vuoi dire?»

«Non voglio e non posso. Non so bene quale delle due valga di più, ma consideralo un no.» Stava tirando fuori la sua parte sprezzante e velenosa, quella che aveva imparato a seppellire sotto strati e strati di arroganza, sorrisi contenuti ed elargiti e una rapida eloquenza. Forse voleva ferirla, voleva che anche Lily lo allontanasse, voleva che anche Lily si vergognasse di lui. Proprio come Teddy. 

«Credi che sia ancora una bambina… Proprio come tutti gli altri. Non è così?»

James scrollò le spalle, inarcando le sopracciglia. «Non lo credo. Lo sei. Punto e basta. Quindi vedi di non impicciarti in faccende più grandi di te, non le capiresti.»

Gli occhi di Lily si appannarono leggermente, forse di qualcosa di molto simile al dolore?, al rammarico? alla desolazione? James seppe di averla ferita. 

«Sei strano, ultimamente. Siete tutti strani… » andò avanti lei, imperterrita. Cocciuta. «Tu, Albus, Rose… Persino Roxanne. L’altro giorno Scorpius neanche ha ricambiato il mio saluto, quando l’ho incrociato in corridoio…»

«Sta’ zitta, Lily. Non sai di cosa parli.» James stringeva le dita talmente forte nei pugni da farsi male. 

«Infatti, non so di cosa parlo, perché tu non mi dici più niente, James. Mi hai tagliata fuori.» Ora James poteva vedere le lacrime premerle agli angoli degli occhi. Ora sapeva che quello sarebbe stato l’unico modo per tenerla al sicuro. Ora sapeva che allontanarla sarebbe stato meglio che coinvolgerla. 

«Ne ho abbastanza, Lily. Quest’anno ho i M.A.G.O., ho un sacco di cose a cui pensare. Ho il Quidditch. Non ho tempo per te e non ho tempo per le tue paturnie. Vedi di fartene una ragione.»

Un altro silenzio, questa volta più denso. Si guardarono ancora un po’, sull’orlo del precipizio, in bilico tra la salvezza e la perdizione. James avrebbe voluto tendere una mano e afferrarla, ma doveva lasciarla cadere, doveva, solo così sarebbe andato tutto bene. 

«Sei solo una ragazzina, Lily.» 

Scacco matto. 

Lily Luna Potter distolse lo sguardo e si rintanò in Sala Comune, dopo aver sussurrato la parola d’ordine con dignità e contegno. James non era degno neanche delle sue lacrime. 

Rimase lì, in piedi in mezzo al corridoio. Solo. 

 

 

Teddy e Roger sedevano ad un tavolo dei Tre Manici di Scopa e stavano finendo la loro colazione. Il locale era tranquillo, a quell’ora, anche se cominciava a popolarsi dei maghi e delle streghe che venivano fino ad Hogsmeade per commissioni e compere. 

Roger era rientrato ad Hogwarts la sera prima, sul tardi, di ritorno dal Ministero dopo aver sbrigato tutta una lunga serie di noiose formalità, tra le quali una capatina al San Mungo, dove aveva parlato con i Mortuari e aveva ritirato la copia ufficiale del referto della Magi-autopsia, e una lunga chiacchierata con Hestia Jones riguardo le indagini, con conseguente invito da parte del loro superiore di venirne presto a capo. Teddy aveva raccontato a Roger tutto ciò che aveva appreso in quei suoi giorni di assenza, e anche il recente litigio tra lui e James Sirius riguardo Caitlin Finnigan, e la ferma volontà di Teddy di sottoporre anche James a interrogatorio. 

«Ora, cerchiamo di fare un punto, vuoi?» iniziò Roger poggiando la sua tazza di caffè sul tavolo. «Ieri sera non ero granché lucido…» 

Teddy annuì e ingoiò un boccone di torta. Tirò fuori dalla borsa in pelle le varie pergamene con sopra redatti i verbali degli interrogatori e li sparpagliò sul ripiano in legno, in un ordine-disordine che a lui però risultava molto chiaro. 

«Allora, quello che sappiamo per certo», continuò Roger, «e che è risultato dalla Magi-autopsia, è che Jenkins è morto per via di un ritorno di fiamma di bacchetta. Banale, ma può succedere. Penso per colpa di uno Schiantesimo particolarmente forte, che ne pensi?»

«Penso che tu abbia ragione, sì.»

«Conseguentemente alla sua morte, qualcuno, e ancora non sappiamo chi, ha deciso di Trasfigurare il suo corpo e di lasciarlo scivolare per caso nel Lago Nero. I Mortuari hanno collocato la morte del ragazzo nella notte del due gennaio, indicativamente tra le nove e mezzanotte.»

«Infine, la bacchetta della vittima non è stata rinvenuta nel luogo del ritrovamento e nei suoi immediati dintorni, il che ci porta a pensare che chiunque abbia Trasfigurato e nascosto Karl, abbia anche preso la sua bacchetta e l’abbia nascosta.»

«Oppure la conservi sul fondo di qualche baule…» aggiunse Teddy. 

«Potremmo farci mandare un mandato di perquisizione da Hestia, a tal proposito.»

«Mh, ci vorrà tempo, e non credo che la McGranitt sarà molto contenta di sapere che vogliamo frugare tra gli effetti personali dei suoi studenti. E poi, senza avere prima qualche idea di un possibile sospetto, non voglio espormi. L’elemento sorpresa in questi casi è essenziale, lo sai.»

Roger annuì sorseggiando dell’altro caffè. 

«Dagli interrogatori sono emersi dettagli interessanti, come già ti accennavo ieri sera», andò avanti Teddy frugando in mezzo alle pergamene. «E cioè che la vittima non andava affatto d’amore e d’accordo con Albus Potter e Scorpius Malfoy, lo conferma la rissa nella quale sono stati coinvolti all’inizio di quest’anno. Inoltre, è venuta alla luce l’esistenza di questo gruppetto formato appunto da Potter e Malfoy, insieme a Caitlin Finnigan, Roxanne e Rose Weasley.»

«Be’, questo non vuol dire niente, per come la vedo io.»

Teddy scrollò le spalle. «No, forse non vuol dire niente, ma non mi sento di escludere nulla, ora come ora. Ogni dettaglio conta. E Albus è più circospetto del solito, mentre Rose mi è parsa nervosa, e quella Finnigan era piuttosto sotto pressione, quando l’ho sentita ieri… Tant’è che ha provocato le ire di James Potter, che quasi mi lanciava un Anatema, ieri pomeriggio. Quindi ripeto, non voglio tralasciare nulla, e l’interrogatorio a James è una delle cose che farò a breve termine e che spero mi toglierà alcuni dubbi.»

«Ho come l’impressione che tu abbia già un’idea, o sbaglio?» gli chiese Roger, soppesandolo da sopra la sua tazza ormai mezza vuota, gli occhi azzurri pensierosi. 

Teddy si appoggiò alla schienale della sua sedia, sospirando. Si passò una mano tra i capelli - che erano di nuovo blu.

«Sono arrivato a pensare che Albus e i suoi amici centrino qualcosa», disse alla fine, buttando fuori con quelle parole anche una parte della sua inquietudine. Non gli piaceva fare certi pensieri, ma questi non gli davano pace, da un po’ di giorni a quella parte, e tanto valeva esternarli con il suo collega. Forse insieme ne sarebbero venuti a capo. «Non abbiamo nessuna prova contro di loro, neanche piccola, a parte qualche voce e qualche racconto di seconda mano, ma non me la raccontano giusta, né loro né tantomeno James. Sento che nasconde qualcosa… Non so cosa, ma c’è. Lo conosco bene.»

«Direi che il dettaglio della Trasfigurazione Umana potrebbe rivelarsi indicativo», replicò Roger leggendo velocemente il verbale dei Mortuari. «Nessun alunno del sesto anno sarebbe in grado di eseguirne una, o sbaglio? Tu eri bravo in Trasfigurazione, Teddy?»

Teddy sbuffò. «Nah, non proprio. Però non c’era nessuno dei miei compagni più bravi che fosse in grado di effettuarne una ben riuscita prima del settimo anno, quindi questo esclude Albus e il suo gruppo, e rimane solo…»

«James», concluse per lui Roger. 

I due si guardarono in viso, in silenzio, e Teddy si stropicciò gli occhi stanchi. «Non vedo come questa cosa possa avere senso.»

«Infatti non ce l’ha. Ci mancano ancora degli elementi, però non escludiamola.»

«Potrebbe essere stato chiunque altro, Roger… Qualunque altro studente dell’ultimo anno, persino un suo compagno di casa.» Teddy non voleva - e non poteva - pensare all’eventualità in cui il figlio del suo padrino fosse colpevole del reato di occultamento di cadavere… Senza pensare al fatto che Jenkins era morto: era morto, quindi chi lo aveva ucciso? 

«Siamo d’accordo nel pensare che sia stato il ritorno di fiamma della bacchetta della vittima a ucciderla, sì? Quindi si è trattato di un incidente.»

«Penso di sì, anche se sarebbe utile ritrovarla, la sua bacchetta. Solo così riusciremo a sbrogliare la matassa, se non tutta, almeno una parte.»

«Direi che questa è la nostra priorità, al momento», concluse Teddy. 

«Hai mai pensato alle conseguenze?» gli chiese Roger. Teddy alzò gli occhi su di lui. «Le conseguenze legali nel caso in cui siano colpevoli?» spiegò. 

Teddy scosse la testa. «Forse non ci voglio pensare. O almeno non ancora.»

«I loro cognomi conteranno pur qualcosa, no?»

Teddy aggrottò le sopracciglia. «Cosa vorresti dire?»

Sentiva montare dentro di sé una vecchia fiamma, tutto ciò che negli anni si era dovuto sentir dire, solo perché di cognome faceva Lupin e suo padre e sua madre erano stati tra gli eroi morti nella Seconda Guerra Magica, e quindi tutto gli era permesso, persino infrangere le regole. E, quando James - e poi Albus - erano arrivati ad Hogwarts, aveva condiviso con loro quello stesso disagio, quella sottile insinuazione che però bruciava nelle ossa. 

«Voglio solo dire che di cognome fanno Potter, e Weasley, e anche Finnigan vale qualcosa, seppur in misura minore… I loro genitori sono considerati alla stregua di eroi, quale tribunale li condannerebbe? E ti ricordo che Potter è il capo dell’Ufficio Applicazione della Legge Magica e che Hermione Granger-Weasley è il nostro Ministro della Magia. Ti dice niente?» aggiunse. 

«Forse non li condannerebbero, ma non per il loro cognome, no. Non li condannerebbero perché sono dei ragazzi, e da ragazzi si fanno un sacco di cazzate, ma questo non vuol dire essere cattivi.»

«Nessuno ha detto che lo siano. Ti sto parlando da amico, Teddy, non da Auror, e nemmeno da collega», aggiunse Roger chinandosi in avanti e parlando sottovoce. «Nessuno lo penserebbe, ma devi ammettere che l’idea di arrivare ad un processo sia quantomeno ridicola. Sono degli adolescenti, chi processa più degli adolescenti al Wizengamot? È ridicolo soltanto a dirlo.»

«Su questo hai ragione, certo», convenne Teddy ammorbidendo i toni. Sapeva che Roger voleva solo aiutarlo, e si pentì di essersi infiammato così solo qualche secondo prima. Doveva mantenere la calma e cercare di essere professionale. «Dobbiamo solo sperare che si arrivi ad un patteggiamento.»

«Sempre nel caso siano colpevoli.»

«Ovviamente.»

I due rimasero in silenzio per un po’, mentre Roger finiva il suo caffè e Teddy la sua torta. Intanto, il locale si stava animando sempre di più e Prudence veleggiava in mezzo ai tavoli con vassoi stracarichi di tazze di caffè, boccali di Burrobirra e toast al cetriolo. 

«Ho ricevuto un gufo da Harry, ieri», disse Teddy. Roger alzò lo sguardo, in ascolto. «Mi ha chiesto come procedono le indagini e se ci sono novità… e se ho voglia di bermi qualcosa con lui, il prossimo weekend.»

«So a cosa stai pensando, Teddy, e la mia risposta è “sarebbe meglio di no”, e per ovvie ragioni», rispose Roger. «Intanto, non abbiamo prove. Se poi tutta questa roba dovesse rivelarsi un buco nell’acqua e tu avessi già detto al tuo padrino che sospetti dei suoi figli? Non credo che le cose potrebbero tornare come prima, tra voi. O forse sì, perché Potter è un santo, ma questo è un altro discorso… Digli tutto quello che vuoi, ma sarebbe meglio non parlassi dei nostri sospetti. E sarebbe bene farlo passare per una semplice chiacchierata informale tra voi, non certo come un rapporto ufficiale al tuo capo ufficio.»

Teddy annuì. «Sì, è meglio di no. Pensavo addirittura di dirgli che ero troppo impegnato, ma non voglio che pensi ci sia sotto qualcosa…»

«No, è meglio se vi vedete, e quando ti chiederà - se ti chiederà - qualcosa riguardo i nostri eventuali sospetti, rimani sul vago e digli che per adesso abbiamo varie piste, ma nessuna significativa, e vedrai che andrà bene.»

Improvvisamente, tutto il mondo di Teddy divenne nero, mentre due mani sottili gli si pararono davanti agli occhi. Sentì qualcuno dietro di sé, e capelli lunghi gli sfiorarono il collo e le orecchie, e un buon profumo - profumo di sapone, di buono, di casa - gli solleticò il naso.

«Chi sono?» gli sussurrò una voce all’orecchio. 

Teddy sorrise. Avrebbe riconosciuto quelle mani, e quel profumo, e quella voce, anche in mezzo a milioni di persone.

«Che ci fai qui, amore?»

Venne liberato e Victoire Weasley gli si fiondò addosso, e lui la strinse a sé, affondando il viso tra i suoi capelli mentre la faceva sedere sulle sue gambe. Ridevano entrambi.

«Sorpresa!» esclamò lei prima di baciarlo.



 

«Shhhh!»

Albus girò leggermente la testa sulla spalla e rivolse un’occhiata fosca a Miss Martin1, che lo osservava in maniera ancora più fosca dall’alto del suo scranno in legno, dal quale dominava la biblioteca e teneva a bada gli studenti chiacchieroni da vent’anni a quella parte, quando Madama Pince era andata in pensione. I suoi occhi azzurri lampeggiarono dietro gli occhiali sottili e la donna scosse la testa lentamente, e Albus alzò gli occhi al cielo tornando a concentrarsi sulla relazione per la Simson. 

Cassandra Zabini lo guardò, le belle labbra inclinate in un sorriso impertinente e divertito. Lui scosse la testa e lei trasse a sé “Pozioni avanzate”, cercando di non ridere di lui. 

Come promesso il giorno prima, lui e Cassandra si erano trovati fuori la Sala Grande dopo il pranzo del sabato e, insieme, si erano diretti in biblioteca per lavorare alla relazione sugli antidoti che la professoressa Simson aveva affidato loro per lunedì. 

«C’è una cosa che non capisco», iniziò Albus, la voce poco più che un sussurro strozzato. Lanciò un’occhiata a Miss Martin, ma la bibliotecaria era sparita chissà dove, e lui rilassò le spalle. Cassandra alzò gli occhi su di lui. Lo stomaco di Albus si mosse irrequieto. «Perché non possiamo usare un bezoar e basta e farla finita con questa storia di Golpalock, o Golpalope2, o come diavolo si chiama?»

Cassandra alzò gli occhi al cielo. «Tu non stai mai attento a lezione, eh?»

Albus scrollò le spalle. «Quasi mai.»

«Mi chiedo come tu abbia fatto a prendere tutti quei G.U.F.O. l’anno scorso…»

«La genialità si eredita, te l’hanno mai detto?»

Cassandra scosse la testa stancamente, cercando di non ridergli in faccia, questo era evidente. Albus si ritrovò a desiderare di baciarla. 

«Tralasciando per un attimo la tua presunta genialità», cominciò lei incrociando le braccia sul banco in legno e sporgendosi verso di lui. Gli poteva arrivare il suo profumo, fresco e invitante. «Se hai un bezoar a portata di mano, naturalmente funzionerà… anche se, visto che non funzionano con tutto, e sono rari, vale comunque la pena di sapere come preparare un antidoto3… no?»

Albus alzò le sopracciglia e si morse un labbro, tirandosi un pezzo di pelle. Lo faceva sempre quand’era nervoso o agitato per qualcosa e, senza sapere bene perché (o forse sì), Cassandra lo rendeva nervoso, e agitato. Gli sudavano le mani e se le asciugò nei pantaloni della divisa. 

«Va bene, ho capito, non ho speranze di scamparla, con questo Golpaglock.»

«Golpalott

«Golpalott?»

«Ah-ah.» Cassandra annuì, fiduciosa.

«SHHHH!»

Albus quasi sobbalzò sulla sedia e questa volta anche Cassandra si girò sorpresa verso Miss Martin, in piedi poco distante dal loro tavolo, le mani appuntate sui fianchi e l’aria truce. Entrambi ficcarono la testa nelle loro pergamene, in silenzio, e così rimasero per i successivi quindici minuti. 

Albus continuava a fissare le prime righe della sua relazione: “La Terza Legge di Golpalock Golpalott dice che l’antidoto per un veleno composto è maggiore della somma degli antidoti di ciascuno dei singoli componenti”4. Tutto il resto era intonso. Miseramente vuoto. La didascalia l’aveva bellamente copiata da “Pozioni Avanzate”. Sul resto della relazione avrebbe dovuto improvvisare. Forse, se avesse riscritto tutto, e avesse aumentato la dimensione della sua calligrafia… 

Cassandra gli diede di gomito e gli indicò il foglio e lui scosse la testa, aprendo le braccia. La ragazza riprese a scrivere come una forsennata, i capelli scuri appuntati dietro la nuca con una piuma di riserva, mentre le parole scritte scorrevano sul suo foglio come olio denso. Era sempre stata dannatamente brava in Pozioni, Cassandra, era la migliore studentessa del suo anno nella materia e la Simson l’adorava. Nessuno avrebbe potuto competere, neanche quella simpatia di Polly Chapman, di Grifondoro, che non perdeva occasione per mettersi in competizione con la Serpeverde. 

Albus poggiò la testa sulla mano e si mise a guardarla, smettendo di preoccuparsi della relazione, della Simson, degli antidoti e di qualsiasi altra cosa gli avesse occupato la mente in quei giorni. Dimenticandosi persino di Jenkins. E della bacchetta. 

Cassandra arricciava leggermente le labbra mentre scriveva, in un gesto inconsapevole che però la rendeva ancora più bella. Albus allungò una mano e si mise a giocherellare con la piuma che teneva tra i capelli, mentre Cassandra si scostava, senza però smettere di scrivere. Sorrideva sotto i baffi, ma sembrava fermamente intenzionata a non farsi distrarre. 

«Ti conviene metterti a scrivere, la consegna è domani», gli ricordò.

Lui alzò gli occhi al cielo. 

Cassandra tornò a scrivere e Albus tornò a guardarla. Era incredibile come tutta la sicurezza in se stesso, che indossava come una maschera di ferro e ambizione, e che lo aveva protetto e aiutato e reso quello che era, si sgretolasse sotto i colpi di quello sguardo scuro, acceso di un fuoco freddo che però lo bruciava da dentro e gli incendiava le ossa e le membra. Non aveva mai provato ciò che sentiva per Cassandra Zabini, per nessuna delle ragazze che aveva avuto in passato, per nessuno dei suoi flirt subitanei e guizzanti, che si esaurivano dopo un giro di orologio e minuti trascorsi a toccarsi con mani frenetiche e bramose, e lingue esploranti stretti anfratti bui, e amplessi insoddisfacenti rapidi come fulmini e inconsistenti come nebbia. Ché non rimaneva mai niente, dopo - niente che valesse la pena proteggere, e preservare, e ricordare con nostalgia cavalcante nel petto e nel ventre, e ricercare come assetati vagabondi in deserti di rocce e fiori spinati. 

«Veni-ad-Hogsmed-comme-il-possimmo-uikend?» La voce gli uscì leggermente arrochita e un balbettio stentato soffiò fuori dalle sue labbra. Albus imprecò tra sé e sé in nome del buon vecchio Salazar e, quando Cassandra alzò gli occhi, interrogativa, lui si schiarì la gola. Poi la guardò, deciso. «Vuoi venire con me ad Hogsmeade, il prossimo weekend?» Ora si accorse di aver urlato perché sentì Miss Martin avvicinarsi a passo deciso dal fondo della biblioteca e poteva quasi udire i suoi sbuffi infuocati uscirle di bocca, come se fosse un drago. 

Cassandra annuì e gli sorrise. «Era ora che me lo chiedessi, Potter.»  

«POTTER!»

Miss Martin si fermò di fronte al loro tavolo, i pugni serrati poggiati sul legno scuro e pieno di graffiti. Uno recitava “DEAN+GINNY” e Albus quasi si strozzò con la sua stessa saliva. Si ripromise di tornare a cancellarlo. 

«Questo è l’ultimo avvertimento», continuò la donna, gli occhiali storti sul piccolo naso a bottone. «Vuole essere cacciato fuori? Perché sarò costretta a farlo, e non ho paura di far rispettare le regole, qui dentro. CHIARO?»

Albus annuì, seppur di malavoglia, e guardò la vecchia pipistrella allontanarsi con passo fermo. 

Poi si girò a guardare Cassandra e lei gli sorrise e, in quel momento, ad Albus importava solo quello.

 


 

Note:

1. Miss Martin: nuova bibliotecaria subentrata a Madama Pince; personaggio di mia invenzione; il cognome è un omaggio a David Martín, protagonista de “Il gioco dell’angelo”, romanzo di Carlos Ruiz Zafón.
2. Golpalock, Golpalope: ovviamente ci si riferisce a Golpalott (vedi nota numero 4).
3. Se hai un bezoar a portata di mano, naturalmente funzionerà… anche se, visto che non funzionano con tutto, e sono rari, vale comunque la pena di sapere come preparare un antidoto: tratto da “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” di JK Rowling.
4. La Terza Legge di Golpalott dice che l’antidoto per un veleno composto è maggiore della somma degli antidoti di ciascuno dei singoli componenti: tratto da “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” di JK Rowling.
 

Bentrovati con questo nuovo capitolo, bello denso di cosette. Intanto, James dà di matto, e fa il diavolo a quattro con Teddy riguardo l’interrogatorio di Cait, e anche la povera Lily ci finisce in mezzo. James cerca di tenere insieme i pezzi, e di non crollare, ed è quello che, finora, se la sta cavando meglio, ma non è facile, per lui, è umano e fallibile. Teddy e Roger fanno il punto (ed è un fare il punto anche per voi, a questo punto) sulle indagini e ciò che sanno e non sanno di questo caso, e arrivano a presunte conclusioni che preoccupano Teddy, anche e soprattutto alla luce di un prossimo incontro con Harry. Infine, piccola parentesi di “sollievo” con Albus e Cassandra in biblioteca, alle prese con la relazione di Pozioni e la temibile bibliotecaria, Miss Martin. Albus tenta un approccio molto, molto Potteriano (ovviamente, il mio è voluto essere un omaggio ad Harry, nel “Calice di Fuoco”, anche se Cass NON è Cho XD) e Cass accetta di uscire con lui: una gioia per il piccolo Albus, ogni tanto ♥︎ So che a qualcuno Cass non ha convinto, nutrite dei sospetti su di lei, ma posso dirvi di non pensare male perché lei sarà importantissima per Albus, più avanti. Anzi, piuttosto a breve. Infine, Albus continua a dividere, e la cosa mi fa gongolare. Ah, dimenticavo, che ne pensate della sorpresa di Victoire? Non temete, lei ritornerà nel prossimo capitolo.

 

Concludo ringraziando come al solito voi lettori, questa storia ha già raggiunto quota 50 recensioni e ogni singola parola che le riservate è per me fonte di immensa gioia, grazie davvero ♥︎

Alla prossima settimana, Marti.
 

*momento pubblicità*

Ho finalmente creato la serie dedicata alla mia Nuova Generazione, GENERATION WHY, dove troverete anche Azzurro nell’azzurro, la shot su Roger e Prudence.

Infine, per chiunque fosse interessato, vi lascio anche Golden Hour, la mia nuova Lucius/Narcissa, e Figli dell’oscurità, una rating rosso su una coppia un po’ particolare, Rabastan e Bellatrix Lestrange.

 

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Capitolo 10
*** CAPITOLO NOVE ***


Per chiunque volesse approfondire la mia Hestia Jones,
vi lascio una piccola flash scritta su di lei, Daddy’s Soldier,
potete cliccare sul nome e vi condurrà alla storia; fatemi sapere cosa ne pensate ♥︎

 


 

9.

CAPITOLO NOVE

 

 

Teddy lanciò i fogli di pergamena sul tavolino basso e si passò una mano sul viso, stropicciandosi gli occhi e quell’inizio di barba che si era ripromesso di tagliare via, se solo quella mattina non si fosse alzato presto, nonostante fosse domenica e il corpo caldo di Victoire gli fosse sdraiato accanto. 

Le aveva depositato un bacio sui capelli biondi e aveva scalciato via le coperte. Si era osservato nel piccolo specchio del bagno e aveva un paio di occhiaie viola niente male. Si vedeva che quel caso gli stava portando via anche l’unica cosa che non gli era mai mancata: il sonno. Si era quindi fatto una doccia ed era rimasto per un po’ sotto l’acqua, a pensare e, allo stesso tempo, a cercare di non pensare. 

Da qualche notte a quella parte, sognava Karl Jenkins, seduto sul bordo del suo letto, che allungava le sue mani viola verso di lui e, quando faceva per parlare, dalla bocca gli usciva un fiotto d’acqua mista a fango, che finiva sul volto di Teddy, e lui rischiava di soffocare, prima di risvegliarsi di soprassalto, scosso e preda dei sudori freddi. Non gli era mai capitato di sognare una vittima, nonostante avesse già avuto a che fare con corpi e cadaveri nel corso della sua carriera di Auror, seppur ancora breve se rapportata, per esempio, a quella di Roger. Aveva anche pensato di parlarne al suo collega e di raccontargli cosa lo angustiava, ma non voleva fare la figura del patetico e del ragazzino, e soprattutto non voleva che Roger si sentisse in dovere di fare rapporto ad Hestia tramite verbale riguardo il suo stato psico-fisico. Non voleva essere analizzato.

La sera prima era stato tentato di parlarne con Victoire, ma avevano passato una giornata meravigliosa, in giro per Hogsmeade come quando erano ragazzini, che non avrebbe mai potuto rovinarle così la serata, facendola preoccupare. Quella notte avevano dormito abbracciati, e Teddy non aveva fatto neanche mezzo incubo. Forse Victoire era la cura migliore, ma si rendeva conto che quella sera sarebbe ripartita, visto che il lunedì mattina avrebbe ripreso a lavorare, quindi non avrebbe potuto fare troppo affidamento sulla sua presenza. Aveva pensato di chiedere consiglio alla professoressa Simson su una qualche pozione non troppo aggressiva per aiutarlo a dormire, e quel pensiero lo aveva in parte consolato. 

Poi aveva sentito la porta del bagno aprirsi e, qualche secondo dopo, Victoire si era infilata nella piccola doccia insieme a lui, completamente nuda, e Teddy per qualche tempo aveva pensato ad altro, a tutto tranne che a Jenkins, al suo corpo storpiato dall’acqua, alle pozioni sonnifere e al caso. Victoire lo aveva spinto contro le piastrelle e lo aveva baciato con urgenza, come se non si vedessero da ore e ore e come se non lo baciasse da anni, quando invece avevano fatto l’amore durante la notte, quando lei gli era salita sopra e lo aveva spogliato lentamente. Era scesa a baciargli il petto, mentre l’acqua scorreva addosso ad entrambi, ed era scesa sempre più giù, pericolosa e sicura di sé, fino alla sua ormai evidente erezione, e Teddy si era aggrappato alle sue spalle e aveva conficcato le unghie nella sua pelle e i loro gemiti si erano mischiati finché Victoire non si era alzata e lui l’aveva spinta contro la parete della doccia ed era entrato dentro di lei, baciandola e mordendole le labbra, le gambe di Victoire strette intorno a lui, i corpi resi scivolosi dall’acqua e dal sapone. L’orgasmo li aveva travolti insieme e Teddy aveva depositato a terra il corpo di Victoire con cautela, baciandola nuovamente ma con tenerezza, questa volta, e succhiandole via il sangue che le sue unghie le avevano fatto uscire dalla carne rosea delle spalle magre. 

«Scusa», le aveva sussurrato sul collo. «Ti fa male?»

Lei aveva scosso la testa. «Non potresti mai farmi male, tu.»

Davanti allo specchio, Victoire si era curata da sola e gli aveva sorriso, ma Teddy non era riuscito a non sentirsi in colpa per aver sfogato su di lei le sue preoccupazioni, mischiate al piacere che lei gli stava facendo provare in quel momento.

Ora, seduto sul divano, cercava di dividere le idee che gli vorticavano in testa, confuse e caotiche, mentre Victoire era in cucina a preparare loro la colazione. Roger aveva lasciato un biglietto sul tavolino del piccolo salotto, con scritto che era andato a fare colazione ai Tre Manici di Scopa e che si sarebbero visti più tardi. 

«Dovresti smetterla di studiare il caso, vedo il fumo che ti esce dalla testa fin da qui», gridò Victoire dalla cucina, ridendo. 

«Hai ragione, non dovrei.»

La testa bionda della sua fidanzata sbucò dalla porta e lui alzò gli occhi e le sorrise. 

«È domenica, Teddy.»

«Lo so. Ma sai bene che non esiste domenica, per gli Auror», aggiunse.

Victoire alzò gli occhi al cielo. «Ma esiste la colazione, ed è sacra, quindi vieni a mangiare.»

«Vieni tu qui», rispose lui battendo la mano sul posto vuoto sul divano accanto a lui. 

Victoire sbuffò. «Viziato.»  

Mangiarono pancake con fragole e panna (la specialità di Victoire) e bevvero caffè con tanto zucchero, seduti vicini sul divano, lei accoccolata contro il suo fianco. Sbirciava nei fogli che Teddy leggeva e rileggeva, e lui la lasciava fare. Tante volte, Victoire gli aveva dato una mano con qualche caso, facendogli notare dettagli interessanti e sbrogliando qualche matassa. Aveva una mente brillante e acuta e sapeva guardare oltre l’apparenza. Sapeva che non era professionale, ché lei non avrebbe dovuto saperne nulla, ma gli era sempre piaciuto violare qualche regola, e poi si fidava ciecamente di Victoire, lei non sarebbe andata a parlarne in giro. Anzi, quando spesso la cugina Molly capitava a cena da loro, Victoire era capacissima di dissimulare e di fare la finta tonta, fingendo di non saperne assolutamente nulla, di ciò che Teddy faceva al lavoro, e asserendo che nemmeno le interessava. E tutti ci credevano.

«Posso dire una cosa?» iniziò Victoire masticando un pezzo di pancake. 

«Ah-ah.»

«Quel Jenkins non era molto simpatico, a mio parere.»

Teddy si girò a guardarla e lei inghiottì il boccone che aveva in bocca. «Voglio dire, con questo non dico che si sia meritato di morire in quel modo, e lo sa Godric quanto dev’essere stato orribile, sia per lui, ma anche per voi, ritrovare il suo corpo ridotto… be’, ridotto nello stato in cui sicuramente sarà stato ridotto dopo essere stato a mollo nel Lago Nero per ore…, sia quanto dev’essere dura per i suoi amici, quel Rucey e l’altro… com’è che si chiama?… Pocey, o una cosa così… » Teddy trattenne a stento una risata: non era professionale e non era nemmeno etico, «…però insomma, era davvero un coglione!»

«Vic!» esclamò Teddy, ora scoppiando a ridere, senza riuscire più a trattenersi. Si girò a guardarla e lei gli restituiva lo sguardo, gli occhi sbarrati e innocenti. «Era un ragazzo, ed è morto…»

Victoire agitò una mano. «Lo so, scusa, sono stata inopportuna, ma so che pensi che abbia ragione, solo che non vuoi ammetterlo perché vuoi comportarti in modo professionale.»

«Quello che penso io di Jenkins ha ben poca importanza, sai? La realtà dei fatti è che è morto un ragazzo di sedici anni, e io devo scoprire come.»

«Be’, il come lo sai, no? Ritorno di fiamma. Seppur arcaico, e raro, ormai le bacchette sono talmente ben fatte e calibrate che è difficile succeda, ma comunque Jenkins, oltre che un coglione, era anche evidentemente sfigato, quindi…»

Teddy scosse la testa. Non c’era verso di moderare le opinioni della sua fidanzata, quindi ci rinunciò. Avrebbe cercato di ignorare la parole con la “c” messa in relazione con la vittima del suo caso.

«Sì, il come lo sappiamo, certo, ma il corpo è stato Trasfigurato, e occultato, qui non si tratta più di un banale e assurdo incidente, si tratta di qualcosa di più grosso.»

Ora fu il turno di Victoire di annuire, mentre beveva del caffè. Teddy fece altrettanto e rimasero in silenzio, e intanto lui sfogliava altre pergamene. Non si era ricordato che, lì in mezzo, c’era anche quella ricoperta di appunti, sotto forma di mappa concettuale, dove aveva scarabocchiato i suoi sospetti e le sue teorie, e il nome di Albus Potter era cerchiato numerose volte, e spiccava nel margine superiore del foglio, manco fosse un’insegna luminosa di qualche negozio Babbano. Teddy socchiuse gli occhi, imprecando tra sé e sé, contro Tosca, tutti gli altri fondatori, e persino il vecchio Merlino.

Sentì Victoire irrigidirsi contro il suo fianco. Si girò a guardarla e notò che aveva gli occhi fissi sul foglio. 

«Vic…» iniziò lui.

«Sospetti di Albus.» E non era una domanda, la sua. 

«No, non sospetto di Albus, è solo che…»

Victoire allungò un dito e colpì il foglio proprio nel punto in cui Teddy aveva scribacchiato “sospetti”, e accanto aveva annotato il nome del cugino. Quasi nessuno era in grado di decifrare la sua calligrafia, per la quale veniva preso in giro praticamente da sempre, e per la quale le sue insegnanti si erano dannate, nel tentativo di correggere i suoi compiti, ma Victoire lo conosceva meglio di quanto lui conoscesse se stesso, quindi no, lei non aveva problemi a leggere quello scarabocchio sottile e sgraziato. Poco sotto il nome di Albus, si poteva leggere quello di Scorpius Malfoy e, ancora più sotto, in parentesi quadra, quelli di Rose Weasley, Caitlin Finnigan e Roxanne Weasley, ma ovviamente, il nome di Albus era quello scritto più grande di tutti, ed era cerchiato con enfasi ripetuta, e non dava adito a dubbi.

Teddy posò la pergamena sul tavolino insieme alla sua tazza ormai vuota, sperando così di nasconderle il nome di James Potter, annotato in tutta frutta sul fondo del foglio. Accanto al nome aveva scritto data e ora dell’interrogatorio al quale avrebbe sottoposto il cugino, e non voleva che Victoire vedesse anche quello. Si girò verso di lei, sistemandosi meglio sul divano, in modo da riuscire a guardarla in viso. 

«Non sospetto di Albus, d’accordo?»

Una fitta acuta gli attraversò il petto. Sapeva che stava dicendo una bugia, e si sentiva tremendamente in colpa.

Victoire alzò gli occhi su di lui. Lo guardava, e non sembrava arrabbiata, ma solo triste.

«Purtroppo, tra Albus e Scorpius e Jenkins non scorreva buon sangue, ed era una cosa pubblica, ho chiesto in giro e quasi tutti sapevano che quei tre non si sopportavano, e aggiungici anche Rosier e Pucey e formiamo una pozione dai risultati esplosivi.»

Un lampo di divertimento balenò negli occhi azzurri di lei, forse perché si era resa conto del suo errore con i nomi di Rosier e Pucey fatto poco prima. 

«Insomma, quello che voglio dirti è che questa antipatia mette Albus in una posizione scomoda, sommata al fatto che non sembrava minimamente turbato o dispiaciuto per la morte del suo compagno. Nè lui né Scorpius.»

«Però è il nome di Albus quello che hai cerchiato…»

«Sì, perché mi sembra in una posizione predominante nei confronti di Malfoy, ecco tutto. È un po’ come se Albus fosse la mente e Scorpius il suo braccio destro.»

Victoire non sembrava convinta e, ripensando alle sue parole e cercando di analizzarle dall’esterno, Teddy si rese conto che non dovevano essere suonate come particolarmente convincenti e “autorevoli”, almeno non come le parole di chi sapeva il fatto suo. 

Tolse di mano la tazza a Victoire e la poggiò sul tavolino, accanto alla sua, e poi le prese la mano e la tenne stretta tra le sue, e ne baciò il dorso, e il polso. Lei allungò le dita e gli carezzò una guancia teneramente. Gli sorrise.

«Sei arrabbiata con me?»

Scosse la testa. «Quando mai succede, Teddy Lupin?»

«Avevo paura che questa cosa avrebbe rovinato la nostra giornata insieme…»

«Voglio godermi questa domenica con te», rispose lei baciandolo. Sapeva di caffè. «È per questo che sei ancora più preoccupato? Riguardo al caso, dico.»

Teddy aggrottò le sopracciglia.

«Stanotte sembravi inquieto…» spiegò lei. «Ti agitavi nel sonno, e straparlavi…»

«Ah, è per questo motivo che—»

«Teddy», lo interruppe lei, scuotendo la testa. «No.»

«Okay, ti credo. Comunque sì, sono un po’ preoccupato, ma non voglio che lo sia anche tu», aggiunse lui perentorio. «Nel modo più assoluto.»

«Mi sforzerò di non esserlo, ma sai che è difficile non preoccuparmi quando tu sei preoccupato.»

Teddy la baciò e lei si lasciò andare, aggrappandosi alle sue spalle e sedendoglisi addosso, mentre Teddy reclinava la testa sul divano e si lasciava baciare.

Cercò però di rimanere lucido e si sentì un po’ un cretino a pensare che fosse meglio fermarsi, prima di fare sesso sul divano, magari con il rischio che Roger piombasse in casa da un momento all’altro. Fu Victoire a interrompersi e a ritrovare la ragione, ché lui non sarebbe riuscito a farlo.

«Basta, o so come finirebbe», disse lei risedendosi al suo posto. Teddy si passò una mano sul viso e sospirò. Si guardarono e scoppiarono a ridere e tutta l’inquietudine che aveva provato quando era uscita fuori la faccenda di Albus sembrava essersi volatilizzata. 

 


Quella domenica mattina, Roxanne scese a colazione prima del solito. Era da giorni che dormiva male, sia per via di ciò che era successo con Jenkins, sia per il litigio con Elena di tre giorni prima. 

Riguardo il loro “incidente di percorso”, Teddy non sembrava essere arrivato ad una soluzione, per loro fortuna. Dopo aver interrogato Caitlin, venerdì, non aveva convocato più nessuno, per quanto ne sapeva, ma questo non le impediva di essere preoccupata, visto che l’Auror andava in giro per il castello a fare domande, appuntando cose su un taccuino e grattandosi il mento con aria interessata. Rose lo aveva visto parlare con Yann Fredericks1, un Grifondoro del loro anno, nonché Prefetto, e Roxanne sapeva che Yann faceva e diceva tutto quello che Polly Chapman gli diceva di fare e dire - e questo non era per nulla incoraggiante. Polly era sempre stata notoriamente in competizione con Rose, questo lo sapevano tutti, e avrebbe fatto e detto di tutto per screditarla, soprattutto ad occhi esterni. Roxanne sperava solo che Teddy non si facesse influenzare da lei, più che altro per via della posizione della madre come Capo Ufficio Auror, cosa per cui Polly si vantava ogni singolo giorno della sua vita. Conosceva Teddy, però, ed era certa che avrebbe agito in modo imparziale e professionale. Inoltre, James aveva raccontato loro del modo in cui Teddy aveva rimesso al suo posto Polly, una mattina a colazione, e questo forse poneva fine alla questione. Certo, Roxanne non smetteva di sentirsi preoccupata, per lei e per i suoi cugini e amici, ma cercava allo stesso tempo di vivere come al solito, continuando a sperare che la faccenda si sgonfiasse da sé. 

Nella Sala Comune di Grifondoro, venne fermata da un paio di alunni del primo anno particolarmente piccoli. Non si ricordava di essere mai stata così piccola, al suo primo anno2.

«Scusa», disse il ragazzino biondiccio pieno di brufoli. «Tu sei… Tu sei Roxanne, vero?»

«Roxanne Weasley?» specificò l’altro, più basso e mingherlino e dai capelli scuri.

«Quante altre Roxanne esistono?» bofonchiò lei incrociando le braccia al petto. Aveva fame e non vedeva l’ora di fiondarsi su un piatto di uova e salsicce. 

I primini parvero sobbalzare, e il biondo annuì. «Scusa, scusa, hai ragione…»

«Insomma, mi avete fermata solo per sapere come mi chiamo?»

«No no no», rispose in fretta il secondo bambino. «Intanto, volevamo farti i complimenti.»

Roxanne alzò lentamente il sopracciglio destro. Cominciava a spazientirsi, ma poi ricordò le parole di Rose: «Devi essere più paziente con i ragazzini più piccoli, Rox, in fondo lo siamo state anche noi.» Mandò sua cugina a quel paese e fece un sospiro profondo.

«Tuo padre e tuo zio sono due geni», esclamò ancora il moro. «Sono dei miti, per noi. Degli eroi.»

«Oh», disse solo lei, spiazzata. Per Godric. «Be’, be’… grazie?» E così dicendo cercò di superarli per uscire dalla Sala Comune, ma i due la rincorsero e l’accerchiarono di nuovo.

«Ci chiedevamo», iniziò il biondino abbassando la voce e guardandosi intorno, nonostante la stanza fosse vuota, a parte loro tre, «se fossi ancora alla ricerca di cavie per tu-sai-cosa?»

Roxanne si sforzò di non ridere. Ecco il perché di tutto quel mistero e quei sotterfugi. Da un paio d’anni a quella parte, portava avanti un traffico illecito di scherzi e altre diavolerie dei Tiri Vispi, e ingaggiava studenti dei primi anni come cavie sulle quali testare le novità e i prototipi del negozio in anteprima, e poi scriveva accurate e dettagliate relazioni che inviava a suo padre, il quale a sua volta le mandava del denaro col quale ripagare gli studenti, e doveva ammettere che la maggior parte di questi si accontentava di poco, erano quasi tutti estremamente dediti alla causa, tanto da considerare pagamenti in denaro delle vere e proprie offese personali. Una volta, una coppia di gemelli del secondo anno di Tassorosso aveva piantato sù un casino talmente immane nella Sala d’Ingresso che avevano quasi rischiato di farsi scoprire dal professor Thomas, che passava di lì in quel momento. Da quel giorno, Roxanne si era ripromessa di “reclutare” solo studenti di Grifondoro. 

«Al momento non abbiamo nulla, in cantiere, ma vi terrò in considerazione per eventuali test, d’accordo?» rispose quindi.

I due annuirono, entusiasti. 

«Mille grazie, Roxanne», esclamarono in coro.

«Okay, ora smammate, devo andare a colazione.»

Come se avesse appena detto loro che l’aspettavano urgenti questioni di sicurezza nazionale da discutere col Ministro Granger in persona (sua zia, e la cosa la faceva sempre ridere), i due si fecero da parte per lasciarle spazio e si inchinarono leggermente mentre passava loro davanti. Divertita, e sempre cercando di non scoppiare a ridere loro in faccia, Roxanne superò il buco nel ritratto e corse in Sala Grande di volata. Il suo stomaco borbottava prepotente, ora.

Giunta al piano di sotto, si precipitò al tavolo di Grifondoro e prese posto accanto a Caitlin, ansimando leggermente per la corsa. 

«Tutto okay?» le chiese l’amica guardandola con occhi sbarrati mentre afferrava il piatto delle salsicce e ne svuotava quasi metà nel suo. 

«Ah-ah», rispose lei agguantando le uova strapazzate. 

«Non si direbbe, a guardarti.»

«Ho solo molta fame.»

«Sì, questo lo avevo notato.»

Passarono alcuni minuti in silenzio, durante i quali Roxanne sbranò le uova e le salsicce e, mentre si girava verso Michael McLaggen per chiedergli di passargli la torta di melassa, vide James entrare nella Sala Grande e raggiungerle. Accanto a lei, Caitlin si sistemò meglio a sedere sulla panca. 

«Buongiorno, ragazze», esclamò il cugino prendendo posto di fronte a loro.

«Buongiorno», rispose Cait premurosa, sorridendogli.

«’orno», rispose invece lei, la bocca piena di torta.

Cait le lanciò un’occhiata disgustata e alzò gli occhi al cielo.

