Tra sogno e realtà

di crazy lion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un luogo e un desiderio ***
Capitolo 2: *** La bambina perduta ***
Capitolo 3: *** L'umana tra le fate ***
Capitolo 4: *** Alla ricerca di Hope ***
Capitolo 5: *** La bimba e l'altro popolo ***
Capitolo 6: *** I frutti della speranza ***
Capitolo 7: *** In un nuovo mondo ***
Capitolo 8: *** Poteri d'amore e amicizia ***
Capitolo 9: *** Conciliabili differenze ***
Capitolo 10: *** Il verdetto delle anziane ***
Capitolo 11: *** Vita a Eltaria ***
Capitolo 12: *** Giochi e magia ***
Capitolo 13: *** Comunità e calore ***
Capitolo 14: *** Un'esperienza forte ***
Capitolo 15: *** Lavorare con il cuore ***
Capitolo 16: *** Primo giorno alla Penderghast ***
Capitolo 17: *** Vite solo in parte umane ***
Capitolo 18: *** Problemi quasi umani ***
Capitolo 19: *** Piccole creature magiche ***
Capitolo 20: *** Tensione e confessioni ***
Capitolo 21: *** Una strega per amica ***
Capitolo 22: *** Lezioni d'amore e magia ***
Capitolo 23: *** Mackenzie l'apprendista ***
Capitolo 24: *** Timori e riflessioni ***
Capitolo 25: *** Rivivere il passato guardando avanti ***
Capitolo 26: *** Il futuro in quel mondo ***
Capitolo 27: *** Gita a cavallo ***
Capitolo 28: *** Concentrarsi sul presente ***
Capitolo 29: *** Guarire o provarci ***
Capitolo 30: *** Un domani incerto ***
Capitolo 31: *** Scoprire il mondo come se stessi ***
Capitolo 32: *** Momenti felici ***
Capitolo 33: *** Festa ***
Capitolo 34: *** Un sogno che non s'infrange ***



Capitolo 1
*** Un luogo e un desiderio ***


TRA SOGNO E REALTÀ

Dreams-and-reality-mod  

PREFAZIONE

 
L'idea per questa fanfiction è nata da Emmastory. Quando, a febbraio 2019, mi ha proposto di scrivere un crossover tra la sua saga fantasy Luce e ombra e la mia long di genere drammatico, introspettivo e romantico su Demi Lovato Cuore di mamma, allo stato attuale entrambe ancora in corso e che non è fondamentale aver letto prima di iniziare questa storia, lo ritenevo un progetto impossibile. Nel suo caso non si trattava di una fanfiction ma di una storia originale, quindi creare un crossover sarebbe risultato più semplice, però non avevo mai nemmeno lontanamente pensato di farlo: era qualcosa di molto più grande di me.
 
Nella mia vita ho letto pochi libri fantasy, ho iniziato solo da un paio d’anni, e non mi ritenevo all’altezza di scriverne uno. Come per ogni genere, prima di buttare giù un abbozzo di trama di una storia è necessario leggere tanto. Questo è quanto ho sempre trovato scritto online mentre, spesso, ho cercato informazioni su come scrivere un romanzo non perché pensassi di non poterci riuscire, ma per migliorare grazie a quei consigli. Partendo da queste premesse avevo paura di fare confusione, scrivere qualcosa di sbagliato e mandare, senza volerlo, tutto all'aria. Ma la mia amica, con l'allegria e la positività che la contraddistinguono, mi ha dato forza aiutandomi a capire che, con calma e pazienza, saremmo riuscite a scrivere qualcosa di buono e ben presto ho cominciato a crederci anch'io, con tutta me stessa.
 
Abbiamo quindi riflettuto su ciò che accomunava certi personaggi (caratteri e alcuni, simili fatti della vita) e ci siamo messe d’accordo su come sviluppare il tutto capendo che né le dinamiche, né i protagonisti o i personaggi secondari sarebbero risultati strani se riuniti in un crossover.
 
Ho scritto le prime sedici pagine di Tra sogno e realtà il 7 agosto 2019, un giorno terribile per me. Stavo male, l'ansia mi divorava e ho trovato nella scrittura l'unica cosa che mi desse sollievo. Dopo aver capito che quello su cui avevo lavorato andava bene, l'ho inviato a Emmastory.
 
Da lì abbiamo cominciato a dividerci le parti, delineato meglio la trama alla quale avevamo pensato nei mesi precedenti, io ho messo a punto una scaletta che è servita anche a lei e abbiamo continuato a scrivere. Spesso mi ritrovavo a metà di una frase cercando la parola più efficace per esprimere quello che volevo e rimanevo ferma finché non mi veniva in mente. Districandoci tra altri progetti e vita in generale, io e lei siamo andate avanti aggiungendo sufficienti dettagli di entrambe le opere in modo che anche chi non si fosse mai approcciato a esse potesse comprendere questa, ma allo stesso tempo restasse con la curiosità di dar loro, magari in futuro, più di una semplice occhiata.
Ringrazio Emmastory per avermi fatta immergere ancora di più nel suo mondo fantasy. Grazie ai consigli che mi ha dato e alla mia conoscenza, più approfondita di quanto credessi, della saga e dei suoi personaggi, sono riuscita a scriverne anch’io.
 
Quella che all'inizio avrebbe dovuto essere una lunga one shot, pensavamo infatti di non superare le ottanta pagine, si è trasformata in qualcosa di più corposo. Guardandomi indietro mi rendo conto che avremmo dovuto capire subito che, dato che gli eventi si svolgono in poco tempo ma sono molti, era inevitabile che diventasse una storia a capitoli.
Delineare alcune differenze tra la Terra ed Eltaria, le reazioni di Demi e della sua famiglia nel trovarsi in un mondo diverso dal loro poiché magico, parlare delle differenti razze e introdurre parecchi personaggi non è stato facile e tutto ciò necessitava di spazio. Senza dimenticare che abbiamo trattato tematiche importanti e delicate che, proprio per questo, non potevano essere riassunte in un paio di pagine.
Alcuni personaggi sono stati approfonditi meno in quanto secondari o comparse, altri invece sono più presenti.
 
Tanti dicono che scrivere una fanfiction sia semplice, ma possiamo assicurare che non lo è affatto. È difficile tanto quanto farlo con un romanzo, se ci si mette impegno; e con un crossover è ancora più complicato.
 
A volte non eravamo d'accordo su alcune cose e abbiamo dovuto trovare dei compromessi, ma avevamo già fatto una collaborazione con la mia fanfiction Cronaca di un felice Natale e sapevamo da tempo che i nostri stili di scrittura, seppur diversi, non lo sono così tanto e perciò si armonizzano bene insieme.
 
Questa storia ci ha fatte ridere, piangere e riflettere su tematiche importanti. Il nostro cuore a volte si è sciolto per la tenerezza, altre stretto in una morsa di dolore o d’ansia a seconda delle scene. Ma mentre la fanfiction cresceva e i personaggi maturavano, chi più chi meno, lo facevamo anche noi. D'altronde la scrittura è un viaggio interiore dello scrittore e se non gli lascia qualcosa allora non è emozione, sono solo parole buttate giù con svogliatezza su carta o un foglio di un programma di videoscrittura. Per noi è la prima di queste due cose e ci auguriamo che continuerà a esserlo.
È stato un lungo lavoro durato mesi tra scrittura, diverse riletture e revisioni che hanno compreso, fra le altre cose, tagli di frasi e scene inutili e riscrittura di alcuni passaggi, ma alla fine ce l'abbiamo fatta.
Come recita una frase di Thomas Gray:
Le poesie sono pensieri che respirano e parole che bruciano.
Benché la nostra fanfiction non sia una poesia, io ed Emmastory lo riteniamo vero anche per la narrativa, interpretando la frase nel seguente modo. È necessario pensare bene a ogni parola che si scrive, a ciascun vocabolo che si utilizza cercando quello adatto, e le parole possono far male se non sono quelle giuste o se scatenano in noi o nei lettori emozioni negative, ma è anche questo il bello della scrittura: emozionare.
 
In Tra sogno e realtà ci siamo noi con i nostri personaggi, le loro vicende e i loro problemi, la fantasia che soprattutto io ho potuto lasciar andare a briglie sciolte discostandomi dal tanto amato realismo e, almeno nel mio caso, cose che riguardano me dato che vivo alcuni fatti che Andrew, uno dei miei personaggi originali, sta affrontando.
Dietro questa storia ci sono impegno, ricerche che abbiamo svolto in precedenza per altri scritti durate mesi, sia prima che durante la stesura delle long in questione, e altre fatte appositamente per questa storia.
 
È ovvio che qui non ci sia tutto quello che troverete nella saga e nella fanfiction che abbiamo, incrociato, ma ci auguriamo che possa piacervi e che riusciate ad amare questa storia tanto quanto continueremo a farlo noi, per sempre.
 
Ci teniamo, infine, a precisare alcune cose.
Alcuni degli eventi qui descritti non appaiono ancora nella saga originale. Non bisogna vederli come spoiler, bensì come divertente assaggio di quello che accadrà. Per quanto concerne Cuore di mamma, invece, tutto ciò che verrà narrato è già successo nei capitoli fino al 107, che si svolge di lunedì. Mackenzie riappare nel 109 quando è giovedì (tra questo e il 108 c’è un breve stacco). Tra sogno e realtà comincia di martedì sera, quindi ho immaginato anche grazie a quanto scritto nel capitolo 109 di Cuore di mamma quanto accaduto quel giorno. Potrebbero essere presenti episodi della vita di Demi, tratti dal libro di sua madre Dianna De La Garza, Falling With Wings: A Mother’s Story o da interviste alla ragazza dei quali non ho parlato nella mia fanfiction o perché in quella storia non servono, o perché non l’ho ancora fatto, ma non escludo di inserire qualcosa nei capitoli futuri.
Qualche evento qui presente, che riguarda alcuni personaggi originali, è un po’ diverso rispetto a quanto scritto nella mia storia perché mi sono accorta che dovrò revisionarlo per trattarlo meglio, o, in certi casi, eliminare alcune cose perché non necessarie o esagerate, viste le tante tematiche già delicate delle quali avevo parlato. Farò tutto questo una volta ultimata la fanfiction, e qui ho preferito scrivere i fatti nella nuova versione.
Per quanto riguarda ciò che Demi ha passato, nelle mie fanfiction ho scelto di non trattare i suoi problemi con l’alcol, la droga e il disturbo bipolare perché, pur con tutta la documentazione possibile, avevo la sensazione che non sarei riuscita a parlarne in modo adeguato. Quelle sono tematiche che non considero alla mia portata, per cui ho preferito riconoscere i miei limiti, piuttosto che sbagliare. Ma io ed Emmastory abbiamo affrontato tutte le altre cose che la cantante ha vissuto. Sia per queste che per le altre tematiche abbiamo il massimo rispetto e ci siamo adoperate per parlarne con tatto e sensibilità, com’è giusto che sia.
Il tutto si svolge nell’arco di pochi giorni e i capitoli sono trentaquattro. Vari saranno quindi ambientati nella stessa giornata, ma solo perché iniziano con punti di vista e scene diversi.
Uno dei personaggi della saga di Emmastory parla anche spagnolo, per cui saranno presenti alcune espressioni in quella lingua. Tradurremo in una nota a fine capitolo o, se servirà alla storia, nel testo, quelle che potrebbero non essere comprese. Per esempio, tutti riescono a capire cosa significa perfecto, che non avrà una traduzione, ma lo faremo con altre espressioni meno chiare.
Data la presenza di bambini, nei loro dialoghi ci sarà qualche errore voluto, soprattutto di verbi sbagliati o parole pronunciate male. Non sono molti, ma l’abbiamo ritenuto importante per rendere i bambini il più realistici possibile.
Infine, essendo questa fanfiction un sogno di Mackenzie, tranne qualche pagina ambientata nel mondo reale, i personaggi della mia fanfiction si trovano in una realtà alternativa, un misto di fatti legati alla saga e alla fantasia della bambina. Ciò significa che alcune cose che accadono in Luce e ombra qui potrebbero non avvenire, o farlo ma prima o dopo rispetto all’originale, in quanto nei sogni tutto si può mescolare e modificare.

 
 

CAPITOLO 1.

 

UN LUOGO E UN DESIDERIO

 
Kaleia camminava per casa. Dal giorno prima non riusciva a stare ferma e si passava in continuazione una mano tra i capelli bruni.
“Kia?” Sky, sua sorella maggiore, si tormentava una ciocca quasi bianca. "Succederà?"
"Lo spero. Mi piacerebbe incontrarli."
"Io credo che sarà presto."
La loro mamma, Eliza, le ascoltava senza capire. Quelle due erano strane. Parlavano di qualcuno che speravano arrivasse. Non sapevano né come né perché, ma una sorta di sesto senso lo suggeriva a entrambe. Tutto ciò appariva quantomeno bizzarro agli occhi della donna. Si passò una mano davanti al volto.
“E se non giungesse?”
“Credo che lo farà, mamma” asserì Sky.
“Io ne sono più che convinta” aggiunse Kaleia e batté una volta le mani.
Non si erano mai comportate così, prima. Certo, poteva capitare a tutti di provare sensazioni inspiegabili, di dirsi che qualcosa sarebbe o meno accaduto, ma a Eliza parevano troppo convinte e sperava che, nel caso in cui non fosse successo niente, non sarebbero rimaste deluse.
“Perché è così importante?”
“Perché potrebbe cambiare tutto!” esclamarono le due all’unisono, mentre gesticolavano in modo frenetico.
“Che intendete con tutto?”
“Molte cose, mamma, vedrai” rispose Kaleia.
“O meglio, più che cambiarle le potrebbe trasformare, e sono importanti” precisò Sky. “Se in positivo o in negativo, non te lo sappiamo dire.”
La madre temeva non sarebbe stata una sorpresa gradita. Era un umano? Una fata? Uno gnomo, un elfo, un folletto o chi altro?
Sbuffò.
"Ragazze, io vado a letto."
"Mamma, ci siamo appena alzate."
"Lo so, Sky, ma da ieri parlate di questa cosa e non ne posso più. Ho mal di testa."
Si ritirò nella sua stanza sbattendo la porta, mentre le sorelle si guardavano negli occhi non sapendo che aggiungere.
"Meglio che torni da mio marito."
"Ecco, Kia, vai a raccontare a lui tutte queste storie" urlò Eliza.
"Gli ho già detto ogni cosa, e indovina? Non mi crede e mi dice di darmi una calmata."
"Fa bene. Vale anche per te, Sky."
Kaleia batté un piede a terra: la loro sensazione non era sbagliata, ci avrebbe scommesso.
"Porta pazienza, sorellina. Porta pazienza" rispose Sky con voce pacata. “Dal momento in cui accadrà, la nostra vita non sarà più la stessa.”
 
 
 
Mackenzie cercava di prendere sonno. Anche quella sera Andrew, che considerava un papà, era venuto a trovare lei, la mamma e Hope. I suoi genitori non vivevano ancora insieme, ma si vedevano quasi tutti i giorni. Il giorno dopo la piccola avrebbe avuto di nuovo scuola e ora che la situazione era migliorata, che James non frequentava più l’istituto e che gli altri bambini, lunedì, si erano comportati per la maggior parte bene con lei e la sua amica Elizabeth, si augurava che tutto sarebbe andato meglio. Era impossibile che avvenisse subito un cambiamento; avrebbe dovuto lottare ancora se non contro veri bulli, quantomeno contro le prese in giro. Ma da quando si era aperta con la mamma riguardo la situazione a scuola, Mackenzie era convinta di avere in sé una forza nuova. Nonostante ciò, non riusciva ad addormentarsi. Temeva non avrebbe più ricordato o parlato, le stava anche passando la voglia di andare in terapia. Avrebbe fatto meglio a dire alla psicologa che preferiva raccontare più spesso altre cose e lasciare da parte il proprio passato e non sapeva se sarebbe stata la scelta giusta. I suoi genitori avrebbero pensato che la loro figlia fosse un fallimento? Il cuore le batteva forte e si rigirava nel letto alla ricerca di una pace che non trovava mai.
Lanciò via le coperte. Si alzò di scatto e dovette restare ferma per qualche secondo affinché una lieve vertigine passasse. Si infilò le ciabatte e corse in camera della mamma.
"Conosco un bravo fotografo, chiederemo a lui. C'è una buonissima pasticceria qui in città, commissionerò la torta a loro e non dovrebbero esserci problemi. Per le bomboniere domanderò a una signora che le fa, spero sarà gentile e perdonerà il ritardo."
Era lei a parlare. Di sicuro stava mettendo a punto con il papà gli ultimi dettagli per il Battesimo suo e di Hope che si sarebbe tenuto il 10 dicembre, venti giorni dopo. Mackenzie non vedeva l’ora che arrivasse. Sarebbe stato uno dei momenti più importanti della sua vita. Le dispiaceva interrompere i preparativi, però se voleva dormire bene aveva bisogno dei suoi. Entrò piano, ma cercando di farsi sentire per non spaventare nessuno.
"Amore, stai bene?" le chiese il papà.
Lei accese la luce in modo che i genitori potessero leggere ciò che scriveva. Non conosceva la lingua dei segni e preferiva la scrittura come mezzo di comunicazione. Dopo quanto successo aveva avuto altre cose per la mente, non certo quella di imparare dei segni, per quanto in casa-famiglia avessero provato a farglieli entrare in testa.
Hope, che di solito dormiva della grossa, si svegliò e si lamentò.
Ecco, se riuscivo a parlare non succedeva.
Si rese conto che c'era qualcosa di sbagliato in quella frase, ma non cosa.
Il papà prese in braccio Hope.
Sì, sto bene scrisse Mackenzie, ma non riesco a dormire.
L’uomo le sorrise e per un attimo i loro sguardi si incontrarono. Quando sorrideva, gli occhi verdi del papdre sembravano brillare.
"Resta con noi, allora."
La bambina si sarebbe aspettata una frase diversa da parte della madre, come per esempio:
"Torna nel tuo letto, cerca di calmarti e vedrai che ti addormenterai."
In quattro si stava stretti. Si sudava tanto che dovettero liberarsi delle coperte, ma non consideravano quella situazione un peso e continuavano a stringersi le mani e a ridere. Essere lì, vicini, insieme, li faceva sentire più uniti.
Sapete che Elizabeth avrà un fratellino?
"Sì" risposero i genitori all'unisono.
Io credo sarà un maschietto, lei invece dice che non ne ha idea. Secondo voi?
"Non ci ho ancora pensato, Mac." La mamma le scompigliò i capelli, neri e ricci come quelli della sorella. "Mary è solo all’inizio della gravidanza, c’è tempo per fare ipotesi. Adesso è ora di dormire."
Ma non riesco.
"Amore, io ti voglio bene, ma domani devi andare a scuola e noi abbiamo il lavoro" le ricordò il padre.
Demetria si alzò.
"Prendo il computer."
Una volta collegato, aprì un file. Nel frattempo Mac stava spiegando al papà che la mamma frequentava un sito di storie originali e fanfiction, con racconti in tutte le lingue, in cui non molto tempo prima aveva iniziato la saga Luce e ombra dell'autrice Emmastory e che la leggeva a lei e Hope.
“Piace anche a me,” sii intromise la ragazza, “perché manda messaggi profondi.”
Raccontò che l’autrice aveva rimosso la prima parte della saga diverse settimane prima per revisionarla e provare a pubblicarla con una casa editrice e lei aveva fatto appena in tempo a salvarsela sul PC, con il permesso di Emmastory, in modo da poterla leggere alle sue figlie.
“E di cosa parla?” chiese Andrew.
Fu Mac a rispondere. Luce e ombra raccontava la storia di due fate. La protagonista era una, Kaleia, la voce narrante, ma anche Sky aveva un ruolo importante.
Le fate, le pixie e i folletti sono grandi quanto gli umani precisò la bambina, temendo che il padre pensasse che erano minuscoli e ridacchiando a quella sola idea.
"Capitolo XII. Venti a mezzanotte” iniziò Demi.
La lettura era scorrevole e le due sorelle si rilassarono, anche il papà pareva intrigato.
Mamma, sembra tutto così reale!
La donna sorrise.
"In che senso?"
È come se vivessi davvero quelle avventure con i personaggi, papà. È bellissimo!
"Ho comprato i giocattoli della saga, forse è anche per questo motivo che dice così" sussurrò Demi al fidanzato.
Nonostante l’autrice non fosse ancora famosa, aveva un gran seguito non solo nel sito ma anche sui social dove aveva pubblicizzato le sue storie. Si era quindi decisa e aveva fatto fare una linea di gadget dei personaggi di Luce e ombra. Ce n’erano pochi in giro per il momento e costavano parecchio, ma per una volta Demetria aveva deciso di fare spese pazze.
"Fortunata lei che può ancora fare questi ragionamenti" rispose lui.
“A volte capita anche a me.”
“Cioè?”
“Non vorrei fare la figura della stupida.”
“Non lo sarai mai, ai miei occhi.”
Mackenzie sorrise e restò in attesa.
“Mi capita con certe favole, soprattutto se in esse ci sono dei bambini. Forse perché ne ho due.” Accarezzò i visi delle sue figlie. “Per esempio, se penso a Biancaneve o a La bella addormentata nel bosco, in particolare alle prime scene in cui sono ancora bambine, immagino di poterle abbracciare, stringere le loro manine piccole, udire i loro pianti e mi sento addirittura male sapendo che la prima viene allevata da una matrigna cattiva e che tre fate, in accordo con i suoi veri genitori, portano via la seconda per salvarla” spiegò con voce sognante.
Lo facevano per il suo bene, aggiunse, ma per i due doveva essere stato terribile prendere quella decisione.
Il papà avrebbe preso in giro la mamma per quanto aveva detto? No, non era quel tipo di persona.
“È singolare che tu faccia questi ragionamenti. Pochi adulti vanno in profondità, soprattutto riguardo quelle scene. Non sto dicendo che è sbagliato, anzi, credo sia bello che il tuo istinto materno si faccia sentire.”
Demi confessò di non aver detto questo a nessun altro in vita sua.
“Allora sono felice di essere stato il primo.”
La baciò su una guancia, con delicatezza, e Mac sorrise di nuovo. I suoi genitori si voltarono e la bambina udì un lieve schiocco. Si stavano baciando, capì, nonostante la presenza sua e di Hope, e per questo si erano girati. Anche se alcuni dei suoi compagni esclamavano:
“Che schifo!”
con una smorfia di disgusto quando, raramente, parlavano di qualche serie televisiva in cui i personaggi si davano un bacio, a lei non faceva impressione, anzi. Certo, mamma e papà avrebbero potuto aspettare un altro momento, ma si amavano, si erano voltati per proteggerle, in un certo senso, e non c’era nulla di male in questo. Quando i due si girarono parvero credere che lei non si fosse resa conto di nulla, perché non fiatarono. Ma Mackenzie aveva compreso, e il suo cuore fece le capriole nel vederli mentre si sorridevano.
Ripensò a quanto la mamma aveva detto poco prima. Se aveva capito bene, il succo del discorso era che, in fondo, ognuno di noi dovrebbe restare sempre un po' bambino. Il problema, rifletté, è che tanti adulti non ci riescono. Non capiva come mai, ma era fiera del fatto che la mamma ne fosse capace. Nel frattempo si immaginava di essere lì a Primedia, il bosco dove vivevano le due fate, o a Eltaria dove in seguito si sarebbe trasferita Kaleia, l’aveva letto sbirciando nel sito all’insaputa della mamma, e di vivere le loro avventure, ma Sky e la sorella non riuscivano a vederla. Era come se si trovasse lì, ma allo stesso tempo non fosse in grado di raggiungerle. In fin dei conti quella era solo una storia, ma avrebbe voluto così tanto che fosse reale.
Ti prego, fa’ che riusciamo ad andarci tutti. Preferirei Eltaria. Sarebbe meraviglioso!
Si addormentò sperando che il suo desiderio si avverasse. Poco dopo, anche gli altri caddero in un sonno profondo.

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Capitolo 2
*** La bambina perduta ***


And I will hold you closer
Hope your heart is strong enough
When the night is coming down on you
We will find a way through the dark
(One Direction, Through The Dark)
 
 
 

CAPITOLO 2.

 

LA BAMBINA PERDUTA

 
Quando aprì gli occhi, Demi ebbe l’impressione che fossero trascorsi giorni dal momento in cui era andata a letto. Cercò la sveglia, ma non la trovò. L’erba le solleticava i palmi e il vento le spostava piano i capelli. La terra, fredda al tatto, la fece rabbrividire. I suoi vestiti erano pregni di umidità. Si alzò di scatto, il che aumentò il dolore a schiena e articolazioni.
“Ma che cazzo…” farfugliò. La sorpresa fu subito sostituita da un grido tanto acuto che si stupì che quella fosse la sua voce. "Siamo da qualche parte, fuori, non a casa." Si stava mangiando le lettere, ma non ebbe la forza di ripetere. "Che cosa diavolo è successo?"
Andrew e Mackenzie si guardarono con gli occhi sbarrati. La bambina corse subito dalla mamma e si lasciò abbracciare. Demi le lanciò un’occhiata interrogativa. Il suo volto era rilassato e il respiro regolare. Mac era coraggiosa ma pur sempre una bambina e si aspettava che avrebbe avuto paura, invece sembrava quasi a suo agio. Non le fece domande. Forse doveva ancora capire come stavano le cose.
"Dove siamo?" domandò Andrew.
Il sole era sorto da poco, si intravedevano alcune case in lontananza e intorno a loro c’erano solo alberi. Si respirava un po’ di polvere. Demetria tossì mentre il suo ragazzo sbatté gli occhi più volte. Mackenzie starnutì. La polvere non rendeva difficile vedere, ma era dura abituarsi. Per fortuna nessuno di loro era allergico.
"In un bosco, a quanto pare" mormorò Demi. "Ma dove? Dove?” Qualcosa le suggerì che non erano in uno di quelli alla periferia di Los Angeles. “E soprattutto, dov'è Hope? Dov'è la mia bambina?" gridò ancora più forte.
Si portò le mani al volto per nascondere alcune grosse lacrime. Come aveva fatto a non accorgersi subito della sua assenza? Hope si era addormentata vicino a lei. Non l’aveva nemmeno sentita alzarsi. Lì intorno non c’era. Tutto appariva così assurdo. Per caso erano usciti e non se lo ricordavano? Dovevano aver preso una forte botta in testa per essersene dimenticati. E come avevano fatto? Da quanto tempo si trovavano in quel luogo? Almeno alcune ore. Chi li aveva portati lì? Di certo non erano andati nel bosco da soli. Perché avrebbero dovuto uscire in piena notte, senza motivo, con due bambine di sei e quasi due anni? Non aveva alcun senso e sarebbe stato da irresponsabili. Demi strinse i pugni e si fermò solo quando si accorse che si era infilata le unghie nella pelle. Riaprì le mani dopo qualche secondo. I palmi avevano qualche segno, ma nulla di grave e non usciva sangue. Per quanto soffrisse, quello non era il modo di reagire.
 
 
 
"Qualsiasi cosa sia accaduta, dobbiamo cercare Hope subito." Andrew si diede una manata in fronte. "O uscire da qui e chiamare la polizia, ci sarà un cazzo di telefono pubblico da qualche parte."
Aveva fatto uno sforzo sovrumano per evitare che la voce gli tremasse, ma si era spezzata a metà frase e le ultime parole gli erano uscite in un sussurro. Non avrebbe voluto farsi vedere vulnerabile in quel momento, non quando la sua fidanzata stava forse ancora peggio di lui, ma fu inevitabile. Si portò le mani alle tempie per cercare di diminuire il dolore. Una metaforica lama gli attraversava il cranio, tagliando dall’interno e dall’esterno e, per un attimo, gli si annebbiò la vista. Non aveva mai sofferto così tanto per un mal di testa, ma proprio mentre stava per urlare ancora, questo svanì del tutto. L’uomo si maledisse perché non aveva il cellulare. E comunque, non era detto che un telefonino funzionasse in quel posto. Si trovavano in un mare di guai, per non dire di peggio.
Demi provò a chiamare la mamma.
"Io ho il telefono, ma non c’è campo. E poi il numero della polizia qui sarà diverso dal nostro, non penso ci troviamo a Los Angeles, forse nemmeno in California. Accidenti! Mac, andiamo. E come fai a essere così tranquilla?” Si colpì le guance. “Ci troviamo in un cavolo di bosco, non lo riconosciamo, non sappiamo come ci siamo arrivati né come tornare a casa e tua sorella è sparita!"
Demetria non la smetteva di urlare.
Sono calma perché so che andrà tutto bene. Voi siete… è complicato da spiegare concluse Mackenzie.
Il terreno era costellato di buche, piccole salite e discese, sassi, aghi di pino, foglie e rami. Camminare risultava difficoltoso con le scarpe da ginnastica che avevano addosso e che non ricordavano di aver infilato. Sarebbero andati meglio gli scarponi in quella situazione. Indossavano tutti una tuta con pantaloni e maglia lunghi. Demi le riconobbe tutte e tre, erano le loro, ma di certo non avevano preso sonno vestiti così. La polvere permaneva, dando sempre un leggero fastidio a occhi e naso. La famiglia se lo coprì per un po’ con un fazzoletto, ma alla fine lo tolse perché respirare in quel modo era complicato.
"Hope!" chiamò Demi, passando sopra un ramo caduto che scricchiolò in maniera inquietante.
"Hope!" provò Andrew. “Hope, dove sei? Rispondi.”
“Tesoro, sono la mamma. Chiamaci, grida” pregò, la voce frantumata in mille schegge a causa della disperazione.
Poteva essersi ferita, o semplicemente nascosta anche se, dopo alcuni minuti, la coppia dubitò di quell’ipotesi. Le loro urla si perdevano in echi senza risposta. Cercarono dietro gli alberi, percorsero vari sentieri, girarono a destra e a sinistra perdendosi più volte dato che lì, ai loro occhi, era tutto uguale. Niente e nessuno, a parte il canto di qualche uccello. Quando svoltavano e non capivano più da dov’erano venuti, la loro respirazione si faceva corta e il sudore colava più copioso. Oltre a ciò, non avevano idea di come avrebbero fatto a sopravvivere se fossero rimasti lì per giorni interi senza incontrare anima viva, dissero gli adulti sottovoce. Mangiare frutti e bere acqua, sperando di trovare un fiumiciattolo, un laghetto o qualche altra fonte appariva l’unica soluzione, aggiunse Demi, altrimenti avrebbero scavato, anche se per raggiungere quel liquido benefico sarebbe stato necessario fare una buca profondissima. Ma sarebbe bastato nutrirsi e bere in quel modo? Gli adulti ne dubitavano. Senza contare che a causa dell’acqua o della frutta lavata in qualche fiume avrebbero potuto ammalarsi. Andrew non sapeva cacciare, né costruire armi per farlo, non nella pratica almeno. Forse, però, avrebbe dovuto e la sola idea, al momento, lo rivoltava. Era anche vero, rifletté, che quando si ha fame si fa di tutto, cacciando anche gli animali per sopravvivere, in casi estremi. E dove avrebbero dormito? All’aperto c’era il rischio di essere attaccati da qualche animale.
"E se l'avessero rapita? O se le avessero fatto del male in quel senso?" chiese Demi.
Quale senso? domandò la bambina, mentre i suoi genitori venivano percorsi da un brivido di terrore.
Ad Andrew mancò il respiro. Si sentì svenire e si sedette per terra. Aprì la bocca per parlare, ma si bloccò.
 
 
 
Demi corse dietro un ippocastano e vomitò, anche se uscì solo acqua dato che non mangiava da ore.
“Non riesco nemmeno a pensarci” mormorò.
Sarebbe stato troppo orribile. Una cosa simile avrebbe rovinato la vita della figlia, o quantomeno l’infanzia, e avrebbe dovuto essere aiutata a superare il trauma. No, no, riflettere su un possibile stupro faceva troppo male e le provocava una sensazione che, sussurrando al fidanzato affinché Mac non si accorgesse di nulla, riuscì a definire solo come schifo.
“Provo le tue stesse emozioni,” le disse Andrew. “Non può essere successo, non può!”
Si batté il petto in un gesto disperato, o almeno fu così che Demi lo interpretò.
Quel silenzio quasi assoluto le accelerò i battiti. Non l’avrebbe fatto se si fosse trovata in un bosco vicino a Los Angeles, tutti e quattro insieme per una gita, ma date le circostanze ogni cosa appariva spaventosa. Dovevano trovare Hope, o avere in mano un telefono, o mettersi in contatto con la polizia in qualche altro modo per denunciare la scomparsa. Adesso. Demi scoppiò in un pianto convulso, mentre il suo corpo era scosso da tremiti e dalla bocca la saliva le colava sul mento. Si accasciò e batté con violenza i pugni sul terreno fino a farsi quasi sanguinare le nocche, si prese a schiaffi in faccia e tirò calci in aria sollevando polvere e urlando cose senza senso.
"Demi. Demetria, ferma.” Andrew le strinse le mani. “Ti fai male. Ti fai male!”
“Lasciami!” gridò lei, liberandosi con uno strattone.
 
 
 
Mackenzie sbarrò gli occhi. La crisi della mamma era simile a quelle che ogni tanto aveva lei. Reclinò la testa e sospirò. Se avesse potuto parlare, non sarebbe riuscita a formulare frasi di senso compiuto. Alzò e abbassò le braccia, producendo uno schiocco quando le mani le colpirono le cosce, pesanti come il proprio cuore. Anche sua madre doveva sentirsi impotente quando la vedeva stare male. Avrebbe voluto piangere, ma non ci riusciva.
“Voglio solo aiutarti, amore.” La voce del papà era dolce, parlava alla mamma mentre le accarezzava i capelli e la schiena. “So che sei sconvolta, che non ci capisci niente, che ti senti come se ti fosse piombato addosso un ciclone. Sto così anch’io ed è una merda! Ma, anche se è difficile, non ci possiamo arrendere. Dobbiamo farlo per Hope.”
“H-hai ragione” balbettò lei.
Si tirò in piedi barcollando.
“Ascolta, sono sicuro che chiunque ha nostra figlia non sia arrivato a tanto. Magari non è con nessuno e si è solo allontanata un po' e persa, okay? Ora dobbiamo capire come uscire da qui."
Ma vedevano solo alberi sia avanti che indietro. Mackenzie sospirò. Il papà abbracciò di nuovo la mamma mentre lei piangeva, cosa che fece stringere il cuore della bambina. Odiava vedere i genitori soffrire e non poteva spiegare perché si sentiva tanto tranquilla e fiduciosa, non ancora, o non le avrebbero creduto. Per un momento fu come se Mackenzie si guardasse dall'esterno. Una bambina, su un letto, cercava di aprire gli occhi, ma non appena ci provava le palpebre le si richiudevano, come se una forza sconosciuta le spingesse a restare in quella posizione. Allora ne fu sicura al cento per cento. Il problema era che non aveva idea di come spiegarlo ai genitori. Se avesse parlato sarebbe riuscita a calmarli, ma non poteva e, comunque, i due stavano già camminando senza meta e chiamando sua sorella. Rassegnata, sospirò e li seguì.
Mentre proseguivano in silenzio, i quattro si resero conto di una cosa sconcertante, un dettaglio non da poco: non usavano la lingua inglese, bensì quella che riconobbero come italiano, anche se l’avevano sentita poche volte e solo Andrew la conosceva. Ora non lo ritenevano importante vista la situazione, ma tutto ciò era surreale. Perché parlavano una lingua sconosciuta? Come facevano? Provarono a usare l’inglese, ma non ci riuscirono. Lo ricordavano, ma qualcosa lo bloccava.
“Forse abbiamo preso una botta pazzesca, il nostro cervello l’ha imparato non ho idea di come e l’italiano ci aiuterà a comunicare con la gente di questo luogo” suggerì Andrew.
“Ma è impossibile! Come accidenti ci siamo riusciti? Io so solo che, anche se non ho mai parlato italiano, sto capendo alla perfezione quello che diciamo” commentò Demi tremando.
Scriverlo è stranissimo.
Mackenzie sorrise.
 
 
 
Hope si era svegliata per prima, al buio. Incuriosita dal luogo in cui si trovavano, si era alzata e aveva iniziato a camminare. Non aveva avuto paura pur udendo quello che forse era un lupo. Poteva essere solo un gioco di qualche bambino. Aveva visto il sole sorgere mentre, ancora adesso, gli uccellini cantavano e gli insetti svolazzavano sui fiori. Aveva anche provato a prendere una farfalla, ma non ci era riuscita. E perché adesso quell'uccellino che voleva accarezzare era volato via? La polvere volteggiava nell’aria e a volte se la ritrovava sulle mani. La piccola si voltò indietro, ma si rese conto che aveva fatto troppa strada. Come tornare sotto l'albero dove c'erano mamma, papà e Mac Mac? Pianse, anche a causa della stanchezza e della fame. Prese a camminare di qua e di là senza una meta precisa, ma nessuno rispondeva alle sue grida disperate. Tossì più volte quando la voce le si fece più debole, poi riprese a gridare.
“Mamma!” urlava. “Mamma, papà, Mac Mac!”
Provò con tutti i nomi della famiglia che conosceva: i nonni, le zie, persino il cane e il gatto, ma nessuno replicava.
Il sole venne oscurato da una nuvola e ben presto si alzò un vento impetuoso che sferzava gli alberi, che si piegavano minacciosi verso di lei. Le foglie producevano un forte fruscio. Alcune cadevano a terra. Nuvole nere invasero il cielo e in men che non si dica scoppiò un temporale, reso terrificante, oltre che dai tuoni simili a bombe, anche dal vento che ora ululava. All'inizio caddero solo poche, grosse gocce e Hope si divertì a saltare dentro le piccole pozzanghere che si stavano formando, ma quando la pioggia leggera diventò un diluvio la bambina si ritrovò inzuppata e, scivolando sul terreno, cadde in un mucchio di foglie bagnate.
"Mamma!" chiamò ancora, sbracciandosi e pensando che qualcuno, da lontano, la vedesse.
Pianse forte e le mancò il respiro. Ma non veniva nessuno.

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Capitolo 3
*** L'umana tra le fate ***


Con i bambini capirsi è semplice. Quando ti prendono per mano, hanno già scelto di fidarsi di te.
(valvirdis, Twitter)
 
 
 

CAPITOLO 3.

