Feel me, Touch me, Heal me

di Wolstenholme
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [Prologo] ***
Capitolo 2: *** [Capitolo Uno] ***



Capitolo 1
*** [Prologo] ***


Feel me, Touch me, Heal me

•••
Prologo

1943,
Mosca, Unione Sovietica.

Non fu difficile per Yuri scoprire dove fosse al suo risveglio, e ricordare il motivo per cui si ritrovò disteso su un letto d'ospedale e con la gamba destra completamente immobilizzata, che doleva come l'Inferno
In verità, era fermamente convinto che i risvegli intensi e repentini senza alcuna memoria degli eventi antecedenti, di cui alcuni individui blateravano, fossero immerse cazzate.

Come puoi non ricordare che, la sera prima, hai scelto volontariamente e pagato fior fior di rubli sovietici un tizio - che tanto pareva un mollusco - ordinandogli di malmenarti con tutta la forza che riuscisse a infliggerti e, infine, spingerti dalle scale in modo da, forse, romperti un braccio o, ancora meglio, una gamba?
Quella non era una di quelle situazioni della vita da poter prendere e archiviare in chissà quale lontano antro della mente; comunque, che fosse reale e che ricordasse ogni particolare, gli altri non erano obbligati a saperlo.

Quando sei l'unico nipote di uno degli esponenti più carismatici e di rilievo dell'intera Russia e, in più, non hai la benché minima inclinazione verso la violenza e la vita dedita alla guerra a cui molti ambiscono, quella diviene una scelta vitale.

Yuri Plisetsky aveva scelto, forse per la prima vera volta nella sua vita, per quanto breve e intrisa di una discutibile esperienza; non aveva scelto che suo padre lo scaricasse a tempo indeterminato a casa di suo nonno, non aveva scelto che gli venisse rifilata una patetica scusa a cui non aveva mai creduto, non aveva scelto quando, col passare del tempo, Nikolai Plisetsky decise di instradarlo sempre più a una vita così dannatamente fuori dalle sue corde.
Poteva dire con l'amaro in bocca di non avere potere decisionale neanche sul cibo da gustare con malavoglia a cena, seduto a quel lungo e freddo tavolo, immerso in un silenzio surreale.
Ma, la decisione che più gli rivoltò le budella e che, quella sera di non molto tempo prima, gli fece scaricare gli avanzi del suo misero pasto su uno dei pregiati tappeti di Kholia - per cui si beccò uno schiaffo sonoro sulla guancia destra - fu una in particolare: arruolarsi nell'Armata Rossa sotto le direttive del nonno e dei suoi burattini senza cervello.
Che Yuri Plisetsky fosse esile e al limite della denutrizione e che, con ogni probabilità, si sarebbe fatto ammazzare subito, importava relativamente poco. Ti farai i muscoli e la tempra direttamente sul campo, gli diceva sempre Nikolai.
Quella, però, non era la sua vita; non aveva la stoffa del soldato, desiderava essere solo un ragazzo, ma quella era la guerra, la fottuta guerra e diventare spettatore di un teatro simile era una triste normalità, a cui non poteva sottrarsi.

• • •

Finalmente, ora, era da solo.
Il materasso sotto la sua schiena era scomodo e usato, le lenzuola bianche erano sgualcite agli angoli, l'intonaco era umidiccio e l'intera stanza, così come il complesso, puzzava di stantio.
I vetri delle finestre, inoltre, erano così sottili e fragili da non essere in grado di isolarlo, almeno per un po', dai terribili suoni e rumori del mondo di quegli anni. Rumori che non facevano altro che imprimersi sempre più nei ricordi di tutti.
Era come alcuni anni fa, quand'era ancora nella dimora dei suoi genitori prima che sua madre svanì nel nulla, un giorno di inizio inverno.
Se chiudeva gli occhi abbastanza forte riusciva a percepire ancora il gelo sulla sue pelle, sdraiato nel suo lettino. 
Che fosse, adesso, giunto a preferire un dannato ospedale militare e una gamba rotta alla sua famiglia d'origine e alla sua casa, era una triste realizzazione che maturava dentro di lui da un po'.

