Giri di parole

di AlessandraCasciello
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Dicono che un poeta è un individuo che vive al di fuori del mondo. Dicono anche che un poeta inganna, perché vive sempre in armonia con la sua arte, che in realtà è una prigione che non lo fa respirare.
Dicono che un poeta è un pazzo sognatore che non riesce a camminare per terra con i pieni ben fermi al suolo, e che non è mai felice. In realtà il poeta è felice nella sua miseria, nella sua tristezza e nella sua malinconia. Di contrario, è infelice se strappato da questa sua dimensione. Che pena vivere come tutti gli altri! Che pena alzarsi agli orari che il mondo ci detta, e mangiare il pane con i soldi che guadagniamo tramite lavori comuni che ci fanno assomigliare a degli automi!
Il poeta vuole vivere. Vivere di cuore ed emozione. Vivere di energia, di percezioni, di visioni. Il poeta vuole vivere di immagini, di scatti rubati, di attimi evanescenti. Forse è per questo che nessuno vuole essere amico di un poeta, e del perché tutti, se invitati a descriverne uno, lo raccontano come una persona rinchiusa tra le quattro mura domestiche intento a scrivere qualsivoglia pensiero su carta straccia.
Dicono che la poesia sia inutile ma io non sono d’accordo: ci ricorda che siamo esseri umani. Ritengo che il motivo della decadenza della società odierna sia l’assenza di poesia. Mi prendo tutta la responsabilità di quello che sto scrivendo in queste quattro righe, perché come la scrittura non può essere imprigionata, così anche i miei pensieri.
Il mondo fa schifo perché non ci sono più poeti ad abitarlo, e se ci sono si nascondono e fingono di essere manager credibili, avvocati decenti o commercialisti frustrati.
Oppure si fingono baristi come me.
Non che io possa lamentarmi, visto che è stata una mia scelta continuare gli studi, ma avrei solamente ritardato la mia condizione attuale, viste la mia scarsa attitudine allo studio. Purtroppo, in Italia, essere creativi, profondi, saper scrivere storie e poesie non basta. Devi anche, giustamente, studiare. E a me non andava per niente.
Non fraintendetemi, non voglio essere presa da esempio per le nuove generazioni che si stanno avvicinando all’esame di maturità – dove la mia ansia ha raggiunto l’apice -, ma devo essere sincera e concreta: appena preso in mano il diploma, sono andata a lavorare. Ho fatto di tutto: commessa, baby-sitter, promoter. Mi sono trovata con due spicci da dividermi con mia mamma per pagare le bollette e ho dormito con la schiena a pezzi per le troppe ore in piedi. Ho scritto di notte e fantasticato di giorno, ho litigato con i miei capi e fatto amicizia con i miei colleghi. E viceversa.
Mi svegliavo prestissimo, camminavo in solitaria per le vie storiche di Roma lasciandomi ammaliare dai suoi rumori delicati: lo scrosciare delle fontane, il verso dei gabbiani, il fischio del tram. Tornavo la sera godendomi i suoi meravigliosi tramonti rossastri, con le strade colme di romani e turisti meravigliati dalle rovine che riempivano la città, tappandomi le orecchie con le mie cuffiette e la musica ad alto volume.
Diciamo che, da quando vivo a Londra, quelle belle passeggiate sono cambiate.
È cambiato il clima, il panorama, la gente. È cambiato il cibo, ed è cambiata persino la musica che risuona nelle mie orecchie. Non è cambiato il mio lavoro, per il quale mi trovo sempre dietro un bancone di un comunissimo bar, questa volta a Carnaby Street. Ovviamente, sono la più brava a fare i cappuccini.
Gli inglesi mi intimoriscono e divertono allo stesso momento: il loro accento marcato e le loro tradizioni immutate nei secoli, sembrano dei personaggi di un libro epico-mitologico. Le ragazze non provano il freddo, non rinunciando alle loro minigonne sbalzate.
“Un caffè, grazie”. Alzo lo sguardo trovandomi Paolo di fronte. Sorrido, asciugandomi le mani sul grembiule che ho legato in vita.
“Buongiorno, signore. È urgente?”
“Sì, signorì. Devo correre dalla mia coinquilina a raccontare molte cose”. Alzo le sopracciglia mostrandomi curiosa.
“Ti hanno dato finalmente un ufficio in casa discografica?”
“Macchè, magari. Ancora in stage. Comunque, molto più emozionante di questo.”
“Vediamo... – mi accarezzo il mento, guardando in aria – ti hanno sentito cantare in bagno la nuova canzone di Taylor Swift e ti hanno offerto un contratto?” Paolo scoppia a ridere, sfilandosi gli occhiali. Li incastra sul collo della sua t-shirt bianca, sporgendosi verso di me sul bancone. Lo avevo riconosciuto subito, con il suo accento romano marcato ed il tuo timbro acuto.
“Sono stato invitato all’After Party dei BRIT Awards dar principale mio.”
“Figo.”
“E tu ce vieni co’ me”. Sbarro gli occhi, porgendogli il caffè che gli ho appena preparato. Lo sguardo divertito di Paolo mi mette ancora più agitazione, perché è ben a conoscenza della mia perenne insicurezza in queste situazioni goliardiche.
“Paolo, non se ne parla”
“Eddai, Olly, te prego - mi prende le mani dall’altra parte del bancone – mi hai raggiunto fino a Londra, t’ho detto de venì a divide l’appartamento co’ me, ti so’ stato accanto per cercà lavoro, mi hai supportato in tutti i miei successi ed insuccessi nella casa discografica. Insomma, me lo devi, sotto un certo punto di vista”.
“Questo è un colpo basso da parte tua”
“E’ uno degli eventi più fighi dell’anno, tra celebrità che non avremo mai occasione di incontrare di nuovo, e io di certo non ce vado da solo a fa’ ‘a figura dell’ennesimo italiano deficiente. Te prego”. Chiudo gli occhi, prendendo un respiro profondo. Paolo sapeva come colpirmi e convincermi allo stesso tempo. Quando lo riguardo, sta sorridendo con un ghigno malefico: sa di avermi in pugno.
“E poi, signorì” mi dice iniziando a bisbigliare “Potrebbe essere un’occasione pe’ conosce gente, non pensi?”
“Mi bastano i tuoi amici sfigati di Hampstead”.
“Non penso. O, per lo meno, a me non più. Ciao tesoro, se vedemo stasera a casa”.
Si dissolve nel nulla, dandomi le spalle coperte dal suo trench cammello. La sua arma per mimetizzarsi in mezzo agli inglesi.
 