«Ma che hai, Rox?» le chiese James servendosi a sua volta della torta di melassa, la sua preferita. 

«Non credo di volerlo sapere», commentò la sua amica scuotendo la testa. «È arrivata e si è fiondata sul cibo.»

«Dev’essere tutto merito dell’allenamento di Quidditch di ieri sera, vero? Li sto facendo sgobbare come matti», aggiunse James a mo’ di spiegazione, rivolgendosi a Caitlin quasi ghignando.

«Ho sentito la parola “sgobbare”?», esclamò Alexander Baston poco lontano.

«Non vi lamenterete quando avrete vinto la coppa del Quidditch anche quest’anno», proruppe James ingoiando un boccone di torta.

«Uff», sbuffò Baston agitando una mano e mandandolo a quel paese. James si alzò e gli assestò una pacca dietro la nuca che quasi lo mandò a finire a capofitto nel suo piatto. 

«Lo so che mi amate, in realtà», concluse il capitano risedendosi. 

Roxanne notò McLaggen aprire la bocca, ma gli fece cenno di “no” con la testa e lui la richiuse, tornando a bere il suo succo di zucca. Lei fece lo stesso, e sotto il bicchiere vide che vi era appuntato un foglietto di pergamena ripiegato.

«Che cos’è?» chiese ad alta voce.

Caitlin aveva appena riso per qualcosa che le aveva detto James, chinata in avanti verso di lui sul tavolo, e si riscosse sentendo la domanda di Roxanne, girandosi a guardarla. Roxanne si chiese per un fugace momento se suo cugino e la sua migliore amica stessero segretamente insieme. James sembrava affrontare a meraviglia la situazione, e dal suo viso non traspariva la benché minima preoccupazione in merito al caso Jenkins e alle indagini che Teddy stava svolgendo. Roxanne si domandava come facesse a dissimulare così bene. 

Lei e Cait non ne avevano quasi parlato, nemmeno con Rose, sembrava che nessuna delle tre volesse affrontare l’argomento per prima, così come nessuna delle tre aveva voglia di pensarci, quand’erano insieme, come se nulla fosse successo. 

Roxanne abbassò lo sguardo e tornò a studiare il misterioso foglietto.

«Ah, sì, lo ha lasciato Elena prima che tu scendessi», le spiegò Cait. «Non mi ha spiegato niente, mi ha solo fatto promettere di assicurarmi che lo avresti trovato.»

«E perché non me l’hai detto subito, si può sapere?» sbottò aprendolo.

«Ho pensato che prima o poi ti saresti quasi strozzata col cibo e allora avresti avuto bisogno di bere», spiegò ancora battendo le ciglia e guardandola furbescamente. Le sorrise.

Roxanne assottigliò gli occhi ma non rispose, e si dedicò al messaggio di Elena, mentre Cait tornava a flirtare con James. Fece una smorfia suo malgrado.

 

Vediamoci alle quattro davanti alla quarta porta a sinistra della Statua di Boris il Basito al quinto piano.
Vieni sola. E.

 

Roxanne rilesse il messaggio tre volte. Sapeva bene cosa c’era in corrispondenza della quarta porta a sinistra della Statua di Boris il Basito al quinto piano. Il Bagno dei Prefetti. Cos’aveva in mente Elena? 

«Allora?» si sentì chiedere da James. «Possiamo saperlo anche noi?»

«Certo che no», rispose lei riponendo il biglietto nella tasca posteriore dei jeans che aveva indossato quella mattina.

James parve offendersi e Caitlin le venne in aiuto. «Dài, James, sono cose tra loro.»

«Infatti, hai detto bene.» Roxanne si alzò e si scrollò di dosso alcune briciole. «Penso che andrò a finire il ripasso per il test di Erbologia di domani, visto che ho il pomeriggio impegnato…»

Cait le sorrise e allungò una mano a stringere la sua. Le aveva raccontato del litigio con Elena e Cait l’aveva consolata assicurandole che si sarebbero presto chiarite. «Buona fortuna», le sussurrò senza farsi sentire da James, che si era buttato sulla sua fetta di torta. 

«Ti farò sapere.»

Fu con animo decisamente più leggero che Roxanne affrontò il resto della mattinata e del pranzo. Finì il ripasso di Erbologia per il test che il professor Paciock aveva loro fissato per l’indomani e controllò ancora una volta la relazione sugli Antidoti che avrebbe dovuto consegnare alla Simson sempre lunedì e che aveva finito di scrivere solo la sera prima. 

A pranzo non vide Elena, ma pensò che fosse meglio così: almeno non sarebbe stata tentata di andare lì e chiederle cos’avesse in mente.

Passò in Sala Comune il tempo che la divideva dalle quattro, ma verso le tre salì in dormitorio, intenzionata a vestirsi carina e a cercare di disciplinare i suoi capelli, che quel giorno non volevano saperne di stare buoni. Rose non si vedeva da nessuna parte e lei e Cait avevano dedotto che si fosse imboscata da qualche parte con Scorpius, e Roxanne lasciò Cait di sotto, seduta accanto ad Alexander Baston e Michael McLaggen (lei e Alex stavano cercando di aiutare Michael a finire la relazione per la Simson, ma con scarsi risultati). 

Roxanne trovò il dormitorio deserto, per fortuna. Si inginocchiò davanti al suo baule e cominciò a frugarci dentro, tirandone fuori vari vestiti e lanciandoli di qua e di là, con il risultato di riempire il pavimento di camicette, gonne e magliette con stampe di band musicali Babbane. 

Alle tre e mezzo, non aveva ancora trovato un bel niente. Voleva vestirsi non nel solito modo-alla-Roxanne, che comprendeva t-shirt scolorite, jeans strappati sulle ginocchia e scarpe da ginnastica, ma si accorse di non essere particolarmente fornita di capi d’abbigliamenti “alternativi”. Fu come al solito Caitlin a venirle in soccorso. Si affacciò alla porta del dormitorio e sbirciò dentro e Roxanne intercettò il suo sguardo stupito, seduta sul pavimento in mezzo ad un groviglio di pantaloni e calzettoni. 

«Sono appena scoppiati degli Spari Deluxe, qui dentro?»

«Forse», rispose Roxanne guardandosi intorno. 

Cait entrò e richiuse la porta alle sue spalle.

«La vuoi una mano?»

Roxanne annuì. Cait le sorrise. 

Nel giro di venti minuti, Caitlin l’aiutò ad indossare un vestitino rosso rubino dalle spalline sottili, di raso leggero, le sistemò i riccioli pettinandoglieli all’indietro e fissandoli con una forcina, e le truccò gli occhi con una leggera linea di un prodotto chiamato eye-liner (Roxanne si vantava di conoscere il mondo Babbano, ma quella diavoleria le era nuova) e le labbra con un rossetto molto simile al colore del vestito. Cait le permise di specchiarsi solo alla fine e quello che Roxanne vide la colpì: non sembrava neanche più lei, il maschiaccio in jeans e t-shirt che la faceva sentire se stessa e al sicuro. Il fatto era che anche in quella veste, si sentiva se stessa, e la cosa la colpì talmente tanto che Cait dovette accorgersene, perché la fece girare per guardarla in viso. 

«Va’ e riprenditela», le disse solo.

Roxanne annuì e le sorrise, un groppo in gola le impedì di dire altro. Si nascose sotto il mantello della divisa - non voleva dare spettacolo nella Sala Comune affollata - ed uscì. Passando accanto a Baston e McLaggen si sentì osservata, e girò la testa dall’altra parte. Non salutò nessuno e si arrampicò fuori dal buco nel ritratto. Raggiunse il quinto piano in un baleno, ma lo trovò deserto. Un po’ delusa, si avvicinò alla statua di Boris il Basito (un mago dall’aria smarrita con i guanti infilati sulle mani sbagliate) e localizzò la quarta porta alla sua sinistra. Attaccato alla porta c’era uno stralcio di pergamena e Roxanne si avvicinò per leggere. 

 

Rox, la parola d’ordine è il nome della scopa sulla quale hai imparato a volare.
E.

 

Roxanne sorrise tra sé e sé. A quanto pare, Elena aveva cambiato la parola d’ordine del bagno apposta per loro. Si stupì di quel gesto molto poco da Prefetto. Si avvicinò alla porta e sussurrò la parola d’ordine: «Tornado Sette3».

La porta si aprì cigolando e Roxanne entrò nel bagno. Ci era già stata una volta, un paio di anni prima, quando Lucy aveva portato lei e Rose durante il suo quinto anno, dopo essere diventata Prefetto. In quell’occasione, Lucy era stata stranamente poco ligia al dovere, e loro tre si erano godute un pomeriggio di scherzi e bagnoschiuma profumati e relax. Non era più accaduto, dopo, e Lucy era tornata seria e attenta alle regole com’era sempre stata.

Il bagno non era cambiato per niente: un trionfo di marmi bianchi, candelieri accesi e, al centro, una grande piscina rettangolare incassata al centro del pavimento. Tende bianche e candide erano appese alle finestre, dalle quali non filtrava neanche un raggio di sole dall’esterno. Elena era seduta accanto ad una pila di morbidi asciugamani bianchi e alzò lo sguardo quando la sentì entrare. Si guardarono per alcuni istanti, poi Roxanne la raggiunse.

«Temevo che non saresti venuta», iniziò Elena. Indossava la divisa e Roxanne per un momento temette di essersi vestita in modo troppo elegante. Si sentì improvvisamente ridicola. 

«Non avrei dovuto?»

Elena scosse la testa. «Ci speravo tanto. Ti sei truccata?» esclamò subito dopo, sbarrando gli occhi, sorpresa.

Roxanne alzò gli occhi al cielo. «È tutta colpa di Cait… Mi ha truccata, e mi ha messo un vestito ridicolo addosso…»

«Posso vederlo?» le chiese Elena inclinando le belle labbra in un sorrisino furbo e accattivante che Roxanne adorava. 

«Be’, immagino di averlo messo proprio per questo, quindi…» Così dicendo, Roxanne si lasciò scivolare di dosso il mantello e vide Elena trattenere il respiro. 

Si sentì ancora più stupida, ma lo sguardo che le lanciò la sua ragazza bastò a rincuorarla.

«Sei bellissima…» disse, la voce bassa. 

Allungò una mano a giocherellare con una spallina e finì per carezzarle una spalla nuda, disegnando cerchi concentrici sulla sua pelle. Roxanne lanciò un’occhiata alla sua mano e poi tornò a guardarla. 

«Elena, io…»

Ma l’altra alzò una mano a zittirla e Roxanne si rimangiò ciò che stava per dire. «Vorrei iniziare io, Rox.»

Lei annuì, senza aggiungere altro.

«Mi dispiace per quello che ti ho detto l’altro giorno», cominciò Elena scuotendo la testa. «Sono stata malissimo per come ti ho trattata, non ho dormito e continuavo a ripetermi quanto fossi stata insensibile…» Le prese una mano e cercò il suo sguardo. «Non sei obbligata a dirmi nulla, Rox. Stiamo insieme, e stiamo bene, e immagino che farei di tutto per aiutarti, o per alleviare la tua pena e le tue preoccupazioni, ed è solo per questo che ho insistito perché tu me ne parlassi. Non volevo farti pressioni e tantomeno litigare con te… Mi credi?»

Roxanne la carezzò dolcemente una guancia e le sorrise. «Ma certo che ti credo. E avevo capito perfettamente perché mi stessi chiedendo chiarezza, e perché avessi insistito per sapere, e ora vorrei solo chiederti se hai capito il motivo per cui non te ne ho voluto parlare…»

Elena annuì. «Non volevi coinvolgermi, sì, l’ho capito. Dopo. Stavi cercando di proteggermi, e mi sono sentita ancora peggio, per questo motivo, vista la scenata che ho tirato su…»

«Sei sempre stata un po’ teatrale, sai?» commentò Roxanne ridendo sotto i baffi.

«Hei, guarda che lo so», rispose l’altra ridendo apertamente, «ma ciò non toglie che sia stata antipatica e mi sia comportata da isterica. Il fatto è che ho cominciato a farmi i peggiori pensieri, in questi giorni, su quello che poteva essere successo… in cosa potevi essere stata coinvolta… se qualcuno poteva averti minacciata, o ti aveva fatto del male… E speravo così tanto di vederti, qui, oggi, perché non voglio sapere cos’è successo, Rox», sospirò, «voglio solo dirti che sono qui, e sono qui per te, e se c’è qualcosa che posso fare per aiutarti… per risollevarti il morale, o darti una mano in qualsiasi cosa… be’, ci sono, okay? Ci sarò sempre, per te».

Roxanne la guardò intensamente. Nessuno le aveva mai rivolto parole di quel tipo, e di quell’importanza. 

L’abbracciò di slancio, gettandolesi al collo e stringendola a sé. Elena ricambiò l’abbraccio e Rox si chinò sul suo collo a respirare il suo buon profumo, e si sentì a casa.

«Facciamo un bagno, ti va? Ma ti avverto: ho preparato la vasca con talmente tanti bagnoschiuma diversi che non so cosa ne sia venuto fuori…» propose Elena.

Roxanne rise e si asciugò via alcune lacrime che le erano scese sulle guance ed Elena si girò, molto probabilmente per non darle l’idea che l’avesse vista, nonostante fosse sicura che l’avesse vista, ma non le importava: la sua fidanzata le aveva rivolto parole talmente belle che non le importava più di nulla, nemmeno di Jenkins. 

La guardò spogliarsi lentamente, togliersi la gonna, sbottonarsi la camicia e sfilarsi le calze spesse, finché il suo corpo da capogiro non rimase coperto solo dalla biancheria intima. Elena si girò a guardarla e le si avvicinò. Le prese il viso tra le mani e la baciò, senza fretta, e dolcemente. Roxanne rispose al bacio, poggiando le mani su quelle di Elena. 

Si staccarono solo quando Elena le poggiò le mani sulle spalline sottili del vestito e glielo fece scivolare lungo il corpo, e questo si andò a raccogliere ai suoi piedi, come una macchia scarlatta e lucente. Lo fissarono entrambe, finché non rialzarono gli occhi per guardarsi. 

«Ti amo», sussurrò Elena baciandola ancora.

«Ti amo anch’io», replicò Roxanne scostandole i capelli dalla fronte. «Ti amo e ti voglio raccontare la verità. Mi vuoi ascoltare?»

Elena la guardò stupita, ma annuì. «Lo voglio.»

 


Teddy sedeva sul divano. Al buio. Si sentiva il russare sommesso di Roger e fuori, nel cuore oscuro della notte, non si sentiva volare una mosca. L’unica luce era quella della luna che filtrava dalle finestre. 

Si era alzato perché non riusciva ad addormentarsi e quel letto era troppo vuoto, dopo aver ospitato Victoire per due giorni. Si era aperto una Burrobirra fredda e si era lasciato cadere sul divano. Non riusciva a togliersi dalla testa il caso Jenkins, ormai era diventato un tarlo molesto, per lui, e non c’era istante di pace in cui la sua mente non andasse lì, sempre lì, a quella dannata sera del due gennaio - e a quello che doveva o non doveva essere successo. 

Quel pomeriggio aveva interrogato James e, quando il cugino era uscito da quell’aula, lui era rimasto solo, confuso e spiazzato e pensieroso. Confuso perché James era rimasto calmissimo, e sembrava come aver dimenticato la scenata di venerdì, era entrato e lo aveva salutato come al solito, come se nulla fosse successo. Spiazzato perché, oltre la sua disinvoltura, James aveva fatto sfoggio di una spiccata sicurezza, non aveva esitato neanche un secondo parlando di quella sera, di lui che era rimasto a studiare fino a tardi in Sala Comune, di lui che era andato a dormire ancora più tardi ché era stanchissimo, e non si era svegliato fino alla mattina successiva. Pensieroso perché non riusciva a cavare un ragno dal buco da quella storia e aver parlato con James non gli aveva affatto chiarito le idee, anzi, forse gliele aveva incasinate ancora di più. 

Pensava che potesse essere stato lui, ne era quasi sicuro, se lo sentiva, quasi, come una netta premonizione o sensazione materiale nello stomaco, dritto dritto nelle viscere, e invece, osservando James Sirius Potter uscire da quell’aula, tutto si era volatilizzato, era sparito in un nugolo di niente, e lui era tornato al punto di partenza. 

Sorseggiò la sua Burrobirra fresca e sospirò. Appoggiò la testa al divano e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, fissò con determinazione il muro di fronte a lui, dov’era appeso un quadretto raffigurante un paesaggio marino. Gli ricordò improvvisamente Villa Conchiglia. 

Avrebbe scoperto la verità. Sarebbe arrivato al fondo di quella storia.

Non aveva mai fallito, finora, non c’era stato caso irrisolto, per l’Auror Teddy Lupin. E non avrebbe fallito proprio ora.

Avrebbe scoperto cos’era successo a Karl Jenkins. 

C’era una sola, grossa domanda che spiccava su tutte le altre, ingombrante e vivida: qual era, però, la verità?

Già. Qual era la verità?

Si alzò dal divano e sbadigliò. 

Sarebbe arrivata una risposta anche a quella domanda. Per Tosca, se sarebbe arrivata. A tutti i costi.

 

FINE PARTE SECONDA​


 


 

Note:

1. Yann Fredericks: Grifondoro del sesto anno.
2. Non si ricordava di essere mai stata così piccola, al suo primo anno: credo di non dover specificare a cosa rimandi questa frase. 
3. Tornado Sette: è stata la scopa di George, e ho pensato che Fred II e Roxanne abbiano imparato a volare proprio sulla vecchia Tornado del padre.

 

Eccoci qui con un altro capitolo di questa storia, che ormai ha battuto qualsiasi altro mio record personale di pubblicazione, qui, dove non sono mai andata oltre quattro o cinque capitoli, e dove non ho mai concluso mezza storia. Insomma, come vi dicevo, un record, e ne sono felice perché ormai mi sono affezionata tantissimo a questi personaggi, e a Teddy in particolare, che non potrei mai lasciarli senza un finale. E non potrei lasciare voi senza un finale.

 

In questo capitolo, ritroviamo Victoire e Teddy insieme, Roxanne alle prese con i primini e le cavie per i Tiri Vispi e poi con Elena, alla quale decide di raccontare la verità (è la prima persona esterna al gruppo a venire a sapere cos’è accaduto quella sera, ma non temete, Elena ama troppo Roxanne per farne parola ad anima viva - o morta), e infine ritroviamo Teddy, solo con i suoi pensieri, in riflessione, confuso ma fermamente convinto a risolvere questo caso.

 

Vi informo che non manca moltissimo alla fine di questa storia, siamo veramente alle battute finali. Non so dirvi quanti capitoli manchino di preciso, ma ho già scritto il 10 e organizzato l’11 e il 12, e sicuramente arriverò ad aggiungerne un paio, poi valuterò e farò il punto della faccenda. Ovviamente, fatemi sapere cosa ne pensate, mi raccomando ♥︎

Vi ricordo la serie dedicata alla mia Nuova Generazione, GENERATION WHY].

Alla prossima settimana, Marti.

 

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Capitolo 11
*** CAPITOLO DIECI ***


A farlo apposta non ci sarei riuscita.
Proprio oggi, 31 luglio, pubblico questo capitolo di “Death in the Night”,
e be’, chi leggerà, capirà:
buon compleanno, Harry Potter, e grazie di tutto ♥︎

 


 

PARTE TERZA

 

10.

CAPITOLO DIECI

 

 

Quel giorno su Hogwarts splendeva un bel sole, cosa rara a fine gennaio, e che aveva radicalmente cambiato l’umore degli studenti intenti a prepararsi per il fine settimana. Una gita al villaggio di Hogsmeade era sempre ben accolta, anche se si sarebbe dovuta svolgere in mezzo ad una tormenta o una tempesta di pioggia e vento, non c’era condizione atmosferica capace di fermare i ragazzi. Era però certo, e assolutamente comprovato, che svegliarsi col sole era il giusto presupposto per una giornata eccezionale. 

Albus Potter si svegliò malamente, ma quando realizzò che avrebbe passato un’intera giornata con Cassandra Zabini, ad Hogsmeade, solo loro due, il suo umore migliorò in modo drastico. Indossò un paio di jeans e una felpa e afferrò il giubbotto pesante, pronto per scendere a colazione. 

«Che fai, rimani a letto?» esclamò rivolto a Scorpius, ancora avvolto nelle coperte, il ciuffo di capelli biondi che spuntava da sotto il cuscino.

Il suo amico bofonchiò leggermente e si girò a guardarlo, gli occhi socchiusi e cisposi di sonno. «Mh, cosa ci fai già sveglio, tu?»

«Il mattino ha l’argento in bocca, amico mio.»

«L’oro, Al. L’oro in bocca.»

«Sai che non sopporto quando mi chiami Al.»

«Sì, certo», rispose Scorpius girandosi dall’altra parte e facendogli un gestaccio. 

«Io scendo, ci vediamo in giro.»

Scorpius non lo degnò di una risposta e così Albus uscì dal dormitorio, diretto in Sala Grande. Non trovò Cassandra seduta al tavolo di Serpeverde e immaginò che fosse ancora nel suo dormitorio, e in generale c’era pochissima gente, seduta ai quattro lunghi tavoli delle case, forse perché era sabato e, nonostante la gita ad Hogsmeade, nessuno aveva voglia di alzarsi troppo presto. 

Avvicinandosi al suo tavolo, Albus notò però sua cugina Rose. Sedeva da sola, discosta da quei pochi Serpeverde che erano già scesi, e girò subito la testa nella sua direzione quando lo vide entrare. Gli fece cenno di avvicinarsi e Albus la raggiunse.

«Rose? Che ci fai già qui?»

«Potrei farti la stessa domanda, cugino.»

Albus scrollò le spalle.

«Non riuscivo a dormire e ho preferito scendere e aspettare qui Scorpius.»

«Potresti dover aspettare un bel po’, temo», disse lui servendosi di alcune fette di pane tostato croccante. «Mi ha appena mandato a quel paese e si è girato dall’altra parte. Avete fatto tardi, ieri sera, eh?»

Rose alzò gli occhi al cielo e Albus vide per un momento sua zia Hermione. «Non più del solito. E poi non sono affari tuoi.»

Albus ghignò addentando poi il suo toast spalmato di burro.

Rose posò la tazza di tè sul tavolo e gli si fece più vicina. Lui le lanciò un’occhiata in tralice. 

«Ce l’hai ancora?»

Albus la guardò negli occhi e lei gli restituì l’occhiata. 

«Non preoccuparti, non la troveranno.»

«Dove…?»

«È meglio che lo sappia solo io, Rose, credimi.»

«James ha dato di matto con Teddy, lo sapevi?»

Albus girò di scatto la testa, lasciando cadere il toast.

«Che ha fatto?»

«Lunedì scorso… Pensavo lo sapessi… Pensavo che Lily te lo avesse detto…»

«No, sono stato impegnato con lo studio, e Lily neanche l’ho vista… Te l’ha detto lei?»

E così, Rose gli raccontò ciò che Lily aveva sentito, e la sua successiva discussione con James, che poi aveva raccontato alla cugina.

«Non ha pensato di venire da me?»

Rose lo guardò con occhi accusatori. «Quando mai tu e Lily parlate?»

«Perché, voi due sì?»

«Si dà il caso di sì, parliamo, come due persone normali. Me l’ha detto solo ieri, non sa che fare perché James non le parla.»

Albus si grattò il mento, pensieroso.

«Chi è che non parla con chi?»

Sussultarono entrambi sulla panca e si voltarono. Cassandra Zabini era in piedi dietro di loro, le mani in tasca, e sorrideva. Il cuore di Albus fece un balzo fin in gola. 

«Cass», la salutò.

«Ciao, Cass», esclamò Rose, sorridendole. L’espressione turbata era scomparsa dal suo volto. 

«Come stai, Rose?»

«Non c’è male, grazie. Voi due siete pronti per Hogsmeade, giusto?»

Albus le lanciò un’occhiata interrogativa. «Scorpius», disse solo lei a mo’ di spiegazione.

«Se Albus ha finito di fare colazione, sì», rispose Cassandra sorridendogli. 

«Sì, certo, ma tu non mangi?»

«Ah, sì, prendo un toast al volo», e così dicendo si chinò sul piatto di Albus e i suoi capelli gli sfiorarono la spalla. Profumavano di buono. Afferrò il toast che Albus aveva lasciato cadere poco prima e lo addentò con disinvoltura, sotto lo sguardo furbo di Rose, che si godeva lo spettacolo. Avrebbe sicuramente raccontato tutto a Scorpius. Dannata Rose. 

Gli cacciò una pedata da sotto il tavolo e Albus sobbalzò. Si alzò in piedi e si scrollò di dosso le briciole. 

«Parlerò io con James», disse solo alla cugina.

Lei annuì. «D’accordo. Dovresti parlare anche con Lily.»

«Una cosa per volta, okay?»

Rose gli sorrise. «Divertitevi, voi due.»

«Grazie, Rosie», rispose Cassandra sorridendole con calore.

Albus bofonchiò un saluto e lui e Cassandra si incamminarono. Giunti nella Sala d’Ingresso, trovarono il vecchio Gazza davanti al portone di quercia, con la solita cartellina dove spulciava i nomi degli studenti autorizzati a lasciare il castello. Albus e Cassandra attesero con pazienza dietro un gruppetto di vocianti ed eccitatissimi Tarrorosso del secondo anno. Albus ebbe modo di lanciare qualche occhiata a Cassandra, intabarrata in un cappotto nero. Notò che aveva messo il lucida-labbra. Deglutì: era bella oltre ogni dire.

«Potter, vogliamo stare qui a guardarci tutto il giorno?» gracchiò Gazza, e lui tornò alla realtà. Fece qualche passo avanti mentre il custode cercava il nome suo e di Cassandra sul foglio. Li spuntò e poi tornò a guardarli male. Più che altro, guardava male lui

«Ti tengo d’occhio, Potter», sputò. 

«… sì, sì, certo, da prima che nascessi», concluse Albus alzando gli occhi al cielo e seguendo Cassandra fuori, nel sole. Sentì Gazza imprecare e bofonchiare tra sé e sé, ma non ci bado più: aveva davanti a sé un’intera giornata con la ragazza che gli piaceva, pensò che niente e nessuno avrebbe potuto rovinargliela. 

 

 

«Mangiamo qualcosa per pranzo?» chiese Albus.

«Tu hai sempre fame, Potter?» rise Cassandra.

Avevano passato la mattinata in giro per il villaggio ed ora erano carichi di borse e sacchetti di tutti gli acquisti che avevano fatto. Si erano fermati da Scrivenshaft, dove entrambi avevano fatto scorta di piume nuove e Cassandra aveva acquistato un nuovo quaderno rilegato in pelle che gli aveva raccontato di usare come una specie di diario («Ci sono anche io, nel tuo diario, Zabini?», gli aveva chiesto lui. Lei gli aveva sorriso, enigmatica come sempre. «Forse», aveva risposto dandogli la schiena per andare a pagare, e Albus aveva sentito lo stomaco fare le capriole); da lì, avevano fatto tappa ai Tiri Vispi Weasley1, dove Cassandra aveva sopportato con pazienza che lui facesse la spesa dei soliti scherzi (Caccabombe, Detonatori Abbindolanti, Orecchie Oblunghe) e si aggiornasse sulle ultime novità proposte dal negozio di scherzi più famoso della Gran Bretagna (suo zio Ron, alto e ben piazzato, lo aveva salutato strizzandolo in un abbraccio stritolante, e sussurrandogli sottovoce di fare buon uso della merce acquistata, prima di rimettergli in mano i soldi e tornare a servire altri clienti, tra le sonore proteste di Albus). La mattinata era trascorsa in un baleno e dovevano ancora andare da Mielandia. 

«Prendiamoci qualcosa da mangiare al volo ai Tre Manici di Scopa, possiamo mangiarlo fuori, che ne dici?» propose Cassandra, che aveva indossato un paio di occhialoni da sole scuri per proteggersi dai raggi solari di quella giornata invernale stranamente tiepida.

E così comprarono due sandwich con pollo e maionese e due bottiglie di Burrobirra (Albus aveva insistito per pagare tutto lui, nonostante Cassandra avesse protestato a gran voce) e mangiarono seduti fuori dal locale, su una panchina di legno, al sole. Si sbottonarono i cappotti e allentarono i giri delle sciarpe e mangiarono di gusto, affamati dopo i giri di quella mattina. 

«È simpatico, tuo zio», disse Cassandra girandosi verso di lui e incrociando le gambe sulla panchina.

«È un mito, zio Ron», asserì Albus inghiottendo un boccone del suo panino. «Ha fatto l’Auror, per un po’, ma poi si è accorto che non faceva per lui e ha raggiunto zio George al negozio, è grazie a lui se sono riusciti ad espandersi qui a Hogsmeade e a rilevare Zonko1

Era bello parlare con Cassandra. Lei lo stava ad ascoltare e sembrava sempre trovare interessantissimo ciò che lui aveva da raccontarle, era paziente e gli faceva domande intelligenti, ma, più di tutto, lui riusciva a non sentirsi giudicato, e costantemente sotto esame, quand’era con lei. E anche Cassandra sembrava riuscire a parlare con lui senza filtri, chiacchierava a ruota libera di tutto un po’, dalla scuola alle lezioni, dalle sue amiche e compagne al suo ruolo di Prefetto, dal campionato di Quidditch (che amava seguire, era una tifosa accanita, e non perdeva un incontro del campionato scolastico) al Club di Dibattito2 di cui era presidentessa («Un giorno diventerò Ministro della Magia, proprio come tua zia Hermione», aveva asserito, seria e sicura di sé, e Albus non aveva dubbi che ci sarebbe riuscita). L’unica cosa che non nominava mai era la sua famiglia. Citava spesso suo fratello Roland e i due sembravano andare molto d’accordo, ma non parlava spesso dei suoi genitori, e Albus pensava anche di sapere perché: Blaise Zabini e Alhena Lestrange non erano propriamente da considerarsi parte integrante dell’élite magica, avevano appoggiato Lord Voldemort durante la II Guerra Magica (e le loro famiglie erano dalla sua parte anche durante la I Guerra) e avevano pagato il fio del loro silenzio in termini di esclusione sociale e perdita di prestigio, e ormai si facevano vedere poco in giro, vivevano di rendita nella loro magione e Cassandra e Roland portavano il peso di un cognome ingombrante e un’eredità oscura. Albus non le faceva domande, ben lungi dal voler rivangare ricordi dolorosi. Si era più volte chiesto come sarebbe potuto apparire, al mondo, il loro rapporto: un Potter e una Zabini, insieme, magari addirittura come una coppia. Era quasi sicuro che la sua, di famiglia, dopo aver accettato la sua amicizia con un Malfoy (e aver accolto quest’ultimo alla Tana come fidanzato di Rose), non avrebbe sollevato obiezioni all’idea. Avrebbe voluto chiedere a Cassandra, ma non voleva dare nulla per scontato e darle l’idea di metterle pressione con progetti folli e scenari ipotetici che poi magari non si sarebbero mai realizzati.

«Magari un giorno me lo farai conoscere meglio, allora», disse Cassandra. «Lui e qualcun altro…», aggiunse visto che Albus la guardava stranito, riemergendo in modo brusco dalle sue fantasticherie, che lo vedevano protagonista, seduto sul divano di casa, davanti a Harry e Ginny, a raccontare loro che voleva sposare Cassandra Zabini. 

Aveva presentato Cassandra allo zio Ron come una sua compagna di classe, ovviamente, e Ron gli aveva stretto la spalle e fatto l’occhiolino. Ormai l’uomo ci era abituato, da quando aveva raccomandato a sua figlia Rose di battere Scorpius Malfoy in tutti i campi possibili e immaginabili e poi, qualche anno dopo, quella stessa figlia gli aveva detto che ci usciva, con Malfoy. Era stato un brutto colpo, per lui, all’inizio, anche se non avrebbe mai detto e fatto nulla per deludere e ferire la sua Rosie, ma aveva finito per voler bene a Scorpius, ché nessuno avrebbe mai potuto fare altrimenti.

«Sì, magari», rispose solo lui sorridendole, mentre entrambi continuavano a mangiare i loro sandwich. 

 

 

«…la vuoi finire di importunare la barista?»

Roger voltò la testa e ghignò. Teddy gli si avvicinò e gli assestò una pacca ben calibrata - voleva fargli male e voleva che se lo ricordasse nelle ore successive - sulla spalla. Il suo amico sobbalzò sullo sgabello e lo spintonò leggermente.

Prudence alzò gli occhi al cielo e agitò la bacchetta all’indirizzo di alcuni bicchieri di Burrobirra, e questi cominciarono ad auto-lavarsi con spugna e sapone. A Teddy sembrò di sentirla borbottare una cosa come «uomini», e non in tono particolarmente lusinghiero.

«Sono un cliente come gli altri», rispose Roger sollevando il suo bicchiere e agitandoglielo sotto il naso. 

«Sì, sì, continua a ripetertelo», sghignazzò Teddy. «Prudence, mi siedo e aspetto una persona, se non ti dispiace.»

«Affatto, Teddy, vuoi qualcosa mentre aspetti?» rispose lei sorridendogli. 

«Una Burrobirra, dài, giusto per scaldarmi.»

«Te la porto subito.»

«A che ora arriva?» gli chiese Roger.

«A momenti, credo», rispose Teddy arruffandosi i capelli già perennemente spettinati - quel giorno erano di un legger color rosa pallido. 

Il suo partner annuì e gli indicò la sala alle sue spalle. «Conviene che ti siedi, allora.»

«Ci vediamo a cena?»

«Forse. Ma potrei avere da fare, dopo», aggiunse alzando le sopracciglia e ghignando di nuovo.

«Uff, tieniti i tuoi misteri, Stranamore», replicò Teddy agitando una mano e andando a cercare un posto a sedere un po’ tranquillo e appartato. Scoprì che non ce n’era rimasto neanche uno, ahimè, e sedette ad un tavolo centrale.

Era da una settimana che Roger si comportava in modo strano, quasi come un bambino che non volesse farsi beccare con le mani nel barattolo dei Calderotti. Usciva a orari strani, talvolta anche dopo la mezzanotte, Teddy lo udiva scalpicciare dalla sua stanza, anche se l’altro faceva di tutto per non farsi sentire, ma aveva la grazia di un Erumpent, quando ci si metteva; passava più tempo del dovuto ai Tre Manici di Scopa, e Teddy sperava che non lo trascorresse tutto a bere Firewhisky o un giorno o l’altro sarebbe finito a gambe all’aria; rientrava a casa o al castello con i capelli arruffati (e Roger non aveva mai i capelli arruffati e in disordine) e il viso arrossato e gli occhi luccicanti.

«Ecco qui.» Prudence interruppe i suoi rimuginìi e gli posò davanti il suo bicchiere di Burrobirra. 

«…Prudence», si ritrovò a richiamarla.

Lei si girò a metà strada e tornò sui suoi passi. 

«Roger», iniziò lui, «che cos’ha? Lo vedo strano…»

Il viso di Prudence si aprì in un sorrisetto. Da quando in qua Prudence King faceva sorrisetti? 

«Non saprei…» rispose lei piegando le labbra e sollevando le sopracciglia. «Dovresti chiederlo a lui, forse?»

Teddy annuì. «Forse hai ragione.»

Lei si strinse nelle spalle, ma continuò a sorridere a quel modo, anche quando tornò dietro il bancone, e anche quando lanciò un’occhiata a Roger. 

Teddy sbarrò gli occhi. Come aveva fatto ad essere così stupido? Come? Se ci fosse stata Victoire lo avrebbe preso in giro «perché è il tuo collega, ed è un amico, amore, come diavolo hai fatto a non capire che è successo qualcosa con Prudence?» Era successo qualcosa con Prudence, ecco cosa. Ecco il perché dei misteri, dei sotterfugi, dell’aria svagata… Ora si spiegava tutto. Be’, doveva ammettere che la cosa si era protratta davvero per le lunghe, era ora che quei due si muovessero. 

Un brusio indistinto lo fece riscuotere e capì subito cos’era successo. Harry Potter aveva appena varcato l’ingresso del locale. Erano passati anni - tanti anni - dal 1998, ma il suo padrino sapeva ancora come far girare le teste e sciogliere le lingue, quando entrava in un posto, anche se si trattava dei Tre Manici di Scopa. Si chiese come facesse a sopportarlo, ma il suo sorriso aperto e benevolo quando lo intravide lì seduto gli fece capire che non se ne curava. Non più, almeno. 

Teddy alzò una mano a mo’ di saluto ed Harry intercettò Prudence, molto probabilmente per farsi portare qualcosa da bere, e poi lo raggiunse. 

«Ciao, Teddy», salutò. 

«Harry», rispose lui alzandosi in piedi. 

Si abbracciarono strettamente e Harry gli diede due pacche paterne sulla schiena, per poi sfilarsi il mantello e prendere posto di fronte a lui. 

«Aspetti da tanto?»

«No, affatto, e poi ho ingannato bene l’attesa», e sollevò il suo bicchiere. 

Harry ridacchiò. Il tempo sembrava essersi come fermato, per il suo padrino: aveva qualche capello grigio qua e là («che lo rendevano solo più interessante», come amava dire sempre Dominique) nella chioma scura, qualche ruga d’espressione intorno agli occhi e alla bocca, e una nuova montatura, ma per il resto, era sempre l’Harry Potter della sua infanzia. 

«Intanto che aspettiamo da bere», iniziò quindi l’uomo, «come stai, tu?»

Teddy scrollò le spalle. «Non c’è male. Victoire è stata qui, lo scorso fine-settimana. Mi ha fatto una sorpresa.»

Harry annuì e sorrise. «Lo so. In realtà lo sapevamo tutti», aggiunse davanti allo stupore di Teddy. «In settimana è venuta a cena alla Tana, l’ha invitata Molly. Molly di Percy», specificò. Ormai Molly era solo nonna Molly, mentre Molly di Percy era Molly II. Troppe Molly, pensava sempre Teddy. «Si festeggiava il compleanno di Molly di Percy, appunto, e Molly ha pensato di organizzare qualcosa alla Tana, sai, solo tra noi…»

Teddy annuì. «Ho inviato un gufo di auguri a Molly, mi è dispiaciuto non esserci…»

«E quindi in pratica Molly di Percy ha invitato Victoire, come ti dicevo, e lei non era sicura di esserci, perché forse era di turno, e sai com’è fatta, ma alla fine si è liberata ed è arrivata all’ultimo minuto ma è arrivata. E ci ha raccontato della sorpresa.»

Ovviamente, Victoire gli aveva raccontato tutto (tranne che tutti sapessero del suo diabolico piano), ma Teddy lasciò parlare Harry, gli piaceva starlo ad ascoltare - proprio come quando era un bambino. 

«Insomma, vi siete fatti beffe di me, ho capito.»

Harry rise, mentre Prudence arrivava a portargli un bicchiere di Burrobirra. Harry ringraziò e la donna scivolò via. Roger era sparito, e Teddy si chiese se avesse visto Harry entrare, ma probabilmente no. Meglio così, o lo avrebbe preso in ostaggio. 

«È stato divertente, sì, lo ammetto.»

Entrambi risero e bevvero dai loro bicchieri. 

«Invece tu come stai? Ginny tutto bene?»

«Tutto benissimo, ti manda i suoi saluti, tra l’altro…»

«Ah, già, scusati con lei per averti rapito proprio durante il fine-settimana.»

«Non preoccuparti, te l’ho chiesto io, no? E poi aveva da lavorare ad un articolo, e quando sono uscito si era chiusa nello studio a scrivere come una forsennata. Non sentirà la mia mancanza.»

«Il lavoro? Come va in ufficio?»

Harry alzò gli occhi al cielo. «Stiamo gestendo una piccola crisi interna che spero non giunga alle orecchie della stampa. Per ora non è successo, altrimenti la cara, vecchia Rita non avrebbe perso occasione per buttarcisi.»

«C’è un inizio di crisi diplomatica con il Ministero francese riguardo un incidente con alcuni Kappa3 avvenuto nel Canale della Manica», spiegò Harry abbassando la voce e chinandosi verso di lui. 

«Che ci fanno i Kappa nel Canale della Manica?» soffiò Teddy.

«Questo lo stiamo appurando, secondo l’Ufficio per la Regolazione e il Controllo delle Creature Magiche sono stati importati illegalmente dal Giappone», rispose l’altro. «Sta di fatto che il mago assalito è francese, e i francesi sostengono che la responsabilità sia nostra, quando dovrebbero sapere benissimo che la Gran Bretagna non è tra i paesi firmatari della Convenzione sulle Acque Oceaniche4 - che rende i singoli paesi perseguibili per incidenti o reati commessi in mare - quindi di conseguenza la responsabilità ricade sulla Confederazione Internazionale dei Maghi, non su di noi. È un casino, lo so, ma dura lex, sed lex5.»  

Teddy annuì. «Sì, io credo che anche la Gran Bretagna dovrebbe adeguarsi alla Convenzione, ma hai ragione, la legge è la legge, anche quando è confusa.»

«Sai bene quanto Hermione e io ci stiamo battendo per firmare la Convenzione e abrogare invece il Decreto sulla Regolamentazione delle Acque Oceaniche6 del 1589 da… be’… da sempre, ma alcuni, tra i quali Eva Chapman, fanno una strenua opposizione. Non c’è verso di schiodarli.»

«Credo che quella donna sia peggio di uno Schiopodo in culo», commentò Teddy alzando gli occhi al cielo e bevendo un sorso di Burrobirra.

Harry rise. «Duro ma giusto.»

«Quindi state facendo straordinari, eh?»

«Eh, sì, tuo zio Perce sta facendo i salti mortali per far arrivare qui i rappresentanti del Ministero francese, e Kingsley7 da Ginevra continua a mandare gufi, dice di risolvere questa faccenda o sarà costretto a intervenire con la Confederazione, come prevederebbe il Decreto. Be’, Hermione è andata fin là, e ha incontrato il Ministro Mathieu8, il meeting è durato qualcosa come dieci ore. Si dovranno incontrare di nuovo a Londra, spero per prendere una decisione definitiva, questa volta.»

«E in ufficio le cose non vanno certo meglio, la Chapman cerca di attaccare briga, quando può, e l’altro giorno per poco non ha litigato con Hermione durante l’ultima seduta, insomma, un inferno. Stiamo facendo di tutto per tenere il Profeta all’oscuro».

«Strano che non sia ancora andata a spifferare tutto alla Skeeter…»

«Ah, credo che non manchi molto, ahimè.»

Teddy annuì. Conosceva il suo superiore, se c’era qualcosa che Eva Chapman potesse fare per screditare e mettere in cattiva luce Harry Potter ed Hermione Granger, allora era sicuro che l’avrebbe fatta. 

«Ho saputo che avete avuto da discutere, qualche giorno fa, tu e Rita.»

«Sì, si è sfogata con un bell’articolo contro di me, credo che per un po’ se ne starà tranquilla.»

«E il caso? Come procede?»

Eccoci qui, pensò Teddy. Eccoci arrivati al vero motivo di quell’incontro. Non che dubitasse delle buone intenzioni del suo padrino sull’informarsi su di lui, e su come stesse, e nel raccontargli i suoi problemi, però era sicuro che sarebbero arrivati a parlare del caso, nonostante Teddy avesse sperato fino all’ultimo che Harry non lo tirasse fuori. Speranze vane.

«Procede e non procede», rispose lui, intenzionato a mantenersi sul vago come aveva stabilito insieme a Roger. E così gli raccontò brevemente cos’avevano scoperto in seguito al rapporto della Magi-Autopsia, ai loro sospetti in merito ad un ipotetico studente del Settimo Anno come unico possibile responsabile di una Trasfigurazione Umana, e del clima che si respirava nel villaggio e nel castello. 

«I coniugi Jenkins sono stati al Ministero», disse Harry sistemandosi gli occhiali sul naso.

«Al Ministero?» esclamò Teddy. «A fare che cosa?»

«Sono stati a parlare con la Chapman», spiegò Harry. «Ero indeciso se dirtelo o meno, non vorrei complicare le cose…»

«Perché io e Roger non ne siamo stati informati?»

«Credo che neanche Hestia lo sappia. Qualcuno ha informato me, ma in via del tutto confidenziale. Sto cercando di capire cosa si siano detti, lunedì andrò a parlare con l’assistente di Eva. Voglio andare al fondo di questa faccenda e capire come mai Hestia non ne sia stata informata, visto che voi vi state occupando del caso.»

«Vorrei saperlo anche io, sì», borbottò Teddy. La situazione si stava complicando, se i genitori avevano ripreso a fare pressioni sul Ministero… Non ci voleva. 