La sera calò in fretta e Yuri fu costretto a rannicchiarsi ancora di più sotto le coperte, per quanto possibile. I suoi pensieri furono interrotti due volte, nel frattempo.
Il medico che lo visitò quello stesso pomeriggio non disse molto, mentre le infermiere tentavano di rassicurarlo sulla natura dei suoi traumi, definendoli comuni e all'ordine del giorno in quel periodo.
L'avevano poi condotto su una barella in una piccola area se possibile ancora più fredda della sua camera dove, al centro, troneggiava un enorme e poco rassicurante strumento a Raggi X. 
Gli ordinarono di restare fermo, e dove diamine doveva andare
Rimase sdraiato lì per un tempo che sembrò infinito, mentre il personale vagava avanti e indietro e l'invisibile fascio del macchinario probabilmente fondeva irrimediabilmente zone interne del suo corpo.
Avrebbe così tanto voluto stringere la mano di sua madre, in quell'istante.

La seconda volta, invece, fu quando, tornato sul suo letto non senza aver bisogno di aiuto, venne svegliato dal cigolio della porta e dalla voce dell'infermiera che gli mormorava di stare tranquillo e di non muoversi, indicando quello che era solamente un ospite temporaneo.

Sbuffò alzando gli occhi al soffitto dove la pittura minacciava di scollarsi e non degnò di un ulteriore sguardo il giovane e silenzioso uomo che varcò la soglia con una piccola borsa nella mano destra, inconsapevole di aver appena mandato in frantumi il desiderio di Yuri di soggiornare in quello scomodo e duro letto da solo; la presenza delle infermiere e dei medici era già più che sufficiente, un'altra invasione non era affatto gradita.

Il principale ospedale militare di Mosca, tuttavia, era piuttosto affollato in quel periodo, era un miracolo che con lui vi fosse solamente un altro inquilino in tutto quel delirio di ossa spezzate e famiglie distrutte.
La sua gamba, comunque, non era in condizioni migliori, ma se avesse avuto fortuna, forse sarebbe stato esonerato a vita, tagliando finalmente fuori dalla sua vita e una volta per tutte la sua breve carriera da soldato; ciò a cui aveva assistito era troppo, anche se sapeva di aver visto relativamente poco rispetto a alcuni dei suoi colleghi.
Ogni tanto, Yuri si sentiva stupido nel formulare pensieri di quel tipo; avrebbe forse dovuto amare di più il suo Paese e morire per esso, ma… non ne aveva il coraggio. Chi poteva biasimarlo?
Eppure, gli altri accettavano il loro destino ogni giorno. Dopotutto, essere il nipote di Kholia poteva, sì, avvantaggiarlo in un certo senso, ma non poteva certo proteggerlo a vita. Non da quella feroce guerra in cui l'aveva gettato con le sue stesse mani, comunque.
Pregava
Pregava di avere fortuna, null'altro.
Fortuna che il mondo, per una volta, girasse al contrario. 

• • • 

“Ti fa molto male?” sussurrò più tardi Otabek, sistemandosi meglio il cuscino sotto alla testa.
Era notte fonda da un po' e, quando Yuri non proferì risposta, proseguì. 
Sarebbe stato un fesso se non l'avesse riconosciuto istantaneamente.
“Spero mi dimettano in fretta, maledetti controlli di routine. Pensano che uno abbia tempo da buttare.”
“Sto cercando di dormire, se non ti dispiace.” replicò infastidito il biondo, tornando a socchiudere le palpebre stanche.
Quella notte, però, nessuno dei due riuscì a riposare. I sensi perennemente all'erta, sobbalzando a ogni rumore e il cuore in gola a ogni nuova fonte luminosa proveniente dall'esterno. 
Certo che era incredibile, incontrava l'oggetto dei suoi pensieri più intimi e la prima cosa che gli diceva era che lo stava disturbando, senza premurarsi d'essere gentile.
Sorrise nel buio, prima di prendere di nuovo fiato.
“Prima o poi smetterà, vedrai.” 
“Non smetterà mai, per voi soldati.”
“Dobbiamo essere fiduciosi.”
“Che c'è di fiducioso in quello che facciamo?”
“Hai fatto intendere di non essere un soldato.”
“Be', lo ero.” ritrattò a bassa voce. “E non lo sarò più.” aggiunse infine. 
“Mi chiamo Otabek Altin, comunque.” mormorò l'altro, attento a regolare il suo tono: una ramanzina da parte del personale era l'ultima cosa che voleva.
“Yuri.” disse, e Dio solo sapeva quanto Otabek avrebbe voluto osservare il suo viso alla luce del giorno. Erano trascorsi tre anni, era cresciuto, lo erano entrambi. Forse, se il destino aveva già messo in agenda il loro incontro, poteva anche mostrargli ancora una volta i suoi occhi verdi.