 
 
La nostra casa si trova ad Hampstead, una delle zone più ricche del quartiere di Camden. Qui risiedono artisti, scrittori, poeti. E quindi, mi è sembrato naturale unirmi a Paolo qui. Ovviamente, mi sembra d’obbligo informarvi che il nostro appartamento – sempre se così possiamo chiamarlo – è una “tana” da pochi metri quadrati con un solo letto matrimoniale che dobbiamo dividere.
Insomma, ci camuffiamo bene tra la borghesia londinese. Paolo dice che non potremmo vivere da altra parte, perché anche noi siamo artisti. Sì, io scrivo, gli dico sempre, ma non ho mai pubblicato. Non penso ti poter essere considerata scrittrice. Lui si arrabbia sempre quando lo dico, perché è convinto che noi siamo quelli che vogliamo essere. Quindi, secondo il suo umile ma pretenzioso pensiero, io ho tutto il diritto di voler essere considerata una scrittrice emergente.
Il mio corpo si abbandona al freddo quando arrivo finalmente alla nostra porticina. La apro velocemente, chiudendomela alle spalle. Tolgo il cappotto e lo appoggio sull’attaccapanni che c’è nel nostro piccolo ingresso, dirigendomi velocemente in cucina a prepararmi un tè caldo. L’inverno inglese, soprattutto il mese di Febbraio, è così pungente da mozzare il respiro. Prendo la mia tazza bollente e corro sulle scale in camera.
Il dettaglio che più mi piace di questa casa è l’enorme vetrata che sta a fianco al letto, da cui trapassa la luce la mattina presto. Ora, per esempio, viene filtrata la luce dei lampioni che illuminano la strada, offuscando quella della luna.
La mia routine serale prevede che io prenda il mio diario, iniziando a scrivere qualcosa. Qualsiasi cosa. Spesso finisco per macchiare il foglio bianco con quello che mi passa per la testa, e quasi sempre si tratta di un bel casino. Quando lo rileggo, per dirvi, non riesco nemmeno io a capire bene quello che ho buttato giù: sono per lo più frasi senza senso che, nel marasma del mio cervello, creano un puzzle articolatissimo. Sospiro, mi lego i capelli marroni in una coda, e inizio a scrivere poggiandomi sul davanzale della finestra.
 