«I miei figli come stanno? Non li sento tanto quanto vorrei, e oggi in realtà non sanno neanche che sarei venuto, tecnicamente è una sorpresa…»

«Stanno bene, stanno bene», rispose Teddy bofonchiando e finendo di trangugiare la sua Burrobirra. Evitò gli occhi di Harry. «Sono sicuro che sarà una bella sorpresa, per loro.»

«Sì, è strano che non li abbia già visti», commentò consultando l’orologio che portava al polso, lo stesso orologio che Teddy lo vedeva indossare praticamente da sempre, e che appariva più usato e vecchio che mai. Poi si girò per guardarsi intorno nel locale, e Teddy notò Roger che lo salutava, appollaiato sul suo sgabello. Harry ricambiò e poi tornò a guardare Teddy.

«Tornando un attimo ai ragazzi, mi farebbe piacere se li tenessi d’occhio, Teddy», disse. «James e Albus non hanno più scritto a casa, con Albus ci siamo abituati, ma Jamie mi preoccupa. Solo Lily ci fa stare tranquilli.»

Teddy annuì e si sentì male all’idea di continuare a mentirgli. «Li terrò d’occhio, non devi preoccuparti.»

 

 

«Dài, entriamo a bere qualcosa», propose Cassandra davanti ai Tre Manici di Scopa.

Avevano passato la prima parte del pomeriggio da Mielandia: era pienissimo di gente e ci avevano messo una vita per guardare tutto - comprese le novità - e per scegliere cosa comprare, e avevano fatto una coda paurosa. Ne erano riemersi solo dopo due ore, accaldati ma felici, con i sacchetti pieni di dolci. Ne avevano mangiato qualcuno lungo la strada, ridendo, e commentando le facce di Pucey e Rosier, fermi in coda poco dietro di loro, intenti a guardare in modo cattivo i ragazzini più piccoli, con il risultato che sembravano entrambi preda di un forte mal di pancia. 

Albus acconsentì con entusiasmo alla proposta di Cassandra e cominciò a gustarsi una Burrobirra ancora prima di entrare. Quella giornata si stava rivelando magnifica e desiderò di trascorrere con Cass ancora tante altre giornate come quella. Si fermò sulla porta, la mano destra sulla maniglia, mentre il caldo all’interno del locale lo investiva in piena faccia. Il brusio era altissimo, come sempre durante i fine settimana, e i tavoli erano quasi tutti pieni. Proprio lì, seduto quasi al centro della sala, c’era l’ultima persona che avrebbe desiderato incontrare, in quel momento, e in quei giorni: suo padre. Il mantello poggiato sullo schienale della sedia, parlava fittamente con Teddy Lupin, sedutogli di fronte, chinati l’uno verso l’altro come a non voler farsi sentire dagli altri avventori. Albus si sentì mancare la terra sotto i piedi. Lo stomaco gli si accartocciò, il cuore prese a martellargli nelle tempie e nel petto, forte e potente come mille tamburi, e la vista gli si annebbiò. Teddy aveva convocato Harry per parlargli del caso, per parlargli dei suoi sospetti, per parlargli di loro. Di lui. Proprio lui, che fino a pochi giorni prima aveva conservato la bacchetta di Jenkins nel suo baule ai piedi del letto, e che quella stessa bacchetta l’aveva nascosta in profondità in una stanza affollata di altri oggetti, solo perché nessuno potesse ritrovarla - potesse trovarla in suo possesso; proprio lui che aveva odiato Jenkins, e quindi era forse il primo dell’elenco “sospettati” dell’Auror Lupin; proprio lui che era sempre così scostante, e distaccato, e intriso di rabbia e oscurità. Proprio lui che era sempre così dubbio.

Si sentì mancare l’aria, oltre che la terra, mentre sentiva Cassandra che gli metteva una mano sul braccio e, con voce ovattata, faceva il suo nome. Girò sui tacchi quasi incespicando, lasciando la porta aperta, allontanandosi da lì, da quel posto, da suo padre. Voleva solo correre via, lontano. Lasciò cadere le borse, senza neanche badarci. Si passò una mano sul viso e prese a camminare a passo sostenuto lungo la via, ma ben presto si mise a correre. La gente intorno a lui era solo una macchia sfocata e indistinta, mentre i volti che incrociava avevano un che di grottesco, quasi animalesco, e facevano il suo nome, lo spintonavano, gli tiravano i vestiti. Si ritrovò non sapeva neanche come al limitare del villaggio, e da lì si vedeva la Stamberga Strillante e il Platano Picchiatore. Si appoggiò ad uno steccato di legno umido, nascondendo il viso tra le braccia, cercando di regolarizzare il respiro. 

Gli era venuto un altro attacco di panico, ma questa volta non c’era il pavimento freddo del bagno del suo dormitorio ad accoglierlo, c’era solo la nuda e cruda terra invernale. Rialzò la testa e cercò di inspirare l’aria fresca che ora gli sferzava il viso, ma senza risultato: sentiva la gola restringersi sempre di più, e il cuore non accennava a rallentare, e gli tremavano le mani. 

«Albus!»

Si girò, e forse con un po’ troppa foga, perché gli girò immediatamente la testa. Cassandra gli si stava avvicinando, carica di buste, il viso scomposto dalla paura e dalla preoccupazione. 

«Va’ via, Cass», mugugnò lui dandole le spalle e riappoggiandosi con le braccia alla staccionata.

«Albus?» insistette lei. Poggiò a terra le borse e gli si affiancò, cercando di guardarlo in faccia, ma lui non voleva che lei lo vedesse così - vulnerabile, disorientato, spezzato. «Albus, che cos’hai?»

«Non ho niente, ti ho detto di andartene.» Voleva solo che lei lo lasciasse solo, ed era pronto a ferirla solo per vederla dargli le spalle e allontanarsi da lui - solo per leggere la delusione sul suo volto, ché era bravo solo a fare quello, a deludere, deludere, deludere

«Smettila di dire cazzate, non me ne vado», replicò lei con voce ferma. «Tu non stai bene.»

Allungò una mano a toccargli il braccio e lì Albus si sentì crollare, dall’interno e all’esterno. Sentì il viso incresparsi come quando era bambino e piangeva perché Hugo gli aveva rubato qualche giocattolo e lui lo voleva solo per sé. Si lasciò scivolare lungo la staccionata, scompostamente, facendosi male alla schiena, ma in quel momento non gli importava, non gli interessava di farsi male, anzi, forse provare dolore era la prova che gli serviva per capire che era ancora vivo. 

«Albus.» Ora nella voce di Cassandra c’era un vivo allarme, una paura sussurrata, una preoccupazione che la spinse ad accovacciarsi accanto a lui sull’erba e a stringergli il braccio, di nuovo e ancora, forse per capire se era ancora intatto o se si sarebbe disintegrato lì di fronte a lei. «Albus», ripetè, teneramente, la voce bassa e lieve. «Cosa c’è? Cos’è successo?»

Allungò una mano a toccargli i capelli e scese sulla fronte sudata, in un gesto talmente intimo e tenero che Albus credette di potersi spezzare già solo per quello. Nessuno lo aveva mai più accarezzato così, mentre lui continuava a singhiozzare e a cercare di respirare, il petto scosso. Non era mai stato così male come quel giorno. 

«Non…» cominciò, la voce roca. «Non posso…»

«Non puoi dirmelo?»

Scosse la testa. Lei continuava ad accarezzargli la fronte. 

«Tu non puoi… Non posso coinvolgerti…»

Si passò una mano sul viso e sentì le pulsazioni accelerare nuovamente. Cazzo

«Albus, hei», disse quindi Cassandra mettendosi in ginocchio di fronte a lui e cercando i suoi occhi. «Albus, guardami.»

Lui alzò a fatica la testa. Voleva guardarla ma allo stesso tempo non voleva guardarla, ché gli faceva bene e male insieme, come un dolce veleno, lento e mortifero ma bello. 

«Non puoi dirmelo, non importa», continuò. «Voglio solo che tu stia bene, okay? Okay

Lui scosse nuovamente la testa. Non era okay, non stava bene per niente, e niente sarebbe andato apposto, non più. È tutta colpa tua, Albus. È solo colpa tua, ricordatelo. Era tutta colpa sua. 

Non la vide avvicinarsi, perché aveva di nuovo chiuso gli occhi, come a voler scacciare via il mondo intorno. La sentì solo quando lei poggiò le labbra sulle sue, prima premendo con lievità, quasi a non volergli fare del male, e poi cercandolo con ferma intenzione. Si staccarono, e Albus si sentì accaldato e ancora più confuso, ma nello sguardo di Cassandra non c’era confusione, solo fermezza. 

«Voglio solo che tu sia bene», ripetè lei con dolcezza. 

Albus l’attirò a sé e fu lui a cercare le sue labbra, questa volta. Le cercò disperatamente, con foga e urgenza, ché costituivano per lui l’unica àncora di salvezza in quel mare in tempesta. E continuarono a baciarsi ancora, e ancora, allacciando le membra e regolarizzando i respiri, là dove tutto era crollato - ma, in qualche modo, Cassandra lo aveva ricostruito.

 


 

Note:

1. Tiri Vispi Weasley: facendo riferimento alla mezza intenzione di Fred e George di espandersi a Hogsmeade rilevando Zonko, ho pensato che George fosse riuscito nell’intento di aprire una seconda sede dei Tiri Vispi grazie all’aiuto di Ron. 
2. Club di Dibattito: ovviamente è una mia invenzione. 
3. Kappa: “I kappa sono creature acquatiche diffuse in Giappone, anche se Severus Piton afferma che sono più comuni in Mongolia. Hanno l'aspetto di scimmie ricoperte di squame, e abitano stagni e fiumi. Sulla sommità delle loro teste vi è una depressione che le creature riempiono d'acqua, fonte delle loro energie. Si nutrono di sangue umano e per ottenerlo non si fanno scrupoli a strangolare le ignare vittime che attraversano le loro zone” [fonte: wikipedia].
4. Convenzione sulle Acque Oceaniche: di mia invenzione. 
5. Dura lex, sed lex: “La legge è dura, ma è la legge”.
6. Decreto sulla Regolamentazione delle Acque Oceaniche: di mia invenzione.
7. Kingsley: è ovviamente Kingsley Shacklebolt; dopo aver rinunciato alla carica di Ministro, non sappiamo quale sia la sua sorte, e ho quindi pensato di metterlo a capo della Confederazione Internazionale dei Maghi come Supremo Pezzo Grosso; ho collocato la sede della Confederazione a Ginevra.
8. Ministro Mathieu: personaggio di mia invenzione; il cognome rimanda a (Emmanuel) Macron, Presidente della Repubblica francese.

 

Eccoci arrivati al primo capitolo a due cifre, all’inizio della terza (e penso ultima) parte di questa storia; la bomba è quasi scoppiata e, da qui, assisteremo ad un progressivo, e sempre più veloce, tracollo per i nostri ragazzi, infatti il nostro Albus si gode una mezza giornata di relax e gioia in compagnia di Cassandra, ma crolla quando vede suo padre Harry (ancora buon compleanno, Harry!), seduto ai Tre Manici di Scopa con Teddy, e mille paure lo assalgono; meno male che c’è Cassandra a consolarlo e a cercare di farlo stare meglio; spero che la parte con Harry vi sia piaciuta, mi sono divertita ad inserire un Harry adulto nella mia storia, e soprattutto a farlo  interagire con Teddy. Per chi volesse approfondire i trascorsi tra Roger e Prudence, vi lascio qui il link ad Azzurro nell’azzurro che ho scritto su di loro.

 

Tenetevi forte perché nel prossimo capitolo torneremo al Ministero per una toccata e fuga (non voglio dirvi altro), qualcuno abbasserà finalmente le difese (chissà se indovinate di chi sto parlando) e, nel finale, scoppierà un’altra bomba, e sarà proprio bella grossa 👀 

 

Fatemi sapere cosa ne pensate, mi raccomando, sono sempre curiosa di leggere le vostre teorie e di sapere cosa pensate dei personaggi e delle varie dinamiche!

 

Alla prossima settimana, Marti

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Capitolo 12
*** CAPITOLO UNDICI ***


11.

CAPITOLO UNDICI

 

 

«Se c’è una cosa che non sopporto del mio lavoro», cominciò Teddy uscendo da uno dei camini situati nell’Atrium del Ministero della Magia e togliendosi di dosso la fuliggine in eccesso, «è ricevere una convocazione ufficiale la domenica.»

Roger, accanto a lui, annuì dopo aver sventolato la mano all’indirizzo di un paio di maghi appena usciti dal camino di fianco. «Buona giornata anche a te», esclamò, poi si girò verso Teddy e alzò gli occhi al cielo. «Io Macmillan non lo reggo, sia messo agli atti», aggiunse. 

Teddy allungò il collo per osservare la schiena dei due maghi che si allontanavano a passo svelto. Il lunedì era sempre critico per tutti. 

«Quale dei due è Macmillan?»

«Quello più alto, quasi stempiato.»

«Be’, almeno tu hai ancora tutti i capelli.»

«Grazie, tu sì che sai risollevarmi le giornate, Teddy.»

Teddy gli diede una pacca sulla spalla e insieme si diressero al piccolo chiosco interno, che da un paio d’anni era stato aperto in una piccola sala adiacente l’Atrium, poco prima della Fontana dei Cinquanta Caduti. Il bancone era affollato di Ministeriali e tre baristi correvano come matti e agitavano le bacchette, preparavano caffè, cappuccini, tè caldi, mentre croissant e muffin levitavano in sacchetti di carta che poi planavano con grazia di fronte all’avventore in attesa. 

Teddy e Roger spintonarono un pochino di qua e un pochino di là e si guadagnarono uno piccolo spazio proprio in prima fila. Teddy urtò per sbaglio il gomito della persona accanto a lui e, quando si girò per chiedere scusa, si ritrovò di fronte Molly - la cugina Molly.  

«Teddy?» esclamò lei, sorpresa.

«Molly, hei», la salutò lui sorridendole. 

«Che ci fai qui? Non dovresti essere a Hogwarts?» gli chiese. «Sì, grazie, il croissant è quello al miele», aggiunse all’indirizzo del barista. Poi tornò a guardare Teddy.

«Sì, dovremmo», rispose quindi lui indicando Roger accanto a sé. Molly sventolò una mano per salutarlo e Roger replicò con un «ciao, Mol.»

«L’avvoltoio ci ha mandato a chiamare», sussurrò Teddy per non farsi sentire dalla gente intorno. L’avvoltoio era il soprannome con cui tutti gli Auror più giovani chiamavano Eva Chapman. 

«Oh, cazzo», commentò la ragazza facendo una smorfia. 

«Due caffè americani per noi, grazie», esclamò intanto Teddy quando una barista gli chiese cosa volesse ordinare. 

«Il caso come va?»

«Non va», rispose Teddy. «Cioè, da un lato potremmo avere qualcosa in mano, dall’altro non abbiamo abbastanza prove per confermare i nostri sospetti.»

Molly annuì, sorseggiando un po’ dal suo bicchiere, in attesa del croissant. «Spero che chi-sappiamo-noi non vi strapazzi troppo… Ma vi ha convocati ieri?»

«Seh», rispose Teddy, e gli venne subito in mente sua nonna Andromeda, che lo sgridava sempre quando rispondeva così ad una domanda (« è una soluzione così pratica, Edward, dovresti pensare di usarla più spesso, sai?». Non lo chiamava quasi mai ‘Ted’, ma piuttosto ‘Teddy’ o ‘Edward’, ‘Ted’ le ricordava troppo il suo amato marito, il nonno che Teddy non aveva mai conosciuto, un altro affetto che la guerra gli aveva portato via). 

«Come suo solito», commentò ancora Molly. Poi arrivò il suo croissant al miele e lei afferrò il sacchetto prima che si posasse sul bancone. «Ti saluto, Teddy, non so se ci vedremo, dopo, esco in pattuglia con JJ1

«Ah, salutamelo», esclamò Teddy. «E tu sta’ attenta, Molly.»

La ragazza gli sorrise. «Sì, papà», e ridendo si allontanò. Teddy sorrise tra sé e sé scuotendo la testa e si appoggiò al bancone, in attesa. Roger intanto si era messo a chiacchierare con un Ministeriale in attesa di fianco a lui, che salutò non appena arrivarono i loro americani. Uscirono da quel caos e si incamminarono verso i cancelli dorati. 

Attesero l’arrivo di un altro ascensore, visto che quello presente era pieno da far schifo, e intanto sorseggiavano i loro caffè, mentre Roger batteva nervosamente un piede per terra. Avevano ancora un quarto d’ora d’aria prima di dover parlare con l’avvoltoio. 

Un ascensore arrivò sferragliando e le grate dorate si aprirono per lasciar entrare la solita folla. Teddy e Roger furono tra i primi, e con loro entrò anche Megan Hall della Sorveglianza. Stringeva al petto una serie di cartelline colorate e affiancò subito Teddy non appena lo vide. Roger gli assestò una gomitata nelle costole e Teddy quasi si soffocò con il caffè. 

«Ciao, Teddy!»

«Ciao, Megan», tossì, mentre una strega vestita di viola davanti a lui si girava a guardarlo malissimo, «niente Sorveglianza, stamattina?» Lanciò un’occhiataccia a Roger ma quello stava ridendo sotto i baffi, appollaiato sull’orlo del suo bicchiere. Stronzo.

Intanto l’ascensore aveva preso a salire lentamente ma con fragore, le catene che sbatacchiavano come dei vecchi fantasmi. Anni di evoluzione e ancora nessuno ci aveva messo mano per migliorarne la funzionalità. 

«Questa settimana rimpiazzo Roland2, si è messo in malattia.»

«Ah, quindi lavori gomito a gomito con la Ministra, Megan», intervenne Roger. 

Teddy lo guardò male. Sapeva che lo aveva detto solo per prenderla in giro.

«Sì, Roger, non è fantastico? È una grande opportunità, per me», rispose, però guardando Teddy. Gli sorrise.

Lui piegò le labbra in quello che forse era apparso più come un ghigno. Si nascose nel caffè, mentre sentiva Roger accanto a lui trattenersi a stento dallo scoppiare a ridere. 

Giunti al Terzo Livello (“Dipartimento delle Catastrofi e degli Incidenti Magici, comprendente la Squadra Cancellazione della Magia Accidentale, il Quartier Generale degli Obliviatori e il Comitato Scuse ai Babbani”), un gruppo di Ministeriali uscì, e nello stesso momento uno stormo di Promemoria Interuffici planò all’interno. 

«Il prossimo è il nostro, Roger», annunciò Teddy facendogli cenno di avanzare. 

«Allora ci vediamo, Teddy, io salgo ancora», esclamò Megan, rimarcando quel ‘io salgo ancora’ a voce eccessivamente alta, così che tutti i restanti all’interno dell’ascensore potessero udirla. «È stato un piacere rivederti.»

Teddy alzò una mano a mo’ di saluto. «Buon lavoro, Megan, salutami Hermione.»

«Sì, Megan, salutaci Hermione», ripetè Roger scoppiando a ridere. Intanto erano arrivati al Secondo Livello e così Teddy si affrettò a spingerlo fuori. L’ascensore ripartì, con solo più Megan all’interno, che li guardava con gli occhi ridotti a due fessure. 

«Sei uno stronzo», esclamò Teddy. 

Roger non la smetteva di ridere. «Quella continua a provarci con te, Teddy, come faccio a non ridere, eh?»

Teddy buttò il bicchiere vuoto in un cestino e alzò gli occhi al cielo. «Cosa ci posso fare? È così dai tempi della scuola…»

«Credo che dovresti presentarle la tua fidanzata, secondo me ne vedremmo delle belle.»

«Già la conosce, Victoire, e poi scusa, ma perché invece di prendere in giro me non pensi a cosa fai tu

Roger sussultò e smise subito di ridere. Ora lo guardava con sospetto.

«Mi vuoi dire cos’è successo con Prudence? Siete tutto uno zucchero, ultimamente. E ti brillano gli occhi manco avessi quindici anni.»

Roger si passò una mano dietro la nuca. «Be’… insomma… noi… Ecco, forse stiamo… insieme… Sì, si può benissimo dire che stiamo insieme. Ecco

Teddy ridacchiò. «Era ora, vecchia volpe!» E gli diede una pacca talmente forte sulla spalla che Roger imprecò. 

«Dài, andiamo, prima di finire nei guai», commentò solo  quello avviandosi, ma sorrideva sotto i baffi. 

L’ufficio di Eva Chapman si trovava al fondo dell’open space occupato dal personale dell’Ufficio Auror. Teddy e Roger salutarono alcuni colleghi ma non si fermarono: mancavano esattamente cinque minuti. Giunti davanti alla porta di vetro temperato a due battenti, con sopra scritto “EVA CHAPMAN - CAPO UFFICIO AUROR”, Roger lanciò un’ultima occhiata a Teddy e poi bussò. 

Venne loro ad aprire il segretario e assistente della Chapman, Logan, che li fece accomodare nell’anticamera, un piccolo ambiente contenente la sua scrivania, alcuni schedari, un paio di quadri e una fila di scomode poltroncine per i visitatori in attesa. 

«Annuncio ad Eva che siete qui.»

Teddy gli fece una smorfia dietro la schiena e Roger lo guardò con disapprovazione. 

Logan bussò ad un’altra porta a vetri, coperta da veneziane grigie, e, atteso il permesso di entrare, infilò solo la testa all’interno. 

«Falli entrare, Logan, grazie», si sentì. 

Logan si girò e fece loro cenno di avvicinarsi. Aprì la porta e si fece da parte per farli passare. La sentirono richiudersi alle sue spalle. 

«Hestia?» esclamò Roger, sorpreso. 

Il loro diretto superiore, Hestia Jones, era poggiata ad un comò cesellato addossato al muro, le braccia conserte sul petto. Fece loro un cenno della testa ma non disse niente. Aveva uno sguardo torvo, come se lei ed Eva fossero appena uscite da una discussione accesa. 

Teddy però guardava la donna dietro la scrivania. Eva Chapman si alzò in piedi per salutarli, un elegante tailleur grigio e i capelli biondi perfettamente acconciati. Rughe sottili le contornavano le labbra fini, che ora aveva disteso in un sorriso forzato. 

«Lupin, Davies», li salutò, asciutta. «Prego, sedetevi.»

Teddy e Roger presero posto nelle due poltroncine (scomode come quelle dell’anticamera e altrettanto brutte) sistemate davanti alla scrivania, in silenzio. 

«Bando alle ciance», iniziò la donna risedendosi e incrociando le dita sotto il mento. «Penso abbiate immaginato il motivo della vostra convocazione qui.»

A Teddy sembrò di udire Hestia grugnire piano, ma forse lo aveva solo immaginato. «Be’, presumo che sia per via del caso Jenkins», rispose. 

Eva annuì gravemente. «Ho dovuto. Ho dovuto per via delle pressioni che i genitori di quel caro ragazzo stanno facendo al mio indirizzo, e quindi al vostro, facendo tutti voi capo a me

«Non crederà mica a quello che scrivono sul Profeta, no?» intervenne Roger.

Eva strinse le labbra. «So bene a cosa credere, Davies, non si deve preoccupare. Ma so anche bene cosa vedo, e cosa non vedo. E non vedo risultati utili, signori. Neanche uno.»

Teddy e Roger avevano inviato alcuni rapporti a Hestia per informarla dell’andamento delle indagini, ma non erano ancora scesi nello specifico, cioè non avevano menzionato i loro sospetti sui Potter-Weasley, preferendo rimanere sul vago, adducendo come scusa il fatto di non avere ancora un’idea precisa sui singoli sospettati. Teddy non sapeva se Hestia avesse creduto a tutto ciò che in quei rapporti avevano scritto o se avesse chiuso un occhio di proposito, e ora non si osava lanciarle un’occhiata per sondarne l’espressione, visto che Eva Chapman non staccava i suoi occhi da loro. 

«Comprendiamo benissimo la situazione, capo Chapman», iniziò Teddy facendo un bel respiro. Sapeva sfoderare le parole giuste, lo aveva già fatto in passato, e intendeva utilizzare tutte le armi in suo possesso al fine di uscire quanto prima da quell’ufficio e dall’aria rarefatta che vi si respirava - nonostante il profumo di fiori che aleggiava nell’ambiente. La donna seduta davanti a lui aveva inclinato le labbra in un sorriso quando lui l’aveva chiamata “capo”. «È morto un ragazzo, e in circostanze che… be’… le definirei inaspettate, forse, considerata l’attuale situazione del nostro paese, nel quale il suo ufficio è riuscito a mantenere un alto standard di sicurezza che tanti altri stati ci invidiano.»

Eva Chapman si sistemò meglio sulla sedia. Si stava godendo - e bevendo - ogni singola parola. 

«Comprendiamo bene anche l’immediata necessità di assicurare che quegli alti standard vengano mantenuti, la popolazione chiede risposte, i coniugi Jenkins chiedono risposte, pretendono di sapere, e a ragione, cos’è successo al loro unico figlio», Teddy fece una pausa, «pretendono di sapere chi abbia posto fine alla vita di Karl. E vogliono che, chiunque sia stato, venga esemplarmente punito.»

Nell’ufficio scese il silenzio. Teddy se lo gustò tutto.

«Non le nascondo che sia io, sia il mio partner non dormiamo la notte per cercare di venire a capo di questo enigma, che all’apparenza potrebbe sembrare semplice. In fondo, è morto un ragazzo, e forse è stato solo un banale incidente. I ritorni di fiamma di bacchetta sono ormai rari, ma non impossibili. Se solo il corpo di Karl non fosse stato Trasfigurato e occultato, se solo la sua bacchetta non fosse sparita dalla circolazione, se solo alcune circostanze venissero chiarite…»

«Tutto ciò che posso, e che voglio, assicurarle, è che continueremo a fare il nostro lavoro per venire a capo di questo caso, come facciamo sempre, perché è ciò che ci è stato insegnato. Perché siamo Auror, ed è ciò che sappiamo fare.»

Si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò, continuando a guardare Eva Chapman negli occhi. Lei annuì, lentamente, guardandolo a sua volta. E poi sorrise. Forse gli rivolse il primo, vero sorriso da che la conosceva. 

Si alzò in piedi. «Bene, direi che Lupin ha fatto il punto.»

Roger si mosse sulla sua sedia, a disagio. Molto probabilmente non capiva come fossero giunti a quel prossimo, ma sbrigativo, congedo. Teddy imitò il capo e si alzò in piedi a sua volta. Roger si affrettò a seguirlo. 

«Questa conversazione è archiviata, ma non consideratela conclusa», continuò la donna stringendo la labbra. «Mi aspetto dei risultati a breve, non costringetemi a mandare rinforzi o, peggio, a sostituirvi. E sapete bene che la mia pazienza non è infinita.»

«Lo sappiamo bene, capo Chapman», concordò Teddy annuendo. «Non la deluderemo.»

«Oh, ne sono sicura. Sei una continua fonte di sorprese, Edward Lupin, e un’ottima risorsa per quest’ufficio. Potete andare, ora», aggiunse, accompagnando le sue parole con un cenno della mano che significava “sgombrate”, e tornando quindi a sedersi. 

Hestia si staccò dal comò e, senza dire una parola, uscì prima di loro dall’ufficio. Si diresse fuori a passo di marcia, segno che voleva che loro la seguissero. Sembrava un soldato quando faceva così. 

Logan li salutò prima di correre dal suo capo, che lo stava chiamando a gran voce per farsi preparare un tè. Teddy e Roger uscirono e seguirono Hestia fino al suo ufficio. Una volta dentro, a porta chiusa, la donna si girò verso di lui. Non verso di loro, verso di lui.

«Che cazzo è appena successo, là dentro?»

Teddy si strinse nelle spalle, dondolando leggermente sul posto. «Quello che hai sentito.»

«Sì, ho sentito un sacco di cazzate.»

«Brava. Ed è esattamente ciò che la Chapman voleva che le rifilassi. Cazzate.»

Hestia sbuffò. Roger accanto a lui rise. 

«Sei un attore fenomenale, amico.»

«Possiamo prendere questa cosa sul serio, per favore, Davies?» esclamò Hestia rivolgendosi a Roger. Gli occhi le fiammeggiavano. «Il capo ufficio vi ha convocati per sapere da voi che cazzo state facendo a Hogwarts, oltre che vacanza e weekend all’acqua di rose con le vostre fidanzatine

Teddy e Roger si guardarono. 

«Come…?» iniziò Roger.

«Come l’ha saputo? Non sono io a dovervi dire che ha i suoi uccellini. Ovunque. E sua figlia studia a Hogwarts», aggiunse camminando su e giù per l’ufficio, inquieta. 

La sua assistente Emily fece capolino e chiese a mezza voce se gradissero un tè o un caffè, e proprio quando Roger stava aprendo bocca per rispondere “sì, grazie” (ormai Teddy gli leggeva nel pensiero), Hestia si girò e sbotto: «Non è il momento dei rinfreschi, Emily, va’ a classificare qualche schedario. Sciò.»

Solitamente Hestia non era così spietata e a Teddy dispiacque per la povera Emily, che annuì, tutta rossa in viso, e si ritirò, visibilmente mortificata. Hestia si passò una mano tra i capelli. 

«Abbiamo discusso, prima che arrivaste», iniziò tornando a guardarli. «Mi sono esposta, per voi, in prima persona. Ha insinuato che stiate nascondendo delle prove, magari per proteggere qualcuno… Ha insinuato che stiate tergiversando per provare a far archiviare il caso, sempre con un secondo fine… Ha insinuato che io vi abbia dato pergamena bianca su qualsiasi cosa, e che io, a mia volta, vi stia coprendo. Mi sono presa un sacco di merda, per pararvi il culo e assicurarle che no, non state coprendo nessuno, non state proteggendo nessuno. Giusto? Giusto?» rimarcò, guardandoli uno ad uno, le mani appuntate sui fianchi.

«Hestia, ci conosci da anni», intervenne Roger. «Secondo te saremmo capaci di fare tutte queste cose? Andrebbe contro i nostri valori.»

Teddy deglutì. Stavano camminando su un terreno pericoloso, dannatamente pericoloso. Rischiavano di farsi male, tutti e due, e Teddy non poteva permettere che il suo amico rischiasse tutto per lui e per la sua famiglia, non poteva proprio permetterlo. 

«Ci servono due mandati di perquisizione», disse. 

Sia Roger, sia Hestia si girarono a guardarlo. Lui annuì, guardando prima uno e poi l’altra. 

«Due mandati? Di perquisizione?» ripetè Hestia. «Ne sei sicuro?»

«Sicurissimo. Ci ho pensato e non so ancora quando li userò, ma li userò. Credo che sia arrivato il momento di scavare.»

Hestia annuì e prese posto alla scrivania. Agguantò due pergamene intonse e una piuma e tornò a guardare Teddy, in attesa di istruzioni. 

«Uno è per la perquisizione del dormitorio di Serpeverde, l’altro per la perquisizione di quello di Grifondoro. Scriviamone due, così la McGranitt può presentarli ai direttori delle case perché ne siano informati.»

Hestia lo guardò per un momento, e poi si mise a scrivere. Solitamente per quelle cose faceva fare ad Emily, ma Teddy immaginò non volesse richiamarla dopo averla cacciata via così in malo modo.

Sentiva addosso lo sguardo di Roger, ma non si voltò. Hestia finì di scrivere e riappoggiò la piuma. Attesero che l’inchiostro asciugasse e poi la donna ripose i fogli in due buste separate e gliele porse. 

«So che sai quello che fai, Teddy.»

Lui annuì. «Spero di saperlo anche io.»

 

 

James se ne stava disteso a letto, le braccia piegate dietro la testa, gli occhi sbarrati che fissavano le ombre che giocavano a rincorrersi sul baldacchino rosso. La luce della luna filtrava dallo spiraglio nelle tende che aveva lasciato aperte di proposito e creava intricati arabeschi ai piedi del letto. 

Pensava, James, come da tanti giorni a quella parte si ritrovava a fare tante, troppe volte, prima di dormire, e i pensieri non gli davano pace, gli premevano ai margini della testa e spingevano, spingevano, ché volevano solo uscire e trovare la loro strada nella realtà, fuori dalla loro irrealtà, ma James glielo impediva, e con tutte le sue forze. Non poteva permettere che i suoi pensieri complicassero le cose, che erano già fortemente complicate. 

Si passò una mano sul viso e sospirò. Di quel passo si sarebbe addormentato in un futuro piuttosto remoto, senza contare che l’adrenalina del recente allenamento di Quidditch gli scorreva ancora addosso e lo teneva sveglio. Sveglissimo. 

Sentì la porta del dormitorio aprirsi, cigolando leggermente sui vecchi cardini. 

«Lou?» chiese. Aveva lasciato suo cugino al termine dell’allenamento, quando Louis gli aveva fatto l’occhiolino e gli aveva detto che aveva da fare, ed era scomparso chissà dove. 

Nessuno rispose, però, e si sentì la porta richiudersi. James allungò una mano verso il comodino per afferrare gli occhiali quando vide le tende scostarsi e apparve Caitlin. 

«Cait?» sussurrò lui, sorpreso.

La ragazza indossava il pigiama e portava i capelli legati in una treccia che le ricadeva su una spalla. 

«Posso?» gli chiese solo indicando il letto.

James deglutì e si limitò ad annuire, scostandosi per farle spazio. Cait richiuse le tende dietro di lei e si infilò sotto le coperte che James teneva sollevate. Si distese e poggiò la testa sul cuscino, senza smettere di guardarlo. 

«Che ci fai qui? Non riesci a dormire?» le chiese puntellandosi su un gomito.

Caitlin scosse la testa. «Non riesco a smettere di pensare. È frustrante.»

«Anche io non riesco a smettere di pensare. È così da un po’…» Non specificò che era così da quella sera del due gennaio, perché sapeva che lei avrebbe capito, e immaginava che per lei fosse lo stesso.

«E allora non pensiamo, Jamie. Non pensiamo e basta, no?»

Gli occhi azzurri di Cait lampeggiavano e James sentiva il suo corpo caldo accanto a sé e il suo buon profumo di pulito. Le sue labbra erano caldi e invitanti richiami. 

Le scostò un ciuffo di capelli sfuggito alla treccia e le carezzò una guancia. «Sai che molto probabilmente, anzi sicuramente, i nostri pensieri saranno di nuovo lì, al loro posto, domani mattina?»

Cait annuì. «Devi solo baciarmi, James Potter. E abbracciarmi. E stringermi. Non chiedo altro.»

Allora lui si chinò, attirato da lei come da un richiamo immortale, e la baciò sulle labbra, dischiuse solo per lui, calde e morbide e dolci come pesche. Cait rispose al suo bacio senza indugio, sospirando e stringendosi a lui, rannicchiandoglisi contro, una mano a stringere la sua maglietta, come a non voler rischiare di vederlo scivolare via come un sogno. 

«Credi di poter riuscire a dormire con me?» gli chiese lei succhiandogli il labbro inferiore, mentre James sentiva l’eccitazione montare dentro di lui a ondate fragorose. Prima di risponderle, chiese a se stesso se ce l’avrebbe fatta, con lei così vicina, invitante come una torta alla melassa (e forse un po’ di più), il suo profumo che gli accecava la ragione, e decise che sì, ce l’avrebbe fatta, ce l’avrebbe fatta per lei. Avrebbe fatto di tutto, per lei. 

Annuì e le sorrise, con uno di quei sorrisi sghembi alla James che sapeva le piacevano tanto. «E tu, invece?»

Cait alzò gli occhi al cielo. «Dài, mettiti giù.»

E così si distesero l’uno accanto all’altra, la schiena di Caitlin incastrata contro il suo petto, le sue braccia che la stringevano e la tenevano al sicuro, il viso tra i suoi capelli. James scoprì che combaciavano alla perfezione, due incastri perfetti e uniti. 

«Pensavi fossi Louis?»

«Ah-ah.»

«Credo che non tornerà per un bel po’…»

«Lo hai visto?»

«Ah-ah. Era con Lynn.»

Fottuto bastardo, pensò James.

«Fatti suoi», rispose quindi.

Cait non disse altro e lui chiuse gli occhi, provando ad addormentarsi.

«’notte, Jamie.»

«’notte, Cait.»

 

 

«Quell’ultima azione è stata veramente epica, non c’è che dire.»

«Io sono quasi caduto dagli spalti.»

Teddy e Neville Paciock risero, mentre finivano di mangiare la loro crostata di frutta e commentavano il Quidditch.

Dopo numerosi inviti, Teddy aveva accettato di mangiare al tavolo degli insegnanti, ospite della McGranitt, e sedeva tra lei e il vicepreside Paciock, che aveva monopolizzato quasi tutta la conversazione, con il disappunto mezzo infastidito e mezzo divertito della preside. 

Teddy aveva trascorso la giornata a riorganizzare i verbali, a fare schemi alla lavagna e a riflettere. Il giorno prima, lui e Roger erano rientrati dal Ministero stanchi morti e parecchio provati psicologicamente per via delle pressioni che avevano dovuto affrontare, prima con la Chapman e poi con Hestia. Roger gli aveva poi chiesto, in separata sede, delucidazioni sui mandati di perquisizione, ma Teddy non gli aveva detto nulla di più di ciò che aveva già detto ad Hestia: sapeva come usarli, ma non sapeva ancora quando, forse al momento che si sarebbe rivelato più opportuno. 

«Non sei stanco di parlare di pluffe e boccini, Neville?» esclamò la McGranitt sporgendosi verso di loro.

«Potrei andare avanti ancora per delle ore, immagino», rispose Paciock accarezzandosi lo stomaco tondo che si intravedeva da sotto il gilet di lana bordeaux. 

«Be’, immagino di non avere delle ore a disposizione, ahimè», commentò Teddy sorridendo. «Anzi, penso proprio che toglierò il disturbo e me ne andrò a letto a fare una bella dormita, dopo tutto quello che ho mangiato…»

La preside sorrise e Neville scoppiò a ridere di gusto, dandogli poi un’affettuosa e calorosa pacca sulla spalla destra. 

«Grazie per la cena e per la compagnia», continuò Teddy. «E per l’invito. È stato strano ma bello, mangiare dall’altro lato della barricata», aggiunse ridendo.

«Il piacere è stato tutto nostro, Lupin», rispose la McGranitt. «Buonanotte, allora.»

«Buonanotte, buonanotte, e grazie.» Così dicendo, Teddy si alzò e, dopo aver salutato brevemente anche gli altri docenti, si spazzolò i pantaloni, afferrò il montone e si apprestò ad uscire. Come al solito, sentì addosso numerose paia di occhi provenienti dai quattro tavoli delle case, ma non se ne curò. Era sempre stato quello “osservato”, che destava curiosità, figlio di due eroi di guerra coraggiosamente periti per salvare il mondo. Il figlio del lupo mannaro. Il Metamorfomagus. 

Quella sera si era fatto i capelli verdi apposta per l’occasione e salutò con la mano il clan Potter-Weasley seduto al tavolo di Grifondoro, ma non si fermò. Aveva deciso di ridurre al minimo i contatti, soprattutto davanti all’intera scuola, anche se a malincuore; voleva rimanere professionale più che poteva e cercare di farsi un’idea migliore di ciò che gli frullava per la testa riguardo i suoi cugini, e vederli avrebbe potuto influenzarlo, in un senso o in un altro. 

Appena uscito dalla Sala Grande, però, si sentì chiamare, e si fermò nel Salone d’Ingresso illuminato dalle torce. Si girò e si ritrovò faccia a faccia con James. Non si erano ovviamente più parlati, dal giorno dell’interrogatorio, e James aveva abilmente evitato di incrociare il suo sguardo, quelle poche volte che si erano intravisti nei corridoi. 

«Teddy», lo chiamò di nuovo. «Non ti tratterrò a lungo…»

«James», rispose lui annuendo. «Che c’è?»

James lo guardò e sospirò. «Ti volevo chiedere scusa, Teddy. Per quello che ti ho detto quel giorno… subito dopo l’interrogatorio di Caitlin», specificò. 

«Ah, James, non ce n’è bisogno…»

«Sì, invece, sono stato uno stronzo, e non ho avuto modo di scusarmi con te l’ultima volta che ci siamo visti, ma ci tengo a chiarire le cose, non voglio rovinare tutto…»

«James», intervenne quindi Teddy allungando una mano a stringergli una spalla. Lo guardò dritto negli occhi. «Ho capito molto bene perché hai reagito così e per me era già tutto dimenticato. Dico davvero.»

«Amici come prima?» gli chiese quindi l’altro sollevando le sopracciglia e sorridendogli in quel modo alla James che avrebbe convinto anche il più reticente.

«Amici come prima, certo.»

«Ti lascio andare, allora…»

«Buonanotte, James.»

«’notte, Teddy.» Gi sorrise ancora una volta e rientrò svelto in Sala Grande. 

Teddy socchiuse leggermente gli occhi, osservando ancora per un istante il punto in cui un secondo prima era in piedi suo cugino. “Amici come prima”, aveva detto, e si vergognava di  averlo detto, ché come avrebbe potuto considerarlo ancora suo amico, James Sirius Potter, quando avrebbe fatto ciò che aveva intenzione di fare? Si passò una mano dietro la nuca e riprese a camminare, intenzionato ad allontanare quei pensieri e rimandarli al giorno dopo. Non aveva la forza per affrontarli, in quel momento. 

«Teddy Lupin.» Fatti appena quattro passi fuori, nel freddo della sera di fine gennaio, si sentì chiamare per la seconda volta nel giro di pochi minuti. Non riconobbe la voce e, alzando gli occhi al cielo, si voltò. Polly Chapman, stringendosi nel suo maglione della scuola, la sciarpa di Grifondoro avvolta alla bell’e meglio e in tutta fretta intorno al collo, era in piedi, poco oltre il portone di quercia. Il viso era una maschera e Teddy vi lesse angoscia e smarrimento.

«Signorina Chapman?» esclamò, stupito. 

Lei scese i gradini di pietra e gli si avvicinò. 

«Mia madre ha detto che avrei potuto parlare con lei, che mi sarei potuta confidare…» iniziò la ragazza. Dal tono di voce, sembrava ancora più sconvolta di quanto non gli fosse apparsa ad una prima occhiata. Teddy cominciò vagamente a preoccuparsi. «Le ho scritto un gufo, e lei mi ha risposto subito, ieri sera, e tutto oggi ho cercato di racimolare il coraggio per parlare con lei di ciò che ho visto… E stasera l’ho trovato… Credo che sia giusto, credo di non poterlo più tenere per me, a questo punto…»

Teddy allungò le mani a cingere, non troppo strettamente, le spalle di Polly, e si chinò perché i loro visi fossero uno di fronte all’altro. «Polly, che succede? Cos’hai visto?»

Lei si morse un labbro e saltellò leggermente sul posto, come se si fosse scottata. Teddy la lasciò andare, mentre la guardava girare gli occhi tutt’intorno, nella sera buia e silenziosa, mentre dall’interno del castello arrivavano ancora i rumori della cena che stava per finire. Respirava e dalla bocca le usciva il fumo. Infine, si decise a guardarlo negli occhi.

«Li ho visti», iniziò. «La sera del due gennaio. La sera in cui Karl è… » si interruppe. Deglutì. Se quella era una recita, allora era davvero una brava attrice. «La sera in cui Karl è morto, ho visto James Potter e Rose Weasley sgattaiolare fuori dalla Sala Comune di Grifondoro.»

Teddy la fissò, paralizzato. Che cazzo aveva appena detto? Scosse la testa come per voler fare chiarezza in ciò che aveva sentito. «Hai detto che cosa

«Li ho visti e li ho sentiti», proseguì Polly, ora più sicura di sé dopo aver sganciato la bomba. «Stavo scendendo in Sala Comune perché avevo sentito dei rumori e mi sono fermata sulle scale quando ho riconosciuto le voci di James e Rose. Lei gli ha detto che doveva assolutamente seguirla fuori, e subito. Non poteva spiegargli ma era urgente. James ha fatto domande ma Rose era categorica, allora lui le ha detto che sarebbe salito a prendere il mantello e di aspettarlo lì, ma a quel punto sono tornata correndo nel mio dormitorio, non potevo rischiare che mi beccasse sulle scale a origliare, capisce?»

Teddy pensava di aver capito perfettamente, solo non sapeva bene cosa dirle. Non sapeva nemmeno bene cosa pensare.

«Ne sei sicura, Polly? Ne sei assolutamente certa e sicura? È importante che tu lo sia.»

Lei annuì con decisione. Sembrava aver riacquistato la sua solita sicurezza, come se la paura fosse scivolata via insieme a quei nomi sputati fuori nella notte.

«Li ho visti con i miei occhi, così come ora vedo lei. E li ho sentiti perfettamente. James Sirius Potter e Rose Granger-Weasley. Sono stati loro, Lupin?» aggiunse, e ora la voce le tremava di nuovo. «Sono stati loro, vero? Sono stati loro ad uccidere Karl?»