Comunque, riconobbe il fruscio delle coperte e comprese che quel breve dialogo, per il momento, poteva definirsi concluso.
Gli voltò la schiena e provò a dormire.
Quella che era certo non sarebbe mai terminata, era la continua visione di quegli occhi magnetici.
Non lo credeva ancora possibile.

Con la vastità dei loro territori conquistati e le morti che ogni minuto inquinavano le loro vite, aveva sempre pensato che rivederlo sarebbe stato impossibile. C'erano più chance di arrivare vivo alla fine della guerra.
E ora lo incontrava in uno degli ospedali militari al centro della città, senza sapere se anche lui l'avesse riconosciuto.
Perché al mattino successivo, quando Otabek si risvegliò, non lo trovò più nel suo letto.

Fu dimesso poco più tardi, pensieroso come poche altre volte nella sua vita.
Era un soldato, e non poteva perdere altro tempo.
L'aveva incontrato per due volte in circostanze del tutto insolite, e ancora una volta era costretto a dirgli addio.

• • • 
1940,
Kaunas, Lituania.

In guerra, non c'era tempo per fermarsi a osservare le cose semplici della vita. Quelle cose che, in un modo o nell'altro, sono sia estremamente trascurabili che di vitale importanza.
L'estate era alle porte e Otabek riuscì - dopo alcune ricerche - a scorgere tra la scarsa vegetazione dietro al grosso edificio dove sarebbe dovuto entrare da lì a poco, alcuni fiori comuni che in quel periodo crescevano spontaneamente a Kaunas, in Lituania. In verità, crescevano un po' ovunque, ma non poteva fare a meno di associarli a quella bellissima e devastata città.
Gli ricordavano sua madre e l'enorme libro che custodiva sotto al letto, ricolmo di fiori e fili d'erba: conosceva ogni sua minima parte a menadito, ancora a distanza di molti anni dall'ultima volta in cui si era addormentato tra le braccia di sua madre, cullato dalla sua voce mentre raccontava le mille storie sui suoi adorati fiori.

In guerra, un soldato aveva a malapena la possibilità di non farsi uccidere alla prima distrazione; eppure, lì, non riusciva proprio a farne a meno. I fiori, volente o nolente, facevano parte della sua vita.
Quel giorno in particolare, Otabek seguì il suo superiore all'interno di quel freddo e austero palazzo così in contrasto con i bellissimi fiori che, ai suoi piedi, gettavano nuova speranza in quella triste vita intrisa di violenza e sangue.
Tenne lo sguardo sui suoi pesanti stivali per tutto il tempo, mentre attendeva. Aveva appena compiuto diciotto anni, non aveva esperienza - e chi l'aveva, in quel massacro? - e ogni momento era buono per pensare a quanto tenesse alla sua famiglia, originaria del Kazakhstan in mano all'Unione Sovietica, più di quanto amasse sé stesso. Era probabile che non avrebbe più rivisto i loro volti, da quello autoritario di suo padre a quello amorevole di sua madre, fino ai visi puliti dei fratelli minori e della sua sorellina neonata.
L'avrebbero seppellito all'interno di una fossa comune, e non sarebbe stato l'unico.

La guerra era un incubo a occhi aperti che non guardava in faccia nessuno e non mostrava alcuna pietà. Tuttavia, sembrò suscitare un particolare effetto su uno dei ragazzi che quel giorno erano presenti. Quella fu l'unica volta in cui Otabek Altin sollevò lo sguardo dal freddo pavimento piastrellato.
La sua non era una bellezza rara, sicuramente proveniente dalla rigida Russia, eppure possedeva qualcosa di diverso, in più.
Non gli sembrò un ragazzo comune, se ne stava incollato ad un uomo - di cui scoprì il nome solamente in seguito ascoltando una conversazione durante il viaggio di ritorno - con lo sguardo acceso e guizzante, l'espressione corrucciata e un'adorabile linea di espressione sulla fronte e sulla guancia sinistra, appena qualche centimetro dalle labbra.
Sembrava incazzato col mondo intero.