“20 Settembre 2018.
 
Che odio questa mia vita,
fatta da giri di parole,
e non da giri di cuore.
Ma se in fin dei conti,
l’amore è vapore,
le parole sono l’unica consolazione”
 

Angolo Ale:

E dopo anni di silenzio, io ci riprovo.
Ci riprovo a parlarvi, a raccontarvi qualcosa. sperando che qualcuno possa apprezzare e, insieme a me, a sognare senza limiti nè restrizioni.
Vi lascio così, con questo barlume di speranza e di condivisione.
Al prossimo capitolo,
Ale x

 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Quando avevo diciotto anni mi divertivo tantissimo a prepararmi di tutto punto per le feste. Era il periodo dei diciottesimi, dove ogni evento veniva preso con una serietà ed una solennità al pari di un debutto in società. Era vietato utilizzare lo stesso vestito per più di una festa – a meno che gli invitati erano diversi e non ci fossero foto pubblicate in giro – e non era pensabile non mettersi un tacco dodici.
Erano le serate dove succedeva per forza qualcosa di emozionante: baci rubati, ubriacature epiche, balli imbarazzanti.
All’età di venticinque anni, questa emozione non riuscivo più a trovarla. Probabilmente perché l’idea di inserirmi in un ambiente esclusivo, di una nazione a me ancora estranea, con persone sconosciute mi generava un senso di ansia non indifferente. All’improvviso, capisco perché Paolo mi abbia supplicato di venire con lui.
In questo momento di puro flusso di coscienza, mi trovo su un taxi insieme al mio amico – lo sento respirare pesantemente, quindi sarà emozionato – e mi concentro a guardare la pioggia cadere sul finestrino, creando scie di acqua che sembrano fare a gara tra di loro. C’è molto traffico per strada, e la destinazione sembra allontanarsi sempre di più.
“Mamma mia, sto esaltato ‘na cifra” sorrido a Paolo, felice del suo entusiasmo.
“Vorrei esserlo anche io, invece sono solo agitata”
“Vedrai che te diverti, Olivia”. Non fa in tempo a finire la frase, che il taxi finisce la sua corsa. Paghiamo, e Paolo mi apre la portiera. Scendo dall’autovettura mostrando le mie gambe nude, fasciate da un corto vestito verde. Fa un freddo tremendo e già mi fanno male i tacchi. Mi sposto i capelli lunghi su una spalla, agganciandomi a un braccio di Paolo.
“Sei ‘na bomba, Olivia”
“Sto congelando. Muoviamoci”.
Appena vedo davanti a me Mike Smith, capisco di che pasta è fatto: non deve avere più di trentacinque anni, il completo blu elettrico è impeccabile come i suoi capelli biondi portati a spazzola, e il suo sorriso deve venire da almeno un paio di sbiancamenti importanti. Persino il suo profumo – riesco a riconoscere un aroma tipico di Dior – risulta così forte da farmi girare la testa, e devo concentrarmi per non tossire. Le luci psichedeliche del club mi confondo sui suoi movimenti, che sembrano più scattosi di quanto in realtà siano. Capisco subito che è il principale di Paolo da come cambia atteggiamento nei suoi confronti: gonfia il petto, abbandona la sua cafonaggine romana e indossa il più bel fascino posh che potrebbe mai avere nel suo subconscio. Il suo inglese è fluido, sicuramente marcato dalle sue origini, e di colpo non dimostra più venticinque anni ma di più. Mi tiene un braccio dietro la schiena per assicurarsi che non mi perda nel caos generale, presentandomi a Mike. Sorrido cordiale, facendo finta di non sapere già il suo nome. Mi presento alzando la voce, cercando di superare il rumore della musica, senza però grandi risultati. Mike fa finta di aver capito, annuendo. Ci indica il buffet, il piano bar, i divanetti. Paolo annuisce, gli regala un ultimo cenno e mi sposta verso l’angolo alcolici.
