Un visionario in fuga

di TDwriter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Parte prima

Prologo

S'infilò sotto le lenzuola leggere verso le otto di sera, la luce soffusa. Spense anche la piccola lampadina sul comodino e poi, sempre nel buio, allungò una mano verso l'ultimo cassetto, prese una penna e un quaderno e lo aprì sulla prima pagina della sera precedente. Fece scorrere lentamente le dita sulle linee in rilievo, correggendole dove ritenne opportuno farlo. Finito di revisionare il tutto, andò su una pagina nuova, ancora liscia, ed iniziò a tracciare segni ordinati nel buio.

Aveva imparato a svolgere numerose azioni in mancanza di luce tempo prima, ma non a causa di una malattia agli occhi, né di quella che sarebbe stata l'assurda volontà di sentirsi diverso. Adorava a suo modo il tepore del Sole, il modo in cui la sua luce si rifletteva sulle strade facendole sembrare assonnate, o piene di vita, o malinconiche. Ma adorava anche lavarsi al buio, immergersi in quella vasca che avvertiva come un grande grembo di porcellana.

La prima volta che sua madre, tornata prima da chissà quale maledetto impegno, lo aveva trovato così, immerso a galleggiare nell'oscurità e nell'acqua rosea di sali, si era messa ad urlare, pensando al peggio e correndo a tirar su la tapparella e ad aprire la persiana, per poi assestargli due schiaffi per guancia appena accortasi del fatto che era perfettamente in salute, in qualche modo. Proprio lei che non lo aveva mai colpito, che non gli aveva mai chiesto spiegazioni, limitandosi a poche frasi di circostanza prima di andare a far luce nel resto dell'appartamento e a dar da mangiare agli animali.

Sarà stato il fatto che sua madre amava non solo la vita, ma tutto ciò che le è tradizionalmente associato. L'aveva osservata abbastanza a lungo, di sfuggita, in accappatoio, mentre era circondata da tutto quel gioire di versi: cani, gatti, pesci, tartarughe e pappagalli, tutti rigorosamente in coppia “perché non si sentano soli” e per venderne i cuccioli ogni anno. E in disparte, ma come in mezzo a tutti quei versi e a quei colori, si era sentito estraneo così come gli era sempre capitato a pranzi in compagnia. Non perché non pieno a sua volta di vita, ma perché amante della semplicità delle cose.

Da allora era dovuto diventare molto più cauto: limitandosi a creare il buio in una sola stanza per volta, e non in tutta la casa, ad esempio; tornando tardi le sere festive, rimanendo solo a camminare per le vie; e andando per anni a letto presto d'inverno, per ricavarsi degli spazi anche solo d'ombra.

Quella sera però, nonostante fosse appena l'ultimo di agosto, aveva deciso di andare a coricarsi prima, dato che il giorno dopo sarebbe partito. Un mese ad Icaria, in Grecia, nell'Egeo centro orientale. Questa almeno, era la versione ufficiale, ma in realtà non aveva ancora deciso quanto sarebbe rimasto, ma sarebbe stato molto più a lungo. Avrebbe informato tutti all'ultimo, dopo averli progressivamente abituati alla sua assenza e ponendoli di fronte al fatto compiuto, per non darsi la possibilità di tornare indietro. Per cominciare aveva tutto il necessario: una serie di riviste Young Adults che pubblicavano abbastanza spesso i suoi lavori, che a quanto pare funzionavano con i ragazzini; e soldi da parte per abbastanza tempo, guadagnati in quell'anno sabbatico dove aveva svolto tutti i lavori che aveva avuto la possibilità di svolgere, arrivando a riposarsi solo cinque ore al giorno, o nel fine settimana.

I suoi erano stati entusiasti di questo suo frenetico darsi da fare dopo gli studi e non si erano posti domande. Lo avrebbero fatto, certo, si sarebbero disperati, ma non avrebbero potuto riportarlo indietro da maggiorenne, anche perché non aveva comunicato a nessuno le sue vere intenzioni, né la sua vera destinazione. Irene, l'unica vera amica che gli era rimasta, l'aveva salutata la settimana prima, a modo suo. Forse avrebbe mantenuto i contatti col fratello Marco e con lei, dopo aver lasciato sbollire loro il tutto. L'avrebbero perdonato.

La cosa che però più lo infastidiva, forse l'unica, era il fatto che nessuno, nemmeno loro, avrebbe capito. Si sarebbero tutti affannati nel cercare di riportarlo indietro, anche i suoi vecchi amici, e le idee avrebbero iniziato a guizzare e dibattersi nel buio delle loro teste prima tanto certe di chi fosse. Le prime accuse, come in un immaginario tribunale mentale, sarebbero ricadute sui suoi genitori, banali impiegati statali accusati di aver alimentato chissà quale complesso proprio a causa della loro ordinarietà; poi sarebbe stato il turno di tutta la sua cerchia di parenti, amici e conoscenti, colpevoli di non aver fatto abbastanza per trattenerlo da quella mancanza di quiete e stabilità; Irene, per non avergli offerto tutte le tenerezze che si crede una donna debba sempre offrire a prescindere dal ruolo e dal contesto; Marco, per chissà quale sciocchezza risalente ad anni prima. E tutti, tutti, avrebbero cercato di ricondurre il suo gesto ad una volontà folle e cieca di recidere le proprie radici, per fuggire. Non sapevano che lui non aveva mai avuto bisogno di recidere nulla, per prescindere da quel passato che gli altri si ostinavano a interpretare di volta in volta; e non sapevano che non aveva mai voluto fuggire dalla sua vera identità, ma semplicemente affermare quella che aveva, seppur temporaneamente, seppur in maniera brusca.

Ma in fondo non importava, i bagagli erano pronti. Aveva venduto tutti i beni superflui, per acquistarne di più pratici, come l'ebook, o alcuni vestiti, riuscendo a contenere parte della sua vita in una valigia, uno zaino e una sacca. Avrebbe comprato il necessario per pescare lì, assieme a qualche cartolina da spedire più in là.