Otabek era ancora un ragazzino che del mondo capiva ben poco, soprattutto riguardo all'amore. Non gli importava, quindi, che ad attrarre il suo sguardo fosse un ragazzo, esattamente come lui.
Non rivelò mai a nessuno il suo segreto, uno dei tanti che avrebbe collezionato in seguito, in ogni caso. 
Comunque, dopo quel giorno, in cui solamente una volta l'altro lo osservò di sottecchi e con sospetto, non lo rivide mai più. Forse era meglio così.
Dopotutto, sembrava anche uno dei numerosi e strafottenti altolocati appartenenti alle gerarchie più influenti delle varie Repubbliche.
Non faceva per lui.
No, decisamente Yuri Plisetsky non faceva per lui.
Almeno, fu quella la convinzione che portò avanti gli tutti gli anni a seguire. In verità, sognò i suoi occhi verdi per molto molto tempo.
In guerra non c'era tempo per queste sciocchezze.
La vita di Otabek Altin proseguì, tra incertezze, dubbi, incubi, drammi e molta ingiustizia; era lucidamente convinto che nel giro di poco, avrebbe perduto ogni cosa a lui cara.

Quel giorno, comunque, tornò alla caserma base con un pensiero in più, tra tutti gli altri che già lo assillavano da tempo, ignaro di cosa sarebbe realmente accaduto in poco meno di un anno.

• • •

Continua… 


Spazio autrice:
Buonasera a tutti.
Vorrei spendere solamente qualche parola conclusiva. Ho scritto questo prologo in un momento molto delicato, lo ammetto.
Non volevo nemmeno mettere in cantiere una nuova storia e, soprattutto, non avevo alcuna intenzione di pubblicare e passare del tempo dietro ad un altro progetto, eppure eccomi qui senza neanche sapere il perché.
Ho alcune storie/idee in sospeso, mille file che sto cercando di recuperare per dare un senso al mio lavoro, ma non posso che considerare questo prologo come una sorta di riscatto, aldilà di come andrà. Dopotutto, oggi è ancora il primo gennaio di questo nuovo anno.
Ci tengo a specificarlo, forse un po' per il mondo e forse un po' per me stessa.
In ogni caso, questo è e spero possa piacere a qualcuno! Quindi non mi resta che tornare a scrivere e continuare quest'altra follia.
Sperando di arrivare in fondo.
Alla prossima! ♡

-w

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Capitolo 2
*** [Capitolo Uno] ***


Feel me, Touch me, Heal me

••

Capitolo Uno

 

1943,

Mosca, Unione Sovietica.


 

“Papa! Papa!”

Un bambino dai folti capelli color miele s'affacciò curioso nel salotto adiacente alla piccola cucina, in quell'appartamento all'ultimo piano situato nella periferia di Mosca; era un'abitazione in disuso e senza alcuna pretesa, una di quelle che il governo era solito affidare ad alcuni soldati in viaggio per la Nazione e alle loro famiglie - per chi poteva raccontare di averne una, almeno - per un periodo di tempo generalmente limitato.

In particolare, quel quartiere non era molto popolato da anni ormai e il degrado, almeno in quella zona della città, era palpabile; dagli edifici fatiscenti che minacciavano di crollare al suolo ogni giorno, all'istruzione dei giovani che un giorno avrebbero guidato il paese, dalle strade dissestate alle vetture spigolose dai fari tondi e i sedili in pelle scura abbandonate ai lati del marciapiede.

Tuttavia, c'era da dire che Otabek non era mai stato un ragazzo così ambizioso e, in ogni caso, era abituato a adattarsi a ciò che la vita gli imponeva con la forza: Otabek Altin aveva l'innata capacità di amalgamarsi alle situazioni scomode del mondo. Non era felice, questo no, ma era suo dovere sopravvivere e prendersi cura della sua famiglia. Così era sempre stato.


Ora, seduto sull'unica e sgualcita poltrona della stanza, allargò le braccia in un invito che il bambino non faticò a cogliere, sfoderando un enorme sorriso prima di correre in direzione di Otabek e, letteralmente, saltargli in braccio.

“Vieni qui, amore mio.” mormorò a bassa voce, una volta che il piccolo gli fu seduto sulle gambe, con entrambe le braccia allacciate intorno al suo collo. “Hai fatto il bagno?”

“Sì, la mamma mi hai aiutato.” 