 

L’UMANA TRA LE FATE

 
Eliza stava attraversando il villaggio degli umani di Eltaria. Aveva sbrigato alcune commissioni, la mattina presto, e non vedeva l’ora di rientrare a casa per riposare.
“Ciao, Molly!” Si era rivolta a una fata che passava di lì con le buste della spesa. Il villaggio, infatti, era abitato da pochissimi umani e per lo più da creature magiche. “Che tempo, eh?”
“Già, questa pioggia non ci voleva” rispose l’altra, affannata. “Oggi è il compleanno di mio figlio. Dovrà festeggiare dentro con i suoi amichetti, purtroppo.”
“Sono sicura che si divertirà comunque.”
Anche se le sarebbe piaciuto fermarsi a chiacchierare, vista la pioggia Eliza affrettò il passo. Si fermò sotto un pioppo, riparata almeno in parte dall'acqua. Per fortuna il vento si era calmato. Doveva ammetterlo: per quanto il cuore le battesse più forte, mentre un sorriso luminoso le riempiva il viso per aver adottato e cresciuto due figlie stupende, ora che erano grandi e che una era fidanzata e l'altra sposata, lei provava un senso di vuoto che le faceva contorcere lo stomaco. Che fosse perché ormai da tempo più nessun bambino girava per casa? Aveva preso con sé le due sorelle alle età di otto e sei anni. Pur non essendo piccolissime a lei erano parse tali: avevano avuto bisogno di tantissime attenzioni, soprattutto dopo quanto era accaduto loro. Negli anni seguenti non aveva sentito la necessità di adottare un altro bambino dall’orfanotrofio del villaggio di Primedia in cui stava prima, anche perché due figlie erano già impegnative. Ma ora che era sulla quarantina, la tristezza era piombata su di lei come una pesante mano dalla cui presa non riusciva a sottrarsi. Guardava i bambini – fate, folletti e altre creature – di Eltaria, sospirava, abbassava gli occhi e si diceva che avrebbe voluto abbracciarli tutti.
"Potrei adottarne uno adesso" mormorò.
No, non era il caso. Ormai iniziava a non avere più le energie per occuparsene, anche se era ancora giovane. E allora come avrebbe potuto riempire quel vuoto e chiuso la profonda voragine che le si era creata nel cuore? Sembrava che le dolesse sul serio, mise un dito nel punto in cui sentiva più male e, per un momento, faticò a respirare. Fece un passo in avanti e, nonostante la pioggia battente, un suono che, sulle prime, non fu capace di identificare catturò la sua attenzione. Tendendo l’orecchio, si rese conto che non era quello di un animale. Assomigliava al pianto di un bambino. Forse era una pixie, come la piccola Lucy che sua figlia minore aveva trovato e salvato qualche anno prima a Primedia, tenendola con lei finché i suoi genitori erano tornati a prenderla. Era disperato.
È straziante ascoltarlo senza fare niente.
Trasse un profondo respiro e prese a correre. Doveva almeno capire che stava succedendo. La pioggia le rallentava i movimenti. Muoversi nel bosco non era facile, ma non le importava, continuò nonostante le mancasse il fiato e le bruciassero i polmoni, mentre i vestiti le si inzuppavano sempre più. L’acqua le era entrata anche nelle scarpe e lei tremava, era bagnata e le sfuggì un lamento. Corse per qualche centinaio di metri, ma meno di quello che parve al suo fisico. Il bosco non era un bel luogo dove stare durante un temporale. Se quel bambino aveva bisogno di aiuto, doveva trovarlo subito. Un gran lampo illuminò il cielo e un potentissimo tuono lo squarciò. Eliza cacciò un urlo, temendo che venisse giù un fulmine e il pianto, che si era fermato per qualche secondo, ricominciò più forte di prima. Lo seguì e quando ci arrivò vicino si bloccò. Lì c’era un bambino. Non poteva ancora identificarne il sesso, data la pioggia fitta che le annebbiava la vista, ma era sdraiato su un mucchio di foglie, tremante e fradicio. Anche se il cuore le diceva di correre da lui, la mente le suggerì di muoversi piano per non spaventarlo. Una volta raggiunto gli si chinò accanto. Non poteva vederle il viso perché immerso nelle foglie, ma dai capelli lunghi dedusse che fosse una bambina. Indossava un paio di sandali e un pigiamino corto, un abbigliamento non consono viste le intemperie.
“Su piccola, non piangere” mormorò la donna.
Sentendo una presenza accanto a sé, la bambina smise subito, sollevò il volto e guardò Eliza con i suoi occhietti neri.
"Ciao" la salutò l’altra e le sorrise. "Che cosa ci fai qui da sola?"
Valutò se ci fosse stato qualcuno, un familiare nelle vicinanze, ma non notò nessuno. Del resto, chi l’avrebbe lasciata lì se fosse stato presente? Le due si osservarono per un lungo momento, confuse. La signora si chiedeva come mai una bambina, per di più così piccola, si trovasse lì con quel tempaccio, anche se aveva già cominciato a formulare qualche ipotesi, e Hope per un attimo credette che fosse tornata sua mamma, invece lì c’era una persona che non conosceva.
Eliza si sarebbe aspettata che non essendo piccolissima avrebbe avuto paura di lei, invece le sorrideva come se si fidasse già. Di sicuro era un’umana, dato che sulla sua schiena non c’erano le alucce che spuntavano alle pixie fin da neonate. Aveva la pelle scura, che la donna non aveva mai visto in nessun umano fino a quel momento, e doveva avere circa due anni. Oltre ad assomigliare a un pulcino bagnato, aveva assoluto bisogno di un cambio di pannolino.
"Dov’è mamma?"
La delusione sul volto della bambina era evidente, si aspettava di trovare lì la madre e non una sconosciuta.
"Non lo so, tesoro, ma se vieni con me la cerchiamo."
Da tanto tempo Eliza non incontrava un suo simile così piccolo e in quella sconosciuta c'era qualcosa che attirava Hope, anche se la piccina non sapeva di che si trattasse. Aveva più o meno compreso il discorso della signora, quindi si alzò a fatica e lasciò che questa le prendesse la mano.
La donna estrasse un fazzoletto di seta dalla tasca e le pulì il viso sporco di terra.
"Ecco, ora sei ancora più bella. Oh mio Dio!” Le due cicatrici profonde sul volto della bambina la scossero. Si girò dall’altra parte e lasciò che qualche lacrima sfuggisse dai suoi occhi marroni mentre una metaforica lama le trafiggeva il petto, poi si concentrò sulla piccola. Doveva portarla al sicuro. “Adesso andiamo a casa mia, ci cambiamo, ci asciughiamo e mangiamo qualcosa" continuò, sentendo che la pancia della bambina brontolava.
Vista l’età non poteva aver camminato moltissimo, aveva un visetto tondo, era magra ma a occhio e croce il peso era giusto per la sua età, il che era un buon segno. Tuttavia, doveva essere rimasta lì un bel pezzo. Come mai era finita in quel posto? O qualcuno ce l’aveva portata? Eliza fece il più in fretta possibile. Aveva l'ombrello e le proteggeva entrambe, ma la bambina era bagnata fin dentro le ossa, tremava, batteva i dentini e doveva essere riscaldata e asciugata al più presto. C'era il rischio che prendesse un raffreddore, la febbre o, peggio, la polmonite soprattutto perché, anche se era primavera, il vento dall'inizio di quel temporale si era fatto freddo. Stava per arrivare a casa quando la bambina si sdraiò a pancia in giù come prima. Doveva essere esausta.
"Vieni qui" sussurrò.
Chiuse l'ombrello, se lo mise sottobraccio e poi la sollevò.
Questa le accarezzò il viso e si disse che giocare con i suoi capelli, come faceva con la mamma quando era più piccola, poteva essere un'occupazione più interessante. Li muoveva, li tirava e rideva tantissimo. Aveva una risata argentina che scaldava il cuore.
Eliza sorrise e non si lamentò per il lieve dolore.
Come si poteva non adorare una creatura così dolce?
 
 
 
Kaleia, che stava rientrando a casa in quel momento, fermò la madre.
"Mamma, ma cosa…"
"Avevi ragione, cara. È arrivato qualcuno."
"Io" disse la piccola, come se avesse capito che stavano parlando di lei.
Lì davanti aveva una ragazza con delle cose strane sulla schiena. Non ricordava come si chiamavano, ma servivano per volare. Eppure, la mamma le aveva sempre detto che nessuno può farlo, a parte gli uccelli e qualche altro animale. Forse si sbagliava.
La ragazza spalancò gli occhi, azzurri come quelli della sorella, per lo stupore.
"È ciò che sto pensando che sia?"
"Sì, è una bambina umana" rispose l'altra. “E a quanto pare capisce benissimo ciò che diciamo, il che è normale alla sua età, solo che in parte non mi aspettavo che comprendesse che quel qualcuno è lei. Comunque pare proprio parli la nostra lingua.”
"Sembra un amore."
"Lo è. Ma entriamo a casa mia. Ha freddo e dobbiamo occuparcene."
Una volta dentro, le due furono accolte da Sky che commentò:
"E quello che cavolo è?"
"Sii gentile" la rimbrottò la mamma. "È un'umana, avrà circa due anni."
Eliza mise giù la bimba per posare l'ombrello, togliersi il cappotto e correre a cambiarsi. Hope stava già meglio e, dopo aver osservato per qualche momento il piccolo salotto, si diresse proprio verso Sky che, seduta sul divano, leggeva un libro. Mise la manina sopra la pagina e poi le tirò la manica del vestito.
"Ehi!" protestò la ragazza.
"Sky, su. È piccola" la difese Kaleia.
"Ciò non significa che le possa essere concesso tutto. E cosa vuole, scusa?"
"Essere presa in braccio."
"No, è fuori discussione. Non sono brava con i piccoli, le farei male. Non sarebbe meglio cambiarla subito? È tutta bagnata."
"Hai ragione."
Kaleia portò la bimba nel bagno vicino alla cucina, le tolse i vestiti, la asciugò e la avvolse in una coperta. Aveva le manine e i piedini freddissimi. Ma la piccola si lamentò.
“Lo so, lo so. Troverò dei pannolini e ti cambieremo, okay? Sarai asciutta e profumata in men che non si dica e ti sentirai benissimo. Adesso starai meglio, tesoro, te lo prometto. Tra poco rimedio dei vestiti nuovi.” Tornò in salotto e si rivolse alla sorella. “Comunque dai, Sky, avanti. È una bambina e sono sicura che sarai bravissima."
"Oh, e va bene."
Messo il libro da parte, Sky aspettò mentre Kaleia le posava Hope sulle gambe. Se la sistemò meglio, forse in modo troppo brusco perché questa piagnucolò.
"Ecco, le ho fatto male" sbottò.
"Ma no, sta già sorridendo."
"Ehm, ciao" tentò Sky, non sapendo cosa fare.
"Ciao tata."
"Non mi chiamo…" Stava per rispondere con il suo solito modo un po' burbero, ma Kaleia la incenerì con lo sguardo. "Intendevo, sono Sky. Sai dirlo?"
"Sky."
La fata non l'avrebbe mai ammesso, ma sentì il suo cuore scaldarsi. Una bambina aveva pronunciato il suo nome, non era accaduto nulla di eclatante. Eppure, per lei il fatto che ci fosse riuscita chissà perché valeva moltissimo.
"Brava!" si complimentò, con la voce rotta per l'emozione.
"Io mi chiamo Kaleia, ma il mio nome è difficile."
"K-Kia."
"Bravissima, va bene così."
"Haha, è riuscita a dire il mio" la canzonò la sorella.
"Solo perché è più facile. Hope, guarda cos'ho qui."
Le mostrò il ciondolo che portava al collo.
"Oh!"
"Hai visto che bello? Sai dire che forma ha?"
“Foglia.”
“Sì, bravissima.”
La piccola lo scosse.
"Immagino che adesso dovrò farla divertire io" considerò Sky.
Mosse una mano, poi schioccò le dita e fece uscire uno spruzzo di magia. Hope lanciò gridolini di gioia e rise un sacco. Quando vide Eliza, però, si lanciò in avanti per essere presa in braccio da lei e se non ci fosse stata Sky a tenerla sarebbe di certo caduta.
"Aspetta, fammi capire. Avevamo ragione, Kia? E questo significa che ce ne sono altri?”
“Umani che non sono di qui, dici? Se la sua famiglia è viva, cosa che mi auguro, sì.”
“Quindi avremo in casa un essere che piangerà, a cui dovremo dare il latte, cambiare i pannolini, cantare le ninnenanne e tutte quelle stupidaggini?"
"Almeno fino a quando non troveremo i suoi genitori, sì!" La minore saltellò sul posto. “E comunque non è così piccola, se ha due anni o giù di lì mangia anche il nostro cibo e non dovrà essere cambiata troppo spesso.”
Sky sbuffò.
"Avrei cercato io i suoi genitori, ma pioveva troppo" riprese Eliza. "Ho ritenuto più importante riscaldarla; e comunque, non sappiamo se dovremmo trovarli o meno."
Le due figlie le lanciarono uno sguardo interrogativo.
"Potrebbe essere stata abbandonata.”
Quella frase aleggiò nella stanza seguita da un pesante silenzio. Le tre rimasero immobili per eterni istanti.
“Chi lascia una bambina sola nel bosco?” riprese la donna più anziana. “Di quest'età, poi. Lucy si era persa, ma lei è così piccola. Quanta strada può aver fatto da sola?"
Sky rimase a bocca aperta per qualche secondo.
"Mamma, sei seria? Credi davvero che qualcuno sia stato capace di una cosa tanto schifosa?"
Lei e Kaleia non ci credevano. Era semplicemente troppo. Il solo pensiero provocava loro emozioni contrastanti, ma più di ogni altra cosa avrebbero voluto urlare e spaccare tutto.
"Ragazze, gli uomini sono capaci di questo e altro.”
Sospirò e indicò il volto della piccola.
Sky fece un verso indefinito, più osservava i segni e più si sentiva in pena per quella povera creatura. Si avvicinò a Eliza e accarezzò il viso della bambina.
"Qualsiasi cosa ti sia successa, sei al sicuro adesso" mormorò con dolcezza, lasciando stupite madre e sorella. "Sono cicatrici vecchie."
Il che non cambiava niente, era solo una constatazione.
"Chi ti ha fatto questo?" le chiese Kaleia, che non poteva credere ai suoi occhi. "Mamma?"
Non avrebbero potuto fidarsi del tutto della parola di una bambina della sua età, ma era sempre meglio tentare.
Lei fece un cenno di diniego.
"Papà?" domandò Sky.
"No."
Quella risposta diede un minimo di sollievo alle tre.
"Chi?" provò Eliza.
"Uomo cattivo."
E questo cosa significava?
"Va bene, ora occupiamoci di lei. Penseremo dopo al resto" decretò la donna.
Misero i vestiti bagnati nel cesto dei panni da lavare, dato che la pioggia ma soprattutto la terra e l'erba li avevano macchiati. La fata più giovane corse in un negozio e tornò dopo pochi minuti con alcuni cambi d’abito, pannolini, biscotti e un biberon.
"Hai fatto bene a prendere anche quelli, cara" ragionò Eliza indicando le ultime due cose. "I bambini della sua età iniziano a mangiare come i grandi, ma almeno una volta al giorno è bene dar loro del latte. Anche se dopo l’anno il biberon andrebbe utilizzato sempre meno, sostituendolo con una tazza con il beccuccio.”
“Mi sono dimenticata il ciuccio” gridò la fata dandosi una manata sulla fronte. “Potrebbe averne bisogno.”
“A quest’età? Non è grande?”
“No, Sky, ci sono bambini umani che lo usano, non tutto il giorno, fino ai tre anni. Non so come l’abbiano abituata i suoi, ma non uscire, Kaleia. Se piangerà, per stanotte la calmeremo e domani ce ne procureremo uno, sperando che il tempo sia migliore.”
"Se dovete cambiarla, per favore non fatelo sul divano" borbottò Sky.
"E dove altro vuoi che ci mettiamo, scusa? Non abbiamo un fasciatoio, sorellina, e non è il caso di farlo su un letto, a meno che non mettiamo un asciugamano sul materasso."
L'altra sbuffò e si alzò, poi uscì dicendo che non voleva vedere.
Eliza misurò la temperatura alla bambina per sincerarsi che non avesse la febbre. Era così, per fortuna, e respirava bene. Con l'aiuto della figlia minore le fece un bagnetto caldo. Quando entrò a contatto con l’acqua la piccola sorrise e si rilassò.
Kaleia, intanto, le lavava la schiena.
“Ti piace l’acqua, vero?”
“Tutti i bambini la adorano” rispose Eliza.
Come per dimostrare che era vero, Hope sollevò una mano e la fece ricadere schizzando entrambe.
“Ma… Piccola monella!” esclamò la fata, mentre asciugava le gocce sulla sua maglia.
Hope rise ed Eliza commentò:
“Visto? Ora abbiamo la conferma che le piace.”
La parte che apprezzò di meno fu il lavaggio dei capelli e delle orecchie, ma dopo qualche pianto si calmò.
Una volta finito il bagnetto, la rivestirono.
“Non dovrebbe parlare di più a quest’età?”
“Sì, Kia, ma ci sono bambini che non sanno farlo un granché e bisogna stimolarli. Qualcosa mi dice che lei ne sia capace, ma trovandosi qui con persone che non conosce non si sente ancora a suo agio.”
“Comprensibile.”
"Come ti chiami?"
Kaleia si era resa conto che non gliel’avevano ancora domandato.
"Hope" Rispose questa.
"Oh, è un bellissimo nome."
"Mi piace" asserì Sky rientrando.
"Non dovevi stare fuori?"
"Piove troppo, mamma. Posso aiutare in qualche modo?"
"Scalda del latte in un pentolino e mettilo nel biberon. Proviamo a darle quello, intanto, e vediamo come reagisce. Poi sbriciola i biscotti e quando hai chiuso il tappo scuoti più volte."
Hope era così stanca che si lasciò cambiare senza fare i capricci. Adesso indossava una tutina rosa di cotone con il disegno di una betulla sul davanti. Rifiutò la tettarella spingendola fuori con la lingua, quindi la padrona di casa chiese a Kaleia di versare il latte e i biscotti ormai sciolti in una tazza con il beccuccio che aveva in credenza. Dato che era di ceramica, e non volendo che la bambina si sporcasse o la facesse cadere, preferì tenergliela e sollevarla per aiutarla a bere. Le prossime volte avrebbe inzuppato altri biscotti nel latte, non come quelli per bambini che si scioglievano, in modo che la piccina potesse mangiarli con un cucchiaio e non bere soltanto. Hope divorò tutto con gusto, a proprio agio tra le braccia di Eliza.
Anche Christopher e Noah, che arrivarono poco dopo, furono sorpresi di vedere lì quella bambina. "Ciao, Hope. Benvenuta a Eltaria" la salutò Christopher.
La bimba si ritrovò davanti un ragazzo biondo con gli occhi verdi, simili a quelli del papà e ciò le trasmise sicurezza.
“Ciao” rispose, decisa.
"Posso farle una tisana, se ha bisogno di qualcosa di caldo."
"Magari dopo, Chris. Ha appena mangiato, ma grazie lo stesso" gli rispose la moglie.
Noah guardò la fidanzata.
"È bellissima."
"Che c'è?" gli domandò lei, stizzita.
"Niente, calmati. Pensavo solo che…"
"Scordatelo."
Che gli saltava in mente? Vedeva una bambina e gli veniva improvvisamente voglia di averne uno?
"Uhm, okay."
Lui non riprese quell’argomento. Non era facile per la fata e per varie ragioni.
Hope diede un’occhiata all’altro ragazzo. Lui invece assomigliava al papà per il colore dei capelli, castani come quelli di Andrew e aveva grandi occhi marroni. Volle scendere dalle gambe di Eliza e corse verso la porta. Dopo aver messo le mani sul legno batté i piccoli pugni e chiamò "Mamma" sempre più forte, piangendo e muovendo tutto il corpo. Ebbero dunque la prova: non l'avrebbe mai fatto se fosse stata lei a ferirla in quel modo.
"Ragazzi, dobbiamo cercare i suoi genitori" disse Eliza. "Sarebbe bello tenerla con noi, e se non li troveremo io la crescerò volentieri. Non ho più le energie di una volta, ma dato che nessuna legge ci vieta di occuparcene, di sicuro non la abbandonerò in quell’orfanotrofio. Tuttavia, dobbiamo provare a rintracciarli. È giusto così, e poi vedete come chiama la mamma."
La voce le tremò più di una volta; si stava già affezionando a quella bambina e l'idea di separarsene le spezzava il cuore. Ma se aveva una famiglia che la stava cercando e che soffriva per la sua perdita, era giusto che tornasse dai genitori.
Intanto, Kaleia era corsa a coccolarla.
"Shhh, va tutto bene amore. Ora starai qui con Eliza e noi andremo a cercare la tua mamma, d'accordo? Calmati."
Hope tornò infine tra le braccia di Eliza che la distrasse giocando. Si girò da una parte e poi, una volta nella posizione di prima, esclamò "Cucù!" facendola ridere.
Sky, Kaleia, Noah e Christopher decisero di andare insieme a ritrovare la sua famiglia. Con quel tempaccio era meglio essere in tanti. In fondo non sapevano dove cercare, i suoi genitori avrebbero potuto essere ovunque. Hope riuscì a dire il nome della sua mamma, Demi, ma non quello del papà. Continuò a ripetere "Mac Mac", così i quattro dedussero che forse aveva una sorella. Uscirono di casa con quelle pochissime informazioni, non essendo affatto sicuri di tornare vittoriosi dalla loro impresa. Senza contare che, se li avessero trovati, gli umani sarebbero stati spaventati. Se erano arrivati lì da chissà dove non conoscevano Eltaria, i quattro avrebbero dovuto spiegare tutto e non era nemmeno detto che avrebbero creduto loro. Molte incertezze accompagnavano quella sorta di missione, ma Hope, per fortuna, stava bene ed era salva.
 
 
 
NOTA:
le informazioni sull’uso del biberon, della tazza e, come scriverò in seguito, del bicchiere sono prese sia dal sito www.nostrofiglio.it che da quanto mi ha raccontato mia mamma. Mio fratello ha utilizzato il biberon fino a un anno e mezzo (io meno a causa di alcuni problemi), quindi ho pensato che per Hope potesse valere lo stesso. Poi ha cominciato gradualmente con la tazza, mentre a bere dal bicchiere già diversi mesi prima anche se aiutata.

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Capitolo 4
*** Alla ricerca di Hope ***


Lost in the darkness
Hoping for a sign
Instead there’s only silence
Can’t you hear my screams?
Never stop hoping
Need to know where you are
But one thing’s for sure
You’re always in my heart
 
I’ll find you somewhere
I’ll keep on trying
Until my dying day
I just need to know
Whatever has happened
The truth will free my soul
 
Lost in the darkness
Trying to find your way home
I want to embrace you
And never let you go
(Within Temptation, Somewhere)
 
 
 
There's somethin' in the way you roll your eyes
Takes me back to a better time
When I saw everything is good
But now you're the only thing that's good
Tryna stand up on my own two feet
This conversation ain't coming easily
And darlin', I know it's getting late
So what do you say we leave this place?
 
Walk me home in the dead of night
I can't be alone with all that's on my mind, mhm
So say you'll stay with me tonight
'Cause there is so much wrong goin' on outside
 
There's somethin' in the way I wanna cry
That makes me think we'll make it out alive
So come on and show me how we're good
I think that we could do some good, mhm
(Pink, Walk Me Home)
 
 
 

CAPITOLO 4.

 

ALLA RICERCA DI HOPE

 
Intanto, nel bosco, la famiglia stava ancora cercando Hope. Demi e Andrew camminavano e puntavano spesso lo sguardo sul terreno, ma le orme presenti erano per la maggior parte di animali e, a volte, donne o uomini e gli alberi che, quando potevano, i due aggiravano per guardarci dietro e restavano in ascolto. Si udivano pochissimi rumori e nessun pianto o alcuna voce. Avrebbero voluto andare più spediti. Le piccole salite e discese, alcune più ripide di altre, erano seguite da terreno più o meno pianeggiante prima che ogni cosa ricominciasse. Da ore rami, aghi di pino, pigne e sassi rendevano difficile la camminata. Grazie al cielo avevano trovato alcuni fiumiciattoli nei quali dissetarsi, altrimenti si sarebbero disidratati. Avevano temuto che l’acqua fosse avvelenata o chissà che altro, ma non erano riusciti a non bere a causa della gola riarsa. C’era ancora quella dannata polvere alla quale, però, loro e Mackenzie si stavano abituando con loro gran sorpresa. Non dava più fastidio e, mentre procedevano, ci facevano sempre meno caso. Ma continuavano a non capire di che diavolo si trattava e speravano che respirarla non avrebbe causato loro futuri problemi. A volte dovevano schivare rami appuntiti o saltare quelli che si trovavano a terra, dato che poteva capitare di scivolare passandoci sopra. Demi calciò lontano alcuni piccoli sassi che sbarravano la strada. Pioveva ancora, il che rendeva il tutto scivoloso e il cammino più complicato, ma le intemperie stavano lentamente cessando e, anche se il cielo sopra di loro era grigio e le nuvole pesanti come piombo, almeno ora i tuoni non lo squarciavano più. Andrew teneva la mano della fidanzata e la accarezzava.
"Andrà tutto bene, Demi. Tutto bene" le ripeteva, con la voce spezzata da un pianto che faticava a trattenere.
Spesso gli sfuggivano sospiri o lacrime che si affrettava ad asciugare. Demetria desiderava che anche lui esternasse il suo dolore. Glielo disse, tuttavia il fidanzato le rispose che in quel momento stava troppo male per riuscire anche solo a parlarne, figurarsi a scoppiare in pianto davanti a lei e alla figlia.
Erano insieme e lei avrebbe voluto farsi abbracciare, ma strinse i denti e si impose di star ferma. Un abbraccio le avrebbe fatto bene, ma quale persona sarebbe stata in vena di tenerezza e romanticismo in un momento come quello? Nessuna. E non voleva nemmeno essere confortata, perché nulla l’avrebbe fatta star bene, a parte ritrovare la sua bambina.
"Sono passate ore, Andrew, ore. Hai visto NCIS, ogni minuto è vitale in questi casi" rispose Demetria, con una punta di stizza nella voce.
Alcune grosse lacrime le bagnavano ancora il viso e parevano bruciarle e scavarle le guance. Non voleva né arrabbiarsi né essere cattiva, ma non poteva farci nulla. Lasciò penzolare le braccia lungo i fianchi e per un momento socchiuse gli occhi reprimendo un sospiro. La pioggia la inzuppava, a giudicare dalla luce che diminuiva il sole si stava abbassando, e come se non bastasse nessuno aveva un impermeabile. I loro passi risuonavano sull'erba fradicia e i tre non riuscivano a darsi pace. Cos'era successo? Che ci facevano in quel luogo? Ne sarebbero mai usciti? E soprattutto, dov’era Hope e perché Mackenzie rimaneva così calma? Pur sforzandosi di pensare a una possibile motivazione, i genitori non erano in grado di capirlo. Forse a sei anni non si rendeva conto del pericolo, ma voltandosi a guardarla, Demi provò una strana stretta al cuore. Sorrideva. La sua piccola sorrideva.
Andrew indicò una piccola abitazione fra gli alberi.
“Demi, una casa!”
La ragazza si lasciò andare a un’esclamazione di speranza: forse i suoi abitanti avrebbero potuto aiutarli.
La raggiunsero con non poca difficoltà e bussarono. Aprì loro una donna alla quale descrissero Hope nei più minimi dettagli e Demetria mostrò anche una sua foto che aveva sul cellulare.
“Mi dispiace tantissimo, signori, ma non l’ho vista” rispose l’altra, abbassando lo sguardo.
“Ne è proprio sicura?” insistette Demetria. “Per favore, guardi meglio la fotografia.”
La donna prese il telefonino e se lo avvicinò il più possibile, fissandolo per qualche minuto che agli altri sembrò infinito, mentre rimanevano con il fiato sospeso.
“Sicurissima, sono spiacente. Ho visto altri bambini, ma non lei. L’avrei riconosciuta, non ci sono bimbi con la pelle scura, qui.”
La signora diede loro un po’ di biscotti e un tè caldo in un bicchiere. Li avrebbe fatti entrare, ma i tre rifiutarono. La ringraziarono e se ne andarono.
Dato che non si era mai girata, non avevano visto le ali dietro la sua schiena.
La stessa scena si ripeté con qualche altra casa appena visibile nel folto del bosco, abitata da fate o folletti dei quali i tre non notarono il vero aspetto. Ogni volta che ricevevano un no come risposta misto a sguardi compassionevoli, il cuore di Demi e Andrew si appesantiva e le speranze scemavano. Percorsero molta strada in silenzio. In giro non c’era nessuno.
Mackenzie portava il proprio zainetto straripante di fogli sulle spalle, una penna e un piccolo blocchetto di appunti fra le mani. Sfiorò il braccio della mamma, poi si fermò.
La troveremo, non preoccuparti scrisse, provando a rincuorarla.
Scottata da quell'intervento Demi la ignorò, e a causa di una fitta allo stomaco che le penetrò in profondità al pari di una lama, rischiò di rimettere ancora una volta. Si piegò in avanti e, per sua fortuna, Andrew fu lì per sorreggerla prima che la stanchezza avesse la meglio su di lei.
"Demetria, fermati, devi riposare" le suggerì con voce grave, un misto di dolore e tristezza negli occhi.
La ragazza sospirò.
Riposare? Come poteva parlare di riposo se la loro figlia minore era sparita? I nervi le solleticarono la pelle. Strinse i pugni e provò un improvviso dolore. Mackenzie fu subito lì con lei, tirando lievemente una delle maniche della tuta che indossava. Desistette nel vedere che non le rispondeva, e priva di energie come i genitori, si sedette ai piedi di una quercia. Tentando di calmarsi, scrisse ancora.
Ci credo.
La troveremo.
Non aver paura.
Sta bene.
Messaggi di speranza per mamma e papà ma anche per sé stessa che, leggera e insistente, la pioggia minacciò di cancellare. Con uno sbuffo Andrew si sedette accanto a lei e quando, incuriosito, provò a leggere quelle frasi, queste si ridussero a macchie e linee d'inchiostro nero come la sua anima di padre in quel momento, ferita dalla consapevolezza di non riuscire a fare più di ciò che stava facendo per la sua bambina, che a quel punto solo qualcuno più in alto di lui avrebbe potuto proteggere. Anche Demi diede una rapida occhiata a quelle scritte. Avrebbe desiderato pregare Dio, gli angeli e i santi con tutta se stessa, ma non ne trovava la forza.
Giocando nel cielo, il sole sfuggiva alle nuvole continuando a muoversi verso il basso, fino a riposare dietro i monti e lasciare spazio alla sorella luna e alle sue amiche stelle. I tre si trovavano in una foresta apparentemente infinita e il calar del sole poteva significare una sola cosa: nera notte che presto li avrebbe inghiottiti, e speravano di no, congelati. Lì non c’erano lampioni, loro non avevano torce, quindi sarebbero rimasti al buio, e quella consapevolezza li colse come un pugno inaspettato allo stomaco. Sarebbero riusciti a orientarsi con le stelle? Non le conoscevano così bene. E per andare dove? A mani giunte e con le lacrime a solcarle il viso, Demi si ritrovò finalmente in ginocchio a pregare in silenzio, e con lei anche Mackenzie, che strappò e strinse in mano il foglio con le sue personali preghiere d'inchiostro. Stremata, tremando e battendo i denti, con le mani congelate e i piedi che si stavano raffreddando dato che non camminava più, la famiglia si appoggiò contro la dura corteccia di un albero. Tutti si lamentarono appena per la posizione scomoda.
Durante il tragitto avevano mangiato solo manciate di lamponi e fragole, oltre al piccolo pasto della signora. Tuttavia, quei cibi non avevano riempito loro del tutto lo stomaco.
Mi fanno male le mani, mamma scrisse ancora Mackenzie.
“Lo so, anche a me” rispose la donna. “Mettile in tasca e muovi le dita, come faccio io.”
La pancia della piccola brontolò.
In un altro contesto i tre avrebbero riso, ma non in quel momento.
E ho fame, tanta fame!
Demi trattenne a fatica un singulto.
“Sì, anch’io.”
Sudori freddi colavano loro giù da braccia e fronte, lo stomaco doleva a tutti a causa del poco cibo assunto e le teste dei tre vorticavano. Ogni cosa pareva girare: l’erba, gli alberi, perfino il cielo. Se non avessero mangiato ancora, sarebbero svenuti. Ma erano idratati, perlomeno. Per sicurezza, raccolsero l’acqua che cadeva dal cielo tenendo le mani a coppa e bevvero qualche sorso.
Per fortuna non pareva essere inverno vista la vegetazione, quindi le temperature non sarebbero scese così tanto da congelarli o, peggio, farli morire, ma si sarebbero comunque ammalati.
“Vado a cercare qualcosa” si decise l’uomo.
Non poteva lasciare la sua famiglia in quello stato.
Demi ricordò che in realtà avevano una torcia, quella del suo cellulare. Glielo passò e lui riuscì a illuminare un poco la strada.
“Spero non si scarichi la batteria, altrimenti siamo fottuti” commentò la ragazza. “Veniamo con te, aspettaci!”
“Non mi allontanerò molto, non preoccupatevi. Restate lì e riposate, non voglio che vi sentiate male.”
Seppur non convinta, la ragazza annuì e prese la mano della bambina nella sua.
Andrew percorse un centinaio di metri, barcollando a causa della debolezza, e notò dei rovi in mezzo ai quali, procurandosi diversi graffi soprattutto alle mani, trovò delle more. Le lavò sotto l’acqua piovana e tornò da Demi e Mackenzie con le tasche piene.
“Non è molto, ma…”
“Non importa, ce lo faremo bastare.”
Divisero i frutti, dandone di più a Mackenzie e Demi ne recuperò un altro po’. Demi guardò il suo cibo e lo stomaco le si contrasse. Non perché sentisse di non riuscire a mangiare a causa dei suoi problemi passati – se in quel momento l’avessero assalita sarebbe stata la fine –, ma perché il dolore le aveva tolto all’improvviso l’appetito.
“Anch’io non ho più fame, ora” le sussurrò Andrew, “ma dobbiamo tenerci in forze per Mackenzie e Hope.”
La ragazza sospirò.
Il suo fidanzato aveva ragione, perciò si fece forza e mise in bocca il primo frutto. I tre mangiarono in silenzio. Le more selvatiche avevano un gusto acidulo.
“Ti è uscito sangue dai graffi?” gli chiese.
“No.”
“Anch’io ne ho qualcuno, ma nemmeno a me. Appena possibile, però, dovremo disinfettarli.”
Non erano profondi, ma sempre meglio prevenire che curare, come diceva un proverbio.
L'erba era bagnata e faticava a rialzarsi, ma se da un lato era questo il pensiero che bloccava la cantante, dall'altro vedeva l'albero come a uno scudo che potesse proteggerla dai mali del mondo. Prima o poi la pioggia si sarebbe fermata, ma le fronde ne avrebbero sempre attutito i colpi, domando i fischi del vento che ora ringhiava minaccioso sferzando i rami che scricchiolavano sinistri. L’aria entrava sotto i vestiti, intirizzendo loro le dita una volta che ebbero tirato le mani fuori dalle tasche. Il naso si era già gelato, più in fretta di quanto si sarebbero aspettati e anche braccia e gambe erano gelide nonostante i vestiti che le coprivano, troppo leggeri per tenere lontano il freddo. Senza riuscire a smettere di tremare, si strinsero le braccia attorno al petto per cercare un po’ di calore. Se fosse servito, si sarebbero abbracciati. Non faceva freddo come in inverno, ma le temperature dovevano essere scese molto a causa del cattivo tempo.
Per sopprimere la paura, il dolore e tante altre emozioni per amore della figlia e della compagna, Andrew fece loro ancora coraggio. Erano lì per ritrovare Hope, non potevano arrendersi, non adesso. Seppur a fatica si decisero e, facendosi forza gli uni con gli altri, nonostante la debolezza, le vesciche ai piedi e i muscoli doloranti, ripresero il cammino.
L’uomo scivolò giù per una piccola discesa, ma si aggrappò a un ramo graffiandosi appena una mano e riuscì a rimanere in piedi.
“Stai bene?” urlò Demi, con il cuore che scalpitava.
“Sì, non è niente. Facciamo attenzione a dove mettiamo i piedi.”
La loro andatura fu ancora più lenta a causa del dolore ai muscoli provati dal freddo, dalla lunga camminata e dalla mancanza di cibo, ma non importava. Hope era dispersa, ritrovarla l'unico obiettivo. I minuti sembravano ore e, seguendo religiosamente un sentiero mentre contava i propri passi per cercare di non perdersi, giunsero in una parte del bosco ancora più fitta. Poco più in là, il caratteristico suono di acqua che scorreva.
Abituati alle gite di famiglia nei boschi quando non erano che ragazzini, Andrew e Demi ricordava che in genere seguire quel suono li avrebbe condotti a un corso d'acqua. Ottimo, se fosse successo qualcosa in quella notte tanto fredda, almeno non sarebbero morti di sete. Ora le uniche cose a mancare erano un riparo, del cibo, vestiti o coperte caldi e un fuoco, o quantomeno qualcosa da ardere. Per fortuna la pioggia era cessata e, tirando un sospiro di sollievo, l’uomo cercò la mano della fidanzata. Si voltò a guardarla. Era spossata, pallida, con gli occhi cerchiati al pari di Mackenzie. In quel momento lui non parlava, ma nonostante tutto capiva. Il mestiere di avvocato l’aveva talvolta messo di fronte a situazioni simili a livello emotivo e ricordava bene il dolore provato dalle famiglie e dai clienti che si ritrovava a rappresentare. Ma non immaginava che fosse tanto straziante.
È proprio vero che puoi capire fino in fondo una situazione solo quando ti ci ritrovi dentro.
Ma quello era uno dei momenti che nessuno vorrebbe mai vivere. Inoltre si considerava il padre di Hope, ragion per cui comprendeva più che bene la sofferenza della fidanzata. Ormai senza forze, questa si voltò per incrociare il suo sguardo e per un attimo furono lì, verde nel marrone.
Curiosa, Mackenzie andò loro vicino, e distraendo ancora la mamma mostrò un altro messaggio.
Sei più calma, adesso?
"Sì, Mac, grazie. Sta’ tranquilla, ho soltanto freddo" Rispose Demi, buttando lì una mezza verità.
Tremava e il vento non era certo d'aiuto, ma i suoi tremori erano dovuti anche ad altro, ovvero a Hope. Non l'avevano ancora trovata e lo scorrere del tempo, sempre impietoso nei confronti delle sue creature, non serviva a calmare o cambiare i pensieri della ragazza. Mille scenari comparivano nella propria mente, uno più orribile del precedente: la piccola nelle mani di sconosciuti, gente forse perfino peggiore dell'uomo che le aveva fatto del male quando era ancora in fasce. Persone che l'avevano addirittura rapita e portata chissà dove, picchiata o – Dio non lo volesse! – stuprata, e nonostante la priorità fosse cercare un posto in cui dormire per evitare di congelare, lei non riusciva a smettere di pensare alla bambina. Andrew le strinse la mano per l'ennesima volta, in silenzio e sfiorandola come a farle capire che ci sarebbe sempre stato, nel bene e nel male, e per tutta risposta Demi sorrise.
Seppur più calma di loro, la stanchezza e il freddo che penetrava nel suo piccolo corpo giocavano brutti scherzi a Mackenzie. Sapeva che Hope stava bene, ma nient’altro.
E se invece non la troviamo? Se ho sbagliato a dire loro quelle cose?
Non si preoccupò dei congiuntivi errati, quello non fu nemmeno l’ultimo dei suoi pensieri. L’ottimismo che fino ad allora l’aveva accompagnata se ne stava andando via pian piano e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Chissà cosa pensavano i suoi veri genitori, guardandola da lassù, nel sapere che si trovava in quella situazione. Che non aveva protetto Hope? Che era stata capace di perderla, deludendoli? Riusciva quasi a sentire le loro voci.
“Brava, Mackenzie. Avresti dovuto stare accanto a tua sorella e invece lei si è persa nel bosco. Complimenti.”
Si portò una mano al cuore e respirò a fondo: oltre al dolore per la loro scomparsa stava affrontando anche quello, il che rendeva il tutto insopportabile.
Per un momento valutò di lasciarsi andare, almeno in parte, come stavano facendo mamma e papà. Era distrutta, Hope le mancava e non avevano concluso nulla, dunque che senso aveva sperare? Nessuno. Eppure, ricordava la mamma e il papà. Erano sempre stati dolci, comprensivi, non si sarebbero mai comportati così con lei, avrebbero capito. E c’era sempre quel qualcosa, una fiammella accesa nel suo cuore che le dava ancora, chissà come, la forza di sperare. No, non poteva abbattersi così perché prima o poi si sarebbero riuniti tutti quanti, ne fu sicura. Non che fosse ottimista al cento per cento, ma provava a essere positiva e sapeva benissimo perché, anche se ancora una volta non ne fece parola. Sospirò di sollievo e sorrise, un po’ più fiduciosa.
In breve, il vento tacque dando tregua alle fronde degli alberi frustate come schiavi dal proprio padrone. Più in là questi si diradavano per lasciare posto a immensi prati verdi pieni di fiori e i due innamorati si incoraggiarono con il solo uso dello sguardo. Se c’era una cosa positiva che tutta quell’aria aveva fatto, era stata portar via le nuvole. Una stella cadente solcò il cielo notturno. Devota alla Chiesa Demi credeva in un solo Dio, ma l'aver comprato a Mackenzie qualche libricino al quale aveva dato uno sguardo l'aveva aiutata a sviluppare un altro punto di vista. Non che avesse smesso di credere, anzi, ma aveva trovato illuminante leggere quelle pagine. Nell’ultimo periodo la bambina aveva posto alcune domande riguardo il cielo e le sue meraviglie, fra cui stelle, pianeti e buchi neri alle quali la mamma non aveva saputo rispondere con esattezza, per cui aveva cercato un libro, adatto alla sua età, che spiegasse tutto in modo semplice. Se gli ultimi due non erano mai risultati interessanti alla cantante e dubitava dell'esistenza di forme di vita su una landa rossa e desolata come quella marziana, le prime non l'avevano delusa e, ne era certa, non l'avrebbero mai fatto. Più di una volta si era ritrovata sveglia nel suo letto, al sicuro fra le coperte o le braccia di Andrew, con le mani giunte e lo sguardo perso in quell'infinita distesa celeste. La fede le insegnava che Dio era ovunque e lo stesso valeva per le stelle, ragion per cui, in un momento di quel calibro, valeva la pena tentare. Senza lasciare la mano dell'amato, si concentrò su quell'astro passeggero e a occhi chiusi e voce bassa lasciò che una preghiera le sfuggisse dalle labbra.
"Ti prego, ti prego Signore, fa’ che stia bene e che torni da me, ti supplico."
Mackenzie si ritrovò a imitare la mamma e, con gli occhi umidi di lacrime, lottò per asciugarli e tenerli aperti. Sbadigliò e mosse qualche indeciso passo verso il padre. A sei anni non vantava la sua stessa resistenza e la stanchezza era troppa. Più di una volta Demetria l’aveva portata sulle spalle per lunghi tratti dandole la possibilità di riposare, capendo che un bambino della sua età, per di più non allenato, non poteva camminare per ore senza mai fermarsi. Mac allargò le braccia, pronta a farsi sollevare di nuovo e a vedere il mondo da un'altra prospettiva. Mosso a compassione dal suo faccino tirato dal sonno, Andrew la prese in braccio. La bambina si addormentò quasi subito.
All’improvviso, mentre si godevano lo scricchiolio delle loro scarpe tra l’erba che riempiva l’aria assieme al canto di migliaia di grilli, proprio davanti a loro Andrew notò delle luci. Strane luci che non aveva mai visto prima e che, per qualche motivo sconosciuto, lo attirarono come fosse stato una falena.
"Demi, vieni. Ce l'abbiamo fatta, siamo salvi" sussurrò alla compagna, animato da una forza mistica.
"Ma che dici? Qui è quasi buio, io non vedo niente se non il prato e gli alberi" si lamentò lei.
"No, davvero, ascoltami" insistette lui, guardando dritto davanti a sé e invitandola a fare lo stesso.
Confusa, la ragazza gli diede comunque ascolto. Minuscoli corpi di mille colori, muovendosi come se avessero avuto vita propria, emettevano saltuariamente quegli strani bagliori. Non sapendo cosa pensare, Demi imputò la colpa di tutto ad alcune lucciole, ma quando la luce si fece più intensa somigliando a una sorta di invito, Mackenzie si svegliò e scese dalle braccia del padre. I tre avanzarono, ritrovandosi poco dopo vicino a un'enorme grotta in mezzo ai prati e a diversi alberi. Ben presto la meraviglia si sostituì alla stanchezza e, in silenzio, Demi fece saettare lo sguardo in più direzioni, andando alla ricerca di quante più informazioni possibili e, se mai fosse servita, una via di fuga. I tre entrarono nella grotta. In un gesto involontario, Demetria spense la torcia. Le mani le tremavano tanto che non fu più in grado di riaccenderla, né riuscì ad aprire la bocca per chiedere aiuto al suo ragazzo, il quale si dimenticò di quella piccola luce, più preoccupato per ciò che avrebbero potuto trovare lì dentro. Non era il luogo migliore in cui passare la notte, ma non avevano altro posto dove andare e non si vedevano case nelle vicinanze. Anche quelle piccole luci si spensero e, pur temendo che lì dentro potessero esserci pipistrelli, topi o altri animali e sperando di non prendere qualche orribile malattia, Demi e Andrew fecero qualche timido passo nella più assoluta oscurità, non sapendo dove stavano andando. Avrebbero potuto cadere, sbattere contro qualcosa, essere attaccati da un animale o chissà che altro. Era tutto assurdo.
Mac si mosse con calma innaturale, mentre gli adulti la osservavano sotto shock.
“Perché fate così? Qui va tutto bene” avrebbe voluto dire, mentre sorrideva per incoraggiarli.
"Mac!" chiamò Demi, paralizzata dalla confusione. "Aspetta" pregò, mentre la bambina si avventurava nel buio, verso quello che un occhio più attento del suo avrebbe riconosciuto come un lago, sempre all’interno della grotta.
Due maestosi cigni vi nuotavano dentro. Quando notarono la nuova piccola ospite, spostarono l'acqua con alcuni movimenti delle ali.
I tre si bloccarono sul posto a causa di un rumore improvviso. Gli adulti non respirarono, mentre il loro cuore saltava un battito. Quel suono li disturbò ancora, facendo tremare la terra attorno a loro. Le minuscole luci che avevano visto si riaccesero e illuminarono la grotta, un ambiente spoglio, senza figure dipinte sulle pareti. C’era una donna. Alta e slanciata, aveva la pelle dello stesso colore dell'erba e i capelli castani le ricadevano morbidi sulle spalle, intrecciandosi in boccoli degni di una principessa. Ospitavano alcune verdi piante impegnate a muoversi nel vento che spirava fra quelle mura, e con esse anche piccoli fiori tinti di rosa e azzurro. Vedendola sorridere, Andrew si sentì meglio e con lui anche Demi.
"Benvenuti in questa grotta, forestieri. Come posso aiutarvi?"
La donna sfoggiava quel luminoso sorriso. Tenne lo sguardo fisso su di loro, a metà strada fra incuriosita e preoccupata. Anche lei parlava italiano, con voce delicata.
"Ascolti,” disse la cantante, “abbiamo… abbiamo perso la nostra bambina. La cerchiamo da stamattina, siamo stanchi e ci serve un posto per la notte."
"Non mente" replicò Andrew, serio quanto e forse più di lei, con gli occhi fissi sulla strana donna che li osservava.
"Vi capisco, cari, e sono certa che le vostre ricerche daranno i loro frutti. Intanto, potrete riposare per tutto il tempo che vorrete. Io sono Aster e, come ogni altra creatura in questi boschi, benvenuti anche voi alla grotta delle ninfe."
I tre consumarono un frugale pasto a base di mirtilli e acqua di fiume che la ninfa portò loro, assieme ad alcune calde coperte di lana, cuscini e vestiti lunghi, pesanti e asciutti più o meno della loro taglia. Lì l’acqua non era per nulla simile a quella di Los Angeles: potevano sentirne la purezza prendendone anche solo un sorso e poi era più fresca. Non volendo dormire sulla nuda terra i tre misero sotto il corpo una coperta, le altre sopra avvolgendosele attorno e poi si sistemarono.
La cantante rifletté, fino a poco prima di addormentarsi, sulle parole di colei che li ospitava. Ninfe? A quanto pareva, ne aveva appena vista una.
Aster? No, non può essere. Sarà un’altra ninfa, una coincidenza.
Era stata gentile e li aveva rassicurati sulla sorte loro e della bambina, ma potevano fidarsi? Sarebbe andato tutto bene? E perché Mackenzie era l'unica a non aver paura, mentre quel misterioso puzzle recuperava pian piano i suoi pezzi? Pregando ancora, sperò con ardore di portare a termine quella sorta di missione, prima di scivolare nella profonda e grigia incoscienza.