 

 

Note:

1. JJ: come Jasper Jordan, figlio di Lee Jordan; personaggio di mia invenzione. 
2. Roland: chissà se vi ricordate di Roland Zabini, fratello maggiore di Cassandra? È assistente e segretario della Ministra Hermione Granger - ovviamente è tutto di mia invenzione. 

 

Eccoci qui con un nuovo capitolo, e anche con un bel colpo di scena finale, direi! Torniamo per un momento al Ministero e spero vi sia piaciuta la scena, a me è piaciuto da morire scriverla; James e Caitlin inframezzano il capitolo con una scena “al miele”, in cui finalmente Cait prende l’iniziativa, altrimenti, se fosse stato per James (buon sangue Potter non mente XD) saremmo stati ancora lì a Natale prossimo LOL; infine, come vi dicevo, un bel colpo di scena “by Polly Chapman”, con una rivelazione scottante sulla sera del due gennaio e i nostri James e Rose. Cosa ne dite? 

 

Nel prossimo capitolo, Teddy cercherà di affrontare le conseguenze derivanti dalle parole di Polly e James e Rose riceveranno due preoccupanti lettere. Non perdetevi i prossimi aggiornamenti perché la storia è entrata ormai nella fase decisiva e ad ogni capitolo ci si avvicina sempre più alla risoluzione del caso - nel bene e nel male. Vi anticipo che ho già finito di plottare la storia, che si concluderà con un capitolo 16 + un epilogo. Un benvenuto ai nuovi lettori e un grazie immenso a tutti coloro che seguono e recensiscono, siete tantissimi e sinceramente non me lo sarei mai aspettata ♥︎ Per chi voglia approfondire l'universo (con mio personalissimo HC) di "Death in the Night", vi lascio la serie GENERATION WHY, basta cliccare sul nome e vi porterà subito al link collegato!

 

Come sempre, per qualsiasi cosa, mi potete trovare qui ♥︎

 

Alla prossima settimana, Marti.

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Capitolo 13
*** CAPITOLO DODICI ***


12.

CAPITOLO DODICI

 

 

Teddy non aveva chiuso occhio, quella notte. Era rimasto a fissare il soffitto per delle ore, si era girato e rigirato, finché l’alba pallida non lo aveva colto impreparato. 

La sera prima era rientrato a casa in tutta fretta e si era buttato sotto la doccia, ché non voleva pensare, voleva solo staccare la mente per un istante. Roger non c’era, molto probabilmente era ancora da Prudence per cena, e lui si era buttato sul divano con un bicchiere di Firewhisky, perché c’erano volte in cui la Burrobirra non era abbastanza. Aveva frugato in mezzo ai suoi appunti, ai verbali, agli schemi, febbrile, sperando di trovare da qualche parte una risposta a ciò che invece una risposta già ce l’aveva: James e Rose erano coinvolti, la sua paura più grande aveva finalmente trovato una conferma, una prova, una testimonianza. Una legittimazione. 

Era andato a letto senza mettere in ordine, sperando che il sonno gli alleviasse il tormento, ma senza risultati. La mattina era giunta come una benedizione e una salvezza, e aveva scalciato via le coperte, si era vestito in tutta fretta ed era uscito. La porta della camera da letto di Roger era aperta e le coperte intonse, segno che il suo collega aveva dormito da Prudence. Meglio così: voleva evitare le sue domande allarmate, preferiva andare da lui con le idee chiare. 

Hogsmeade era ancora tranquilla, e quasi deserta. Ficcò le mani nelle tasche del montone e si diresse verso i boschi che delimitavano il villaggio. Camminò forse per delle ore - oppure erano minuti? Non lo sapeva. Sapeva solo che era incazzato nero, nero, con James, e si sentiva preso in giro, e uno stupido, per aver creduto alle sue parole di scusa, alla sua ammenda che ora suonava solo vuota e falsa, alle sue dichiarazioni quando gli aveva detto che era rimasto in Sala Comune a studiare fino a tardi e poi se n’era andato a letto - stupido stupido stupido. Forse si era come approfittato della sua buona fede, del buon Teddy Lupin, il cugino “bonaccione” che gli voleva bene e lo viziava da quando era un bambinetto e si sbucciava le ginocchia dopo aver corso per tutto il giardino della Tana a rincorrere Fred - stupido stupido stupido.

Forse aveva creduto di convincerlo con le sue parole, la sua perfetta retorica da studente modello, quel sorriso sghembo che lo salvava in qualsiasi circostanza, lo sguardo limpido e quegli occhi caldi che non sembravano celare nulla - stupido stupido stupido.

Forse aveva anche riso alle sue spalle, magari insieme a Rose, o a suo fratello, o a chiunque altro, e si erano fatti beffe di lui, stupido babbeo credulone pronto a bersi qualsiasi cazzata uscisse dalle loro labbra, troppo cieco per vedere, troppo cieco per guardare - stupido stupido stupido.

No.

Si fermò di fronte ad una quercia dopo aver percorso non sapeva neanche bene quanti chilometri. 

No, non sarebbe finita lì. Non poteva essere finita lì. 

Forse avevano pensato di essere riusciti a cavarsela, ma no, lui non avrebbe chiuso nessun occhio per loro, basta, era arrivato il momento di assumersi ognuno le proprie responsabilità. Lui, loro, James. 

Ripensò ad Harry, al suo sorriso buono, alle sue parole al Paiolo Magico. No, Harry avrebbe capito. Avrebbe capito e avrebbe capito la sua posizione, avrebbe capito perché non avrebbe potuto fare altro che quello che stava per fare, avrebbe capito che era il suo lavoro, era il suo dovere, era ciò che lo rendeva un Auror. 

Fece dietrofront per tornare al villaggio, ma non si fermò, tirò invece dritto fino al castello. Trovò Roger nella loro aula, seduto alla scrivania, intento a massaggiarsi una tempia. Alzò la testa di scatto quando lo vide entrare.

«Teddy!» esclamò. «Si può sapere dov’eri finito?»

«Scusami se sono sparito», rispose fermandosi davanti a lui. «Dovevo pensare.»

Roger annuì. «D’accordo… E ci sei riuscito?»

«Ah-ah.»

Il suo collega lo guardava e, in silenzio, gli chiedeva spiegazioni. 

«Ti devo raccontare una cosa.»

 

 

«No no no, fammi capire bene», iniziò Roger aggrottando le sopracciglia. «James e Rose

Teddy gli aveva raccontato tutto, a partire dalle scuse di James, passando ovviamente per la rivelazione di Polly Chapman, arrivando alle sue riflessioni mattutine. Annuì alla domanda dell’amico. 

«Hai sentito bene.»

«Ascolta, io capisco che tu abbia bisogno di risposte, ma insomma, non avevi detto che quella Polly non era affidabile? Perché è figlia di sua madre, e sembrava che ti detestasse e sembrava detestare anche James?»

«Tu non ci hai parlato, Roger, era spaventata e nervosa, quasi terrorizzata da ciò che mi stava dicendo. Ripeto che se l’è tenuto per sé per troppo tempo e quando si è finalmente decisa a parlarmene era logicamente turbata. Tu come staresti?»

«Be’, c’è da dire che avendo fatto due più due sugli eventi di quella sera… Sicuramente capisco il suo turbamento, ecco.»

«Appunto. Ricordiamoci che ha solo sedici anni, è giovane.»

«Sono tutti giovani, Teddy.»

Tra loro scese il silenzio e Teddy fermò lo sguardo sul paesaggio che si intravedeva fuori dai vetri sporchi.

«Polly diceva la verità, Roger.»

Roger alzò le mani in segno di resa. «D’accordo, tu eri presente, non io, e mi fido di te. Ti sei fatto un’idea di cosa potrebbe essere successo? E come?»

«Ci ho pensato», rispose Teddy grattandosi la barba che quella mattina non si era fatto. «Penso che qualcuno, forse Albus o Scorpius, abbia combinato un qualche casino con Jenkins, e che Rose sia corsa a chiamare James per sistemare la faccenda.»

«Albus e Scorpius, eh? E che ci facevano fuori con la vittima?»

«Non andavano d’accordo, no? Magari si sono incontrati per caso, ne è nato un alterco e le cose sono degenerate… Sai come succede, in questi casi. Da cosa nasce cosa.»

«E come ti spieghi il ritorno di fiamma?»

Teddy scrollò le spalle. «Sarà successo durante lo scontro, no?»

«Okay…» rispose Roger, cauto. «Quindi Albus o Scorpius cosa c’entrano con la morte di Jenkins?»

«Non sappiamo cosa potrebbero o non potrebbero aver scagliato addosso a Jenkins prima del ritorno di fiamma… Potrebbe essere successo di tutto.»

«Quindi pensi che Rose fosse presente…»

Teddy annuì. «Questo spiega il suo correre a chiamare James. Gli altri due non avrebbero potuto, sai com’è, essendo dei Serpeverde… Rose ha chiamato James, lui le ha detto che sarebbe andato a prendere il mantello e sono quindi scesi al Lago, dove James ha Trasfigurato Jenkins e ha infine buttato il suo corpo in acqua. E questo spiega la Trasfigurazione Umana meravigliosamente eseguita.»

Tra loro scese un altro silenzio, durante il quale Roger si grattò il mento, pensieroso, mentre Teddy lo guardava, quasi senza fiato. 

«Non hai nessuna prova a sostegno della tua teoria, lo sai, vero?»

«Non ancora, vuoi dire», affermò Teddy, «ma le otterrò non appena avrò interrogato nuovamente James e Rose, e grazie ai mandati di perquisizione. Sono intenzionato a trovare la bacchetta di Jenkins, che ricordiamoci si è come volatilizzata.»

«D’accordo, capo», si arrese Roger annuendo. 

«Prendi due pergamene», concluse Teddy. «Scriviamo due convocazioni.»

«Convocazioni ufficiali? Non pensi di esagerare?»

Teddy scosse la testa. «Voglio andare fino in fondo, Roger. Non importa se sono la mia famiglia. Voglio andare fino in fondo perché ho fatto un giuramento. E i giuramenti non si infrangono.»

 

 

James era al campo da Quidditch quando ricevette la lettera. Era seduto alla scrivania nell’Ufficio del Capitano, una piccola stanza messa a disposizione dei capitani delle squadre, dove fare piccole riunioni, mettere ordine negli schemi di gioco, scrivere i verbali delle partite e altre formalità. Stava compilando i nuovi permessi di allenamento per il mese di febbraio, da presentare poi al professor Paciock per la controfirma. 

La porta si spalancò di foga e James sobbalzò. Era immerso nel silenzio e l’unico rumore era quello del suo respiro, della piuma che scivolava sulla pergamena e degli uccellini fuori. Lorcan Scamandro irruppe nell’ufficio come un tornado, il fiato corto. 

«Lorcan?» esclamò James. «Che ci fai qui? Tutto bene?»

Si alzò e fece il giro della scrivania per osservare da vicino il ragazzo del terzo anno, che però era già alto quasi quanto lui. Ricordò nitidamente il suo provino dell’anno prima, quando si era presentato per giocare come Battitore. Louis aveva riso sotto i baffi per tutto il tempo, davanti alle sue «braccia secche» mentre cercava di rimpallare i Bolidi in giro per il campo. Alla fine il posto era andato a Michael McLaggen, che era il doppio di Lorcan, ma James lo aveva incoraggiato a continuare ad allenarsi e a lavorare sodo, se voleva avere una possibilità l’anno successivo. Quell’anno Lorcan non si era presentato, e aveva raccontato a James che non aveva senso provare a sfidare Michael e Louis per un ruolo che non avrebbe ottenuto, ma gli aveva detto che ci avrebbe provato l’anno ancora dopo, quando sarebbe rimasto libero il posto di Louis. Negli ultimi mesi, Lorcan aveva messo su peso e massa muscolare e James l’osservò brevemente, constatando che non era più lo “scricciolo” di un tempo. 

«Ti ho cercato dappertutto», spiegò Lorcan dopo aver ripreso fiato. «Sono corso in giro per il castello, sono stato in biblioteca, alla voliera, ovunque. Poi per fortuna ho beccato Michael in giro e mi ha detto che sicuramente ti avrei trovato qui al campo.»

«È successo qualcosa?»

Lorcan sollevò una mano, nella quale, James notò solo ora, stringeva una lettera. «È per te. Teddy Lupin mi ha chiesto di consegnartela personalmente.»

James inarcò le sopracciglia. Cosa voleva Teddy da lui? Un brivido gli percorse la spina dorsale, ma cercò di non mostrarsi incerto di fronte a Lorcan. Prese la lettera che il ragazzo gli porgeva e si sforzò si sorridergli.

«Grazie, Lorcan, mi spiace che tu abbia corso in giro per colpa mia…»

Lorcan scrollò le spalle. «Non preoccuparti. Ora posso andare? Devo finire un tema per il professor Vitious.»

«Certo, certo, vai pure. E grazie», aggiunse James. 

Lorcan lo salutò brevemente e uscì, richiudendosi la porta alle spalle. James abbassò lo sguardo sulla lettera e sospirò. Poi riprese posto alla scrivania e la aprì, tagliandola ordinatamente lungo il bordo. 
 

Hogwarts, 25 gennaio 2023

 

Caro signor Potter, 
con l’autorità a Noi conferita dal Ministro della Magia, La esortiamo a presentarsi per un interrogatorio ufficiale, presso l’Aula numero 11, piano terra, a Hogwarts, il giorno (giovedì) 26 gennaio 2023, alle ore 17:001.

 

Cordiali saluti,
Edward Remus Lupin e Roger Davies
Dipartimento Investigativo, Ufficio Auror
Ministero della Magia

 

James lasciò cadere la lettera sulla scrivania. Interrogatorio ufficiale. Allora Teddy aveva qualcosa contro di lui. Aveva delle prove.  

Si passò una mano davanti al viso, mentre cercava rapidamente di pensare a cosa fare. Aveva solo fino al pomeriggio successivo per inventarsi qualcosa. Intanto però doveva trovare Albus. Sì, doveva cercare suo fratello per fargli vedere la lettera e insieme avrebbero pensato al da farsi. 

La accartocciò malamente e se la infilò nella tasca della divisa da Quidditch, che aveva già indossato in previsione dell’allenamento di quella sera, e uscì. Salì fino al castello a passo di marcia, tormentandosi i capelli. Sul parco stava calando la sera. 

In giro non beccò nessun Serpeverde che gli potesse dire dove si trovava Albus, o che avesse almeno un’idea dei suoi orari. Decise quindi per prima cosa di salire nella sua Sala Comune, per cercare Louis e dirgli di iniziare l’allenamento anche senza di lui, se non fosse arrivato, e di guidare la squadra in sua assenza. Ma Louis non era da nessuna parte, e James pensò che in quei giorni il cugino era introvabile, come se si fosse trasformato in un fantasma. C’era però Alexander Baston, seduto su uno dei divani, intento a scribacchiare su una pergamena, da solo. James gli si avvicinò.

«James», lo salutò Alex sorridendogli. «Già pronto per l’allenamento di stasera?»

«Alex, devo chiederti un favore», esordì lui senza tanti preamboli. L’altro annuì, serio. «Molto probabilmente farò tardi al campo, ho bisogno che iniziate ad allenarvi anche senza di me. Puoi per favore dirlo a Louis, non appena lo vedi? Digli di riprovare i soliti schemi, okay?»

Alexander aggrottò le sopracciglia. «Tutto bene, capitano? Sembri strano…»

«Tutto bene, Alex, devo solo sistemare una cosa, e non so quanto ci metterò, ma voi iniziate, d’accordo? Dobbiamo stracciarli, i Tassi.»

Alex sorrise. «Li stracceremo sicuro, James. E non preoccuparti, appena vedo Lou glielo dico.»

«Grazie, amico», concluse James dandogli una pacca sulla spalla. 

«Hei, James», lo richiamò Alexander mentre lui si dirigeva al buco nel ritratto. Si girò al suo richiamo. «Sicuro di star bene?»

«Tranquillo, Alex.» Gli diede le spalle e uscì. Ora le mani gli tremavano e si appoggiò al muro di pietra per riprendere fiato. Non poteva crollare, prima doveva trovare suo fratello. 

Scese nuovamente al piano terra e questa volta ebbe fortuna. Incontrò Cassandra Zabini ai piedi dello scalone di marmo. La ragazza stringeva tra le braccia dei libri e si dirigeva all’ingresso dei sotterranei, probabilmente diretta nella sua Sala Comune.

«Cassandra!» la chiamò James ad alta voce. Lei si girò mentre lui scendeva l’ultima manciata di scalini e la raggiungeva.

«James», lo salutò educatamente, sorridendogli.

«Cassandra, scusa, hai visto mio fratello in giro?» 

Sapeva che tra il Prefetto di Serpeverde e suo fratello era “in corso qualcosa”, li aveva visti camminare per mano e scambiarsi un bacio poco prima di entrare in Sala Grande, una sera prima di cena. Con tutto quello che stava succedendo in quegli ultimi tempi si era dimenticato di sfotterlo per bene, ma si ripromise di farlo non appena le acque si fossero calmate: Albus-cuore di pietra-Potter innamorato era una notizia da prima pagina. 

«Sì, l’ho appena lasciato in biblioteca, in effetti», rispose Cassandra annuendo. «Abbiamo finito di studiare e lui si è trattenuto insieme a Scorpius e Rose.»

«Okay, perfetto, ti ringrazio tanto», rispose James, già con un piede verso le scale. 

«James, è successo qualcosa?» gli chiese lei, preoccupata.

«No, Cassandra, tutto bene, devo solo chiedere una roba ad Albus…» James si chiese se Cassandra sapesse, e quanto sapesse, ma poi accantonò l’idea: suo fratello non avrebbe mai raccontato niente a nessuno di ciò che era successo. 

«Albus non me ne parla, e io non voglio forzarlo, ma non sta bene, James», continuò la ragazza. «Ha avuto una brutta crisi di panico, ad Hogsmeade… Mi sono spaventata tanto. Per favore, tienilo d’occhio, okay? Magari a te lo dice, che cos’ha che non va…»

James tornò sui suoi passi e le si avvicinò. «Non preoccuparti, ci parlo io. Sono sicuro che sia solo un po’ di stress…»

Cassandra annuì. «Lo spero.»

«Ora devo andare, grazie ancora, Cassandra.»

Lei gli sorrise. «Figurati.»

James le diede le spalle e corse su per le scale, ma sentì su di sé lo sguardo della ragazza. In quel momento non poteva preoccuparsi anche di Cassandra Zabini, doveva trovare Albus, subito. E se c’erano anche Rose e Scorpius, tanto meglio.

Raggiunta la biblioteca, entrò quasi volando. Un’occhiataccia di Miss Martin lo dissuase dal correre in mezzo ai tavoli e agli scaffali, ma fortunatamente individuò quasi subito il gruppo formato da suo fratello, sua cugina e Scorpius Malfoy. Sedevano ad un tavolo al fondo, sulla sinistra, accanto ad una finestrona impolverata. Alzarono lo sguardo tutti e tre quando lo videro avvicinarsi. James notò subito che anche Rose stringeva una lettera. Il cuore gli balzò in gola.

«James?» esclamò Albus.

James si fermò di fronte al tavolo e abbassò lo sguardo. Rose teneva tra le mani una lettera identica alla sua. Rialzò lo sguardo su di lei e notò che era terrorizzata. Scorpius le teneva un braccio sulle spalle, come a volerla confortare e proteggere. «Rose…» cominciò. «Rose ha ricevuto una lettera, poco fa.»

«Gliel’ha portata Lysander Scamandro», aggiunse Albus grugnendo. «Avrei voluto affatturarlo.»

«Gufo non porta pena, no?» commentò Rose con voce flebile.

James annuì. «A me l’ha portata Lorcan.»

Rose sbarrò gli occhi e Albus si alzò in piedi di scatto. I due fratelli si guardarono. James tirò fuori dalla tasca la sua lettera e la poggiò sul tavolo. 

 

 

«… questa credo che sia la costellazione della rosa.» Scorpius passò un dito sull’avambraccio di Rose, lentamente, insinuandosi poi sotto la manica della camicia della divisa, che la ragazza aveva arrotolato fino al gomito. 

«Non esiste la costellazione della rosa, scemo», rise Rose, occhieggiando il punto in cui sarebbe potuta comparire Miss Martin per sgridarli. Erano seduti ad un tavolo appartato in una saletta in fondo (a poca distanza da quello occupato da Albus e Cassandra, seduti vicinissimi e intenti a parlare fittamente), ma la bibliotecaria era sempre all’erta per scovare e ammonire studenti indisciplinati. 

«… vedi, qui ci sono i petali», proseguì Scorpius ignorandola, accovacciato addosso a lei, le labbra vicinissime al suo orecchio. Indicò un intrico di nei sulla pelle diafana di Rose, che formavano come un disegno, e che tante volte si era ritrovato a baciare. Poi spostò una mano a toccarle una gamba attraverso le spesse calze della divisa. «… invece qui c’è il gambo, spinoso ma perfetto», concluse allungando una mano e infilandogliela sotto la gonna. Rose sobbalzò sulla sedia e mise una mano sulla sua per fermarlo. 

«Scorpius, basta», protestò ridendo, e sforzandosi di non fare rumore. «Siamo in un luogo pubblico…»

«Ah-ah», rispose lui allungandosi per baciarle il collo. «Che ci vedano…»

«C’è mio cugino seduto a pochi metri…» rise lei cercando di allontanarlo e scuotendo la testa. 

Scorpius la guardò assottigliando gli occhi e lanciando un’occhiata di sbieco ad Albus, che però al momento era troppo impegnato a infilare le sue mani sotto la gonna di Cassandra, mentre i due si baciavano senza curarsi di loro. O di Miss Martin.

«Credo proprio che Albus al momento sia piuttosto impegnato», sghignazzò. 

Rose lanciò un’occhiata al cugino e poi si rigirò, alzando gli occhi al cielo. «Non credo che Albus sia un esempio da seguire.»

«Da quando sei diventata così prudente, eh?» disse lui intrecciando le loro dita. 

«Da quando? Da sempre, amore. Sei tu che fai finta di essertelo dimenticato.»

Fu il turno di Scorpius di alzare gli occhi al cielo, e si limitò quindi ad osservarla, il gomito puntellato sul tavolo, la testa mollemente poggiata sulla mano. 

«Non mi guardare così, okay?» protestò Rose tornando al suo “Affrontare l’Informe”. 

«Perché, come ti guardo?» Allungò un dito per farle il solletico dietro un orecchio, e Rose si scostò ridendo. 

«Come se volessi fare sesso», rispose lei, cercando di fare la seria. «Non possiamo, adesso, d’accordo? Muoviti a finire di leggere», e indicò il libro, che Scorpius neanche aveva aperto. 

«Non possiamo adesso? Allora dopo?» scherzò lui facendo il finto serio e facendo scorrere un dito lungo la sua schiena. 

«Quando vuoi e come vuoi, basta che mi fai finire di leggere questa roba, va bene?» Rose lo guardò sorridendo furbescamente e lui annuì.

«Va bene, allora.»

Rose aveva il potere di mandargli il cervello letteralmente in tilt. Nonostante stessero insieme da anni, l’effetto che produceva su di lui era rimasto inalterato e, come quando era un ragazzino e si ritrovava a seguire la sua chioma rossa ovunque, come ipnotizzato, anche ora lei aveva il potere di ammaliarlo e incatenarlo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, per lei, perché l’amava, e non avrebbe mai amato nessun’altra. 

Quelli erano stati giorni strani, per tutti loro. Ciò che era successo li aveva cambiati, aveva scoperto nervi tesi e amplificato paure e tormenti. La presenza di Teddy Lupin a scuola non faceva che acuire i loro dubbi e i loro timori, ma Albus sembrava avere la situazione sotto controllo, nonostante non avesse voluto dirgli - a lui come a nessun altro di loro - dove avesse nascosto la bacchetta di Karl («meno persone sanno, meglio è», aveva spiegato). Gli aveva solo assicurato di essersene occupato e che nessuno l’avrebbe trovata. James invece aveva avuto un momento di cedimento, come gli aveva raccontato Rose, che lo aveva saputo da Lily: aveva fatto una scenata a Teddy riguardo l’interrogatorio di Caitlin e Lily aveva sentito tutto, per poi finire per litigare con lo stesso James. Rose l’aveva trovata turbata e scossa e aveva cercato di consolarla. Scorpius avrebbe voluto parlarne con Albus, ma allo stesso tempo non voleva turbare i suoi equilibri: in quei giorni lo vedeva sereno, insieme a Cassandra, ma sapeva che rischiava di essere solo una pezza, che il suo amico aveva momentaneamente messo sopra le sue paure, e che presto sarebbe caduta e allora tutto sarebbe tornato a galla. 

Proprio Albus interruppe il flusso dei suoi caotici pensieri. Era in piedi di fronte al loro tavolo, con Cassandra accanto. 

«Posso?» disse indicando una sedia vuota accanto a Rose. 

Scorpius annuì, e così fece anche Rose. 

«Ci vediamo a cena, allora?» chiese quindi Albus a Cassandra. Lei annuì e gli sorrise teneramente. Gli carezzò una guancia e lo baciò e poi sorrise al loro indirizzo.

«Ci vediamo dopo, ragazzi.»

«A dopo, Cass», replicò Scorpius. Rose agitò una mano e tutti e tre osservarono la ragazza avviarsi verso l’uscita e scomparire dietro alcuni scaffali. 

«A cosa dobbiamo l’onore?» chiese Rose richiudendo il libro. Probabilmente aveva capito che ormai non sarebbe più riuscita a studiare.

Albus sedette e scrollò le spalle, come faceva sempre. «Ho parlato con Lily, ieri. Come mi avevi detto, Rose», aggiunse.

«Quindi presumo tu abbia parlato anche con James?»

Albus scosse la testa. «No, ancora no. Vorrei beccarlo da solo, ma ultimamente sembra che lui e Cait siano incollati per le labbra…»

«Senti chi parla», commentò quindi Scorpius.

«Cassandra e io non siamo incollati per le labbra», replicò l’altro, serio.

«Sì, va bene, vai avanti», si intromise Rose, pratica.

«Ho parlato con Lily e le ho detto di aver saputo del suo litigio con James e di non preoccuparsi perché James aveva discusso anche con me, che è nervoso per via dei M.A.G.O. e per tutto il carico di lavoro che ha, per via della squadra e bla bla bla, un sacco di altre cazzate.»

«Cazzate? Non era il caso di rifilarle delle cazzate, Al.»

Quando Rose chiamava suo cugino “Al”, lo faceva specificatamente per farlo incazzare. 

«Albus, Rose, Albus, te lo dico da sedici anni.»

«Torniamo alle cazzate, allora. Albus

«Ma sì, certo, cos’avrei potuto dirle, scusa? James è nervoso perché sai, è stato nostro complice nella morte di quel coglione di Jenkins, e allora capisci, no?» aggiunse abbassando ulteriormente il tono di voce. 

Rose scosse la testa. «Certo che no, stupido che non sei altro, ma magari—»

Scorpius le assestò una gomitata che non aveva l’intenzione di farle male, ma notò che Rose stava per mandarlo a quel paese, se solo davanti a loro non fosse comparso Lysander Scamandro, la divisa perfettamente in ordine (a differenza loro), il ciuffo di capelli scuri pettinato di lato e una lettera stretta in mano. 

«Ciao, Rose, Albus, Scorpius», li salutò uno ad uno. Scorpius lo aveva sempre trovato strano, da quella volta in cui, durante una festa tra parenti e amici alla Tana, gli aveva chiesto cosa ne pensasse dei Ricciocorni Schiattosi. Scorpius aveva cortesemente bevuto dal suo bicchiere per non ridere e si era scusato ma Rose lo stava chiamando dal giardino e si era prontamente defilato. Giocava nella squadra di Quidditch di Corvonero ma non aveva l’aspetto del giocatore di Quidditch.  Era serio ma strano, Lysander. «Ho qui una missiva per te, Rose, Edward Lupin mi ha personalmente incaricato di consegnartela personalmente.»

Scorpius si chiese se la ripetizione di “personalmente” fosse voluta o meno, ma non ebbe modo di interrogarsi oltre perché Rose prese la lettera che Lysander le porgeva con mano tremante. E poi, pensandoci: Edward Lupin? Seriamente? Nessuno lo chiamava Edward

«Gr-grazie, Lysander», rispose Rose senza guardarlo.

«Di nulla, graziosa Rose, è stato un piacere farle un servizio, io—»

«Okay, Lys, smamma», intervenne Albus, perentorio, la mascella contratta. 

Lysander non si scompose minimamente e si limitò ad annuire.

«Grazie, Lysander», aggiunse Scorpius mentre questo si allontanava. Lo guardò sparire e poi si concentrò su Rose, che continuava a fissare la lettera a bocca aperta. 

«Rose, aprila», la invitò lui.

Ci pensò Albus a risolvere la situazione. Afferrò la lettera dalle mani di Rose e, tra le proteste di lei, stracciò la busta e si mise a leggere. La passò rapidamente alla cugina, scuotendo la testa. 

Scorpius si chinò su Rose per leggere con lei. 

 

Hogwarts, 25 gennaio 2023

 

Cara signorina Granger-Weasley, 
con l’autorità a Noi conferita dal Ministro della Magia, La esortiamo a presentarsi per un interrogatorio ufficiale, presso l’Aula numero 11, piano terra, a Hogwarts, il giorno (giovedì) 26 gennaio 2023, alle ore 17:001.

 

Cordiali saluti,
Edward Remus Lupin e Roger Davies
Dipartimento Investigativo, Ufficio Auror
Ministero della Magia

 

Scorpius rialzò gli occhi su Rose, che invece continuava a fissare il foglio. Nessuno parlava, si sentiva solo il leggero brusio di sottofondo che contraddistingueva la biblioteca. 

«Ha scoperto qualcosa», disse quindi Rose. «Teddy… Ha scoperto qualcosa su quella sera e mi vuole interrogare…»

«Se avesse scoperto veramente qualcosa, allora avremmo ricevuto una convocazione ufficiale tutti quanti, no?» intervenne Scorpius per cercare di consolarla. Non sapeva bene cosa pensare nemmeno lui, in quel momento. Lanciò un’occhiata vuota ad Albus, e questo gliela rimandò indietro, altrettanto vuota. 

«Non ha nulla contro di te, Rose», disse quindi l’amico. «Altrimenti, come ha detto Scorpius, avrebbe convocato tutti quanti. Sta solo iniziando una guerra psicologica, vuole provare a farci crollare.»

«Vedi? Lo dice anche Albus», disse lui ancora, cingendole le spalle. 

In quel momento, un trafelato James Potter fece irruzione nella piccola saletta e si avvicinò al loro tavolo. 

«James?» esclamò Albus.

James si fermò di fronte a loro e abbassò lo sguardo sulla lettera che Rose stringeva tra le mani.

«Rose…» cominciò Scorpius, convenendo che fosse giusto metterlo al corrente di ciò che era appena accaduto. «Rose ha ricevuto una lettera, poco fa.»

«Gliel’ha portata Lysander Scamandro», aggiunse Albus grugnendo. «Avrei voluto affatturarlo.»

«Gufo non porta pena, no?» commentò Rose con voce flebile.

James, di fronte a loro, annuì. Sembrava stralunato. «A me l’ha portata Lorcan.»

Scorpius lasciò cadere il braccio dalle spalle di Rose e Albus si alzò in piedi di scatto. I due fratelli ora si fronteggiavano. James tirò fuori dalla tasca la sua lettera e la poggiò sul tavolo.


 


 

Note:

1. Ho preferito lasciare il formato ora a noi famigliare, invece di utilizzare la formula inglese, quindi 5 pm.

 

Eccoci qui, nuova settimana, nuovo aggiornamento! In questo capitolo, Teddy tira un po’ le somme di ciò che è successo nello scorso, e alla luce della rivelazione di Polly decide di convocare James e Rose per un interrogatorio, ufficiale, questa volta. Ora Teddy sembra essersi deciso a fare davvero sul serio e di andare fino in fondo a questa faccenda. Ho voluto descrivere intenzionalmente i due differenti momenti in cui i due cugini ricevono le loro convocazioni, e possiamo leggere così le loro differenti reazioni. Le lettere vengono recapitate loro da due “gufi postini in formato umano” (XD): i gemelli Scamandro, e ho voluto riproporre una mia “vecchia versione” di loro, cioè Lorcan lo scavezzacollo-movimentato, e Lysander l’intellettuale-tranquillo, sono entrambi al terzo anno e hanno un ruolo marginale, ma pensavo potesse risultare carino introdurli. 

 

Ormai, come sapete, la storia giunge al termine e abbiamo gli ultimi scossoni e le ultime rivelazioni prima del gran finale, per cui vi consiglio di non perdervi i prossimi capitoli, a partire da quello della prossima settimana, e non aggiungo altro 👀

 

Vi ringrazio come sempre per l’entusiasmo che state dimostrando e per l’accoglienza che mi avete riservato con il mio ritorno alla Nuova Generazione (e al fandom), grazie di cuore ♥︎ Per chi volesse leggermi in altri contesti, vi lascio qui In nome dei quattro, nuova raccolta (completa) sui Lestrange e Barty Crouch Jr.


Alla prossima settimana, Marti

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Capitolo 14
*** CAPITOLO TREDICI ***


13.

CAPITOLO TREDICI

 

 

Teddy era in piedi fuori dall’aula numero undici, giovedì ventisei gennaio. Roger era in piedi accanto a lui ed erano da poco arrivate le cinque. 

Si era preparato a dovere per affrontare quel momento, aveva evitato la Sala Grande per tutto il giorno, ché non voleva incrociare James e Rose (soprattutto James) e aveva riflettuto su cosa dire e cosa fare, più che altro perché non aveva mai lavorato ad un caso nel quale fosse coinvolto un membro della sua famiglia, ché anche se non era del suo sangue, non era mai importato nulla. O no? Aveva messo in dubbio un sacco di cose, in quelle ultime, concitate ore, cose che non avrebbe mai pensato di mettere in dubbio, e i dubbi si erano poi tramutati in paure, e le paure, infine, lo avevano acceso, come succedeva sempre, e Teddy si era alzato dal letto quella mattina con la consapevolezza di dover andare fino in fondo - di voler andare fino in fondo. 

Intravide James Sirius e Rose al fondo del corridoio, due sagome quasi della stessa altezza che procedevano con passo spedito, entrambi con addosso la tenuta da Quidditch. Quando li ebbero raggiunti, Teddy rivolse loro un cenno della testa, le labbra strette. 

«James», iniziò a mo’ di saluto, «Rose», aggiunse guardando la ragazza, i cui occhioni castani erano spalancati e tesi, quasi come se fosse sull’orlo di un precipizio e stesse per cadere nelle sue nere profondità da un momento all’altro, «prima le signore», e le indicò la porta aperta dell’aula. 

Rose sbarrò ancora di più gli occhi, ma James fece un passo avanti, quasi a farle da scudo. «Rose non viene da nessuna parte. Nessuno di noi due viene da nessuna parte.»

Teddy aggrottò le sopracciglia, stupito. «Come, prego?»

«Hai sentito bene, Auror Lupin», continuò James. Non lo aveva mai chiamato così, e Teddy irrigidì le spalle. In fondo, non avrebbe dovuto stupirsi… La serietà e la formalità erano tutto ciò che anche lui voleva. O no?

Altre domande, altri dubbi, altre paure.

«Finora abbiamo parlato con te in via del tutto confidenziale», continuò James, impedendogli di aggiungere alcunché. Roger accanto a lui ascoltava, il corpo teso. «Abbiamo accettato che le nostre parole e le nostre dichiarazioni venissero raccolte e messe a verbale, e che quei verbali fossero utilizzati come prova nel tuo fantomatico caso, ma ora basta. Ora pretendiamo la presenza di un Magi-Avvocato, prima di rilasciare ulteriori dichiarazioni, come prevede il decreto numero—»

«Okay, okay, sappiamo benissimo quale sia il decreto, Potter», intervenne Roger interrompendolo. 

James lo guardò, serio e accusatorio ma risoluto, Teddy poteva percepirlo dalla sua espressione ferma. 

«Hai imparato la lezione, eh?» commentò quindi buttando le mani nelle tasche dei pantaloni. «Molto bene, allora.»

«Molto bene?» esclamò Roger, stupito e leggermente contrariato, guardandolo con le sopracciglia aggrottate. «Vuoi dire che li lasci andare?»

Teddy aprì le braccia. «Hanno ragione: possono avvalersi della presenza di un Magi-Avvocato. E io non ho nulla con cui trattenerli, no? Non ho nessuna prova, almeno nessuna tangibile. Finora.» E tornò a guardare James, e James lo guardava a sua volta, e si guardarono ancora per un po’, finché Roger non si schiarì la gola. 

«Allora direi che potete andare», disse. «Forza, sgombrate il campo.»

«Non è finita qui, James», aggiunse Teddy e James, che si era già voltato per dirigersi al campo da Quidditch, come se nulla fosse, si girò a guardarlo. Rose, accanto a lui, si fermò a sua volta. «Lo sai, vero? Mi hai detto un sacco di cazzate…»

James alzò il mento, e sembrava quasi che volesse sfidarlo. Assomigliava in modo tremendo a sua madre. 

«Non tutte le cazzate sono pericolose», rispose quindi. «Molte vengono dette a fin di bene. Teddy», aggiunse alla fine, voltandosi e dirigendosi con Rose verso il portone di quercia, oltre il quale sparirono senza dire un’altra parola. 

Teddy rimase a guardare per un momento il punto in cui erano scomparsi e poi rientrò nell’aula, seguito a stretto giro da Roger, che richiuse la porta.

«Li abbiamo davvero lasciati andare via così, Teddy?»

«Che cazzo avrei potuto fare, Roger? Eh? Dimmelo tu, visto che sei tanto intelligente!» sbottò Teddy, prendendo a pugni il banco che fungeva da scrivania e facendosi un male tremendo. La mano ora gli sanguinava e nel legno aveva prodotto una bella ammaccatura dalla quale spuntavano alcune schegge. «Cazzo!» imprecò quindi, agitando la mano e stringendo gli occhi.

Roger era rimasto in silenzio, molto probabilmente per farlo sbollire, e lo guardava camminare qua e là per l’aula come una gallina spennacchiata. Gli stava bene. Gli stava solo bene. Così imparava. Se solo ci fosse stata Victoire a curarlo… Scacciò via quel pensiero perché gli faceva male da quanto le mancava, e tornò a guardare Roger.

«Scusa», gli disse solo.

Il suo amico scrollò le spalle. «È normale essere nervosi.»

«Il fatto è che non pensavo che James avrebbe tirato fuori la storia del Magi-Avvocato, ecco tutto. Contavo di spremere Rose e di farla crollare, so che ci sarei riuscito, hai visto quant’era spaventata? E poi avrei detto a James che Rose aveva confessato e quindi anche lui avrebbe confessato, e sarebbe finito tutto.»

«Ma sarebbe davvero finito tutto, Teddy?» Roger lo guardava e la sua espressione di compatimento non gli piaceva. «Sai che forse ci sono di mezzo altre persone, e sai che molto probabilmente né Rose, né tantomeno James, le avrebbero trascinate dentro con loro. Avresti dovuto continuare ad indagare, almeno finché qualcuno non si fosse deciso a cantare.»

«Forse hai ragione, ma certo non possiamo saperlo, ora.»

«No, certo che no.»

«Ci mancava tanto così…» e accompagnò le sue parole avvicinando pollice e indice della mano sinistra (la destra gli faceva ancora un male cane), fin quasi a toccarsi. «Tanto così, Roger… E poi saremmo potuti tornare a casa e finirla con quest’angoscia.»

«Teddy, so che questa situazione con la tua famiglia ti provoca stress, se preferisci lasciare il caso a qualcun altro posso scrivere a Hestia, mi manderà un sostituto…»

Teddy scosse la testa vigorosamente. «Non potrei mai, Roger. Non potrei nei confronti della mia famiglia e nemmeno nei miei, per gli scrupoli che mi faccio con me stesso. Devo concludere questo caso, e basta.»

Roger annuì. «Come intendi procedere, allora?»

«Con le perquisizioni, a questo punto. Domattina porto i mandati alla McGranitt in modo da poter iniziare nel pomeriggio.»

«Bene, speriamo di trovare qualcosa che disincastri questo intrigo.»

«Ora torniamocene a casa, ho voglia di farmi una doccia e andare a letto.»

«Prima passa in infermeria da Hannah Paciock», aggiunse Roger. «Hai decisamente bisogno che ti sistemi quella mano.»

 

 

Roxanne superò il passaggio del ritratto ed entrò in Sala Comune. Il calduccio della stanza l’accolse piacevolmente, dopo aver trascorso quasi due ore fuori, al freddo, a studiare i Billywig1 di Hagrid, che l’insegnante aveva catturato e raccolto e chiuso in una teca di vetro, da dove non avrebbero costituito per loro un pericolo. Aveva fatto numerosi schizzi sul suo quaderno, ma nessuno di quelli aveva retto il confronto con quelli di Scorpius, in piedi accanto a lei, e Hagrid, come al solito, si era complimentato con il Serpeverde per la sua bravura nel disegno. Scorpius si era schernito, come sempre quando riceveva un elogio, e lei gli aveva fatto una smorfia. 

Ora superò suo cugino Louis e Lynn Collins, avvinghiati su una poltrona davanti al fuoco, mentre la cugina Lucy, seduta poco distante, si era costruita una barriera fatta di libri pur di non vederli. Roxanne fece capolino da dietro il muro di carta per salutarla.

«Hei, Lucy, tutto bene?»

La cugina alzò il viso, le sopracciglia che quasi le sfioravano l’attaccatura dei capelli. In quel momento, era tale e quale ad Albus. 

«Sto cercando di studiare e tutto ciò che sento è rumore di lingue, secondo te come sto?» Aveva i capelli arruffati e spettinati e il viso stravolto, come di qualcuno che non dormiva da secoli. Il settimo anno distruggeva parecchie vite.

Roxanne alzò le mani. «Allora ti lascio ai tuoi tomi. Se hai bisogno di una mano posso lanciare qualche Caccabomba sotto la loro poltrona», aggiunse sussurrando e indicando Louis e Lynn (quest’ultima ora gli stava baciando una mascella, mentre Louis guardava verso di loro). 

Lucy le rivolse un sorriso. Stranamente. «Grazie, mi basterebbe dire loro che non possono pastrusciarsi nella Sala Comune, davanti a tutti», rispose indicando il distintivo da Caposcuola che portava appuntato sul petto, «ma non voglio dare loro la soddisfazione di pensare che mi diano fastidio. Capisci cosa intendo?»

«Contorto, forse, ma lo capisco», annuì Rox. 

«Ora lasciami studiare», concluse l’altra agitando una mano come a volerla scacciare e immergendo di nuovo la testa nei libri.

Roxanne scrollò le spalle e si diresse al suo dormitorio, dove trovò Rose e Caitlin comodamente distese sui loro letti, in totale relax. 

«Hei!» esclamò entrando. «Voi che ci fate qui?»

«Rox!» esclamò Rose. «Noi abbiamo avuto due ore buche. Il professor Bones si è beccato l’influenza, è in infermeria.»

«Brava, brave, voi qui a far niente mentre io, invece, ero fuori al freddo a studiare i Billywig.»

«I Billyche?» commentò Cait mettendosi a sedere.

«Billywig, Cait, Billywig.»

«Be’, avevi solo da mollare Creature Magiche anche tu…»

«Non avrei potuto dare questo dolore ad Hagrid, a differenza vostra gli voglio davvero bene», rispose mollando a terra la borsa dei libri e lasciandosi cadere sul suo letto. 

«Lecchina», commentò Rose a bassa voce.

«Guarda che ti ho sentita, Rosie», replicò Roxanne ad alta voce. 

«Ragazze», cominciò Caitlin. Il suo tono di voce era mutato, come se un’ombra le fosse passata davanti all’improvviso. 

Roxanne si sporse per guardarla in viso, ma ne vedeva solo il profilo. 

«Cait?» la interrogò Rose, seduta a gambe incrociate.

«Voi ci pensate mai?»

Roxanne capì immediatamente a cosa si riferisse la sua amica. Distolse lo sguardo da lei per puntarlo sul soffitto della stanza circolare. Avrebbe tanto preferito non rispondere, forse.

«A quella sera», aggiunse Cait a mo’ di spiegazione. Si alzò e si avvicinò alla finestra, le braccia incrociate sul petto. Roxanne si tirò su a sedere. «A ciò che è successo a…», non concluse la frase, però, lasciandola in sospeso, come se quel nome non potesse essere pronunciato a voce alta, e nemmeno espresso a mezza voce, e forse nemmeno pensato. Era tabù. 

«Cait, certo che ci pensiamo», rispose Rose a voce bassa, alzandosi e lanciando un Muffliato sulla porta. «Devi cercare di stare bene, però, d’accordo?» La raggiunse e le carezzò dolcemente la schiena, mentre Caitlin sospirava. 