Annuì in risposta, passando lentamente le dita magre nei morbidi e setosi capelli di suo figlio che, tutte le volte, rilasciavano nell'aria un intenso profumo di lavanda; era il bambino più bello che avesse mai visto ma, forse, formulava quel pensiero solo perché tra le braccia aveva suo figlio e non un bambino qualsiasi. E, inoltre, quel profumo gli ricordava i tempi passati, quell'odore dolce sulla sua testolina di quando era appena un neonato.

“Mi racconti una storia?” domandò il piccolo guardandolo con occhi curiosi, di un castano scuro e profondo come quello di suo padre.

In effetti, Aybek era la sua fotocopia.

L'inconfutabile prova che era stato lui a generare quella magnifica creatura lo fece sciogliere.

“Certo, quando andrai a letto.”

“Adesso! Adesso!” insistette, facendo ondeggiare le gambine.

“E va bene.” replicò Otabek con un sorriso. Non aveva davvero motivo per non assecondarlo. “Vai a prendere il tuo libro, allora.”


Lo osservò scivolare giù dalle sue ginocchia e dirigersi, velocemente come quando era arrivato, fuori dal salotto. Alle sue spalle, con uno sguardo vuoto e freddo, fece il suo ingresso una donna.

Una donna alta e magra, così tanto ossuta che il vestito bianco a fiori azzurri che indossava quella sera non aderiva neanche alla sua pelle chiara e quasi trasparente; a volte pareva il fantasma di sé stessa che, ogni volta, non faceva che perdersi ancora di più in quel mondo gelido e inospitale.

“Otabek.”

“Marie, ciao.”

“Cosa ci fai ancora qui?” chiese, guardandolo severa e avvicinandosi di qualche passo a lui, ancora fermo nella sua posizione.

“Partirò domani mattina, non preoccuparti.”

“Aybek dov'è?”

“In camera sua, vuole che gli legga una storia.”

“Così domani passerà la giornata piangendo?”

“No certo che no, troveremo un modo.”

“Un modo per dirgli che suo padre lo abbandonerà di nuovo, sì?” insinuò. Ora, il suo sguardo era truce. Lo sentiva bruciare sulla sua pelle.

“Non sto abbandonando mio figlio.”

“Inventati una scusa decente per dirglielo, Otabek.”

“Marie, lo sai che non ho altra scelta.”

“Potresti averne una! Altre persone hanno scelto! Aybek è piccolo, non ce la faccio da sola!”

“Devi essere forte, Marie e un giorno tutto questo-”

“Un giorno, cosa? Sarò costretta a dirgli che suo padre è morto in guerra? Che suo padre ha preferito farsi ammazzare?” 

“No, non…”

“Taci, ok? Taci e basta. Non puoi capire cosa significhi tutto questo per me. Stravede per te più di quanto faccia con me, non hai idea di quanto sarà difficile tutto questo un giorno.”


Otabek sospirò pesantemente.

Era a casa da nemmeno un giorno, s'erano appena rivisti e non sapevano quando ne avrebbero avuto di nuovo occasione, eppure stavano già discutendo.

Prima che potessero riprendere il discorso, però, il bambino tornò di corsa in salotto e Marie vagò in silenzio fino alla cucina, facendo poi tintinnare alcune delle bottiglie in vetro riposte in un piccolo pensile ad angolo.

“Posso scegliere?”

“Ma certo, che domande. Torna qui, dai.”

Battè il dito sulle sue gambe e gli fece un cenno, ritrovandoselo nuovamente addosso.

“Papa, cavalieri e principesse oppure-” propose, quando un intenso e secco rumore proveniente dalla cucina lo interruppe. “Mamma?” domandò, non ottenendo risposta. “Marie, stai bene?” proseguì Otabek, lasciando una veloce carezza sulla guancia del figlio, tranquillizzandolo. 

“Sì, sì, continuate pure.” replicò infine, senza fiato.

L'intera situazione tra loro due era appesa a un sottile filo, l'equilibrio che negli anni avevano stabilito con fatica stava andando lentamente in frantumi. Era innegabile.

Dopotutto, erano ancora così giovani, appena affacciati sul lungo sentiero della vita.

“… una storia sulle fate?” 

Aybek lo riportò alla realtà quando gli afferrò una ciocca di capelli scuri tra le manine e tirò con tutta la sua forza da bambino. Insomma, doveva pur leggergli la sua storia!