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Capitolo 5
*** La bimba e l'altro popolo ***


CAPITOLO 5.

 

LA BIMBA E L’ALTRO POPOLO

 
Sky e Kaleia cercavano i genitori di Hope da ore, volando e camminando. Noah e Christopher le seguivano. Non si erano mai fermati da quella mattina se non per mangiare frutti e funghi.
"Ragazze, capisco che ci teniate a questa cosa e anche noi," sottolineò Noah, "ma si sta facendo tardi e, anche se conosciamo bene il bosco, non è sicuro rimanere ancora per molto."
"Perché siamo donne e quindi più deboli, è questo che vuoi dire?" ribatté Sky.
"No! Non mi permetterei mai, senza contare che voi donne siete migliori di noi sotto tanti aspetti. Sai benissimo che non sono quel tipo di persona” replicò lui, offeso.
“Scusa, amore, hai ragione. Non avrei dovuto, mi perdoni?”
La voce della fata si era addolcita a mano a mano.
“Sì, tesoro mio.” Si sorrisero e lui riprese: “Intendevo che di notte girano creature strane o pericolose come i lupi, per esempio, e non vorrei mai venissimo attaccati."
"Ha ragione" intervenne Christopher. "Torniamo a casa. Li cercheremo domattina."
"No."
Le sorelle parlarono insieme, proprio come facevano a volte da piccole.
"Abbiamo vissuto giorno e notte nel bosco di Primedia per non so quanto tempo quando avevamo solo otto e sei anni" ricominciò Kaleia. "Non ci spaventa.” Non era vero, allora avevano tremato più di una volta sentendo scricchiolii e versi poco rassicuranti, ma doveva dimostrarsi forte. “Se proprio volete rientrare, lo faremo. Prima, però, ci fermeremo nella piazza del villaggio a chiedere se qualcuno ha visto qualcosa."
Quell’affermazione non ammetteva obiezioni. Bussando a qualche casa nel bosco erano riusciti a scoprire che la gente aveva apewrto a tre creature che avevano descritto, ma delle quali non conosceva la razza. Le fate che avevano parlato loro non ricordavano bene come fossero, ma avevano descritto Demi e Andrew, in particolare i loro occhi e i capelli, e le cicatrici sul volto della bimba.
Una volta tornati al villaggio lo percorsero fino al centro, dove si trovava la piazza. Lì c'erano le solite due bancarelle. La prima, gestita da un leprecauno, vendeva dolci e la seconda, sotto la gestione di un elfo, giocattoli. Alcune fate e dei folletti stavano parlottando tra loro mentre passeggiavano o seduti sui muretti. Qualche famiglia con bambini si trovava intorno alle bancarelle.
"Che posso servirvi, ragazzi?" chiese loro il leprecauno quando si avvicinarono.
"Niente, grazie" rispose Kaleia. "Stiamo cercando i genitori di una bambina che mia madre ha trovato stamattina nel bosco. Ha la pelle scura. I suoi dovrebbero avere un'altra figlia e i capelli castani, mentre lei ha gli occhi marroni e lui verdi. La donna si chiama Demi. La figlia ha delle cicatrici sul viso."
Lo disse forte in modo che anche gli altri sentissero e molti si girarono verso di lei.
"Ma che creature sono?" chiese il venditore.
"Umani."
"Beh, non ce ne sono molti qui, a parte la famiglia di Christopher" osservò una fata con i capelli rossi raccolti in una treccia.
"Se qualcuno ha visto qualcosa, qualsiasi cosa, per favore ce lo dica" continuò Sky. "Hope piange e vuole la sua mamma."
"Ma chi lascerebbe la figlia sola nel bosco?" Un folletto anziano che passeggiava lì intorno con il suo bastone ad aiutarlo si inserì nella conversazione. “E così piccola, poi.”
Dalla folla si levò un mormorio insistente, ma i quattro non riuscirono a capire nulla.
"Insomma, pensateci" Continuò lui. "Sarà stata abbandonata. Solo una persona senza cuore lo farebbe. O una poveraccia, ma anche in questo caso non sarebbe un gesto giustificabile. Non potete tenere i bambini? D'accordo. O chiedete aiuto, o li portate all'orfanotrofio di Eltaria, dove verranno accuditi e, si spera, adottati."
Si spera. Quelle parole fecero raggelare il sangue a tutti e quattro, ma le più toccate furono Sky e Kaleia, perché si erano sentite abbandonate nel bosco di Primedia molti anni prima e non ricordavano nulla di quanto successo in precedenza. Un nodo serrò loro la gola e non riuscirono a scioglierlo in nessun modo, né facendo respiri profondi, né deglutendo. Intanto, tutti applaudivano. In particolare le donne alcune delle quali, Kaleia lo sapeva, avevano adottato bambini proprio da quell'orfanotrofio.
"Forse si è persa, non ci avete pensato?" chiese in difesa di quella coppia.
Si rifiutava di credere all'abbandono e alle violenze, perché erano azioni troppo terribili.
"Sì, può essere" concesse l'anziano che, però, non pareva convinto. "Ma ha la pelle nera?"
"Sì, e allora?" si intromise Christopher.
"I pochi umani che vivono qui sono bianchi e non hanno mai parlato di gente della loro razza di un diverso colore. Magari è così perché è pericolosa. Rifletteteci, il nero può essere simbolo di oscurità e male. Chi ci dice che non metterà in pericolo la nostra comunità? Dobbiamo difendere Eltaria!"
Alcuni gridavano che era solo una bambina e che non poteva essere cattiva, che i bambini sono creature innocenti, altri invece difendevano la tesi del folletto. C'era chi batteva le mani, o asseriva:
"Dobbiamo combattere il male."
Dire che Kaleia, Sky e i due ragazzi erano allibiti e senza parole era poco. Quelle persone non avevano nemmeno visto Hope e già se la prendevano con lei. I quattro non sapevano come muoversi. Sarebbe stato meglio andare a casa, tenere alta la guardia e rimanere lì finché le acque non si fossero calmate, per precauzione. C'era chi parlava di andare a prendere la bambina e portarla dalle fate anziane. Qualcuno mandò in frantumi qualcosa, non riuscirono a capire di che si trattasse, e la gente lì intorno si muoveva frenetica, tanto da far girare la testa.
Kaleia tremava più delle foglie al vento d'autunno e si mise una mano sulla pancia e abbracciò il suo sposo. Sky rimase immobile.
“Prima hai pietà di quella creatura innocente e ora ti metti contro di lei?” chiese in tono accusatorio. “Sei davvero una brava persona, complimenti! Prendersela così con una bambina.”
“Come ti permetti di rispondermi in questo modo, insignificante fata del vento?” la apostrofò l’altro.
Non sono insignificante, folletto dell’acqua. Sto solo dicendo che ti contraddici con facilità, non ti pare? Da quando il colore della pelle stabilisce se una persona è buona o cattiva? E come fa una bambina a essere malvagia?”
"Tutto questo deve finire" sibilò Noah. "Facciamo qualcosa, Chris. Ora" mimò con le labbra.
L'altro, che si era momentaneamente bloccato a causa di quella reazione tanto violenta, si riscosse.
"Smettetela subito!" urlarono insieme i due amici e batterono i piedi per terra più forte che poterono.
“Non ci stiamo riferendo a te, Sky” sussurrò Noah.
"Basta, ora basta!" Christopher diede un calcio a un sasso. "Queste sono tutte assurdità. Come può una bambina, e ripeto una bambina, essere l'incarnazione del male se è proprio ai bambini che viene insegnata la nostra cultura? Nei loro libri, nelle favole, negli insegnamenti dei genitori, persino nei loro giochi e nella fantasia, la cosa più bella che i bimbi possiedono, possono imparare qualcosa su questo mondo. Non sono miscredenti."
Da quando aveva iniziato quel discorso, urlando, era calato un silenzio totale.
solo una bambina" aggiunse Sky. "Stamattina era terrorizzata, così come lo sarebbero tutti i vostri figli se si trovassero nella stessa situazione. Mia madre ne ha avuto compassione e l'ha portata a casa. Stiamo cercando i suoi genitori e, se non li troveremo, la terremo con noi. Voi ci avete accettati qui. Avete accettato il matrimonio tra Christopher e Kaleia. Perché non dovreste farlo con una creatura innocente?"
Il folletto anziano se ne andò senza dire una parola e abbassò lo sguardo come per vergogna. Tuttavia, non sembrava del tutto convinto. Gli altri, dopo interminabili istanti di silenzio, ritornarono pian piano a ragionare con la loro testa e a credere che fossero quei quattro a essere nel giusto. A seguito dei discorsi di Christopher e Sky, avevano capito che le parole del folletto erano prive di senso. In fondo, quella era solo una bimba come i loro.
"Perdonateci."
A uno a uno si scusarono con Kaleia e gli altri, dicendo che non sapevano cos'era preso loro.
"Ci piacerebbe vederla" asserì una fata. "Non le faremo niente di male, sul serio. Parola di fata."
"Parola di gnomo" dissero tutti gli gnomi.
“Parola di elfo.”
Via via lo fece ogni altra razza lì presente, ovvero folletti e leprecauni.
I bambini continuavano a scorrazzare intorno alla piazza. Qualcuno si era fermato durante il discorso del folletto, ma nessuno di loro sembrava essersi spaventato a causa delle grida, ritenendole probabilmente manifestazioni di gioia.
"Avete visto la sua famiglia?" chiese Sky agli adulti.
"No" risposero tutti, e molti asserirono che lì nel villaggio non avevano scorto nessun umano differente dai pochi presenti.
A quanto pareva si trovavano in altre zone del bosco. Ma dove? I cuori delle coppie battevano all'impazzata, ma non riuscivano a parlare del caos che si era appena scatenato. Decisero di mangiare qualcosa alle bancarelle e di fermarsi per due chiacchiere con gli altri, sempre che fossero riusciti a mantenere una conversazione decente dopo quanto accaduto, per poi tornare a casa.
 
 
 
Da tanto Eliza non stringeva un bambino fra le braccia mentre dormiva. Credeva non sarebbe più riuscita a provare quel senso di calore e protezione se non con i suoi nipoti, e invece adesso eccola lì, sul divano, con in braccio quella che per lei ora era la creatura più dolce del mondo. Hope aveva già riposato quel pomeriggio, si era svegliata e aveva fatto merenda. Eliza aveva cercato di tenerla sveglia, ma non c'era stato nulla da fare. La donna, senza faccende da sbrigare, l'aveva tenuta con sé. Doveva preparare da mangiare ed era il caso di svegliarla, altrimenti quella notte non avrebbe dormito. Stava riflettendo su tutto questo quando dei rumori in lontananza catturarono la sua attenzione. Forse un bicchiere rotto, o qualcosa di più grosso visto che era riuscita a udirlo. Il respiro accelerò, anche se non c'era nessuna apparente ragione. Più avanti, nella piazza, la gente correva e anche alcune urla riempivano l’aria. Non era normale. Lì i litigi accadevano di rado, e non così presto, quando c'erano bambini presenti.
"Che succede?" chiese ad alta voce e con una nota di panico.
Hope si svegliò e si guardò intorno.
Eliza aprì la finestra.
"Pelle nera? Pericolosa."
Furono queste le parole che udì appena in lontananza. Qualcuno stava urlando. Non formavano nemmeno una frase di senso compiuto, ma bastarono a farla scattare in piedi. Che qualcuno volesse fare del male a Hope? Non le piacevano quelle parole, in particolare pericolosa. Aveva la nausea e respirava con difficoltà.
“Dovrei proteggerla? Nasconderla? O mi sto solo facendo mille paranoie?”
Le pareva strano che la gente di Eltaria si agitasse tanto da voler nuocere a una bambina solo per un colore di pelle che non aveva mai visto. L’ignoto spaventa, ma così tanto? Sarebbe stata in guardia.
"Apri, Eliza" la pregò la voce gentile di Isla, una fata. "Io e Oberon dobbiamo parlarti un momento."
Dopo qualche attimo d’esitazione, la donna eseguì, ma socchiuse la porta rimanendo fuori.
"Ditemi che mi sto immaginando tutto, vi prego!"
Il suo sguardo saettava da una parte all'altra per captare qualsiasi segnale d'allarme. Era impallidita e si sforzò per respirare regolarmente, con scarsi risultati.
"No, cara" mormorò Oberon e le spiegò la situazione.
Isla si sistemò i capelli castani, scarmigliati a causa della corsa.
"Del male? Hope il simbolo del male?" strillò Eliza, perdendo ogni controllo. "Ma come si permettono di dire una cosa tanto orribile, eh? Hanno perso il senno, per caso?"
"Ti prego, cerca di stare tranquilla. Posso solo immaginare quanto sia difficile, ma provaci. Fallo per lei."
"Non sono nemmeno io la madre. Che dirò alla sua se la troveremo? Che in questo villaggio Hope è in pericolo anche se io l'ho soccorsa? Non mi perdonerà mai per averla portata qui, mai" prese a ripetere, mentre calde lacrime le correvano lungo il viso. "Che devo fare? Aiutatemi, vi prego."
Dopo aver terminato di parlare con i due, Eliza prese le cose che le avevano dato e le portò in casa. Erano ciascuna in uno scatolone. Li tenne entrambi, anche se erano pesantissimi. Se ne pentì subito perché la schiena e i polsi iniziarono a dolerle. Una volta dentro, i pacchi le caddero sul pavimento con un rumore secco. La bambina si era seduta sul tappeto a giocare. Isla e Oberon non erano riusciti a dire alla donna se la situazione fosse grave o meno, anche se propendevano per la seconda ipotesi. Non dandosi pace, per sicurezza Eliza si precipitò a chiudere le imposte e le finestre di salotto, bagno, cucina e delle quattro camere della casa e tirò ogni singola tenda. Conosceva l’abitazione a memoria, avrebbe potuto muoversi anche senza accendere le luci, ma lo fece perché, almeno per cucinare, ne avrebbe avuto bisogno.
Se c'è qualcuno che vuole farle del male, che non venga qui. O che prenda me al posto suo pregò.
Se avesse sentito delle grida vicino casa, si sarebbe nascosta con la piccola sotto il letto rimanendo lì fino al ritorno delle sue figlie. Isla e Oberon se n’erano andati quando in piazza c’era ancora confusione. L’umana temeva che quell’uomo sarebbe andato a casa sua per ferire la piccola, seguito magari da altra gente che aveva convinto. Forse stava ingigantendo il problema, oppure no. Che ne sapeva? A volte, una scintilla può scatenare un incendio.
“Cos’è?” chiese Hope.
Immaginando che intendesse chiedere “Cosa succede?”, Eliza rispose:
“Niente. Va tutto bene, Hope. Ti proteggo io.”
Trasse un profondo respiro per ricacciare indietro le lacrime. Non voleva agitarla.
Il tempo passò e ogni secondo sembrava eterno. C’era silenzio, il che avrebbe dovuto calmarla, ma non era così. La donna si sedette sul letto e le insegnò un gioco con le mani, ma Hope si stancò in fretta.
“Pappa” disse.
L’altra si sentì stringere il cuore. La bambina non capiva cosa stava accadendo e pensava ai suoi bisogni, come qualsiasi bimbo avrebbe fatto.
“Ascoltami. Ora io ti tengo in braccio e andiamo a preparare la cena, ma dobbiamo fare pianissimo e camminare in punta di piedi, d’accordo?”
“Piano.”
“Sì, piano come le fatine.”
Erano le sette di sera. Ancora presto, ma comunque ora di preparare qualcosa. Di nuovo, non sapeva se stesse esagerando ad avere o no quella reazione, per cui andava a istinto. Portò la bambina con sé e, mentre lei giocava con il peluche di un coniglietto bianco, accarezzandogli le orecchie lunghe e pelose e facendolo correre per terra, la donna preparò la tavola e cucinò della pastina. In seguito aprì il frigo e scaldò del brodo di verdure che aveva in una pentola, versò tutto nei piatti, mise il formaggio e l'omogenizzato per Hope e si sedette con lei sulle gambe. Uno degli scatoloni che Isla le aveva dato aveva un seggiolone, ma lei non aveva la più pallida idea di come montarlo. Nell'altro, invece, c'era un lettino, con cuscino e coperte annessi, anche quello ovviamente smontato.
"Apri la bocca." Le avvicinò la pappa. “Su!”
Pur avendo fame, la piccola non accennava a voler obbedire.
"Che cos'hai? Non hai voglia di mangiare?"
"Voio mamma. Dove?"
Quella frase detta nel modo sbagliato intenerì Eliza e le fece spuntare un sorriso.
“Kaleia e Sky la stanno cercando. Non so quando, ma tornerà."
Almeno spero.
Si augurò anche che, nel caso in cui non avessero trovato la sua famiglia, Hope non ne avrebbe risentito troppo, almeno da piccola. L'avrebbe allevata lei come una figlia e un giorno le avrebbe raccontato… che cosa? Non lo sapeva e per il momento non voleva nemmeno pensarci. Era tutto così confuso: lei da sola nel bosco in mezzo a quella bufera d'acqua, le sue cicatrici e le ore che passavano senza avere notizie.
Hope continuò a sorridere e a tenere la boccuccia chiusa, anche quando Eliza provò a far entrare il cucchiaio forzando un po'. Le avvicinò il bicchiere di plastica e la bambina lo prese con entrambe le manine e bevve da sola.
“Piano” le sussurrò la donna, facendole vedere che beveva a piccoli sorsi.
Mangerà solo con la sua mamma. Ma non può, morirà se non lo fa.
A pranzo era andato tutto bene, aveva nutrito la bambina senza problemi. Ora doveva mancarle di più la madre.
"Fai la brava, su. Senti che buona è questa pappa."
"No, no. Mamma!"
Eliza le lasciò il cucchiaio in modo che cercasse di mangiare da sé, ne prese uno di plastica e glielo passò pensando che le sarebbe risultato più facile usarlo, ma niente da fare. Lo sollevava, pieno di minestra, per poi rimetterlo giù. La cosa andò avanti così, tanto che Eliza dovette riscaldare il piatto. Il suo, nel frattempo, era sicuramente diventato freddo.
"Hope, per favore!"
Doveva avere pazienza, quella bambina ne aveva passate tante, ma quella piccolina la stava mettendo alla prova.
"No" rispose infatti.
"Dolce Dea, ora smettila. Chiaro?" urlò.
Si sforzava di restare calma, di non scaricare la sua agitazione sulla piccola, ma era difficile e ora aveva esagerato.
Hope prese il cucchiaio, lo sbatté forte nel piatto e un po’ di minestra schizzarò sul tavolo. Avrebbe colpito anche lei ed Eliza, se la donna non avesse spostato la sedia all’indietro. La piccola mise il broncio e poi scoppiò a piangere, stringendo le mani l'una con l'altra. Con uno scatto scese dalle gambe della donna, che non reagì abbastanza in fretta per stringerla di più a sé e corse verso la porta della casetta di legno. In quel momento un forte colpo di vento la aprì un poco e fu allora che Eliza si rese conto che forse, nella fretta e con la mente piena di pensieri, non l'aveva chiusa ma appoggiata, altrimenti non sarebbe successo. Fu subito dietro a Hope che, però, era uscita qualche secondo prima di lei e continuava a correre per la strada lastricata del villaggio.
Oh no. E se qualcuno le facesse del male? È tutta colpa mia.
Non sarebbe stato così difficile prenderla se la piccola non avesse continuato a nascondersi dietro a ogni casa, sicché lei girava attorno a ciascuna per rendersi conto che Hope era passata alla successiva.
"Piccola?" la chiamava in continuazione.
Non urlava e non diceva il suo nome, si fermava ogni volta che le veniva alle labbra. Aveva paura che qualcuno la riconoscesse e le facesse del male. Le lacrime le offuscavano la vista e, facendo attenzione a non sbattere contro qualcosa, continuava a camminare. Saltò un muretto che, assieme a un altro, formava uno stretto passaggio nel quale solo i bambini come Hope riuscivano a entrare. La piccola continuava a correre e a ridere battendo le manine e lanciando gridolini di gioia. Giocava, non si rendeva conto di quello che stava succedendo. Ma Eliza sì, eccome. Cercava di salvarla. Magari non c'era nessun pericolo, ma quelle strane parole le erano entrate nel cuore e nella mente e ora pungevano come spine che non riusciva a togliere nonostante mille sforzi, forse perché non aveva mai udito nessuno parlare così di un bambino prima d’allora, né si sarebbe aspettata una reazione del genere da parte della gente. Non c'era nessuno lì in giro, molti si trovavano a casa e forse credevano che quella bambina che rideva fosse una creatura di qualche razza che stava tranquillamente giocando, per cui non ci davano peso.
"Dove sei?"
Deglutì a vuoto: l'aveva persa. Dovette piegarsi in due per il dolore allo stomaco che le si aggrovigliò, mentre tutto il suo corpo era scosso da violenti tremori. Non lasciandosi vincere dalla paura corse in avanti, più perché sapeva di doverlo fare che perché la sua testa glielo stesse imponendo, e riuscì a prenderla. Si precipitò a casa e si sedette con lei sul divano per riposare.
"Guardami" le disse, con tono imperioso. "Guardami, Hope."
La bambina alzò gli occhietti verso di lei e si fece improvvisamente seria.
"So che vuoi giocare, ma oggi hai rischiato di farti mal… ehm, la bua due volte, sai? Mi hai fatto prendere tanta paura. Finché non torna la tua mamma devi stare sempre vicino a me, o a Kia, o a Sky, capito? Questo" proseguì, mettendo una mano sullo schienale del divano, "e quello" e indicò fuori "non si fa. No."
Perché comprendesse ancora meglio fece un cenno di diniego con la testa.
"No" ripeté la bambina. "Scusa."
"L'importante è che tu stia bene, cucciola" mormorò la donna. “Sei dolcissima, lo sai? La mia piccola principessa.”
Aveva detto questo anche a Kaleia e Sky. Si era già affezionata troppo a lei. Non andava bene, non andava bene per niente, soprattutto nel caso in cui i suoi fossero tornati, perché lei ne avrebbe sofferto tantissimo, ne era sicura. Ma ormai era tardi.
"Mamma, siamo a casa" annunciò Kaleia entrando.
"Ciao ragazzi" li salutò la donna. "Avete fatto un po' tardi."
La voce le uscì fioca: le troppe emozioni l’avevano indebolita in tutti i sensi.
"C'è stato qualche piccolo problema."
Christopher le disse ogni cosa con quanta più calma possibile, raccontandole che dopo essersi scusate, diverse persone si erano messe a litigare e a correre, alcune dando ragione all’anziano, altre no, ma che non credeva che avessero davvero voluto fare del male a Hope e che, alla fine, loro e altri avevano calmato le acque.
Eliza tratteneva a stento le lacri,e. Le parve di annusare l’odore, nauseabondo del suo stesso terrore. Era simile a quello del sangue, ma peggiore.
"Sai già, vero?" le chiese Sky a voce bassa.
"Ho sentito qualcosa, ma poi Isla e Oberon mi hanno detto tutto. Per questo ho chiuso."
Raccontò quello che era accaduto.
"Non dovrebbe succedere niente, Eliza" la rassicurò alla fine Noah. "Quel folletto è solo uno sbandato."
"Esatto. Cerca sempre di mettere paura a tutti, ma la gente a volte gli dà ancora credito" continuò Christopher. "Mi sono stati ad ascoltare, alla fine."
"Immaginavo di aver esagerato. Quindi non c'è bisogno di portarla dalle anziane? Non voglio che ci vada."
"Mamma, non le farebbero niente se non valutare se è buona o meno" disse Kaleia.
"Ma io non voglio che ci vada!" protestò alzando appena la voce, non troppo per non far piangere la bambina che si stava già agitando. "Lo so, Kaleia" continuò, "è che ho paura. Devo proteggerla, altrimenti la sua mamma non me lo perdonerà mai; farla stare con delle sconosciute, lì da sola mentre le leggono l'anima, mi terrorizza. Non voglio che le succeda niente."
"Cosa proponi? Di tenerla dentro forse per sempre?"
Eliza sospirò.
"Se domani mattina tutto sarà tranquillo, si potrebbe pensare di portare Hope fuori per una passeggiata per il villaggio, per convincere la gente che non è cattiva” considerò Christopher. “Verremo tutti. Nel caso qualcuno dovesse anche solo provare a farle del male, interverremo. E se sarà in pericolo qui, vedremo come comportarci."
"Se non sarà al sicuro io me ne andrò con lei, non so dove, ma lo farò" decretò Eliza.
Nessuno di loro quattro l'aveva mai vista così determinata.
"Va bene, sentite, cerchiamo di mantenere la calma e non pensiamo a ciò che faremmo se le cose dovessero andare male. Aspettiamo domani per decidere il da farsi. Magari non accadrà niente, anzi, ne sono convinto" concluse Noah.
Eliza si commosse, si strinse Hope al cuore e la riempì di baci mentre gli altri sorridevano, anche Sky.
"Kia" mormorò Hope.
"Sì, tesoro, vieni."
 
 
 
Qualche tempo dopo, i due uomini avevano montato seggiolone e messo il lettino nella camera di Eliza. Dopo aver cambiato la tovaglia, la donna poté mangiare la sua minestra mentre pensò Kaleia a nutrire Hope.
"E se ti cantassi una canzoncina?" propose, sperando di farla rilassare.
"Sì!" esclamò la piccola.
"Passo, passo, dove vai?
Ci scommetto, non lo sai.
Il cinghiale qui si è mosso,
ogni zampa scava un fosso.
E il riccio che punzecchia,
ha le dita di una vecchia.
Un coniglio nella neve,
la sua impronta ha il passo lieve.
[…]
Si trattava di una filastrocca che un giorno aveva canticchiato Lucy, una delle figlie di Isla, e che Kaleia aveva ascoltato volentieri per poi mettersi a cantare con lei.
Pur capendo la metà delle parole, Hope batté le mani per tentare di seguire il ritmo. Doveva esserle piaciuta, perché lasciò che la fata le desse da mangiare senza capricci e, anzi, qualche volta prese anche il cucchiaio per nutrirsi da sola, riuscendoci con un po’ di difficoltà.
"Voi avete già mangiato?" Eliza iniziò a lavare i piatti. “Posso scaldarvi qualcosa, se volete.”
"Ci siamo fermati in piazza a prendere dei dolci" le raccontò Sky, "e insomma, lo sai che noi due siamo golose."
Kaleia rise, fece scendere Hope dal seggiolone e andò con lei in salotto, mentre gli altri rimasero in cucina a chiacchierare.
“Ma la sua famiglia non c'è, oppure è…"
"Speriamo di no, Eliza” disse Christopher, “comunque nessuno l'ha vista e nei boschi non c'era alcun umano, almeno non nelle zone nelle quali abbiamo cercato, anche se qualche fata ci ha detto di aver notato delle persone che non aveva mai visto, nel pomeriggio, e che hanno chiesto informazioni."
Dal salotto Kaleia ascoltava e anche Hope aveva lasciato i suoi cubi di legno, con i quali stava costruendo una delle torri che le piaceva tanto fare a casa. La fata si intristì subito e la bambina dovette notarlo perché le si avvicinò, la accarezzò con una manina e disse qualcosa di incomprensibile, ma che la fece sorridere.
"Domani ripartiremo con le ricerche e, se non li troveremo, nel pomeriggio andremo dalle ninfe" disse Sky. "Kaleia pensa che forse Aster ci potrà aiutare, ma prima vogliamo fare un altro tentativo da soli."
Alla fata della natura non sarebbe dispiaciuto avere una sorellina minore. In fondo Sky aveva avuto lei, ma Eliza non si era mai sposata, non aveva adottato nessun altro bambino e quindi la fata non aveva potuto fare la meravigliosa esperienza di avere un fratellino o una sorellina. Sky le aveva detto più volte che era cresciuta anche grazie al fatto di avere lei, di essere stata per Kia una mamma non solo quando erano nel bosco ma anche dopo, visto che aveva sempre avuto un forte istinto protettivo nei suoi confronti. Tuttavia, non ritrovare i genitori di Hope era stato bruttissimo e lei voleva che avesse accanto la sua vera famiglia, se questo fosse stato possibile. Grazie al cielo la piccola non se ne rendeva ancora conto del tutto a causa della sua tenera età.
"Guarda cosa faccio adesso."
Kaleia tenne sotto la mano un cubo che si trovava ancora sul tappeto. L'energia scorse nelle sue vene fino a entrare nel giocattolo, lo lasciò andare e questo levitò, volteggiando sopra Hope che lo prese ridendo. "Hai visto? Ti è piaciuto?"
"Sì, sì, tanto. Ancoa, Kia, ancoa."
Di volta in volta i cubi giravano, andavano su e giù, si muovevano in orizzontale, prendevano direzioni diverse e la piccola non staccava mai loro gli occhi di dosso finché riusciva a prenderne un paio.
"Eccomi."
Kaleia si sorprese quando Sky si unì a loro.
"Pensavo non ti volessi avvicinare a lei" osservò. "E comunque, stamattina ti saresti potuta risparmiare."
"Mi dispiace, d'accordo? È solo che non ci so fare con i bambini."
"Eppure, ti vedrei bene con un figlio."
"Io? Tu ti immagini una persona silenziosa, che da fuori può sembrare fredda e senza pazienza con un bambino?"
"Sì, e hai detto bene: non sei affatto fredda."
"Hope, cosa sono questi?" le domandò Sky.
"Che stai facendo?"
"Cerco di capire quanto riesce a parlare."
"Imparerà, dalle tempo. E poi ha avuto una giornata difficile, sarà stanca."
"Dai, Kia. Se non impara più parole già da adesso quando lo farà?"
"Cubi" rispose la bambina.
"Brava, cubi. E di che colore sono?"
"Blu e gligi."
"Esatto.” Passò sopra il fatto che non avesse detto la r. “E cosa fai con i cubi?"
"Gioco" trillò.
"Sì, sì, anche quello" le rispose ridendo. "Ma cos'altro?"
Hope si immobilizzò. Non capiva, che cosa voleva sapere quella donna? Giocava con quegli oggetti, non ci faceva nient'altro. Eppure si concentrò per provare a rispondere, mettendosi le manine sui lati della testina.
"Non importa, piccolina" la tranquillizzò Kaleia. "Sei bravissima."
Sky stava per scusarsi e si dette dell'idiota per averle posto una domanda troppo difficile, quando la bambina parlò.
"Una torre alta."
Le stupì con quella risposta.
"Brava" si complimentarono le sorelle all'unisono.
Poco dopo, in braccio alla minore delle due sorelle, Hope si divertiva ad allungare un braccino dietro la schiena della fata per giocare con una delle sue ali. La accarezzava e tirava piano, rischiava di strapparla per quanto era fragile, e di tanto in tanto qualche stilla di polvere magica le finiva sulle manine, il tutto con quello sguardo curioso tipico dei bambini e qualche risata che riempiva la stanza.
"Lo adoro" mormorò Kaleia.
"Che cosa?"
"Tenere in braccio bambini così piccoli."
"Non pensavo che l'avrei mai detto ma sì, anch’io" concordò Sky, ma il suo sguardo sognante si spense subito.
"Le racconti una favola?"
"Eh? Ma sei matta? Io non ne conosco."
"Andiamo, saprai quelle classiche, no? La mamma ce le raccontava sempre, non puoi averle dimenticate."
"Ma sono ogni volta le solite" si lamentò Sky. "Perché nessuno ha inventato qualcosa di più originale? E poi tu sei più brava di me."
"Va bene, allora facciamo così. Hope, tesoro, guardami. Ti vogliamo raccontare una favola" Kaleia scandì piano le parole. "Chi te la dice?"
La domanda "Chi vuoi che te la dica?" o "Chi vuoi che te la racconti?" sarebbe stata troppo complicata per lei.
La bambina le lanciò uno sguardo confuso per un momento, poi rispose:
"Sky."
E ti pareva, ha scelto me. Ci avrei scommesso qualsiasi cosa.
"E adesso che ti racconto? Kia, vedi in che situazione mi hai messa? Grazie tante!" borbottò.
Kaleia avrebbe voluto ridere, ma si rese conto che la sorella era davvero in difficoltà. Certo, si disse quest’ultima, si sarebbe spaventata di più se avesse dovuto occuparsi di Hope da sola, però… Oh, era una fata del vento, aveva affrontato tanti problemi con Kaleia e si spaventava nel raccontare una semplice storia a una bimba di due anni?
"Va bene, ho una favola per te" mormorò. Appariva diversa. Sorrideva e la sua espressione era serena, la voce si era addolcita, come se la fata fosse stata sotto l'effetto di qualche incantesimo, tanto che Kaleia per un istante si preoccupò. "Sto benissimo" la rassicurò. "Dammela, gliela racconto meglio se ce l'ho in braccio." Una volta tra le sue braccia, Hope appoggiò la testina alla spalla della fata e si tirò indietro per stare più comoda, poi ascoltò. "Quando sono arrivata a casa di Eliza, da piccola, mi sentivo spaventata come lo sei tu. Non ero sola perché avevo mia sorella, ma provavo comunque un gran senso di solitudine. Spesso, la sera, mi ritrovavo a guardare le stelle e a immaginare che fossero gli sguardi e i sorrisi di tanti genitori felici con i loro figli. Mi domandavo se anche quelli dei miei fossero stati così quando ci avevano con loro e dove si trovavano. Me lo chiedo ancora adesso, come Kaleia del resto. Io non so se diventerò mamma. Non ho idea se avrò la pazienza che ha mia sorella. Ma se succederà, so una cosa." Una lacrima le scese fino a sfiorare la testina di Hope. "Se accadrà, voglio avere anch'io un sorriso pieno d'amore e di gioia, proprio come quello che ha avuto Eliza da quando ci ha trovate, e come quello che di sicuro ha la tua mamma."
“È stata una storia bellissima, Sky” mormorò la sorella, colpita. “E lo è ancora di più perché è vera e ti è venuta dal cuore.”
Sky si asciugò gli occhi.
“Grazie!”
Hope non capì moltissimo di quella favola, ma le sorrise, poi sbadigliò.
“Credo abbia sonno.”
“Addormentala tu, già che ci sei” disse Eliza.
“Che? Ma siete pazze? Vanno bene le coccole, i giochi, la storia, ma questo proprio no. Oh, d’accordo” sbuffò, arrendendosi solo perché la bambina le rivolse uno sguardo dolcissimo. Sky le cantò un’altra ninnananna. “Hope, adesso dormi, okay?”
“Mamma!” supplicò quest’ultima.
Non capiva dove fosse finita e le mancava.
“Non sono la tua mamma” le spiegò con pazienza la fata.
“Mamma!” insistette la piccola.
“Ti ho detto che non sono… tornerà presto, vedrai. Ora, Hope, fai finta che uno spiritello cattivo ti abbia mangiato la lingua e sta’ zitta, va bene?”
“Sky!” la rimproverò Eliza con un’occhiata di fuoco.
Stava per prendere la bambina, ma quest’ultima chiuse gli occhi dopo un po’ e si addormentò, non prima di aver regalato a Sky un sorriso.
"Mi ha sorriso. Hope mi ha sorriso!"
Sky non ci poteva credere. Certo l'aveva fatto anche prima, ma quell’ultimo sorriso, dopo ciò che le aveva raccontato, per lei era stato speciale.
"Sono positivamente impressionata" disse Kaleia dopo qualche secondo.
"E io senza parole" commentò Eliza.
"Non ci avevi mai dimostrato che te la sai cavare bene con i piccoli e le favole. Ora dammela, la porto a nanna."
 
 
 
Mentre la metteva nel suo lettino, eseguendo quei gesti dolci che spesso aveva fatto con le sue figlie, Eliza si immerse nei ricordi. Ripensò ai loro caratteri diversi, al differente modo di affezionarsi a lei, ai giochi, ai discorsi, alle cose che avevano fatto insieme, ai momenti belli ma anche a quelli brutti e si disse che, se avesse potuto tornare indietro, avrebbe voluto rivivere ogni singolo attimo. Guardò Hope e tornò al presente: avrebbe dovuto cambiarla, ma ormai si era addormentata e pazienza, l'avrebbe fatto una volta che si fosse svegliata.
I ragazzi le dissero che sarebbero rimasti tutti lì, che avrebbero dormito in due camere della casa visto che avevano ognuna un letto matrimoniale. Non restarono solo per aiutare Eliza con la bambina, ma anche nel caso ci fosse stato bisogno per quell'altra questione che, anche se tutti avevano cercato di dimenticare, li preoccupava.
La donna infilò il pigiama e si mise a letto, ma non riuscì a prendere sonno. Si rigirava sotto le coperte, poi aveva caldo e se ne liberava, ma dopo freddo e si copriva di nuovo, mentre il cuore sembrava esploderle. Sudata e con il respiro corto, si alzò
E si preparò una tisana ai frutti di bosco che, sperava, sarebbe riuscita a rilassarla, ma invano. Presto fu colpita da un mal di testa martellante. Le tempie le pulsavano. Hope si svegliò qualche volta piangendo disperata. Una sola dovette essere cambiata, le altre aveva bisogno di coccole o di una ninnananna. Trovarsi in una nuova casa, con persone differenti e dormire in un letto diverso la rendeva agitata, anche se con loro si era trovata bene e da fuori pareva tranquilla. Tutti non fecero altro che girarsi e rigirarsi nel letto sognando avvenimenti intricati e strani che, ai frequenti risvegli, non ricordava più.
“Non è possibile” mormorava Eliza, con la voce impastata dal sonno, mentre aveva ancora nella testa l’immagine delle sue figlie che le dicevano che i genitori e la sorella della piccola erano deceduti.
Come si sarebbe comportata, allora? Cosa potevano sapere i bambini della sua età della morte? Fu percorsa da un brivido glaciale alla sola idea di quella povera coppia con un’altra figlia, dispersi chissà dove. Se fossero morti e non ci fossero stati indizi sulla loro provenienza nessuno avrebbe potuto riportarli a casa loro, ridarli alla famiglia.
Ma perché penso a tutto questo? Non è ancora detto e poi ho sempre creduto che fossero vivi.
Si riaddormentò con un sospiro, cercando di convincersi che tutto sarebbe andato per il meglio.
 