«Sapete quali voci girano?» 

Le due amiche si voltarono a guardarla, interrogative. Aveva sganciato la bomba, ed era pronta ad affrontarne le conseguenze. La fissavano, in attesa di una risposta. 

Roxanne incrociò le gambe e prese a torturarsi le dita, improvvisamente nervosa. «Sapete le convocazioni che Teddy ha mandato a te e James?»

Rose annuì, cauta. 

«Oggi ho fatto due più due», continuò. «Elena mi ha raccontato che qualcuno ha sentito Polly parlare con Fredericks, l’altro giorno a colazione. Sussurravano su qualcosa che Polly aveva fatto… E Yann le ha tipo detto di aver esagerato, perché sarebbe stata tirata in mezzo alla faccenda come testimone oculare… E lei gli ha detto che lo ha fatto per… » esitò, guardando le sue amiche. 

«Lo ha fatto per chi, Rox?» chiese Rose, dura, il volto in ombra.

«Lo ha fatto per James», snocciolò tutto d’un fiato. 

Vide Cait irrigidirsi. «Cosa vuol dire, per James

«A quanto sembra, a Polly piace James. Lo ha fatto per aiutarlo, secondo la sua contorta logica, ma io mi sono fatta un’idea diversa. Secondo me lo ha fatto per vendicarsi. Ora James sta con te», aggiunse rivolgendosi a Caitlin, «e lei dev’essere stata incazzata nera, sappiamo come fa quando non ottiene ciò che vuole. Ovviamente, questo è un pensiero mio, ne sto parlando con voi, ora, per la prima volta.» Non poteva dire loro che Elena sapeva tutto, e che era stata proprio lei a suggerirle che Polly poteva averlo fatto per vendetta. 

«Quindi tu pensi che Polly abbia visto me e James sgattaiolare via, quella sera?» chiese Rose, ragionando ad alta voce. 

Roxanne annuì. «E che sia andata a spifferare tutto a Teddy. E che Teddy vi abbia convocati alla luce della sua dichiarazione.» Questo era stato il passo successivo all’intuizione di Elena, ma era tutta farina del suo sacco. 

Tra loro cadde il silenzio, mentre Cait quasi si scioglieva in lacrime e Rose camminava in tondo per la stanza, meditando. 

«C’è un testimone ucolare, adesso che si fa?» frignò Cait pestando i piedi per il nervosismo.

«Oculare, Cait, testimone oculare», la corresse Rose, spazientita. «E non faremo niente, okay? James e io non diremo nulla a Teddy senza la presenza di un legale, se vuole deve portarci al Ministero, ma noi non cederemo. Nessuno di noi cederà, intesi?» E guardò Cait, la raggiunse e le strinse le spalle, fortemente. Roxanne sperò che la loro amica non facesse nulla di stupido, ma poi pensò a James, e al fatto che lei non avrebbe fatto nulla per nuocergli. 

«Siamo un fronte unito e compatto», continuò Rose. «Qui nessuno viene lasciato indietro, nessuno viene dimenticato e nessuno vene lasciato solo. Nessuno. James e io siamo quelli nell’occhio del ciclone, ormai, ma voi avete l’occasione per vigilare, e per mantenere un profilo basso. Ce la caveremo, ne sono sicura.»

Roxanne pensò a quanto Rose le ricordasse la zia Hermione, avevano la stessa luce negli occhi, quando parlavano di ciò che stava loro a cuore. E quando era il momento di proteggere le persone a cui tenevano. Rose sembrava essersi lasciata alle spalle le esitazioni e le paure dei giorni scorsi, per tirare fuori il vero fuoco che lei - che tutti - sapevano che la contraddistingueva da sempre. 

Roxanne si alzò e porse a Cait un fazzoletto e l’amica lo prese, riconoscente. Poi scambiò un’occhiata con Rose che valeva più di tante parole e che voleva dire “teniamola d’occhio”. 

«Scusate, amiche», disse Cait riponendo il fazzoletto nella tasca della gonna. «Devo sembrarvi una cretina e una piagnona.» 

«Cait, non devi preoccuparti di ciò che pensiamo noi, okay? Siamo tue amiche», rispose Roxanne sorridendole. 

La ragazza annuì, e in quel momento si sentì bussare. Le tre amiche sussultarono. Si guardarono. Poi si sentì bussare di nuovo. 

Rose annuì e andò ad aprire la porta.

 

 

Scorpius rientrò in dormitorio e chiuse la porta. Poggiò a terra la borsa, ordinatamente sistemata accanto al suo baule, e si sfregò le mani, che durante la lezione di Cura delle Creature Magiche aveva pensato seriamente di perdere per via del freddo. Aveva indossato i guanti, sì, ma quelli leggeri, quelli che usava quando doveva disegnare, e il risultato era che sentiva le dita tutte intirizzite, ora che era rientrato al castello, cosa che non gli succedeva mai quando disegnava. Per un momento ripensò a sua madre, che gli soffiava sulle mani e gliele scaldava davanti al grande camino di Villa Malfoy, quando rientrava dopo una battaglia a palle di neve con Rosalie e i fratelli Nott nel parco del maniero. E ripensò inevitabilmente si suoi schizzi e ai suoi quadri: suo padre aveva riposto i primi in un baule e i secondi li aveva quasi tutti rimossi e messi in soffitta, coperti da lenzuoli bianchi, memento troppo doloroso per essere quotidianamente affrontato, per lui, ma anche per suo figlio; aveva conservato solo il suo autoritratto, appeso sopra il camino.

Scacciò via il pensiero di sua madre, gli faceva troppo male, e posò lo sguardo sulle tende del letto di Albus, completamente tirate a nasconderne l’interno. 

«Albus?» azzardò, non sapendo se il suo amico fosse lì. Lo faceva spesso, sdraiarsi a letto durante le ore libere, tirare tutte le tende e far finta di non esistere. «Albus?» ritentò. A questo giro gli giunse alle orecchie un grugnito e così si avvicinò al letto, scostando le tende per curiosare. 

Il suo amico era steso a letto, un braccio melodrammaticamente poggiato sugli occhi e l’altro ripiegato sul petto, all’altezza del cuore, il palmo aperto come a voler saggiare il suo stato di salute fisica. Scorpius alzò gli occhi al cielo. «Che c’è? Stai morendo?»

Albus grugnì di nuovo ma non disse nulla, così Scorpius sedette sul bordo del letto. 

«Tu e Cassandra avete fatto—» iniziò. 

«NO!» esclamò Albus.

«Okay, okay, scusa», si difese Scorpius. Gli palpeggiò amichevolmente la gamba destra distesa. «È che il tuo precario stato di salute psico-fisica mi dava da pensare…»

Albus si tolse il braccio dal viso e lo guardò malissimo. «Credi che sia quel genere di uomo che finge di essere a pezzi per fare pena alla sua ragazza e approfittarsene?»

«Be’, forse qualcuno avrebbe da sindacare sull’utilizzo del termine “uomo”, ma io farei che soprassedere», commentò Scorpius. «Piuttosto mi concentrerei sulla quella faccia da derelitto che ti ritrovi…»

Albus alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Farò finta di non aver sentito il tuo commento, e comunque non sono un derelitto, sono assolutamente in me.»

«Be’, anche su questo farei che soprassedere, direi anzi di venire al dunque, che ne dici?»

«Tu da dove arrivi?» gli chiese quindi Albus tirandosi su e puntellandosi sui gomiti. 

Scorpius si mise comodo e incrociò le gambe sul materasso dell’amico, appoggiando le braccia sulle ginocchia. «Arrivo da Creature Magiche.»

«Ah, già, giusto, segui ancora quel circo.»

«Non è un circo», protestò Scorpius spintonandolo. Albus si scansò. «E poi mi serve per la mia futura preparazione…»

«… al San Mungo, sì, sì, lo sanno anche i muri, ormai», concluse Albus lasciandosi ricadere sui cuscini con un tonfo che fece tremare tutto il letto. 

«Ti sei alzato così simpatico, oggi, o la simpatia è subentrata durante?»

«Io ci sono nato, simpatico. E tu secchione, invece?»

Scorpius scoppiò a ridere, come succedeva sempre quando lui e Albus battibeccavano così. Era il suo migliore amico, e gli voleva un bene dell’anima, ma sapeva essere così… così… così insopportabile, quando ci si metteva. 

«Invece tu cosa ci fai, qui, Amleto?»

«Amcosa?» chiese aggrottando le sopracciglia.

«Lascia perdere.»

«C’era ora buca di Bones. A quanto pare è ammalato ed è in infermeria…»

«…e quindi hai pensato bene di trascorrere un’oretta a letto, a riflettere sulle tue personali tragedie?»

«Be’, sempre meglio che seguire le lezioni di Hagrid.»

«Ancora non mi capacito di come tu faccia ad essere figlio di tuo padre.»

«Forse ci avranno scambiati nelle culle, tu e io, ci hai mai pensato?»

«Effettivamente, se io non avessi i capelli che ho, e tu quegli occhi, allora potrei pensarlo, sì.»

Loro due erano nati a un giorno di distanza l’uno dall’altro (Albus il quindici e lui il sedici agosto) e le loro madri si erano ritrovate al reparto maternità del San Mungo esattamente nello stesso periodo - e anche i loro padri, a quanto pare avevano condiviso le panche del corridoio fuori dalle sale parto, visto che il travaglio di Ginny Potter era durato qualcosa come dodici ore (Albus aveva sempre saputo come farsi desiderare, fin da piccolissimo).

«Comunque non sto facendo Amleto», aggiunse Albus sbuffando, qualche minuto di silenzio dopo, riemergendo di nuovo da sotto il braccio.

«Ah-ah, allora avevi capito benissimo!»

«Sì, un giorno mi spiegherai chi è, d’accordo? So che muori dalla voglia.»

Scorpius scrollò le spalle. «Forse. E quindi?» aggiunse. «Perché ti sei rintanato qui e non sei in compagnia della tua adorabile ragazza?»

«Avevo mal di testa e ho preferito evitare di stare in compagnia, sai che divento intrattabile.»

«Be’, non più del solito…»

«Stavo riflettendo su alcune cose…» continuò ignorando il suo commento. «Sai, sulle cose successe in questi giorni.»

«Sei preoccupato per James e Rose?»

Albus annuì. «Un pochino, sì. Non riesco a fare a meno di pensare che abbiano fatto - che abbiamo fatto - la cosa giusta, negando a Teddy un altro interrogatorio e tirando in ballo la questione del Magi-Avvocato, ma mi chiedo se non sia il caso di procurarcene davvero uno. Sai, per precauzione. Nel caso Teddy tenti di portarli al Ministero con la forza…»

«Allora, intanto non credo che Teddy li porterebbe fin là con la forza, conosce la vostra famiglia, non lo farebbe mai, soprattutto per rispetto verso tuo padre. Piuttosto, potrebbe convocarli, e questa volta al Ministero, presso l’Ufficio Auror, per un interrogatorio formale in sede. E questo mi preoccupa. Per quanto riguarda la questione del Magi-Avvocato, posso sempre sentire zio Theodore…»

Theodore Nott2 aveva intrapreso gli studi di Magisprudenza, al termine della guerra, ma non prima di aver terminato il suo settimo anno ad Hogwarts e aver preso il M.A.G.O. Per Scorpius era un po’ come se fosse uno zio, Theodore: lui e i suoi figli condividevano forse una minuscola percentuale di sangue, visto che i Nott discendevano da un ramo dei Rosier, e un Rosier aveva sposato una Greengrass, qualcosa come tre, o quattro generazioni prima, per cui la loro parentela era talmente lontana e talmente diluita da non essere neanche considerata una reale parentela. Scorpius era cresciuto con i gemelli, Caleb e Lizzie, e con Emma3, la più piccola, e avevano scorrazzato e giocato nel parco di Malfoy Manor e di villa Nott, sulle coste della Cornovaglia occidentale. Scorpius ripensava sempre con tremendo imbarazzo all’enorme cotta per la cugina (si erano sempre considerati cugini, loro) Lizzie, ma questo prima di vedere per la prima volta Rose Granger-Weasley al Binario 9 e 3/4, il 1° settembre del loro primo anno. 

«Meglio di no, non vorrei attirare l’attenzione di Theodore, e del Ministero, su di noi, ci renderebbe solo colpevoli.»

«Sai che Theodore non è il Ministero», protestò Scorpius.

«Sì, ma le voci girano, lo sai. Il nostro è un mondo piccolo.»

Scorpius annuì. Effettivamente, Albus aveva ragione: non era prudente chiedere aiuto a Theodore, questo avrebbe potuto mettergli la pulce nell’orecchio e spingerlo a parlarne con Draco, e l’ultima cosa che Scorpius voleva era che suo padre piombasse ad Hogwarts a strigliarlo e/o a fare scenate. Rabbrividì al solo pensiero.

«Quindi cosa intendi fare?»

Albus scosse la testa, passandosi una mano sugli occhi. «Aspettiamo. Aspettiamo e vediamo quale sarà la prossima mossa di Teddy, so che sta per farne una, lo sento tramare in qualche angolo…»

Scorpius non potè fare a meno di sorridere. «Ti ricordo che è pur sempre un Auror, rappresenta l’autorità.»

«Senti, ma perché invece di fare il MediMago non vai a studiare Magisprudenza, tu? Sembri l’avvocato del diavolo, oggi.»

Ora Scorpius scoppiò davvero a ridere. 

«Non mi ci vedo proprio», commentò storcendo il naso.

«Ah, no? Invece ti ci vedi vestito di verde acido? Sembrerai un pallino acido.»

Scorpius alzò gli occhi al cielo. «Almeno io ho deciso cosa voglio fare nella vita», protestò incrociando le braccia al petto. «Cosa che non si può dire di qualcun altro…»

«Senti, non si mette pressione al genio.»

«Sì, certo, come no. Sono ancora qui che aspetto che mi racconti la palla che hai rifilato alla Simson quando avete parlato durante l’orientamento…»

Albus ghignò. «Non uscirà da questo corpo, l’ho giurato.»

«Allora è di sicuro qualcosa di imbarazzante…»

L’altro scrollò le spalle. «Affari miei. Tu non li hai, i tuoi segreti? Fammi tenere i miei.»

«Dove hai nascosto la bacchetta di Jenkins?» 

Scorpius aveva buttato lì quella domanda, quasi senza pensarci, ché forse sperava che Albus si tradisse, vacillasse, anche per un solo secondo, e gli desse finalmente la risposta che tanto anelava. Ma Albus rimase muto, e solo il suo volto tradì la sua inquietudine: si adombrò e la vena di divertimento che lo aveva attraversato fino a qualche minuto prima sparì del tutto. 

«Sai che non devi chiedermelo. Soprattutto non qui», rispose a bassa voce, indicando il dormitorio intorno a loro, deserto.

«Non c’è nessuno, Albus. E poi, a prescindere da dove te lo chieda, la tua risposta non cambierebbe, giusto?»

«Giusto», annuì. «Non ho intenzione di dirtelo e di renderti ancora più complice di quanto tu non sia già.»

«Albus, ci siamo dentro insieme», protestò Scorpius sistemandosi meglio a sedere sul letto. «Pensi che la mia situazione possa cambiare, se sapessi qualcosa di più?»

«Forse no, ma è una mia decisione.»

«Potrebbe essere una mia decisione, andare da Teddy e dire che è stata tutta colpa mia, allora.»

Il viso di Albus sbiancò. Era una delle poche volte in cui l’amico gli apparve davvero spaventato.

«Non ti azzardare, Scorpius Hyperion Malfoy», iniziò. «O giuro sulla nostra amicizia che è la volta buona che ti Affatturo.»

«Che solennità», si schernì Scorpius, che non immaginava di provocare una tale reazione in Albus. «Però forse avresti dovuto giurare sulla tua pellaccia, sarebbe stato più efficace, come giuramento.»

«Vaffanculo, Malfoy», replicò l’altro alzandosi dal letto improvvisamente. «Neanche quando sono serio, mi prendi sul serio.»

Scorpius scoppiò a ridere. «Okay, okay, facciamo i seri, vuoi?»

Albus si girò a guardarlo, tenendo in mano le scarpe che prima si era malamente sfilato buttandosi a letto. «Voglio.»

Scorpius annuì, sedendosi in modo da guardarlo in viso. «Non dicevo sul serio, quando parlavo di andare a confessare», iniziò quindi, poggiando le braccia sulle gambe ripiegate e poggiate sul bordo del letto. «Anche se farei volentieri a cambio con te, se solo servisse a toglierti questo peso, Albus, dico davvero.»

«Lo so che dici davvero, è per questo esatto motivo che mi fai incazzare.» Albus lanciò le scarpe sotto la finestra accanto al suo letto. «È tutta colpa mia, Scorpius. È solo colpa mia, ed è questa la cosa peggiore, è questa la cosa che mi fa impazzire, e che mi logora dentro, lentamente, come un tarlo», e con un dito si picchiettò il petto, proprio all’altezza del cuore. «Vi ho trascinati in questo casino, e devo pensare a qualcosa per tirarvene fuori, a qualsiasi costo.»

«Albus, non c’è niente che tu possa fare per tirarcene fuori, noi eravamo lì con te, ricordi? E non abbiamo fatto nulla, niente di niente, neanche quando è arrivato James e ha Trasfigurato il corpo e lo ha gettato nel Lago. Lo ha gettato nel Lago, Albus, e noi non abbiamo fatto niente. Ti basta?»

Albus scosse la testa. «Ovviamente no, non mi basterà mai nulla per convincermi che le cose sarebbero potute andare diversamente. Avrei dovuto rispedirvi al castello con la forza,  almeno le ragazze, così non sarebbero state complici di quello schifo. Se penso che Rose ci è finita in mezzo per colpa mia… Rose, capisci? È come se fosse mia sorella.»

Scorpius non lo aveva mai sentito parlare di Rose in quei termini, lui che non perdeva occasione per fare lo scontroso e prendersela con tutti, soprattutto con Rose, ma nonostante questo, da qualche parte, Scorpius sapeva quanto l’amico fosse legato alla cugina. Erano cresciuti insieme, loro due. Li dividevano solo tre mesi: Rose lo aveva anticipato, nascendo in un giorno soleggiato e caldo di metà maggio.

«Per non parlare di James», continuò Albus passandosi una mano nei capelli, in un gesto così alla-James che in quel momento a Scorpius fece male al cuore. «James, mio fratello. Non ho saputo far altro che comportarmi da bambino piagnucoloso che chiama il suo fratellone perché sistemi tutto, proprio il mio perfetto fratello maggiore, orgoglio di mio padre, luce degli occhi di mia madre… Che cazzo ho fatto, eh? Dimmelo, Scorp.»

Ora il suo amico lo guardava e gli occhi erano sbarrati e lucidi e Scorpius non potè far altro che alzarsi di volata e andare ad abbracciarlo, e fu uno dei pochi abbracci, tra loro, nella storia della loro amicizia, ma volle stringerlo fortemente, solo per fargli capire che era con lui, e lo sarebbe stato sempre.

«Eri spaventato, Albus, lo eravamo tutti, e James ti ha aiutato nonostante tutto», gli disse. «E non ti ha mai rinfacciato niente, lo sai, nemmeno una volta, e sono sicuro che lo rifarebbe, un altro milione di volte.»

«È proprio per questo che mi odio, e odio la mia debolezza», protestò Albus sciogliendo l’abbraccio. 

«Tutti abbiamo delle debolezze, Albus. Siamo umani.»

I due si guardarono in viso un altro po’, mentre Albus forse cercava di metabolizzare le sue parole. Avevano cominciato scherzando ed erano finiti così… Com’era successo? Scorpius però pensò che quella era una conversazione che avevano rimandato troppo a lungo, e alla quale avevano girato intorno, circumnavigandola con destrezza, ma il momento era arrivato, alla fine. E Albus si era scoperto come poche altre volte, da che lo conosceva. Gli aveva aperto il cuore e gli aveva lasciato guardare dentro la sua anima, laddove si trovava il suo nervo scoperto, ciò che lo tormentava e non lo faceva dormire. 

«Devi sapere che la tua famiglia non ti abbandonerà mai, Albus. Li conosco, uno per uno. Nessuno viene lasciato solo, o abbandonato. Nessuno. Capito?»

«Anche tu sei—» Le parole di Albus vennero bruscamente interrotte da un bussare poderoso alla porta, come se due Hagrid stessero battendo sul legno all’unisono. 

I due ragazzi sobbalzarono e si guardarono, ammutoliti. Chi poteva essere? E, soprattutto, quanto aveva sentito della loro conversazione?

Bussarono nuovamente e Albus gli si avvicinò rapido. «Quanto avranno sentito?» sussurrò dando voce ai suoi stessi pensieri.

Scorpius scosse la testa e non potè fare a meno che dirigersi alla porta del dormitorio. Guardò un’ultima volta Albus, che annuì - si era rimesso la maschera. Spalancò la porta e, fianco a fianco dall’altra parte, in piedi, le mani sollevate a mezz’aria nell’atto di colpire ancora una volta lo spesso legno, c’erano Teddy Lupin e Roger Davies. 

«Buonasera, Scorpius», iniziò il primo facendo un passo avanti, «Albus», aggiunse. Tirò fuori dalla tasca del montone un foglio di pergamena ripiegato e lo porse a Scorpius, che fissava i due Auror a bocca aperta, senza riuscire a capire cosa ci facessero lì, nel dormitorio di Serpeverde.

«Lì c’è il permesso controfirmato da Hestia Jones, capo del Dipartimento Investigativo», continuò Teddy. «Siamo qui per una perquisizione.»


 


 

Note:

1. Billywig: sono piccoli insetti originari dell’Australia, di colore blu zaffiro. Volano molto velocemente, risultando difficili da acchiappare o anche solo individuare per maghi e Babbani. Sono dotati di un pungiglione, le cui punture provocano vertigini e levitazione, e che viene impiegato essiccato nella preparazione di pozioni e dolciumi [fonte: wikipedia].
2. Theodore Nott: tutto ciò che riguarda Theodore e la sua famiglia è mia personale invenzione e non tiene conto degli eventi riportati in TCC.
3. Emma Nott: sorella minore dei gemelli, Elizabeth e Caleb; personaggio di mia invenzione.

 

Bene bene bene, se nello scorso capitolo mi avete “insultata” accusandomi di essere una screanzata, non oso immaginare cosa farete dopo questo! Vi ricordo che siamo alla fine di questa storia, quindi i colpi di scena e le rivelazioni non mancheranno 👀 (scusate, lo so che sto decisamente abusando di questa emoticon, sopportatemi XD) Allora, in questo capitolo succedono un po’ di cosette. Intanto, la presa di posizione di Rose e James, che si rifiutano di parlare ulteriormente con Teddy, una scelta piuttosto coraggiosa e ardita, la loro, sono curiosa di sapere cosa ne pensate… Le altre due scene sono quasi “a specchio”: assistiamo a due momenti di vita quotidiana, due conversazioni tra gruppi di amici, situazioni che avrebbero potuto essere rilassanti e scherzose, se solo non fosse subentrata l’ansia provocata dal caso Jenkins. Rose tira fuori le unghie e decide di lottare, Roxanne è colei che svela quelle che sono le reali intenzioni di Polly riguardo la sua testimonianza tardiva (visto che qualcuno me ne chiedeva spiegazione in una recensione allo scorso capitolo, ciao Blue ♥︎), mentre Cait crolla piano piano. Dall’altra parte abbiamo Scorpius, uno Scorpius che indugia per un momento nei suoi ricordi di bambino e che ha sempre da fare, perennemente, quando si tratta di Albus, che qui si scopre, emergono le sue paure e i suoi timori e le sue fragilità, insomma, è un Albus come non l’avete mai visto. Alla fine, colpo di scena dei colpi di scena (?): l’arrivo di Teddy e Roger. 

 

Nel prossimo capitolo aspettatevi chiarimenti e qualche risposta e un finale che secondo me vi lascerà a bocca aperta, e non dico altro 👀

Grazie come sempre per il vostro entusiasmo e l’interesse che dimostrate per questa storia e i suoi protagonisti ♥︎

 

Alla prossima settimana (con il terzultimo capitolo), Marti.

 

PS vi consiglio di non scordarvi del nome Emma Nott 👀

 

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Capitolo 15
*** CAPITOLO QUATTORDICI ***


14.

CAPITOLO QUATTORDICI

 

 

«Avanti.»

La voce di Rose arrivò attutita, ma ben udibile. Teddy mise la mano sulla maniglia della porta e l’aprì.

Entrò, trovando le tre ragazze sole, come aveva sperato, e tutte e tre in piedi, forse in allarme. Fece loro un cenno del capo a mo’ di saluto. 

«Ragazze», iniziò, «scusate l’improvvisa intrusione, siamo qui per perquisire il vostro dormitorio.»

Vide Roxanne trattenere per un attimo il respiro, mentre Rose fece un passo avanti, raggiungendolo e fronteggiandolo. «Hai un mandato, vero?»

Teddy annuì, serissimo. «Certamente», e sfilò dalla tasca del montone un foglio, che poi le porse. 

Rose lo lesse attentamente, gli occhi che scorrevano rapidi sulla pergamena, e poi annuì con una smorfia. «Capisco.»

«Rose?» chiese Caitlin, la voce incerta. «Cosa…?»

«Hanno un mandato, Cait», rispose Rose girandosi a guardarla. Caitlin Finnigan sembrava quasi che si stesse sgretolando, aveva gli occhi rossi, come se avesse appena pianto, ed era sul punto di crollare a terra da quant’era pallida. Roxanne fece un passo avanti, affiancandola, e cingendole le spalle con un braccio. 

«Posso vedere anche io il mandato, per favore?» Teddy sapeva cosa stavano facendo, volevano temporeggiare, ma allo stesso tempo sapevano anche che non sarebbe servito a niente. Glielo poteva leggere in faccia.

Rose le porse quindi la pergamena, mentre Teddy cominciava a mostrarsi impaziente e contrariato. Desiderava solo iniziare quanto prima, per poi dedicarsi al dormitorio di Serpeverde. Le due amiche si scambiarono uno sguardo, ma non dissero nulla, e alla fine Roxanne porse il foglio a Teddy, che a sua volta lo passò a Roger, che era rimasto dietro di lui, nelle retrovie. «Occupati tu del dormitorio maschile, per favore.» L’altro annuì e uscì.

In quel momento, sopraggiunse un trafelato Neville Paciock, il mantello leggermente storto sulle spalle. 

«Oh, professor Paciock», lo salutò Teddy, formale. «La preside McGranitt ci ha autorizzato a procedere, ha detto che lei sarebbe arrivato a momenti dalle serre.»

«Sì, sì», rispose l’altro, con un leggero fiatone. «Ho terminato la lezione con quelli del terzo anno leggermente in ritardo, ma ci sono.» Poi buttò il petto in fuori e si guardò intorno, nella stanza circolare, per incontrare infine lo sguardo delle sue allieve. «Sapete già tutto, vero, ragazze?»

Rose, che sembrava aver preso in mano la situazione rappresentando tutte loro, annuì. «Abbiamo visto il permesso, sì, ma non ne capiamo il motivo, professor Paciock.»

Rose era sempre stata la preferita di Neville, insieme a James, forse perché erano i primogeniti dei suoi migliori amici e, visto che Neville e Hannah non avevano avuto figli loro, li avevano sempre considerati un po’ come dei figliocci. Sta di fatto che Rose cercava sempre di approfittarsi di Neville e sfruttare la situazione a suo vantaggio, lo sapeva persino Teddy. 

«Mh, credo che questo ve lo debba dire il signor Lupin, io non credo di averne l’autorità…» E Neville si rivolse a lui, guardandolo, speranzoso che lo cavasse da quell’impiccio. 

«Sei citata, insieme alle qui presenti Roxanne Weasley e Caitlin Finnigan, come persona informata dei fatti nell’inchiesta seguita alla morte di Karl Jenkins, miss Granger-Weasley», spiegò quindi. Dopo la faccenda del Magi-Avvocato, aveva deciso di comportarsi come faceva sempre, in modo formale, e avrebbe evitato i nomi di battesimo, d’ora in poi. Questo gli permetteva di mantenersi lucido e imparziale. «Onde per cui, ho ricevuto l’autorizzazione dalla mia diretta superiore di effettuare la perquisizione del vostro dormitorio, inclusi i vostri effetti personali.»

Rose annuì, le labbra ridotte a due fessure. «Persona informata dei fatti, eh?»

«Non credi di star esagerando?» intervenne Roxanne scostandosi dal fianco di Cait e raggiungendo Rose per fronteggiarlo. «Vi state accanendo su di noi.»

«Non c’è nessun accanimento, miss Weasley», esclamò Teddy, visibilmente spazientito. «Ma voglio ricordare a voi tutte che una persona è morta, e che il suo cadavere è finito in fondo al Lago Nero trasfigurato in una pietra. Una pietra

Come facevano a non capire, per Merlino? Come facevano a non rendersi conto che era morto un ragazzo, della loro età, per giunta, in circostanze misteriose, e che qualcuno si era voluto sbarazzare del suo corpo, e che c’erano due genitori, a casa, che attendevano una spiegazione e pretendevano risposte?

Nella stanza calò un silenzio carico e spesso, che sembrava aleggiare tra i presenti come un gas letale. Fu Neville il primo a romperlo, schiarendosi la gola. 

«Credo sia meglio che il signor Lupin proceda, ragazze», disse sussurrando, quasi temendo che qualcuno gli si sarebbe rivoltato contro. «Uscite, forza, vi accompagno di sotto.»

Rose continuava a fissare Teddy e sembrava quasi che tutti i suoi precedenti timori fossero scomparsi, volatilizzandosi come fantasmi o spettri. Era rimasta solo Rose, la Rose che lui conosceva, accesa come sempre, combattiva, determinata. Aprì la bocca per parlare, ma Teddy la precedette. «Le consiglio di non dire nulla davanti a me, tutto ciò che dirà potrebbe costituire una prova.» Rose inghiottì e Roxanne cinse le sue, di spalle, questa volta. Poi si voltò verso Caitlin e le tese la mano, e la sua amica l’afferrò, stringendola saldamente, come per evitare di andare in mille pezzi.

«Teddy ha ragione», la sentì sussurrare verso Rose. «Non dire niente, è meglio così…»

Lanciandogli un ultimo sguardo di fuoco, Rose seguì le ragazze di sotto, e l’ultima cosa che Teddy vide prima di chiudere la porta fu il suo volto - arrabbiato, confuso, ferito.

 

 

«Niente?»

«Niente di niente, di niente», rispose Teddy girandosi verso Roger, le mani appuntate sui fianchi. Lanciò la bacchetta su quello che doveva essere il letto di Albus e si sedette per un secondo, stropicciandosi gli occhi e passandosi una mano tra i capelli. «Ero sicuro che avrei trovato qui la bacchetta di Jenkins», aggiunse.  

«Com’eri sicuro che l’avresti trovata da James?» commentò il suo amico, e Teddy lo guardò malissimo. A volte faticava a capire da che parte stesse Roger: per quanto fosse la sua famiglia quella coinvolta, e lui cercasse di mantenere una certa distanza, e di essere oggettivo e imparziale, il suo collega invece trovava ogni occasione buona per mettere in dubbio la loro indagine e invalidare i suoi sospetti, quasi come se trovasse gustoso e succulento dimostrargli quanto si sbagliasse sui suoi cugini. Il fatto è che Teddy desiderava sbagliarsi, dentro di sé lo desiderava più di qualunque altra cosa, ché avrebbe dato tutto pur di alzare le mani e affermare che si era sbagliato, e per non dover leggere la delusione negli occhi di Harry, negli occhi di Ron, Hermione, Ginny, e tutti i Weasley, negli occhi di Victoire. Avrebbe coinciso con un suo fallimento, molto probabilmente, ma a volte arrivava a voler fallire, arrivava quasi a sperarlo, pur di andare a dormire e svegliarsi da uomo libero da quel caso maledetto che lo stava facendo impazzire, pur di addormentarsi accanto alla donna che amava sapendo di non averla delusa. 

Si alzò di scatto dal letto e ripose la bacchetta nella tasca della giacca. «Non credo che sia il caso di infierire, non trovi?»

«Non volevo farlo», si difese l’altro infilando le mani in tasca. «Ma abbiamo rovistato in tre dormitori, Teddy, abbiamo letteralmente rovesciato tutto, senza risultati. Credo che sia arrivato il momento di abbandonare l’idea che ce l’abbia qualcuno di loro.»

Si sentì bussare e dalla porta sbucò la testa di capelli scuri della professoressa Simson. «Scusate l’interruzione, mi stavo chiedendo a che punto foste.»

«Prego, professoressa Simson, entri pure», rispose Teddy facendole cenno di avanzare. 

Lei si girò e poi spalancò la porta. Entrò nel dormitorio, e Albus e Scorpius la seguirono a ruota. Il primo era una maschera, ma il viso pallido aveva assunto una strana colorazione violacea proprio sotto gli occhi, segno di inquietudine e preoccupazione; il secondo invece non tradiva nessuna emozione, nessun turbamento di sorta, niente di niente.

«Noi abbiamo terminato», annunciò Roger, mentre Teddy continuava a scrutare i due ragazzi, interessato alle loro reazioni. 

«Bene, bene, così i ragazzi potranno tornare alle loro occupazioni», annuì la donna, la lunga veste da strega di velluto verde che le svolazzava intorno ai piedi. 

«Trovato niente, eh?» commentò Scorpius, le braccia ora incrociate sul petto, l’espressione di sfida. Albus lo guardò, spiazzato e stupito. Forse spaventato? Forse temeva che il suo amico si sarebbe scoperto e avesse deciso di sfidarlo, mandando quindi tutto a rotoli? E allora perché diamine non interveniva, proprio lui che era sempre sembrato quello più bravo a mantenere il sangue freddo, sin dall’inizio? 

«Chi le dice che non abbiamo trovato qualcosa?» replicò quindi Teddy. «Certo non ve lo verremmo a dire, no?»

Scorpius ora lo guardava e lo studiava, e Teddy fece altrettanto. Sembrava che stessero combattendo una battaglia non verbale, loro due, ed era la prima volta che leggeva della seria ostilità nello sguardo del Serpeverde. Pur essendo parenti, aveva sempre considerato più di famiglia i Potter-Weasley che il giovane rampollo di Draco Malfoy, nonostante dei Malfoy avesse pochissimo, tranne che in quella precisa occasione, durante la quale una strana luce di imperturbabilità e freddezza gli attraversava lo sguardo. 

«Lo so che non ce lo verreste a dire, ma sono sicuro che non abbiate trovato niente, non avete la faccia di chi ha trovato qualcosa di compromettente sul fondo di un baule, mi sembra.»

Albus, lì vicino, si mosse impercettibilmente, come se avesse reagito, in modo del tutto istintivo e inconsapevole, alle parole dell’amico, come se li legasse un unico baricentro e questo si fosse irrimediabilmente spostato e allora Albus rispondesse al semplice impulso che lo spingeva a cercare Scorpius, a cercarlo sempre, e a tenerlo in piedi - un po’ come Scorpius teneva in piedi lui. Teddy ora lo guardava e aspettava che lui a sua volta lo guardasse. L’aria era tesa e se improvvisamente avessero preso a volare coltelli, non se ne sarebbe stupito affatto.

«Le vorrei ricordare che sta parlando con due Auror, signor Malfoy», intervenne quindi Roger, e Teddy si riscosse, e distolse lo sguardo da Albus per spostarlo sul collega. «Noi rappresentiamo l’autorità, rappresentiamo il Ministero della Magia. Io starei attento con le parole, se fossi in lei.»

«Lo sta minacciando?» intervenne quindi Albus, ma fu un intervento talmente scialbo, e posto a voce talmente bassa, che per un momento Teddy pensò di esserselo immaginato, o di non aver sentito bene. Dov’era finito il caro, vecchio Albus? L’Albus sbruffone e sicuro di sé, l’Albus che sapeva sempre tutto e che non si faceva mai cogliere impreparato? Chi era la persona che aveva davanti, ora? 

«Il prossimo passo quale sarà, portarci ad Azkaban in catene?» esclamò Scorpius, riprendendo in mano la conversazione, come se le parole di Albus nemmeno le avesse udite. 

Roger si limitò a guardarlo, forse soppesando ciò che voleva dirgli, e sospirò. «Se dovrò portarvi ad Azkaban in catene, lo farò.»

«Va bene, signori, basta così», esclamò la Simson frapponendosi tra i suoi studenti e gli Auror. «Comprendo che siamo tutti quanti un po’ tesi e un po’ preoccupati, io per prima. Non vedo l’ora che questa storia finisca e che il responsabile venga assicurato alla giustizia, ma credo che discutere tra noi non sia la giusta strada. Dovremmo collaborare. Tutti quanti.» Spostò lo sguardo su Scorpius, che la guardava, anche lui le braccia incrociate sul petto, il cipiglio serio e torvo. 

«Naturalmente ha ragione, professoressa Simson», intervenne Teddy, che ritenne giunto il momento di dire la sua. Aveva osservato abbastanza. «Credo che i ragazzi abbiano un attimo superato i limiti e alzato i toni, ma li possiamo giustificare e capire, certo. Abbiamo appena perquisito il loro dormitorio e non è una cosa facile da digerire. Detto ciò, il mio partner e io leviamo le tende e la ringraziamo per la disponibilità e l’aiuto.»

La Simson annuì e gli sorrise, ma gli sembrò improvvisamente fredda, freddissima, come se li considerasse solo due intrusi, qualcuno che era entrato nel loro sancta sanctorum e aveva invaso la loro intimità, che si era insinuato nella loro vita e ne aveva stravolto gli equilibri. Forse, difendeva i suoi studenti a spada tratta, da qualsiasi cosa e da chiunque avesse provato a toccarglieli. 

«Molto bene», commentò.

Teddy fece un cenno del capo a Roger e, dirigendosi alla porta, rivolse un’ultima occhiata ai due ragazzi: Scorpius distolse lo sguardo, puntando gli occhi sulla stanza tutt’intorno, mentre Albus lo guardò fino all’ultimo, ed era un volto infinitamente stanco e distrutto l’ultima cosa che Teddy vide uscendo. 

 

 

«Ricapitoliamo ancora una volta.»

Teddy alzò la testa e si passò una mano sul viso. Non era mai stato tanto stanco, quella giornata minacciava di non finire più e lui e Roger avevano passato l’ora precedente a ricapitolare e revisionare tutti i dettagli sul caso in loro possesso. Aveva già detto che era stanco?

Si ficcò in bocca un pezzo di pollo che gli era sfuggito e si lasciò consolare dal sapore gustoso e leggermente piccante e speziato della carne. La preside McGranitt li aveva invitati a cena, ma loro avevano gentilmente declinato: non se la sentivano di cenare con sotto gli occhi il triste spettacolo costituito dai Potter-Weasley (più Malfoy), e davanti agli sguardi dell’intera scuola. Desideravano solo un po’ di tranquillità e di silenzio, poi sarebbero tornati a Hogsmeade e forse avrebbero consumato una cena frugale ai Tre Manici di Scopa prima di buttarsi a letto e dormire fino al mattino. Invece, mezzora dopo il loro ritorno nell’aula, la preside aveva mandato loro alcuni succulenti piatti per cena. Tre incerti ma efficienti elfi domestici avevano fatto capolino dalla porta, carichi di pietanze e brocche di succo di zucca. A quella vista, Roger aveva capitolato, e quasi pianto dalla gioia. Ora stavano finendo di mangiare, circondati da piatti vuoti, altri ancora mezzi pieni, e fogli di pergamena, alcuni dei quali schizzati di succo di zucca. 

Erano leggermente allo sbando, Teddy doveva riconoscerlo. Il fallimento delle perquisizioni li aveva ficcati in uno stato di profonda depressione e scoraggiamento e ritrovarsi da soli aveva significato affrontare tutto il non-detto che avevano taciuto mentre erano ancora nei dormitori e, lì in mezzo, la questione più grande e ingombrante rimaneva l’ubicazione della bacchetta di Karl Jenkins. Quella sarebbe stata una prova decisiva, il turning point che stavano aspettando. Ma dov’era? Dov’era finita? O dov’era stata nascosta?  E da chi? 

Ormai, era quasi sicuro che fossero tutti coinvolti, dal primo all’ultimo: James, Albus, Rose, Scorpius, ma anche Caitlin e Roxanne. Qualcuno aveva forse più colpe di altri, ma la sostanza dei fatti non mutava. 

«Sinceramente non so più cosa ci resta, da ricapitolare», rispose quindi Teddy sorseggiando dal suo bicchiere. «Abbiamo esaurito le opzioni disponibili, li abbiamo interrogati, abbiamo convocato James e Rose, abbiamo perquisito i loro dormitori, ma niente. Non è emerso nulla di così assolutamente schiacciante che possa permetterci di formulare un’accusa.»

Roger scosse la testa, mentre finiva di svuotare il suo piatto di pasticcio. «Ci resterebbe ancora una cosa, da tentare…» iniziò. «Non so se Hestia ci darebbe il permesso, non so nemmeno se potrebbe, forse dovremmo doverlo chiedere alla Chapman…»

Teddy sapeva esattamente dove Roger volesse andare a parare. Aveva saltato a piè pari la convocazione al Ministero: in mancanza di prove decisive, si perdeva il presupposto legale per un’azione del genere, e l’altra soluzione era forse più invasiva, certo, ma avrebbe potuto dissipare i loro dubbi una volta per tutte. 

«So a cosa stai pensando», commentò. «Credi che la Chapman ci direbbe di sì?»

«Se glielo chiedi tu, abbiamo buone probabilità che lo faccia, secondo me.»

Teddy alzò gli occhi al cielo. Non se la sentiva di fare dell’ironia, in quel momento. 

«Non credi che sia… diciamo… eccessivo

«Non hai detto di voler risolvere questo caso una volta per tutte, Teddy?» argomentò Roger agitando la sua forchetta. 

Teddy annuì e scrollò le spalle. «Sì, l’ho detto, ma…»

«… ma niente», lo interruppe l’altro. «Vuoi tornare a casa? Vuoi tornare dalla tua fidanzata, alla tua bella casetta e alla tua routine? Sì? Allora direi che ci dobbiamo almeno provare, Teddy. Tentare di ottenere un mandato non ci costa nulla, solo una lettera via gufo.»

Teddy ponderò la risposta dell’amico, pensando a tutto ciò che gli aveva detto, alla voglia matta e viscerale che sentiva nelle ossa e nelle membra di andarsene da lì, finalmente, e semplicemente di tornare a casa, a casa sua, e da Victoire - anche se avrebbe dovuto affrontare l’intera famiglia Potter-Weasley, prima o poi, nel bene e nel male. Per questo aveva bisogno di prove, prove talmente evidenti e schiaccianti che né Victoire, né nessun altro, avrebbe mai potuto metterlo in dubbio. Inizialmente aveva sperato in una confessione da parte dei ragazzi, ma quei giorni erano passati. 

«Va bene, quindi come pensi di procedere?» chiese alla fine appoggiandosi alla sua sedia e sospirando.

«Scriviamo a Hestia e le spieghiamo come stanno le cose», spiegò Roger poggiandosi alla scrivania e sporgendosi in avanti. «E le chiediamo un mandato per sottoporre le bacchette dei ragazzi a Incanto Reversus1

Ecco, lo aveva detto ad alta voce. Ora non era più possibile tornare indietro, neanche volendo. L’Incanto Reversus era efficacissimo per andare a scovare e rintracciare qualsiasi tipo di magia effettuata da un mago, con una specifica bacchetta, da che ne era entrato in possesso. E non c’era niente di meglio per scovare eventuali tracce di magia oscura e incantesimi illegali. Gli sembrava una misura estrema, ché solitamente veniva adottata solo in casi gravi, in quanto costituiva una pesante violazione della privacy del mago (o dei maghi) coinvolti; gli sembrava una misura straordinaria da applicare a dei maghi così giovani, ma sapeva che non avevano più opzioni, sapeva che stavano combattendo una battaglia difficile che li aveva condotti inevitabilmente lì, laddove non pensava che sarebbero mai giunti. 

«Mi sembri dubbioso…»

Teddy spostò lo sguardo su Roger e sospirò. Poi scosse la testa. «No, non proprio…» iniziò. «Forse leggermente», aggiunse poi vedendo come lo stava guardando il suo collega. «È che mi sembra… be’, eccessivo? L’ho già detto? Sì, forse l’ho già detto, ma non riesco a trovare un’altra definizione…»

«E io ti ripeto quello che ti ho detto qualche minuto fa», rispose Roger. «Vuoi risolvere questo caso, sì o no? Io lo so perché fai così», aggiunse grattandosi il mento, e guardandolo in modo strano. «Fai così perché hai effettivamente paura di scoprire qualcosa. Dentro di te, hai paura di avere ragione, e hai paura che i tuoi cugini ci siano dentro fino al collo, e hai paura delle conseguenze. Non è così?»