Così, rispose alla domanda. “Scelti tu, amore mio, mi piace tutto quello che piace a te.” 

“Cavalieri e principesse!” affermò, dopo un attimo di esitazione. 

“D'accordo, quindi,” sorrise di rimando e prese il libro dalle mani del piccolo. “Iniziamo.”


Aybek appoggiò la testa nell'incavo tra il collo e la spalla di Otabek. Indossava di nuovo il suo pigiama azzurro pastello e, complice la voce calma e melodiosa di suo padre, in pochi minuti chiuse gli occhi, combattendo contro l'istinto di ascoltare una delle sue storie preferite e il bisogno di dormire.

Otabek teneva il libro consumato in bilico con la mano sinistra, mentre l'altra gli accarezzava dolcemente la testa e, quando fu certo che suo figlio fosse crollato dal sonno, continuò a leggere per un altro po', prima di richiuderlo e posizionarsi

meglio sulla poltrona.

Dio solo sapeva quanto gli era mancato.


Marie fece di nuovo irruzione nella stanza in quel momento.

Aveva una bottiglia stretta tra le dita della mano destra, che non esitò a portare alle labbra, bevendo un generoso sorso di quel liquido alcolico.

Otabek la osservò accigliato e, tenendo istintivamente più stretto suo figlio a sé, parlò.

“Per l'amor di Dio, Marie, almeno non davanti a lui.”

“Sta dormendo.”

“Sì, ma… Da quanto va avanti?”

"Non sono affari tuoi, comunque.”

“Aybek è affar mio e voglio che sia al sicuro.”

“È al sicuro con me!” sbraitò, rischiando di inciampare nelle sue stesse scarpe.

“No, finché continui a bere in questo modo. I tuoi genitori lo sanno?”

“Probabilmente saranno morti, che mi importa.”

Importava che... neanche i genitori di Otabek erano a conoscenza di avere un nipote.

Sua madre sarebbe esplosa dalla gioia alla vista di Aybek, lo sapeva, per non parlare dei suoi fratelli e di sua sorella. Il fatto che nessuno, eccetto loro due e i colleghi soldati, sapessero dell'esistenza di suo figlio, gli spezzava il cuore.

Un giorno l'avrebbero conosciuto… no?

“E, comunque, tu che ne sai? Non ci sei mai Otabek, lo vuoi capire che non ti vedrà mai più?”

“Non urlare, ti prego.” mormorò, utilizzando la mano libera per coprire l'orecchio esposto del bambino. “Lo sveglierai.”

“Non me ne frega un cazzo, è bene che sappia la verità fin da subito.”

“Ha meno di tre anni, non essere ridicola.”

“Io, ridicola?” lo aggredì. “Io! Ridicola!”


Otabek decise di non replicare più, invece si alzò dalla poltrona e, superando la donna in piedi al centro del salotto, portò il bambino nella sua stanza stando attento a non svegliarlo, tirando poi indietro le coperte del letto quanto bastava per adagiarlo sul materasso e ricoprirlo.

Lasciò un bacio sulla sua fronte e sospirò. “Sei la mia vita, Aybek. Non dimenticarlo mai. Il tuo papà ti amerà sempre.”


Tornato a malincuore nell'altra stanza, si preparò mentalmente ad affrontare Marie; non voleva discutere, desiderava solo che le cose non si complicassero più del necessario. I problemi erano già più che sufficienti.

“Perché sei tornato qui, Otabek?”

“Ieri, ho dovuto fare un controllo in ospedale.”

“Uhm, e com'è andato?” chiese, apparentemente più tranquilla. 

“Ho incontrato un ragazzo.”

“Che?”

“L'ho incontrato la prima volta in Lituania, a Kaunas.” spiegò. “È stato anni fa, prima di conoscerti e prima del bambino.”

“Non me ne avevi mai parlato.”

“Credevo che non l'avrei mai più rivisto. Aveva una gamba rotta e… non sembrava stare bene, ma penso che non sia stato un incidente.”

“L'ha fatto di proposito?”

“Non lo so.”

“Sei innamorato di lui?”

“Non lo so.”

“Sei rimasto qui per questo, allora.” dichiarò velenosa, guardandolo sospettosa con i suoi occhi affilati.

“Sarei venuto comunque, lo sai.”

“Non per me, però.”

“Marie, non stiamo più insieme. Il nostro unico legame è Aybek.” 