Così, Alessandro Lombardi, da moderno Mattia Pascal qual era e si sentiva, ripose il quaderno e la biro nello zaino, si ricoricò e, nel buio, si addormentò.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I


Andarsene, partire, non tornare mai più, o almeno per un po'. No, non tornare mai più e basta. Non tornare mai più. Addio, Adieu, Aufidersen, Hasta la vista e cose del genere, come recitava un vecchio racconto che aveva letto anni prima. Lui però, a differenza del protagonista, non aveva un passato tragico, né l'intenzione di suicidarsi, e forse nemmeno quella di tornare indietro. Cominciò a ripetersi la cosa in testa, come un mantra silenziosamente assordante: non tornare mai più ricontrollando i bagagli e le ultime cose; non tornare mai più sgattaiolando via di casa, al buio, mentre uno dei gatti rientrava; non tornare mai più sulla panchina, in autobus, in treno, al check-in e pure in bagno; non tornare mai più.

Entrò in quel volo low-cost, assieme ad una donna già abbronzata tanto simile ad Irene, con le maniche bianche a sbuffo e le vene bluastre così in risalto tra quei due colori. Gli sarebbe mancata? Si, ma decise che non si sarebbe potuto concedere di pensare alla sua vecchia vita per almeno un mese, o avrebbe rischiato di somigliare più al figlio al prodigo. Guardò fuori dal finestrino, nonostante da vedere ci fosse solo l'asfalto della pista rischiarato appena dalla luce del Sole, ascoltò le indicazioni di viaggio, evitò di comprare dieci Gratta e Vinci al prezzo di nove e, finalmente, partì.

Atterrò circa tre ore dopo, ad Atene, e quasi non se ne accorse. Fu Irene a svegliarlo, o meglio, la donna che gli somigliava tanto. Trasalì, affrettandosi a recuperare il tutto mentre cercava di svegliarsi, i pensieri ancora confusi e come impastati tra loro. Non tornare mai più, prendere il treno e il traghetto e finalmente arrivare, non tornare mai più, un bel monolocale, la spiaggia a pochi passi dove andare a pescare, solo trenta euro a notte e non tornare mai più. Quanto sarebbe stato bello se una volta sceso dall'aereo avesse avuto la possibilità di consultare un oracolo, oltre a quella di acquistare bottigliette d'acqua a tre euro l'una?

Si risvegliò non appena sceso dall'aereo, si riaddormentò sul treno, si risvegliò anche qui alla fermata ed infine si destò del tutto in mezzo alla calca della fila per il battello a vapore. Osservò la schiera di anziani a prendere il Sole in piedi, immersi per metà nell'acqua, i larghi cappelli di paglia calati sulla fronte. Rimasero lì, poté vederli come rimpicciolire mentre il battello si allontanava lentamente, sempre in quella posizione, quasi fossero degli strani animali acquatici ormai avvizziti dal Sole. Invecchiare in mezzo a loro, ma senza di loro, non tornare mai più.

 

Alla fine dovette comportarsi come un normale turista, a discapito dell'amore per la solitudine che tanto sembrava essere aumentato in lui mentre era ancora stordito. Acquistò del cibo in scatola e tutto il necessario per pescare esprimendosi in inglese e a gesti, poi si diresse fuori dal centro a piedi, seppur sotto il Sole rovente (necessità di risparmiare sul minimo) per incontrare l'affittuario e prendere le chiavi del monolocale. Si erano accordati per un mese, almeno temporaneamente.

Il locale, completamente bianco, aveva la stanza da bagno nella zona ingresso, assieme ad un piccolo mobiletto in legno e un appendiabiti; entrando c'era poi l'angolo cottura, con il tavolino e due sedie pieghevoli; infine, il divano letto eventualmente apribile e una poltroncina, separati dal resto attraverso una mezza parete semi scavata in cui era stato ricavato lo spazio per incastrarci un piccolo armadio a muro e delle mensole ampiamente fornite di libri; di fronte, a rischiarare l'intera stanza, una grande finestra.

Altri convenevoli in inglese e poi poté chiudere la porta, la persiana, la tapparella e la finestra. Solo, al buio, solo i rumori del mare in quella pensioncina tranquilla. Si buttò sotto la doccia, naturalmente per la vasca non c'era spazio, ma la cosa gli sarebbe bastata. Infine si coricò a letto, gettandosi sopra le coperte con ancora l'accappatoio indosso.


Note dell'autrice:
Il racconto a cui il protagonista si riferisce all'inizio del capitolo è in realtà Aufidersen, Hasta la vista e cose del genere, tratto da Raccolta di racconti raffazzonati, ruspanti ed accidentalmente riflessivi di GenGhis su efp. Uno dei primi testi che lessi anni fa su questo sito, a mio parere ancora uno dei migliori.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II

Un mese era passato e Alessandro aveva avuto tutto il tempo necessario per crearsi una nuova routine. Si svegliava per andare a pescare la sera, rientrava verso l'alba, dormiva fino a pomeriggio, si alzava per mangiare, leggere e scrivere quanto e come non aveva mai fatto prima e poi dormiva ancora un po' prima di svegliarsi la sera presto. Le sue spese si limitavano all'affitto, qualche salto al Market e al negozio di pesca. Aveva studiato greco antico al liceo e sentiva di star imparando anche quello moderno, grazie alla libreria ben assortita e ad una radiolina che aveva ripescato nel mobiletto. Aveva parlato sporadicamente con gli altri via Skipe, ma presto si sarebbe reso reperibile solo via mail.