Teddy si alzò in piedi e prese a percorrere l’aula a grandi passi. 

«Forse è così, sì.»

«Io toglierei il “forse”.»

«Okay, e cosa c’è di sbagliato? È la mia famiglia, tu come ti sentiresti al mio posto?»

«Molto probabilmente mi sentirei al tuo stesso identico modo, Teddy. Forse addirittura peggio. Ma ciò non toglie che è il tuo lavoro, è il nostro lavoro, e per quanto mi dispiaccia per te e per la tua famiglia, sento di dover andare fino in fondo, e di  dover tentare il tutto e per tutto, se questo potrebbe voler dire scoprire la verità. Penso che Jenkins se lo meriti.»

«Era un coglione, Roger», commentò Teddy, e gli venne in mente Victoire e una fitta gli percorse il petto. Cazzo, quanto gli mancava. Sapeva di non essere professionale, ma in quel momento non gliene importava. 

«Su questo sono d’accordo, ma era un ragazzo di sedici anni, ed è morto, ed è tra i nostri compiti portare giustizia laddove la legge non sia stata rispettata.»

Tra loro calò il silenzio, ma Teddy annuì. Certo, Roger aveva ragione su tutta la linea. Si vergognò di aver messo in dubbio tutto quanto, si sentiva un ragazzino alle prime armi. 

«Naturalmente hai ragione», disse alla fine. «Scusa se mi sono comportato come una stupida recluta…»

«Non ti devi scusare, Teddy, io ti capisco. E ti conosco.»

Si sorrisero, per un momento in cui tutto sembrò normale, come se fossero semplicemente seduti a cena insieme e stessero chiacchierando e ridendo di cose del tutto nella norma. 

«Credo che sia meglio scrivere la lettera a Hestia e andarcene a letto, ho come l’impressione che ci aspetteranno giorni duri», disse quindi Roger afferrando un foglio e una piuma. 

 

 

«Credo non ci sia più neanche un singolo osso del corpo che non mi faccia male», commentò Teddy alzandosi dalla sedia. Lui e Roger avevano scritto la comunicazione per Hestia riguardo l’Incanto Reversus, l’avevano riletta con attenzione e imbustata (l’avrebbero spedita dal villaggio), e poi avevano sistemato qualche appunto e qualche foglio sparso, ridando così all’aula una parvenza di rispettabilità. Avevano ammucchiato i piatti e i bicchieri sui vassoi, e sicuramente qualche elfo sarebbe venuto a prenderli nel corso della tarda serata o della notte. Teddy andò con la mente ad Hermione (il Ministro Granger, si corresse), che tanto si era battuta per affrancare gli elfi domestici da Hogwarts e da quella realtà che aveva sempre considerato un sopruso, e una vecchia vestigia di una società magica (quella Purosangue e ricca e snob) ormai svanita, ma non era riuscita a liberarli, ché servivano la scuola da generazioni e mai si sarebbero allontanati da quelle solide mura. E la preside McGranitt aveva promesso di portare avanti la politica di tolleranza e trattamento privilegiato di Albus Silente, rassicurando così l’allora consigliera Granger. 

«A chi lo dici…» concordò Roger stiracchiandosi. Infilò la lettera nel mantello e Teddy si buttò sulle spalle il montone. Non vedeva l’ora di tornarsene a casa e buttarsi a letto. Il giorno dopo avrebbe affrontato tutto ciò che gli rimaneva da affrontare, ma non quella sera, no, quella sera si sarebbe limitato a sprofondare la faccia nel cuscino, e basta. 

Un bussare energico alla porta li fece sobbalzare entrambi. Si guardarono.

«Saranno gli elfi tornati a raccattare i piatti vuoti?» azzardò Roger.

Teddy scrollò le spalle. «C’è solo un modo per scoprirlo.» E si avviò alla porta. La spalancò e quello che trovò dall’altra parte gli fece inarcare le sopracciglia e sbarrare gli occhi: James Sirius e Albus Severus Potter erano in piedi di fronte a lui, entrambi spettinatissimi, entrambi con le vesti storte e scomposte, entrambi determinati e seri. 

«James? Albus?» chiese, girandosi a guardare Roger, che a sua volta assisteva alla scena a bocca aperta. Per la sorpresa, si era persino dimenticato del suo proposito di essere formale e distaccato. «Cosa ci fate qui?»

«Vi stavamo cercando», iniziò Albus.

«Siamo qui per confessare», concluse James.

 


 

Note:

1. Incanto Reversus: è una formula utilizzata per far mostrare ad una bacchetta l'ultimo incantesimo utilizzato. La formula è Prior Incantatio, ed evoca una sorta di "fantasma" dell’incantesimo; fonte: wikipedia

 

Ben ritrovati con un nuovo aggiornamento. Intanto, mi auguro che non mi odierete troppo per questo finale, vi avevo avvertito che sarebbe stato esplosivo. Qui siamo alla resa dei conti, James e Albus hanno deciso di confessare e nel prossimo capitolo verremo a patti con la portata della loro decisione, e faremo un piccolo passo indietro al momento in cui, faccia a faccia, i due fratelli hanno convenuto di finire qui questa storia, - nell’unico modo possibile. Non perdetevi i prossimi due capitoli perché saranno gli ultimi prima dell’epilogo e succederanno un bel po’ di cose 👀

 

Grazie come sempre a tutti voi per essere arrivati sin qui - in tutti i sensi ♥︎

 

Alla prossima settimana, Marti.

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Capitolo 16
*** CAPITOLO QUINDICI ***


15.

CAPITOLO QUINDICI

 

 

«James? Albus?» chiese Teddy. «Cosa ci fate qui?»

«Vi stavamo cercando», iniziò Albus.

«Siamo qui per confessare», concluse James.

 

 

Un’ora prima

La porta si richiuse dietro Teddy Lupin e Roger Davies e Albus si voltò verso Scorpius. Il suo amico se ne stava in piedi, le braccia lungo i fianchi, e lo guardava a sua volta, silenzioso. Albus si mosse verso il letto, come a volersi sedere, ma poi cambiò idea. Si passò una mano dietro la nuca, cercando di riflettere. 

James. Doveva trovare James. 

Quello fu il primo pensiero che lo assalì quando decise di aprire la mente e lasciare che il flusso delle sue idee scorresse libero e rapido come un fiume in piena nel cuore dell’inverno. Vista l’ora, Teddy doveva aver fatto visita al dormitorio di Grifondoro prima di venire da loro, ed era sicuro che fosse stato anche lì, visto che i suoi sospetti erano caduti in prima istanza su James e Rose. Quindi, doveva trovare suo fratello e dovevano parlare. 

Durante tutta la durata della conversazione tra gli Auror e Scorpius, lui aveva osservato, aveva studiato le loro espressioni, e aveva esplorato possibilità ed eventualità con l’occhio critico di uno scienziato, come aveva cercato di fare sin da quando si erano ficcati in quel casino - sin da quando lui aveva ficcato tutti loro in quel casino, cioè. 

Sentire Scorpius che si esponeva per tenere testa agli Auror, che li sfidava e che, forse, attirava su di sé ancora più attenzione di quanta già non ce ne fosse, lo aveva smosso, gli aveva fatto capire che non avrebbero più potuto andare avanti così ancora a lungo, a tirare una corda che ogni giorno di più minacciava di sfilacciarsi e spezzarsi per poi, quando fosse successo, far precipitare tutti giù, in un buco buio e profondo e senza ritorno. Se c’era anche solo la minima possibilità che i suoi amici ne uscissero illesi, allora doveva fare qualcosa; allora doveva agire, prima che fosse troppo tardi per tutti. 

Si girò verso Scorpius, che forse aspettava che lui parlasse e gli dicesse qualcosa, e cercò di risultare perfettamente inintelligibile: il suo amico non doveva capire, nel modo più assoluto, cos’avesse intenzione di fare. 

«Vado a cercare James», disse. 

Scorpius inarcò le sopracciglia. «Credi che sia il caso? Se Teddy vi tenesse d’occhio?»

«Ho la mappa, sono io che tengo d’occhio lui», spiegò, e la tirò fuori dalle tasche dei pantaloni, dove la teneva sempre, per evitare che qualcuno la trovasse - o nell’eventualità che gente come Pucey e Rosier decidesse di frugare tra le sue cose per curiosare o fargli qualche dispetto. «E poi tra poco tutto il castello sarà a cena, non darò nell’occhio.»

«Verrò con te, allora.»

«No», rispose lui, ma ci mise un po’ troppa foga e sperò che Scorpius non si fosse accorto del suo inappropriato scivolone. «È meglio che vada da solo, Scorpius, te lo assicuro», aggiunse quindi per rimediare. «Tu vai a cena e stai accanto a Rose, ti vorrà sicuramente raccontare cos’è successo da loro…»

«Pensi che siano andati anche dai Grifondoro?» Ora che aveva tirato in ballo Rose, Scorpius sembrava ancora più preoccupato, e Albus avrebbe attirato ancora meno la sua attenzione. Quando c’era in ballo Rose, il suo amico non rispondeva di sé. 

«Non lo penso, lo so», ribatté annuendo. «Per questo voglio trovare James, voglio sentire cos’è successo, ma non voglio farlo sotto gli occhi della scuola intera. E Teddy e Davies potrebbero essersi trattenuti per cenare con la preside.»

Scorpius annuì. «Okay, allora io comincio a scendere per andare in Sala Grande. Ci rivediamo a cena?»

Fu la volta di Albus di annuire. «Ci vediamo dopo. E mi raccomando, state attenti.»

«Non preoccuparti per noi, ce la sappiamo cavare», concluse l’amico. Poi uscì dal dormitorio. 

Albus si lasciò cadere sul letto e si prese la testa tra le mani. Aveva tenuto duro finché aveva potuto, ma non ce la faceva più. Sentiva addosso tutto il peso di ciò che era successo e di ciò che era stato fatto - di ciò che aveva fatto - ed era arrivato il momento di scrollarselo di dosso, una volta per tutte, anche a costo di pagarne interamente le conseguenze. Il suo pensiero andò a Cassandra e decise di buttare giù due righe da lasciarle, nel caso le cose si fossero messe male e lui sarebbe stato portato al Ministero quella sera stessa. Strappò un pezzetto di pergamena da un foglio sul quale aveva cominciato a scrivere un tema per Bones (come sembravano lontane e inconsistenti, cose come le lezioni e la scuola, in confronto a ciò che stava per affrontare). 

 

Cassandra,

Ti scrivo queste righe frettolose perché non so quando e se potremo parlarci faccia a faccia, nei giorni che verranno. Volevo solo dirti che tutto ciò che sentirai su di me - al castello, nei corridoi, nelle classi, tutto ciò che verrà detto - è tutto vero. Non sono la brava persona che tu pensi che sia, non sono chi vorresti che fossi. Non vado bene per te, ti rovinerei e rovinerei ciò che di buono hai costruito, e ciò che ancora hai da costruire. Non cercarmi.

 

Albus S.

 

Rilesse velocemente e poi ficcò il foglietto in una busta, sopra la quale scrisse solo “Per C. Zabini”, e poi sgattaiolò verso il dormitorio delle ragazze. Lì davanti, intercettò Rosalie Greengrass. 

«Hei, Alie», la chiamò, come Scorpius era solito chiamarla da quando erano bambini. 

Lei si voltò, sorpresa. Al petto stringeva dei libri e i capelli biondi erano raccolti in una treccia dietro la schiena. Gli sorrise. «Ciao, Albus.»

«Puoi dare questa a Cassandra, per favore?» le chiese tendendole la busta e senza perdersi in formalità. Lei le lanciò un’occhiata e poi aggrottò le sopracciglia. 

«Ho visto Cass rientrare, poco fa, puoi dargliela tu stesso, tra poco scenderà a cena, immagino…»

Albus scosse la testa. «Alie, non ho molto tempo. Puoi dargliela sì o no?»

La ragazza annuì. «Ma certo che posso, io—»

Albus gliela ficcò in mano senza tante cerimonie. «Grazie, davvero. Ora devo andare.»

«Albus!» Si sentì chiamare, ma lui non si voltò. Uscì in tutta fretta dalla sala comune e si fermò in un anfratto semi-buio del corridoio, dove aprì la Mappa alla ricerca di Teddy e James. 

«Giuro solennemente di non avere buone intenzioni», sussurrò toccandola con la bacchetta. La Mappa si formò e tutta Hogwarts gli si schiuse davanti. In fretta, ne percorse ogni angolo e ogni passaggio, e prima trovò Teddy, che se ne stava nella sua aula in compagnia di Roger Davies, e poi, finalmente, individuò James in un’aula vuota accanto alla torre di Grifondoro. Tenne d’occhio la Mappa per evitare di incrociare qualcuno lungo il percorso e partì. Riuscì a nascondersi a tempo debito da sua cugina Lucy e suo cugino Louis, che venivano giù dal corridoio che conduceva alla torre gesticolando e sussurrando, entrambi concitati, ma nessuno dei due lo notò, nascosto dietro un’armatura. Non appena scomparvero, si infilò nell’aula e chiuse la porta.

«Albus», lo salutò James. Non sembrava sorpreso. Sedeva su un banco impolverato e si passava le mani tra i capelli, visibilmente nervoso. 

«Non sembri sorpreso.»

«No, immaginavo che mi avresti cercato con quella», rispose indicando la Mappa che Albus ancora stringeva in mano. 

«Ah, sì», disse scrollando le spalle. «Fatto il misfatto», sussurrò, ripiegando la pergamena e mettendosela in tasca. Alzò lo sguardo sul fratello, che lo fissava in silenzio.

«Allora? Sono venuti anche da voi, vero?» gli chiese.

Albus annuì. «Sono andati via qualche minuto fa… Ho mandato Scorpius a cena e sono corso qui.»

«Hanno trovato qualcosa?»

«No, niente di niente. Altrimenti tutta la scuola lo avrebbe saputo, suppongo.»

James scrollò le spalle. «Sì, penso anche io. Teddy non avrebbe perso occasione per gridare al mondo di aver risolto questo caso.»

«Sai che non è colpa di Teddy. Non voglio difenderlo, ma nemmeno biasimarlo. Fa il suo lavoro, i coglioni qui siamo noi.»

James annuì e scosse la testa subito dopo. Sembrava quasi divertito. «Mi sa che hai ragione, fratellino. È che prendersela con lui è forse la via più semplice…»

«Non siamo mai state persone da vie semplici, Jamie. Nessuno dei due.»

«Hai ragione di nuovo. Pensavo che tutta questa faccenda si sarebbe sgonfiata e che avrebbero chiuso il caso, sai, per mancanza di prove, ecc ecc…»

«C’è stata una testimonianza oculare, no? Era impossibile che venisse chiuso, alla luce di essa…» 

«Lo sai chi è stato?»

Albus scosse la testa, aggrottando le sopracciglia. «A denunciare te e Rose? No.»

«Polly Chapman», rispose James, e Albus sbarrò gli occhi. 

«Chi te lo ha detto?»

«Rose. Roxanne l’ha sentita parlare con Fredericks… Pensano che lo abbia fatto per colpa mia, capito? Perché piaccio a Polly e quando lei mi ha visto con Cait, allora ha deciso di vendicarsi dicendo a Teddy di aver visto Rose venirmi a chiamare, quella sera…»

Albus si passò una mano sugli occhi. «Non ci posso credere, quella stronza.»

«Già.»

«In un’altra occasione mi sarei fatto una grassa risata, ma abbiamo problemi più gravi della cotta della Chapman per te, temo.»

«Non preoccuparti, è come se mi avessi riso in faccia comunque», rispose James rimettendosi in piedi. Gli scappò un ghigno e Albus non lo aveva mai visto così, con quella luce strana negli occhi. Quasi gli faceva paura.

«Albus», iniziò mettendoglisi di fronte. «Mi è rimasta un’unica cosa da fare, e credo proprio che la farò, ma prima devo sapere dove l’hai nascosta.»

Albus non capì immediatamente a cosa si stesse riferendo il fratello, e lo guardò, incerto. «James? Cosa…?»

«La bacchetta di Jenkins, Albus», spiegò. «Dove la tieni? Devo saperlo.»

«Devi saperlo perché…?» chiese cauto. Cominciava a mettere insieme i pezzi del puzzle e l’immagine che si stava formando non gli piaceva affatto. 

James alzò gli occhi al cielo. «Non farmi domande, Albus.»

«Te le faccio eccome, le domande. Voglio sapere a cosa ti serve saperlo.»

«Non credo di dover discutere le mie decisioni con te.»

«Vuoi confessare, vero?» gli chiese quindi. James si immobilizzò e rimase a guardarlo, ed era uno sguardo di pietra, quello che gli rivolse da dietro gli occhiali ordinati. Albus vi si specchiò e rivide se stesso. «Andremo insieme, allora. Se così dev’essere, lo faremo insieme.»

James scoppiò a ridere. Fu una risata da pazzo, la sua, stridula e alta, e Albus sobbalzò. «Ma ti senti quanto fai ridere? Tu non verrai da nessuna parte, anzi, te ne andrai a cena e farai finta di niente, va bene?»

Albus scosse la testa. «Non sono più un ragazzino, non puoi dirmi cosa fare e dove andare. Verrò con te. O insieme o niente.»

«E come pensi di fermarmi? Con la magia o con la forza?»

«Non ti fermerò, Jamie, perché andremo insieme. Non intendo sentirti insistere oltre.»

James gli diede le spalle e per un attimo Albus temette che si rigirasse e gli scagliasse addosso qualche incantesimo, solo per fermarlo. Ma poi gli venne in mente che non sapeva dove fosse la bacchetta, e non sarebbe andato da Teddy e Roger senza quell’informazione. 

«Non è colpa tua, Jamie», aggiunse, guardandolo percorrere a grandi passi l’aula spoglia e grigia. «Io ti ho chiamato, ti ho condotto lì e ti ho chiesto aiuto. È solo colpa mia se Karl è morto, nulla di tutto questo sarebbe successo se non avessi deciso di riunire il gruppo e scendere nel parco. Sei stato coinvolto perché te l’ho chiesto io

«Io ho Trasfigurato il corpo, Albus, lo vuoi capire?» esplose l’altro girandosi verso di lui. «L’ho Trasfigurato e l’ho gettato nel Lago Nero. Sono stato io, non tu

Tra loro calò il silenzio, mentre James riprendeva a camminare. «Per questo devi dirmi dove hai messo la bacchetta. Non voglio che qualcuno di voi finisca coinvolto, non è giusto…»

«Rose è già coinvolta, James. Polly l’ha vista, no? Quale spiegazione darai, eh? Cosa ti inventerai con Teddy, a riguardo?»

James rimase a guardarlo, e forse si rese conto che Albus aveva ragione. Così lui continuò: «Te l’ho chiesto io, James. Ho mandato Rose a chiamarti e ti ho coinvolto in questo casino, e se c’è una persona che tirerà fuori tutti voi da questa storia, quella persona sono io.»

James lo guardò ad occhi sbarrati, incredulo. «Sei pazzo?»

Albus scosse la testa. «Non sono mai stato più lucido, da quando è successo tutto quanto. Dirò che Karl mi ha attaccato, io ho risposto ed è colpa mia se è morto, e che ti ho mandato a chiamare perché non sapevo cosa fare e ti ho supplicato di Trasfigurarne il corpo e buttarlo nel lago.»

«E Rose?»

«Dirò che era scesa con me. Eravamo in giro e Karl ci ha scoperti… E da lì è partito tutto. Probabilmente la puniranno per non aver parlato, ma ne uscirà bene. Farò in modo che credano che ti ho obbligato io a fare ciò che hai fatto, non devi preoccuparti.»

«Intanto, la tua storia fa acqua da tutte le parti, Albus. Come mi avresti costretto, tanto per cominciare? Con la Maledizione Imperius? Lanciata da un sedicenne? Fa ridere solo a sentirlo qui, figuriamoci davanti ad una corte… E sei uno stupido se pensi che te lo lascerò fare, anche solo per un momento.»

I due fratelli si guardarono e Albus lesse negli occhi di James un’estrema e assoluta convinzione. Credeva in quello che aveva detto e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea. 

«Però possiamo fare un’altra cosa, come ti ho già detto», disse quindi. «Possiamo andare a confessare entrambi.»

Calò nuovamente il silenzio, durante il quale sembrò che entrambi stessero soppesando quella possibilità, e le sue implicazioni. 

«Siamo in un vicolo cieco, Jamie. Tu non andrai a confessare perché non ti dirò mai dov’è la bacchetta, e io non andrò perché non mi crederebbero. Solo insieme possiamo ricostruire tutto quanto. Pensaci», aggiunse davanti alla sua espressione dubbiosa. «Non c’è altra scelta. Non c’è mai stata, altra scelta. Fin dall’inizio.»

«L’affronteremo insieme?» chiese James, cauto. 

Albus annuì, deciso. «Come abbiamo sempre affrontato tutto, fratello.»

James ora lo guardava con occhi incerti, ma erano lucidi, ed erano stanchi, erano occhi di chi non dormiva da giorni, occhi di chi non riusciva a guardarsi allo specchio, occhi arresi e occhi spenti. Occhi persi. Gli stessi che lui vedeva riflessi nello specchio ogni giorno, da quel due gennaio. 

Albus gli tese una mano, che James fissò sorpreso, ma che poi prese con un sorriso. Albus allora lo tirò a sé e lo abbracciò e James ricambiò, stringendolo a sua volta, e rimasero lì, a tenersi in piedi a vicenda, come avevano sempre fatto, come i fratelli facevano, come era giusto. 

Si separarono e si guardarono, e ora Albus poteva leggere decisione, negli occhi dell’altro, e sapeva che anche James poteva leggerla nei suoi. Ogni paura era sparita. Ora sapevano cosa fare - lo avevano sempre saputo. 

 

 

«James? Albus?» chiese Teddy Lupin, girandosi a guardare il suo collega, che a sua volta assisteva alla scena a bocca aperta. «Cosa ci fate qui?»

«Vi stavamo cercando», iniziò Albus.

«Siamo qui per confessare», concluse James. 

Il viso di Teddy quasi si pietrificò. La bocca rimase leggermente dischiusa, come se fosse lì lì per parlare, ma poi avesse cambiato idea, e la mascella gli si irrigidì. Le guance si colorarono di rosso e i capelli assunsero un’allarmante tonalità aranciata. James non gli aveva mai visto quell’espressione dipinta in faccia, un misto tra la sorpresa e lo sbigottimento, l’incredulità e il sospetto, quasi come se non ci credesse, non fino in fondo, e temesse che lo stessero solo prendendo in giro, come in un gioco perverso. Ma James aveva smesso di giocare, e aveva smesso di scappare e di nascondersi: era intenzionato ad uscire allo scoperto, abbassare le difese e parlare. 

«Non credo di aver capito bene…» cominciò quindi Teddy grattandosi il mento. James lo capiva: stava cercando di razionalizzare. 

«Sarà meglio entrare», intervenne Albus accanto a lui e, poggiandogli una mano aperta sulla schiena, lo sospinse con insolito garbo dentro l’aula e chiuse la porta, mentre i due Auror assistevano alla scena. Roger Davies era rimasto lì dov’era, e sembrava messo molto peggio del suo amico. 

Si avvicinarono alle improvvisate scrivanie e presero posto senza essere invitati, e James sospirò: non era mai stato più stanco in vita sua, ma immaginò che la serata fosse solo agli inizi. 

«Possiamo cominciare, no?» chiese di nuovo Albus, e sembrava impaziente, scalpitante quasi. Non vedeva l’ora di dire ciò per cui erano venuti, e forse pensava che poi si sarebbero svegliati, di soprassalto, sì, ma si sarebbero svegliati e avrebbero scoperto di aver sognato tutto quanto.  

«No no no, fatemi capire bene, voi due», esclamò Teddy avvicinandosi e riprendendo il controllo della situazione - i capelli però erano rimasti arancioni. «Piombate qui come due Schiopodi inferociti e sparate la più grande cazzata del nostro secolo? Come sarebbe a dire, “confessione”?»

Roger si era seduto e li fissava, sempre silenzioso e assorto. James invece sospirò, appoggiò i gomiti sul ripiano in legno e si voltò verso Teddy. 

«Nessuna cazzata, Teddy. Hai sentito bene: vogliamo confessare.»

Teddy scosse la testa. «Credo che voi non abbiate ben chiara la situazione… Una confessione è una cosa seria, e noi non abbiamo tempo da perdere…»

«Neanche noi», disse Albus guardandolo con occhi cupi. 

«Non siamo mai stati più seri di ora, Teddy, te lo giuro», aggiunse lui. «Non vogliamo farvi perdere tempo, vogliamo solo dirvi come sono andate le cose. Potete ascoltarci, per cortesia?»

«Teddy», intervenne Roger, ritrovando l’uso della parola. «Credo che facciano sul serio…»

Teddy annuì lentamente, grattandosi nuovamente il mento. «Molto bene», concluse prendendo posto di fronte a loro. Afferrò un foglio di pergamena e la Penna Prendiappunti, succhiò la punta della penna e posò entrambi sul tavolo. «Siamo tutto orecchi, allora.»

James lanciò un’occhiata ad Albus, che gliela restituì annuendo, risoluto e incoraggiante. Si erano messi d’accordo che avrebbe parlato lui, così fece un bel respiro e puntò gli occhi su Teddy.

«La sera del due gennaio mi trovavo nella mia sala comune», iniziò. La penna cominciò a sfrecciare sul foglio, insieme con le sue parole. «Stavo ripassando per un test e ad un certo punto, era tardi, non ricordo l’ora precisa, Rose è arrivata trafelata dal corridoio e mi ha chiesto di seguirla.»

Teddy lo ascoltava silenzioso e serio e concentrato. Albus accanto a lui se ne stava zitto, ma muoveva il piede destro con nervosismo, battendo con foga sul pavimento in pietra. Roger era poco distante da Teddy, le braccia incrociate sul petto. 

«Era piuttosto nervosa, Rose, e aveva fretta che la seguissi. Allora sono andato nel mio dormitorio a prendere il Mantello dell’Invisibilità, è così che Rose e io abbiamo raggiunto il Lago senza essere visti», continuò sospirando. «Una volta arrivati, abbiamo trovato Albus, che però non era solo. Ai suoi piedi c’era un corpo… il corpo di Karl… Era senza vita, quando io sono arrivato, e Albus…» lanciò un’occhiata al fratello, i cui occhi lampeggiavano di qualcosa di molto simile all’angoscia e alla paura, un po’ come quando lo aveva visto quella sera, in piedi sopra al cadavere di Jenkins, «be’, Albus era dannatamente spaventato, com’è ovvio. Gli ho chiesto spiegazioni e lui ha detto che Jenkins lo ha sorpreso in giro per il parco, che hanno discusso, Jenkins lo ha attaccato, ed è come se si fosse Schiantato da solo… Da ciò che è emerso successivamente dalle vostre indagini, abbiamo avuto conferma dei nostri dubbi: la sua morte è stata provocata da un ritorno di fiamma della sua stessa bacchetta.»

Teddy annuì, ma non disse niente, preferendo che lui continuasse a parlare. 

«Ovviamente, ero incredulo… Lì per lì nessuno di noi sapeva cosa fare, né cosa dire… Non avevamo la giusta percezione di ciò che avrebbe potuto aiutarci e di ciò che, invece, ci avrebbe portato sulla strada sbagliata… È per questo motivo che ho deciso di Trasfigurare il corpo di Karl.»

Nella stanza calò il silenzio. James si passò una mano sul viso,  sotto gli occhiali e sugli occhi stanchi, e sospirò.

«Sia messi agli atti che so di aver fatto una cazzata. Una cazzata enorme. Ma l’ho fatta mosso dalla paura… e dalla preoccupazione… e dal panico. Mio fratello era coinvolto, e volevo solo trovare una soluzione che lo tenesse al sicuro, ma mi rendo conto di aver solo peggiorato le cose, così. Non l’ho aiutato, l’ho solo reso più colpevole. Sono il fratello maggiore, avrei dovuto sapere cos’era meglio per lui, ma ho fallito…»

Albus allungò una mano e la poggiò sul suo braccio e i due si scambiarono un pallido sorriso, teso, viste le circostanze. 

«Credo di dover aggiungere alcune cose», prese quindi la parola Albus. «Per rendere il quadro più completo.»

«Prego», rispose Teddy annuendo.

«Quella sera ho deciso di uscire», iniziò quindi mettendosi meglio a sedere sulla sedia. James si girò per vederlo meglio in viso. «Lo so che non avrei dovuto, e ammetto che non era la prima volta che lo facevo… mi piace scorrazzare per il parco con il buio. Ma quella sera è andato tutto storto. Jenkins mi ha probabilmente seguito, oppure mi ha visto uscire mentre era di pattuglia nei corridoi, ancora non l’ho capito, sta di fatto che me lo sono ritrovato addosso, e ha cominciato ad accusarmi e a minacciare che mi avrebbe portato dalla preside. Io ho provato a ragionare, ma lui non me ne ha dato modo: mi ha lanciato addosso un Incantesimo Incarceramus, probabilmente aveva intenzione di legarmi per scortarmi dalla McGranitt… non lo so…»

Albus si passò una mano dietro la nuca e chiuse per un attimo gli occhi. James sapeva quanto gli costasse raccontare tutto quanto, ma sapeva anche che stavano facendo la cosa giusta, per la prima volta da settimane. 

«L’ho schivato, e ho provato a disarmarlo, ma lui ha parato il mio incantesimo. È stato quello il momento in cui tutto è andato a rotoli… Karl mi ha disarmato, la mia bacchetta è volata via, e allora ha provato a Schiantarmi. Peccato che il suo Schiantesimo gli sia tornato indietro… Non so come e non so perché, ma è quello che è successo.»

Teddy lo ascoltava con le sopracciglia inarcate per la sorpresa, ma non disse niente, non ancora. 

«A quel punto non sapevo veramente cosa fare… Sono stato preso dal panico e sono corso verso il castello, forse pensando che qualcuno mi sarebbe giunto in soccorso… Allora ho incontrato Rose, e l’ho mandata a chiamare James… Mio fratello ovviamente è corso in mio aiuto», e gli lanciò un’occhiata, e fu James, ora, a mettergli una mano sul braccio, per incoraggiarlo a continuare. «Ha Trasfigurato Karl in una pietra, ma sono stato io a gettarlo nel Lago, così come sono stato io a coinvolgere sia James, sia Rose, non c’è nessun altro che meriti di essere punito più di me…»

«Riguardo alla punizione, nessuno di noi è in grado di deciderla», replicò Teddy. «E comunque non ora.»

«Voglio solo sia chiaro: la colpa è mia», ripetè. 

«La colpa è mia, invece», intervenne James. «Non saresti stato in grado di Trasfigurare un corpo, sono stato io a farlo, no?»

«Okay, okay, basta così», disse Teddy riportando un po’ di ordine e alzando le mani davanti a loro. Si zittirono entrambi. «Eravate solo voi tre, eh?» chiese quindi, guardandoli dubbioso. «Ne siete sicuri?»

Sia lui, sia Albus annuirono. Avevano convenuto che non sarebbero stati in grado di scagionare Rose al cento per cento, purtroppo la Chapman l’aveva vista andare a chiamare James e chiedergli di seguirla, ma almeno avrebbero cercato di non coinvolgerla tanto quanto effettivamente era coinvolta, mentre gli altri - Scorpius, Roxanne e Caitlin - sarebbero stati lasciati fuori dai giochi. 

Teddy li guardava poco convinto, ma poi finì per annuire, come a voler dire “mi basta, per ora”. 

«C’è solo un ultimo dettaglio da chiarire: dove si trova la bacchetta di Jenkins?»

James si voltò verso il fratello, che però guardava Teddy, risoluto. 

«Vi ci porterò», disse quindi. «Vi porterò dove l’ho nascosta.»

 

 

Uscirono tutti e quattro dall’aula. Albus era in testa, Teddy lo seguiva, poi veniva James e infine Roger, a chiudere quello strambo corteo. Tutti gli altri studenti erano già rientrati nelle rispettive Sale Comuni dopo la cena e nella Sala d’Ingresso adiacente non volava una mosca. Si sentiva un canticchiare sommesso e gracchiante provenire dall’ufficio di Gazza, e una luce tenue filtrava da sotto la porta semi dischiusa. 

Albus fece un bel respiro, pronto a guidare gli altri fino alla Stanza delle Necessità, dove avrebbero recuperato la bacchetta di Jenkins e forse, forse, tutta quella storia sarebbe finita. In realtà sapeva che era appena iniziata, ma in quel momento non voleva pensarci troppo. Una cosa alla volta, Albus, una cosa alla volta. 

E poi lo vide. Probabilmente lo vide solo lui e nessun altro, semi nascosto, mezzo al buio e mezzo alla luce, accanto al passaggio che portava ai sotterranei: Scorpius. Che cazzo ci faceva lì? Lo aveva seguito? Forse non lo aveva visto a cena e aveva deciso di aspettarlo? Forse aveva capito cos’era andato a fare? In fondo, era il suo migliore amico. Si erano sempre letti come un libro aperto, loro due. 

Si guardarono per un lungo istante, e ad Albus sembrò quasi che lo spazio e il tempo si fossero dilatati, che tutti loro stessero camminando al rallentatore, e che quel momento sarebbe durato un’eternità. In quello sguardo, lui e Scorpius si dissero molto più di quanto si sarebbero detti a parole. Tutto finì quando quasi inciampò sul primo gradino dello scalone di marmo e Teddy allungò un braccio per sorreggerlo. Un attimo dopo, Scorpius era scomparso, e Albus si chiese se non se lo fosse solo immaginato. 

 

 

Teddy aveva lasciato la bacchetta nella t-shirt dei Cannoni di Chudley che Albus aveva usato per avvolgercela. Le aveva lanciato una lunga occhiata, riconoscendo i segni evidenti di un ritorno di fiamma: il legno era leggermente crepato sulla lunghezza e annerito, come se davvero fosse stato esposto al fuoco1. Ovviamente, nessuno dei ragazzi coinvolti sarebbe stato in grado di riconoscere quei segni. 

Era ancora confuso da ciò che James e Albus gli avevano raccontato poco prima, ma tutto sembrava coincidere e, per la prima volta dopo settimane, il puzzle sembrava aver assunto una parvenza di senso. Solo, era convinto che anche Scorpius, Roxanne e Caitlin fossero presenti, anche solo come testimoni oculari, ma al momento non poteva dimostrarlo e aveva ben altre e più importanti magagne da gestire di quella. James e Albus avevano confessato, lui aveva trovato dei colpevoli, e tanto bastava, per ora. Il resto sarebbe giunto a tempo debito. 

Rimaneva ancora la sorpresa provocata in lui dalle loro parole, l’incredulità quando li aveva osservati, seduti di fronte a lui, e dentro di sé li aveva perdonati, aveva capito che ciò che stavano facendo andava al di là di ciò che c’era di giusto e di sbagliato in tutta quella storia, annullava i loro recenti screzi e le incomprensioni, e tutto ciò che rimaneva erano solo due ragazzini confusi e spaventati che stavano cercando di fare ammenda. Per quanto gli riguardava, aveva apprezzato il loro coraggio, proprio quando pensava che nessuno avrebbe mai più trovato la forza per alzarsi e parlare.

Ora, la prima cosa da fare era recuperare Rose e portarli tutti e tre al Ministero. Avrebbe mandato un Patronus urgente a Hestia per avvertirla e per dirle di informare la Chapman e i genitori, chiarendo loro la necessità di portare con sé un legale. Il pensiero di incontrare Harry in quell’occasione gli accartocciò lo stomaco, ma si disse che ce l’avrebbe fatta, aveva affrontato cose ben peggiori di quella e Harry avrebbe capito, come capiva sempre. 

Stava riflettendo sull’Incanto Reversus, che sarebbe stato sicuramente utilizzato per esaminare le bacchette non solo della vittima, ma anche dei ragazzi coinvolti, quando davanti all’aula scorse quattro persone, ferme in piedi di fronte alla porta chiusa, evidentemente in loro attesa: Scorpius Malfoy, Roxanne e Rose Weasley e Caitlin Finnigan. Capì immediatamente il motivo della loro presenza lì e notò Albus e James farsi guardinghi e quasi irrigidirsi, tesi. 

Una volta raggiunti gli altri, fu Scorpius a farsi avanti. «Immagino che saprai perché siamo qui», disse rivolgendoglisi direttamente. 

«Scorpius…» iniziò Albus, ma l’amico gli fece un cenno e Albus, stranamente, si zittì. 

«Non vi permetteremo di prendervi tutta la colpa», continuò Scorpius rivolgendosi a James e Albus. «Ci siamo di mezzo anche noi.»

Teddy sospirò. «Perché non entriamo così mi spiegate da capo? Tutto quanto, questa volta, grazie.»

 


 

Note:

1. Gli effetti del ritorno di fiamma: non ho trovato nessuna informazione, a riguardo, quindi ho inventato tutto di sana pianta. 

 

Eccoci qui con il penultimo capitolo prima dell’epilogo. Come vi avevo anticipato, siamo tornati leggermente indietro per andare a capire cos’ha spinto i nostri fratelli preferiti a recarsi da Teddy e Roger per confessare tutto e assistiamo ad un bel confronto tra i due, che mette ancora più in evidenza il loro bellissimo rapporto, che so vi piace tanto ♥︎ Andando avanti, assistiamo alla loro confessione, alle reazioni dei nostri Auror, e alla comparsa di Scorpius&co., che decidono di uscire allo scoperto (Scorpius non avrebbe mai e poi mai abbandonato Albus ♥︎).

 

Detto ciò, nel prossimo capitolo torneremo al Ministero e ritroveremo alcune personcine di nostra conoscenza E delle new entry 😏 scioglieremo i nodi e i dubbi e si concluderà il tutto; l’epilogo sarà quasi una parentesi a parte, una conclusione che però lascerà aperte numerose porte 👀

 

Io vi ringrazio come sempre, ci stiamo avvicinando alla fine e non sarei qui senza di voi ♥︎

 

Alla prossima settimana, Marti.

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Capitolo 17
*** CAPITOLO SEDICI - PARTE PRIMA ***


COMUNICAZIONE DI SERVIZIO:

visto che il capitolo 16 rischiava di diventare lungo come la Divina Commedia, ho pensato bene di dividerlo in due parti, quindi quest’oggi leggerete la parte 1; riguardo alla pubblicazione, il capitolo è arrivato oggi e non venerdì, come di consueto, perché domani parto per la Francia quindi sarebbe risultato impossibile per me pubblicare; mi ricollego a questo per dirvi che starò via appunto da venerdì 11 fino a domenica 20, per cui la parte 2 del capitolo slitterà di una settimana, fino al giovedì o venerdì successivo (ma penso giovedì, a questo punto); dopo di che, mancherà solo più l’epilogo, quindi godetevi questo capitolo perché dovrete aspettare un pochino per il proseguo; buona lettura ♥︎

 


 

16.

CAPITOLO SEDICI

PARTE PRIMA

 

 

«La preside vi aspetta di sopra».

Gazza indossava la sua vestaglia migliore, di spessa lana grigia che però era diventata quasi nera per la sporcizia di secoli che sopra vi si era accumulata, e che lo faceva somigliare ad un vecchio gufo gracchiante e spiumato. Li guardò ad uno ad uno con quel suo sguardo torvo e storto e Albus lo guardò male a sua volta, socchiudendo gli occhi. 

«Grazie, mastro Gazza», rispose Roger Davies annuendo e congedandolo, ma il vecchio guardiano non andò da nessuna parte, si limitò a star lì, in piedi accanto a loro accanto alla statua del gargoyle che sorvegliava l’ufficio della Preside. 

«Sarebbe così gentile da andare a chiamare la professoressa Simson, signor Gazza?» intervenne Neville Paciock facendo un passo avanti. «E le dica che l’aspettiamo di sopra.»

«Non ce ne sarà bisogno, professor Paciock, sono già qui.» Si voltarono tutti quanti all’arrivo di Elizabeth Simson, vestita di tutto punto, i capelli neri sciolti sulle spalle. «La signorina Zabini è venuta da me avvertendomi che qualcosa non andava e sono corsa non appena ho capito che i signori Malfoy e Potter non erano nei loro dormitori.» Lanciò un’occhiata verso di loro e Albus questa volta distolse lo sguardo. Non era in grado di sorbirsi una lavata di capo dalla sua direttrice, e non voleva indugiare con la mente a Cassandra e a come doveva essersi sentita a ricevere, e poi leggere, il suo biglietto. 

«Se ci siamo tutti, direi che possiamo salire», disse quindi Paciock. 

«Grazie, mastro Gazza, è congedato», disse la Simson e lui le fece un profondo inchino e si avviò lungo il corridoio, con una lanterna accesa che gli indicava la via nel buio. Da quando aveva perso la sua fedele gatta, Mrs Purr, passata a miglior vita due anni addietro, era ancora più torvo e spettrale1

«Montrose Magpies», enunciò Neville Paciock, e il gargoyle di pietra si fece da parte per lasciarli salire. 

Albus seguì James, che era il primo della fila dietro Teddy, su per le scale di pietra, e nell’ufficio della preside che, dal momento in cui tutti quanti furono raggruppati all’interno, divenne improvvisamente piccolo e stretto, e quasi asfissiante. Loro ragazzi si misero in fila lungo la parete, in attesa, mentre la preside, avvolta nella sua inseparabile vestaglia tartan e i bigodini in testa (a quanto pare la loro presenza non la disturbava minimamente), sedeva alla sua scrivania, le mani giunte e lo sguardo lampeggiante dietro gli occhiali. 

«Molto bene», iniziò. «Il professor Paciock mi ha informata di ciò che è appena successo, e vorrei solo dire due parole prima che prendiate la Metropolvere.»

Albus lanciò un’occhiata a Teddy, poggiato al muro con le braccia conserte, il viso serio, serissimo. Non lo aveva mai visto così ombroso, e gli si era formata una ruga proprio in mezzo alla fronte, evidente segno di pressante preoccupazione. Immaginava che non vedesse l’ora di scortarli al Ministero e concludere quella storia. Aveva ascoltato con pazienza tutti i resoconti di Scorpius, Roxanne, Rose e Caitlin, senza lamentarsi, e alla fine aveva detto loro che non rimaneva altro da fare che contattare i suoi superiori e andare al Ministero, dove qualcun altro avrebbe deciso del loro destino. 

«Quello che è successo al signor Jenkins ha sprofondato la scuola in un profondo stato di inquietudine e pessimismo», continua la McGranitt sospirando. «Non vi nego che sono arrivata a temere di dover chiudere, nel caso in cui i signori Lupin e Davies non fossero arrivati ad una soluzione. Il consiglio scolastico faceva pressioni, e i coniugi Jenkins facevano pressioni, e solo grazie all’intervento del direttore Finnigan2 siamo riusciti a tenere a bada Rita Skeeter.»

«Ovviamente, non posso che essere soddisfatta della risoluzione di questo caso, ma allo stesso tempo, la fine di questa vicenda ne apre un’altra, che vede coinvolti alcuni tra i miei studenti migliori, ragazzi dei quali non sarei mai arrivata a sospettare, e sapervi coinvolti», e lanciò un’occhiata significativa al loro gruppo, «mi spezza il cuore, sono sincera.»

Cait si lasciò sfuggire un singhiozzo e Albus notò James che cercava di prenderle la mano, ma lei si scansò, incrociando le braccia sul petto, come a volersi difendere da tutto e tutti. 

«Spero ardentemente che ci sia una spiegazione logica a tutto questo, perché non posso credere che qualcuno di voi possa aver volontariamente assassinato un altro ragazzo, questo va oltre la mia immaginazione, apre scenari orrendi e riapre vecchie ferite, e non voglio - e non posso - permettermi di indugiarci oltre. Spero quindi che il viaggio al Ministero porti alla luce la verità.»

Tacque, le mani ancora giunte, il viso serio ma turbato. Nello studio era calato il silenzio, mentre la Simson versava del tè e Paciock si soffiava il naso. Poi Teddy fece un passo avanti. 

«Grazie, professoressa McGranitt. Purtroppo, come ben sa, non possiamo rendere noti i dettagli relativi all’indagine, e alle dichiarazioni rilasciate dai suoi studenti, ma verrà informata quanto prima del destino dei suoi ragazzi. Mi spiace aver disturbato così la sua serata. Ora, se non le dispiace», concluse, «prenderemmo volentieri la Metropolvere per il Ministero.»

«Professor Paciock, per favore», rispose la McGranitt indicando al vicepreside il camino. 

Neville si alzò - dall’orlo della vestaglia si intravedeva un pigiama azzurro troppo corto sulle caviglie - e afferrò il barattolo della Metropolvere dalla mensola sopra il caminetto e si girò verso i presenti lì riuniti. 

