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Autore: Wolstenholme    01/01/2021    7 recensioni
{Otabek/Yuri} {AU}
1943. Mosca, Unione Sovietica.
Come puoi non ricordare che, la sera prima, hai scelto volontariamente e pagato fior fior di rubli sovietici un tizio - che tanto pareva un mollusco - ordinandogli di malmenarti con tutta la forza che riuscisse a infliggerti e, infine, spingerti dalle scale in modo da, forse, romperti un braccio o, ancora meglio, una gamba?
Quella non era una di quelle situazioni della vita da poter prendere e archiviare in chissà quale lontano antro della mente.
[...]
Quando sei l'unico nipote di uno degli esponenti più carismatici e di rilievo dell'intera Russia e, in più, non hai la benché minima inclinazione verso la violenza e la vita dedita alla guerra a cui molti ambiscono, quella diviene una scelta vitale.
E Yuri Plisetsky aveva scelto.
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Nikolai Plisetsky, Otabek Altin, Yuri Plisetsky
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Feel me, Touch me, Heal me

•••
Prologo

1943,
Mosca, Unione Sovietica.

Non fu difficile per Yuri scoprire dove fosse al suo risveglio, e ricordare il motivo per cui si ritrovò disteso su un letto d'ospedale e con la gamba destra completamente immobilizzata, che doleva come l'Inferno
In verità, era fermamente convinto che i risvegli intensi e repentini senza alcuna memoria degli eventi antecedenti, di cui alcuni individui blateravano, fossero immerse cazzate.

Come puoi non ricordare che, la sera prima, hai scelto volontariamente e pagato fior fior di rubli sovietici un tizio - che tanto pareva un mollusco - ordinandogli di malmenarti con tutta la forza che riuscisse a infliggerti e, infine, spingerti dalle scale in modo da, forse, romperti un braccio o, ancora meglio, una gamba?
Quella non era una di quelle situazioni della vita da poter prendere e archiviare in chissà quale lontano antro della mente; comunque, che fosse reale e che ricordasse ogni particolare, gli altri non erano obbligati a saperlo.

Quando sei l'unico nipote di uno degli esponenti più carismatici e di rilievo dell'intera Russia e, in più, non hai la benché minima inclinazione verso la violenza e la vita dedita alla guerra a cui molti ambiscono, quella diviene una scelta vitale.

Yuri Plisetsky aveva scelto, forse per la prima vera volta nella sua vita, per quanto breve e intrisa di una discutibile esperienza; non aveva scelto che suo padre lo scaricasse a tempo indeterminato a casa di suo nonno, non aveva scelto che gli venisse rifilata una patetica scusa a cui non aveva mai creduto, non aveva scelto quando, col passare del tempo, Nikolai Plisetsky decise di instradarlo sempre più a una vita così dannatamente fuori dalle sue corde.
Poteva dire con l'amaro in bocca di non avere potere decisionale neanche sul cibo da gustare con malavoglia a cena, seduto a quel lungo e freddo tavolo, immerso in un silenzio surreale.
Ma, la decisione che più gli rivoltò le budella e che, quella sera di non molto tempo prima, gli fece scaricare gli avanzi del suo misero pasto su uno dei pregiati tappeti di Kholia - per cui si beccò uno schiaffo sonoro sulla guancia destra - fu una in particolare: arruolarsi nell'Armata Rossa sotto le direttive del nonno e dei suoi burattini senza cervello.
Che Yuri Plisetsky fosse esile e al limite della denutrizione e che, con ogni probabilità, si sarebbe fatto ammazzare subito, importava relativamente poco. Ti farai i muscoli e la tempra direttamente sul campo, gli diceva sempre Nikolai.
Quella, però, non era la sua vita; non aveva la stoffa del soldato, desiderava essere solo un ragazzo, ma quella era la guerra, la fottuta guerra e diventare spettatore di un teatro simile era una triste normalità, a cui non poteva sottrarsi.