 
 
CREDITS:
canzone tratta dal film La volpe e la bambina

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Capitolo 6
*** I frutti della speranza ***


CAPITOLO 6.

 

I FRUTTI DELLA SPERANZA

 
Il mattino tornò a splendere su Eltaria. Ancora nella grotta ma con il sole già alto Demi, Andrew e Mackenzie non si erano mossi di un millimetro. I due adulti si sfiorarono e, divorati dall'ansia, aprirono gli occhi. Mackenzie si svegliò poco dopo. Fitte di dolore attraversavano loro la schiena e il resto delle membra. Demetria piegò le braccia sopra la testa e, tenendole in quella posizione, le alzò e abbassò più volte per diminuire la sofferenza, allungò le gambe e se le portò al petto per diversi secondi, esercizi che Andrew e Mackenzie imitarono. All’inizio non capirono, ma si sentirono subito meglio. Sbadigliarono tutti ma, se la ragazza rimase sveglia, i suoi familiari ripresero sonno. Solo Mackenzie era riuscita a riposare bene, lei e il fidanzato avevano dormito un sonno agitato popolato da incubi terribili sulla morte della loro bambina. Demi scosse la testa per scacciare il ricordo del corpicino pallido della sua piccola. La sensazione della sua pelle fredda sotto le dita le provocò un forte accesso di tosse e un gemito di dolore.
"Dove… dove sono?" biascicò, le parole che ancora faticavano a lasciare la sua bocca e che riecheggiarono nella grotta.
A quella domanda seguì il silenzio, poi una voce estranea le rispose.
"Ben svegliata, cara."
Demi si bloccò e, non appena i suoi occhi si abituarono alla penombra, la rivide. Di nuovo lei, la strana donna che li aveva accolti nel mezzo della notte appena trascorsa.
"Chi sei?" non poté evitare di chiedere, allo stesso tempo sicura e dubbiosa circa la sua identità.
Rammentava di averla già vista e sentita presentarsi, ma era come se l'alternarsi di luce e buio le avesse cancellato la memoria. Si frappose fra la propria famiglia e la donna. Aveva già perso Hope in quel dannato bosco, non avrebbe certo permesso che la stessa cosa accadesse al fidanzato e all’altra figlia, mai. Dando le spalle alla ninfa, lasciò che il suo sguardo cadesse su una pozzanghera poco distante. In quel momento il suo volto si rifletté nell'acqua. La giovane si portò una mano al petto, osservando la propria immagine. I giorni passavano lenti e, aiutata dal compagno e dalla bambina, cercava di abituarsi a quel mondo, ma il pensiero di Hope continuava a torturarle le membra. Distrarsi era impossibile e doloroso. Tremendamente doloroso. Era sempre se stessa, la Demi che la sua famiglia e i fan amavano alla follia, solo pallidissima e con pesanti occhiaie. Confusa, rialzò lo sguardo, incrociando nuovamente quello della donna.
"Aster, cara” le rispose con dolcezza. “Il sonno deve averti confusa, ma è più che normale. Tu e i tuoi congiunti non avete mangiato ancora nulla, stamattina, e ormai è ora di colazione.”
Demi non seppe cosa dire e il suo sguardo tornò sui due addormentati. Andrew da un lato e Mackenzie dall'altro, a pochi passi dal padre e con la mano stretta nella sua, come se cercasse protezione da qualsiasi incubo provasse a svegliarla. I brutti sogni avevano smesso di tormentarla da un po’, anche grazie agli innumerevoli pupazzi che possedeva che, aveva detto alla madre, dormendo immaginava in armature scintillanti, spade e scudi, così da proteggere i suoi sogni.
"No! Non… non ti avvicinare" replicò la cantante, con i muscoli tanto tesi da far male.
Aster indietreggiò piano, alzando le mani in segno di resa.
"D-Demi, non voglio farvi del male. Noi ninfe siamo spiriti buoni, te lo posso giurare se vuoi!" le spiegò, agitandosi a propria volta.
Le foglie nei suoi capelli tremarono anche in assenza di vento, emulando le emozioni della ninfa.
"Spiriti buoni? Spiriti buoni, hai detto? Se sei così buona, dov'è la mia bambina? L'hai mai anche solo vista? È dolcissima, radiosa come un angelo, e sono le genti come te ad averla rapita! Cosa le avete fatto, eh, maledetti bastardi? Dimmelo!" urlò.
Mackenzie si svegliò di soprassalto e raggiunse in fretta la madre.
Mamma, perché stai gridando? La signora Aster è una brava persona. Te l'ha detto, non vuole farci male, anzi.
Demi taceva al riguardo, ma non riusciva a crederci. Ancora una volta, la bambina dava voce a parole come quelle e in silenzio si morse la lingua per non imprecare. Com'era possibile? Prima la questione dell’italiano e del mondo in cui erano stati catapultati e poi questo. Le avevano per caso fatto il lavaggio del cervello? Era una bambina, ma come poteva non mostrare la benché minima preoccupazione per la scomparsa della sorella? Era forse a conoscenza di qualcosa che non diceva? La ragazza guardò prima la figlia, poi la donna, e nel silenzio rotto solo dallo scorrere dell'acqua, anche Andrew finì per svegliarsi.
"Demi?" chiamò, drizzandosi a sedere sul pavimento in pietra. "Che è successo?"
"Amore, posso… posso spiegare. Vedi, l-lei…" balbettò Demi, facendosi pena da sola.
Mackenzie riprese il suo blocchetto e, armata della solita penna, scrisse rischiando di bucare il foglio con la punta.
Mamma, basta. Magari non sa dov'è Hope, ma può aiutarci. Dio, a volte sei così…
Non riuscì neanche a finire e dovette affidare la rabbia a quegli ultimi tre puntini sospensivi.
"Mac" biascicò la ragazza in risposta.
Piccole lacrime scivolarono sul volto della bambina. Madre e figlia si abbracciarono e i loro cuori batterono all'unisono.
 
 
 
Rimasta in disparte, anche Aster pianse. Era straziante vedere quella donna soffrire tanto. Con un gesto della mano, pregò Andrew di raggiungerla. Seppur confuso, l’uomo non si fece attendere. Non appena fu vicino e l'abbraccio fra Demi e Mackenzie si sciolse, lei parlò con voce arrochita.
"Ascoltatemi, quello che sto per dirvi sembra da pazzi, ma è la verità. La bambina ha ragione, ha sempre avuto ragione. Non so perché non ve l'abbia detto, ma vi ripeto che noi ninfe siamo spiriti buoni, ve lo assicuro. Le luci che avete visto ieri sera sono boccioli, ovvero futuri fate, folletti e ninfe ancora piccoli, e io e le mie sorelle non abbiamo mai nuociuto a nessuno, figurarsi a una bambina. Non so dove sia, ma una mia amica potrebbe aiutarvi.”
Si era sforzata di rimanere tranquilla e di trasmettere loro fiducia con il solo uso della voce, sperando di convincerli.
Andrew sbiancò fino a diventare pallido come un lenzuolo, mentre gli occhi gli bruciavano a causa di un pianto che non riusciva a liberare. Come Demi, non aveva dormito, si era svegliato più volte e aveva singhiozzato senza riuscire a fermarsi, con le mani davanti al viso per coprire i gemiti di dolore e, pur volendo abbracciarsi, i due non ci erano riusciti, ma solo perché la sofferenza era troppo forte.
"Un'amica?" azzardò, abbozzando il primo sorriso della giornata, finalmente luminoso e pieno di fiducia.
"Sì. Tornare al villaggio dove vive potrebbe rivelarsi un po’ pericoloso dopo quello che è successo, quindi andrò a chiamarla io. Non sarete da soli, tranquilli."
Non era mai stata vicina a degli umani così sospettosi prima d'allora, ma mettendosi nei loro panni, non riusciva nemmeno a immaginare quel che provavano. Vedere la loro bambina scomparire in un bosco, in un mondo a loro sconosciuto… avrebbe fatto male anche a lei se le fosse successo, ne era sicura. Anche se da poco aveva trovato l'amore in Carlos, un satiro dal cuore d'oro, e nonostante fosse ancora presto per dirlo, lei come l'amica Kaleia sperava in un futuro e in una famiglia.
“Perché? Che è accaduto?” domandò Demetria.
“Non vi preoccupate, sistemeremo ogni cosa.”
Si allontanò da quella famiglia umana, ma non prima di aver portato ai tre la colazione ed essersi scambiata un'occhiata d'intesa con Anya, la sua volpe, che entrò in quel momento.
"Sta’ con loro, bella, tornerò subito" le disse, abbassandosi al suo livello e accarezzandole il pelo rosso.
L’altra quasi ricambiò quel sorriso e, prima che andasse, le posò una zampa sul ginocchio.
"D'accordo. Andrà tutto bene" parve dire, voltandosi verso Demi e Mackenzie, di nuovo l'una vicina all'altra.
Di lì a poco, la ninfa sparì dalla loro vista.
 
 
 
Demetria prese Andrew in disparte.
“Possiamo fidarci?” chiese lui. “Ci ha raccontato delle cose così assurde.”
Dopo essersi assicurata che Mackenzie non udisse, la ragazza parlò.
“Era quello che stavo per dire io. Ieri sera sono rimasta scioccata quanto te nel vedere una ninfa e con il discorso di stamattina ancora di più. Nonostante le luci di ieri, ho creduto che lei e gli altri abitanti di questo bosco fossero dei pazzi che avevano rapito la nostra bambina, così malati di mente da pensare di essere ninfe o altre creature magiche.”
“E adesso ci credi ancora? Io non riesco a fidarmi del tutto.”
“Sì, lo faccio.”
“Proporrei di andarcene. Non perdiamo tempo con questi squilibrati.”
“No, aspetta Andrew. Appena torneranno vedremo che succederà e, se riprenderanno a dire cose senza senso o se capiremo che l’hanno rapita li costringeremo, non so come, a dirci la verità. Okay? Ora facciamo in modo che Mackenzie non si accorga di niente” rispose la donna, cercando di darsi un contegno.
Entrambi si augurarono con tutto il cuore di non dover fare del male a nessuno per sapere dove si trovasse Hope. Non avrebbero voluto, ma in casi estremi un genitore può essere disposto a tutto. Tuttavia, anche solo riflettere sulla peggiore di quelle prospettive li faceva tremare. Come Aster, sempre che fosse stata sincera, loro non avevano mai torto un capello ad anima viva. Si sforzarono di non pensare che quella gente avrebbe potuto fare chissà cosa anche a loro. Non possedevano armi per difendersi, né avevano idea di come se la sarebbero cavata. La ninfa era parsa gentile. Qualcosa nelle sue parole portava i due a pensare che fosse buona sul serio, ma il dubbio continuava a insinuarsi nei due. Nonostante la paura, che immaginavano simile a una mano gelida che correva giù per le loro schiene, erano più preoccupati per Hope e, nel caso fosse accaduto qualcos’altro, per Mackenzie più che per loro stessi.
Ai tre non pareva di avere la febbre, il che era un buon segno, solo un leggero raffreddore, il minimo dopo aver trascorso il giorno prima in abiti e scarpe bagnati. Provarono a rilassarsi un po’. Se Andrew aveva finalmente ritrovato il coraggio di prendere la mano di Demi e accarezzarla, lei sorrideva di nuovo anche se forzatamente, mentre Mackenzie, a poca distanza da loro, giocava con la volpe che si lasciava accarezzare muovendo ritmicamente la zampa come il suo amico Batman. L'avrebbe mai rivisto? Quel cane le mancava, ma scuotendo la testa tornò a concentrarsi sulla volpe, che ora rotolava con insistenza al solo scopo di farla ridere. Mackenzie accennò a un sorriso, e per passare il tempo si rilassò sfogandosi sul suo blocco note, scrivendo e disegnando uno per uno i membri della sua famiglia, la nuova amica ninfa e la volpe dal pelo color del fuoco. A lavoro finito mostrò i suoi capolavori al padre, che stringendola a sé si complimentò per la sua bravura. Orgogliosa di se stessa Mackenzie sorrise, e nello spazio di un momento un lieve rossore le imporporò le guance. Succedeva a volte quando qualcuno le faceva un complimento. Si avvicinò al lago. Si inginocchiò e rimescolò le acque con un gesto, restando poi a guardar nuotare la coppia di cigni.
“Non sporgerti, tesoro!” le raccomandò il padre.
Poche settimane prima si erano avvicinati a un lago e, in un secondo, Hope ci era finita dentro. Non avevano fatto in tempo ad afferrarla, né a dirle di allontanarsi. Demi era riuscita a salvarla in fretta. Demetria aveva sbattuto contro un sasso e si era tagliata, ora le restava una cicatrice dopo aver tolto i punti, ma Hope non aveva avuto problemi. Da quel giorno i genitori non smettevano di dirsi che, se si fossero comportati in modo diverso, tutto ciò non sarebbe accaduto. Ora, nel vedere Mackenzie vicino a quelle acque, temevano il peggio.
Demi stava per intimarle di allontanarsi, ma Andrew la fermò.
“Perché?” sbottò lei. “Ci è andata anche ieri sera, non avremmo dovuto lasciarglielo fare.”
Invece la stanchezza e la confusione avevano avuto la meglio, annebbiando le loro menti. E se fosse successo qualcosa in quel momento?
“Vieni.” Andrew la accompagnò proprio accanto alla bambina. “Prendile l’altra mano e sono sicuro che non accadrà nulla. Anch’io ho paura,” proseguì con voce flebile, “ma non possiamo impedirle di avvicinarsi a uno specchio d’acqua.”
Demi sospirò.
Il suo ragazzo aveva ragione, ma l’istinto e la paura la facevano da padroni. Prese la mano asciutta della figlia e gliela strinse, tremando e respirando a fatica.
“Non lasciarla, capito?”
Lei annuì e Andrew si posizionò a destra della piccola, facendo respiri profondi per calmarsi.
“Come hai dormito, Mac?”
Era assalita da anni da incubi terribili legati al proprio passato e lui e la ragazza temevano che fossero tornati a terrorizzarla. Soffriva anche di insonnia, spesso aveva difficoltà ad addormentarsi.
Benissimo rispose lei, sorridendo. Niente brutti sogni.
I genitori lo ritennero strano. Non che sognasse cose orribili tutte le notti, ma credevano che, anche se durante il giorno era rimasta calma, l’esperienza vissuta l’avrebbe scossa perlomeno nel sonno. Chissà se nei giorni seguenti le cose sarebbero peggiorate. Si auguravano di no, ma non si poteva mai sapere.
Aster tornò dopo un paio d’ore.
"Scusate, sarei arrivata prima, ma il villaggio non è esattamente vuoto al momento."
Mackenzie sgranò gli occhi nel notare che la ninfa non era sola. Strappò un ennesimo foglio dal suo block notes e lo mostrò a una delle due nuove arrivate. Erano entrambe esili, si differenziavano solo per il colore dei capelli e poco altro.
Sei una fata? scrisse, non riuscendo a trattenersi dal porre quella domanda.
"Sì. Ciao, sono Kaleia e questa è mia sorella Sky” si presentò la ragazza, sorridendo alla bambina e ai suoi genitori.
Le due guardarono Mackenzie in modo strano e lei annuì, scrivendo qualcos’altro che lessero.
“Ho capito,” le sussurrò Sky, “lo dirai loro a suo tempo.”
Demi non tardò ad avvicinarsi.
"Sapete dov’è la mia bambina? Aster ha detto che forse…”
Le parole le morirono in gola.
Andrew le fu subito accanto. Avevano passato quell’ora fingendo di stare calmi solo per il bene di Mackenzie e non ne potevano più.
"Sì, è a casa di nostra madre. L’ha…" provò a risponderle Kaleia, fallendo nel terminare quella frase a causa della strana irruenza della donna che aveva di fronte.
"Rapita? Ha rapito Hope? Maledetta bastarda! Come ha potuto?" proruppe infatti quest'ultima, sforzandosi di non piangere e mostrandole il pugno chiuso.
"No, calmati. Era sola nel bosco, l’ha portata a casa. Voleva aiutarla, sul serio" spiegò la fata con voce rotta.
"Ma è illegale” sbottò Andrew.
"Qui è permesso, signore. Vi abbiamo cercati fino a ora."
In quel momento fu Sky a parlare, sostenendo i loro sguardi ridotti a un misto di rabbia, dolore e paura.
"Non è vero, non ci credo" ribatté l’uomo.
Che razza di spiegazione era? Il lavoro di avvocato l'aveva abituato a qualunque tipo di risposta, ma quella le batteva tutte.
Mackenzie gli assestò un pugno sul braccio.
"Scusa, amore, ma non vedi? Questa è gente troppo strana, non possiamo fidarci" le spiegò, abbassando la voce per non essere sentito che da lei.
La bambina tremò, strinse la penna che teneva fra le mani e con la destra scrisse qualcosa. Stavolta non sul blocchetto, ma sull'altra mano.
Fidati, l'unica parola che in quel momento avrebbe voluto essere in grado di sussurrare.
Nonostante tutto, scrivere aveva dei lati positivi. Poteva cancellare parole che non intendeva, cosa che non succedeva quando le persone parlavano troppo finendo, pur senza volerlo, per ferire chi avevano attorno.
A quella vista, Andrew si sforzò di sorridere. Le prese la mano e la strinse. Non conosceva il motivo per cui la bambina fosse così calma in una situazione di quel calibro, ma mimando con le labbra le fece capire di riuscire a fidarsi. Non di quelle estranee, ma di lei.
Sky non osò interrompere un momento del genere e anche Kaleia scivolò nel silenzio, ma lo stesso non valse per il fidanzato della prima e lo sposo della seconda.
"Signori miei, questa non è una menzogna. Siete qui perché la vostra bambina sta sognando e io sono umano come voi e il mio amico, ma lo stesso non vale per la mia ragazza, né per la moglie di lui che, appunto, sono fate e lo ribadisco nel caso non ci crediate. Giusto, Chris?"
Noah aveva preso la parola e sorrise nello scoprire che gli altri umani, di cui ancora non conosceva i nomi, avevano ascoltato senza sgranare gli occhi.
"Giustissimo. Mia moglie è una fata della natura e sua sorella una del vento. La loro madre è simile a voi e posso assicurarvi che la vostra bambina è in buone mani. Eliza l’ha trovata nel bosco e accudita asciugandola, vestendola e nutrendola. Siamo venuti a cercarvi poco dopo il suo arrivo in casa, ieri, ma arrivata la sera abbiamo dovuto fermarci a causa del buio.”
Kaleia si sfiorò il ventre piatto e Demi parlò di nuovo.
"Mi dispiace, ma devo vederla. Non riuscirò a crederci, altrimenti, scusatemi."
Le sue corde vocali vibrarono e minacciarono di spezzarsi con ogni parola.
"È comprensibile, cara e possiamo accompagnarvi, ma dovrete fare attenzione. Non ci sono molti umani qui intorno salvo la famiglia di Christopher e, dati i disordini di poche ore fa, vi toccherà cercare la sicurezza nei numeri" rispose Aster, seria.
Demetria si impose di mantenere la calma e, annuendo e respirando a fondo, prese per mano il compagno e sua figlia.
"Va bene, andiamo" dichiarò.
Il viaggio verso la comunità degli umani ebbe inizio. Dopo un’ora l'erba e il selciato divennero ciottoli e asfalto e il mondo prese a brulicare di vita. Oltre a loro pochissimi umani, e per le vie del villaggio mille e mille creature magiche tutte diverse: fate, folletti, gnomi e leprecauni, razze con proprie caratteristiche, ma per quanto interessanti potessero essere, di Hope ancora nessuna traccia. Demi guardava verso ogni casa sperando che fosse quella di Eliza. Le facevano male le gambe e i piedi, ma continuò a camminare. Si scambiò con Andrew una singola occhiata d'intesa e, volendo aiutare, Mackenzie scrisse:
Andrà tutto bene, mamma. Siamo vicini, ne sono sicura.
Le strinse la mano e si fermò nello stesso istante di una delle due fate, che intanto aveva preso ad armeggiare con un mazzo di chiavi.
"Siamo arrivati, questa è casa di nostra madre. Ci ha adottate, dandoci così una vita migliore" spiegò Kaleia, litigando con se stessa mentre cercava di aprire la porta, ma con scarsi risultati.
Christopher non si fece attendere e, attimi dopo, questa si aprì con uno scatto metallico.
Entrarono uno per volta, salutando la donna che viveva fra quelle mura.
Eliza accolse con calore e un gran sorriso ognuno degli ospiti e si avvicinò a loro.
"Siete qui per Hope?"
Prendersi cura della bambina era difficile, specialmente quando non faceva che lamentarsi e chiedere della mamma. Ogni volta che accadeva, lei non sapeva cosa rispondere, ma nonostante tutto faceva del suo meglio. Aveva sperato tanto, per la piccola, che arrivasse un momento come quello che stavano vivendo.
“No, passavamo in questi luoghi e abbiamo deciso di fare una visita a lei, signora, anche se non la conosciamo per niente” avrebbe voluto rispondere Demi, ma si trattenne dal formulare a voce alta quel commento. Una domanda del genere le pareva stupida, visto quanto accaduto era ovvio per chi fossero lì. "Sì, possiamo vederla?" chiese invece, con il cuore più leggero.
"Certo! Hope? Hope, tesoro, guarda chi c'è?" chiamò, abbassandosi al suo livello mentre l'aspettava, pronta ad abbracciarla.
 
 
 
Rimasta a giocare nella camera della donna, la piccola non la sentì, ma a un secondo richiamo scese piano dal letto per non farsi male e attraversò il corridoio fino ad arrivare al salotto. Proprio allora, eccoli. Mamma e papà. E c’era anche Mackenzie o, come lei la chiamava, Mac Mac.
"Mamma!" gridò, correndo verso di lei e alzando le braccine. “Mamma, mamma, mamma!”
Con il cuore che scalpitava tanto che lo sentiva nelle orecchie, Demi la prese subito in braccio, stringendola a sé e coccolandola come desiderava fare da poco più di due giorni, che però le erano parsi mesi, anni infiniti. Pianse di gioia e la riempì di baci, coccole e carezze. Anche Andrew si lasciò andare alle lacrime. Non si era mai sentito così bene nella sua intera vita. Era proprio vero, non bisognava mai smettere di sperare.
Per lui e la sua ragazza era incredibile. Avevano creduto che Hope fosse scomparsa, che qualcuno le avesse fatto del male, a volte avevano pensato che non l’avrebbero più rivista, o almeno non da viva e vissuto alcune tra le sofferenze e le paure più forti, quelle che i genitori pregano sempre di non vivere mai. E invece la piccola era viva, era viva e stava bene. Dimentichi della presenza di altri nel salotto, i due si concentrarono solo sulla loro amata bambina. Mackenzie le si avvicinò, la accarezzò e le sorrise.
“Ciao!” esclamò Hope.
La sorella maggiore le scompigliò i capelli e le diede un bacio, felicissima di vederla ma sicura, com’era sempre stata, che quel momento sarebbe arrivato.
Assistendo alla scena, ognuno dei presenti applaudì come se quello fosse stato il migliore degli spettacoli. Vicina alle lacrime, Eliza dovette lottare per ricacciarle indietro e si unì a quell'applauso, contenta di aver recitato una parte nello spettacolo della riunione di una famiglia.

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Capitolo 7
*** In un nuovo mondo ***


CAPITOLO 7.

 

IN UN NUOVO MONDO

 
Christopher, Kaleia, Sky e Noah raccontarono a Eliza quanto successo e che quello era un sogno di Mackenzie, ma lei non parve sorpresa. Poi se ne andarono.
"Come ti chiami?" chiese la donna alla mamma di Hope.
La ragazza rimase colpita dalla dolcezza del suo sorriso.
"Demetria Devonne, signora, ma per tutti sono solo Demi."
Come mai non le aveva dato del lei?
Forse a Eltaria non sapevano cosa significasse, del resto nemmeno Aster si era rivolta a loro in modo formale.
"Chiamami Eliza, cara."
"D'accordo, Eliza. Devi scusarmi, da noi parliamo in un’altra maniera con chi non conosciamo."
"Lo so, ma nel bosco le regole sono diverse e tutti si danno del tu, tranne in casi specifici, come con le figure importanti. Volevo assicurarti che sono rimasta con Hope fino a quando siete arrivati. Era in camera mia a giocare sul letto, ma non l'ho mai lasciata sola se non per quel poco tempo in cui vi ho accolti. Mi sono presa cura di lei con amore."
"Grazie" mormorò la più giovane e si accomodò sul divano.
“Che cos’è questa polvere nell’aria?” domandò Andrew.
Continuava a fluttuare anche adesso che erano dentro una casa.
“Si tratta di polvere di fata. L’avrete vista anche fuori. La magia lascia sempre le sue tracce. Stando con Kaleia anche Christopher ce l’ha addosso, così come tutte le fate e chi hanno intorno.”
Forse, allora, prima o poi sarebbe finita anche su di loro, pensò la cantante.
“Ci ha dato fastidio per diverse ore, ieri” confermò Andrew, “anche se meno di quanto ci saremmo aspettati. Abbiamo starnutito e sbattuto gli occhi parecchio, ma a parte questo nulla; Poi all’improvviso ci siamo abituati alla sua presenza.”
“In effetti è fastidiosa all’inizio” confermò Eliza. “A quanto pare, e per fortuna, l’avete fatto in velocità. Meglio per voi! Avete mangiato qualcosa? È pomeriggio, ormai."
"Alcuni frutti per strada. Ieri sera Aster ci ha portato la cena sempre a base di frutta, ma capirai bene che io e Andrew eravamo così preoccupati che abbiamo faticato a finire il pasto, ci siamo riusciti solo per non rischiare di svenire."
"Posso soltanto immaginare quello che avete passato. Credo che ora vorrete lavarvi, riposare e fare un pasto più sostanzioso.”
“Sarebbe fantastico, grazie! Che giorno è oggi?” domandò Demi.
Aveva bisogno di capirlo per orientarsi nel tempo.
“Giovedì.”
“Ci siamo addormentati di martedì” sussurrò al fidanzato. “Ha senso. Nel sogno Mac segue l’ordine cronologico.”
“Sì, ma da noi è novembre, qui… In che mese siamo?”
“A maggio, oggi è il 19. Vi mostro la vostra camera" continuò la donna più anziana.
Non appena la coppia si alzò, si risedette subito.
“Ci è girata la testa” mormorò lui.
“Forte” aggiunse la ragazza, stringendosi le braccia attorno allo stomaco.
Il suo tono di voce era cambiato.
Mackenzie non sarebbe riuscita a descriverlo. Era semplicemente diverso e anche lei scrisse che aveva provato la stessa sensazione. Si erano sentiti poco bene anche per strada, ma non avevano detto niente perché Kaleia e gli altri erano stati gentilissimi dando loro del cibo.
“Può essersi trattato di un calo di zuccheri, o di pressione” mormorò Eliza fra sé.
“Mi sento malissimo” si lamentò la cantante.
Sia Andrew, che lei, che la figlia erano pallidissimi ed Eliza si stupì che ce l’avessero fatta ad arrivare lì nonostante la debolezza fisica senza svenire. Il poco cibo trovato per strada li aveva aiutati e l’amore per Hope doveva aver dato loro la forza psicologica per proseguire. Un sudore freddo colava lungo le braccia di tutti, lo stomaco ora gorgogliava più forte. Era accaduto anche prima, ma pensando alla piccola non ci avevano dato peso offrendo, ancora una volta, gran parte di quello che avevano trovato a Mac, quella che si sentiva meglio. La padrona di casa portò un pezzo di cioccolato al latte sia a loro che a Mackenzie.
“Vi rimetterà in sesto” assicurò.
Mac lo divorò, mentre i genitori lo morsero piano, come due persone per cui ogni boccone ha valore.
“Va meglio per me, grazie Eliza.”
Anche Andrew la ringraziò e le sorrise, poi finalmente si alzarono.
La donna li guidò attraverso un corridoio sul quale si affacciavano quattro camere e un bagno. Loro erano in quella in fondo. Grande e spaziosa, con una finestra da cui entrava moltissima luce, aveva un letto matrimoniale e uno singolo separati da un po' di spazio, con una poltroncina in un angolo.
"È perfetto, grazie ancora."
"Figurati, Andrew. Vi porto subito il lettino di Hope."
Una volta sistemato, la donna indicò loro il bagno.
“Vi procurerò io dei vestiti, state tranquilli.”
Mackenzie si lavò per prima. Quando si ritrovò lì, sola tra quelle quattro pareti, si rese conto che non aveva quasi degnato di attenzione la sorella. Il fatto che avesse sempre avuto la sensazione che sarebbe andato tutto bene non significava che Hope non meritasse affetto da parte sua. Si erano solo guardate e sfiorate, la più grande non ci aveva nemmeno giocato insieme. Una mano immaginaria le ghermì il cuore con una stretta poderosa.
Hope, seduta sul letto assieme ai genitori, giocava con i cubi di legno che Eliza le aveva portato, lasciandoli poi soli.
"Guarda, questo è rosso" le disse il papà. "E quest’altro è più piccolo e verde."
"Bede" tentò la bambina.
"Verde" ripeté l'uomo, scandendo bene ogni lettera e, quando lei pronunciò di nuovo la parola sbagliata, concluse: "Sì, più o meno."
"Non ti perderò mai più, te lo prometto" le giurò Demi con le lacrime agli occhi.
"Quante volte devo ripeterti che non è colpa tua?"
Il suo ragazzo non era stato scontroso, anzi, anche se aveva alzato un po' la voce.
Demi sospirò.
"Lascia perdere. Io mi sentirò sempre in colpa. Non dimenticherò mai questi giorni" decretò, cupa.
"Nemmeno io. Ti senti in colpa anche se, per quanto sia assurdo e pazzesco, siamo dentro un sogno? Tutto questo non è reale."
"Ma io lo sto vivendo come se lo fosse, amore. Le sensazioni, le emozioni che ho provato sono state troppo forti per poter essere considerate finte o false."
"Quindi stai dicendo che, finché saremo qui, dovremo comportarci come se fosse tutto vero anche se non lo è?"
"Sì, o almeno io ci proverò. In questo modo le cose positive che accadranno, e sono sicura che ne succederanno ora che la nostra piccola è di nuovo con noi, lo saranno ancora di più."
Il problema è che varrà lo stesso anche per quelle brutte rifletté l'uomo.
Tuttavia, non valeva la pena rovinare quel momento con i dubbi o le emozioni negative. La ragazza non aveva tutti i torti, anche se convincere la propria mente che quella era la realtà sarebbe stata un’ardua impresa.
"Hai presente la saga sulle fate che sto leggendo a Hope e Mackenzie? Ne hai sentito un capitolo l’altra sera."
"Intendi Luce e ombra?"
"Proprio quella."
"Sì."
"Ieri sera il nome Aster e la sua figura mi avevano fatto venire qualche dubbio, per questo non mi sono sorpresa un granché nel vedere la ninfa, benché non volessi crederci. Ero anche provata e stamattina ho dato di matto. Più passava il tempo, però, e più ne ho avuto la conferma, in particolare quando Christopher ci ha spiegato ogni cosa: non so se te ne sei reso conto anche tu, ma Mackenzie sta sognando di vivere a Eltaria con noi e i personaggi della saga. Loro sono tutte persone che vivono nella mente di Emmastory e tra le pagine di quei libri, ma per lei in questo sogno sono reali. So che è difficilissimo da credere e contorto per noi grandi, ma è così. Per quanto riguarda l’italiano, la scrittrice una volta ha risposto a un commento di una lettrice spiegando che, benché le sue storie fossero scritte in inglese, immaginava che i personaggi parlassero in questa lingua. Qui la lingua principale è l’italiano, anche se in base a vocazioni magiche una creatura può scegliere di impararne un’altra. Alcune, però, parlano spagnolo se sono spagnole d’origine e ci sono due gnomi che parlano italiano con accento russo."
Per quanto concerneva la polvere di fata, Mackenzie doveva aver sognato che tutti ci si abituavano per superare in fretta quella difficoltà. A volte nei sogni le cose erano più semplici, pensò la cantante.
Per un momento ad Andrew mancò il fiato e i due rimasero a bocca aperta. Demi fu colta da un senso di affanno che le mozzò il respiro e da una vertigine. Era scioccante e la questione della lingua era il minimo.
"Santissimo Dio" mormorò lui. “In effetti i nomi mi avevano ricordato quelli della saga, ma pensavo di starmi immaginando tutto, o di sbagliarmi, visto che avevamo letto solo un capitolo.”
“Saperlo è una cosa, ma dirlo fa tutto un altro effetto.”
"È pazzesco."
"E dire così è poco, ma è la verità. Ho riconosciuto tantissime creature di quella saga, le persone che ci hanno parlato, gli ambienti, non può essere altrimenti, capisci?"
"E tu vorresti che io vivessi tutto questo come se fosse reale anche se è nato dalla mente di una ragazza che ha pubblicato una storia su un sito di scrittura amatoriale? Come cavolo faccio?"
Ma per me è reale! scrisse la bambina, che uscì dal bagno in quel momento vestita con un paio di pantaloncini blu e una maglietta dello stesso colore che le stavano grandi.
Spiegò che si era addormentata pensando a quanto le sarebbe piaciuto andare a Eltaria con loro per poter parlare con i personaggi e vivere tante avventure ed era successo nei suoi sogni. Ciò la faceva sentire così bene, nonostante le difficoltà, che a lei sembrava di vivere comunque nella realtà. Andrew e Demi si guardarono negli occhi, poi la ragazza asciugò i capelli di Mackenzie.
“E perché hanno tutti nomi inglesi se parlano italiano?”
Andrew si rendeva conto che quel dettaglio non era così importante, al momento, ma la cosa lo incuriosiva.
“Emmastory ha scritto, in una nota, che si abbinavano meglio ai vari elementi per quanto riguarda le creature magiche, anche se non sempre, e perché comunque le piacciono. Kaleia, però, non è inglese, ma hawaiano e significa ghirlanda di fiori, quindi simboleggia la natura. Chissà, magari incontreremo anche persone che hanno nomi in altre lingue.”
Uno alla volta i due fidanzati andarono a farsi la doccia e, sotto l'acqua, urlarono e batterono i piedi e le mani, presero anche a pugni il muro. Loro, che erano adulti, non riuscivano a fare quello che invece a Mackenzie risultava facile: vedere con gli occhi dell'innocenza, con l'immaginazione di un bambino. Si sforzarono di dimenticare che fosse un sogno e di considerarla un’alternativa realtà in cui erano capitati. Non ci sarebbero mai riusciti del tutto, ma se non volevano impazzire era necessario che tentassero di ragionare in quel modo. Eliza e gli altri erano persone che avevano incontrato in circostanze inusuali e che forse avrebbero conosciuto.
La padrona di casa disse loro di fare anche un bagno ai piedi con acqua calda e sale, preparando ai tre una bacinella a testa, per sgonfiare le vesciche delle quali le parlarono. Mackenzie ne aveva due sotto entrambi i talloni, per fortuna piccole, mentre Andrew e Demi vicino alle dita. Già dopo quell’operazione si sentirono molto meglio e camminavano normalmente. I genitori si dissero che Mackenzie, nel suo sogno, doveva aver semplificato un po’ le cose anche in quel caso, ma gli adulti sperarono che non sarebbe stato sempre così. La loro bambina non era tipo da rendere tutto facile, come prova ricordarono i giorni precedenti.
Si misurarono la febbre, che non avevano ed Eliza diede il disinfettante a Demi e Andrew, che andarono in bagno. I graffi bruciarono e la donna disse loro di passarlo per qualche altro giorno, ma che sarebbero guariti presto. L’umana si domandò come mai non avessero voluto mostrarle i graffi, ma pensò che forse si vergognavano e non ci diede peso. Portò agli ospiti tre tisane calde che, disse, li avrebbero aiutati a decongestionarsi, se ce ne fosse stato bisogno. Mackenzie si aspettava un intruglio dal sapore così amaro da risultare imbevibile e che avrebbe sputato, invece si trattava di una sorta di tè non troppo dolce.
Gli adulti chiesero dove fosse il cesto dei panni sporchi e vi misero i loro abiti bagnati e quelli che Aster aveva regalato loro.
La donna servì un piatto di pasta con la panna e i funghi che i quattro mangiarono assieme a lei con appetito. Andrew aveva indossato alcuni abiti che Christopher aveva lasciato lì nel caso servissero, Demi qualche capo di Sky e Mackenzie di Kaleia da piccola, che la padrona di casa aveva già lavato e stirato i giorni precedenti in attesa del loro arrivo, quando aveva saputo che ci sarebbe stata una bambina.
“Quindi mangiate cibo normale, qui? Insomma, più o meno come il nostro: pasta, carne, latte e derivati, frutta e verdura?” domandò Andrew.
“Esatto. Sorpreso?”
Le spiegò che, trovandosi in un bosco, credevano che solo gli ultimi due alimenti componessero la dieta delle creature che lo popolavano. Parlare così era strano, come stare in una favola.
“No, il cibo è lo stesso, c’è tutto quello che hai elencato e molto di più, anche se si trovano cose particolari che, immagino, nel vostro mondo non ci siano, per esempio i cioccolatini a forma di alcuni animali magici.”
“Sulla Terra la magia esiste nei cuori delle persone.” Demi tirò appena la leggerissima maglia a maniche lunghe che aveva indossato. Lo faceva per istinto, per nascondere meglio ciò che non voleva gli altri vedessero. Una pratica che aveva messo in atto molti anni prima. “Non di tutte, purtroppo, solo di quelle che ci credono ancora: i bambini e alcuni adulti.”
La ragazza ricordò di aver visto un negozio di alimentari nel villaggio. Le verdure di sicuro venivano coltivate in qualche giardino o piccolo orto, così come il grano e altri cereali, ma nel bosco c’erano allevamenti di bestiame? Come facevano le persone a produrre, per esempio, quei cioccolatini? Forse, però, non era il caso di porsi domande del genere. Di sicuro Emmastory, creando la saga, aveva pensato a tutto pur non avendo reso noti quei dettagli, ma nel loro caso si trattava del sogno di una bambina e Mackenzie, di certo, non ci aveva riflettuto. Nei sogni non tutto è chiaro. Meglio, dunque, dirsi che ogni cosa filava liscia anche senza indagare a fondo a riguardo e lasciare quegli importanti dettagli – o forse non tanto, almeno dal punto di vista di Mac – avvolti da una leggera nebbia.
“Come mai avete messo una maglia lunga e i pantaloni corti? Per curiosità” domandò Eliza.
“Siamo freddolosi” rispose Demi con naturalezza.
Eliza credette a quella risposta.
"Le sue… le tue figlie non abitano qui?" le chiese Andrew.
Devo pensare che è una donna in carne e ossa.
"Sky sì. Tornerà fra poco, mi auguro, perché è in ritardo. Kaleia vive con suo marito in una casa qui vicino. Si sono sposati da un po’."
Demi, all'insaputa delle bambine, era andata avanti nella lettura non riuscendo a trattenersi, forse perché i capitoli erano troppo corti per i suoi gusti e, dato che la sera rimaneva alzata fino alle undici passate, aveva tempo e preferiva trascorrerlo leggendo piuttosto che guardando la televisione, a meno che non facessero qualche serie poliziesca. Si era divorata la seconda parte e alcuni capitoli della terza, fin dove l'autrice era arrivata, in pochissimi giorni.
Dipende cosa intende per da un po’. Ho letto il ventesimo capitolo della terza parte, loro si sono sposati al trentacinquesimo, ovvero all’ultimo, della seconda e da quello a questo è passato del tempo.
Si ricordò che non doveva farlo, ma desiderava porre quella domanda.
"Tu non abiti ancora a Primedia con Sky e Noah?"
Non aggiunse che l'aveva letto nella saga, si costrinse a rammentare una bugia e cioè che qualcuno, magari Kaleia, gliel'avesse detto.
"Sì, ma ci siamo trasferite perché l'ha voluto Mackenzie" rispose e tutti capirono. “Lei ha sognato di venire qui altre volte da sola, vero piccola?”
La bambina annuì.
“Quindi li hai già incontrati” disse Demi, attonita.
Sì, tante volte come ha detto Eliza, ma ogni sogno è diverso dall’altro e nemmeno io so cosa succederà. Anche se pensavo che Hope fosse al sicuro non sapevo dov’era, per esempio, altrimenti ve l’avrei detto.
“Mackenzie viene da mesi, per cui io nei suoi sogni sono in questo bosco da tempo. Ci aveva detto di avere due genitori e una sorella piccola, ma non i loro nomi, non ha mai parlato un granché della sua famiglia, per questo quando ho trovato Hope non l’ho riconosciuta, né mi si è accesa una scintilla nel momento in cui ho sentito il tuo nome, Demi, dalle mie figlie, che nelle loro ricerche l’avevano scoperto. In questi giorni la vostra bambina diceva, a volte, “Mac Mac”, ma non credevo parlasse di lei, non avevo collegato, chissà perché. Mackenzie ci ha detto, tempo fa, che è stata una brutta persona a farle quelle cicatrici, ma che i genitori non c’entravano e volevamo aspettare a farle altre domande. I segni di Hope sono simili, ma da stupida non ho compreso. Solo quando mi hanno spiegato quanto successo stamattina ho capito.”
Di solito rimango con loro solo qualche ora. Per la maggior parte del tempo giochiamo, o io aiuto Eliza a preparare un dolce, o passeggiamo. Ma anche se li conosco, non mi fidavo abbastanza da raccontare loro cose personali. Ho conosciuto loro cinque, per il momento. A casa avevo letto il titolo della terza parte della saga tempo fa, mamma, e capito dalla trama e da alcune recensioni quello che era successo almeno in parte. La prima volta Eliza non c’era. Kaleia mi ha spiegato che si era trasferita qui con Christopher dopo il matrimonio, ma quando ho immaginato che potevano esserci anche lei, Sky e Noah è stato così.
“Per cui tu sai già quello che succede da dove siamo arrivate fino al capitolo venti della terza parte?”
A grandi linee ma sì, e comunque voglio che continuiamo a leggere la storia insieme perché mi piace.
“Ed è per questo che Kaleia ti ha osservata in modo strano, stamattina?”
Sì, le avevo chiesto se era una fata, ma in realtà volevo la risposta per voi, per farvi capire. Mi ha guardata perché pensava che non la riconoscevo, ma le ho detto che voi non sapevate niente dei miei sogni.
“È impressionante ciò che possono fare” mormorò Andrew.
“Sai quanto resteremo qui?” domandò la mamma alla bambina, ma lei negò.
“Credo ci trasferiremo realmente, prima o poi" commentò Eliza.
La testa dei due adulti girava come una trottola impazzita e a volte il respiro veniva loro meno. La polvere si era già depositata sui vestiti e l’avevano vista prima su quelli di Hope, ma cercavano di non scrollarsela di dosso pensando che non era sporco, bensì magia. Anche questo, però, non era semplice.
"Dobbiamo solo abituarci, credo" mormorò l'uomo. "Dateci tempo."
"Tutto quello che vi serve, state tranquilli. La vostra confusione è più che normale."
Eliza non parlò più delle cicatrici delle piccole per non ferire Mackenzie o far riaffiorare nelle menti dei genitori brutti ricordi. Ma chi poteva averle ridotte così? Se Andrew e Demi avessero voluto, gliene avrebbero parlato più in là.
Con una forchettina di plastica, Hope era stata in grado di tirare su la pasta che la mamma le aveva spezzato in quanto era grande, si trattava di rigatoni, e non sarebbe riuscita a metterla in bocca tutta.
"Ha fatto la brava, in questi giorni?"
"Sì Demi, è stata un angelo.” Meglio evitare di raccontarle quanto era capitato per non agitarla. “Dopo che vi sarete riposati, se vorrete, andremo a comprare altri vestiti, ma ce ne sono in abbondanza per qualche giorno, per cui forse non sarà necessario farlo subito.”
I due insistettero che non volevano disturbare, ma lei li convinse che non era così e che dovevano riposare, prima di tutto.
In quel momento tornò Sky.
"Mamma, scusa il ritardo. Ero con Noah e abbiamo perso la cognizione del tempo."
"Tranquilla, ma sai che vorrei che ci fossi all'ora di pranzo. Non ti chiedo molto, no?"
"Perdonami."
"Okay, per stavolta. Ti scaldo la pasta."
"Sky!” Hope, seduta sul seggiolone, si mosse e alzò le braccia. “Sky!”
"Ciao, piccola. Vi sentite meglio?" chiese agli altri.
Tutti risposero di sì e la ringraziarono.
Mackenzie sorrideva, mentre i due adulti si guardavano intorno ancora confusi ma già più calmi.
“Come vi siete conosciuti tu e Andrew?”
“Siamo amici fin dall’infanzia, Sky. Ci conosciamo da sempre. Mesi fa ci siamo innamorati e stiamo insieme.”
“È bello che un’amicizia sia rimasta salda per così tanti anni, non accade spesso” osservò Eliza.
“No, infatti” concordò Andrew. “Abbiamo avuto i nostri alti e bassi e litigato come tutti gli amici, ma alla fine siamo sempre riusciti a risolvere e ora eccoci qui.”
Dopo pranzo i fidanzati e le figlie andarono a riposare e, mentre loro dormivano, Andrew e Demi rimanevano svegli.
Andrew indicò Hope.
"La nostra bambina!"
"L'abbiamo ritrovata" sussurrò Demi.
Si baciarono mormorando frasi simili. Le loro labbra morbide si univano, si staccavano appena e poi tornavano di nuovo a incontrarsi mentre le lingue si intrecciavano in un'armonia perfetta. I loro baci erano delicati come fiocchi di neve.
Quando le bambine si svegliarono, giocarono sul tappeto della camera. Costruirono delle torri e le buttarono giù, poi si rincorsero nonostante lo spazio esiguo.
"Potremmo andare in salotto" suggerì Andrew.
"Credevo che volessi stare lontano da quelle persone."
"Tu no? Sono ancora confuso."
"Anch'io, ma dobbiamo cercare di dare loro fiducia e di trattarle…"
"Come se fossero reali, sì, ho capito.”
Per me lo sono, ci tenne a sottolineare ancora Mackenzie, anche se so che questo è un sogno e che non c’è nulla di reale. Ma mi va bene così.
Sorrise, con il volto sereno.
I genitori capirono fino in fondo che era per quel motivo che appariva tanto tranquilla. Avrebbero voluto comportarsi come lei, ma nella loro situazione e con tutti quei sentimenti contrastanti, per il momento non era possibile.
“Potremmo andare in salotto per conoscerle un po’. Altrimenti come faremo a dare loro una possibilità?" chiese Demi.
"Vero, ma se invece le disturbassimo?"
Decisero di rimanere ancora lì.
"Papà?"
"Dimmi, Hope."
La piccola gli portò un cubetto.
“È giallo.”
"Vola!" urlò lei.
“Non gridare.”
Dato che lui non comprese, fece la stessa cosa con la mamma.
"Tesoro, non capisco. Cosa vuoi?" le chiese la donna.
"Quetto vola, vola" ripeteva con insistenza.
Kaleia e Sky fanno volare gli oggetti con la loro magia spiegò Mackenzie. Forse giocavano così insieme.
La levitazione, ecco di cosa stavano parlando. I due adulti si intenerirono e sorrisero alla più piccola.
"Noi non siamo magici, non ci riusciamo" le spiegò il papà, "Ma dopo chiediamo a Sky, va bene?"
"Sì."
"Ora io e papà costruiamo una torre, voi un'altra e vediamo qual è la più alta."
I due si adoperarono affinché le bambine vincessero: non fecero una base larga ma stretta, misero male alcuni cubi e alla fine la loro costruzione crollò. Mackenzie e Hope scoppiarono a ridere tenendosi la pancia ed esultarono battendo le mani. Demi ringraziava Dio nel vederle così felici e soprattutto tanto a loro agio in quel mondo estraneo.
"Le mie piccole!" Prese in braccio tutte e due dopo essersi seduta sulla poltrona. "Siete i miei amori, lo sapete? Siamo tutti insieme, adesso."
"Casa?"
"Non so quando ci torneremo, Hope, ma presto. Okay?"
"Okay."
Fece loro il solletico e poi, assieme ad Andrew, costruì una torre con le mani insegnando a Hope che, togliendo quella sotto di tutte, si poteva giocare.
 