“Primo scoglio superato”
“Tutto d’un pezzo, il tuo principale”. Paolo alza le sopracciglia, alzando una mano al barista per richiamare la sua attenzione. Ordina due Vodka Lemon, unico drink che riesco a bere, e ci mettiamo comodi sulle sedie di fronte al bancone.
“Bellissimo questo vestito”
“Grazie, ma è scomodo”, dico cercando di non far scoprire troppo le cosce da seduta. Paolo mi da due pacche amichevoli sulle ginocchia, passandomi il drink appena arrivato.
“Bisogna bere per scioglierci”
“Loro saranno sempre più ubriachi di noi”
“Tesò, gli inglesi so’ ubriachi dalle cinque di pomeriggio”. Rido, portando la testa all’indietro. Rido ancora di più quando mi accorgo che mi stavo sbilanciando dallo sgabello. Mi scuso con la ragazza alle mie spalle che ho colpito, e lei mi rassicura con un movimento di mano e un sorriso veloce.
“Che c’è, Paolo?” gli chiedo, notando il suo sguardo sotto shock.
“Olivia – mi bisbiglia, con il suo sguardo fisso dietro le mie spalle – sei appena andata a sbattere contro Rita Ora”. Cerco di girarmi, ma lui mi blocca.
“E chi è”
“Lascia stà, sei un caso perso”. Prendo un sorso dal mio drink, iniziando a studiare l’ambiente. Gli invitati al party sono decisamente su di giri per via dell’alcool, ma allo stesso tempo sembrano tenerci a mantenere un’immagine contenuta. Non sembra un’occasione per divertirsi, ma per farsi vedere divertiti. Che è ben diverso.
Paolo mi fa diversi nomi di personaggi illustri. Alcuni li conosco, altri meno. Mi fanno simpatia, però: dal vivo sembrano così comuni, così insulsi. Perdono quell’aura di intoccabilità che mostrano attraverso le televisioni, o i cellulari. Provo a captare i loro pensieri, ma la musica alta mi distrae.
“Aò, me stai a sentì?” Paolo mi richiama al pianeta Terra.
“Sì, scusami”
“Stai già ‘mbriaca? Comunque ti stavo dicendo che vado a salutare un collega che sta lì sui divanetti” mi indica con il dito l’angolo, assicurandosi che io lo stia vedendo con attenzione. “Mi raccomando, non ti allontanare e qualsiasi cosa, sai dove trovarmi”. Lo lascio andare, continuando il mio studio sociologico.
Mi sento un soprammobile. Non mi sto divertendo, e la Vodka Lemon ancora non mi ha sciolta abbastanza da poter iniziare una conversazione con qualcuno. Sto iniziando anche ad avere sonno, e uno sbadiglio mi tradisce. Ordino un altro bicchiere.
“Andiamoci piano però, signorina” mi giro alla mia destra, trovandomi Mike Smith. Ora riesco a sentire meglio la sua voce. Sorrido, facendo spallucce.
“Mi fermerò solamente al secondo bicchiere”
“Oh, allora mi dispiace se l’ho demotivata all’inizio”. Ride, ordinando uno scotch. Studio il suo profilo, e lo sguardo mi cade sulla sua fede al dito. Mi perdo nella mia immaginazione: avrà una moglie ricca e super curata, un figlio viziato ed una casa enorme. Chissà quante e quali macchine avrà, e perché ha deciso di lavorare in quell’ambiente artistico. Magari da giovane suonava.
“Allora, cosa ti ha portato a trasferirti a Londra?” mi chiede sorseggiando il suo bicchiere.