• • •

Finalmente, ora, era da solo.
Il materasso sotto la sua schiena era scomodo e usato, le lenzuola bianche erano sgualcite agli angoli, l'intonaco era umidiccio e l'intera stanza, così come il complesso, puzzava di stantio.
I vetri delle finestre, inoltre, erano così sottili e fragili da non essere in grado di isolarlo, almeno per un po', dai terribili suoni e rumori del mondo di quegli anni. Rumori che non facevano altro che imprimersi sempre più nei ricordi di tutti.
Era come alcuni anni fa, quand'era ancora nella dimora dei suoi genitori prima che sua madre svanì nel nulla, un giorno di inizio inverno.
Se chiudeva gli occhi abbastanza forte riusciva a percepire ancora il gelo sulla sue pelle, sdraiato nel suo lettino. 
Che fosse, adesso, giunto a preferire un dannato ospedale militare e una gamba rotta alla sua famiglia d'origine e alla sua casa, era una triste realizzazione che maturava dentro di lui da un po'.

La sera calò in fretta e Yuri fu costretto a rannicchiarsi ancora di più sotto le coperte, per quanto possibile. I suoi pensieri furono interrotti due volte, nel frattempo.
Il medico che lo visitò quello stesso pomeriggio non disse molto, mentre le infermiere tentavano di rassicurarlo sulla natura dei suoi traumi, definendoli comuni e all'ordine del giorno in quel periodo.
L'avevano poi condotto su una barella in una piccola area se possibile ancora più fredda della sua camera dove, al centro, troneggiava un enorme e poco rassicurante strumento a Raggi X. 
Gli ordinarono di restare fermo, e dove diamine doveva andare
Rimase sdraiato lì per un tempo che sembrò infinito, mentre il personale vagava avanti e indietro e l'invisibile fascio del macchinario probabilmente fondeva irrimediabilmente zone interne del suo corpo.
Avrebbe così tanto voluto stringere la mano di sua madre, in quell'istante.

La seconda volta, invece, fu quando, tornato sul suo letto non senza aver bisogno di aiuto, venne svegliato dal cigolio della porta e dalla voce dell'infermiera che gli mormorava di stare tranquillo e di non muoversi, indicando quello che era solamente un ospite temporaneo.

Sbuffò alzando gli occhi al soffitto dove la pittura minacciava di scollarsi e non degnò di un ulteriore sguardo il giovane e silenzioso uomo che varcò la soglia con una piccola borsa nella mano destra, inconsapevole di aver appena mandato in frantumi il desiderio di Yuri di soggiornare in quello scomodo e duro letto da solo; la presenza delle infermiere e dei medici era già più che sufficiente, un'altra invasione non era affatto gradita.

Il principale ospedale militare di Mosca, tuttavia, era piuttosto affollato in quel periodo, era un miracolo che con lui vi fosse solamente un altro inquilino in tutto quel delirio di ossa spezzate e famiglie distrutte.
La sua gamba, comunque, non era in condizioni migliori, ma se avesse avuto fortuna, forse sarebbe stato esonerato a vita, tagliando finalmente fuori dalla sua vita e una volta per tutte la sua breve carriera da soldato; ciò a cui aveva assistito era troppo, anche se sapeva di aver visto relativamente poco rispetto a alcuni dei suoi colleghi.
Ogni tanto, Yuri si sentiva stupido nel formulare pensieri di quel tipo; avrebbe forse dovuto amare di più il suo Paese e morire per esso, ma… non ne aveva il coraggio. Chi poteva biasimarlo?
Eppure, gli altri accettavano il loro destino ogni giorno. Dopotutto, essere il nipote di Kholia poteva, sì, avvantaggiarlo in un certo senso, ma non poteva certo proteggerlo a vita. Non da quella feroce guerra in cui l'aveva gettato con le sue stesse mani, comunque.
Pregava
Pregava di avere fortuna, null'altro.
Fortuna che il mondo, per una volta, girasse al contrario. 