Guardò il telefono, quattro messaggi: una mail da una delle riviste, un SMS da sua madre (“Torna presto amore, ci manchi tanto!”), dei meme da suo fratello e un messaggio da Irene (“Ei, come va? Tuo fratello mi ha detto che sei partito”). Inspirò profondamente, poi aprì la rubrica e iniziò a chiamare tutti i posti in cui lavorava - eccezion fatta che per le riviste - e si licenziò. Fatto ciò, aveva ancora diverse possibilità di tornare indietro, ma decise di agire subito, per azzerarle, almeno in parte. Rispose all'ultimo dei messaggi: “Irene, scusami, scusami davvero se non ti ho detto nulla, ma...ho già organizzato tutto, non torno, almeno fino a data da destinarsi. Non è uno scherzo e non sono impazzito, ho avuto bisogno di andarmene e basta. In fondo mi è sempre piaciuto stare solo, vivere di poco e di nulla, nel Sottosuolo. Non so se capirai, ma di sicuro lo accetterai. Ti prego non cercarmi, non voglio tornare indietro”. Inviò. Un minuto appena e il telefono squillò. Rifiutò la chiamata. Un messaggio: “Sei cretino?Che stai dicendo? E io cosa dovrei dire ai tuoi?”. Tre domande legittime. Spense l'apparecchio, si alzò, aprì appena la finestra per far entrare un po' d'aria, riordinò la sua nuova casa, si fece una doccia e, una volta tramontato il Sole, andò a pescare.



Note dell'autrice:
Pubblico oggi uno dei passaggi narrativi che più mi ha dato da pensare, e che quasi sicuramente in futuro revisionerò ancora. Una parte breve, ma in cui gli altri personaggi scoprono ciò che noi sapevamo già.

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III

Le settimane successive non furono facili. Non perché Alessandro non fosse realmente convinto, ma per le mail che ricevette, come richieste da un' altra dimensione. A quanto pare non c'era nessuno che si sognasse di rispettare davvero la sua scelta, qualcuno che gli dicesse qualcosa del tipo: “Ok, non ti capisco, ma lo accetto, buona vita, puoi tornare quando vuoi”. E tutti, ma tutti, si erano imposti di capire il perché.

Ma alla fine anche gennaio era passato, tra l'incredulità generale. Era andato sino ad Atene per Natale, in mezzo ai turisti, che sarebbero aumentati nel periodo estivo. Aveva visto i mercatini, le lucine sulle palme e su un grande pino e tutto il Partenone illuminato. Avrebbe voluto spedire qualche regalo, ma alla fine si limitò a delle brevi mail per Irene e Marco. Ritornò ad Atene per il Capodanno, si ubriacò con poco e niente senza nemmeno volerlo (non era mai stato un grande bevitore) e pensò a come sarebbe stato bello spingersi almeno fino in Sicilia, o tornare ma senza avvertire nessuno, magari trasferendosi in qualche paesino padovano. Riuscì in qualche modo a prenotare una stanza d'albergo dove far passare la notte e la sbronza. Vomitò. Per l'anno nuovo tornò ad Icaria e per gli inizi di febbraio si concesse di prepararsi una pizza, era comunque il suo compleanno: ventitre. “Ho fatto un Pollock!” proclamò a se stesso, in greco, senza nemmeno accorgersene, mentre gettava la mozzarella a casaccio sull'impasto steso col sugo. “Pollock era degli USA!” ribatté l'inquilino del piano di sopra. Dovevano essersi entrambi concessi due bicchieri, di nuovo.

E anche marzo arrivò. Ormai stava imparando la lingua, per l'estate avrebbe potuto trovarsi un impiego come barista, per ora si era limitato ad accettare quello che gli proponevano. Forse in futuro si sarebbe ritrasferito davvero. Riflettendo su ciò, apri il quaderno sulla pagina della sera precedente: “Pagare l'affitto, scongelare il pesce, terminare il racconto” più tutta una serie di considerazioni sulle scelte prese. Aprì il portatile e selezionò il documento di qualche giorno prima, intitolato: “Irene”. Avrebbe cambiato il nome successivamente, sapeva di non poterlo tenere, ma aveva paradossalmente bisogno di richiamarsi alle sue vecchie origini per non tornare ad esse. E aveva bisogno di mettere nero su bianco il modo in cui si erano salutati, seppur in maniera romanzata, seppur guadagnandoci. Iniziò a rileggere il racconto.

«Uscendo di casa al mattino, nella periferia cittadina, la prima luce visibile è quella al neon del discount: rosso fluo, undici caratteri cubitali racchiusi all'esatto centro di un cerchio perfetto. La scritta “Mini Market” troneggia sull'edificio. Sostituisce le albe degli operai al mattino, ma mai i loro tramonti alla sera: il negozio è aperto ventiquattro ore su ventiquattro. È come un piccolo Sole fisso, perennemente attivo, ma con raggi deboli.

Io ci passo davanti tutti i giorni, andando e tornando dal lavoro. Conto le undici lettere. Sono sempre lì, posso andare dove devo andare senza che il mondo mi cada addosso. Non che io debba andare in chissà quali posti. Sono un operaio anch'io e lavoro al discount, faccio i turni la notte e la cosa non mi dispiace, ho la mattinata per dormire e il pomeriggio per vivere. Ho una laurea, ma la cosa non m'importa più. A volte scarabocchio qualcosa tornato dal lavoro: inezie, inezie, inezie su inezie prese, sdoppiate e deformate, in un' accozzaglia di elementi ripetuti di volta in volta in maniera differente. Roba che messa insieme da vita a delle brevi storielle con cui riesco ad arrotondare, quando me le pubblicano sulle riviste».

Troppo crudo? Troppo autobiografico? Non necessariamente, avrebbe potuto tagliare la parte sullo studio, o sostituire lo scrivere con il disegnare. E anche se fosse, era a chilometri da tutta quella gente.

«Spesso seguono complimenti stupiti da parte dei miei conoscenti: gente che non capisce come qualsiasi persona con un livello medio alto d'istruzione potrebbe potenzialmente fare quello che faccio io, e che essere un genio è un' altra cosa; gente che mi chiede in maniera sfacciatamente cordiale e inopportuna perché non riprendo studiare.