“Volevo cambiare ambiente, aria nuova. E poi, secondo Paolo trasferirmi avrebbe fatto bene alla mia solito confort zone. Non sono una grande amante dei cambiamenti”
“Capisco. Beh, alla fine la dinamica della grande città la conosci”
“Sì, sicuramente, ma vede, Roma è molto diversa da Londra. È più... rilassata. Nonostante i vari street di una metropoli così turistica. Londra sembra un orologio impazzito, a volte”, Mike sorride, annuendo.
“Hai fatto una bella similitudine accurata. Complimenti”
“Grazie – sussurro, muovendo la cannuccia nel mio bicchiere – deve essere la mia passione per la lettura”.
“Leggi?” mi accorgo di essermi fatta sentire. Annuisco, “Sì. E scrivo”
“Sei una scrittrice?”
“Sì. Cioè, no. Voglio dire, scrivo per me, ma non ho mai pubblicato un libro”.
“Però hai la base per farlo”. Rimango in silenzio, distogliendo lo sguardo. Trovo strano il fatto che voglia parlare con me, tra tutte le persone notevoli che occupano il locale. Forse vuole attaccare bottone, ma ha una fede. Mi sento a disagio e voglio andarmene, quindi cerco con lo sguardo Paolo. Non sta più su quel divanetto.
“Questo vestito verde ti sta divinamente”. Arrossisco, iniziando a sentirmi senza aria. Questa situazione mi mette in estrema difficoltà, e il fatto che non riesca a trovare Paolo mi mette nel panico. Non rispondo, posando il bicchiere ormai finito.
“Devo andare in bagno”, esclamo saltando dallo sgabellino. “E’ stato un piacere, davvero”, lo liquido dirigendomi verso il corridoio che porta alle toilettes. Spero di trovare Paolo, a cui sto riversando i miei peggiori insulti per essere sparito dal nulla.
E poi, e poi, e poi...
Lo vedo. Per la prima volta.
Sta appoggiato con le spalle al muro, di fronte la porta del bagno. Braccia conserte, piede incrociato sull’altro, capelli ricci che gli ricadono sulla fronte, sguardo accigliato. Non sembra arrabbiato, ma annoiato. Forse è seccato per l’attesa. Mi avvicino, fermandomi a qualche metro da lui.
“Fai la fila?” il ragazzo alza lo sguardo di scatto, facendo muovere i capelli. I suoi colori sono alterati dalle luci del club, quindi è totalmente sui toni del viola e del blu. Sicuramente ha gli occhi chiari, perché risultano limpidi.
“Sì, sto aspettando. Da circa dieci minuti”. È decisamente seccato. La sua voce è bassa e roca, a tratti graffiata. Sbuffa, va a bussare, torna alla sua postazione.
Ora che è in piedi diritto, noto che è molto alto e longilineo. La camicia attillata mette in risalto i muscoli, e i suoi jeans fasciano le sue gambe magre.
Quando la porta del bagno si apre, esce una ragazza a dir poco su di giri per via dell’alcool. Barcolla un pochino, accasciandosi addosso al ragazzo che la regge al volo. Ne approfitto per sgattaiolare in bagno prima di lui, saltando la fila.
Quando esco, lo ritrovo a braccia conserte. Mi guarda con un sopracciglio alzato, ma percepisco un ghigno giocoso.
“Non va bene saltare la fila, sai?”
“oh, davvero? Al mio paese è buona consuetudine”. Scappo via, ma sono sicura di sentire una risata alle mie spalle, e la porta del bagno chiudersi.
“Olivia!” Paolo mi afferra per un braccio, fissandomi negli occhi preoccupato. Sicuramente anche lui mi stava cercando da un bel po’, ma non avevo intenzione di intavolare una discussione proprio in quel momento.
“Scusami, stavo in bagno. Torniamo a casa?”.
 