 
 
Benché sapesse che non avrebbe dovuto, Eliza rimaneva lì fuori. Prima di mangiare li aveva lasciati tranquilli perché era giusto che passassero dei momenti insieme come famiglia. Ma adesso qualcosa l'aveva spinta ad avvicinarsi alla stanza e ascoltare. Non si concentrava tanto sulle parole dei genitori o sulle risate di Mackenzie – perché quella bambina non parlava ma scriveva, a proposito? Non l’aveva mai spiegato –, bensì su quelle di Hope. Una porta le separava, avrebbe potuto entrare e…
E cosa? Non devo fare nulla.
Ora aveva ritrovato la sua famiglia, grazie al cielo. Ma d'altro canto, il vuoto nel cuore della donna, quella voragine che le aveva provocato dolore nei giorni precedenti, si stava riaprendo. Non avrebbe potuto di certo entrare e prendersela per portarla via con sé. Quello era rapimento e non sarebbe mai arrivata a tanto. Il solo pensiero le faceva schifo.
"Mamma, vieni via" sussurrò Sky prendendola piano per un braccio.
"Non ce la faccio, non posso" rispose l'altra con la voce che le tremava.
"Devi, anche se è difficile."
"Che ne sai tu di quanto è difficile? All'inizio non ti importava niente di lei" sbottò la donna.
"Appunto, all’inizio. Sai mamma, mi dispiace risultare dura, ma non sei l'unica che sta soffrendo in questo momento, e invece sembra proprio che tu pensi di esserlo. Svegliati."
La ragazza corse via come una furia e gli occhi pieni di lacrime, uscì e sbatté la porta.
“Sky, aspetta” la chiamò la madre, ma fu tutto inutile.
Non la seguì. Rimase lì ancora un po' e sorrise quando sentì Hope ridere. Il desiderio di entrare e stringerla forte le provocava brividi lungo tutto il corpo e il cuore le batteva tanto da farle male. Si allontanò di scatto mentre alcune grosse lacrime le scendevano lungo le guance. Lei aveva già due figlie e una era fuori e aveva bisogno di sua mamma. Adesso.
Guadagnò la porta e prese a camminare per il villaggio. All’inizio non la trovò, ma non dovette fare molta strada. Sky era lì, seduta sul tronco caduto di un faggio, con il suo merlo Midnight sulla spalla e Kaleia accanto.
"Scusa se ho avuto una reazione esagerata nei tuoi confronti" le disse la mamma accarezzandole i capelli e fu felice perché non si scostò.
La ragazza alzò lo sguardo, tirò su col naso e si asciugò gli occhi.
"Anch'io sono stata brusca, perdonami. Non avrei dovuto dirti quelle cose, stavi già male."
"Ho sbagliato, Sky. Insomma, tutti siamo felici perché Hope ha ritrovato la sua famiglia e al contempo tristi, dato che pensavamo di poterla tenere."
"Sì, ma forse tu di più, mamma," intervenne Kaleia con voce vellutata, "visto che la consideravi una figlia."
"È vero. Mi sono affezionata troppo, ma non ho potuto farci niente. Se Mackenzie sta sognando anche stavolta come mi avete spiegato, è possibile che le vedremo anche in futuro. Per ora cerchiamo di andare d'accordo con i nostri ospiti e di farli sentire a casa. Credo che ci siano molto grati per aver tenuto la loro bambina e che ci lasceranno giocare ancora con lei. Si sentono solo confusi, non ci sono ostili."
"Stamattina lo erano" disse Sky.
"Lo posso immaginare, date le circostanze, ma li ho visti più tranquilli prima mentre mangiavano con me. Diamo loro il tempo di abituarsi a questo nuovo mondo. Non dev'essere affatto semplice, io impazzirei al loro posto. Facciamoli sentire a casa. E ricordate che vi voglio bene!”
La madre si abbassò alla loro altezza e le tre si strinsero in un lungo abbraccio pieno d’affetto.
“Anche noi, mamma, tantissimo” sussurrarono le due ragazze all’unisono.
“Per quanto riguarda la mia tristezza," continuò Eliza asciugandosi le lacrime, "mi consolerò occupandomi dei piccoli dell'orfanotrofio."
Ma il vuoto, pensò la donna mentre tornava in casa con le figlie, non sarebbe mai stato colmato.
 
 
 
Quando Eliza li chiamò per la cena, i quattro arrivarono quasi subito. C’era anche Kaleia. Gli adulti sorridevano, ma erano ancora provati dai giorni precedenti e titubanti.
"In questo bosco vivete tutti in pace?" chiese Andrew. "Nessuno litiga con nessuno?"
Fu Sky a prendere la parola.
"No. Ci sono litigi, però cerchiamo sempre di risolverli e ci riusciamo. Nel vostro mondo, invece?"
“A volte le persone litigano e non fanno più pace.”
“Oh!” esclamò Kaleia.
“Inoltre,” proseguì Demi, “molti Paesi sono in guerra, per tanti motivi che sarebbe troppo lungo spiegare. Il nostro Stato, la California, no per fortuna, ma lo è stato in passato. Ci sono delle zone della Terra, il mondo in cui viviamo, nelle quali la gente è povera e soffre a causa di tutti questi conflitti. Molte persone, troppe e di tutte le età, muoiono.”
Andrew annuì e, per qualche tempo, nessuno parlò più.
Sky, Kaleia ed Eliza non avrebbero mai immaginato che potessero esistere situazioni tanto drammatiche.
“Cos’è uno Stato?” domandò Kia.
“Una sorta di villaggio davvero enorme” disse Andrew.
"Dal lunedì al venerdì lavoro all'orfanotrofio di Eltaria" fece sapere la padrona di casa. “Ma domani non andrò, resterò con voi.”
"Davvero fai questo mestiere? Sei una persona di buon cuore!"
"Grazie Andrew. Do una mano perché ci sono tanti bambini che hanno bisogno di attenzioni e di un po' d'amore e i volontari non sono molti. Noi ci definiamo così, ma in realtà veniamo pagati. È in questo modo che mi mantengo. Ieri e oggi non sono andata per rimanere con vostra figlia, ma non è stato un problema."
Demi si disse che nella saga non c'era scritto, ma non importava, doveva pensare alla persona, non ai libri e poi in essi Eliza non viveva lì. Solo che era dannatamente difficile separare la storia dal sogno.
“Eliza, non sei costretta a restare a casa per noi, ce la possiamo cavare. In fondo ci vai per lavoro.”
“Non ti preoccupare, Demi. Ho già avvisato ieri, con una lettera, che sarei tornata la settimana seguente. Se non vi avessimo trovati, avrei lasciato Hope a una fata, Isla, di cui mi fido ciecamente.”
"Io ho adottato Mackenzie e Hope. Mi piacerebbe vedere l'orfanotrofio uno di questi giorni e magari anche aiutarti, se posso."
"Ti ci porterò, te lo prometto. Non ti conosco molto, Demi, ma sembri una persona di buon cuore, le anziane ti accetteranno di sicuro."
"Le anziane?"
Che cosa voleva dire? Chi erano? E perché avrebbero dovuto accettarla?
"Non ti preoccupare, te ne parleranno le mie figlie domani. Non è niente di cui aver paura, sta' tranquilla."
 
 
 
Dopo cena, mentre gli altri continuavano a parlare e Hope giocava, Mackenzie raggiunse Sky con il permesso dei genitori. La fata si trovava a pochi passi dalla porta.
Ti disturbo?
Conosceva il suo comportamento e non avrebbe mai voluto indispettirla.
"Dimmi, Mackenzie."
La voce le uscì incolore.
Doveva essere stanca, anche la mamma si comportava così qualche volta.
Hai giocato con Hope in questi giorni?
"Sia io che mia sorella l'abbiamo fatto. Perché?"
Le è piaciuto? Lo rifate?
"Credo proprio di sì."
Grazie.
"Prego, ma qualcosa mi dice che questo non è l'unico motivo per cui sei venuta a parlarmi, giusto?" le domandò e sospirò.
No, infatti.
Sky non sopportava le persone che non si decidevano a dire ciò che volevano, ma si trattenne dal commentare o dal battere un piede a terra. In fondo si trattava di una bambina che, a giudicare dal fatto che era stata adottata e dalle cicatrici, doveva aver sofferto, quindi non le pareva il caso di spaventarla.
Io sono stata adottata.
“Lo so.”
Anche voi due?
Ma non l’aveva sentito dire prima? E gliene avevano già parlato in un sogno precedente. Perché ai bambini bisognava ripetere tutto?
“Esatto.”
Sei stata silenziosa stasera, pensavo che ti sentivi sola e mi domandavo se ti sentivi così anche quando sei arrivata. Anche per me era così quando ho conosciuto la mia mamma, anche se non sono andata subito a casa con lei.
Sky si ritrovò a sorridere come un’idiota a causa di tutte quelle ripetizioni e dei verbi sbagliati.
Mackenzie le raccontò che nel mese e mezzo in cui aveva incontrato Demi, più volte a settimana a casa dei genitori affidatari, l'aveva messa alla prova. Non le aveva sorriso, né scritto molto per vedere se sarebbe andata lo stesso da lei, poi aveva iniziato a giocarci insieme.
"Hai un bel caratterino, eh?" scherzò la fata scompigliandole i capelli, un gesto che si stupì di aver compiuto. "No, in realtà ti capisco" proseguì, seria. "Io riempivo la mia stanza di vento freddo perché tutti comprendessero che ero triste e che volevo tenerli a distanza. Un giorno la mamma mi ha fatto una sorpresa perché mi rendessi conto che a Primedia, nella sua abitazione e soprattutto con lei, nel suo cuore, potevo sentirmi a casa. Kaleia era più piccola, si è fidata subito."
Anche Hope. Aveva sei mesi quando la mamma ci ha adottate.
Sky sorrise pensando a quanto dovessero essere piccoli gli umani a quell'età. Ma che stava facendo?
Quindi ci siamo sentite sole entrambe rifletté Mackenzie.
"Già, ma adesso anche per te non è più così, vero?"
No, non lo è.
"Mackenzie, ascoltami. Io sono sempre stata una bambina un po' diffidente, anche adesso sembro fredda all'esterno, ma in realtà è solo un muro che ho costruito perché ho paura di stare troppo male, capisci?"
Lei annuì.
"Bene. Ti devo chiedere una cosa importante.” Le prese le mani. “Per favore, tu prova a non farlo, sforzati di non chiudere tutti fuori dal tuo cuore. È brutto. Hai una famiglia che ti ama. Non allontanarla, o ti sentirai sempre triste e sola e non lo meriti."
D'accordo, te lo prometto rispose la bambina e sorrise.
Sky, che credette di aver ormai perso la sua sanità mentale, la abbracciò forte.
La bambina fu percorsa da un brivido beandosi di quella sensazione di calore e protezione.
Sky? chiese quando sciolsero l'abbraccio.
"Sì?"
Si stava alzando un vento freddo, una panacea per i poteri della fata.
Il vento mi fa paura.
Ma non era lo stesso per una bambina umana, pensò la ragazza, ancora così piccola e che non conosceva bene quel mondo e l’elemento che lei riusciva a padroneggiare.
"Non averne" mormorò. "Ascoltalo e sentilo sulla pelle."
È uguale all'ululato di un lupo scrisse la bambina tremando ancora di più e temendo che il blocchetto le cadesse. La penna le rotolò per terra, ma si affrettò a raccoglierla prima che l’aria la spingesse troppo in là. Si appoggiò a una parete della casa perché il vento stava diventando forte. Non ci riesco, Sky. Ho paura, ho freddo. Voglio la mamma!
La fata non riusciva a capire come si sentisse la sua piccola amica perché i sentimenti che provavano in quel momento erano opposti, ma lei era umana, non avvertiva le sue stesse sensazioni ed era compito della più grande proteggerla. Non l'avrebbe mai messa in pericolo. Intanto, Mackenzie era diventata pallida come un lenzuolo.
"Dammi la mano, tesoro, torniamo dentro."
Ma io non voglio avere sempre tutta questa paura insistette l'altra. Ce l'ho anche a casa, se la notte il vento soffia forte e lo sento battere sulle finestre.
"Sei coraggiosa a volerla superare. Molte persone si bloccano quando temono qualcosa. Ne riparliamo domani, allora il vento sarà più calmo e potrò insegnarti meglio. Adesso vieni, coraggio."
Una volta entrata, Mackenzie raggiunse la mamma e si sedette sulle sue gambe, ma poco dopo, anche se non era tardi, i genitori pensarono che fosse ora di andare a letto viste l'intensità e la stanchezza degli ultimi giorni.
"Buonanotte. E grazie di ospitarci qui in casa vostra."
"Notte, Demi. Potrete rimanere quanto vorrete, non disturbate" rispose loro Eliza.
Salutò Hope e Mackenzie con una mano e le bambine ricambiarono.
Sotto le coperte, Mac fissò il soffitto e si rivolse ai suoi genitori naturali.
Mamma, papà, avete visto? Io l’avevo detto che questo posto non era pericoloso. Qui sono tutti buoni e chissà cosa succederà nei prossimi giorni. Sono sicura che siete felici per noi.
Un macigno le piombò sul cuore, schiacciandolo.
Demi giunse le mani e pregò con gli altri. Dopo le preghiere di rito, aggiunse:
“Avete protetto noi e Hope e alla fine ci siamo ritrovati. Grazie! Vi prego, fate che non accada niente di brutto alla mia famiglia. Spero che, per il tempo in cui rimarremo qui, la nostra vita sarà piena di bei momenti e che se soffriremo ci sapremo rialzare. Signore, sia fatta la tua volontà.”
Concluse con un “Amen” assieme al fidanzato e alla figlia, si girò su un fianco e cercò di prendere sonno in quel letto comodo ma diverso dal suo.
“Il materasso è troppo morbido” si lamentò Andrew.
Mackenzie provò un leggero senso di sollievo dopo le preghiere. Rivolgersi a Dio la aiutava sempre. Sperò che finissero di parlare e di riuscire a dormire.
“Ti abituerai, non preoccuparti. E poi le coperte sono profumate, goditi la sensazione.”
Per fortuna dopo pochi, difficili respiri la bimba prese sonno e non sentì più dolore, non a livello conscio.
 
 
 
Quando gli umani si furono ritirati, Kaleia tornò a casa e madre e figlia si guardarono.
"Stavi per parlare loro delle voci che girano su Demi e Andrew e del fatto che dovranno difendersi" osservò Sky.
"Mi dispiace, ma la cosa importante è che almeno qui non hanno più paura di Hope. Stamattina siamo usciti con lei e non è successo niente."
"No, ma di loro forse sì e non sarà piacevole scoprirlo, per Demi e i suoi. Potrebbero volersene andare."
"Non potranno, a meno che le cose nel sogno di Mackenzie vadano in modo diverso" constatò Eliza.
"Dubito che accadrà, prepariamoci a un'altra crisi. Dovrai aiutarmi a calmarli, mamma. Devono capire che la gente non vuole fare loro niente e che le voci sono solo voci. Nessuno farà loro del male, qui."
"Ne sei proprio sicura?” chiese l’altra, sospettosa.
“No, ma lo spero con tutta me stessa.”
“Da quando sei così ottimista, figlia mia?”
“Da quando essere ottimisti è l’unica cosa che ci rimane.” Sospirò. “Non lo sono, in realtà. Ci provo.”
“Vedremo come andrà, intanto lasciamo che passino una notte tranquilla.”
“Domani sarebbe meglio dirlo loro, prima si risolve questa faccenda e meglio è. O forse è il caso di lasciare che si rilassino un attimo e farlo sabato, in attesa di vedere come vanno le cose al villaggio?”
“Ne ho parlato con Kaleia e Christopher, stamattina, prima che se ne andassero” sussurrò Eliza.
“Perché io e Noah non abbiamo sentito?”
“Eravate già usciti. Comunque, hanno detto di attendere un giorno e poi valutare la situazione. Se tutto rimarrà calmo, sarà inutile andare dalle anziane. Lo spero proprio.”
“Bene allora. Sì, anch’io.”
“Cos'è successo prima, fuori?"
Sky le raccontò la conversazione che aveva avuto con Mackenzie dall'inizio alla fine e non tralasciando nulla.
"Mi ha colpita la sua maturità. È venuta a parlarmi perché sa che sono stata adottata e si è preoccupata per me, e ha solo sei anni.”
“Oggi non mi ha praticamente rivolto la parola, ma mi sorrideva. Eppure mi conosce bene."
"Negli altri sogni si trovava da subito in questa casa, mamma, mentre in questi giorni ha camminato e sofferto, sarà stata stanca. Sono sicura che non ha fatto apposta.”
“No, non ho nemmeno pensato che ce l’avesse con me o altro.”
“Avrei dovuto portarla dentro prima" mormorò Sky mentre la voce le si spezzava.
Come aveva fatto ad aspettare? Era stata stupida. E se il vento si fosse alzato ancora di più? Mackenzie avrebbe potuto farsi male, in quel momento era stata sua la responsabilità. Avrebbe dovuto pensare di più a lei e meno o per niente a se stessa.
"Ma hai capito che lei era più debole di te e l'hai aiutata, è questo che conta. Sei stata brava, Sky. Sono fiera di te" rispose Eliza, sincera. "Non hai fatto nessun pasticcio e non le è successo niente. Sarebbe stato diverso se fossi rimasta fuori con lei nonostante le sue suppliche di farla rientrare, ma tu non ti saresti mai comportata in questo modo."
"No.” Si asciugò una lacrima, mentre il nodo che aveva in gola si scioglieva pian piano. "Nel caso in cui dovessi avere dei figli, non so se sarò una buona madre. Di sicuro non come te o Demi."
"Sarai bravissima, invece. Comunque, hai visto che lei e Andrew indossano una maglia a maniche lunghe?”
“Non credi che sia per il freddo, vero?”
“No, ma non saprei cosa pensare. Forse vogliono nascondere solo una ferita che si sono fatti durante il viaggio, o qualcosa di vecchio che pensano potrebbe spaventarci.”
“Ma se si fossero feriti nel tragitto avrebbero dovuto curarsi o farsi aiutare. A meno che non abbiano trovato erbe officinali e che siano degli esperti a riguardo, cosa che, senza offesa, non credo siano” aggiunse Sky.
“Hai ragione. Ma allora…”
“Magari ci stiamo facendo paranoie per nulla, mamma. Se dovranno o vorranno raccontarci qualcosa, lo faranno a suo tempo. Non angosciamoci adesso, magari non è niente di grave.”
Eliza si rilassò.
“Ma sì, hai ragione.”
La donna le preparò una tazza di latte e miele per calmarla. Eliza era sempre così dolce con lei, anche adesso che era cresciuta.
Poco dopo si addormentarono ripensando a tutte le emozioni provate in quella bellissima giornata.

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Capitolo 8
*** Poteri d'amore e amicizia ***


CAPITOLO 8.

 

POTERI D’AMORE E AMICIZIA

 
Il venerdì mattina giunse al bosco. Kaleia si stiracchiò e inspirò a fondo, sentendosi rilassata. La sveglia sul comodino segnava le dieci. Con i muscoli ancora indolenziti dalla posizione che aveva assunto nel dormire, la fata si rigirò fra le coperte. Il suono della voce del suo amato l'aveva già svegliata e ormai era sicura, avendolo sperimentato sulla sua pelle, che stargli lontano fosse pressoché impossibile e doloroso. Forse esagerava e altre fate non sarebbero mai arrivate a dirlo, ma rammentava ancora quanto vederlo sparire dalla sua vita per ben due volte l'avesse fatta soffrire. Scuotendo la testa, la ragazza si liberò in fretta di quei pensieri e si sforzò di sopportare il dolore legato a tali ricordi. Lei e suo marito ora erano insieme. Aveva davanti un nuovo giorno e perché restare cristallizzata nella sofferenza figlia del passato quando la si poteva sfruttare per andare avanti? Nei momenti più bui, quella domanda l'aiutava nel prosieguo del suo vivere.
"Buongiorno, mia fatina." Christopher aveva vegliato sul suo sonno fino ad addormentarsi, e ora le passava lentamente una mano fra i capelli spettinati. "Dormito bene?"
"Sì, e… e tu?" gli rispose lei, impacciata.
Non era più una ragazzina alla prima cotta, ma a volte perfino le domande più sciocche avevano tutt'altro valore se poste da suo marito.
"Benissimo, amore, ti ringrazio."
Le sfiorò una guancia.
Kaleia non si ritrasse e si agitò come una bambina, mentre un lieve rossore la tradiva imporporandole le gote. Si lasciò sfuggire una risata, poi scostò la coperta per alzarsi. Prima che potesse farlo, però, Christopher le fu accanto per stringerle la mano.
"Dove credi di andare, signorina?" Puntò gli occhi verdi nei suoi. “Scappi?”
"No, vado in… cucina. È ora di colazione, non credi?"
"Non senza di me, cara. E soprattutto non senza questo."
Le loro labbra si unirono. Il bacio che ne risultò fu caldo quanto i raggi del sole alle loro spalle. Kaleia si perse in quel contatto, approfittando del momento per stringersi a lui per alcuni, eterni istanti. Christopher l'accolse fra le sue braccia e si chiese quale forza mistica avesse agito per unirli. Kaleia gli era stata assegnata come fata da proteggere, ma lui l'aveva scelta come fata da amare.
"Felice, amore?" azzardò lei, ancora frastornata e senza fiato.
"Sempre, quando sono con te."
Con uno sforzo, la fata si riscosse raggiunse la porta. Più veloce di lei, Christopher si sporse per aprirla e si esibì in un rispettoso inchino, uno dei tanti modi che aveva di scherzare e che ogni volta la divertivano. Fingendo sorpresa in realtà non provata, si portò la mano al cuore, e varcò la porta tenendo stretta quella dell'amato.
"Allora, cosa vuoi per colazione?"
"No, cosa desideri tu, signorina?"
Un sorriso le increspò le labbra. Il cuore le batteva forte, e voltandosi a guardarlo gli depose un solo bacio sulla bocca.
"Sorprendimi pure, amore mio."
Dopo una ventina di minuti le servì un piatto di uova, bacon e pane tostato.
"Ecco qui."
"Colazione inglese, eh, Chris? Chi l’avrebbe mai detto?”
“Visto? Ora mangia, prima che si raffreddi."
Riempì un piatto anche per sé e si sedette al suo fianco.
I due consumarono il pasto senza una parola, ma il silenzio non impedì loro di scambiarsi sguardi colmi d'eloquenza. Si amavano con tutti loro stessi, e che a unirli fosse stato il caso o la magia, ai due non importava. Quando i piatti furono pieni solo di scarti e avanzi, un suono li distrasse. Willow, la gatta di casa, stava seduta sotto il tavolo a guardarli. La fata l’aveva sempre amata. Stando ai suoi ricordi e alle parole di Marisa, la poverina non aveva avuto un esordio dignitoso, iniziando a vivere solo nel momento in cui lei aveva accettato di prenderla con sé per toglierla dalle grinfie della strega Zaria, la madre della sua amica. Triste e sola, Willow aveva patito la fame e altre sofferenze, ma per fortuna ora non era più così, e adesso fissava la fata leccandosi i baffi e accennando a deboli miagolii. Kaleia la ignorò e, tutt'altro che contenta, la gatta si avvicinò posandole una zampa su un ginocchio.
“Ho fame, posso averne un po’?” sembrava chiederle, non staccando mai gli occhi dai suoi.
La fata le concesse una piccola striscia del bacon avanzato, e bevendo un sorso di succo d'arancia la guardò gustarselo lentamente, come faceva dal giorno della sua adozione. Forse qualcosa di radicato in lei o un comportamento appreso dopo gli abusi, ma qualunque fosse la verità, la ragazza preferiva non pensarci. Ora Willow stava bene ed era al sicuro.
I due vennero distratti da un altro lieve rumore. Era Cosmo che, zampettando, entrò in cucina. Si trattava di un cagnolino diverso dagli altri, simile a quello che gli umani avrebbero definito un husky ma magico.
"Va bene, bello, rotola." Gli chiese la padrona, sorridendogli e restando in attesa. Drizzando le orecchie, il cucciolo non se lo fece ripetere, e in breve eseguì il giochetto, per poi tornare in piedi e rimettersi seduto. Non resistendo, Kaleia gli mise una striscia di bacon nella ciotola e lui corse a mangiare.
“Dovete farlo ogni volta?”
Non concordava molto sul fatto che la moglie si lasciasse intenerire così tanto dagli animali di casa permettendo che mangiassero il loro cibo, ma quelle scene lo facevano anche ridere.
“No, ma è divertente. Vero, cucciolotto?”
Come se avesse compreso, Cosmo abbaiò e l’uomo rise.
Kaleia fece per alzarsi, ma Christopher la fermò.
"Non dimentichi qualcosa, tesoro?"
"Non credo, perché me lo chiedi?"
Per qualche istante non disse nulla, poi aprì la credenza mostrandole alcuni dolcetti.
"Li ho presi dal leprecauno qui vicino. Ha detto che sono buoni, ne vuoi uno?"
"Un muffin al cioccolato? Sì, grazie! Tu no?"
"No, sono pieno, mangialo pure."
Lanciò un'occhiata a Willow, che si stava avvicinando per mendicare ancora.
"Piccola, no. Hai un'intera ciotola di croccantini, mangia quelli se hai fame" le disse con voce ferma, pur non avendo alcuna intenzione di sgridarla.
La gatta si allontanò verso il salotto, ma non prima di avergli rivolto una delle sue solite occhiatacce.
“È l'ultima volta che rovini i miei piani, vedrai.”
Quelle le parole che potendo avrebbe pronunciato, ma che dovette limitarsi a esprimere con gli occhi. Erano alquanto particolari, uno azzurro e l'altro marrone, ma in realtà il semplice risultato di una condizione innocua detta eterocromia, capace di conferirle quella caratteristica. Per quanto Kaleia ne sapeva, in genere i gatti come lei erano parzialmente sordi in base alla posizione dell'occhio azzurro, ma per fortuna quello non era il caso di Willow. Ridendo divertito, lui la guardò saltare sul divano per poi appisolarsi e sfiorò la mano della moglie. I due rimasero accanto alla gatta per parecchio tempo, in silenzio, leggendo ognuno un libro, mentre Cosmo dormiva nella sua cuccia, ma a un tratto l’uomo si alzò.
"Pronta ad andare?"
"Dove, scusa?"
"Da tua madre, non vuoi sapere come stanno quelle bambine?"
Kaleia sorrise.
"Certo, custode mio."
Iniziava ad avere a cuore il benessere delle piccole umane, in special modo Hope che, oltre a stringerle le mani e a volte le ali quando le stava in braccio, riusciva a fare lo stesso con le corde del suo cuore. Non era solo un modo di dire, per la fata era come se ogni volta queste vibrassero fino a minacciare di spezzarsi grazie alla gioia che quella minuscola, dolcissima umana le procurava. In quanto tale, non avrebbe mai avuto poteri simili ai suoi ma, nonostante tutto, sarebbe stata speciale per lei, la sorella e la sua famiglia. A quel solo pensiero il sorriso scomparve dal volto della fata, sostituito da lacrime che non riuscì a nascondere. Christopher le si avvicinò e la strinse a sé.
"Kia, stanno bene, fidati di me."
Kaleia abbozzò un sorriso.
"Hai ragione" ammise, sforzandosi di apparire tranquilla.
Convinto che qualcosa ancora non andasse, il ragazzo le accarezzò la schiena con dolcezza e voltandosi indicò la gatta addormentata sul divano.
"Guarda come riposa, è così carina."
Kaleia restò in silenzio e, senza che potesse far niente per evitarlo, un'altra piccola lacrima le rotolò sulla guancia rigandole il volto.
"Dici che possiamo portarla con noi?"
Svegliandosi in loro assenza avrebbe trovato due ciotole piene di latte e croccantini, una pallina con un sonaglino all'interno e una canna con una piuma appesa al muro, ma sarebbe bastato? Sarebbe stato lo stesso per lei usare dei giocattoli e rilassarsi senza gli adorati padroni intorno? Kaleia pensava di sì, ma quando il ricordo del passato della povera gatta si fece di nuovo spazio nella sua mente, non attese la risposta del marito e senza neanche pensare mosse qualche passo verso il divano. In fin dei conti, portarla a casa della madre sarebbe stata la migliore delle soluzioni e poi, ne era sicura, sarebbe di certo piaciuta agli ospiti. Seppur guardinga, Willow era una gatta calma e dolce, e con un pizzico di fortuna lo sarebbe stata anche con le bambine. Christopher fece un cenno d’assenso e camminò con lei in punta di piedi al solo scopo di non svegliarla. A volte convincerla a seguirli si rivelava un'impresa alquanto ardua, per cui avrebbero dovuto fare piano. Valutarono l’opzione di portare anche Cosmo, temendo che si sarebbe sentito solo a casa, ma pareva dormire ancora più profondamente di quanto facesse Willow e i due non se la sentirono di svegliarlo. La fata gli riempì la ciotola di crocchette, gli cambiò l’acqua e mise sul tappeto i giochi che amava di più, una pallina e un bastone, con i quali spesso si intratteneva anche da solo, mentre loro cenavano o sbrigavano le faccende di casa. Non si sarebbe annoiato e sperò che non avrebbe sentito la loro mancanza. Si portò un indice alle labbra e, non appena fu vicina, scosse Willow con delicatezza.
"Willow, svegliati" pregò, sperando che l'ascoltasse.
La gatta aprì gli occhi con non poca fatica, saltò giù e si stese sul tappeto. Mostrò la pancia.
"Eccoti di nuovo fra noi. Che dici, vieni?" le chiese Christopher, che prese ad accarezzarla ed ebbe il piacere di sentirla dare inizio a una sinfonia di fusa.
Al suono di quell'ultima parola la gatta drizzò le orecchie, spostò lo sguardo dal viso del padrone alla porta chiusa e si limitò a fissarla, come se anche solo pensare di uscire le avesse permesso di aprirla. Kaleia sparì dal salotto per pochi minuti per poi tornare indietro con il trasportino.
"No, no, micia! Non penserai di uscire da sola, spero" l'avvisò, agitando quella piccola cuccia.
Willow rimase immobile e, con gli occhi sgranati, prese a tremare. La fata lasciò andare la gabbietta e si mosse con la cautela che riservava agli animali del bosco. Protese una mano in avanti.
"Va tutto bene, micia. Vieni qui, avanti" mormorò con quanta più dolcezza possibile, sfiorandole il pelo.
"Sta’ attenta, non vorrai rimediare un graffio."
"Tranquillo, non è la prima volta che la convinco."
Rinfrancata da quel gesto la gatta mosse qualche passo verso di lei, poi arretrò, atterrita da un rumore che i padroni non udirono. Christopher restava fermo. Willow soffiò e trovò rifugio sotto il divano. Sconfitta, Kaleia strinse i pugni, poi un'idea le apparve nella mente. Se catturarla era difficile, e il suo intento era quello di convincerla, forse gli avanzi della colazione avrebbero fatto al caso loro. Si rimise in piedi. Guardò il marito con l'espressione di chi la sapeva lunga.
"Chris, è per caso rimasto del bacon?"
"A cosa ti serve? Non hai già mangiato?" replicò questi, stranito da quelle parole.
"Non è per me, ma per Willow. Come speri di convincerla a seguirci? Sai che odia essere costretta nel suo trasportino."
L’uomo tornò al tavolo, scorgendo nel proprio piatto una sola striscia di quella che per la gatta era una vera delizia.
"Sei fortunata, è avanzato solo questo" le disse, non azzardandosi a toccarlo.
Meno schizzinosa di lui, Kaleia lo prese fra le dita e lo mostrò all'amica dal pelo color pece, ancora affamata.
"Lo vuoi, Willow? Lo vuoi?" la tentò con la voce.
La gatta continuò a seguire ogni movimento della fata con lo sguardo, poi si precipitò in quella sorta di cuccia quando il suo delizioso bacon vi sparì dentro. Kaleia chiuse la porticina con uno scatto. Non avendo occhi che per il suo premio la gatta non ci badò, masticando con gusto.
Ci era voluto più tempo del previsto, ma era fatta. Con Willow al suo posto, non restava che raggiungere la casa di Eliza, e la porta apertasi con il vento era un invito che i due innamorati non si sognarono di rifiutare. Camminarono l'uno al fianco dell'altra. Erano ormai passate circa due ore dal loro risveglio e nessuno dei coniugi aveva più fame, ma conoscendo sua madre forse meglio di sé stessa, Kaleia immaginava che stesse già preparando il pranzo o apparecchiando la tavola. La fata si guardò intorno come alla ricerca di qualcosa, o meglio, qualcuno. Era strano: da settimane il suo piccolo Bucky non si faceva vedere e le mancava. L'aveva conosciuto e adottato come animale domestico ancor prima dell'arrivo di Christopher nella sua vita e da allora erano stati inseparabili fino al giorno in cui, adulto, non aveva ceduto al forte richiamo della natura andando alla ricerca di una compagna. Ora lo cercava con gli occhi e con la mente, rimembrando tutti i loro momenti insieme. La primavera che li aveva legati, l'inverno e la tormenta che avevano attraversato, la sciarpina che Sky gli aveva regalato per aiutarlo a superare i rigori di quella fredda stagione, le sue tenere acrobazie volte a far spuntare un sorriso sul suo volto e poi il caldo periodo estivo, in cui si era allontanato per dare inizio a una vita propria. Kaleia non osava negarlo, ma ormai Bucky non era più la minuscola palla di pelo a cui era abituata, anzi, aveva una famiglia a cui badare. La fata si impose di tornare alla realtà. I ciottoli delle strade avevano ormai preso il posto dell'erba. A quel solo pensiero un sorriso le si dipinse sul volto e, scambiandosi con il marito un'occhiata d'intesa, lo sentì sfiorarle la mano. Avrebbe voluto ricambiare, ma il trasportino di Willow la bloccava. Come gelosa, la gatta si svegliò dal sonno in cui era caduta e miagolò per reclamare attenzioni. Troppo concentrati l'uno sull'altra, Christopher e Kaleia la ignorarono, e rialzando lo sguardo la fata si rese conto di essere giunta a destinazione. Estrasse la propria copia della chiave di casa della madre dalla tasca della veste e la passò al marito, che aprì la porta.
"Mamma! Ci sei? Siamo arrivati" annunciò.
"Kaleia! Giusto in tempo per il pranzo" le rispose Eliza, facendo il suo ingresso sulla scena dalla piccola cucina poco distante. "Christopher, ci sei anche tu!"
"Sempre un piacere, Eliza, sempre un piacere."
La donna lo strinse in un abbraccio, poi tornò ai suoi fornelli. Come se non avesse mai messo piede in quella casa, Kaleia osservò gli ospiti uno per uno e sorrise.
 