• • • 

“Ti fa molto male?” sussurrò più tardi Otabek, sistemandosi meglio il cuscino sotto alla testa.
Era notte fonda da un po' e, quando Yuri non proferì risposta, proseguì. 
Sarebbe stato un fesso se non l'avesse riconosciuto istantaneamente.
“Spero mi dimettano in fretta, maledetti controlli di routine. Pensano che uno abbia tempo da buttare.”
“Sto cercando di dormire, se non ti dispiace.” replicò infastidito il biondo, tornando a socchiudere le palpebre stanche.
Quella notte, però, nessuno dei due riuscì a riposare. I sensi perennemente all'erta, sobbalzando a ogni rumore e il cuore in gola a ogni nuova fonte luminosa proveniente dall'esterno. 
Certo che era incredibile, incontrava l'oggetto dei suoi pensieri più intimi e la prima cosa che gli diceva era che lo stava disturbando, senza premurarsi d'essere gentile.
Sorrise nel buio, prima di prendere di nuovo fiato.
“Prima o poi smetterà, vedrai.” 
“Non smetterà mai, per voi soldati.”
“Dobbiamo essere fiduciosi.”
“Che c'è di fiducioso in quello che facciamo?”
“Hai fatto intendere di non essere un soldato.”
“Be', lo ero.” ritrattò a bassa voce. “E non lo sarò più.” aggiunse infine. 
“Mi chiamo Otabek Altin, comunque.” mormorò l'altro, attento a regolare il suo tono: una ramanzina da parte del personale era l'ultima cosa che voleva.
“Yuri.” disse, e Dio solo sapeva quanto Otabek avrebbe voluto osservare il suo viso alla luce del giorno. Erano trascorsi tre anni, era cresciuto, lo erano entrambi. Forse, se il destino aveva già messo in agenda il loro incontro, poteva anche mostrargli ancora una volta i suoi occhi verdi.

Comunque, riconobbe il fruscio delle coperte e comprese che quel breve dialogo, per il momento, poteva definirsi concluso.
Gli voltò la schiena e provò a dormire.
Quella che era certo non sarebbe mai terminata, era la continua visione di quegli occhi magnetici.
Non lo credeva ancora possibile.

Con la vastità dei loro territori conquistati e le morti che ogni minuto inquinavano le loro vite, aveva sempre pensato che rivederlo sarebbe stato impossibile. C'erano più chance di arrivare vivo alla fine della guerra.
E ora lo incontrava in uno degli ospedali militari al centro della città, senza sapere se anche lui l'avesse riconosciuto.
Perché al mattino successivo, quando Otabek si risvegliò, non lo trovò più nel suo letto.

Fu dimesso poco più tardi, pensieroso come poche altre volte nella sua vita.
Era un soldato, e non poteva perdere altro tempo.
L'aveva incontrato per due volte in circostanze del tutto insolite, e ancora una volta era costretto a dirgli addio.

• • • 
1940,
Kaunas, Lituania.

In guerra, non c'era tempo per fermarsi a osservare le cose semplici della vita. Quelle cose che, in un modo o nell'altro, sono sia estremamente trascurabili che di vitale importanza.
L'estate era alle porte e Otabek riuscì - dopo alcune ricerche - a scorgere tra la scarsa vegetazione dietro al grosso edificio dove sarebbe dovuto entrare da lì a poco, alcuni fiori comuni che in quel periodo crescevano spontaneamente a Kaunas, in Lituania. In verità, crescevano un po' ovunque, ma non poteva fare a meno di associarli a quella bellissima e devastata città.
Gli ricordavano sua madre e l'enorme libro che custodiva sotto al letto, ricolmo di fiori e fili d'erba: conosceva ogni sua minima parte a menadito, ancora a distanza di molti anni dall'ultima volta in cui si era addormentato tra le braccia di sua madre, cullato dalla sua voce mentre raccontava le mille storie sui suoi adorati fiori.