“Già, certo.” borbottò. “Ora che ti piacciano gli uomini, poi…”

“Non mi piacciono gli uomini.” Solamente lui. 

“Comunque,” mormorò lei, abbandonando la bottiglia di scotch vuota sul mobile e dirigendosi verso il giovane uomo ancora in piedi e con le mani in tasca. “Questo non significa che non dobbiamo più divertirci.”sorrise, sfiorandogli distrattamente la gamba fasciata da un paio di pantaloni scuri e facendo poi aderire i loro corpi senza esitazione.

“Marie, no, non è il caso.” replicò Otabek quando Marie tentò di baciarlo sulle labbra, voltando la testa da un lato e mettendo più distanza tra loro.

“Che c'è? Una volta ti piacevo.”

“È passato del tempo.” sospirò, facendo due passi indietro. “E poi, non hai avuto problemi a scoparti Axel, puoi sempre provarci con lui.”

“Ero sola! Cosa avrei dovuto fare?” 

“Aspettarmi!” rispose alzando la voce, non potendo non rimembrare l'attimo in cui scoprì i tradimenti della giovane Marie.

“Scusa, non dovevo.” 


Da quel momento in avanti, calò il silenzio.

Un silenzio difficile da digerire, un silenzio avvelenato. Finché Otabek, distrutto e abbattuto, decise di afferrare una delle coperte ammassate sul mobile a fianco della bottiglia e sedersi di nuovo. “Dormo sul divano, ci vediamo domani. Farò piano per non svegliarvi.”

“Otabek, aspetta...”

“Buonanotte, Marie.”

“Buonanotte.” rispose la donna sconsolata, lasciandolo solo con le sue insicurezze.


La mattina successiva uscì di casa che Aybek ancora dormiva beato.

Non sapeva quando l'avrebbe rivisto, ma sapeva che gli sarebbe mancato come l'aria.

Con un fucile in mano e la sua divisa a coprirlo, presto fu in strada. L'aria fredda lo investì e pregò con tutte le sue energie di poter ritornare in fretta a casa, prendere il suo bambino di nuovo in braccio e farlo addormentare su di sé mentre gli raccontava dei suoi tanti amati cavalieri.

Scacciò una lacrima amara proprio mentre la camionetta si fermò per permettergli di salire.


• • •

1943,

Mosca, Unione Sovietica.


“Yuratchka! Quante volte devo dirti di fare attenzione?”

“Sto solo leggendo un libro, nonno.” mormorò annoiato il più giovane.

Era seduto in cucina, mentre Nikolai camminava avanti e indietro, nervoso.

“No, Yura. Con la gamba in quelle condizioni dovresti stare a letto, hai sentito il medico. Non guarirai mai più, se continuerai a sforzarti così.”

“Non devi preoccuparti.”

“Sono molto preoccupato, invece.”

“E per quale motivo?”

“Devi dirmi chi ti ha fatto questo.” disse, alzando il tono di voce e fermandosi di fronte al ragazzo, incrociando le braccia muscolose al petto, l'espressione tirata e una ruga a solcare la sua fronte. 

“Ti ho già detto che non lo so, era buio e non sono riuscito a vedere il suo volto.” dichiarò, cercando di nascondere la sua crescente agitazione.

Nikolai Plisetsky sospirò pesantemente quando un ufficiale entrò nella stanza. Yuri assisteva a via vai come quello da tutta la vita. Erano così dannatamente invadenti.

“Se qualcuno sta cercando di sabotarci, devi dirmelo." avanzò ancora. “E, inoltre, sono svaniti un sacco dei miei soldi, lo sai?”

“Non ne so niente, nonno… davvero.” 

Che avesse appena condannato a morte un innocente? Presto ne sarebbe divenuto molto più consapevole. Il secondo innocente della sua vita.

“Va bene, Yuratchka. Ti credo.” dichiarò infine, alzando gli occhi al cielo. “Ma, ti prego, non esitare a parlarmene.”

"Non lo farò.”


Mentire non lo fece affatto sentire meglio, ma non aveva un'altra scelta. Non più, almeno.

Inoltre, egoisticamente, più stress e più movimenti errati avrebbe compiuto e più avrebbe rallentato o addirittura compromesso la sua guarigione.

“Vedrai che finirà presto e sarai ammesso nuovamente, ne sono sicuro. Starai meglio.”

“Certo.”