Perché? Abbozzo un sorriso e butto lì un paio di frasi di circostanza. Non lo voglio sapere il perché. Perché a ventun anni ho smesso e mi sono rifugiato in periferia, fresco di triennale e con tante opportunità di fronte. Non lo voglio sapere. Alla fine sono solo un uomo medio, che ha avuto la fortuna di nascere in un periodo storico e in un punto geografico connotati da una caratteristica ben precisa: la libertà. Non dovrei lamentarmi, e in un certo senso non mi è concesso farlo. Ma posso far sì che il mio tempo libero sia incanalato in attività ricreative: aperitivi, happy hours, brunch. E stasera è sabato e io come un occidentale viziato uscirò con una delle poche persone che mi sono rimaste accanto».

Ok, qui forse stava esagerando. Dare dei cretini ai consumatori, seppur tacitamente. Non sarebbe piaciuto, considerando che molti di loro probabilmente l'aperitivo lo facevano davvero. Decise di sostituire “ricreative” con “stabilite dalla società” (critica meno graffiante, anche se più esplicita) e di eliminare gli esempi dopo i due punti, oltre a quel “occidentale viziato” che tanto non sarebbe stato colto. Procedette poi con una di quelle parti che tanto facevano scalpore.

«Ho bevuto. Ho bevuto e mi appoggio al sedile del passeggero, stordito da tutta quell'atmosfera consumista, da tutto quel vociare e da tutte quelle lucine. E dall'alcol. Appoggio una mano sulla coscia di Irene. Volto la testa e vedo scorrermi davanti tutto il lungo lago illuminato, tutto l'asfalto illuminato. Ho bevuto, e come sempre mi sembra che al mondo non vi possa essere persona veramente sola, che alla fine siamo tutti interconnessi nel profondo, che si tratta semplicemente di voler fare una scelta, la scelta giusta. Parte di me riesce ancora a razionalizzare quanto questo non sia vero, ma non importa.

“Parcheggia” le dico

“Non siamo ancora arrivati” mi fa, continuando a guardare la strada

“Lo so, parcheggia” le ordino quasi. Frena.

“Stai male?” chiede voltandosi

“No, volevo solo fare due passi” le dico. Non mi risponde, sospira e poi accosta in un angolo. Scendiamo dalla macchina e dopo pochi metri e quasi un paio di cadute sulla piccola scalinata riusciamo ad arrivare alla spiaggetta. Ci sediamo sui ciottoli bianchi, stendo le gambe. L'acqua mi bagna tutte le scarpe. Non ritiro i piedi. Sono un cretino.

“Tutto bene?”. La voce le esce sottile sottile, come se stesse tentando di entrare nella mia testa in punta di piedi, per paura che le chiuda la porta in faccia.

“Si”. Ho le scarpe fradice

“Cos'hai?” chiede ancora, sforzandosi come se si stesse strozzando per dirlo

“Non lo so”. Non è vero che non lo so. Penso al fatto che mi sto trasformando nel Professor Sabato di Pirandello. Un uomo colto e sbronzo, ubriaco per dimenticare di essere un qualcosa di piccolo e meschino tra cose che paiono piccole e meschine, in confronto allo splendore delle stelle. Ma non voglio dirglielo, non posso. Spiegarle Pirandello sarebbe come dirle tutto e dirle niente».

Si fermò. La rivista era per Young Adults, ossia per giovani dai 13 ai 18 anni. Avrebbe potuto rischiare di perdersi una buona fetta di consumatori, o la pseudo spiegazione sarebbe stata sufficiente? Pirandello si studiava ancora alle medie? Cercò i programmi ministeriali su internet, non senza un po' di nostalgia. Si, l'argomento si studiava ancora e la spiegazioncina, condita con tutta l'atmosfera da alcolisti anonimi, sarebbe bastata.

«“Secondo te che cos'ho?” chiedo semplicemente

“Posso dirtelo?” risponde più decisa

Annuisco. Alle persone piace darsi delle risposte da sole.

“Io credo che tu sia così tanto concentrato su ciò che risplende, da perderti la bellezza nella mediocrità”

“Non è vero” affermo con la voce impastata

“Si che è vero” continua

“No, non è vero” ribadisco biascicando, infastidito

“Lo è, lo sai che lo è” afferma nuovamente

“Perché dovrebbe?” non mi guarda nemmeno, tiene le gambe rannicchiate vicino al petto e le mani poggiate con forza contro i ciottoli.

“Perché hai tante opportunità di fronte a te e non hai nemmeno il coraggio di sceglierne una. Hai paura di determinarti, come se questo potesse limitare la tua presunta originalità. E poi vai ad omologarti come tutti gli altri, credendoti poetico solo per il modo in cui lo fai!”

Sta quasi urlando, ma non mi ha chiesto perché. Trema appena.

“Scusa” aggiunge poco dopo

“No, hai ragione. È che sono cose forti” mi affretto a rassicurarla

“Non credo siano forti, almeno non così tanto. Sono solo una parte di te poco accudita” dice torcendosi i polsi. Ha ragione, di nuovo.

La guardo, Irene. Irene che oggi si è alzata alle cinque di mattina, Irene che ha solo uno straccio di diploma, Irene che è dovuta crescere troppo in fretta, non riuscendo mai a crescere davvero. Ma anche Irene che è ancora qui per me all'una di notte, Irene che si porta sempre dietro un libro, Irene che forse vive con più tenacia di chi è uscito da una famiglia felice. Irene, stereotipo della generazione post sessantottina.

Credo di doverle molto, vorrei dirglielo al meglio. Sto zitto. Sono laureato e sto zitto. Tanto bravo nel parlare, quando si tratta delle parole di altri, quando posso esprimermi per metafore; altrettanto incapace quando si tratta di confrontarsi con ciò che provo davvero, con le cose spogliate del loro involucro: nude, crude, scottanti. “Il mio cuore messo a nudo” avrebbe detto Baudelaire. Ecco, appunto: metafore, riferimenti.

Sento una mano afferrarmi il polso, delicatamente decisa.

“Vuoi andare a casa?” è stanca, palesemente stanca, in tutti i sensi. Adesso sta davvero tremando, seduta sui ciottoli bianchi, sotto un immenso cielo di stelle piccole e meschine. Ritiro le gambe ormai ghiacciate e mi sollevo barcollando da terra, guardandola.