In guerra, un soldato aveva a malapena la possibilità di non farsi uccidere alla prima distrazione; eppure, lì, non riusciva proprio a farne a meno. I fiori, volente o nolente, facevano parte della sua vita.
Quel giorno in particolare, Otabek seguì il suo superiore all'interno di quel freddo e austero palazzo così in contrasto con i bellissimi fiori che, ai suoi piedi, gettavano nuova speranza in quella triste vita intrisa di violenza e sangue.
Tenne lo sguardo sui suoi pesanti stivali per tutto il tempo, mentre attendeva. Aveva appena compiuto diciotto anni, non aveva esperienza - e chi l'aveva, in quel massacro? - e ogni momento era buono per pensare a quanto tenesse alla sua famiglia, originaria del Kazakhstan in mano all'Unione Sovietica, più di quanto amasse sé stesso. Era probabile che non avrebbe più rivisto i loro volti, da quello autoritario di suo padre a quello amorevole di sua madre, fino ai visi puliti dei fratelli minori e della sua sorellina neonata.
L'avrebbero seppellito all'interno di una fossa comune, e non sarebbe stato l'unico.

La guerra era un incubo a occhi aperti che non guardava in faccia nessuno e non mostrava alcuna pietà. Tuttavia, sembrò suscitare un particolare effetto su uno dei ragazzi che quel giorno erano presenti. Quella fu l'unica volta in cui Otabek Altin sollevò lo sguardo dal freddo pavimento piastrellato.
La sua non era una bellezza rara, sicuramente proveniente dalla rigida Russia, eppure possedeva qualcosa di diverso, in più.
Non gli sembrò un ragazzo comune, se ne stava incollato ad un uomo - di cui scoprì il nome solamente in seguito ascoltando una conversazione durante il viaggio di ritorno - con lo sguardo acceso e guizzante, l'espressione corrucciata e un'adorabile linea di espressione sulla fronte e sulla guancia sinistra, appena qualche centimetro dalle labbra.
Sembrava incazzato col mondo intero.

Otabek era ancora un ragazzino che del mondo capiva ben poco, soprattutto riguardo all'amore. Non gli importava, quindi, che ad attrarre il suo sguardo fosse un ragazzo, esattamente come lui.
Non rivelò mai a nessuno il suo segreto, uno dei tanti che avrebbe collezionato in seguito, in ogni caso. 
Comunque, dopo quel giorno, in cui solamente una volta l'altro lo osservò di sottecchi e con sospetto, non lo rivide mai più. Forse era meglio così.
Dopotutto, sembrava anche uno dei numerosi e strafottenti altolocati appartenenti alle gerarchie più influenti delle varie Repubbliche.
Non faceva per lui.
No, decisamente Yuri Plisetsky non faceva per lui.
Almeno, fu quella la convinzione che portò avanti gli tutti gli anni a seguire. In verità, sognò i suoi occhi verdi per molto molto tempo.
In guerra non c'era tempo per queste sciocchezze.
La vita di Otabek Altin proseguì, tra incertezze, dubbi, incubi, drammi e molta ingiustizia; era lucidamente convinto che nel giro di poco, avrebbe perduto ogni cosa a lui cara.

Quel giorno, comunque, tornò alla caserma base con un pensiero in più, tra tutti gli altri che già lo assillavano da tempo, ignaro di cosa sarebbe realmente accaduto in poco meno di un anno.

• • •

Continua… 


Spazio autrice:
Buonasera a tutti.
Vorrei spendere solamente qualche parola conclusiva. Ho scritto questo prologo in un momento molto delicato, lo ammetto.
Non volevo nemmeno mettere in cantiere una nuova storia e, soprattutto, non avevo alcuna intenzione di pubblicare e passare del tempo dietro ad un altro progetto, eppure eccomi qui senza neanche sapere il perché.
Ho alcune storie/idee in sospeso, mille file che sto cercando di recuperare per dare un senso al mio lavoro, ma non posso che considerare questo prologo come una sorta di riscatto, aldilà di come andrà. Dopotutto, oggi è ancora il primo gennaio di questo nuovo anno.
Ci tengo a specificarlo, forse un po' per il mondo e forse un po' per me stessa.
In ogni caso, questo è e spero possa piacere a qualcuno! Quindi non mi resta che tornare a scrivere e continuare quest'altra follia.
Sperando di arrivare in fondo.
Alla prossima! ♡

-w
   
 
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