«Andrò io per primo, la Chapman e la Jones ci aspettano dall’altra parte», disse Roger avanzando dalle retrovie. «Però prima sono tenuto a requisire le vostre bacchette», aggiunse rivolgendosi ai ragazzi.

Albus se l’aspettava: immaginava che non avrebbero mai permesso loro di arrivare al Ministero armati, per quanto si fidassero. E così, uno dopo l’altro, consegnarono le loro bacchette a Roger Davies, che le ripose nelle tasche interne del mantello che aveva indossato per il viaggio. Albus gliela porse con sguardo basso, non aveva voglia di leggere chissà quali giudizi negli occhi dell’Auror di fronte a lui. Infine, Roger entrò nel camino - che era piccolo, per degli uomini adulti, ma ci si stava giusti giusti - e, afferrata una manciata di polvere dal barattolo che Paciock gli aveva allungato, esclamò «Atrium, Ministero della Magia» a voce chiara e alta, e sparì tra le fiamme guizzanti. 

Una volta partito Roger, Teddy si girò verso di loro. «Molto bene, tocca a James.»

Albus vide suo fratello avanzare con passo sicuro verso il camino. Ora che tutti loro avevano confessato, aveva ritrovato la sua solita calma, quasi come se, ormai, tutto ciò che doveva giungere, sarebbe stato solo un’inevitabile conseguenza, e non lo spaventasse quasi più. La parte più difficile era stata fatta, ciò che li attendeva era solo una formalità. Albus, dal canto suo, cercava di non pensare al prossimo incontro con i suoi genitori e alla strigliata che sua madre gli avrebbe sicuramente rifilato, davanti a tutto il Ministero, non le sarebbe importato di quanta gente fosse stata presente, e allo sguardo ferito di suo padre davanti all’ennesima delusione. Si riscosse quando Teddy fece il suo nome. Non si era neanche accorto che James era partito, e ora toccava a lui. Lanciò un’occhiata a Scorpius, che annuì impercettibilmente verso di lui come incoraggiamento, e poi entrò nel camino. 

«Atrium, Ministero della Magia!» e, dopo un breve viaggio turbinante e scomodo, scivolò fuori da uno dei grandi camini ministeriali nello spazioso Atrium, deserto a quell’ora della sera. Harry lo aveva portato lì innumerevoli volte, ma solo per fargli vedere dove lavorava, per fargli conoscere i suoi colleghi e, forse, invogliarlo, un giorno, ad abbracciare la sua stessa carriera. Albus non ne era mai stato convinto ed era sicuro, ora, che non sarebbe mai diventato un Auror, non dopo ciò che era successo. 

Ad accoglierlo trovò James - che lo aiutò a rialzarsi da terra -, Roger e due donne, che conosceva più o meno bene: Hestia Jones era il capo del Dipartimento Investigativo dell’Ufficio Auror e quindi diretta superiore di Teddy e Roger, e gli lanciò un vago sorriso, ed Eva Chapman, la temibile Direttrice dell’Ufficio Auror, che invece lo guardò con sguardo gelido e le lebbra ridotte a due linee dritte e marziali. Aveva sentito innumerevoli volte zia Hermione lamentarsi di quella donna, e non gli era mai piaciuta - anche perché tutto ciò che diceva e faceva sua zia per lui era sempre intrinsecamente vero e buono e giusto, sin da quando era un bambinetto e James lo prendeva in giro perché “aveva una cotta per zia Hermione”. 

«Tutto bene?» gli chiese suo fratello sussurrando. 

Lui annuì mentre Rose scivolava fuori dal camino con grazia. Una volta che tutti quanti furono riuniti, Teddy compreso, che aveva chiuso la loro strana spedizione, senza dire una parola avanzarono verso i cancelli dorati, in religioso silenzio. Albus si chiese cosa sarebbe successo da lì in poi, ma ovviamente nessuno, tantomeno lui, osava fare domande o anche solo fiatare. Teddy e la Chapman aprivano quello strambo corteo e parlavano tra loro a bassa voce, per non farsi udire. Albus camminava poco dietro di loro, lontano quanto bastava per non sentire nulla, accanto a James, e dietro venivano Rose e Scorpius, Roxanne e Caitlin e, a chiudere, Roger ed Hestia, anche loro impegnati a confabulare, come ebbe modo di ricevere conferma quando lanciò una rapida occhiata indagatrice dietro le sue spalle. 

Oltrepassata la Fontana dei Cinquanta Caduti (Albus ricordava che da piccolo gli faceva quasi paura e girava sempre la testa dall’altra parte, quando le si avvicinavano), trovarono un solo mago al banco della Sorveglianza, alto e con radi capelli sulla testa, che li accolse alzandosi in piedi. 

«Capo Chapman, signora», disse.

«Grazie ancora per la sua disponibilità, Charles. Può andare, non so per che ora finiremo», rispose lei. 

«Buonanotte, allora.»

La Chapman gli rivolse ancora un breve cenno del capo e poi proseguì verso gli ascensori. Sferragliando, giunsero al Secondo Livello, dov’era situato il Quartier Generale degli Auror. La Chapman e Teddy continuarono a fare strada e si fermarono solo dopo aver superato i cubicoli dei dipendenti dell’ufficio, in quel momento deserti a parte due o tre postazioni proprio al fondo, accanto alla porta della direttrice, nelle quali era accesa una pallida luce, ma dove non era seduto nessuno. 

«Proseguiremo fino alla zona di custodia», spiegò Teddy guardandoli finalmente in faccia, «dove troverete i vostri genitori ad attendervi. Dopo di che, cominceremo a raccogliere le singole deposizioni.»

Albus annuì in silenzio, e James, accanto a lui, fece lo stesso. Alla parola “genitori”, lo stomaco gli si ridusse alle dimensioni di un fagiolo. 

Proseguirono per pochi metri lungo un corridoio poco illuminato e sbucarono in un open space molto simile al precedente, ma decisamente più piccolo, dove si aprivano numerose porte. 

«Verifico che uno dei vice-procuratori sia arrivato, Davies verrà con me», iniziò la Chapman rivolgendosi a Teddy. «Tu e Hestia accompagnate i ragazzi in sala.»

Teddy annuì, le labbra tese. Albus comprese quanto poco volesse vedere Harry e tutti gli altri solo guardandolo. E così si avvicinò ad una porta chiusa e, dopo aver rivolto loro una breve occhiata, la spalancò. James fu il primo a entrare e Albus lo seguì a ruota. Li vide subito: sua madre era in piedi accanto alla finestra, le braccia conserte e un pesante maglione a righe sui toni del rosso che nonna Molly le aveva confezionato e regalato in occasione dell’ultimo Natale, il viso serrato per la preoccupazione e gli occhi lampeggianti, quando si voltò e li vide; suo padre le stava accanto, vicino ma alla dovuta distanza (Albus sapeva bene quanto poco sua madre anelasse un contatto fisico quand’era infuriata), gli occhi stravolti dall’ansia dietro gli occhiali ordinati, il giubbotto mezzo storto e i capelli più spettinati che mai. Vennero loro incontro e Albus non ebbe modo di dare un’occhiata intorno a sé, perché Ginny Potter li abbracciò entrambi, stringendoli più del dovuto, e, quando li lasciò andare, lo sguardo che rivolse loro era uno sguardo di pura furia. 

«Si può sapere perché volete farmi morire di crepacuore, voi due?» esclamò. Prese James per le spalle e lo scosse leggermente. «Jamie», e poi fu il suo turno di venire scosso, mentre gli occhi nocciola di lei lo scrutavano fin dentro l’anima, e scavavano, «Albus: pretendo una spiegazione, lo sapete quanto mi avete spaventata? Veniamo convocati a quest’ora della sera da un Patronus di Eva Chapman, che ci invita a recarci immediatamente al Ministero perché vi hanno presi in custodia? Con l’accusa di persone informate dei fatti nel caso Jenkins? Cioè, capite la gravità della situazione o no?» Il tono della voce era salito man mano e ora Harry poggiò entrambe le mani sulle sue spalle, e Albus la vide sobbalzare, quasi come se avesse dimenticato la presenza del marito dietro di lei, ma notò anche che cominciava a rilasciare tutta la tensione accumulata, e si allontanò, tornando alla finestra, una mano sulla bocca e gli occhi chiusi. Era affranta, dilaniata dalla preoccupazione, tesa dal dolore che loro le stavano provocando. Albus avrebbe tanto voluto che la terra gli si aprisse sotto i piedi solo per poterci sprofondare dentro e sparire, solo per non dover assistere allo sgretolamento di sua madre, lei che era sempre così forte, lei che non vacillava mai. Harry si girò a guardarli e Albus si sentì di nuovo morire. Era stanchissimo, come se fosse improvvisamente invecchiato di dieci anni, suo padre. 

«Papà…» cominciò, ma lui sollevò una mano a chiedere il suo silenzio, senza stizza e senza rabbia, però, ma fiaccamente, come se quel gesto gli richiedesse uno sforzo immane, dopo tutto ciò che aveva fatto per loro quella sera. 

«Vostra madre era veramente preoccupata», disse quindi lui. «Lo è ancora. E anche io. Capite quanto ci siamo spaventati, vero?»

Albus annuì e James, accanto a lui, tentò di parlare, ma questa volta fu un’occhiata di Harry a farlo tacere. 

«Non voglio giustificazioni, ma pretendo delle spiegazioni, come anche vostra madre. Siamo preoccupati per voi, e siamo anche arrabbiati, non voglio negarvelo, ma al momento dobbiamo concentrarci su ciò che avverrà.»

«Verrete invitati a rilasciare delle deposizioni ufficiali su quanto è successo, singolarmente. James entrerà da solo, in quanto maggiorenne», e rivolse un cenno al figlio più grande, che James ricambiò annuendo risoluto. «Noi invece potremo entrare con te, Albus», aggiunse guardandolo. «Draco è stato così gentile da chiamare il suo legale, che vi rappresenterà tutti, e che sarà con voi durante i singoli incontri.»

Albus lanciò un’occhiata intorno a sé, rammentando solo in quel momento che intorno a loro c’erano anche i loro cugini e amici. Dopo aver osservato brevemente Caitlin seduta su una sedia, in lacrime, ché forse aveva alla fine ceduto alla disperazione, le spalle tremanti circondate dall’abbraccio di sua madre Margaret3, mentre suo padre Seamus le sedeva accanto, individuò subito Scorpius, in piedi di fronte a suo padre accanto all’altra finestra, il corpo teso e i pugni stretti lungo i fianchi. Draco Malfoy stava parlando animatamente con un altro uomo, alto e vestito di tutto punto con un elegante completo nero, una valigetta in pelle stretta nella mano destra. Albus lo conosceva, anche se solo vagamente: si trattava di Theodore Nott, amico di vecchia data di Draco, che era come uno zio per il suo amico Scorpius. Quest’ultimo ascoltava gli uomini discutere, silenzioso, e i suoi occhi incrociarono quelli di Albus, e lui vi lesse la stessa identica inquietudine. 

«Vorrei solo che sapeste che stasera sono qui solo come padre», continuò intanto Harry. «Non sono il Capo dell’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia, non sono il famoso Harry Potter, sono solo Harry, vostro padre, e cercherò di starvi accanto il più possibile, e di battermi per voi più che posso, chiaro? La mamma e io non vi lasceremo mai, qualsiasi cosa abbiate fatto e qualsiasi cosa accada.»

Albus si sentì squarciare il petto con ferocia e deglutì, ricacciando indietro un principio di lacrime che gli premeva agli angoli degli occhi e gli spingeva nella gola, minacciando di dilaniarlo, ma lui era Albus Severus Potter, lui non vacillava, e non piangeva, mai. Cercò di ricomporsi e annuì. James fece lo stesso. Ginny si avvicinò e li guardò: era ancora dura in viso, ma rivolse loro un pallido sorriso accennato. Albus capì che era tutto ciò che avrebbero ricevuto, per il momento. 

Intanto, anche per gli altri sembrava essere in corso una guerra silenziosa. Rose teneva le braccia conserte sul petto mentre la zia Hermione le parlava con tono concitato (seppur Albus non riuscisse a sentire, pensò di aver udito distintamente le parole “affronto” e “punizione”); Ron invece le stava accanto e la guardava con affetto, ma per non rischiare di attirarsi le ire della moglie ogni tanto si ricordava di annuire per darle ragione. Roxanne sedeva a gambe incrociate su una sedia, ed era sempre Angelina che la strigliava, mentre George, a differenza di Ron, neanche si disturbava ad annuire, limitandosi a stringere la mano della figlia senza che Angelina li vedesse (aveva sempre avuto un debole per la figlia femmina, zio George). Albus notò che Teddy se l’era filata, e non lo vedeva più da nessuna parte. 

«Signore e signori, un attimo di attenzione, per favore.» La voce di Hestia Jones risuonò alta e profonda nella stanza e tutti si voltarono a guardarla, in piedi sulla porta.

In quel momento, la Chapman entrò nella stanza, e rivolse un sorriso, seppur freddo, a tutti i presenti. Si fermò accanto a Hestia. «Grazie, Hestia, continuo io», disse, ed Hestia le rivolse un’occhiata che ad Albus sembrò nauseata, ma non poteva giurarci. 

«Intanto, vi ringrazio per essere venuti qui con così poco preavviso, e a quest’ora della sera. Sappiamo bene quanta preoccupazione questa convocazione abbia destato, ma voglio anche rassicurarvi: i vostri ragazzi saranno trattati nell’assoluto rispetto delle nostre leggi, e come si confà al nostro ufficio.»

«Sarà meglio, capo Chapman», specificò Hermione, gli occhi ridotti a due fessure. «Terrò conto di qualsiasi eventuale irregolarità e non esiterò a riportarla al Wizengamot.»

«Tenga pure conto, signora Granger-Weasley. Tenga anche conto che qui, stasera, lei è solo una madre, non il Ministro della Magia. Così come il signor Potter», specificò guardando anche Harry. Albus rivolse un’occhiata al padre e notò quanto cercasse di trattenersi e dissimulare. «Spero che questo vi sia ben chiaro. E spero che sia chiaro che lei non potrà assolvere ai suoi compiti di Capo Ufficio, signor Potter, sa, conflitto d’interessi.»

«Lo so bene, capo Chapman, e so anche che, per legge, siete obbligati a convocare chi sta subito sotto di me, come gerarchia.» Il sorriso svanì, dal viso della donna. «Mi sono quindi preso la briga di avvertire il mio Sottosegretario, Robert Baston4, credo che arriverà a momenti.»

Il viso di Hermione era raggiante e guardava Harry soddisfatta e trionfante, mentre la Chapman era nera. Sicuramente sperava di sfangarsela, quella vecchia pipistrella.

«Molto bene. Procederemo a raccogliere le deposizioni in ordine alfabetico, invito pertanto il signor Nott a seguirmi, insieme alla signorina Finnigan e ai suoi genitori.»

«Il vice-procuratore è arrivato?» chiese quindi Nott raggiungendo le due donne sulla porta. Albus lanciò un’occhiata a Caitlin, che fissava entrambi con il terrore negli occhi, mentre sua madre la invitava ad alzarsi in piedi. 

«Ancora no, spero che stia per arrivare, ma intanto ci avviamo.» 

«Eccomi qui, scusate il ritardo.» Una donna alta e dai capelli scuri, vestita elegantemente con gonna e giacca nere, rivolse un sorriso seducente alle due donne. «Victoria?5» sentirono esclamare Theodore. «Che ci fai tu qui? Quando…?»

«Quando mi hanno chiamata, dici? Poco dopo che sei uscito, caro», rispose la donna chiamata Victoria sorridendo anche a Nott. «Avrei potuto chiamare un mio vice? Sì, certo. Avrei rischiato di perdermi questo circo? Assolutamente no.»

I due si guardavano con una luce strana negli occhi, come se stessero combattendo una guerra non verbale. Albus sentì Scorpius che gli si accostava e lo guardò brevemente prima di tornare ad osservare la scena poco più in là. 

«Lei è…» iniziò il suo amico, ma non riuscì a proseguire, perché Malfoy senior intervenne.

«Victoria Nott, il Procuratore Generale del Ministero della Magia6 in persona, ma quale onore», disse facendo un passo avanti e affiancando l’amico Theodore, sorridendo suo malgrado. Victoria Nott? Possibile che fosse…

«È la moglie di zio Theodore», riuscì a completare la frase Scorpius, e fu appena un sussurro. Albus lo guardò ad occhi sbarrati e poi tornò a guardare la donna, che ora sorrideva anche a Draco.

«Hai chiamato Theodore e sembravi sconvolto, Draco, ho pensato che la mia presenza avrebbe potuto solo migliorare la situazione, non trovi?»

«Tutto dipende dal concetto di migliorare, tesoro.» 

La donna rivolse al marito un sorriso e poi la Chapman fece un passo avanti, riprendendo in mano la situazione e ribadendo la sua posizione di Capo Ufficio. «Molto bene, intanto che aspettiamo Baston, io mi avvierei in sala. Sarà una lunga notte.»

 

 

Scorpius uscì dalla piccola sala nella quale aveva rilasciato la sua deposizione ufficiale. Lo avevano fatto sedere su una sedia, ad un lato lungo di una scrivania in freddo metallo, e accanto a lui si erano posizionati lo zio Theodore e suo padre, come due gargoyle moderni, attenti a che lui non facesse passi falsi - e gli Auror altrettanto. Prima di lui, era stata la volta di Caitlin e di Rose, ma dopo non le aveva riviste: molto probabilmente, una volta finito con loro, le avevano portate in un’altra stanza insieme ai rispettivi genitori. Lui si era limitato a fare come Theodore gli aveva detto di fare, cioè aveva raccontato per filo e per segno ciò che era successo quella sera, il più oggettivamente possibile e senza aggiungere commenti personali. Davanti a lui sedevano Eva Chapman, Victoria Nott e Robert Baston (il Sottosegretario di Harry Potter, un uomo di qualche anno più giovane del suo diretto superiore, alto e ben vestito, e che era arrivato tutto trafelato pochi minuti prima che Caitlin venisse scortata fuori dalla sala), mentre Hestia Jones, Teddy Lupin e Roger Davies erano in piedi accanto alla piccola finestrella, le braccia incrociate sul petto. Ora, una volta finito di deporre, Scorpius venne congedato. Si alzò insieme a suo padre, mentre Teddy faceva un passo avanti, probabilmente per scortarli fuori. 

«Ovviamente, resterete tutti qui, stanotte», precisò la Chapman alzando gli occhi da alcuni fogli e togliendosi gli occhiali. «In custodia», precisò di fronte allo sguardo incredulo che Scorpius doveva averle rivolto, «in attesa di una sentenza.»

Scorpius deglutì. Suo padre stava per aprire bocca, quasi sicuramente per protestare, ma fu Theodore a prendere la parola. «Certo, signora Chapman, ne siamo consapevoli.»

«Potete andare, allora, Lupin vi accompagnerà alle celle di custodia», concluse la donna riabbassando lo sguardo sulle sue pergamene. 

Baston lanciò loro uno sguardo che a Scorpius sapeva di impotenza e, forse, di incredulità, ma non disse nulla. Victoria Nott era china a leggere gli stessi fogli della Chapman e Scorpius si limitò a lanciare un ultimo sguardo agli Auror accanto alla finestra, prima di seguire suo padre e Teddy fuori. Theodore rimase dov’era, in attesa di Albus, che avrebbe deposto dopo di lui. 

Teddy fece loro strada lungo un corridoio più stretto, in silenzio e con passo rapido. Giunsero ben presto a quelle che Eva Chapman aveva chiamato “celle di custodia” e che in realtà erano dei semplici cubicoli con, al posto delle sbarre, delle pareti di plastica trasparente che permettevano di guardare all’interno, per tenere sotto controllo chi le occupava. Scorpius passò accanto a due stanzette, ma erano vuote e buie e non vide né Caitlin né Rose. Teddy aprì una porta e lo invitò ad entrare. La stanzetta conteneva un letto con cuscino e coperta, un piccolo lavandino e un tavolino con una sedia, e nient’altro. Sul tavolo, qualcuno aveva preparato una caraffa d’acqua e un bicchiere, e un sandwich farcito con uova e formaggio troneggiava su un piatto bianco. In quel momento, alla vista del panino, Scorpius sentì lo stomaco borbottare, e si rese conto di non aver cenato e di essere affamato. 

«Ti abbiamo fatto preparare qualcosa da mangiare», disse Teddy rompendo il silenzio. Sembrava a disagio, in presenza di Draco, così come era sembrato sulle spine per tutta la serata, e Scorpius non lo aveva mai visto così agitato. I capelli, da arancioni che erano quando lui e le ragazze gli avevano raccontato la loro versione, al castello, erano ora di un nero pece, e forse riflettevano il suo stato d’animo tempestoso. «Tuo padre potrà restare con te ancora qualche tempo, vi rivedrete domattina presto.»

«Non ho intenzione di lasciare mio figlio da solo», intervenne Draco con voce cupa. 

Teddy sospirò. «Mi dispiace, davvero, purtroppo sono le regole, e non le ho fatte io.»

«Quindi anche tu pensi che sia eccessivo, tutto questo? Sono solo dei ragazzi…»

«La legge è la legge, e non possiamo far altro che rispettarla. Certo, non li avrei chiusi qui dentro», aggiunse abbassando la voce, «ma non c’è alternativa, oltre a questa, e dobbiamo farcela andar bene. Intesi?»

Draco annuì e Scorpius fece altrettanto. Capiva perfettamente che Teddy, ormai, non aveva più nessuna voce in capitolo, lui era solo uno dei tanti Auror che lavoravano per Eva Chapman, era lei a tenere la bacchetta in pugno, ormai, su tutti loro. 

«Starò bene, papà», disse quindi poggiando una mano sul braccio del padre. «Adesso mangio qualcosa, me ne andrò a letto e quasi non mi accorgerò di essere qui e non a Hogwarts. O a casa.»

Draco gli rivolse uno sguardo strano, ma non aggiunse altro. Scorpius distolse il suo e lo puntò su Teddy. Quest’ultimo annuì, sospirando nuovamente. 

«Vi lascio, torno dagli altri. Ci rivediamo dopo.»

Annuirono entrambi e lo videro uscire, lasciando però la porta aperta. Scorpius sedette al tavolino e si fiondò sul sandwich e gli sembrò la cosa più buona che avesse mai mangiato. Suo padre sedette sul lettino, osservandolo mangiare, proprio come quando era piccolo e Astoria lo imboccava senza magia e gli raccontava la storia dell’espresso per Hogwarts per fargli mangiare le verdure - era uno dei ricordi contenuti nelle fiale che sua madre aveva raccolto negli anni e classificato e messo al sicuro in uno scrigno, in camera sua, e che Scorpius e Draco avrebbero ritrovato solo dopo la sua morte, a seguito di una sua lettera in cui li invitava ad aprire quello scrigno e a rivivere il loro passato, della loro piccola famiglia, e quanto erano stati felici; lei li avrebbe sempre visti così, e ricordati così, come un “bellissimo nucleo di normalità e bellezza nel caos primordiale del mondo”; Scorpius non avrebbe mai scordato quelle parole. 

Una volta spazzolato il panino, bevve due bicchieri d’acqua e poi alzò lo sguardo su suo padre, che invece non lo aveva lasciato neanche per un attimo, seguendo ogni suo movimento, anche il più impercettibile. 

«Papà…» cominciò.

Draco alzò una mano a zittirlo e Scorpius chiuse la bocca. 

«Ho già sentito tutto quello che è successo quella notte, là dentro», continuò quindi suo padre. Scorpius sentiva addosso le prime avvisaglie di tempesta. «Hai fatto quello che hai fatto per Albus. E per Rose. Dico bene?»

Scorpius annuì in silenzio. «L’ho fatto per loro, ma in generale per i miei amici.»

Draco si alzò in piedi e si avvicinò alla piccola finestra in alto a destra, fuori dalla quale era riprodotto per magia il cielo notturno dell’esterno e uno scorcio su una via di Londra, modesta e tranquilla. 

«Quando avevo la tua età, non avevo amici.»

Scorpius alzò lo sguardo sul padre, ma Draco continuò a dargli le spalle. 

«Pensavo di averne, in realtà. Pensavo che la gente che mi circondava fosse tutta lì per me, per il grande Draco Malfoy, erede di una fortuna e di un nome prestigioso. Non mi rendevo conto che quella fortuna e quel nome erano solo frutto di una maledizione.»

«Quando la guerra è finita, non mi è rimasto niente. Niente, tranne lo spettro di chi era stato mio padre, e l’affetto, immutato e viscerale, di mia madre. Ma ero solo, essenzialmente. Ero un guscio vuoto, respiravo e continuavo a vivere, ma era come se non esistessi.»

«E poi è arrivata tua madre. Lei è stata la vera luce della mia esistenza, lei mi ha salvato, in tanti modi diversi, ed era, e sarà sempre, l’unico amore della mia vita.»

Scorpius non aveva mai sentito suo padre parlare così, con il cuore in mano, di sua madre e tantomeno del passato. Sua madre era sempre stato un capitolo troppo doloroso da riaprire e rivangare, e si era trasformata in tanti piccoli e grandi ricordi che Draco aveva chiuso a chiave da qualche parte, insieme con i suoi quadri e dipinti e a tutte le sue cose, e non ne aveva mai più parlato, neanche con lui, proprio quando entrambi avevano così bisogno di farlo, di esternare il loro dolore e di esorcizzare i loro demoni. Il suo passato, quel passato oscuro che conteneva parole innominabili come Signore Oscuro, Mangiamorte e magia nera, parole che erano un tabù più forte di uno stigma, il suo passato era qualcosa che semplicemente Draco aveva rimosso, aveva chiuso dietro una porta con cento e più catene, spesse e intrise di veleno, per non riaprirla mai più. Ciò che Scorpius sapeva, glielo avevano raccontato sua madre e sua nonna Narcissa: la prima pensava che fosse giusto, per lui, conoscere chi era stato suo padre perché solo così sarebbe riuscito ad apprezzare chi era diventato; la seconda pensava invece che fosse giusto, per lui, conoscere chi era stato suo padre perché solo così non avrebbe rischiato di fare i suoi stessi errori. 

Ora, che si era voltato e lui poteva guardarlo in viso, quasi non riconobbe l’uomo che aveva di fronte, stravolto dalla preoccupazione, dal dolore, dai ricordi, da un male primitivo che pensava di aver sconfitto per sempre e che invece era tornato a tormentarlo, infido e mefitico. 

«Abbiamo faticato tanto per averti… » continuò. «Quasi non ci speravamo più, sai? E poi un giorno è semplicemente successo, e quando sei nato ci hai reso le persone più felici del mondo, non avrei mai pensato di poter essere così felice, mai. O comunque, non avrei mai pensato di potermelo meritare, non dopo tutto ciò che ho fatto.»

«Ti sto raccontando tutto questo perché voglio farti capire che non c’è nulla, nulla, Scorpius, che mi farà cambiare idea su di te, che mi farà dubitare di te, o mi farà decidere di voltarti le spalle e lasciarti solo. Capito? Quando tua madre è morta tra le mie braccia le ho fatto una promessa… le ho promesso che saremmo sempre stati tu e io… e ho intenzione di onorare quella promessa, per cui non pensare, neanche per un istante, che sei solo a combattere questa battaglia.»

Scorpius si sentiva quasi stordito, dopo tutto questo. Suo padre non aveva mai parlato così tanto, lui che era sempre così silenzioso, e non gli aveva mai fatto capire, non fino in fondo, la portata dei suoi sentimenti per lui. E così fece una cosa che non faceva da anni, tanti anni: si alzò e lo abbracciò di slancio, e Draco ricambiò l’abbraccio, e rimasero lì, per un tempo indefinito, solo loro due. 

 


 


Note:

1. Mrs Purr: siccome non si hanno notizie sul futuro della gatta più simpatica d’Inghilterra, ho pensato che la “poverina” sia venuta a mancare [quanto mi dispiace].
2. Seamus Finnigan: sono stata aggiornata sulla presenza di una dichiarazione della Rowling in cui asserisce che Seamus potrebbe essere diventato direttore de La Gazzetta del Profeta, e quindi ho deciso di inserire questo dettaglio nella long. 
3. Margaret Finnigan: moglie di Seamus; personaggio di mia invenzione.
4. Robert Baston: fratello minore di Oliver; personaggio di mia invenzione.
5. Victoria (Rosier) Nott: moglie di Theodore; personaggio di mia invenzione. 
6. Procuratore Generale del Ministero della Magia: figura di mia invenzione.

 

Eccoci qui ♥︎ come vi ho accennato in apertura di capitolo, la parte 2 arriverà tra due settimane, quindi spero che non mi odierete troppo; aspettavo questa vacanza da MESI - che sono diventati SECOLI - quindi perdonatemi ma DITN dovrà aspettare. La parte 2 in ogni caso è già pronta e scritta. Intanto, cosa ne pensate di questa prima parte? Qualche nodo è stato sciolto, James e Albus hanno rivisto e affrontato Harry e Ginny e Scorpius ha avuto un bel momento “a cuore aperto” con suo padre (questo è il mio pezzo preferito e spero che vi sia piaciuto quanto è piaciuto a me scriverlo) ♥︎ Nella seconda parte, tutto verrà risolto e si capirà finalmente quali saranno le reali conseguenze per i nostri ragazzi. Ci sarà inoltre un POV esclusivo, mai utilizzato prima in questa storia, nel finale del capitolo, e non aggiungo altro perché vi voglio lasciare un po’ col fiato sospeso 👀 

 

Se vi va, potete aggiungermi su Instagram (cliccate qui: martinaamariscrive), cercherò di caricare qualche spoiler in più nell’attesa del prossimo capitolo, per farmi perdonare ♥︎

 

Alla prossima settimana, ci leggiamo presto, Marti

 

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Capitolo 18
*** CAPITOLO SEDICI - PARTE SECONDA ***


SORPRESA: la seconda parte del capitolo è arrivata prima del previsto, ora mi odiate un po’ meno, sì? Buona lettura ♥︎

 


 

16.

CAPITOLO SEDICI

PARTE SECONDA

 

 

Teddy finì di sorseggiare il suo caffè e buttò il bicchiere vuoto in un cestino. Si trovava fuori dall’anticamera che precedeva l’aula d’udienza dove Scorpius, Rose, Roxanne e Caitlin (con i rispettivi genitori e il loro legale, Theodore Nott) erano riuniti ormai da un’ora. A presiedere l’udienza erano Victoria Nott, in quanto Procuratore Generale del Ministero della Magia, e Robert Barton, facente le veci del Capo dell’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia (Harry era stato ovviamente messo da parte per questioni legate al conflitto d’interesse). Teddy non aveva visto nessuno, quella mattina. Aveva dormito in ufficio, dopo aver scritto un gufo a Victoire (l’ennesimo in pochi giorni) spiegandole la situazione e aggiornandola sulla faccenda, e la sua fidanzata gli aveva risposto di non preoccuparsi, ché lei se la sarebbe cavata, e di stare tranquillo. Teddy si era chiesto, una volta di più, cos’avesse fatto di così buono e giusto per meritarsela. E si ripromise anche che si sarebbe preso una bella vacanza, appena tutto quel casino sarebbe finito, e avrebbe costretto Vic a fare altrettanto, e sarebbero partiti per andare ai Laghi e godersi qualche giorno di relax solo loro due, lontano dal Ministero e dai suoi intrighi. Quella domenica mattina, l’ufficio era calmo e relativamente deserto, a parte loro. Teddy si era svegliato tutto rotto dopo aver dormito per terra, accucciato accanto alla sua scrivania, e aveva accettato come un toccasana il bicchiere di caffè che gli aveva portato la cugina Molly, che aveva fatto un salto al Ministero solo per sapere come stava, visto che Victoire le aveva spiegato gli ultimi sviluppi, dei quali lei era ancora all’oscuro. Avevano parlato brevemente e Teddy le aveva raccontato ciò che era successo il giorno prima, sabato, cioè che lui era rimasto lì tutto il giorno, non si era mosso a parte per mangiare qualcosa al volo comprato al bar del Ministero (e per sciacquarsi la faccia in uno dei bagni), che i ragazzi erano rimasti nelle loro celle di custodia, che i loro genitori avevano fatto loro visita il mattino presto e poi nuovamente la sera prima di cena e, infine, che l’esperto di bacchette aveva fatto i suoi accertamenti in mattinata. Aleksandar Petrović1 era un discendente diretto (l’unico, in realtà) del famoso Mykew Gregorović, noto fabbricante di bacchette che aveva visto la sua fortuna da qualche parte nell’est Europa, e che aveva trovato la morte per mano di Lord Voldemort, nel 1997. L’uomo collaborava ormai da anni con il Ministero per questioni legate all’arte delle bacchette e aveva effettuato degli Incanti Reversus su ognuna di quelle che avevano confiscato ai ragazzi, e il risultato era stato vergato su pergamena e consegnato, in una cartellina sigillata, e in doppia copia, a Victoria Nott e Robert Baston, che avrebbero utilizzato quel risultato per emettere una sentenza definitiva. Inoltre, si era sfogato con Molly, ammettendo che aveva evitato di incontrare Harry e gli altri, il giorno prima, e che si sentiva malissimo all’idea che Harry pensasse che fosse un «meschino cagasotto», intimorito all’idea di affrontare un confronto e un dialogo con lui in merito alle ultime vicende. Ovviamente, fino al giorno prima la sua posizione di Auror incaricato del caso Jenkins lo aveva messo in una posizione difficile, impedendogli di parlare al suo padrino come un figlioccio, e a cuore aperto, come gli premeva di fare. Avrebbe potuto affrontarlo solo come un Auror, e coinvolto, per giunta, e non era esattamente la conversazione che sperava di instaurare con lui. Molly lo aveva rassicurato e incoraggiato, puntando sulla ragionevolezza dello zio Harry e sull’affetto che aveva sempre nutrito nei suoi confronti. Teddy aveva abbracciato la cugina e l’aveva ringraziata di cuore, e si era quindi deciso a raggiungere la sua famiglia per un chiarimento. Fece un bel respiro, quindi, e aprì la porta per raggiungerla. 

Erano tutti lì riuniti e girarono il volto sorpresi quando sentirono la porta aprirsi e richiudersi dietro di lui. Ginny sedeva in mezzo ai suoi figli, la mano destra sul ginocchio di James e quella sinistra su quello di Albus, in un gesto tanto intimo e profondo, di amore e appoggio e incondizionata fiducia, che Teddy si sentì quasi di troppo, come se fosse giunto a invadere la loro privacy con la sua ingombrante presenza. James non sembrava preoccupato, o teso, non più, ormai, ché forse la sua maggiore maturità lo aveva portato ad accettare, con rassegnazione e accettazione, tutto ciò che sarebbe arrivato, e qualsiasi decisione fosse stata presa per lui, di qualsiasi natura, come se si sentisse colpevole, effettivamente, e quindi ritenesse una punizione l’unica soluzione decente e giusta per ciò che aveva fatto. Albus invece muoveva la gamba sinistra su e giù, su e giù, visibilmente agitato, e quella destra era ferma solo perché la mano di sua madre vi era posata sopra; aveva la faccia di chi si sarebbe volentieri alzato per scappare a gambe levate lontano da lì, e da tutti coloro che lo circondavano, e Teddy pensò a quanto sembrasse giovane - a quanto effettivamente lo fosse - e vulnerabile, scoperto come un nervo, pronto per essere colpito proprio laddove era più debole. Harry invece camminava avanti e indietro, percorrendo l’anticamera a grandi passi, le mani giunte dietro la schiena, la camicia abbottonata storta e i capelli talmente spettinati che sembrava vi fosse scoppiata una bomba. 

«Teddy?» Ginny fu la prima a parlare. 

Teddy avanzò di un passo, le mani buttate nelle tasche dei pantaloni sdruciti che indossava ormai da due giorni. Non vedeva l’ora di farsi una doccia, tra le altre cose. 

«Ciao», disse. «Spero di non disturbare.»

Harry gli si avvicinò e gli strinse un braccio. «Tu non disturbi mai, Teddy.» Gli rivolse quindi un pallido sorriso, annebbiato dalla stanchezza di quelle ultime ore, e Teddy si sentì ancora peggio di quanto già non si sentisse. Bene

«Puoi sederti, Harry, per favore? Vi vorrei parlare.»

Il suo padrino annuì, e se provò sorpresa non lo diede a vedere. James e Albus invece lo guardavano incuriositi, mentre Ginny sembrava indossasse una maschera fatta di durezza e avorio, era bella e temibile e Teddy l’aveva vista così glaciale solo in rare occasioni. Solitamente riversava la sua furia cieca su tutto e tutti, come il fuoco dell’Ardemonio, che nulla risparmiava e nulla graziava. Si sentì alla gogna e deglutì. 

«Mi spiace essere venuto solo ora», iniziò passandosi una mano tra i capelli: quella mattina si era alzato e questi erano di un banale e piatto grigio topo, tutta colpa dello stress e della stanchezza, e si era quindi sforzato per farli arrivare ad un democratico e tenue azzurrino, ma senza andare oltre. «Fino a ieri, momento in cui tutte le prove sono state raccolte e il fascicolo è stato consegnato al Procuratore Nott e al Sottosegretario Baston, mi trovavo in una posizione difficile e scomoda. Ero Teddy, il tuo figlioccio», e fece un cenno del capo a Harry, che annuì in risposta, e forse come incoraggiamento a continuare, non lo sapeva, «ma anche Edward Remus Lupin, Auror del Ministero della Magia, uno dei due ufficiali incaricati di occuparsi del caso Jenkins.»

«Quello che voglio dire è che io ho vissuto l’ultimo mese spaccato in due, da una parte ero vostro cugino», e questa volta indicò James e Albus, e il primo gli rivolse un accenno di sorriso, mentre il secondo rimase immobile, «quindi colui che vi vuole bene, che vi appoggia ed è fiero di voi, siete come dei fratelli, per me, e lo sarete sempre, non importa cosa succederà. E stavo male, per voi, ché non volevo ammettere, nemmeno con me stesso, ciò che le prove mettevano in evidenza, ciò che mi portavano a scoprire, giorno dopo giorno, in una parabola discendente che mi ha fatto incazzare, furiosamente, e dubitare di voi, che mi ha portato a non fidarmi, di voi, e nello stesso tempo non volevo che accadesse, capite? Io volevo fidarmi, con tutto il cuore.»

«Mi avete dato filo da torcere, però, cazzo se me lo avete dato!» esclamò scuotendo la testa. Ora che aveva iniziato sentiva di non voler più fermarsi. «Quando mi hai raccontato quel mare di cazzate, Jamie, e quando ho capito che lo erano, giuro che avrei tanto voluto prendere tutto quanto, mandare al diavolo Roger, il caso e tutto il castello, e andarmene. Lo giuro su Victoire. Ma non l’ho fatto, non avrei mai potuto, perché ho preso un impegno, e quando sono diventato Auror ho fatto un giuramento, ho giurato che avrei servito il mio paese e avrei fatto di tutto per adempiere ai miei doveri, nel bene e nel male, e fino all’ultimo respiro.»

Scambiò uno sguardo con Harry e vide che il suo padrino aveva gli occhi lucidi e si auto-impose così di non guardarlo, ché non poteva permettersi di cedere, non ora. 

«Quando siete venuti a confessare ero arrabbiato, ero arrabbiato con voi perché pensavo che fosse l’ennesima presa in giro, l’ultima, grande beffa, e quasi non volevo, e non potevo, credervi. E invece è successo, mi avete raccontato tutto, e nonostante sapessi che quella era una verità solo parziale, l’ho accettata, mi sono accontentato, confidando che Scorpius non avrebbe permesso che vi prendeste tutta la colpa. E così è stato.»

Vide la freddezza di Albus vacillare, forse sentir pronunciare il nome del suo migliore amico lo aveva scosso, ma si ricompose in fretta, e Teddy pensò quasi di essersi immaginato tutto.

«Questi ultimi due giorni sono stati terribili, perché avrei tanto voluto parlare a tutti voi solo come Teddy, Teddy e basta, come ho sempre fatto, ma mi trovavo in una situazione davvero difficile, ho dovuto convivere con il mio lavoro e allo stesso tempo cercare di non ferirvi, ma temo di averlo fatto, evitandovi ed evitando un confronto con voi, nonostante sarebbe stato solo un confronto con l’Auror Lupin, ma almeno ne avreste avuto uno.»

«Teddy», cominciò quindi Harry, «hai finito?»

Teddy sospirò e annuì. «Credo di sì.»

«Tu pensi che io non lo capisca, Teddy?» riattaccò quindi a parlare il suo padrino. «Tu dimentichi che sono stato un Auror, forse?»

Teddy scosse la testa: ovviamente no, non lo aveva dimenticato, come avrebbe potuto? Era stato proprio per Harry (oltre che per sua madre, ovvio) che aveva deciso di diventare un Auror a sua volta. E lui lo aveva sempre spronato e incoraggiato e spinto a far meglio e di più, assicurandolo che ci sarebbe riuscito, che sarebbe riuscito a fare tutto ciò che desiderava, ché in fondo era figlio di Remus Lupin e Ninfadora Tonks, due eroi di guerra. 

«Non dimenticarlo mai, allora. Non dimenticare che io ti capisco, io capisco la situazione nella quale sei venuto a trovarti, capisco che tu ti sia arrovellato il cervello per sbrogliare la matassa senza che qualcuno si facesse male, e non pensare che non lo abbia capito, quando quel giorno al Paiolo Magico ci siamo incontrati e abbiamo parlato. Ovviamente, non potevo immaginare che tu stessi indagando sui miei figli, tra gli altri, ma ho immaginato che ci fosse qualcosa di strano, in questo caso, qualcosa che, forse, non mi volevi dire.»

«Sai qual è stata la prima cosa che ho detto a Ginny quando ci hanno mandato a chiamare dall’Ufficio Auror? E poi quando siamo arrivati qui ed Eva Chapman ci ha informato della cosa?» Si girò verso sua moglie, che intanto aveva seguito tutto il discorso di Teddy in silenzio. Ginny Potter finalmente gli sorrise e Teddy si sentì sciogliere. Allora non era così arrabbiata con lui, dopotutto. 

«Harry mi ha detto: ‘per fortuna ci sarà Teddy, con loro’», disse solo lei. 

«Esatto, oltre che altre numerose imprecazioni per ciò che ci era stato appena riferito, ovvio», aggiunse Harry lanciando un’occhiata ad entrambi i suoi figli. Non sembrava arrabbiato, però, ma solo stanco, davvero stanco, come dimostravano le due pesanti occhiaie nere che gli ornavano gli occhi. «Ma una delle prime cose a cui ho pensato è stato il fatto che ci saresti stato tu, Teddy, insieme ai miei ragazzi, e ne avresti garantito l’incolumità, così come il giusto trattamento, cosa che non è mai venuta meno, questo devo riconoscerlo.»

«Mi dispiace tanto non essere venuto prima, davvero», ripetè Teddy scuotendo la testa. Non riusciva a darsi pace.

Ginny allora si alzò e gli cinse le spalle con un braccio e Teddy sentì quel buon profumo di fiori che da sempre la caratterizzava e che lui associava ormai all’estate, quella spensierata che trascorreva a casa di Harry e Ginny, quando sua nonna Andromeda gli permetteva di trasferirsi lì per qualche settimana prima dell’inizio del nuovo anno a Hogwarts. 

«Sei come un figlio, per noi, Teddy», disse quindi la donna. «Sei stato come un fratello per i nostri figli, soprattutto per Jamie, e ti vogliamo un bene che trascende qualsiasi ruolo, e qualsiasi decisione verrà presa lì dentro», e indicò con un cenno del capo la porta chiusa dell’aula per le udienze. 

Teddy non sapeva cosa dire, non sapeva cosa replicare di fronte ad un’altra - l’ennesima - prova di affetto da parte della famiglia Potter, prove alle quali non si sarebbe abituato mai. 

«Non solo tu hai fatto una promessa, Teddy», intervenne Harry. «Ne ho fatta una anche io, venticinque anni fa, quando tuo padre mi ha chiesto di diventare il tuo padrino. Dentro di me, sapevo cosa significasse davvero quella sua richiesta, sapevo quali sottintesi celasse e contenesse, nonostante non volessi ammetterli. Per me è stato un onore - seppur doloroso, visto ciò che lo ha preceduto - farti da padrino, Teddy, ed è stato un onore rispettare la promessa fatta ai tuoi genitori, cioè che mi sarei sempre preso cura di te, sempre

E così, alla fine si ritrovarono tutti stretti nello stesso abbraccio, che sapeva del profumo di fiori di Ginny e delle giornate di sole spese nel prato di casa Potter e dei Natali intorno al fuoco, con sua nonna Andromeda seduta in poltrona a sonnecchiare e lui steso sul tappeto mentre la radio trasmetteva le carole. Quella era la sua famiglia, e si rese conto solo in quel momento di quanto gli fossero mancati, tutti quanti. 