“Vorrei tornare a studiare”.

Non c'era nulla di più vero e di più falso assieme».

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

Il racconto, così accidentalmente riflessivo, era piaciuto e l'avevano pagato cinquanta euro. Mai successo. Evidentemente il tutto aveva fatto sentire i giovani clienti trasgressivi e sensibili assieme.

Il commento di un altro dei suoi colleghi, uno con cui aveva parlato qualche volta, un disegnatore, era arrivato appena due giorni dopo dall'Italia, via mail: “Non offenderti, ma sei un genio! Questa è l'illustrazione che ho realizzato per i due personaggi”. Scaricò il documento, trovandosi di fronte alle versioni pixelate di quei due alter ego: lui alto, moro, dai tratti squadrati, una sigaretta tra le dita; lei più minuta, più morbida, più pallida, una cascata di capelli a far da pendant con i gioielli dorati. Sotto i nomi in un corsivo svolazzante: Cristian e Giulia. Rise, pensando ai propri tratti gracili, al proprio odio per il fumo, e alla pelle caramellata di lei, e alla sua avversione per i gioielli. Gli mancava Irene? Si, più di quanto aveva previsto. Lui mancava a lei? Sicuramente, anche di più. Lo dimostravano la sfilza di “cretino” che arrivava puntualmente via mail. Avrebbe letto il racconto, spesso comprava quelle assurde e sdolcinate riviste tutte trend e brillantini solo per quello. Avrebbe anche capito la dedica. Avrebbe mai cercato di raggiungerlo? No, non erano in un racconto, e se fossero stati in uno dei suoi gli sarebbe andata male comunque. A volte gli sarebbe piaciuto averla lì, uscire a pescare di prima mattina e ritrovarsela sulla sabbia fine, o aprirle la porta la sera per cenare con lei al buio. Ma era comunque un pezzo dell'altra vita, un corpo da considerarsi morto, o in un'altra dimensione baciata dalla luce del Sole. Sarebbero invecchiati fino a dimenticarsi e in fondo andava bene così. Andare, partire, non tornare mai più.

Verso giugno trovò lavoro in un locale, come addetto alle pulizie, e iniziò a spedire i suoi scritti a molte più riviste. Avrebbe lavorato tutta l'estate e poi forse si sarebbe ritrasferito. Incontrò delle giovani turiste italiane, già abbronzate, più affascinate dalla sua storia che da lui. Alcune non gli credettero, altre se le portò in camera, era pur sempre un uomo. Praticamente tutte si limitavano a sgattaiolare via prima che si svegliasse, pochissime gli lasciavano un bracciale o simili in camera. Rivendette quel piccolo tesoro. Una delle ultime (Alice, forse?) si alzò per prima, spalancò la finestra e si mise a preparare la colazione. Lui finse di dormire, ma a quella non bastò, perciò s'infilò sotto la doccia, al buio. Quella accese le luci ed entrò nella cabina. Alla fine la cacciò via, niente braccialetto, peccato.

Ormai si sentiva come più vivo, ma svuotato: un randagio annoiato. E spesso e volentieri, turiste o meno, non poté fare a meno di pensare ad un' altra donna.

Infine, verso l'avvicinarsi dell'autunno, si trovò a riflettere sul proprio vissuto. Chi era lui? Alessandro Lombardi, ventitré anni, ex studente e lavoratore modello, laureato in Storia antica e addetto alle pulizie, proveniente da una famiglia abbastanza agiata da cui era fuggito. Il perché, alla fine stava iniziando a porselo da solo, proprio quando gli altri avevano smesso di chiederglielo.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Parte seconda

Capitolo V

La prima volta in cui Irene si sentì liberà, aveva già ventun anni. Non che non avesse mai sperimentato la libertà: c'era stata la prima volta in cui aveva poggiato i piedi sulla neve candida e croccante, la prima volta in cui aveva potuto osservare un dipinto dal vivo, la prima volta con la persona che amava. Ma lì aveva sperimentato la libertà, non l'essere libera.

Prese dall'armadio i blue jeans, li indossò e sorrise quando si accorse dell'ennesimo post-it di Sara attaccato al tessuto. Erano appena andate a convivere la settimana prima, ma lei si era già dovuta assentare per il weekend e perciò aveva ben pensato di tappezzarle con frasi e disegnini i punti più improbabili. “Sei carinissima anche con questi” recitava il post-it. Pescò una maglia colorata dal cassetto e ripose il pensierino vicino agli altri, sul comodino. “Solo due giorni” si ripeté andando a mettersi le scarpe. Prese lo zainetto, si assicurò che la porta fosse chiusa e scese giù nei box. Imprecò contro la notifica di Google Maps che l'avvisava del traffico più intenso del solito: Alex avrebbe fatto in tempo a scolarsi tre Negroni come un ragazzino, per poi iniziare ad atteggiarsi ad intellettuale maledetto. “Cretino” pensò. Gettò lo zainetto sul sedile e mise in moto l'auto. Quando era diventato così, non se lo ricordava di preciso. Avevano stretto amicizia all'inizio delle superiori proprio perché entrambi buffi, strani, diversi. Diversi dagli altri. E poi per lui c'era stata l'università, il frequentare un ambiente nuovo, una città nuova, le feste a cui prima di allora non era mai stato invitato e che all'inizio non gli interessavano nemmeno. Per lei no, per lei c'erano stati il lavoro e l'aver conosciuto quella donna splendida che era Sara. Parcheggiò e si girò a recuperare lo zainetto, accorgendosi di un altro post-it attaccato ad un paio di improponibili occhiali da Sole color arcobaleno. “Questi li ho usati ad un pride in cui non ti conoscevo ancora, ma sognavo una come te”. Sorrise. Aveva sempre apprezzato la sua capacità di normalizzare le cose, la semplicità con cui riusciva a vivere la propria omosessualità. Lei non ci era mai riuscita, nemmeno quando aveva capito che il mondo stava iniziando ad accettare anche quelli come lei. Quell'anno però, sarebbe stato diverso, avrebbe fatto ciò che non aveva mai avuto il coraggio il coraggio di fare in tre anni: coming-out, uscire dall'armadio sventolando bandiere sgargianti, partecipare alle manifestazioni e soprattutto dichiarare al mondo che Sara era la sua ragazza, non la sua migliore amica. Mise il tutto nello zainetto. Quella sera lo avrebbe detto ad Alex.