 
 
La fata della natura si stava avvicinando a lei e Demetria si chiese il perché.
"Tu devi essere Demi." Indicò con lo sguardo l'umana seduta sul divano. "Non ci siamo presentate a dovere, ma anche se lo sai te lo ripeto, io sono Kaleia. Piacere."
Le tese la mano perché gliela stringesse. Seppur con una vena di riluttanza nei movimenti, Demi afferrò la sua e in un attimo si sentì più tranquilla.
“Piacere mio” mormorò.
Credere alla strana faccenda del sogno di Mackenzie e trattarlo come realtà le risultava ancora difficile, ma nonostante tutto, continuò a ripetersi poche parole nella mente.
È reale, è reale. Tutto questo è reale.
Si rifiutava di distruggere le credenze delle sue bambine, entrambe già abituate a vivere in quel mondo, quasi fossero nate lì e non in un povero quartiere alla periferia di Los Angeles.
"Questo è Andrew, il mio ragazzo" disse, sfiorando con dolcezza la mano del fidanzato, assorto in alcune ricerche fatte con il cellulare della ragazza, che lì funzionava benissimo.
“Piacere di conoscerti” lo salutò Kaleia.
Ben presto fu il turno di Christopher che, senza volere, scosse il giaciglio di Willow, di nuovo addormentata. Come il padre, anche Mackenzie era seduta sul divano, ma non scriveva nulla. In genere era aperta alle nuove conoscenze, e queste non potevano definirsi tali in quanto aveva già visitato quel luogo nei suoi sogni, ma qualcosa la bloccava. Avrebbe voluto parlare, o almeno provarci, ma il mutismo glielo impediva e lo stesso valeva per i muscoli, di punto in bianco come congelati.
Christopher le sorrise amichevolmente dopo essersi avvicinato.
"Chris!" gridò Hope, facendosi sentire.
"Sì, brava. Invece sai dire Kaleia?" le chiese allora, divertito.
La bambina si fermò a pensare e dopo un po’ provò.
"Kia!" trillò. "Kia!"
Distratta dal suono del suo stesso nome, la fata spostò per un attimo lo sguardo. Hope. Quella stessa bambina di nemmeno due anni, a cui aveva fatto da babysitter per pochi giorni, di cui si era già innamorata e che inevitabilmente le ricordava qualcosa. Con il cuore stretto in una morsa, portò la mano al ventre e la tenne ferma. Il gesto di Kaleia colpì Demi. Non sembrava stesse male.
E se si stesse tenendo la pancia perché è incinta?
La fata e il suo amato avevano espresso il desiderio di costruirsi una famiglia, un giorno e Kaleia aveva sospettato una gravidanza. Non chiese nulla per paura di fare brutte figure. Se la fata avesse voluto dirle qualcosa, l’avrebbe fatto a suo tempo.
"Tesoro, hai sentito Hope? È così dolce!" commentò Kaleia, sciogliendosi di fronte a quel goffo e adorabile tentativo.
Mackenzie porse a Christopher un foglietto. Lui lo dispiegò, leggendone in silenzio ogni parola.
Ciao. Lei chi è?
Confusi, i due innamorati non seppero cosa dire, e notando che non capivano lei si sporse quanto bastava per indicare la gatta, sveglia ma ancora chiusa in quella specie di gabbia. Come si chiamava? Kaleia si voltò fino a dare le spalle a Mackenzie, poi capì.
"Ti presento Willow."
Si abbassò per aprire il trasportino e darle così un assaggio di libertà.
Camminando con grazia la gatta sfilò davanti ai presenti e, raggiunto il divano, si sdraiò proprio in grembo a Demi, che pur sorpresa la accarezzò.
"Sei amichevole, vero? Sì che lo sei" mormorò, pronunciando ogni parola con la classica vocetta stridula che in genere si riserva agli animali.
Curiosa come non mai, anche Hope le si avvicinò e la sfiorò con la manina, stupendosi di ascoltare ancora una volta quello stranissimo suono che faceva anche il suo amico Danny.
"Mamma, suona! Suona!" esclamò, con un sorriso sul faccino e gli occhietti pieni di meraviglia.
A quella scena un intenso calore si espanse nel petto di Kaleia e si sforzò di non piangere. Era emotiva, ma chi non sarebbe crollato di fronte a uno spettacolo simile?
"Più o meno, tesoro."
Le scompigliò i capelli con amore.
Willow non era un peluche, ma uno di quelli della bimba era capace di farlo, quindi forse aveva preso l'idea proprio dal giocattolo. Intanto, calma e serafica, la gatta non si muoveva, anzi, si mise perfino più comoda con le zampe sotto al corpo e gli occhi chiusi. Lasciandosi vincere dalla sua tenerezza, anche Mackenzie l'accarezzò con lentezza, e afferrata la sua fida biro nera, scrisse ancora.
Ha un pelo soffice come una coperta.
"Grazie, Mac. E sappi che ti ringrazia anche lei"
Kaleia aveva fatto le veci dell'amica dal pelo color della notte, per l'ennesima volta addormentata anche in braccio a un'estranea.
Demi non osò muoversi per paura di disturbarla. Rapido e insistente, un suono distrasse i presenti.
"Che è stato?" azzardò Andrew, confuso.
"Soltanto un ramo, suppongo" rispose Christopher, sempre pronto a dar credito alle spiegazioni più ragionevoli prima di formulare qualunque ipotesi.
Distratta, la fata non lì udì. Un altro animaletto era arrivato a far loro visita e stavolta non si trattava di una qualunque fiera selvaggia, bensì di un adorabile musetto già conosciuto.
"Chris, quale ramo? È Bucky!"
Si precipitò ad aprire la finestra.
Lo scoiattolo dal pelo marrone la lasciò fare, posando le zampine sul vetro con impazienza. Poco dopo, libero di salutarla, le si arrampicò sulla spalla solleticandole il viso con i baffi. Kaleia gli regalò qualche carezza e tornò dagli ospiti.
"Ehm… Kaleia? Da quando hai uno scoiattolo?" si informò Demi.
"Da anni, e non è solo."
"Che vuoi dire?" chiese a quel punto Andrew.
"Bucky ha una compagna, Darlene."
Non riuscì a smettere di sorridere mentre gli regalava un'altra carezza.
Rimasta ad ascoltare, Mackenzie aveva la testa piena di domande che scrisse in velocità.
Ha dei cuccioli? Quanti? Posso accarezzarlo?
"Certo, Mac. Vieni" le rispose la fata, abbozzando un nuovo sorriso e invitandola ad avvicinarsi con un gesto della mano.
Lo scoiattolo tornò a terra con un balzo per poi rincorrersi la lunga coda e squittire come impazzito. Mackenzie si inginocchiò, gli sfiorò il pelo e si meravigliò di fronte alla sua morbidezza. Bucky sollevò una zampina rosa come a voler salutare la nuova piccola amica.
"È educato, non credi? In fondo c'è da aspettarselo da un padre di sei piccoli" commentò la padrona, fiera di quel comportamento.
Mackenzie si limitò ad annuire e, poco dopo, il silenzio si ruppe come vetro. Qualcuno stava bussando alla porta e, a giudicare dalla forza e dall'insistenza dei colpi contro il duro legno, era determinato a vederla aperta. Ci fu un istante di quiete, poi una voce risuonò dall'esterno.
"Mamma? Mamma! Aprimi!" Era Sky, che doveva essere rimasta chiusa fuori casa per errore. Dato che la madre non rispondeva, la fata del vento continuò a bussare, sempre più impaziente con ogni minuto che passava. "Mamma, avanti! Ho dimenticato le chiavi, apri questa porta."
Prima fra tutti ad accogliere le lamentele della sorella, Kaleia corse ad aprire. Sky e Noah erano insieme, stanchi e scarmigliati, probabilmente appena tornati da una passeggiata nei boschi, o a giudicare dal loro aspetto, qualcosa di più. Fra i due Noah era il più composto, mentre Sky aveva i capelli in disordine e qualche foglia sulla veste.
Sentendola arrivare, Eliza uscì dalla cucina e raggiunse il salotto.
"Sky, Noah! Che vi è successo?" non poté evitare di chiedere, sorpresa e preoccupata al tempo stesso.
Immaginava la risposta, ma la domanda le era sorta spontanea. Per quanto ne sapeva, i boschi di Eltaria erano generalmente sgombri di pericoli di ogni sorta, però con il ricordo dei disordini alla piazza non riusciva a stare del tutto tranquilla.
"Lunga storia, Eliza, lunga storia" si limitò a risponderle Noah, scambiandosi con la fidanzata una rapida occhiata colma d'amore.
Sky arrossì e in silenzio sollevò una mano, pregandolo di smetterla. Per tutta risposta lui la baciò e chiudendo gli occhi la ragazza dimenticò ogni cosa, qualunque emozione provata in precedenza, sostituendo la vergogna con la forza dei propri sentimenti per il ragazzo che l'aveva stregata.
"Tranquilli, l'importante è che stiate bene. Il pranzo è quasi pronto" rispose la donna.
Kaleia non trattenne una risata e, imitandola, anche Bucky squittì in tono allegro mentre nascondeva il muso fra le zampe. Tutt'altro che impressionata, Sky si voltò verso di lui e pronunciò con astio poche parole.
"Salve anche a te, topo pulcioso.”
Si spazzolò alla meglio il vestito con le mani.
Demi sgranò gli occhi. Probabilmente la ragazza scherzava, ma ricordò che per quanto adorabile, lo scoiattolo era pur sempre un animale selvatico. Si fidava dell'altra fata e aveva lasciato che Mackenzie lo accarezzasse, ma quanto tempo sarebbe passato prima che avesse provato a mordere e infettare tutti e quattro con chissà quale malattia? Senza contare che poteva essere già successo attraverso il suo pelo. Loro erano umani, non abituati a contatti tanto ravvicinati con gli animali di quel genere. Scattò in piedi.
"Mac, ferma, non toccarlo" le ordinò, perentoria.
Ma mamma, è così morbido! scrisse lei in risposta, offesa da quell'improvviso divieto.
"Non m'importa, hai sentito cos'ha detto Sky" insistette Andrew, alzandosi in piedi a sua volta e dando manforte alla compagna.
"Cky, Cky!" tentò Hope, sporgendosi dal suo posto sul divano, con un'improvvisa voglia di toccare quella palla di pelo.
"No, Hope. Ti farai la bua" le disse il padre, voltandosi verso di lei con sguardo e voce fermi. Sorpresa da quelle reazioni, Kaleia li guardò entrambi.
"Demi, Andrew, potete stare tranquilli. Bucky ha il pelo più pulito che abbia mai visto."
Lo scoiattolo le sfiorò la mano con il muso e i baffetti.
"Dici sul serio, Kaleia?" le chiese la ragazza, ancora preoccupata.
"Certo, puoi fidarti" le rispose la fata, con lo sguardo più gentile che mai.
"Ha ragione, è un mio modo di dire. È pulito come l'aria, e non ha mai fatto del male a nessuno” assicurò Sky, capendo che la sua maniera di scherzare le si era ritorta contro.
I genitori si calmarono, e all’improvviso un turbine nero si palesò nella stanza, fermandosi quando raggiunse la spalla di Sky.
"Ragazzi, lui è Midnight, il mio merlo" lo presentò la fata, sorridendo all’amico piumato.
Gli accarezzò piano la testa.
Posso, Sky? chiese Mac, sollevando appena una mano.
"Sì, ma fa’ piano. Midnight odia i movimenti bruschi."
La bambina lo sfiorò con cautela. Il merlo si librò poi in cielo, volando in cerchio per alcuni secondi e andando alla ricerca del proprio trespolo. Appena un attimo più tardi, si acquietò e fissò lo sguardo sull'altra bambina. Hope sorrise, e battendo le manine si agitò.
"Night! Night!" chiamò, nella speranza che il merlo si avvicinasse.
Per sfortuna l'uccello non si mosse, ma in suo soccorso arrivò Bucky, che le saltò sulle gambe. La bimba lo accarezzò con dolcezza, guidata dalla mano della mamma nella propria, e poco dopo un altro suono disturbò il silenzio. Uno strano stridio accompagnato da dei latrati e in risposta i sorrisi di Noah e Christopher.
"Ancora?" ridacchiò a quel punto Demi.
"Esatto, cara. Solo altri due, promesso" replicò il marito di Kaleia.
"Grazie al cielo!" sussurrò la donna, augurandosi che l'uomo non l’avesse sentita.
Essere scortese era l'ultimo dei suoi pensieri, ma se un cucciolo era carino e due sopportabili, non aveva idea di cosa sarebbe successo con qualunque altro. Si ridusse al silenzio non riuscendo a credere ai propri occhi. Si sarebbe aspettata di tutto: un uccellino, un altro scoiattolo, perfino un secondo merlo, ma non un falco dalle ali brune.
"Ben arrivato, Ranger" lo salutò Noah, che abbozzò un sorriso e gli permise di posarsi sulla sua mano, sulla quale aveva infilato un grosso guanto per proteggersi dagli artigli. Il falco non mosse un muscolo e, seguendo i movimenti del padrone, diede inizio a un aggraziato volo intorno al salotto per poi posarsi sullo schienale di una sedia poco distante. "Maestoso, vero?"
Andrew e Demi annuirono.
Non ne avevano mai visto uno così da vicino e l’esperienza era allo stesso tempo emozionante e un po’ spaventosa. Sapevano benissimo che il falco ha artigli potenti e che questi ultimi possono essere pericolosi.
Poco dopo, incuriosito, l’avvocato spostò lo sguardo sulla porta ancora chiusa e, proprio allora, questa cigolò.
"Eccolo che arriva. Eliza, potresti aprire?" azzardò Christopher, continuando a sfoggiare quel sorriso pieno d'orgoglio.
Arrivò così Red, il migliore amico di Chris, con il pelo rosso e il muso bianco. Si alzò sulle zampe nere e, alla vista delle bambine, mostrò la pancia.
Mamma, hanno un cane! esclamò Mackenzie, emozionata.
"È una volpe, tesoro.”
Eh, va be’, è uguale.
Demi rise.
“No, sono diversi.”
“Hai già conosciuto Anya, sbaglio?"
Sì, Kaleia. Stanno insieme? Hanno anche loro dei piccoli?
"Esatto, come mamma e papà. Hanno quattro cuccioli, due maschi e due femmine” spiegò la fata, battendo piano sulla gamba per invitare l'animale ad avvicinarsi.
Red sfiorò la piccola ospite e ricadde di nuovo sul pavimento.
Mackenzie lo accarezzò e ben presto fu anche il turno di Hope, che trotterellò fino a trovarsi a pochi centimetri da lui. Red si voltò a guardarla e, quando la piccola gli toccò il ventre, guaiolò iniziando a muovere una zampa. Orgogliosi delle figlie, Andrew e Demi cercarono l'uno la mano dell'altra.
"A tavola!" chiamò Eliza, alzando la voce.
Gli animali di casa furono i primi a rispondere a quel richiamo, drizzando le orecchie o arruffando le piume. Demi si lavò le mani per prima, seguita da Andrew e dalle bambine, mentre Sky, rimasta ultima, fece del suo meglio per ripulirsi la veste e sistemarsi i capelli. A lavoro finito, raggiunse con gli altri la cucina.
“Eliza, volevo scusarmi.”
“Per cosa, Demi? Non hai fatto nulla di male.”
“Avrei potuto aiutarti a preparare, o almeno chiedere se ti serviva una mano, invece me ne sono rimasta seduta a non fare niente.”
“Oh no, non sarebbe stato necessario. Non è un pranzo elaborato e poi sei un’ospite, ma ti ringrazio comunque per il pensiero.”
La donna le chiese quanto avesse con esattezza Hope.
E adesso che le rispondo? Qui è quasi estate, da noi pieno autunno.
Demi le diede comunque la risposta corretta.
“Ventidue mesi. In inglese, la lingua che parliamo dove viviamo, significa speranza.”
“Io e Sky ci eravamo andate vicine, allora.”
Di lì a poco tutti i presenti consumarono il pasto discutendo animatamente, perfino la bambina più piccola, che cercava di imitare il parlato degli adulti. Se loro mangiavano pasta al sugo lo stesso valeva per lei, solo in un formato più piccolo: conchiglie, a simboleggiare l'arrivo dell'estate al bosco di Eltaria. Intanto, con la finestra ancora aperta, il vento continuava a spirare con una certa violenza. Mackenzie strinse in mano il proprio tovagliolo che aveva rischiato di finire sul pavimento, e guardò Sky. Tremando e con il cuoricino in tumulto, anche Hope cercò lo sguardo di Sky e, decisa a calmarle, questa si preparò ad agire.
"Mac, alzati" pregò, dando l'esempio e ignorando lo sguardo della sorella fisso su di lei.
La sera prima Kaleia era tornata a casa dal marito e non poteva sapere cosa fosse successo. Solo un piccolo incidente, per fortuna nulla di grave, ma comunque abbastanza da risvegliare il timore della bambina. Tremante, la piccola obbedì a quella sorta di ordine e, vicina alla fata, le artigliò la mano.
"Ascoltami. So che hai paura, ma non devi averne. Chiudi gli occhi e sentilo sulla pelle" mormorò per non spaventarla.
Mackenzie annuì piano.
Diede retta a quel consiglio. A occhi chiusi, cercò di respirare con calma e regolarità, come sentiva fare Sky. Il vento le scompigliava i capelli che le solleticavano il viso, le alzava le maniche corte della maglietta e le accarezzava la faccia, anche se un po’ troppo forte. Mac immaginò che fosse un bambino piccolo ricordando che la sorella, per parecchio tempo, le aveva toccato il viso gettandole la manina addosso e, a volte, procurandole alcuni lievi graffi.
“È piccola, non riesce a controllare la sua forza” le aveva spiegato mamma Demi.
Rammentando quei tocchi, che a mano a mano erano diventati più delicati, Mackenzie apprezzò le carezze del vento che ora non la faceva più tremare. Respirò a fondo l’aria pulita. Se fosse stata forte come la sera prima ne avrebbe avuto ancora paura, ma questa lo era un po’ di meno. Il vento fece sbattere la finestra, che però si riaprì e, come d'incanto, smise di muoversi. Più tranquilla, la bambina aprì gli occhi e proprio allora il vento sibilò di nuovo, più minaccioso.
"Sentilo, non averne paura" le ripeté Sky, stringendo la presa sulla fredda mano della piccola.
Mackenzie obbedì ancora. Il vento sembrava avere una voce, sussurrarle qualcosa che lei non capiva, a volte sibilava più forte e questa si alzava, mentre nei momenti nei quali si calmava si abbassava. Non ci aveva mai fatto caso. Chiese a Sky se era questo che intendeva, descrivendole le sue sensazioni e lei annuì. Senza parole, i presenti assistettero increduli alla scena.
"Perfetto, così, brava" sussurrò poco dopo la fata dell'aria mentre il vento si acquietava, non provando che orgoglio per la giovane discepola.
Non era stato affatto facile, ma alla fine la tempesta si era calmata, sia fuori che nel cuore di Mackenzie.
“Hai usato una formula magica, vero?” le chiese Andrew.
“Soltanto pixie e giovani folletti le utilizzano. Crescendo non servono più, quando la magia diventa più potente e facile da controllare. E sì, ho usato i miei poteri. Come avete visto non le hanno fatto del male, il mio intento era darle una mano” specificò per rassicurarli, nel caso avessero avuto dei dubbi.
“Non preoccuparti, l’abbiamo capito. È pazzesco, mai vista una cosa del genere tranne nei film!” Subito dopo DemisSi fece più seria e abbassò la voce. “Grazie, Sky. Visto il suo passato, Mackenzie ha paura di tante cose: degli spari delle pistole – sono armi pericolose, che spaventano la gente –, dei propri ricordi, a volte del buio, del vento, del temporale e anche delle persone che fumano le sigarette” rammentò, elencando quanto aveva imparato osservandola in tutto quel tempo. “Non è facile calmarla, soprattutto se ha una crisi molto forte, ma anche se quella di oggi è stata lieve non importa, tu ci sei riuscita.”
“Ieri sera è venuta a parlarmene. L’ho rassicurata con la voce e oggi le ho dato un piccolo aiuto come le avevo promesso.”
“Non è piccolo” intervenne Andrew. “Anzi, per lei è stato importante.”
“Grazie!” esclamarono insieme i due fidanzati.
Sky non aveva idea di cosa fosse accaduto a Mackenzie, ma sapere di essere riuscita ad aiutarla era bellissimo. Come tutti, anche lei desiderava solo la sua felicità ed era contenta che sul volto della piccola brillasse di nuovo un luminoso sorriso.
 
 
 
NOTA:
Emmastory mi ha fornito le informazioni sul falco. Per quanto riguarda quelle sulle volpi, che ci sono servite più avanti, le ho prese da www.dolomitifriulane.it.

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Capitolo 9
*** Conciliabili differenze ***


CAPITOLO 9.

 

CONCILIABILI DIFFERENZE

 
Quel pomeriggio, mentre le bambine giocavano all'aperto con Kaleia e Bucky, Demi si diresse in cucina facendo una veloce carezza a Willow che dormiva su una sedia. La gatta si lamentò appena, ma non si mosse e la ragazza la lasciò riposare in pace. In fondo, a chi piacerebbe essere svegliato anche se per delle coccole? Ne aveva parlato con il fidanzato e si era detta che c'era una cosa importante che entrambi dovevano fare, così lo aspettò e poco dopo lui la raggiunse.
"Io, Noah e Christopher andremo a fare una passeggiata" la informò prendendola per mano. "Vieni con noi?"
"No, state pure fra uomini."
Non credeva che si sarebbe sentita un peso, ma dovevano conoscersi meglio tutti e aveva la sensazione che avrebbe legato più con le donne che con gli altri.
"Andiamo?"
"Andiamo" ripeté lei.
Entrarono in cucina dove Eliza, seduta, rammendava dei calzini.
"Demi, Andrew, vi serve qualcosa?"
"In realtà eravamo venuti a parlare con te" iniziò la ragazza.
L'altra appoggiò tutto sul tavolo lì accanto e dedicò loro la sua completa attenzione.
"Vi ascolto."
Si era fatta serissima, adesso. Chissà, forse si aspettava le parole che stavano per uscire dalle loro bocche, o magari pensava a tutt'altro, a qualcosa di grave o pericoloso.
"Volevamo ringraziarti per aver salvato e protetto nostra figlia" continuò Demetria. "I-io non so come ho fatto a non capire che si fosse alzata. A casa dorme con me, anche se lo farà ancora per poco e mi accorgo sempre quando si muove, o se respira male, o se ha qualcos'altro. E mentre eravamo sotto quell'albero e dormivamo sopra un mucchio di terra e foglie, quando ancora non ci rendevamo conto di essere a Eltaria, non l'ho sentita tirarsi su."
Le bruciava la gola e dovette lottare per non piangere, ma la sua voce ormai l'aveva tradita.
"Non è stata colpa tua, tesoro" mormorò Eliza, che si alzò e le posò una mano su una spalla.
"È quello che continuo a ripeterle anch'io, ma credo sia più facile a dirsi."
"Appunto" mormorò Demi, guardando tutti e due. “Ma vi sono grata per il conforto che mi date.”
Ci sarebbe sempre stata una parte di lei che avrebbe pensato di aver sbagliato qualcosa, quella notte. E lo stesso valeva per Andrew. Non lo diceva, ma lo facevano i suoi occhi pieni di tristezza e dolore.
Come si fa a perdere una bambina? La propria bambina? continuavano a pensare i due.
"Comunque, la cosa importante è che Hope stia bene" proseguì Eliza, sperando di non usare parole che avrebbero potuto ferire la ragazza in quel momento di fragilità.
"Hai ragione" convenne invece quest’ultima, asciugandosi le lacrime e sorridendo.
"Se non fosse stato per te, non vogliamo nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto succedere, Eliza" riprese Andrew. "Dobbiamo ammettere che abbiamo pensato cose orribili."
"E che io ho creduto che l'avessi rapita, l'ho detto ieri mattina alle tue figlie e me ne vergogno da morire."
"Sì, me l’hanno riferito. Chiunque l'avrebbe fatto in una situazione del genere. Non riesco neanche a pensare a come mi sarei sentita, se fosse capitato a me, e non posso immaginare che giorni difficili e pieni di paura abbiate passato. Ma siamo pari."
E così spiegò loro l'idea che all'inizio si era fatta quando aveva visto le cicatrici sul volto di Hope e quello che aveva compreso dopo, vedendo quanto voleva la mamma.
"Ti giuro su Dio che non le abbiamo fatto noi quei segni, né a lei né alla sorella."
Demi ora era ancora più seria e il suo tono di voce più grave.
Eliza rimase colpita dal suo sguardo intenso e non poté non crederle.
"Ma allora chi è stato?"
"Un uomo ha ucciso i loro genitori e ha fatto questo alle bambine, dopo che avevano assistito all’omicidio."
Tante volte la ragazza aveva provato a immaginare il momento in cui quel fottuto bastardo aveva premuto sulle guance delle sue figlie, una sigaretta passandola avanti e indietro fino a spegnerla, ma non ci era mai riuscita perché le era sempre venuto da vomitare. Come si poteva fare una cosa tanto orribile?
Il cuore di Eliza perse un battito. Si trattava solo di un terribile incubo, giusto? Ora si sarebbe svegliata. No, era tutto reale e un'espressione di puro orrore si dipinse sul suo volto.
“E Mackenzie, dopo aver raccontato alla polizia quanto ha visto, ha non solo smesso di parlare, ma anche rimosso ogni ricordo di quella sera, a causa del trauma che ha subito. È stata da vari psicologi, durante il periodo in affidamento da altre famiglie e, ancora prima, in casa-famiglia, ma non le è servito a ricordare.”
“Mi dispiace così tanto per loro" mormorò Eliza. "E perdere la memoria dev’essere orribile.”
“Non l’ha persa” specificò Demi. “Si tratta di un meccanismo di difesa: non ricorda per non soffire, ma in realtà i ricordi sono lì, sotto la superficie.”
“Capisco. Per fortuna lei e Hope hanno trovato voi."
"Me, Andrew non le ha ancora adottate. Comunque anche lui è una figura importante per loro, lo considerano un papà da un bel pezzo."
"E perché no? Insomma, se le avete trovate insieme…"
La coppia fece due più due.
"Aspetta, aspetta. Cosa intendi tu per trovate?" le domandò Andrew, calcando su quell’ultima parola.
"Io stavo camminando nel bosco, una sera, quando ho incontrato Sky e Kaleia sotto la pioggia. Non è successa anche a voi una cosa simile?"
I fidanzati dovettero trattenersi dallo scoppiarle a ridere in faccia. Era necessario che tenessero conto del fatto che Eliza non abitava nel loro mondo e che, come per loro Eltaria era diversa dalla Terra, per la donna accadeva il contrario.
"Forse devo spiegarti alcune cose sull'adozione e su come funziona da noi" osservò Demetria, pensosa.
Poco dopo Noah e Christopher vennero a prendere l’uomo per uscire.
"Demetria, se vuoi rimango."
"No, vai. Sto meglio adesso, e poi non sono sola. Andrà tutto bene. Posso farcela. Ho già affrontato brutte situazioni."
Si riferiva ai problemi che per anni aveva tenuto nascosti a tutti.
"Sì, è vero. Ma sei sicura?"
"Sicurissima, goditi la tua passeggiata in tranquillità."
Dopo un abbraccio, Andrew uscì con gli altri due che lo trascinarono via correndo e ridendo.
 
 
 
Gli uomini si erano inoltrati nel bosco e stavano seguendo un sentiero sconnesso che si perdeva all'orizzonte, tanto che ad Andrew pareva che non sarebbe finito mai. Christopher era in testa, Noah in mezzo e lui, il più inesperto di tutti, dietro. Restavano vicini per non perdersi mai di vista e il terzo rifletteva sul fatto che era finito proprio in uno strano posto. Eppure, quelli non erano selvaggi. Abitavano nelle case, anche carine a giudicare da quella di Eliza e da altre che aveva visto nel villaggio, mangiavano cibi uguali o simili a quelli della sua civiltà e sì, il luogo era pieno di creature magiche e di chissà quali altre stranezze, ma Andrew era sicuro di aver trovato nei due uomini, in Eliza e nelle loro compagne, nonché in Aster, persone buone delle quali potersi fidare e che forse col tempo sarebbe riuscito a considerare amiche.
"Che pace c'è qui!"
Fu questa la prima cosa che riuscì a dire, mentre calpestava degli aghi di pino che scricchiolarono sotto i suoi piedi. Non c’era nessuno lì intorno, tranne forse alcuni animali nascosti sotto, sopra gli alberi o dentro le loro cavità. Qualche uccellino cinguettava.
"Noi ci siamo abituati, ma hai ragione, si sta proprio bene" concordò Noah.
"A Los Angeles, la città in cui vivo io, non c'è tutto questo silenzio. Lo trovi nei boschi, ma altrimenti ci sono solo persone, automobili, confusione."
"Aspetta amico, cosa?" chiese Christopher che, come il fidanzato di Sky, non ci stava capendo niente. "Dov'è che vivi tu? Una città? Cosa sarebbe? Ti spiego: qui consideriamo città tutto ciò che sta dalla piazza in poi, quindi negozi, scuola, orfanotrofio, ma non credo sia qualcosa di simile a quel che intendi."
Senza farsi vedere, Andrew si portò le mani al volto.
Oh, Dio! Ma devo proprio spiegare loro tutto? Va bene, porta pazienza e parla.
"È come un villaggio ma molto, molto più grande del vostro, che si trova dentro lo Stato, quello enorme di cui vi accennavo ieri. Le città in uno Stato sono moltissime e hanno case, palazzi, alte torri che si chiamano grattacieli anche se non ci sono dappertutto, scuole, negozi e tante macchine. Le automobili, si chiamano anche così, sono il nostro mezzo di trasporto, strutture con le quali ci muoviamo. Impariamo a guidarle non appena diventiamo adulti."
"Forte!" esclamarono insieme i due uomini.
"La mia città si chiama Los Angeles, che in una lingua diversa dalla mia, lo spagnolo, significa gli angeli. Infatti viene anche chiamata Città degli angeli."
"Perché?" domandò Chris.
"Lunga storia. Comunque, nelle città le case spesso non hanno erba davanti, quindi nessun giardino con piante o altro, ma a volte invece succede, dipende. E la vita è frenetica, tutti corrono e non solo per strada."
"Ragazzi, posso chiedervi una cosa?"
"Certo Noah, parla pure" gli risposero i due quasi all'unisono e, dato che temporeggiava, cercarono di fargli coraggio dicendogli che di loro si poteva fidare.
"Perdonatemi se cambio argomento, ma mi stavo solo chiedendo se voi siete sicuri delle relazioni con le vostre mogli o fidanzate."
"Che domande! Certo, io e Kaleia siamo sposati. Se non fossimo stati convinti, non avremmo fatto il grande passo."
Il tono di Christopher si era alzato di alcune ottave, così l'altro si affrettò a spiegare.
"Non volevo offenderti, era solo una domanda perché poi avrei bisogno di dirvi una cosa, ma prima vorrei ascoltare Andrew."
"Non so se io e Demi un giorno ci sposeremo, ma ci amiamo, sono sicuro di voler rimanere con lei per sempre e le ho dato un anello come simbolo del nostro amore."
"Io non sono bravo con le parole come voi" ammise il terzo, con la voce che gli tremava. Continuava a guardarsi intorno, come temendo che qualcuno a parte quei due lo ascoltasse. "Il fatto è che amo tantissimo Sky, ma ho paura a proporre la convivenza."
Andrew e Christopher, allora, gli domandarono se temeva che la fata non fosse stata pronta o che avrebbe potuto rifiutare per qualche altro motivo.
"N-no, è solo che io sono una frana nel parlare dei miei sentimenti" mormorò. "E se non riuscissi a spiegarmi? O non fossi in grado di farle capire quanto questa cosa per me sia importante?"
"Sono sicuro che ne sarai capace, hai più forza di quanta credi."
"Grazie, Chris."
"Sarà l'amore a guidarti."
Quella frase di Andrew colpì i due così tanto che rimasero in silenzio per lunghi minuti, mentre un sorriso illuminava i loro volti.
 
 
 