 
 
“T’ho detto mille volte di non allontanarti, e sei riuscita a perdete in du’ minuti” mi sgrida Paolo appena rientrati a casa. Non rispondo, sia perché sono decisamente troppo stanca, sia perché la mia vena polemica non è in grado di sostenere un litigio. E poi, lo incenererei subito. Mi limito a sbuffare, lanciando i tacchi all’ingresso.
“Bella serata, non trovi?” cerco di cambiare argomento, sapendo che Paolo non può resistere ad una sana chiacchierata. Ci buttiamo entrambi sul letto, nonostante i vestiti ormai sgualciti. Il suo sguardo è subito più rilassato, mentre si sfila la giacca dalle spalle e la butta a terra.
“E’ stata ‘na serata esagerata. Certo, niente a che vedere con i festini che facevamo al liceo, però è un’occasione per conoscere gente. E che gente. Ma te rendi conto che sei andata addosso a Rita Ora? Assurdo.”
“Già”
“Poi sbaglio o ti sei messa a parlare con Mike?”
“E’ venuto lui da me, in realtà. poi sono dovuta andare in bagno, ma c’era fila”
“Chissà quali atti impuri stavano per essere consumati lì dentro”. Ridacchio, stendendomi vicino a lui e guardando il soffitto. Il bello della nostra amicizia è sempre stata la nostra confidenza, il nostro affetto senza malizia. Paolo era uno di quegli amici che, da sempre, era diventato ormai la mia coscienza. Siamo cresciuti insieme, incontrandoci alle medie. Mi ricordo ancora quando mi difendeva dai bulletti che mi prendevano in giro. in quel momento, in cui aveva urlato un “basta!”, fermando il gioco contro di me, ci siamo guardati negli occhi per più di due secondi, e ho sentito come un imprinting – o per lo meno penso sia così -. Non ci siamo più lasciati andare.
Mi rendeva felice sentirlo felice, soddisfatto. Non aveva studiato tanto per arrivare al suo lavoro da stagista presso la casa discografica, ma aveva sicuramente faticato e lottato. Come dice sempre, i libri gli sono serviti a capire qual era la sua strada perché, semplicemente, li ha rifiutati. Ha comprato un biglietto solo andata per Londra a diciannove anni e ha iniziato a proporsi nei vari posti di lavoro candidandosi per qualsiasi cosa. Aveva letto un giorno un annuncio sul giornale, dove la casa discografica Columbia Records richiedeva un tuttofare: ha alzato il telefono, ha chiamato – ha anche un po’ supplicato – e il giorno dopo stava in prova. “A Londra è tutto così veloce”, mi aveva spiegato.
“Te ti sei divertita, hai parlato con qualcuno?” guardo il soffitto, reggendomi la testa con le mani. Ho parlato con Mike, ma mi aveva trasmesso un’angoscia infinita, e poi avevo parlato con quel ragazzo sconosciuto davanti il bagno, e per un attimo mi sono ricordata del suo sguardo su di me, illuminato dalle luci viola e blu che in quel momento erano trasmesse nel locale. Cerco di ricordarmi i dettagli, ma il ricordo sfuma con la stanchezza. Magari Paolo lo conosce, e può dirmi di più.
No, non penso.
“Con nessuno”.






 
 

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