«Okay, ora basta con questi sentimentalismi», borbottò Albus e James gli diede uno spintone amichevole per farlo stare zitto.

«Sei proprio un Serpeverde, non c’è che dire», commentò Ginny scompigliando i capelli del figlio minore. 

«A proposito, non vi ho chiesto come sta Lily…» chiese Teddy mentre Harry si risedeva e si asciugava gli occhi con la manica della camicia. 

«Scossa, ovviamente», spiegò quindi Ginny. «La McGranitt l’ha mandata a casa a dormire, stanotte, per stare insieme a noi, e stamattina l’abbiamo rispedita a scuola. Era preoccupata, ma le abbiamo spiegato la situazione, con la promessa di informarla non appena avuta la sentenza.»

Teddy notò che a Ginny morì la voce in gola, per la tensione e la paura e la preoccupazione, così le sorrise. «Lily è una ragazza forte e intelligente, ed è molto più assennata di questi due», commentò ironico indicando James e Albus, e cercando di sdrammatizzare.  

I suoi cugini alzarono gli occhi al cielo ma non aggiunsero altro. Ginny volse nuovamente il viso su Teddy. «Vieni a cena, stasera? Quando tutto sarà finito.»

Teddy annuì. «Sarebbe bellissimo.»

«Porta anche Victoire, sembra che non la vediamo da una vita…»

«Ora devi andare?» chiese quindi Harry. 

«No, non devo andare. Anzi, pensavo di aspettare qui fuori, con voi. Posso?»

 

 

James entrò nell’aula delle udienze senza guardarsi indietro. Rose e gli altri erano probabilmente usciti da un’altra porta, una volta concluso, per questo non li aveva visti, e così doveva essere successo anche per Albus e i suoi genitori. Per fortuna, Teddy aveva atteso con lui che lo chiamassero, e così non era rimasto solo. Mano a mano che il momento si avvicinava, sentiva di star perdendo sempre più la calma, e anche quell’apparente tranquillità che lo aveva permeato nei giorni precedenti e durante l’interminabile attesa di quel pomeriggio domenicale. 

Non avevano parlato molto, lui e Teddy. Più che altro, erano rimasti seduti l’uno accanto all’altro, in un significativo silenzio che, per loro, era valso molto più di un milione di parole. Quando la porta dell’aula si era aperta e Robert Baston si era sporto e lo aveva chiamato per nome, si era alzato come se non avesse avuto neanche più le gambe. Teddy aveva fatto altrettanto e lo aveva trattenuto un secondo, solo per guardarlo negli occhi e, forse, infondergli tutto il coraggio che possedeva. «Andrà tutto bene, lo sai, vero?»

James aveva annuito e, senza dire niente - non ne era stato capace - si era avviato, come un automa. E non si era voltato. 

All’interno, Theodore Nott lo aspettava, in piedi, ad un capo di una scrivania di lucente mogano ingombra di documenti e fogli, tutti in rigoroso ordine. Gli sorrise. Dall’altra parte, sedeva quella che, aveva saputo, era la moglie di Theodore, Victoria Nott, i capelli scuri raccolti in una coda stretta, le labbra colorate di vermiglio piegate in un sorriso glaciale e le dita intrecciate sul ripiano in legno. Robert Baston riprese posto sbottonandosi la giacca blu e lo invitò a sedersi con un composto e fluido gesto della mano destra. James lo conosceva di nome, e perché qualche volta suo padre lo invitava a cena, ma non poteva dire di conoscerlo davvero, o per lo meno, quel tanto che bastava a decifrarne l’espressione. 

«James, vieni avanti», lo incitò anche Theodore e lui obbedì, riuscendo a raggiungere la sedia e riprendendo un po’ fiato. Doveva cercare di ricomporsi, non avrebbe potuto rispondere alle loro domande in quello stato, e così cercò di evocare immediatamente qualcosa che lo calmasse e che lo facesse tranquillizzare, e gli saltò alla mente il ricordo delle mattine del suo compleanno, da bambino, quando Ginny lo svegliava con un pasticcino con sopra una candelina e Lily saltellava sul suo letto, Albus gli faceva gli auguri quasi abbaiando e suo padre gli scompigliava talmente tanto i capelli che poi non riusciva più a pettinarsi per tutto il giorno; le estati trascorse tra la Tana e Villa Conchiglia, quando lui e Louis si tuffavano dagli scogli e Albus e Rose sedevano poco lontano e confabulavano e scuotevano la testa, e la sera bevevano limonata e mangiavano  pesce cotto alla griglia da zio Bill e dopo cena si riunivano di fronte al falò e Fred raccontava storie di fantasmi e tutti avevano paura tranne lui e Roxanne; il primo giorno ad Hogwarts, quando aveva fatto il viaggio con Louis e, infine, era stato Smistato a Grifondoro e tutto il tavolo lo aveva applaudito, aveva applaudito proprio lui, James Sirius Potter. 

«James? Tutto bene?» 

Si riscosse e si voltò verso Theodore, che lo guardava preoccupato, quasi chino sulla sua sedia. Annuì. «Sì, scusate», rispose. Sentiva di aver quasi ripreso il controllo di sé e delle sue emozioni. Annuì di nuovo. «Sono pronto.»

«Molto bene, allora», esclamò la Nott prendendo il controllo della situazione. «Lei è qui perché l’accusa nei suoi confronti è la seguente: esecuzione di una Trasfigurazione Umana in fase post-mortem e, subito dopo, occultamento del suddetto corpo Trasfigurato. Si rende conto di quanto sia grave quest’imputazione, vero, signor Potter? Soprattutto perché lei è maggiorenne.»

James annuì e chinò il capo. Theodore gli aveva detto di mostrarsi remissivo e quanto più possibile in colpa, solo così sarebbe riuscito a sembrare credibile. 

«Ne sono consapevole, Procuratore Nott, e sono immensamente pentito di ciò che ho fatto», disse alla fine. «Ma l’ho fatto solo perché in quel momento pensavo di proteggere mio fratello e le altre persone coinvolte, ma soprattutto mio fratello. Solo ora mi rendo conto di quanto le mie azioni abbiano in realtà danneggiato tutti loro, non solo me stesso, e quanto abbiano ferito i signori Jenkins.»

Con Theodore avevano pensato anche a quel discorso e citare i genitori del ragazzo era stata un’idea del Magi-Avvocato. 

«Potete vedere anche voi quanto il ragazzo sia pentito», intervenne Theodore.

Gli altri due annuirono. Baston si grattava il mento, pensieroso, ma non sembrava ostile. La Nott invece era tutt’altra storia. Sembrava quasi sguazzare nel tormento e nell’inadeguatezza che doveva leggergli in viso. 

«Fortunatamente, i coniugi Jenkins, con i quali ho parlato ieri pomeriggio, hanno dimostrato un’incommensurabile pietà per tutti voi, comprendendo che siete solo dei ragazzi, proprio come il loro figlio, e hanno deciso quindi di accordarvi il loro completo perdono», spiegò la donna. 

James sbarrò gli occhi, ma sentì Theodore stringergli il ginocchio sotto il tavolo, segnale che voleva dire di tacere. Infatti sua moglie alzò una mano. 

«Per quanto abbia considerato i signori Jenkins un esempio di carità e innata compassione, ciò non toglie che lei e tutti gli altri rimanete colpevoli agli occhi della legge, che io rappresento qui, in quest’aula, oggi», aggiunse quindi. 

«E noi ci rimettiamo alle decisioni di questa corte, Procuratore Generale», disse Theodore con un sorrisino. La moglie però non fece una piega, mantenendosi professionale e seria. 

«In questa cartellina è contenuto il risultato della perizia del signor Petrović sulle vostre bacchette», disse Baston prendendo la parola e alzando la suddetta cartellina in modo che James la vedesse. «Perizia che ha confermato quella che è stata effettuata sulla bacchetta della vittima, e anche il risultato della Magi-Autopsia effettuata sul cadavere: Jenkins ha cercato di Schiantare Albus Potter, ma quello Schiantesimo gli si è ritorto contro. Nella bacchetta di suo fratello abbiamo trovato traccia di un Incantesimo di Disarmo, e null’altro, segno che il ragazzo non aveva nessuna intenzione di Schiantare o, peggio, uccidere la vittima.»

James tirò un sospiro di sollievo al pensiero che fossero riusciti a dimostrare l’innocenza di Albus. 

«Nella sua, c’è ovviamente traccia della Trasfigurazione Umana», proseguì Baston, «ma anche qui, nient’altro. Invece, tramite quella di Jenkins, siamo riusciti a ricostruire come si siano effettivamente svolti gli eventi e cos’abbia innescato il ritorno di fiamma che ha provocato la morte del ragazzo.»

«Tutto questo vuol dire che sono state prodotte delle attenuanti, signor Potter», intervenne Victoria Nott. «Attenuanti che giocano a vostro favore e tramite le quali il sottosegretario Baston e io, insieme al suo legale, siamo riusciti a raggiungere un accordo.»

«Un patteggiamento?» chiese James, stupito di come gli eventi stessero forse volgendo a suo favore. Si voltò verso Theodore e lui annuì, incoraggiante, sorridendogli.

«Abbiamo valutato un po’ di elementi e li abbiamo pesati», disse Baston incrociando le dita, i gomiti poggiati sul tavolo. «Tra questi, i tentativi della vittima di aggredire Albus Potter, che lo hanno messo in una situazione sorprendentemente scomoda, perché, in fin dei conti, nessuno di voi voleva aggredirlo, cosa che invece ha fatto lui nei vostri confronti. Aggiungiamoci il fatto che lei ha agito come ha agito solo ed esclusivamente in difesa di suo fratello, senza premeditazione, e spinto dalla paura e dalla sua giovane età. A tale proposito, proprio la sua età, e la sua inesperienza, giovano a suo favore, in questo caso.»

«Ciò che il Sottosegretario Baston vuole dirti, James», intervenne Theodore poggiando una mano sul bracciolo della sua scomoda sedia. James si girò a guardarlo. «Ciò che vogliamo dirti, è che, per via di tutti questi elementi, siamo giunti ad un accordo. Un accordo vantaggioso per te, molto vantaggioso.»

James annuì. «Okay…» rispose, non sapendo bene cosa dire.

«L’accordo prevede, intanto, una punizione che verrà decisa dalla preside McGranitt», iniziò la Nott prendendo la parola, «che è già stata messa al corrente della nostra decisione e l’ha molto sensatamente accettata di buon grado. Oltre a questa, le verrà proibito di giocare a Quidditch», e a James quasi mancò il respiro all’idea che una delle cose che amava di più al mondo gli fosse appena stata tolta, «e di visitare Hogsmeade, fino alla fine dell’anno scolastico, si intende. Le verrà inoltre applicato un Incantesimo di Localizzazione2, che delimiterà i suoi movimenti nei confini della scuola e, successivamente, della sua abitazione, nella quale avrà l’obbligo di trascorrere l’estate, senza eccezioni.»

James annuiva, non poteva fare altro che annuire. Pensava che, forse, la prospettiva - la tremenda prospettiva - di finire ad Azkaban, unita alla paura che gli aveva attanagliato le viscere quella notte, quando non riusciva a dormire, nella sua cella di custodia, ecco, quella prospettiva si stava allontanando per sempre, e forse non sarebbe andata poi così male. Forse.

«Infine, e qui è insita la maggiore fetta di impegno da parte sua, sarà tenuto a prestare un anno di servizi utili alla comunità, a partire dal settembre prossimo, presso l’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Heydon Hall3, nel Norfolk, dove svolgerà tutta una serie di mansioni che sarà premura del direttore dell’Istituto assegnarle al momento del suo arrivo in loco. Questo è tutto. Domande?»

James rimase in silenzio per un attimo, durante il quale il pensiero del temibile ICGMS gli balenò nella testa a tinte fosche e brutti presagi. Aveva ovviamente già sentito parlare di quell’Istituto, tutti i giovani maghi e streghe della Gran Bretagna temevano quel posto che, sovente, provocava loro addirittura degli incubi. Quanti genitori avevano minacciato i loro giovani pargoli di spedirli a Heydon Hall se non avessero fatto i bravi, o finito i compiti, o rispettato le regole della scuola… Un paio di volte Ginny lo aveva promesso ad Albus e James ricordò quanto suo fratello ne fosse rimasto impressionato, tanto da ritirarsi nella sua stanza con la coda tra le gambe - cosa inusuale, per Albus Severus Potter. Per cui, il pensiero di dover trascorrere un intero anno tra quelle quattro mura, a lavorare fianco a fianco con il suo personale, a contatto con torme di ragazzini difficili e turbolenti che si erano macchiati di svariati crimini di poco conto, come ruberie e atti di vandalismo e cose simili, lo fece sprofondare nello sconforto. Unito al fatto che la sua vita sarebbe stata messa in stand-by per un anno, durante il quale non avrebbe potuto giocare a Quidditch e nemmeno farsi notare da qualche squadra e fare provini. Anzi, ora come ora vedeva la sua possibile carriera nel suo sport preferito come un miraggio ormai lontano. Infine, si diceva che Heydon Hall fosse infestata… o almeno, una volta glielo aveva raccontato Fred, durante uno dei loro famosi falò estivi. 

«Non ho domande, no», rispose quindi riscuotendosi dal turbine dei suoi pensieri. 

«Molto bene, allora direi che siamo tutti d’accordo», esclamò Baston, che sembrava solo desideroso di alzarsi e andarsene e dimenticarsi della questione.

«Vorrei solo specificare un’ultima cosa», disse Victoria Nott. «Voglio che sia chiaro che le è andata bene, signor Potter, molto bene. E vorrei che se lo ricordasse per tutti gli anni a venire, fino alla fine della sua esistenza, vorrei che ringraziasse questo culo ossuto che mi siede di fianco e quella faccia da culo che mi siede di fronte, perché, se fosse stato per me, le cose sarebbero andate diversamente. Chiaro

James si stupì del tono utilizzato dalla donna, ma non si stupì invece del messaggio che voleva fargli arrivare: gli era andata bene, e tutto per merito di Baston, che probabilmente aveva votato a suo favore, e di Theodore, che era un ottimo Magi-Avvocato. 

Annuì, per l’ennesima volta nel giro di mezz’ora. Poi finì tutto molto in fretta, in realtà: Theodore raccolse la sua valigetta di pelle e lo invitò a stringere la mano al Procuratore e al Sottosegretario; lui ringraziò sommessamente e sottovoce e poi uscì, imboccando la porta e sentendola richiudersi alle sue spalle. Ed era tutto finito. Per davvero. E non sarebbe finito ad Azkaban. Mai.

La prima cosa che vide fu il viso di Albus. Gli sorrideva ma allo stesso tempo era preoccupato per lui. Poi quello di sua madre, gli occhi umidi: non l’aveva mai vista così vulnerabile. Teddy, in piedi accanto a lei a cingerle le spalle, fu il primo ad andargli incontro per chiedergli come fosse andata, ma James non rispose. Stava guardando suo padre, Harry, e suo padre stava guardando lui, e in quello sguardo c’era tutto ciò che più contava al mondo. 

 

 

«Ginny?»

«Ginny!»

«Ho quasi fatto, Harry!»

«Avrei bisogno di aiuto con il sugo, ma va bene lo stesso…» bofonchiò Harry tra sé e sé mentre correva per la cucina ingombra di pentole, pentoline e padelle, tagliando il basilico, affettando i pomodori freschi e frugando nella dispensa alla ricerca degli spaghetti. Quella sera aveva deciso di cucinare lui, menù rigorosamente italiano: spaghetti al pomodoro saltati in padella accompagnati da un bicchiere di vino rosso. Gli piaceva passare del tempo in cucina, ma a cucinare davvero, alla Babbana, non come faceva Ginny - e la stragrande maggioranza dei maghi - che si limitava ad agitare la bacchetta e a lasciar fare alla magia. No, troppo facile. Voleva preparare una buona cenetta per Teddy e Victoire, che sarebbero arrivati a momenti, e insieme avrebbero passato una bella serata di tranquillità casalinga. La tavola era già apparecchiata e aveva anche acceso alcune candele. Doveva solo finire in cucina e il gioco era fatto.

Accese l’acqua per la pasta e si appoggiò al bancone della cucina, sospirando. Si sentiva decisamente più rilassato e tranquillo rispetto a com’era stato nelle ultime quarantott’ore, nonostante sentisse la stanchezza invaderlo a ondate. Sapeva che quella sera dopo cena, molto più tardi, sarebbe crollato nel suo letto, ma il giorno dopo era lunedì e avrebbe dovuto rientrare in ufficio, dopo un weekend di non riposo. Lui e Ginny si erano preoccupati da morire per James e Albus, ma ora sembrava che la mareggiata fosse passata e che a tutti loro sarebbe stata riservata un po’ di meritata serenità.

Alla fine, a Rose, Scorpius, Roxanne e Caitlin era stato proibito di giocare a Quidditch e di visitare Hogsmeade, e a questo era stata aggiunta una punizione a testa quando sarebbero rientrati a scuola, a discrezione della preside McGranitt, e un mese estivo di servizio utile per la comunità. Albus aveva ricevuto la stessa sentenza, ma i mesi estivi di servizio utile erano diventati tre. Harry non aveva osato sperare che andasse a finire meglio di così, per tutti loro. Aveva davvero temuto di perderli, James e Albus, ma soprattutto James, data la gravità delle accuse - e di ciò che aveva effettivamente fatto. Si chiese che cosa ne sarebbe stato di lui - e di Ginny - nel caso in cui fosse andata a finire peggio… Certo, avrebbero continuato a impegnarsi per essere dei buoni genitori, ma la loro famiglia si sarebbe spezzata e non sarebbe mai più tornata come prima, per quanto lui e sua moglie si sarebbero sforzati per stare accanto ai ragazzi in qualsiasi caso. Anche solo il pensiero di una simile eventualità era doloroso.  

Avevano salutato i ragazzi davanti ad uno dei camini dell’Atrium, da dove erano stati rispediti a Hogwarts, accompagnati da Roger Davies. Avevano abbracciato prima Albus e poi James, su cui era stato appena applicato un Incantesimo di Localizzazione, e Ginny li aveva baciati sulle guance, gli occhi lucidi alla prospettiva di lasciarli andare così presto. Lui aveva guardato negli occhi entrambi i suoi figli, cercando di trasmettere loro tutto il bene che provava nei loro confronti, e poi li aveva guardati partire, e sparire in uno sbuffo di cenere. Era certo che a Hogwarts sarebbero stati al sicuro, e nei prossimi mesi avrebbero tutti fatto i conti con la seconda ondata di conseguenze. 

Era arrabbiato con loro, anche ora che tutto era finito, ma aveva tenuto a bada qualsiasi rimprovero, qualsiasi recriminazione avrebbe potuto salirgli alle labbra appena li aveva rivisti, quella sera al Ministero: avevano fatto un errore, uno sbaglio dovuto all’ingenuità, alla giovane età, al desiderio di proteggersi a vicenda, e Harry ne sapeva troppo di momenti come quello che i suoi figli avevano vissuto per incolparli di qualcosa. Sarebbero stati puniti e avrebbero ricordato per sempre quell’episodio, come lui stesso non aveva mai scordato i suoi, di errori, e tanto bastava. In fondo, forse sperare in una vita tranquilla era troppo se di cognome facevi Potter.   

In quel momento, suonarono alla porta e Harry sobbalzò, riscuotendosi dai suoi pensieri e lanciando un’occhiata alle pentole sul fuoco.

«Harry, vai tu!» gridò Ginny. Alzando gli occhi al cielo, attraversò il piccolo salotto e corse fino alla porta, scivolando negli ultimi metri. Si schiarì la gola e aprì.

Teddy e Victoire erano in piedi sullo zerbino, sorridenti. 

«Siamo in anticipo, vero?» chiese il primo.

«Abbiamo portato il dolce, zio Harry», esclamò la seconda alzando una busta di carta azzurra.

«Entrate, ragazzi. Bentornati.»

 



Note:

1. Aleksandar Petrović: unico discendente diretto di Mykew Gregorović, il fabbricante di bacchette; personaggio di mia invenzione. 
2. Incantesimo di Localizzazione: non penso esista, quindi l’ho inventato io. 
3. Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Heydon Hall: di mia invenzione.

 

Allora, eccoci qui finalmente con la seconda parte di questo capitolo! Mi spiace avervi fatto aspettare e spero di essermi fatta perdonare almeno un pochino con questo aggiornamento, in anticipo sulla tabella di marcia - lo avevo fissato per giovedì - ma che non potevo più rimandare, visto che lo aspettavate con ansia. Infine, il cerchio si chiude. Veniamo a conoscenza della sorte dei ragazzi, e quello che ne esce “conciato peggio” è per forza di cose James, ma penso gli sia andata anche bene, viste le premesse. 

 

Con questo, vi annuncio ufficialmente che ci sarà un SEQUEL di “Death in the Night”, con protagonista proprio JAMES: contenti? Vi anticipo già che il genere sarà horror - o comunque paranormale, non voglio utilizzare termini a sproposito, così come non mi sono mai permessa di definire questa storia thriller, ormai sapete che sono una con i piedi per terra. In ogni caso, ne leggerete delle belle, promesso 👀 

 

Fatemi sapere ovviamente cosa ne pensate, soprattutto sul POV a sorpresa finale, che vi avevo anticipato nello scorso capitolo. Non ho resistito all’idea di inserire Harry. Infine, vorrei ringraziare di cuore mia sorella Alice Rosier Dolohov per l’aiuto che mi ha preziosamente fornito nella stesura di questa seconda parte, che diversamente non sarebbe uscita così ♥︎ always precious ♥︎

 

Alla prossima settimana con l’epilogo e i ringraziamenti finali, Marti

 

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Capitolo 19
*** EPILOGO ***


EPILOGO

 

 

“Take me to the Lakes 
where all the poets 
went to die.”

 

“Portami ai Laghi
dove tutti i poeti

andarono a morire.” 
Taylor Swift, the lakes

 

 

Lake District, Inghilterra, 5 mesi dopo

«Take me to the Lakes where all the poets went to die

Victoire canticchiava e gli dava le spalle. Era poggiata al bancone della piccola cucina e muoveva la testa a ritmo con la canzone. 

«I don’t belong and, my beloved, neither do you1

Indossava un pesante cardigan bianco dal quale spuntavano le sue belle gambe nude. Teddy sapeva che sotto portava solo la sottoveste che usava come pigiama. Era a piedi scalzi e i capelli biondi le ricadevano sulle spalle come grano al sole. 

«I want auroras and sad prose… I want to watch wisteria grow right over my bare feet… ‘Cause I haven’t moved in years… And I want you right here…»2 

«Ancora questa canzone?» chiese Teddy raggiungendola e cingendole la vita con le braccia. 

«Sempre questa canzone. È la nostra canzone, ricordi?»

«Io ricordo tutto.»

Affondò il viso nel suo collo e aspirò il suo buon profumo di fresco, di mare, di casa. Aveva sempre saputo di oceano, Victoire, l’oceano di Villa Conchiglia, l’oceano calmo delle giornate di sole, e l’oceano in piena tempesta delle notti di pioggia selvaggia che si consumavano nei suoi vortici. 

Lei si voltò nel suo abbraccio e gli sorrise prima di baciargli gli occhi, e il naso, e la labbra. 

«Va’ a sederti fuori, ti porto io la colazione», le disse. 

«Siamo galanti, questa mattina?»

«Solo questa mattina? Mi ferisci, signorina Weasley.»

Victoire rise e lui le pizzicò un fianco da sotto il cardigan. 

«Okay, va bene, quasi sempre. Contento?» si arrese lei.

Teddy annuì. «Sì, molto. Ne andava del mio onore, sa? E ora vada a sedersi, io arrivo subito da lei», aggiunse indicandole la porta-finestra che dava sul portico.

Lei lo baciò sulla guancia mal rasata e uscì saltellando e canticchiando. Teddy sbirciò che si fosse effettivamente seduta sul divanetto in vimini e poi tirò fuori la scatolina rossa dalla tasca del pigiama. La osservò per qualche istante e fece un bel respiro. 

Zia Audrey aveva prestato loro il suo cottage ai Laghi, che era stato dei suoi genitori, così come faceva sempre con tutti quelli della famiglia che avevano voglia di evasione e relax, con il risultato che lei non ci andava mai, ma le stava bene così, diceva che conservava così tanti ricordi della sua infanzia da risultarle troppo doloroso. Teddy e Vic ci andavano spesso, il Lake District era il loro posto preferito, dopo Villa Conchiglia. Prendevano il sole, leggevano, mangiavano e facevano l’amore, e così tutto il giorno, a ripetizione, tutti i giorni. 

Ora tolse l’anello dalla scatolina e lo appoggiò casualmente accanto alla tazza del caffè. Aveva scelto una semplice fascetta in oro bianco con sopra incastonato un diamantino, discreto com’era Victoire, ma prezioso, e bello e luminoso proprio come lei. Roger lo aveva aiutato a sceglierlo e Teddy sperava tanto che le sarebbe piaciuto. E che gli avrebbe detto di sì, soprattutto. La cosa più importante. Aveva immaginato quel preciso momento tante volte, nella sua testa, nelle ultime settimane. Non era riuscito a organizzare nulla durante la loro prima gita ai Laghi subito dopo la conclusione del caso Jenkins, ma aveva pensato a tante di quelle cose, e a tante di quelle proposte… Infine, aveva deciso di puntare sulla semplicità, come aveva sempre fatto con lei, da quando erano bambini e si amavano già senza neanche saperlo. 

Fece un altro respiro e afferrò il vassoio. Uscì e raggiunse Victoire, poggiandolo quindi sul tavolino che divideva il divano sul quale la sua ragazza era accoccolata dalla poltroncina nella quale prese posto lui. 

«Muoio di fame», esclamò lei chinandosi verso il suo piatto. Spiluccò un pezzo di pancake e poi il suo sguardo cadde proprio . Teddy ne seguì la direzione, ché la osservava, quasi senza respirare, teso e pronto a scattare. Avrebbe benissimo potuto mangiarsi le unghie fino all’osso per il nervosismo, ma si trattenne. 

Victoire alzò gli occhi su di lui, ed erano sbarrati, azzurrissimi, bellissimi, carichi di sorpresa e stupore.

«Teddy…?» cominciò, una mano sul petto, mentre spostava lo sguardo dall’anello a lui, e ritorno. «Cosa…?»

Teddy si alzò e si andò a sedere di fronte a lei. Victoire non parlava, si limitava a guardalo, incapace di articolare un suono. Non l’aveva mai vista a corto di parole. 

Poi lui le prese le mani e le strinse tra le sue. Gliele baciò e la guardò negli occhi. 

«Ho pensato a tantissime cose da dire e da fare», cominciò. «Sai bene che non sono bravo in queste cose, anzi, sono una frana.» Victoire sorrise e lui si sentì meglio. «L’unica cosa che so, e che so da sempre, è di volerti stare accanto per tutta la vita, e in qualsiasi vita ci attenda, perché ti amo, ti amo da sempre, e ti amerò per sempre. Per cui, che ne dici di sposare questo matto con i capelli blu? Vuoi?»

Victoire non gli diede quasi il tempo di finire la frase. Gli si avventò addosso e lo abbracciò, gridando un sonoro «SIIIIIIIIII» che probabilmente avevano sentito sin da Londra. 

«Certo che lo voglio», aggiunse guardandolo. «Lo volevo già a cinque anni senza neanche sapere cosa voleva dire matrimonio, l’ho sempre saputo, Teddy. Sempre.»

Allora lui prese l’anello e glielo mise al dito e la baciò, teneramente, e a lungo, con pazienza, così come avrebbe continuato a baciarla teneramente, e a lungo, con pazienza - e ardore e fiducia e passione, tenacia e amore. 

«Non avresti potuto pensare a nulla di più bello», sussurrò Victoire, accovacciata addosso a lui, a cingergli le spalle con un braccio e a spettinargli i capelli. 

Teddy la baciò. «Lo dici solo perché mi ami.»

«E ti sembra poco?»

«Il fatto che mi ami? Affatto, mi sembra troppo

«Nulla è mai troppo, con te, Teddy Lupin. E io non potrei amarti meno di troppo. È fisiologicamente impossibile.»

«Anche io, lo sai, vero?»

Victoire annuì. «Lo so.»

 

 

«Scusate se ci ho messo tanto.»

«Tutto bene, Lils?»

«Pensavo fossi caduta da qualche parte, sorellina.»

«Sei sempre gentile, Al, grazie.»

«Albus, grazie.»

«Al, Al, AL

«Okay, basta, adesso», intervenne James riportando l’ordine. 

Lui e Albus avevano aspettato Lily sotto il loro solito albero all’incirca per mezzora. Avevano finito gli esami e avevano deciso di passare del tempo solo loro tre, a godersi quel bel pomeriggio di sole nel parco della scuola. 

«Cos’è successo?»

«Emma Nott ha appiccato il fuoco agli arazzi del corridoio del quinto piano e ho dovuto fare un giro pazzesco per scendere», cominciò a spiegare Lily, sistemandosi i capelli rossi dietro le orecchie e raddrizzandosi la divisa. Aveva corso fin lì, probabilmente. «L’ha combinata davvero grossa, stavolta, mi sa che la espelleranno.»

«Io quella ragazza la amo», commentò Albus ridendo, tutto fiero. 

«Attento che non ti senta la tua ragazza», rise Lily dandogli una gomitata. 

Albus si scansò e le fece una smorfia. «Non preoccuparti della mia ragazza, pensiamo piuttosto ai tuoi ragazzi.»

Lily alzò gli occhi al cielo. «Non c’è niente da pensare, Albus. Semplicemente non esistono.»

«Ah, sì? Allora perché Rosalie Greengrass mi ha detto che esci con quel cretino con la mono-espressione di Dwight Jones3? E invece Morgan Rosier non si è beccato un pugno solo perché non volevo mettermi ancora più nei guai, ma l’altro giorno si vantava di uscire con te per tutta la Sala Comune, sai quanto è stata dura non picchiarlo?»

«Albus, non esco con nessuno dei due, okay? Sei completamente fuori strada, Rosier è il solito imbecille e Rosalie Greengrass la solita pettegola, perché non escono insieme?»

«Allora con chi esci, sentiamo? So che ti vedi con qualcuno…»

«Esco con Alex Baston, OKAY?» esclamò Lily quasi gridando. Alcuni uccellini si alzarono in volo da un albero lì vicino, stormendo e urlando indignati. 

«Alexander Baston? Quell’Alexander Baston?»

«Quanti ne conosci, scusa?»

James sorrideva tra sé e sé, mentre camminava insieme ai suoi tre fratelli lungo le rive del Lago Nero che, solo qualche mese prima, era stato teatro della tragedia che aveva cambiato - di nuovo - le loro vite, ma ora come ora, sentiva che niente e nessuno avrebbe potuto rovinargli quel pomeriggio, e quel momento, neanche il ricordo di Karl Jenkins. Erano di nuovo tutti insieme dopo mesi complicati e freddi di quel lungo inverno, dopo aver superato mille e più difficoltà e aver affrontato prove durissime. Era fiero di come Albus aveva gestito la cosa, con remissione e pacatezza, in un modo così poco alla-Albus che lo aveva stupito, ma che aveva solo dimostrato quanto fosse maturato. Certo, poi cadeva in fallo davanti alla disarmante prospettiva che la sua sorellina uscisse con i ragazzi, ma in fondo, non sarebbe certo potuto maturare così tanto da accettare una cosa del genere, no? 

«Avresti dovuto continuare a uscire con Lorcan Scamandro, lui sì che è uno a posto.» 

«Che Pluffe, Albus, solo perché è figlio di zia Luna non è che mi deve piacere per forza, no?»

«Certo che no, ma—»

«La volete piantare, voi due?» intervenne James interrompendo un’ulteriore invettiva di suo fratello, le braccia incrociate sul petto e il muso lungo. 

«Ha cominciato Albus», si difese Lily agitando i capelli e alzando le sopracciglia.

«Non mi interessa chi dei due abbia cominciato, sta di fatto che sono stufo di sentirvi ciarlare sempre delle solite cose. Albus», cominciò rivolgendosi al fratello, «Lily può uscire con chi vuole, basta che non sia Morgan Rosier», e Lily fece finta di vomitare. «Lily», continuò James guardandola, e lei tornò seria, «smettila di prendere in giro Albus per Cassandra. Ora sappiamo tutti che ha un cuore, neanche lui può più negarlo, ma farglielo costantemente notare lo rende solo più isterico, siamo intesi?»

«Io non sono isterico!»

«Shhhhh.» James lo guardò male. «A cuccia.»

«Con il nome che porti, dovrei essere io a dirlo a te, James Sirius», esclamò quindi Albus.

Alla fine risero tutti e tre, mentre Lily li prendeva a braccetto, uno per lato, e li conduceva poco più avanti, proprio di fronte al Lago, da dove si vedeva bene il castello, e sedettero tutti e tre sull’erba soffice e verde.

«Ora possiamo fare un discorso serio?» iniziò lei.

James annuì e così fece Albus.

«Jamie, so che non vuoi parlare di cos’è successo con Cait, ma voglio dirti che mi dispiace che sia finita, perché so che ci stai male, ma allo stesso tempo non mi dispiace che sia finita, perché penso che lei non facesse per te, in fondo. Ti serve una ragazza intraprendente e sveglia, non una che passa il suo tempo a frignare.»

«Sai che sono d’accordo con te, sorella?» esclamò Albus. «Non credevo che sarebbe mai potuto succedere…»

Lily alzò gli occhi al cielo e James le sorrise. «Grazie, Lils, per la tua sincerità e il tuo affetto. In fondo, quest’anno non poteva andare peggio di così, no?»

Tra lui e Caitlin, le cose non avevano funzionato. James era uscito dal processo sfinito e senza stimoli, gli avevano tolto il Quidditch, una delle cose più importanti della sua vita, e si era sentito vuoto, senza più voglia di fare e di imparare. Aveva studiato per inerzia, solo perché non avrebbe mai potuto deludere i suoi genitori più di così, fallendo anche in quello, e si era impegnato anima e corpo per prendere dei M.A.G.O. decenti. Sperava con tutto il cuore di aver fatto bene, in modo da uscire da Hogwarts con almeno un buon curriculum accademico. La sua vita sarebbe rimasta in stand-by per un anno, che avrebbe trascorso a lavorare all’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Heydon Hall, e aveva imparato ad accettare la sua sorte e ciò che era stato deciso per lui, e nel corso di quell’anno avrebbe dovuto aspettare con pazienza, sperando, alla fine, che ci fosse ancora una chance per lui, là fuori. C’erano giorni in cui ci credeva, e altri in cui vedeva tutto nero, e cercava di compensare quei giorni neri pensando a ciò che lo rendeva felice, ai suoi amici e i suoi cugini e ai suoi fratelli. La preside McGranitt gli aveva concesso di assistere agli allenamenti di Quidditch, nonostante non potesse giocare e il ruolo di Capitano fosse stato assegnato al cugino Louis - e James pensava che nessun altro lo avrebbe meritato più di lui. Viveva per quei pomeriggi trascorsi sulle tribune, a spronare ciò che era rimasto della sua squadra, che era stata smembrata e ricostruita. Il suo posto come Cercatore era stato preso da sua sorella Lily, che durante la partita contro Tassorosso se l’era anche cavata bene, ma il Cercatore avversario era stato più bravo e più veloce e aveva acchiappato il Boccino d’Oro prima di lei. Durante l’ultima di campionato, contro Corvonero, aveva battuto sul tempo lo scattante Lysander Scamandro, ma non era servito a vincere il campionato, e la coppa del Quidditch era andata a Serpeverde. Rose era stata sostituita da Lorcan Scamandro, che si era rivelato un ottimo Cacciatore, nonostante i suoi tentativi come Battitore, e James sperava che sarebbe rimasto in squadra in quell’inaspettato ruolo anche il prossimo anno. Roxanne invece era stata rimpiazzata da Hugo, che si era buttato nella mischia dei provini e aveva sbaragliato tutti i suoi avversari, tra i quali una Polly Chapman piuttosto contrariata e inviperita. James aveva esultato per il cugino con ancora maggior vigore solo per darle fastidio. Gli faceva male al cuore vedere la sua squadra così in difficoltà, poco amalgamata (vista la brevità con la quale era successo tutto) e palesemente inferiore rispetto alle altre, composte da giocatori ben rodati e con schemi di gioco ben precisi, consolidati negli anni. Louis però aveva fatto del suo meglio ed erano comunque arrivati terzi, dietro Serpeverde e Corvonero, quindi non era andata poi così male. «Almeno non siamo arrivati ultimi», aveva commentato Lily, funerea. 

In tutto questo, con Caitlin qualcosa si era rotto. La ragazza era uscita dal processo in uno stato precario, scossa e psicologicamente a pezzi. James le era stato molto vicino, nelle settimane che erano seguite, trovando la forza necessaria per infonderle speranza e coraggio, insistendo che ormai era tutto finito, che si erano lasciati tutto alle spalle e che avrebbero potuto riprendere in mano le loro vite, ma non era servito a consolarla. Sembrava quasi che Caitlin stesse meglio quando non era con lui, e vederla ridere in compagnia di Michael McLaggen, un pomeriggio in Sala Comune, era stato troppo. Con lui non faceva che piangersi addosso e lamentarsi che la sua vita era stata distrutta, e poi con gli altri rideva e sorrideva e scherzava? No, James non aveva potuto accettarlo. E così avevano discusso furiosamente, si erano gridati addosso tutto ciò che non si erano detti in quelle settimane, ed era finita lì, rapidamente e senza neanche una porta sbattuta. Al momento, James non sapeva come si sentiva. A volte si sentiva svuotato, ché quello che aveva provato per Cait era stato forte e vivido e totalizzante, e credeva di non aver mai provato niente di simile per nessun’altra, prima. Altre volte si sentiva solo sollevato, sollevato all’idea di non doverle più tenere la mano, di non dover trascorrere le notti con lei aggrappata al suo braccio, di non dover sempre giustificare le sue mosse e le sue decisioni, «scusa, Cait, sono stato giù al campo», «mi spiace se ci ho messo tanto, ma c’erano gli allenamenti», «sì, certo, dico ad Alex e Louis che non riesco a raggiungerli e stiamo un po’ insieme noi due». Louis gli aveva detto, molto saggiamente (cosa strana, da parte sua), che forse quella non era la giusta relazione per lui, che forse Caitlin non era Lei. Lucy invece gli aveva detto candidamente che secondo lei la Finnigan aveva scambiato James per il suo psicologo. «Severa ma giusta», aveva detto Louis stringendosi nelle spalle. Rose, infine, una sera in Sala Comune in cui lo aveva beccato da solo davanti al fuoco, ché nessuno dei due riusciva a dormire, dopo che lui si era sfogato con lei, gli aveva detto che era normale, era tutto normalissimo, e che forse entrambi meritavano cose diverse - persone diverse. James aveva accettato tutto e aveva capito che semplicemente non era il momento, e forse non lo sarebbe stato mai, o forse quel momento sarebbe arrivato in futuro, non lo sapeva, e nemmeno gli interessava saperlo. Era finita, e basta. Lo aveva accettato ed era pronto ad andare avanti, fuori da lì e nel futuro che lo aspettava, nel bene e nel male. 

La cosa più importante per lui era aver ritrovato la serenità con i suoi genitori, sapere di non aver perso il loro affetto e la loro stima, essere conscio di poter sempre contare su di loro, per qualsiasi cosa. E avere di nuovo accanto i suoi fratelli, dopo tutto ciò che era successo, era qualcosa che lo faceva sentire a posto con il mondo, finalmente nella sua giusta dimensione. Sentirli battibeccare era oro per le sue orecchie e si rese conto che avevano ricominciato e che a nulla sarebbero valsi i suoi rimbrotti. Erano troppo simili per non discutere sempre di tutto, quei due. Li sarebbero mancati da morire, l’anno prossimo. 

«Quindi la difendi? La difendi nonostante tutto ciò che ha combinato in questi anni? Un’altra sarebbe già stata espulsa, ma lei è la cocca della Simson, quindi…» protestò Lily, le braccia conserte. «La difendi solo perché è una Serpeverde…»

«Questo non è vero, Pucey e Rosier mica li difendo quando si comportano da coglioni, eppure sono Serpeverde», replicò Albus inarcando le sopracciglia, sfoggiando la sua solita faccia da culo. «La difendo perché secondo me è geniale, ma deduco che sia un tipo di genialità così sottile da non poter essere interpretata, né tantomeno apprezzata dai più. E poi a te Emma sta sulle Pluffe a prescindere.»

«Questa è una calunnia, non mi sta sulle Pluffe a prescindere, per chi mi hai preso?»

«Si può sapere perché state discutendo, ora?» si intromise James, confuso.

«Lui difende la Nott e le sue azioni da vandala, io ovviamente no, e quindi discutiamo», spiegò Lily, pragmatica. 

Albus alzò gli occhi al cielo. 

«Comunque penso proprio che verrà espulsa, questa volta, sì sì», continuò sua sorella annuendo. «Forse la spediranno a Heydon Hall, Jamie. Ci pensi?»

«Emma Nott? A Heydon Hall?» esclamò lui grattandosi una guancia. «Per Godric e tutti i fondatori, ci manca solo questa!»

 

 

TO BE CONTINUED…


 



Note:

1. I don’t belong and, my beloved, neither do you: non appartengo e, mio amato, neanche tu; © Taylor Swift, the lakes. 
2. I want auroras and sad prose / I want to watch wisteria grow right over my bare feet / ‘Cause I haven’t moved in years / And I want you right here: voglio aurore e triste prosa / voglio guardare il glicine crescere proprio sui miei piedi nudi / ché non mi sono mossa per anni / e ti voglio proprio qui; © Taylor Swift, the lakes. 
3. Dwight Jones: Serpeverde del quinto anno; personaggio di mia invenzione.

 

Ebbene, mi sembra di aver capito che siamo giunti alla fine di quest’avventura, giusto? Chi lo avrebbe mai detto! Dovete sapere che è la prima volta che concludo una long qui su Efp: nel mio (torbido) passato ho sempre iniziato “cose” che poi non ho mai portato avanti, e tantomeno finito. Cos’è cambiato? Sinceramente non lo so, di preciso. Forse sono invecchiata (ahimè) e questa “vecchiaia” mi ha portato a impegnarmi maggiormente e a rispettare l’impegno preso con voi lettori. Forse l’affetto che avete riservato a questa storia - e ai suoi protagonisti - ha contribuito a darmi la giusta spinta per arrivare al fondo. Quale che sia la ragione precisa, ci sono arrivata e non sapete quanto sia contenta di tutto ciò! 

 

A proposito, vorrei ringraziare tutti voi lettori, silenziosi e non, che in tutti questi mesi (precisamente dal 22/O5) hanno seguito, letto, amato e recensito questa storia, che segna anche un mio piccolo traguardo personale: essere riuscita a scrivere una storia thriller - voi continuate a definirla tale, nonostante a me sembri una bestemmia, ma per una volta mi voglio fidare. Vorrei ringraziare, ultime ma non meno importanti, anche tutte le amiche di Facebook che mi hanno supportata (e sopportata; e sopportato Albus, anche) in questo viaggio stupendo. 

 

Ovviamente, credete che ora me ne starò buona buona e mi prenderò una pausa? Neanche per idea. Sono già al lavoro da giorni sul sequel, che vi ho annunciato nelle note allo scorso capitolo, e vi dico anche che ho già scritto il prologo che, per buttare alle ortiche la modestia, oserei definire una bomba. Quindi mi raccomando, tenete d’occhio il mio profilo (vi consiglio di aggiungermi, se vi va, agli autori preferiti, in modo da tenere monitorati i miei aggiornamenti) perché il sequel potrebbe arrivare prima di quanto crediate. E vi ricordo che potete trovare i collegamenti social sulla mia pagina autrice, per chi volesse ricevere spoiler, anticipazioni e retroscena su tutte le mie storie. Intanto, se vi va di approfondire il rapporto tra Roger e Prudence, vi lascio qui Magic in the Sunrise, dal quale è nata una raccolta sulla coppia ♥︎

 

Concludo queste note eterne ringraziando in modo particolare mia sorella, che quotidianamente sopporta le scenate di Albus, mi aiuta con il plottaggio e revisiona i capitoli appena scritti: è una risorsa preziosa senza la quale, lo ammetto candidamente, “Death in the Night” non avrebbe mai visto la luce ♥︎ 

 

Non vi posso dire “alla prossima settimana” e un po’ mi viene il magone, ma vi dico solo

a presto, Marti (se volete, vi aspetto qui)

EDIT: potete trovare il sequel qui: THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

 

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