"E quindi le hai adottate in un modo diverso da come ho fatto io" osservò ancora Eliza, che pareva non crederci. "Sei andata in un orfanotrofio?"
"No, da noi gli orfanotrofi non esistono. O meglio, sì ma non nel posto in cui vivo. La Terra, il mondo in cui sto, è enorme e ci sono luoghi poveri in cui quei posti si trovano ancora, ma sono lontanissimi da Los Angeles, la mia città. E non sono bei luoghi, a volte i bambini vengono maltrattati."
E anche lei spiegò a Eliza cosa significava Los Angeles e cosa voleva dire la parola città, mentre questa le ripeté quanto detto da Christopher. La donna era affascinata. In quel momento entrò anche Sky.
"Ho sentito tutta la spiegazione e non potevo perdermela" affermò, correndo in cucina come un uragano. "Le tue figlie sono fuori a giocare con Kaleia e Bucky, stanno benissimo, non preoccuparti."
"Grazie. Sono felice che trascorrano del tempo all'aria aperta. Ogni tanto le porto a giocare al parco o in giardino, ma c'è talmente tanto inquinamento! Ad ogni modo, sono convinta che rimanere fuori faccia bene a tutti i bimbi."
Le chiesero cosa fosse l'inquinamento, e avanti a parlare in termini semplici delle automobili e di ciò che producevano.
"Caspita! Vorrei guidare una macchina" trillò Sky.
"Saresti un pericolo pubblico" osservò Eliza, rimediando un'occhiataccia.
"Grazie, mamma. Sei sempre incoraggiante" scherzò la ragazza.
Anche Kaleia fece il suo ingresso.
“Di che parlate?” trillò, poi si accorse dei loro sguardi seri. “Qualcosa di importante. Potrei sentire anch’io? Usciamo, così vedremo comunque le piccole.”
Si accomodarono a terra, con le schiene addossate a un muro della casa di Eliza e le gambe incrociate. A Demi sembrò di tornare bambina, ai momenti nei quali si sedeva sul tappeto a divertirsi, e sorrise. Il suolo era caldo, lì, ma non troppo, dato che erano in parte in ombra. Demi, che aveva le maniche lunghe, sospirò di sollievo, dicendosi che avrebbe dovuto restare il più possibile sotto gli alberi, almeno fino a quando non avrebbe detto la verità, sempre che se la fosse sentita. Spirava una leggera brezza tiepida che aiutava tutte a respirare meglio.
"Non hai caldo, con quei cosi addosso?" le chiese Kaleia.
"Un po', ma preferisco tenerli."
L'altra le lanciò uno sguardo interrogativo e Demi rimase immobile per qualche secondo, attendendosi una domanda che l'avrebbe costretta a rivelare il suo segreto, che però non arrivò.
Le piccole si trovavano ad alcuni metri di distanza, rincorrevano lo scoiattolo e parevano non accorgersi di loro, quindi le tre furono sicure che non le avrebbero ascoltate. Per stare più tranquille, si accordarono per parlare piano.
"Se non sei andata in orfanotrofio, allora come hai fatto?" riprese Sky, dopo aver riassunto il resto alla sorella che, a sentir parlare dell’omicidio, si era immobilizzata.
"Volevo avere un figlio, ma ho scoperto di essere sterile, cioè di non poter restare incinta.”
“È terribile!” non poté trattenersi dal commentare Eliza. “Scusa, non avrei dovuto. Per te sarà già abbastanza doloroso, senza che altri vengano a rincarare la dose.”
“Non fa niente.” Le sorrise. “Comunque sì, lo è. Nel nostro mondo esistono delle procedure a cui una donna ha la possibilità di sottoporsi e grazie alle quali riesce a diventare mamma anche se non può averli in modo naturale, e anche senza un compagno.”
“Ah, meno male!” esclamò Kaleia. “Immagino che questo dia speranza a molte persone.”
“Già, ma io mi sentivo più portata per l’adozione. Fin da piccola ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto adottare un bambino oltre ad averne di miei e il pensiero dell’adozione mi ha accompagnata per anni, diventando sempre più importante. Per la fecondazione in vitro o procedure simili ci vogliono iniezioni e farmaci che possono avere forti effetti collaterali che scompaiono non appena si smette di fare punture o assumere medicine, certo, e non tutte le donne li provano, ma non è detto che una rimanga incinta, nemmeno dopo anni. Per un lungo periodo sono stata male e non riuscivo a pensare a un figlio. La mia famiglia e gli amici mi hanno aiutata e, quando mi sono sentita pronta, ho iniziato a farlo.”
Proseguì dicendo che aveva parlato con il suo ginecologo ed era andata in una clinica per la fertilità, a un colloquio con uno specialista che le aveva anche illustrato altre opzioni oltre alla fecondazione in vitro, ma dopo averci pensato con attenzione e averne parlato con famiglia e amici, era giunta alla conclusione che non se la sentiva di affrontare anni di trattamenti e di probabili malesseri per poi, magari, arrivare ogni volta con un test di gravidanza negativo.
Lo sguardo dolce di Eliza la avvolse. Sky e Kaleia non parlarono, le diedero il tempo necessario per riprendersi e ricominciare solo quando se la sarebbe sentita. Demi fu loro grata per questo, respirò a fondo, rientrò per bere un bicchier d’acqua e nel tornare fuori contò fino a venti.
“Una procedura del genere non faceva per me o, almeno, non in quel momento della mia vita. Non escludo, in futuro, di iniziare i trattamenti con Andrew accanto. Adottare da single mi spaventava, ma la fecondazione lo faceva di più. In qualsiasi caso essere una madre single, dover gestire tutto senza qualcuno vicino, non è semplice. La famiglia e gli amici possono aiutare, ma spesso sei tu a doverti occupare da sola di molte cose, l’avevo messo in conto.”
“E l’adozione cos’aveva di diverso?”
“È stato un processo lunghissimo e non privo di ostacoli, ma credo che essere mamma non voglia solo dire partorire un bambino, è qualcosa che va oltre. Si può diventare genitori in tanti modi, amandone anche uno che non è proprio, come se lo fosse dal punto di vista biologico. E in un certo senso mi sentivo, almeno in parte, destinata ad adottare. Tutti quegli anni passati a pensarci, anche se magari non sempre in modo serio, dovevano pur dire qualcosa.”
“E quindi hai preso la decisione finale” commentò Sky. “Una scelta difficile, ma la tua riflessione è d’impatto.”
“Profonda” commentò Eliza.
“Direi che è impossibile restarne indifferenti” aggiunse Kaleia.
“Non è stato semplice arrivarci, ma alla fine ero convinta. Ci ho messo poco più di un anno da quando ho fatto i primi esami grazie ai quali ho scoperto la mia sterilità. Ho incontrato una donna, che nel nostro mondo svolge la professione di assistente sociale e sono stata sincera riguardo le mie motivazioni, le ho fatto capire che ci avevo pensato bene. Lei mi ha posto molte domande per comprendere come mai non avevo scelto la fecondazione o altri trattamenti e se fossi stata pronta a un passo del genere. Ha dovuto fare tanti controlli sulla mia casa, parlare con la mia famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro, controllare la mia disponibilità economica, sapere se avevo avuto o avevo ancora dei problemi di salute o di altro tipo e accertarsi, grazie a visite mediche, che fossero risolti. Insomma, un processo che è durato mesi."
“Pazzesco” mormorò Eliza.
Demi raccontò loro l'intero procedimento con tutti gli alti e bassi, mentre le tre la ascoltavano attonite. Non avrebbero mai creduto che sulla Terra ci volesse tanto per adottare un bambino, che ci potessero essere tutti quei problemi.
"Mi ha spiegato che molti bimbi in attesa di adozione sono gruppi di fratelli, o di un’etnia diversa e possono aver subito traumi, abusi fisici, psicologici o… o peggio.” Tutte rabbrividirono, mentre quel freddo bloccava loro il respiro. “Voleva capire se fossi pronta ad adottare un bimbo con dei problemi, o più di uno. I mesi sono diventati anni. Alla fine, dopo un periodo in cui sono andata dai genitori affidatari per conoscerle, sono riuscita a portare a casa Hope e Mackenzie. Le ho avute in affidamento preadottivo – si chiama così – per quasi sette mesi, dopodiché siamo andate in un posto e un giudice, una persona importante, ha finalizzato l'adozione, cioè l'ha riconosciuta di fronte alla legge."
"Quanto cavolo di tempo ci hai messo per fare tutta questa roba?"
"Sky!" la rimproverò la donna, ma Demi stava ridendo.
"Non ti preoccupare, capisco che per voi sia una sorpresa. In totale, da quando ho parlato con l’assistente sociale fino al momento in cui sono venute a casa con me, due anni e mezzo. Tre anni e tre mesi da quel colloquio fino alla finalizzazione."
"È tantissimo! Nemmeno all'orfanotrofio le cose durano così a lungo, benché comunque la procedura vada avanti per almeno un anno" disse Eliza.
"Come hai fatto a resistere tutto questo tempo?"
"Ci sono coppie o single che ci mettono di più, Kaleia, soprattutto se adottano da uno stato straniero, anche sette anni."
"Dolce Dea!" esclamarono le sorelle, dandosi una manata una in faccia e l’altra sulla fronte.
Visto lo sguardo truce di Eliza, Demi capì che nel loro mondo quella doveva essere una parolaccia.
"E perché non avresti dovuto essere, com'è che hai detto mentre ci spiegavi? Idonea?"
"Esatto, Eliza. I motivi sono tanti e riguardano la mia storia passata. Ora mi sento bene, ma non è sempre stato così. Ho avuto dei problemi che avrebbero potuto rendere difficile un'adozione. Per questo sono stati necessari tutti quei controlli, ma nel mio mondo è normale che sia così, anche se sei sempre stato benissimo."
Demi non parlò più e le tre compresero che non aveva voglia di aprirsi oltre o che non era pronta a farlo. Non se ne stupirono, in fondo si conoscevano da pochissimo tempo e nessuno racconterebbe il proprio vissuto alla prima persona che capita. Le avrebbero dato i suoi tempi e, se e quando se la fosse sentita, ci sarebbero state per ascoltarla. Non fecero altre domande e Demetria le ringraziò in silenzio per questo.
"Qui non c'è nessuna legge che vieta di tenere un bambino che si trova nel bosco o in qualsiasi altro luogo" continuò Sky.
"È vero," incalzò la minore, "basta solo che il piccolino abbia fiducia."
"Da noi invece una cosa del genere è illegale. Se si trova un bambino abbandonato o solo bisogna chiamare la polizia, credo, non mi sono mai informata, ma penso lo farei se fossi in una situazione del genere. Forse chiamerei anche i servizi sociali. Nel caso in cui tutto ciò succeda, il piccolo verrà accompagnato in ospedale dai poliziotti, visitato e, una volta dimesso, affidato agli assistenti sociali che lo porteranno in una casa-famiglia, una sorta di orfanotrofio se volete, e da lì si cercherà di trovare la madre o altri membri della famiglia e di capire che fine farà il bimbo. È tutto più complicato da noi, ma lo si fa per proteggere i bambini.”
“Proteggerli?”
“Sì, Sky. Ci sono delle persone crudeli che fanno cose orribili ai piccoli."
"Quali?" domandò Eliza.
"Succede soprattutto nei paesi più poveri: alcuni genitori vendono i bambini a qualcun altro per farglieli adottare illegalmente, perché magari loro non riescono a tenerli mentre l'altra persona sì. Si chiama adozione illegale, ma ci sono traffici di minori peggiori di questo."
In realtà quella tematica era molto più complessa, un’adozione del genere poteva avvenire in molti modi, come per esempio se il bambino veniva rapito, ma Demi aveva cercato di spiegarlo nella maniera più semplice possibile.
"Traffico di minori" mormorò Sky, mentre un sapore amaro le invadeva la bocca. "Non mi piacciono queste parole. Non c'è nessuno che li ferma? Insomma, è una cosa orribile!"
Era impallidita e non aveva una bella cera. Kaleia restava con le braccia penzoloni lungo i fianchi e fissava il vuoto.
"Sì, molte persone lottano per fermare questo scempio. Ci provano, ma non riescono sempre nel loro intento, purtroppo. Per questo il sistema delle adozioni è cavilloso, per evitare che succedano cose del genere."
Demetria parlò loro delle prime tre famiglie affidatarie di Mackenzie e Hope, di tutto quello che era accaduto loro prima di incontrare lei.
“Spero che riuscirà a ricordare, un giorno" commentò Eliza.
"Anch'io. Da alcuni mesi Mackenzie va da una psicologa, cioè una persona che la sta aiutando a sentirsi meglio. Lei, anche grazie alla diagnosi di un altro medico, uno psichiatra, e visti i sintomi, continua a fare giochi ripetitivi, dorme poco, ha incubi e così via, hanno capito che soffre di una malattia chiamata disturbo post-traumatico da stress, o PTSD. Si può curare con la psicoterapia, come sta facendo lei, anche se ci vorrà tempo e con farmaci, che però non prende. Qui comunque si sente meglio e a casa la situazione sta migliorando.”
“Ma è grave?” domandò Eliza.
“Può diventarlo, ma nel suo caso non molto, per fortuna. Non ha problemi di concentrazione, o di relazione con gli altri, si affeziona alle persone quando chi soffre di PTSD spesso fa fatica, però ha qualche altra difficoltà. Questa malattia non è fisica, è mentale” ci tenne a specificare per essere più chiara. “Lei e Catherine parlano anche del fatto che non ricorda, ma la psicologa non la forza mai a rammentare, perché mi ha spiegato che questo può generare falsi ricordi. L’obiettivo della terapia è che Mackenzie stia bene con se stessa e con gli altri. Sarebbe una gioia per i cuori di tutta la famiglia se un giorno ricordasse, ma anche se non dovesse capitare spero sarà comunque felice."
Pochi giorni dopo l’arrivo delle bambine a casa si era verificato un piccolo incidente. Mentre Demi si trovava in salotto, Mackenzie si era diretta nella camera della sorellina. Hope stava piangendo e lei aveva provato a prenderla in braccio, credendo di potercela fare. La bambina più piccola, però, aveva sbattuto la testa e Mackenzie avuto una crisi. Si era messa a urlare, a scalciare e per Demi era stato molto difficile calmarla.
“Hope non si è fatta niente, anche Mackenzie stava bene, ma in ospedale una dottoressa mi ha consigliato di portarla da uno psicologo.”
“E tu l’hai fatto?” chiese Eliza.
“Ne ho parlato con Andrew e le assistenti sociali, quella che seguiva me e l’altra, Lisa, che si occupava del caso delle bambine. Ne abbiamo discusso con Mackenzie, ma non c’è stato niente da fare. Non ci è voluta andare, ha detto che aveva parlato con tante persone come quelle parole sue, per la precisione uno in casa-famiglia e un altro quando si trovava dalla terza famiglia affidataria. Dalla prima è rimasta pochi giorni, dalla seconda un mese, per cui non c’era stato tempo sufficiente. Comunque, ha aggiunto che non l’avevano aiutata. Ho insistito nel corso di diversi giorni, le ho spiegato che da alcuni psicologi si può andare anche assieme alla famiglia, credendo che in quel modo non si sarebbe sentita sola, ma nulla. Holly e Lisa dicevano che se l’avessi portata a forza lei si sarebbe allontanata da me, così ho smesso di parlarne, ma non di pensare che mandarla in terapia era la cosa giusta e che, prima o poi, l’avrei fatto. L’anno dopo, quando ha iniziato, l’ha fatto senza sentirsi forzata. Credo abbia capito ancora di più che non stava bene e che le serviva una mano.”
"In tutto questo, aver trovato te è stata la cosa migliore che sia capitata a lei e a Hope" osservò Sky, seria. "Hai dato loro una casa, un'istruzione e soprattutto l'amore e la stabilità di cui avevano tanto bisogno. Ti ammiro, Demetria."
"Ti ringrazio, ma non devi. Ho fatto solo quello che mi sentivo e che era giusto. E comunque, Eliza, grazie per essere stata per Hope come una mamma mentre io non c'ero."
La donna si commosse.
"Non credo sia stato così, ma ci ho messo il cuore. Hope voleva sempre te, non faceva che chiamarti."
Le due mamme si strinsero in un forte abbraccio. Non c'era bisogno di altre parole, tutto era già stato detto e ciò che era rimasto silente fu espresso grazie a quel gesto. Sapevano quanto fosse difficile essere madri, soprattutto di due bambine dal passato turbolento, ma allo stesso tempo erano consapevoli del fatto che averle adottate era stata la cosa migliore che avevano fatto nella loro intera vita, sia per loro stesse che per le figlie.
Tutte si alzarono e si avvicinarono a Hope e Mackenzie. Erano distese sull'erba. Sonnecchiavano, ma Demi le svegliò perché era pomeriggio e, se avessero continuato a dormire, la notte l'avrebbero fatta impazzire, in particolare la più piccola.
Dopo un'abbondante merenda a base di latte e biscotti al cioccolato, Mackenzie mostrò alla mamma che Bucky le saliva sulla spalla.
Hai visto? Lo fa anche con me, non solo con Kaleia! esclamava, tutta contenta.
Intanto Hope era andata a disturbare Willow, anche se Demi le aveva ripetuto di non farlo, e ora la gatta si era spostata e dormiva sul prato in un cestino. Stranamente si lasciò accarezzare, fece le fusa e le leccò una mano.
Il pomeriggio passò tranquillo e al ritorno degli uomini Eliza preparò la cena, stavolta a base di petto di pollo e verdure cotte. Era tutto tenero in modo che anche Hope andasse bene a mangiarlo. Demi le spezzettò ogni cosa e non ci furono problemi. A Mackenzie non piacquero gli spinaci, non li aveva mai apprezzati, troppo amari per lei, ma adorò i fagiolini e le zucchine, dolci e che si scioglievano in bocca.
Quella sera, ognuna nel proprio letto, le tre coppie raccontarono quanto accaduto loro in particolare durante il pomeriggio.
"E così hai detto a Noah che sarà l'amore a guidarlo, eh?"
"Già, perché per quanto possa sembrare una frase banale, ci credo davvero. In realtà avrei voluto aggiungere che capivo di cosa stava parlando. Non ho mai avuto problemi a dirti che ti amo," e i due si baciarono, "ma a raccontarti del mio passato, di Carlie e di tutto il resto sì."
"Volevi dire ogni cosa? Andrew, li conosciamo da ieri."
"Lo so, infatti mi sono trattenuto, ma se diventeranno miei amici mi piacerebbe farlo sapere loro.”
“Anche a te hanno chiesto se avevi caldo con quei vestiti?”
Avevano indossato un pigiama a maniche corte per la notte, non sopportando più gli abiti lunghi e sperando che nessuno avesse visto le loro braccia, se si fossero mossi in corridoio.
“No, siamo stati sempre all’ombra.”
Demi gli raccontò quanto accaduto.
“Per fortuna non ti ha chiesto altro.”
“Già, non avrei saputo cosa rispondere.”
“Tu credi che dirai a Eliza, Sky e Kaleia quello che ti è successo?"
La ragazza sospirò.
"Non ne ho la più pallida idea! Come potrebbero prenderla? Rimarranno scioccati sapendo che queste" e toccò le sue cicatrici e quelle di lui, mettendo una mano sotto le maglie leggere ma ancora a maniche lunghe "ce le siamo fatte noi stessi. Potrebbero pensare che siamo pazzi. Per ora hanno creduto alla storia che siamo freddolosi, ma non so quanto durerà. Anzi, ho il sospetto che abbiano dei dubbi."
“Ma non ci hanno guardati in modo strano,” considerò Andrew, “né insistente. Sono stati rispettosi nei nostri confronti.”
“Sì, infatti. Non credo ci chiederanno altro. Forse sospettano che nascondiamo qualcosa, ma non penso sappiano quanto sia grave e di certo non immaginano…”
“Sembrano rispettosi, non credo ci faranno altre domande a riguardo.”
“Non lo credo nemmeno io. Comunque è strano portare questa maglia, a casa non lo faccio quando sono con altre persone, non più.”
“Nemmeno io, Demi. Ho smesso di vergognarmi di questi segni.”
Si sorrisero.
“Qui da loro è tutto diverso."
Demi batté un pugno sul letto, mentre il battito del suo cuore accelerava.
"Va bene, senti." Andrew le prese una mano. "Non agitarti prima del tempo. So che è difficile, ma così fai peggio. Non sappiamo nemmeno se glielo diremo e lo faremo soltanto quando e se ci sentiremo pronti. Okay? Non dicendolo, o rispondendo in modo vago alle loro domande, mentiamo solo per proteggerli, non per ferirli. E a volte le bugie vanno dette a fin di bene."
"Okay, hai ragione."
Dopo un altro po' di coccole decisero di dormire. Li aspettava una giornata altrettanto lunga.
 
 
 
NOTE:
1. non sono stata in grado di trovare informazioni su come comportarsi quando si trova un bambino abbandonato in California, ma con una ricerca generale ho scoperto ciò che ho scritto.
2. Esistono dei gruppi di supporto per le famiglie che hanno adottato bambini, e anche il sostegno psicologico. In Cuore di mamma volevo che all’inizio Mackenzie rifiutasse di andare, inoltre non sono riuscita a incastrare prima nella storia anche questo avvenimento e ho deciso di posticipare il tutto a molti mesi dopo. Ritengo importantissima la terapia con uno psicologo, la seguo da anni, ma so anche bene che a volte non ci si sente subito pronti ad affrontarla a causa di insicurezze, paure, sfiducia, e che forzarsi, o essere forzati, peggiora le cose. Per quanto Demi volesse affrontare il problema non se l’è sentita di costringere la figlia, pur mantenendo comunque l’idea di mandarla in terapia.

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Capitolo 10
*** Il verdetto delle anziane ***


CAPITOLO 10.

 

IL VERDETTO DELLE ANZIANE

 
Christopher sedeva al tavolo della cucina, ma non aveva molta fame.
"Che succede, amore?" gli chiese Kaleia.
Perché non assaggiava la colazione a base di latte e biscotti con la Nutella che gli aveva preparato? Non gli piaceva? Stava per chiederglielo, ma vederlo scuro in volto la spaventò e la preoccupò allo stesso tempo.
"Ieri sera, prima di mettermi a letto, come sai sono andato in piazza." La sua voce era più grave del normale. "E molti sono ancora convinti che Hope sia pericolosa. Non solo, ora che sono arrivati anche i suoi genitori e Mackenzie, hanno iniziato a dire cose orribili su di loro, per esempio che sono venuti da chissà dove per portare scompiglio e terrorizzare la gente, che di sicuro sono umani che non credono nella magia e cose del genere.”
“Ma è assurdo! Su quali basi dicono questo?”
“Su nessuna, sono solo ipotesi che fanno perché sono spaventati, anche dal colore della pelle dlle bambine. Perciò è stata fatta una votazione."
"C-che genere di votazione?"
Per caso avevano votato riguardo il mandarli via o no da Eltaria? Era ingiusto e crudele, e poi dove sarebbero potuti andare con due bambine piccole e in una terra sconosciuta? Ora che avevano trovato un po' di serenità nessuno avrebbe dovuto portarla loro via.
Quello che le disse non la sorprese, ma la preoccupò.
"Potrebbero pensare che li consideriamo pericolosi" gli fece notare.
"Lo so, ma o questo, o dovranno andarsene, purtroppo. Concordo con te sul fatto che non sia corretto, ma dobbiamo cercare di spiegarlo loro e di farli sentire al sicuro allo stesso tempo."
"Va bene, andiamo."
Partirono con la testa piena di pensieri e uno sguardo funereo.
 
 
 
Demi e la sua famiglia avevano appena finito di fare colazione. Nonostante si fosse vestita, come Andrew, con una maglia leggerissima a maniche lunghe, la ragazza si augurò che gli altri non avrebbero fatto domande né su di lei né sul fidanzato. Che cos’avrebbe risposto se qualcuno le avesse posto altre domande? Non ne aveva idea, ma si convinse che nulla di tutto ciò sarebbe accaduto. Lei e Andrew dovevano tenersi coperti, anche se con abiti leggeri, almeno lì e per il momento. Non c’era altra soluzione. Nonostante i tatuaggi a coprire le sue cicatrici, la ragazza non si sarebbe sentita tranquilla se avesse fatto diversamente.
"Sai, mi piacerebbe aiutare all’orfanotrofio per il tempo in cui rimarremo a Eltaria" disse la ragazza a Eliza.
"Domanderò alla Direttrice. Ci lavorano persone che hanno studiato, professionisti insomma, ma anche volontari come me. Prima, però, devono passare una sorta di esame che valuta se la loro anima è buona o no, tenuto dalle anziane, per evitare che ai bambini venga fatto del male."
"Mi pare giusto. E in cosa consiste?"
La più grande era uscita e l’altra l’aveva accompagnata. Udivano appena le risate delle bambine e le chiacchiere di Andrew, Noah e Sky. Faceva ancora fresco e Demi fu felice per questo.
"È lunga da spiegare. Credo che lo scoprirai presto, ma non è nulla di preoccupante. Ora vado a lavare i piatti.”
“Va bene, io resto fuori, torno fra poco.”
Demi rimase un po' a godersi l'aria del mattino. Quando altro le sarebbe capitato di respirarne una così pura? Di certo non presto e non a Los Angeles. Gli uccellini cantavano come impazziti salutando quella giornata primaverile. Ogni tanto qualche coniglio con le corna da cervo, che aveva imparato chiamarsi jackalope, correva e saltellava senza mai avvicinarsi a lei. Un gruppetto di bambini, forse dei folletti, passò a gran velocità. I piccoli si rincorrevano, saltavano, rotolavano per terra e la fecero sorridere. Ma la frase di Eliza le rimase in testa.
“Credo che lo scoprirai presto.”
Che significava? Che per lavorare all’orfanotrofio avrebbe dovuto sostenere quell’esame o alludeva ad altro? Era il caso di preoccuparsi?
Appena rientrata, qualcuno bussò alla porta e Demi aprì.
"Ciao, Kaleia" la salutò andandole incontro.
"Ciao, cara. Come state?"
"Bene, grazie. Voi?"
"Tutto a posto."
La fata sorrise e, se la cantante notò qualcosa di strano nel suo sguardo, non lo diede a vedere. Dopo i vari saluti, anche Kaleia e il marito presero posto a tavola.
Christopher indicò la coppia.
"Vi dobbiamo parlare."
"È successo qualcosa?" chiese Andrew, una nota di apprensione nella voce.
"Purtroppo sì" continuò l’uomo. "E ci dispiace tantissimo."
"Ragazzi, parlate. Ci state spaventando" mormorò Demi, scossa da un forte tremore, mentre il suo respiro accelerava. Sky portò le bambine in salotto spiegando che i genitori dovevano dirsi cose da grandi con sua sorella e Chris. Le piccole, intente a giocare, non prestarono attenzione a nulla, al contrario della fata.
In cucina, intanto, fu Kaleia a prendere la parola.
"Ieri sera mio marito si è diretto nella piazza e ha sentito ancora commenti sprezzanti nei confronti di Hope e ora anche in quelli di Mackenzie e di voi due, benché la gente non conosca i vostri nomi.”
“La tensione si sarebbe potuta tagliare con un coltello, ma sono riuscito a calmare le acque. Per sicurezza sarebbe meglio che voi andaste dalle fate anziane. Dovranno esaminarvi per capire se la vostra anima è buona o no. È stata fatta una votazione a cui io non ho partecipato: se non accetterete, dovrete andarvene."
"Esaminarci?" tuonò Andrew, battendo un pugno sul tavolo. "Una votazione per decidere il nostro destino? Cazzo, non siamo dei fottuti criminali! Siamo qui in questo sogno e, anche se ce ne andassimo, non sapremmo dove dirigerci. Non potremo tornare a casa finché non terminerà."
“Andrew, ti prego, calmati.” Eliza gli poggiò una mano su una spalla. “Ne possiamo parlare e sistemare le cose, d’accordo?”
“Calmarmi? Come accidenti faccio a stare tranquillo dopo tutto questo, me lo spieghi? E d’accordo un corno” la attaccò.
"Noi non vogliamo mandarvi via" si intromise Kaleia, parlando con dolcezza.
"Voi no, ma altri sì, a quanto pare. La mia famiglia non rimarrà un minuto di più in un posto dove non ci vogliono e nel quale non possiamo decidere se restare o meno a causa delle chiacchiere della gente che fa votazioni su di noi, neanche fossimo nell’antichità, trattandoci alla stregua di oggetti. Demi, prendiamo le nostre cose e andiamocene. Ora."
Si alzò di scatto facendo cadere a terra la sedia, mentre tutti lo guardavano senza riuscire a proferire parola.
"Vado da lui.” Non appena la porta della loro camera sbatté la ragazza si alzò. “Non posso lasciarlo solo.”
Noah la fermò.
"No, aspetta. Non è il caso."
"Come non è il caso? È il mio fidanzato, i problemi si risolvono insieme."
"E su questo hai ragione," intervenne Sky, "ma se andassi ora finirebbe per prendersela anche con te. Diamogli il tempo di calmarsi, d'accordo?"
Seppur non proprio convinta, Demetria tornò a sedersi e attese con gli altri continuando a contorcersi le mani e a battere le punte delle scarpe sul pavimento mentre parlavano dell’accaduto.
Andò da Andrew dopo un quarto d'ora, dato che ancora non usciva. Lo trovò seduto sul letto a gambe incrociate e con lo sguardo perso nel vuoto.
"Possiamo parlare?" gli chiese con dolcezza.
"Sì" rispose lui, più tranquillo ma ancora alterato.
"So che quello che ci hanno detto ti fa incazzare. Fa arrabbiare moltissimo anche me, non credere che sia il contrario.”
“Sul serio? Non sembra, sai?”
La sua risposta sprezzante le fece venire voglia di dargli uno schiaffo, ma la ragazza si trattenne. Voleva chiarire e calmarlo, non litigare e peggiorare quella situazione già strana e complicata.
“Ti assicuro che è la verità. Se prima non ho alzato la voce anche io, è stato solo perché c’erano le bambine a pochi passi e non volevo spaventarle, hanno già avuto dei giorni difficili e fuori dall’ordinario. Ma è stata dura trattenersi, molto dura” sottolineò, con le mani strette in due pugni.
“Continua.”
“Anch'io ho pensato di andarmene."
"Ma? Perché c'è un ma, vero?"
"Esatto. Ma, più che sul resto della gente di questo posto, dovremmo concentrarci sugli abitanti della casa in cui viviamo, sui membri di una famiglia così bella. Loro ci hanno accettati, al pari di Aster e le sue compagne. E se l'hanno fatto, siamo già un bel passo avanti. Non ci vogliono cacciare e qui non ci sentiamo degli intrusi, come non abbiamo avuto questa sensazione nella grotta delle ninfe. Nessuno di loro ci tratta come oggetti, qui siamo persone con dei sentimenti. Eliza ha fatto sentire Hope a casa e lo stesso con noi, per lei siamo come se fossimo a tutti gli effetti parte della sua famiglia e anche per gli altri è così, perfino per Sky. Io mi sono sentita accolta con calore, non hai avuto anche tu questa sensazione?"
“Beh, sì. Sono tutti gentili.”
“Ecco, appunto.”
"Quindi stai dicendo che secondo te dovremmo comunque sostenere quell'esame?"
"Ti risponderei che, dato che queste persone ci accettano, ne farei volentieri a meno. Che mi importa di ciò che pensano gli altri? Niente, nemmeno li conosco. D'altra parte, però, voglio anche che le acque si calmino, che non ci siano pericoli né per noi né, soprattutto, per le nostre figlie se resteremo e che quando cammineranno per strada non riceveranno sguardi o commenti malevoli.” Mackenzie ne stava passando già troppe con il bullismo, si sarebbe sentita ancora peggio se fosse accaduto qualcosa del genere anche lì, in particolare se fatto dagli adulti. La storia non doveva ripetersi. Lo disse al fidanzato che assentì. La ragazza riprese: “Mi hanno spiegato che c'è un anziano che ha aizzato tutti contro di noi com'era accaduto in precedenza, e detto che lo manderanno via se le fate anziane ci considereranno puri e buoni di cuore."
In quel quarto d'ora era venuta Aster e l'aveva comunicato loro.
"In parte mi sento ancora trattato come un criminale e questa cosa non mi piace, non mi piace per niente" sibilò Andrew. “È come se mi stessero mancando di rispetto, giudicandomi senza nemmeno conoscermi, cosa che è a tutti gli effetti.”
"Nemmeno a me, e concordo."
"Ma il tuo ragionamento ha senso, e se la gente è stata aizzata la colpa non è di certo di tutti, anche se avrebbero potuto tranquillamente non seguire le insensatezze di quel tipo. In fondo, ognuno dovrebbe ragionare con la propria testa. La questione dell’esame è particolare, non c’è dubbio.”
“Insolita, sì.”
“E poi scusa, come mai non è successo niente di tutto questo a Mackenzie, prima, se è già venuta qui? O invece è accaduto?”
“No, tranquillo. Ho avuto anch’io il tuo stesso timore e ne ho parlato con tutti, anche con lei. Mi hanno detto che, dato che restava poco, la sua presenza non è praticamente stata notata e la voce non è circolata.”
“Meglio così. Ripeto, è assurdo, però va bene, per stare tranquilli faremo questo cavolo di esame, visto che a quanto pare è importante."
"Okay." Si baciarono. Fu un bacio leggero ma caldo che li aiutò a tranquillizzarsi. C'era troppa tensione nell'aria perché fosse un gesto d'amore appassionato, ma l'affetto restava. "Grazie per aver capito e dato a queste persone una possibilità."
"Spero che tutti la daranno a noi."
"Sono sicura che sarà così" gli rispose la fidanzata con un gran sorriso.
"E visto che ci siamo, grazie a te per avermi fatto ragionare".
Anche Andrew sorrise, benché la sua espressione risultasse ancora tirata.
“Un’ultima cosa: Aster mi ha detto che le anziane si rivolgono agli altri dando loro del voi, noi dovremo fare lo stesso.”
“Cavolo, addirittura! D’accordo. Spero perdoneranno il fatto che Mackenzie forse non ci riuscirà, non credo sappia neanche cosa significa.”
“Sono convinta che capiranno, non preoccuparti.”
Una volta tornati in salotto i fidanzati uscirono con le bambine, Aster e le due coppie.
Mamma, dove andiamo? Chiese Mackenzie.
“A parlare con delle signore, tesoro. Tranquilla, sono buone, non succederà niente di brutto.”
E perché vogliono parlare con me? Ho sbagliato qualcosa?
Non le sembrava. Si era sempre comportata bene fino a quel momento, era stata educata. Strinse i denti fino a che una fitta di dolore le attraversò la bocca.
“No, desiderano solo conoscerti.”
Mackenzie si rilassò e si accontentò di quella risposta.
“Dovranno parlare anche con te, Hope,” aggiunse Andrew, “ma non dovete avere paura.”
La più piccola non capì bene, ma sorrise.
"Dove sono le anziane?" chiese Andrew.
"Vicino alla grotta dove stiamo io e le mie sorelle ninfe. Vi consiglio di prendere le bambine in braccio, la strada sarà lunga."
Hope si stancò dopo un quarto d'ora di cammino, Mackenzie resistette di più, ma alla fine trovò posto fra le braccia del padre. Nessuno parlò un granché durante il tragitto, se non di cose come il tempo atmosferico e il silenzio che li circondava. Per il resto, tutti ammiravano le fronde degli alberi che frinivano mosse dal vento. Le foglie erano di un color verde acceso che conferiva allegria all'ambiente e sui rami, invisibili agli occhi, gli uccelli cinguettavano felici. Ogni tanto qualche jackalope saltellava e poi correva a nascondersi alla vista di quegli sconosciuti. Gli animi di Andrew e Demi erano cupi, i due sudavano in maniera più copiosa rispetto agli altri, mancava loro il fiato e nessuno dei presenti era in vena di chiacchiere. Perfino Hope, che a volte era chiacchierona, capì che era il caso di rimanere in silenzio. Le gambe e i piedi della coppia cominciarono a dolere dopo diverso tempo, complici la stanchezza e il fatto che sì, erano abituati a camminare, ma non tanto a lungo.
"Grotta! Una grotta!"
Hope la indicò dopo aver parlato.
"Sì, tesoro, lì abitiamo io e le mie sorelle. Ora, però, dobbiamo andare da un'altra parte. Non è lontano, ci siamo quasi."
Si avvicinarono all'abitazione di Aster e svoltarono a destra, passando sotto alcuni rami di diversi alberi che quasi si univano a creare un intrico di foglie. Al di là non si vedeva niente. Passarono dall'altra parte. Tre donne se ne stavano sedute ognuna su una pietra rotonda e alta diversi centimetri, con uno schienale fatto dello stesso materiale. Assomigliavano a tre veri e propri troni, anche se non avevano nessun elemento decorativo a impreziosirli. Le tre anziane erano magre e avevano gli occhi socchiusi, diverse rughe sul viso e i capelli lunghi e canuti.
"Salve. Vi stavamo aspettando" decretò quella al centro con voce roca. "Abbiamo sentito le voci che girano al villaggio, perciò supponevamo che prima o poi sareste venuti qui. È necessario che vi esaminiamo a uno a uno per capire se il vostro cuore e la vostra anima sono buoni e puri. Acconsentite?"
Mackenzie strinse forte la mano del padre – allora erano venuti lì per un motivo più importante che conoscerle! –, Hope invece quella della madre. Mac si domandò perché i genitori non le avessero detto la verità, né spiegato che voci giravano al villaggio, ma quando scese dalle braccia di Andrew e lo scrisse l’uomo le rispose che, per quanto lei fosse matura, quelle erano cose troppo difficili per una bambina. Anche se odiava risposte del genere perché, cavolo, lei si sentiva grande, Mackenzie non ribatté. Non era il momento.
"Va tutto bene, non vogliono farci del male. Devono solo guardarci e parlarci, promesso. Nessuno di noi ha fatto niente. Al villaggio dicono che siamo pericolosi, ma non è vero, okay?” spiegò Demi alle figlie, con il tono più dolce che le riuscì.
Le pareva lo stesso che utilizzava Dianna quando lei, da piccola, aveva avuto paura del lupo cattivo delle favole e la donna aveva cercato di farle capire che erano storie e che non sarebbe mai uscito a mangiarla e aggiunto che, anche se fosse stato così, lei l'avrebbe sempre protetta. La ragazza si augurò che anche le anziane l’avrebbero capito.
"Adesso siamo tutti insieme, non c'è niente di cui aver paura se ci sono mamma e papà con voi" continuò Andrew.
Rimasti in disparte, i loro accompagnatori sorridevano e così anche le anziane, pur mantenendo la loro compostezza.
Mackenzie e Hope trassero un lungo sospiro. La minore non aveva capito bene tutto quel discorso, ma i genitori erano relativamente calmi, per cui si disse che forse poteva esserlo anche lei. Quelle donne non le facevano poi così paura, forse erano più vecchie di sua nonna ma chissà, magari simpatiche quanto lei e avrebbero giocato insieme. Mackenzie era più sospettosa. Non staccava loro gli occhi di dosso, temendo che avrebbero potuto farle del male, ma le tre rimanevano immobili. La cosa strana era che, nonostante tenessero gli occhi quasi del tutto chiusi, parevano vederci, il che le faceva battere il cuore all’impazzata, ma cercò di stare tranquilla anche per il bene della sorellina.
“Acconsentiamo” risposero i suoi genitori.
Mamma, che significa acconsentire?
“Essere d’accordo, tesoro.”
Mackenzie guardò le donne e annuì,.
Fu proprio lei la prima a essere chiamata dall'anziana di destra. Si avvicinò alle donne fino a quando, a pochi centimetri di distanza, le ordinarono di fermarsi.
"Sappiamo che non puoi parlare, per cui non ti chiederemo niente" dissero in coro.
"Siamo anche a conoscenza del fatto che sei brava a scrivere e una bambina buona e dolce. Proprio perché sei piccola, il tuo cuore e la tua anima sono puri. Benvenuta a Eltaria!"
Mackenzie allungò una mano, che le tre le strinsero. Avevano la pelle grinzosa, ma le loro strette erano materne.
All'inizio, Hope non volle andare. Scese, ma continuava a stringere la mano di Demi in modo convulso, mentre con l'altra si aggrappava a una delle sue gambe.
"Non voio, mamma, non voio!" piagnucolava, mentre la ragazza e Andrew, oltre a ripeterle di non temere e che non era sola, non sapevano cosa fare per convincerla.
Le anziane la rassicurarono con parole dolci e vennero verso di lei, ma ora che le vedeva più da vicino Hope aveva paura di quelle tre donne e si mise a urlare a più non posso. I genitori le cantarono qualche canzoncina continuando a camminare per calmarla. Le anziane li guardavano dispiaciute. Avrebbero fatto volentieri a meno di sottoporla a quell'esame visti tutti i suoi pianti, ma benché i bambini fossero sempre puri e innocenti era obbligatorio che lo facessero anche loro, non potevano esserci eccezioni.
"Si chiama Hope, giusto?" chiese quella di sinistra.
Se non per le voci diverse, alcune più acute e altre più gravi, sarebbe stato impossibile distinguere le anziane l'una dall'altra. Fisicamente erano uguali e anche nel modo di vestire, indossavano tutte e tre una gonna bianca lunga fino ai piedi e una maglia dello stesso colore.
"Sì" rispose Andrew.
"Hope? Hope?" insistette la signora con voce vellutata.
"Su, tesoro, guardala. Non ti fa niente" la incalzò Demi che ancora la stringeva.
Quando la piccola volse lo sguardo in quella direzione, l'altra tirò fuori da chissà dove un sonaglio. Forse era opera di magia, o magari lo teneva in una tasca che non avevano visto, ma catturò l'attenzione della bambina. Il colore argentato di quel campanellino appeso a un sottile filo risplendeva ai raggi del sole che filtravano tra gli alberi.
"Vedi che bello?" continuò l'anziana scuotendolo con vigore. "Se vieni da noi te lo regalo."
Hope rise di cuore e scese dalle braccia della mamma per precipitarsi dalle anziane. Per prima cosa le diedero il sonaglio, poi le dissero di fare qualche passo indietro e fermarsi.
"Sei bella, sai?" considerò quella al centro. "Come tua sorella. Sappiamo che sei anche brava e dolce. Sei pura anche tu, puoi andare."
Le altre assentirono e Hope corse di nuovo dalla mamma mostrandole quel piccolo giocattolo come se fosse stato il premio che aspettava da una vita.
"Aster."
Fu quella di sinistra a rivolgersi alla ninfa, con voce più ferma di prima.
"Sì, signora?"
"Vi chiedo di portare fuori tutti, tutti quanti, soprattutto le bambine. Abbiamo bisogno di parlare con Andrew Marwell e Demetria Devonne Lovato da sole."
Mentre metteva giù Hope, le diceva di andare dalla ninfa e che lei sarebbe tornata presto, a Demi si mozzò il respiro. Poche persone la chiamavano così: sua madre quando combinava qualcosa, Andrew in occasioni serie e altre in contesti formali. Si rendeva conto che anche quello lo era, almeno per lei e Andrew, ma l'utilizzo del suo nome completo le aveva fatto capire quanto.
Una volta che tutti furono fuori da quella parte di bosco, lei e il fidanzato si strinsero la mano e rimasero fermi, in attesa. Le anziane li guardarono a lungo, da capo a piedi, studiandoli con attenzione. I loro sguardi erano intensi, penetranti, così tanto da far male.
"Avete delle figlie meravigliose" affermò con convinzione quella al centro. "Avvicinatevi. Piano. E lasciatevi la mano."
Non avere più il sostegno dell'altro fu, per entrambi, come perdere un po' della forza che si trasmettevano a vicenda. Si ritrovarono deboli e soli, pur vedendo e sentendo che l'altro era lì accanto, a pochi centimetri di distanza.
"Avete paura?" chiese quella a destra, con voce incolore.
"Non abbiamo mai sostenuto un esame del genere prima, quindi sì" rispose Demi per entrambi, mentre Andrew annuiva.
"Non dovete, se andrà tutto bene ci vorrà poco. Ora vi farò qualche domanda. Assolverò io il compito in quanto sono la più vecchia di tutte, e per la nostra legge ho il dovere di porvi questi quesiti ai quali dovrete rispondere con assoluta sincerità. Se le altre vorranno, però, potranno aggiungersi e fare domande a loro volta. Tutto chiaro?"
"Chiaro" risposero entrambi.
Sia i due che le anziane erano serissimi, adesso.
"Bene. Conosco già i vostri nomi. So anche perché siete finiti qui a Eltaria. Vi sentite ancora in colpa per aver perso Hope?"
"Sì" disse Demi senza nemmeno pensarci.
"Sì, anch'io" sussurrò Andrew.
“Forte, dovete parlare più forte. Altrimenti potremmo pensare che non dite la verità.”
“Scusatemi. Ripeto: sì, anch’io.”
“Demetria Devonne, perché continuate a provare questo sentimento anche se tutti vi dicono che non dovete?” domandò quella al centro.
Stavano leggendo le loro menti. Lo capirono non solo da quei discorsi che potevano sollevare tale dubbio, ma anche a causa di un mal di testa martellante che dalla fronte si stava propagando alle tempie e in ogni altra zona e del fatto che le voci delle anziane parevano essere sia fuori che dentro e provenire da ogni parte. Rimbombavano nelle loro teste. Ciò fece loro impressione, chissà quante cose stavano vedendo quelle donne, tutto quello che era accaduto loro nel passato, violando qualcosa che doveva rimanere privato. Al solo pensiero, venne loro da vomitare. Si portarono una mano davanti alla bocca, piegandosi in avanti, ma non uscì nulla, nemmeno un conato.
“Perché ogni madre lo proverebbe, non importa ciò che possono dirle gli altri” rispose la ragazza.
“So cosa state pensando” asserì la terza. Noi vediamo tutto nella vostra mente, ma ci limitiamo ai fatti e a qualche sentimento, lasciamo molte cose private come dev’essere. Se vogliamo capire qualcosa, lo facciamo con le domande.”
I due sospirarono di sollievo.
“E voi, Andrew,” continuò la donna più vecchia, “perché non dite il motivo per cui vi sentite in colpa?”
“In parte perché è lo stesso di Demi.”
“E?” lo incalzò.
Lui trasse un respiro tremante.
“E… perché ho difficoltà a esprimere i miei sentimenti.”
“Come mai?”
“Negli anni mi sono successe cose brutte e mi sono chiuso in me stesso. Ora, però, sto cominciando a cambiare, ad aprirmi. Tuttavia, non può succedere da un momento all’altro, è un percorso e a volte faccio fatica.”
"Definite quanto amate le vostre figlie."
Che domanda del cazzo pensò Demi.
"Anche se vi sembra stupida, Demetria Devonne, è importante per capire la vostra anima" le rispose la stessa vecchia.
"Scusatemi, non volevo pensare quella parolaccia, non era mia intenzione mancare di rispetto a delle figure importanti come voi.” Si sfregò le mani sui pantaloni. Se ne vergognò, avrebbe dovuto fare più attenzione. "Soprattutto in un contesto così formale come quello in cui ci troviamo. Comunque, non ci sono parole per definire questo amore. È così grande da essere senza misura."
"Io posso solo dire che da quando, oltre a Demi, ho anche loro nella mia vita, mi sento completo" rispose Andrew, sincero, mentre gli occhi gli si inumidivano.
La fidanzata gli sorrise.
"Avete intenzione di fare del male alla gente di qui, rubare, mentire, ferire, uccidere o altro?"
"Cielo, no! No, noi siamo grati a queste persone. Hanno salvato nostra figlia e ci stanno ospitando."
"Demetria ha ragione. E per quanto riguarda quelli che non ci considerano brava gente, se questo esame andrà bene spero che dopo non ci saranno problemi. Non ci è nemmeno passato per l'anticamera del cer… volevo dire, per la testa di far del male a qualcuno, noi non siamo quel tipo di persona."
Iniziò una trafila di domande, anche da parte delle altre due, riguardanti lo stato psicologico di Andrew, la situazione di Demi e i suoi problemi passati. Le anziane volevano capire quanto quello che era successo alla ragazza anni prima e al ragazzo in passato ma anche non molto tempo addietro influisse sulla loro vita presente, sul rapporto con le figlie, quello con familiari e amici e sull'accettazione di loro stessi. Furono domande complesse, che scavarono nel profondo dei due giovani facendoli anche piangere, riportando alla mente ricordi ancora vividi, presenti e dolorosi ma che, almeno in quel momento, avrebbero voluto dimenticare. Nonostante la difficoltà risposero a tutto, non crollarono mai completamente e sperarono che quelle crisi non dessero di loro un'immagine sbagliata, di persone deboli, o stupide, o poco sincere. Quelle domande sondarono i loro sentimenti più profondi e negativi come dolore, paura, tristezza e senso di colpa. Alla fine le anziane misero a una a una le mani sui loro cuori e dissero insieme:
"Avete superato un esame difficile per chiunque, dimostrando di essere non solo forti nello spirito ma anche buoni e puri di cuore. Nessuno può esserlo del tutto. Nel fiume non ci sono solo varie specie animali e acqua pulita, bensì anche terra, sassi, sporcizia, a volte la corrente è più forte e nelle sue profondità si nascondono pericoli. Come esso non è puro al cento per cento, così non lo è nessuno. Con ciò intendiamo dire che, anche se avete commesso degli errori, non siete persone cattive. Potete andare, e vi diamo il nostro personale benvenuto a Eltaria!"
Ai due piacque moltissimo la metafora del fiume, in effetti caratterizzava alla perfezione l’animo umano e quello di tutte le creature.
"Demetria!" la richiamò ancora una signora e lei, che si era voltata, si girò per guardarla. "So che desiderate lavorare nell'orfanotrofio di Eltaria, l'ho visto nella vostra mente assieme alle mie compagne."
"È così, signora."
"Lo trovo un gesto nobile.”
“Vi ringrazio.”
“Ho anche visto che Andrew vorrebbe farvi visita con voi oltre ad aiutare quando verrà altre volte, è vero, signore?”
“Sì.”
“Bene.” Presi due fogli e una penna, scrisse qualcosa. “Demetria Devonne, questo è un documento da mostrare alla Direttrice, se vi accetterà, che attesta che possedete tutti i requisiti. E Andrew, ecco il vostro per permettervi di visitarlo e stare con i bambini ogni volta che vorrete. Aggiungo che avete entrambi un cuore grande e tanto amore da dare non solo alle vostre figlie, ma anche ad altri bimbi."
"Lo darei a tutti quelli del mondo, se solo potessi" dichiarò Demi e Andrew annuì.
"Sì, non mi stupisce." Passò i fogli alle sue compagne perché li firmassero e poi ai fidanzati. "Se volete leggere e firmare…"
Quelle parole erano una loro descrizione sia in termini positivi che negativi, del resto nessuno è perfetto, ma davano di loro un'immagine di persone buone e belle dentro, cosa che fece loro un gran piacere. Le trovarono troppo generose, o magari erano loro che si sminuivano come al solito. Dopo queste, nel foglio di Demi c’era scritto:
Dichiariamo dunque che Demetria Devonne Lovato potrà non solo visitare l’orfanotrofio, ma anche lavorarci per tutto il tempo che vorrà.
In quello del fidanzato era riportata una cosa simile ma solo riguardo le visite.
"Come farà la gente a sapere che ci avete accettati?" domandò Andrew.
“Se mostrerete il documento si fideranno, ma potrebbe non essercene bisogno. Del vostro esame si parlerà presto al villaggio – noi non diremo niente, ma le voci corrono – e, vedendo che non ve ne siete andati, le persone capiranno che non dovranno temervi.”
I due ringraziarono, si inchinarono, strinsero loro la mano e, svuotati di molte delle loro energie fisiche e soprattutto mentali, uscirono per riunirsi agli altri.