 

“Parcheggia” si sentì ordinare Irene

“Non siamo ancora arrivati” rispose, continuando a guidare

“Lo so, parcheggia” ripeté Alex. Lei frenò.

“Stai male?” chiese voltandosi

“No no, voglio il lago” biascicò lui. Non rispose, sospirò e poi accostò in un angolo.

“Hai bisogno di una mano” gli fece notare, vedendolo spingere la portiera. Ottenne un verso in risposta. Scese anche lei dalla macchina, avvicinandoglisi.

“No, no, no, no” iniziò a cantilenare “Non ho bisogno”. Un gruppo di ragazzini sulla spiaggetta urlò loro qualcosa di osceno.

“Che vogliono quelli?” borbottò buttandosi con le braccia a penzoloni dalla ringhiera

“Non vogliono niente Alex, avranno quindici anni” gli assicurò lei

“Andiamo lì” proclamò lui puntando un dito verso la spiaggetta

“No, non andiamo lì, non possiamo, fa freddo e ti sentiresti male” ribatté Irene

“Ma io ho caldo!” protestò lui

“Senti, adesso torni in macchina e stai un po' seduto lì con la portiera aperta, così stai meglio. Poi andiamo a casa” gli promise.

Dopo cinque minuti riuscì a convincerlo ad entrare nell'abitacolo. Alex si stravaccò sul sedile, stendendo le gambe fuori dalla macchina. Una pozzanghera gli bagnò tutte le scarpe. Non ritirò i piedi. “Cretino” pensò lei, giocherellando con una cerniera dello zainetto.

“Tutto bene?” sussurrò invece

“Si si” borbottò lui

“Cosa ti senti?” provò ancora, sforzandosi di non insultarlo

“Ma bho, secondo te?” Alex sbuffò ancora. Irene s'irrigidì.

Secondo te, secondo te. Strinse la zip dello zainetto, riprendendo a giocherellarci. Secondo te, come se lei avesse potuto sapere perché lui aveva deciso di trasformarsi nel cretino che non era mai stato, proprio quando era arrivato il momento di crescere. Quasi avesse giocato troppo a fare il ragazzino maturo prima, e avesse avuto bisogno di recuperare la spensieratezza dopo, quando era un po' tardi. Un bel po' tardi.

“Posso dirtelo?” chiese infine, guardandolo. Alex annuì appena.

“Io credo che tu sia così tanto concentrato su ciò che da fuori ti fa sembrare in un certo modo, da perderti la bellezza nella semplicità” dichiarò

“Non è vero” ribatté lui con la voce impastata

“Si che è vero” continuò lei

“No, non è vero” ribadì lui biascicando, infastidito

“Lo è, lo sai che lo è” affermò nuovamente lei

“Perché dovrebbe?” sbottò lui. Tirò dentro le gambe, poggiando la fronte sul cruscotto, le braccia penzoloni.

“Perché hai tante opportunità di fronte a te e non hai nemmeno il coraggio di sceglierne una. Hai paura di determinarti, come se questo potesse limitare la tua presunta originalità. E poi vai ad omologarti come tutti gli altri, credendoti poetico solo per il modo in cui lo fai!”.

Tremò, rendendosi conto di aver alzato troppo la voce. “Scusa” aggiunse poco dopo

“No, hai ragione. È che sono cose forti” la rassicurò

“Non credo siano forti, almeno non così tanto. Sono solo una parte di te poco accudita” dichiarò. Lui non rispose. Le mani di lei avevano istintivamente preso gli occhiali. Quante volte si era sentita soffocare da cose che aveva semplicemente trascurato? Troppe. Quante volte in quei tre anni aveva mentito, anche ai suoi amici? Altrettante. Indossò gli occhiali. Naturalmente non vedeva nulla, ma forse dirgli qualcosa lo avrebbe fatto stare meglio, lo avrebbe portato a condividere qualcos'altro, come anni prima.

“Ehi Alex, non importa, guardami, ho anch'io qualcosa di tragicomico da dirti: sono lesbica e Sara è la mia ragazza!”. Non rispose, di nuovo. Irene si tolse gli occhiali. Alessandro si era addormentato. Gli poggiò una mano sulla spalla, scrollandolo dolcemente.

“Vuoi andare a casa?” chiese tremando, le lenti ancora tra le dita. Lui si buttò indietro sul sedile.

“Vorrei tornare a studiare”.

Non c'era niente di più vero e di più falso assieme.

 

Angolo autrice:

Ed ecco a voi l'inizio della seconda parte, in cui abbiamo finalmente il punto di vista di Irene. Vi è piaciuto? Ve lo aspettavate? O ve la immaginavate diversa a causa delle descrizioni dal punto di vista di Alessandro?

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

«Alessandro Lombardi abita nella Riviera dannunziana, ha ventun anni e tutta una serie di presunte certezze alla Zeno Cosini. Alessandro però vivrebbe perennemente in un universo calviniano, sa orientarsi in mancanza di luce e sogna una fuga in pieno stile Mattia Pascal».

Scoppiò a ridere, solo, al buio. Aveva provato a tratteggiarsi dall'esterno, come uno dei suoi personaggi, ed il risultato era stato a dir poco grottesco. Tanto per cominciare il suo cognome non era Lombardi, ma qualcosa di molto più comune; di D'Annunzio non aveva nulla, se non l'aver portato a letto qualche donna; Zeno Cosini avrebbe potuto dirsi più realizzato di lui alla fine del romanzo; Icaria non si avvicinava nemmeno lontanamente ad una delle città invisibili; e di Mattia Pascal aveva solo la sensazione di essere fuggito da una trappola per caderne in un'altra.