“Sei stanco, ora vai a letto.” 

“Sì, nonno.”


Senza più alcuna forza per ribattere - era completamente inutile - chiamò la domestica, che lo aiutò a raggiungere il materasso, affaticato e dolorante.

Lei gli sorrise dolcemente e richiuse piano la porta, lasciandolo solo con sé stesso, mentre udiva chiaramente suo nonno nella stanza accanto discutere ad alta voce con persone che non conosceva.


• • •


Più tardi quella notte, si svegliò di soprassalto, ansimante e madido di sudore. Impiegò dieci minuti abbondanti per calmarsi e rendersi conto d'essere ancora nella sua camera, a casa di Nikolai.

La finestra era spalancata e forse, rifletté, era stato l'intenso rumore a svegliarlo. Eppure, se chiudeva gli occhi, riusciva ancora a ricordare frammenti del suo sogno, o meglio, il ricorrente incubo che da mesi lo terrorizzava.

Sospirò, un tè caldo avrebbe aiutato, ma non poteva alzarsi dal letto né per servirsi da sé né per serrare quella maledetta finestra da cui filtrava un venticello gelido e fastidioso, mentre nemmeno il suo triplo strato di coperte era in grado di proteggerlo e farlo sentire al sicuro.

Comunque, non aveva intenzione di disturbare la domestica di casa, che aveva ancora molto lavoro arretrato in quel periodo. Così, quasi inconsciamente, tirò le coperte fin sopra la testa e cercò di non fermarsi più a riflettere sul suo sogno.

Immagini che, tuttavia, erano sempre lì. 

Fisse indelebilmente nella sua memoria.

Una macchia, come quel giorno in cui aveva ferito a morte un innocente, una persona del tutto estranea alla guerra, colpevole solamente d'essere stata scambiata per un nemico della Patria.

Il sangue, le gride dei passanti, e la strigliata che gli aveva inferto suo sonno una volta di rientro a casa.

Il bello era che non l'aveva ripreso per aver ucciso qualcuno, no, ma per essersi messo a piangere come un bambino in una delle piazze più importanti di Mosca, dove tutti riuscivano a vederlo, a etichettarlo.

Un soldato dell'Armata Rossa che piange, con le mani sul viso e le ginocchie fragili che colpiscono l'asfalto.

Quel ricordo non l'avrebbe mai lasciato.

Quella vita spezzata per sempre.

Quella maledetta gamba rotta non poteva, non doveva, guarire.


Allungò il braccio scoperto dal pigiama fino alla sua abat-jour e con il pensiero volò al ragazzo che aveva incontrato il giorno precedente.

Durò un attimo, comunque, perché la domestica aprì la porta della sua stanza finemente arredata - con un giusto orribile aggiungerebbe - e entrò.

“Ho visto la luce accesa, stai bene Yuri?”

“Sì, mi fa un po' male la gamba, ma sto bene.”

“Hai bisogno di qualcosa?”

“No.” mormorò, mordendosi il labbro inferiore. “Alena?”

“Sì, Yuri?”

“Mi faresti il tè?”

“Certo, come quando eri piccolo, sì.” replicò sorridendo, ancora con la mano sulla maniglia.

“Ti ricordi, allora…”

“Non potrei dimenticare, Yura. Ti conosco da quando sei nato, da quando…” sostenne, prima di incupirsi e sbattere le palpebre velocemente. “Torno subito con il tuo tè, non fare sforzi.”

Alena Morozov era quanto di più vicino ad una seconda mamma per Yuri. Una mamma che, però, non l'aveva mai abbandonato in quel delirio.

Una mamma amorevole che copriva i guai che combinava, che gli rimboccava le coperte la sera e che evitava accuratamente di parlare di argomenti che Yuri avrebbe preferito eliminare dalla sua vita.

 

Si sentì ancora una volta un bambino quando tornò con la sua bevanda preferita, richiuse la finestra e le tende bianche e gli baciò la fronte, augurandogli la buonanotte.


Doveva pur esserci un modo.


• • •


Continua...


Spazio autrice

Ciao a tutti, eccoci con il primo capitolo.

Non ho molto da dire, se non che scopriremo sempre di più sul passato dei nostri bei protagonisti e su ciò che accadrà in futuro. Grazie a chiunque abbia letto, recensito e inserito questa storia tra i preferiti e le seguite.

Alla prossima! ♡

 -w


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