Rise ancora, con addosso la coperta. Il suo stomaco aveva ricominciato a mandargli delle fitte dilanianti. Si alzò a fatica per andare verso il frigo, avvolgendosi nel tessuto. Il pesce era terminato, le ultime sere non aveva nemmeno toccato la canna da pesca. E dopo quasi tre giorni, gli sembrava di poter sentir gorgogliare i succhi gastrici. Allungò una mano verso l'anta del mobiletto e afferrò una confezione di cereali mezza vuota che iniziò a mangiare a mani nude, sedendosi per terra, finché gli ultimi non gli caddero per terra sparpagliandosi in giro. Si accasciò contro il mobile e pianse. Ma di un pianto asciutto, interno: non aveva le forze per piangere davvero. Vomitò quel poco che aveva mangiato in un angolo. Si sdraiò dall'altra parte e si addormentò.

 

Alla fine l'istinto di sopravvivenza prevalse e dopo qualche ora Alessandro riuscì a prepararsi qualcosa di più sostanzioso e darsi una sistemata. Pulì il vomito e si ributtò a dormire, questa volta sul letto. Si risvegliò a notte fonda, scosso da un sonno agitato di cui non ricordava nemmeno i sogni. Andare, partire, non tornare mai più: ora sembrava tutto così lontano, e ormai non lo cercava più nemmeno Irene.

Si risvegliò del tutto la mattina dopo, chiedendosi per l'ennesima volta chi fosse, e perché avesse fatto ciò che aveva fatto, e perché proprio in quel modo. Non amava la propria famiglia e certo non gli mancava, ma nemmeno la odiava; e aveva sempre avuto qualche amico, seppur spesso tenuto in disparte dai propri coetanei; insomma, non era mai stato un leader, ma nemmeno uno di quelli che rimangono dietro le quinte. “Forse non sono niente” pensò “Forse non sono niente, ma non nel senso che sono una persona comune, ma nel senso che sono un' accozzaglia di cose che prima o poi sarebbe dovuta esplodere così. Andare, partire, non tornare mai più. Forse sono pazzo”.

Guardò la radiosveglia sul comodino: il 17 settembre. Sarebbe ripartito il prima possibile.

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII

Poggiò l'ultima T-shirt nel cesto della bicicletta color giallo fluo, circondata da altre magliette che pendevano dal soffitto tramite dei ganci. Uscì dal negozio per osservare il proprio lavoro, soddisfatta: la vetrina per il giorno dopo era pronta. La parte che più preferiva del proprio lavoro, ma che spesso e volentieri era affidata agli stagisti. Quel giorno però era il primo per loro, perciò Sara gli aveva mostrato le attività da svolgere nel resto del negozio.

Avevano iniziato entrambe a lavorare lì dopo il diploma, perché il proprietario dell'attività le conosceva tutte e due, dato che avevano svolto anche loro lo stage lì, quando frequentavano la scuola. Inoltre era uno dei pochi a non farsi problemi a causa della loro relazione, a non chiedere a loro e ad altri dipendenti di fingere di fronte alle domande dei clienti. Ora stavano entrambe risparmiando, e in futuro forse avrebbero aperto anche loro un negozietto.

Rientrò per raccogliere le proprie cose, mentre Sara mostrava ai ragazzi la vetrina per la nuova stagione primaverile. Fuori stava quasi per tramontare, e il gruppo di adolescenti era tanto entusiasta che quasi le dispiacque non aver fatto l'allestimento con loro. Si ripromise di segnarsi i recapiti telefonici dei migliori per richiamarli nella stagione estiva.

Si affacciò per salutarli e assicurarsi che tutti loro avessero modo di tornare a casa senza farsi chilometri a piedi, ma fortunatamente avevano già recuperato un passaggio o abitavano vicino, come lei e Sara. Li risalutò e sollevata usci dal retro, da dove la strada era più breve. Faceva fresco, ma si stava bene. Quella sera avrebbero potuto mangiare gli avanzi del pollo a cui lei avrebbe aggiunto quintali di salsa. “La cena dei campioni” si disse, pensando a come l'avrebbe sgridata sua madre. Rise. Avrebbe dovuto chiamarla, invitarla a cena preparandole qualcosa di decente e dirle di lei e Sara, sempre che non avesse già capito. Prima o poi avrebbe dovuto farlo.

Cambiò strada, andando a sinistra, e poi svoltò l'angolo. Si arrestò: c'era qualcuno seduto sul marciapiede, davanti al condominio. Si stava sfregando le mani bluastre, che sembravano spuntare fuori a fatica dal maglione, come se l'interno fosse cavo, come se ad animarlo ci fossero solo quelle due estremità congelate. Doveva essere lì da tempo e aveva con se uno zaino. Irene si guardò intorno: c'era un piccolo capannello di gente al bar lì vicino, avrebbe potuto arrischiarsi e offrire il proprio aiuto. Infilò la mano nella borsa, tenendola dentro come se stesse cercando qualcosa, ma afferrando lo spray al peperoncino e riprendendo a camminare. Lanciò un altro sguardo al bar, prima di sentirsi chiamare. Trasalì, e la presa si fece più salda. Davanti a lei stava Alessandro, più morto che vivo, nei suoi cinquanta chili scarsi che puzzavano di alcol. “Scappa” pensò “Corri in quel bar e telefona a Sara”.

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII

Quando la vide fuggire, non poté biasimarla. Primo di tutto: da quanto tempo era sparito? Quasi diciotto mesi. Secondo: qual era il suo aspetto? Non uno dei migliori. Aveva dovuto finire la bottiglia per raccattare il coraggio sufficiente. Si risedette a fatica, appoggiandosi al muro. Ora gli sembrava tutto così lontano, tutto così stupido. Andare, partire, non tornare mai più. E per cosa? Mise la mano in tasca, come per carezzare la lettera che aveva rimuginato a lungo se lasciarle o meno. Forse era stupida anche quella. Forse non viveva in un romanzo e avrebbe dovuto aspettare e sperare che lei alla fine acconsentisse di parlare con lui, per dirglielo di persona. Aspettò.

Alla fine la vide uscire dal bar con un'altra donna che era entrata prima (Sonia, forse? Gliene aveva parlato spesso, ma l'aveva vista solo qualche volta). Le vide venire verso di lui e si alzò, tentando di non barcollare.

“Ciao Alessandro” si sforzò di sorridere Irene

“Ciao” provò a dire lui, ma gli uscì un suono incerto “E tu sei?” chiese all'altra donna, tentando di dire qualcosa

“Ciao, io sono Sara, sono...un'amica di Irene. Mi ha parlato di te” gli strinse la mano

“Anche di te” ricambiò. Sorrise appena: gli aveva parlato di lui.

“Mi fa piacere, avrete un sacco di cose da dirvi” continuò lei

“Si, in realtà speravo potessimo entrare in casa, sto congelando”. Di colpo si sentì più rigido. Forse si era spinto un po' oltre? Ma le due donne sembrarono non farci caso e anzi, Sara lo invitò a salire per cenare con loro. Fu così bello che quasi non si accorse di star entrando nel palazzo.

Già l'androne delle scale, gli sembrò più caldo. La casa poi, un lusso. Si era ripromesso più volte di non fare complimenti, ma alla fine si rese conto che se si fosse lavato e avesse mangiato qualcosa sarebbe stato meglio per tutti. Si fece prestare una grossa vestaglia e mise a lavare anche le proprie cose. Dopodiché, si diresse in camera da letto per cercare di riordinare i pensieri e, prima di poter fare altro, si addormentò.

 

Quando si svegliò, il tutto non gli sembrò vero. Si rigirò nel letto, al buio, sentendo il profumo del cuscino di Irene nelle narici, sentendo il rumore di lei che era di là a lavare i piatti. Poi qualcuno bussò alla porta, lui schiuse le palpebre e si risvegliò del tutto.

“Avanti” disse quasi come se fosse casa sua, sentendosi di nuovo uno stupido. Irene entrò, accese solo la bajour e posò sul comodino un piccolo vassoio con due panini e una bottiglia d'acqua. Quasi si avventò sul cibo, non potendo farne di nuovo a meno. Non importava, presto avrebbero risolto tutto. Quando finì, si prese un momento per osservarla: si era seduta sul bordo del letto; aveva lasciato dietro di lei la porta aperta, da cui si poteva intravedere Sara, seduta sul divano a fingere di fare altro. Non si fidavano, ma lui sapeva che Irene era sempre stata troppo buona. Cercò di ricomporsi, lisciando le pieghe del lenzuolo morbido.

“Irene” cominciò poi “ È vero, sono sparito, ma ho un sacco di cose da dirti e la prima è che tornando ho capito una cosa: io ti amo”.

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX

Io ti amo le aveva confessato, come se fosse la cosa più normale da dire dopo essere stato praticamente raccattato dalla strada. Si passò una mano tra i capelli, non sapendo che fare. Se solo l'avesse sentita quella notte...

“Non importa se ora non sai cosa rispondere, non voglio che tu ti senta obbligata a dirmi una qualche frase canonica”. Come se fosse stata la canonicità il problema.

“Dove sei stato?” chiese invece

“Sono stato ad Icaria, in Grecia. E ad Atene, per le festività invernali, ma non l'anno scorso, ormai due anni fa. Poi sono tornato qui”

“Quando?”

“Verso ottobre”

“Dai tuoi?”

“No, io...sto in un ostello per ora, era la cosa più economica”

“E di cosa vivi, scusa?”

“Avevo dei soldi da parte, quelli dell'anno sabbatico. E poi scrivo, lavoro part-time. Quello che trovo”.

Lei si ritrovò a scuotere la testa, non sapendo che dire. Non aveva ricevuto risposte secche, ma nemmeno delle vere e proprie spiegazioni, né tanto meno domande sulla sua famiglia: era tutto normale per lui.

“E la tua laurea?” chiese infine

“Irene, ho ventiquattro anni: dovrei spendere soldi che non ho per fare minimo altri anni due anni di magistrale. E no, per ora non ho voglia di ripiegare sull'insegnamento. Non penso proprio che l'avrò mai e basta”. Normale, ma non nella norma. Lapidario. Ma era lì.

“Sei tornato però” provò allora. Voleva sapere perché.

“Per te” sussurrò appena “So che può sembrare assurdo, che è assurdo, ma ho qualcosa che potrebbe spiegare tutto” portò la mano al fianco, prima di ricordarsi di avere indosso la vestaglia

“La lettera?” quella cosa romanzata su di noi?

“Si! Dove l'hai trovata?”

“Nei pantaloni, quando li ho messi a lavare. Spero non ti dispiaccia, ma ho collegato il PC alla corrente e ho letto i tuoi racconti”

“E?”

“E sono belli. Forse un po' strani, ma belli. E se sei riuscito a sopravvivere vuol dire che funzionano”

“Anche quello sulla lettera?”. Per un attimo le sembrò nuovamente sbronzo, da quanto era entusiasta.

“Si, mi è piaciuta la descrizione dei due personaggi sul lago, anche se un po'...romanzata diciamo. Ma cosa farai ora?”

“Te l'ho detto, mi piacerebbe continuare a vivere di questo, ma con te. Lo so che non è facile e che non ho molto da offrirti, ma io ti amo, siamo cresciuti praticamente insieme e io ti amo”.

Doveva decisamente dirglielo. Si avvicinò, tenendo le mani in grembo. “Senti Alessandro” cominciò poi “Alex” si corresse “È vero, siamo cresciuti insieme, ma io non so cosa dire di tutto questo, so solo che c'è una cosa che vorrei dirti, che ho cercato di dirti l'ultima sera che ci siamo visti, ma...eri collassato”

“Non importa, dimmela”

“Non è facile”

“Dilla pure come ti viene allora”

“Io non ti amo, Alex, e non potrò mai farlo: sono lesbica e Sara è la mia ragazza da tre anni ormai”.

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