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Capitolo 11
*** Vita a Eltaria ***


CAPITOLO 11.

 

VITA A ELTARIA

 
Erano le dieci del mattino e, camminando, Demi riuscì a sentirsi più tranquilla. Prima di passare quei pochi giorni in compagnia della sua famiglia nei boschi di Eltaria, aveva creduto che quest'ultima non fosse altro che la semplice invenzione di una giovane ragazza che si dilettava nella scrittura, ma erano arrivati lì grazie a un sogno di Mackenzie e non voleva rovinarlo. Ora respirava la fresca aria di quelle terre voltando lo sguardo in ogni direzione. Non cercava nulla e nessuno, ma era sempre stato un tipo curioso ed esplorare quel nuovo ambiente le piaceva. Era bello vedere dal vivo flora e fauna comuni, ma anche fate, ninfe e jackalope. Chissà quali altre creature magiche avrebbe incontrato.
I due fidanzati si tenevano la mano e, poco dopo, il silenzio fra loro si ruppe come vetro a causa di un ormai conosciuto scricchiolio. Mackenzie, anche camminando accanto alla madre, scriveva.
Manca ancora molto, mamma? Ho fame! si lamentava, tacendo un improvviso dolore ai piedi e non riuscendoci con quello del proprio stomaco, che intanto brontolava.
"Mac, abbiamo fatto colazione poco fa, è impossibile che tu sia di nuovo affamata. Siamo vicini, resisti ancora un po’" le rispose Demi, che si godeva il suono dei suoi passi unito a quello del dolce sibilo del vento fra i capelli.
Non è vero. Sono passate tre ore, è ovvio, invece.
Intenerito dai suoi tiepidi moti di protesta, Andrew rise e le scompigliò i capelli.
"Hai ragione, tesoro, ma ce l'ha anche la mamma. Non dobbiamo camminare ancora tanto, vedrai che appena arriveremo Eliza ti preparerà qualcosa."
Va bene, andiamo, però. Se aspetto ancora svengo, vero Hope? replicò la bambina, stringendo la mano alla sorellina che camminava con lei e fermandosi a guardarla.
Per tutta risposta, anche se non capì quelle scritte, la più piccola dovette intuirle in qualche modo perché chiuse gli occhietti e si portò la mano al cuore senza aprirli, come a simulare ciò che sarebbe successo alla più grande. Demi non mancò di notarlo.
"Mackenzie Lovato! Non dire queste cose, neanche per scherzo!" urlò. “Hope, anche tu.”
Amava le sue bambine, non le piaceva sgridarle, ma pensieri di quel genere non erano adatti alla loro età né a quella di nessuno. Dati i suoi trascorsi e i problemi che aveva affrontato, la propria mente ritornava spesso a quei momenti. C'era stata Ana, l'anoressia che l'aveva convinta a non mangiare, a rifiutare di nutrirsi per essere accettata, come se qualcuno potesse decidere di voler vivere la propria vita accanto a uno scheletro e poi Mia, la bulimia, che tanto insisteva sul concetto contrario, incoraggiandola a mangiare fino a scoppiare. La prendeva in giro fino a farla piangere e urlare, e, come macabro finale, la spingeva a cancellare ogni morso facendola ritrovare abbracciata al water o al lavandino. Quella della figlia era stata soltanto una battuta e forse esagerava, ma la verità era una, e lei era l'unica a conoscerla.
A quelle parole Mackenzie sbiancò mentre Hope, con lo sguardo rivolto verso le proprie scarpine, si strinse nelle spalle. Triste, la maggiore riprese a scrivere.
Scusa, mamma.
Demi accettò quel foglio con mani tremanti, lesse e sentì gli occhi bruciarle a causa di un pianto che avrebbe solo voluto liberare.
“Non vi preoccupate, piccole, è tutto okay.”
La sua voce uscì tremante ma dolce. Le sarebbe piaciuto fare loro un discorso sull’importanza dei gesti e delle parole, su quanto potessero fare male, a volte. Ma Mackenzie ne sapeva già qualcosa, vista la situazione a scuola, e la ragazza credeva l’avesse capito, mentre Hope era ancora troppo piccola. Scuotendo la testa si impose la calma, e Andrew cercò la sua mano.
"Ehi, Demi?" chiamò, preoccupato.
Persa in un mondo tutto suo, la ragazza tardò a rispondere e, quando i loro sguardi si incontrarono fondendo insieme verde e marrone, riuscì a balbettare:
"S-sì?"
"Tutto bene?"
"C-certo, è stato solo… solo un momento, scusa." Odiava quella sensazione, perché stava per crollare, ma non voleva e non doveva. Le succedeva spesso quando si emozionava tanto. "Insomma, hai sentito quello che ha detto Mac, riguardo…"
Non ebbe la forza di esprimersi e lasciò la frase incompleta.
"Sì, ma ora non pensarci. Rifletti su altro, respira, guarda dritto di fronte a te."
Un consiglio che le aveva dato spesso nel loro tempo insieme, che peraltro aveva sempre funzionato e sul quale la ragazza continuava a fare affidamento.
Annuì.
Aster era rimasta alla grotta, ma Kaleia, Christopher, Sky e Noah li seguivano e procedevano in silenzio.
“Non ha fatto apposta, ne sono sicura” tentò la fata della natura.
Demi sospirò.
“Lo so, scusate.”
Sperò che non la considerassero una cattiva madre per aver sgridato le figlie, ma tutti le sorridevano.
"Mamma! Casa" disse Hope, che saltellava sul posto, quando furono vicini.
"Sì, piccola. Che dici, andiamo a bussare?" le rispose Demi, sorridendole e sfiorandole la manina.
Più veloce di lei, la bambina si mise in testa alla marcia e correndo raggiunse quella porta ancora chiusa. Strinse i piccoli pugni e, dopo pochi colpi sul legno, attese. Prima di ritrovare la mamma aveva legato con Eliza e, nonostante non la considerasse tale, non vedeva l'ora di riabbracciarla.
"Eliza! Eliza!" chiamò, impaziente.
I genitori risero e non se la sentirono di incolparla per aver gridato.
"Hope, aspetta. Sono sicuro che ha sentito" le disse il padre.
Dopo altri attimi d'attesa, la porta si aprì.
"Eliza!" esplose ancora la piccola.
"Hope, tesoro!" rispose la donna, abbassandosi per prenderla in braccio e stringerla forte a sé.
Un'abitudine dura a morire, acquisita quando le sue figlie non erano che pixie e che non era mai svanita.
"Scusaci, non voleva. Sa essere abbastanza brusca, alla sua età" proruppe a quel punto Demi, con il volto contratto in una smorfia a metà fra sorpresa e vergogna per il comportamento della figlia.
Quella donna non era un'estranea, ma temeva che Hope l’avesse disturbata mentre sbrigava le faccende domestiche.
"Tranquilli, almeno lei non mi riempie i vestiti di fango come faceva qualcuno di mia conoscenza" replicò la donna, ignorando l'irruenza di quel minuscolo terremoto che aveva fra le braccia.
 
 
 
Sky, intanto, era entrata. Chiamata in causa, si alzò dal divano e raggiunse l'ingresso, convinta di aver sentito qualcuno parlare di lei. Si conosceva, e se c'era qualcosa che non le piaceva era essere presa in giro. Solo una persona era autorizzata a farlo bonariamente, ed era proprio sua madre, ma non se si trattava di esagerare in quel modo.
"Mamma!" si lamentò, già seccata e con il viso rosso per l'imbarazzo.
"Cosa? Sono tua madre, conoscere certi segreti è il mio lavoro" si difese Eliza.
"Esatto, segreti. Ora, per favore, potresti smetterla? Le altre mocciosette vi aspettano, sai? E io fra poco devo andare con Noah."
Si riferiva a due pixie in particolare e, benché non lo dimostrasse, scacciando spesso anche quelle viste a Eltaria come fossero state insetti, voleva loro un gran bene.
 
 
 
Demi voltò il viso verso di lei lanciandole un'occhiata interrogativa.
Avete ospiti? chiese Mackenzie, confusa e curiosa al tempo stesso.
Eliza lesse e sorrise.
"Sì, Mac, sono arrivati mentre eravate via. Vuoi conoscerli? Vivono qui vicino e hanno due figlie, una di sette anni e l’altra di quattro."
La prese per mano e la guidò verso il salotto, dove la famiglia Hall attendeva.
Sedute con la mamma, le due figlie dondolavano le gambe. Bloccata in un'improvvisa indecisione, Mac rifiutava di avvicinarsi.
No, poi… poi non gli piaccio. Non so parlare e loro sì, ci scommetto protestò, stringendo i pugni.
Eliza si fermò, posandole una mano sulla spalla.
"Mac" azzardò, la voce già rotta dall'emozione. “Provaci.”
Ho detto no! insistette l’altra, decisa eppure spaventata.
Si tirò indietro, nascondendo il volto fra le braccia della madre. Soffrendo in silenzio, Demi si offrì di aiutarla e, nell'assoluta quiete di quel momento, incrociò lo sguardo dell'altra donna, madre delle due bambine. Una ragazza alta e magra, con i capelli raccolti in una coda di cavallo, lunghi fino a metà schiena. Il marito li aveva più scuri, come le figlie. Veloce, questa passò all'azione. Spinse la più piccola ad alzarsi e le sussurrò:
"Lunie, quella bimba è tutta sola, va’ a presentarti."
Un consiglio più che utile quando si trattava di fare amicizia, che la minuscola pixie accettò senza fiatare. Se solo Mackenzie avesse saputo…
Incuriosita da quella giovane umana dalla pelle scura, Lune avanzò piano verso di lei per non spaventarla, ritraendo anche le ali in modo da non sembrare troppo strana. Quella parola non le piaceva, ma alcuni umani potevano essere sospettosi, ragion per cui era meglio non rischiare. A scuola, le insegnanti le avevano insegnato a essere sempre se stessa senza dimenticare né lasciare indietro nessuno, usando però un altro termine: discriminazione. La piccola arrivò a capire di esserne stata vittima e che, anche senza spintonarla o farle del male fisico, i bulletti a scuola l'avevano ferita. Veniva lasciata da sola, spesso in fondo all'aula e senza nessuno con cui parlare, e anche quello le faceva male, come quando giocando cadeva e si sbucciava le ginocchia. Si fermò a osservare la postura dell'altra bambina, scoprendo che il suo sguardo era attraversato da nubi di tempesta. Scosse la testa e si impose di non pensare al passato ma solo al presente, e in un attimo eccola lì, accanto a quella giovanissima sconosciuta, con un ennesimo foglietto in mano. Prima di raggiungerla aveva disegnato qualcosa e mostrarle quel piccolo capolavoro forse l'avrebbe fatta sorridere. A quattro anni non era certo un prodigio, ma valeva la pena tentare. Salutò con la manina e attese. Indecisa, Mackenzie aprì la bocca per parlare, ma come al solito non ne uscì alcun suono.
Stupida, vuoi che ti scopra subito? si sgridò da sola.
Chiuse gli occhi, respirò a fondo e, quando tornò in sé, fece un gesto con la mano come per chiedere alla fatina di aspettare. Con il solito blocco note ancora in mano, scrisse.
Ciao.
La pixie lesse, per poi rispondere con un altro messaggio.
Come ti chiami? Io sono Lunie. Mi chiamo Lune, ma Lunie è più carino, non trovi?
Mackenzie esitò nello scrivere una nuova risposta ma, per la prima volta in quella giornata, sorrise. Lune indossava una gonnellina rosa che le lasciava scoperte le caviglie fasciate da calze fine e una camicetta dello stesso colore con le maniche a sbuffo, come la sorella. Quella piccola bimba le ricordava tanto Lizzie, la sua compagna di scuola, a causa del sorriso dolce che le increspava le labbra. Chissà cosa stava facendo la sua amica. Era sabato, e per quanto ne sapeva aveva da fare con il progetto di scienze e a quel ricordo si estraniò per un po’. Persa in un mondo tutto suo, dimenticò la pixie al proprio fianco, e confusa, questa le picchiettò una spalla.
"Ci sei ancora?" sembrò chiedere, non sapendo cosa pensare.
La bambina scosse il capo più volte, e ripresa in mano la penna, diede vita ad altre frasi, scritte in fretta per non dare l'impressione di essersi distratta.
Ciao. Sì, hai un bel nome. Io sono Mackenzie, ma tutti mi chiamano Mac. Ho una sorellina, Hope, che ha quasi due anni. Tu?
Il sorriso di Lune si allargò.
Che bello! Anch'io, Lucy.
Il resto della famiglia si fece avanti, e raggiunte le bambine gli Hall le invitarono a giocare.
Dopo aver salutato con educazione, Sky, Kaleia, Noah e Christopher uscirono dicendo alla mamma che sarebbero rimasti insieme tutto il giorno e la maggiore delle sorelle aggiunse che poi, la notte, avrebbe dormito a casa del suo ragazzo.
“Ci vedremo presto” promisero.
Le bimbe si sedettero e un suono le distrasse. Quasi inudibile, lo zigare di un coniglio color della sabbia.
"Sunny!" chiamò Lucy, che a sette anni ancora ricordava di averla adottata nel giorno del suo compleanno.
A volte non ci credeva, eppure era bastato soffiare sulle candeline ed esprimere un desiderio, e sin da allora quel nuovo tenero animaletto era entrato a far parte della sua famiglia.
Mackenzie, che sorrideva al pensiero di aver incontrato la pixie dal vivo e non più solo attraverso le pagine di un libro – aveva letto di Lucy nel capitolo undici –, ridacchiò e scrisse:
Un coniglio? C'è un animale che non avete, qui?
Ridendo di cuore, la madre delle piccole prese la parola.
"Strano, lo sappiamo, ma in famiglia ormai funziona così, e Sunny ci segue ovunque. Non è vero, signorina?"
Sorrise mentre si abbassava per accarezzarla.
La coniglietta non mosse foglia, e spinta dalla curiosità Mackenzie imitò la donna fatata.
Posso? chiese prima, educata.
"Certo, piccola! Sono Isla, e lui è mio marito Oberon" le rispose, e si abbassò al suo livello per stringerle la mano.
Lui era piuttosto basso e un po’ in carne, mentre Isla una decina di centimetri più alta. Mackenzie accettò quel gesto di buon grado e sfiorò il pelo soffice della coniglietta. Chiudendo gli occhi, la nuova amica dalle orecchie lunghe si godette le sue carezze.
Lucy guardò la sua mamma. La chiamò, incerta, passandosi una mano tra i capelli scuri che, anche Mackenzie lo percepì da lì vicino, emanavano un profumo fresco. Magari aveva usato lo shampoo all’ortica che utilizzava anche lei.
"Sì, Lucy?"
"Sono le undici e un quarto. Possiamo guardare i cartoni animati? Oggi è sabato, Pixie Club fa un nuovo episodio!" si lamentò la bimba.
Strinse i pugni e fece tremare senza volerlo il tavolo da pranzo.
Uno dei tanti problemi che aveva nel controllare i suoi poteri legati alla terra, che mamma Isla e papà Oberon avevano scoperto proprio durante i suoi soliti capricci prima di andare a letto.
Isla le accarezzò i capelli.
Cos’è Pixie Club? domandò Mac.
“Un cartone che parla di sette pixie che affrontano ogni giorno le sfide della vita alla scoperta dei loro poteri e imparano il valore dell’amicizia, a comportarsi in modo gentile a essere buone e così via. Vivono situazioni normali, che però le fanno crescere” spiegò Oberon.
“Non è nulla di noioso o serio, anzi, vi divertirete” aggiunse Isla.
“Sembra un cartone educativo per i bambini” osservò Andrew.
“Io e Lune lo guardiamo ogni fine settimana, o quasi” spiegò Lucy. “Allora mamma, possiamo?”
"Piccola, devi chiedere a Eliza, in fondo è casa sua."
L’altra non se lo fece ripetere, ma Hope fu più veloce di lei e, prima che potesse alzarsi, la precedette.
"Cartoni, cartoni" disse a Eliza.
Impegnata con alcune faccende domestiche, la donna non l'aveva sentita, e insistendo, la piccola finì per tirarle piano il vestito.
"Cartoni?" ripeté, il tono perfino più acuto di prima.
Distraendosi dal mettere a posto alcuni libri la donna spostò lo sguardo su di lei, poi sorrise.
"Certo, amore. Vieni, ti porto di là con Mac.”
Quella bambina non era sua figlia e non lo sarebbe mai stata, ma l'adorava.
"Mac" ripeté la piccola, e la sorella sollevò lo sguardo fino a incontrare il suo.
Una lacrima minacciò di rotolarle lungo la guancia, ma si passò un dito appena sotto l'occhio, fermandola. Non lo diceva, ma a volte era come gelosa della sorellina anche se, e non sapeva fosse possibile, in maniera positiva. Aveva quasi due anni e vedeva in quella nuova vita a Eltaria solo la luce e il calore della famiglia di Kaleia, cosa che lei avrebbe provato a fare a sua volta. Sorridendo, rimase a guardare mentre Eliza la faceva accomodare sul divano, poi affidò a Lucy il telecomando della televisione.
"Grazie" rispose appena la pixie, mostrando un debole sorriso.
"Prego, Lucy. Guardate pure quello che vi va."
Si allontanò e tornò alle sue mille faccende in cucina. Con i libri ormai al loro posto le restava solo quella da rassettare, e rimasti in disparte, Demi e Andrew non si avvicinarono, osservando però le loro figlie divertirsi con le nuove amiche.
 
 
 
Ignare di tutto le piccole avevano già acceso la TV, e ormai abituata a quel programma che le piaceva tanto da spingerla a eleggerlo suo preferito, Lucy rimase incantata sin dalla sigla che mostrava, insieme, ognuna delle protagoniste. Emery, una pixie naturale simile a Kaleia, Ada, che controllava il vento come Sky, Alisha, con i poteri dell'acqua e un vestito azzurro come il vasto oceano, Ember e Tesia, una reginetta del fuoco con i capelli rossi, l'altra bruna e con poteri legati alla terra, e ultime ma non per importanza, Atlas e Daria. Gemelle, due facce della stessa medaglia se non per il segno sul polso che indicava il loro elemento, capaci di sfruttare l’una l'energia della luna e l'altra quella del sole. Avevano caratteri diversi, ma seguendo con attenzione l'episodio le bambine ammutolirono. Per loro fortuna non era una replica e Ada, che oltre al vento dominava anche le nuvole, cercava di spostarle e di far piovere, solo per mostrarlo a Daria. Questa, però, piangeva.
“Perché piove? Io voglio il sole!” esclamava, con il viso fra le mani.
La sua vocina fece salire le lacrime a Mackenzie che, però, le ricacciò indietro. Non voleva che Lucy e Lune la considerassero una sciocca.
“Tranquilla, fa star male anche me” mormorò Lucy, poi le due si concentrarono di nuovo sul cartone.
Seduta sotto un albero, Daria attendeva solo che le nubi sparissero, con lo sguardo rivolto verso il cielo. Ogni tanto sospirava, ma non parlò più. Di scena in scena, anche le altre amiche cercarono di aiutarla. Solo sul finale la pioggia smise di scrosciare pian piano e, proprio fra le nuvole, spuntò un magnifico arcobaleno. Con grande stupore delle bambine quell'immagine chiuse la puntata, e con la fine del cartone, Lucy spense la televisione.
"È stato bellissimo, vero? Dai, chi vi è piaciuta di più?" chiese, sorridendo e con il cuore in tumulto.
Mackenzie si fermò a riflettere e passò in rassegna nomi e poteri. Si bloccò più volte, ma alla fine scelse Ada. Apparentemente chiusa e burbera, aveva deciso di farsi in quattro per la cara amica, nonostante il suo continuo desiderio di giocare e camminare per il bosco in cui vivevano e la personalità forse troppo spumeggiante tendesse a darle sui nervi. In altri termini un episodio come tanti, ma agli occhi delle piccole una vera gemma nascosta su quel magnifico legame chiamato amicizia.
A me è piaciuta Ada. Lei e Daria non sembrano tanto legate, ma alla fine si capisce che si vogliono bene quando questa aiuta le altre a far tornare il sole perché lei sia felice.
"Io invece ho sempre amato Tesia. Chissà, forse perché abbiamo lo stesso elemento" spiegò Lucy, non riuscendo a smettere di sorridere e mostrando con orgoglio il marchio sul polso, che la mamma preferiva chiamare segno.
Mackenzie aveva visto anche quello di Lune e conosceva i due di Sky e Kaleia.
"E a te, Lunie?"
L’interpellata ci pensò sopra e poi, con in mano una matita, rispose alla sorellla disegnando l'arcobaleno visto poco prima, che le aveva riempito gli occhi di meraviglia nonostante fosse stato in televisione. In un certo senso lo stesso valse per Hope, che ancora seduta sul divano, dondolava le gambine avanti e indietro, ridacchiando. Si limitò a indicarlo, ma poco dopo, il suo stomaco finì per brontolare.
"Cos'ha, fame?" chiese Lucy a Mackenzie.
Così pare. Facciamo merenda?
"Certo! In effetti abbiamo fame anche noi. Andiamo, dai" replicò la pixie mentre, tranquilla, si alzava dal divano e prendeva per mano la sorella.
Le bambine raggiunsero la cucina e Mackenzie si avvicinò alla mamma. Era seduta con Eliza, che aveva offerto una tazza di caffè anche a papà, Isla e Oberon. Senza proferire parola, i genitori le sorrisero e Demi provò a prendere in braccio Hope, che però non volle saperne e insistette per avere una propria sedia. Comprendendola alla perfezione, Eliza non ebbe bisogno di spiegazioni e, sentì lo stomaco della piccola brontolare.
"Chi vuole dei Fairy O's?" annunciò, la voce alta e simile a quelle spesso udite nelle pubblicità.
"Noi!" fu svelta a rispondere Lucy, eccitata a quella sola idea.
Li mangiava ormai da anni, adorava il loro sapore, ma più di tutto ciò che accadeva dopo, ovvero scavare nella scatola alla ricerca del giocattolo all'interno. Si trattava di piccoli oggetti legati al mondo della magia, che le fatine amavano collezionare e scambiarsi con gli amici a scuola durante l'intervallo.
Cosa sono?
Pur essendo già stata lì, Mackenzie non ne aveva mai sentito parlare, né aveva letto nulla a riguardo nella saga, almeno fino a dove era arrivata.
“Cereali magici” rispose la pixie.
La donna scaldò a tutte una piccola tazza di latte e lasciò sul tavolo la scatola dei Fairy O’s. Troppo concentrata sul riempirsi la pancia, Lucy non fece caso alla sorpresa e lo stesso valse per Hope e Mackenzie, meravigliate dal gusto e dalla strana forma di quei cereali che sembravano sapere chi li stesse mangiando. Difatti, se quelli di Lucy avevano la forma di piccole rocce ma per fortuna non la consistenza, i Fairy O’s di Lune erano simili a fiamme, in perfetto accordo con i loro elementi. Seduta al suo posto a tavola, Mackenzie esitava nel mangiare mentre Hope, che prendeva i cereali con un cucchiaio di plastica più piccolo di quelli normali, non aveva problemi a parte sbrodolarsi un po’ con il latte, per cui Demi doveva essere sempre pronta a evitarlo o a pulirla, e la bambina ingoiava piano ognuna di quelle deliziose stelline.
"Qualcosa non va, cara?"
Non è niente, Isla, stavo solo pensando si limitò a rispondere Mac, evasiva.
Nonostante la signora Isla fosse buona e gentile, lei non se la sentiva di dire a cosa. Non vedeva da tempo l'amica Lizzie e, nonostante fosse sabato, presto sarebbe dovuta tornare indietro. Ma dato il luogo in cui si trovava e che le piaceva comunque moltissimo, non avrebbe potuto a meno che il sogno non fosse terminato.
"Su, sta’ tranquilla. Non vuoi neanche provare i cereali? Sono buoni, te l'assicuro" continuò la fata.
Mac non si fece pregare. Non era la prima volta che mangiava dei cereali, ma Isla aveva ragione e i suoi, uguali a quelli di Hope per forma e dimensione, erano buonissimi.
Mackenzie sorrise, non tanto per i cereali quanto per i rapporti che stava costruendo a gran velocità. Non se lo sarebbe mai aspettata, eppure considerava già Lucy e Lune due bambine simpatiche e divertenti, che le avevano fatto scoprire un cartone nuovo, un cibo diverso dai soliti e, soprattutto, spuntare sorrisi sempre più grandi. Forse col tempo sarebbe riuscita a definirle amiche, ora era ancora presto. Si sfregò le mani. Quali altre sorprese le avrebbe riservato la vita a Eltaria?
 
 
 
NOTA:
i nomi Ana e Mia derivano, a quanto so, dai blog Pro Ana e pro Mia, che danneggiano la salute di chi vi entra dando consigli su come diventare anoressiche o bulimiche. Lo scrivo non per incitare qualcuno, non mi permetterei mai. Nel libro di Dianna De La Garza, la mamma di Demi, ho letto che anche la ragazza frequentava siti sull’anoressia e la bulimia. Non ho idea se fossero dei blog o meno e se già a quell’epoca (2003 circa) queste malattie venissero chiamate Ana e Mia, non credo, ma mi è sembrato interessante usare tali nomi. A volte disturbi del genere si comportano come degli amici, facendo credere a chi ne soffre che ciò che fanno è giusto. L’ho capito in particolare grazie al film La ragazza di porcellana. La protagonista soffriva non ricordo se di anoressia o EDNOS (che sta per non altrimenti specificati), cioè un disturbo in cui sono inclusi pazienti che non soddisfano appieno i criteri con i quali si fa la diagnosi di bulimia o di anoressia, anche se hanno molti punti in comune con essi. In ogni caso, era finita in un blog in cui si praticava il digiuno ed entrava nella spirale della malattia, sentendo la voce di quest’ultima che le parlava, la isolava dagli altri, le faceva capire che era la sua unica amica.

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Capitolo 12
*** Giochi e magia ***


CAPITOLO 12.

 

GIOCHI E MAGIA

 
Il pranzo passò in tranquillità. Dopo una doccia, Demi e la sua famiglia tornarono dagli altri. Lucy e Lune si allontanarono dalle umane che, rimaste con i loro genitori, avevano improvvisato un gioco. A turno, ogni giocatore sceglieva una parola e, disegnando un numero di trattini uguale a quello delle lettere, dava soltanto l’iniziale lasciando che gli altri cercassero di indovinare. La famiglia coinvolse Isla, che scelse la parola incantesimo e fece ridere di cuore tutti i presenti.
"Lucy?" domandò Hope, stranita dalla sua assenza nella cucina di casa.
"È di là che fa i compiti" le spiegò Demi.
La bambina non disse altro, e in parte curiosa, in parte annoiata, Mackenzie la raggiunse. La trovò seduta a studiare in salotto. Leggeva pagine e pagine di appunti, mentre un libro dalla copertina rossa a caratteri dorati restava chiuso.
Mac si avvicinò, la salutò con la mano e Lucy le sorrise.
Cosa studi?
"Niente di difficile, solo Storia della magia" rispose la pixie, tornando a concentrarsi e a sottolineare con una matita le parti più importanti dei suoi appunti.
Le raccontò che era una brava alunna e che eccelleva quando si trattava di preparare pozioni. L'insegnante la lodava di continuo e a lei piaceva così tanto da arrossire anche davanti ai compagni che a volte orgogliosi, altre gelosi di lei, la fissavano con invidia e ammirazione. La bambina non ci badava. A poca distanza, Lune restava sul tappeto. Anche lei faceva i compiti, di una difficoltà adeguata alla sua età. Se Lucy si destreggiava fra Storia della magia e svolgeva vari incantesimi, a lei erano appena concesse prove di volo e levitazione. Tutte magie che praticava con regolarità, anche allora, mentre lavorava su un puzzle. Teneva le manine in alto e muovendo le dita metteva al proprio posto ognuno dei pezzi tramite la magia, concentrando e usando l'energia necessaria. Hope la osservava con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Per qualche minuto Mackenzie non scrisse nulla e restò a guardare Lune come incantata, ma poi un'idea le balenò nella mente. Parlare dei suoi problemi con gli adulti era sempre difficile, però forse provare con un'altra bambina poco più grande di lei sarebbe stato più facile. Tentare non costava niente.
Anch'io dovrei studiare e lunedì tornare a scuola, ma quella che frequento dove vivo è troppo lontana, adesso.
Poche parole atte a spiegare il pizzico di nostalgia di casa che svanì dal suo cuore, libero da quel peso, quando passò il foglio a Lucy.
Lei si fermò a guardarla, e proprio allora ecco che le parve di avere l'idea perfetta. La scuola di magia Penderghast era stata costruita più di un secolo prima, e seppur speciale ma non elitaria, faceva sorridere ogni piccolo studente che leggesse o conoscesse il motto:
Scuola di Arti ed Elementi per fatine e folletti magici e perfetti.
Lucy si diede una manata in fronte.
"Puoi studiare qui!"
Mackenzie non seppe cosa pensare. Non era magica, soltanto umana e, cosa peggiore, non riusciva ancora a parlare. Che sarebbe successo se pixie, elfi, folletti e altri compagni l'avessero scoperta?
No, non posso scrisse appena, con mani tremanti.
"Sì che puoi" le rispose Lucy.
No! Non sono magica, non conosco ancora nessuno, e cosa direbbero i miei genitori?
"Mac, avanti. Smetti di essere così negativa. Andiamo a chiederglielo" propose la fatina della terra per incoraggiarla.
Mackenzie si convinse, e poco prima di prenderle la mano spostò lo sguardo altrove, fissandolo su Hope e Lune che si divertivano con quel puzzle i cui pezzi, trovato il loro posto nella figura che componevano, sembravano animarsi dando vera vita all'immagine sulla scatola. Ridacchiò divertita e, abbassandosi, sollevò la sorella fra le braccia. Faticò, però, perché non aveva di certo la forza della mamma ed era abituata a tenere Hope solo da seduta. Lucy fu vicina a fare lo stesso, ma alzandosi da sola, Lune le prese la mano.
"Fuori? Usciamo?"
"Sì, Lulu, andiamo fuori."
La sorella le strinse forte la manina mentre la accompagnava.
Ma allora sa parlare!
Mackenzie passò a Lucy il foglio.
Lune l’aveva presa in giro. Prima si era presentata scrivendo e ora aveva pronunciato non una, ma addirittura due parole, quando lei non riusciva nemmeno a dire: “Mamma”, “Papà” o “Hope”. Non più, almeno. Come aveva potuto la pixie mentirle in quel modo? E perché gli altri non avevano detto niente? Mise giù Hope e strinse forte i pugni non sapendo né che dire, né che fare. Lucy dovette notare che c’era qualcosa che non andava e forse capì, perché si affrettò a rispondere.
“Fino a poco tempo fa no, non ci riusciva. Ha reagito così dopo un trauma e nessuno ha mai potuto farci niente. Quando avevo sei anni e lei tre io mi sono persa, ho incontrato Kaleia e mia sorella ha smesso di parlare, non ha ricominciato nemmeno quando ho ritrovato tutti loro. Da allora, la mamma l’ha mandata dalle anziane di Primedia. L’hanno aiutata e l’abbiamo fatto anche noi seguendo i loro consigli, ma ci sono voluti mesi affinché sussurrasse prima alcune parole e poi piccole frasi. È passato un anno e ora riesce a parlare un po’ meglio, ma non sempre e comunque fa molta fatica. Infatti sta continuando le lezioni anche qui, tre volte a settimana. Non ti ha detto unabugia.”
Non c’era accusa nel suo tono, si era limitata solo a spiegare.
“Io non d-dico bugie” mormorò Lune e Mackenzie sentì gli occhi pizzicare.
Sembravano brave bambine, come aveva potuto pensare che le avessero mentito?
Mi dispiace, io… non volevo.
“Non preoccuparti, ti perdoniamo” le assicurò Lucy e Lune la abbracciò.
Mackenzie si domandò se, nel momento in cui la psicologa l’avesse ritenuta pronta ad andare da una logopedista, ci avrebbe messo anche lei così tanto, o addirittura di più. Forse sì, dato che non parlava da quando aveva quasi cinque anni.
Staccandosi dalla sorella, Lune tentò di sollevarsi da terra nonostante le piccole ali, e raggiunto l'appendiabiti accanto alla porta, diede a ognuna delle amiche un cappello di paglia. Per sua sfortuna, tutti troppo grandi per loro in quanto appartenuti alla mamma, ma non importava, almeno si sarebbero protette dal sole. Accettando quei regali Hope e Mackenzie abbracciarono le altre bambine, e uscendo finalmente di casa trovarono gli adulti seduti all'ombra di un grande albero nel prato.
 
 
 
Demi e Andrew furono i primi a salutarle e, seppur impegnati a parlare fra loro del più e del meno, anche Isla e Oberon abbracciarono le proprie bambine.
"Signorine! Che fine avevate fatto?" chiese loro la mamma, stranita dalla loro assenza.
"Studiavamo. Lunedì dobbiamo tornare a scuola, e Mac voleva sapere se…"
Lucy si fermò quando l’altra le assestò un affatto offensivo pugno sul braccio, sventolando poi un foglietto di carta.
Mamma, papà, posso andare alla scuola di Lucy? Con tutte le altre fatine?
Andrew e Demi si scambiarono un'occhiata interrogativa, e solo attimi più tardi sorrisero prima a se stessi e poi alla loro bambina.
"Certo, piccola. Tuo padre e io ne saremmo orgogliosi." La ragazza allargò le braccia per accoglierla. Chiese a Isla se sarebbe stato necessario pagare qualcosa o firmare un modulo di iscrizione. “Nel nostro mondo si fa così, anche se negli Stati Uniti la scuola pubblica è gratuita, solo quella privata si paga, ma Mackenzie e Hope non vanno in questo secondo tipo” spiegò.
“Qui si paga, ma voi non dovete.”
Andrew stava per chiedere perché, lui e la fidanzata si guardarono per un attimo aspettando che uno dei due ponesse la domanda, ma poi capirono: quello era un sogno, per i bambini tutto è più semplice e Mackenzie non si soffermava certo su dettagli del genere, quindi nessuno avrebbe fatto pagare loro nulla. Ancora straniti dalla scoperta, i due annuirono in silenzio.
“C’è anche un asilo?” domandò la ragazza.
“Sì,” rispose Oberon, “in un’altra ala dello stesso edificio. Lune ci va, potrà frequentare anche Hope, ne sono sicuro. Comunque è meglio che parliate con la Direttrice, lunedì. Sono umane.”
Mackenzie non capì cosa significava, né lo chiese, troppo contenta per preoccuparsene, ma gli adulti compresero: a causa della razza alla quale appartenevano e del fatto che non erano magiche, c’era la possibilità che non venissero accettate. Dirlo subito alle piccole o farlo dopo aver discusso con la Direttrice? Optarono per la seconda opzione, per non rischiare di agitare Mac e sperarono per il meglio. Si augurarono che il sogno sarebbe durato fino ad allora, altrimenti la bambina, se una volta sveglia l’avesse ricordato, ci sarebbe rimasta male.
Lucy tornò. Era sparita dentro casa per andare a prendere qualcuno dei giocattoli che si era portata, ma non riuscendo a decidere, aveva optato per l'unico da cui non si separava mai. Bionda e sorridente, una bambola di nome Darbie, la sua preferita.
"Allora? Puoi restare?" azzardò, fremendo alla sola idea.
Mackenzie abbassò lo sguardo.
Hanno detto di sì!!!
Soltanto quattro parole seguite da ben tre punti esclamativi, il modo perfetto di esprimere la sua contentezza con carta e penna.
Un ennesimo sorriso spuntò sul volto di Lucy assieme a una speranza dritta nel cuore, stretto in quel momento in una morsa di felicità.
“Prima noi stavamo a Primedia, dove non c’è la scuola, ma Lucy ha imparato da ciò che le insegnavamo io e mio marito” spiegò Isla. “Qui ha potuto, quindi, iniziare il secondo anno essendo in regola.”
Sulla Terra, se un bambino perdeva un anno di scuola, il seguente iniziava da quello che non aveva frequentato, o almeno era così a Los Angeles e, Andrew e Demi ne erano sicuri, anche in altri luoghi, ma se loro dicevano che era tutto a posto allora si fidavano.
Saltellando fra l'erba Hope scivolò su un piccolo sasso e quasi cadde, ritrovandosi a passare la maggior parte del tempo a sollevare il cappello che ancora portava e che con ogni saltello le oscurava la vista. Allontanandosi dagli adulti, Lucy cercò ombra sotto un albero più distante da loro, e incoraggiò le altre bambine a seguirla.
"Ragazze, giochiamo. Prendiamoci!" gridò, agitando le braccia al vento e continuando a incitarle mentre correva.
Le due sorelle si divertirono come matte, tornando dai genitori solo per riposarsi all'ombra di quello stesso albero e approfittarono della calma per un altro gioco.
Più tranquilla di prima, Lucy si concesse qualche attimo per respirare e, se Lune stava già mostrando a Hope come usare la magia muovendo le manine per agitare ben tre ghiande in aria come una perfetta giocoliera, la piccola cercava di imitarla, e pur fallendo in quell'intento immaginò di riuscirci. I genitori non osarono interromperla e Demi si lasciò sfuggire una risata mentre pensava a quanto quelle ghiande sarebbero piaciute al piccolo Bucky. Ora non era con loro e forse era tornato da Chris e Kaleia che, innamorati come sempre, prendevano la vita per quella che era, godendosene ogni giorno.
Intanto, sempre al riparo dal sole ai piedi di quella maestosa quercia, Mac e Lucy erano impegnate in un gioco tutto loro, che riguardava Darbie e i poteri della fatina. Dandole una voce e una personalità, si divertivano a farla parlare e recitare incantesimi, che in pochi istanti diventavano realtà grazie alle capacità di Lucy. A riprova di ciò, la piccola scosse la chioma dell'albero per dar vita a una vera e propria pioggia di verdi foglie sotto la quale anche Darbie, animata dalla magia di Lucy, ballò ridacchiando e divertendosi.
La fatina modificò la propria voce.
“Oh, quanto mi piace danzare come una principessa!”
Lo vedo, Darbie, sei bravissima rispose Mackenzie. Sai fare una piroetta?
“Che domande! Certo.”
La bambola volteggiò grazie ai poteri della bambina.
Sei così brava, Lucy! Credi che potrei fare anch'io qualcosa del genere?
"I miei insegnanti sono bravissimi e io ho imparato da loro, quindi ci scommetto. Vedrai come sarà bello venire a scuola lunedì" la rassicurò l'amica. “Tu sei un anno più piccola di me e non saremo nella stessa classe, ma ci vedremo all’uscita e sono sicura che farai nuove amicizie.”
Mackenzie si fidò di lei e continuò a giocare finché, stanca, non tornò dai genitori, che stavano ancora parlando con quelli di Lucy. Distratte dai loro giochi, non avevano ascoltato ogni cosa, ma erano comunque arrivate al momento giusto.
 
 
 
"Quindi, che lavoro fate? Io sono una casalinga, mentre Oberon ha un lavoro in città. Collabora con i negozi, costruisce sia giocattoli che modellini per gli appassionati. Abbiamo ricavato uno studio da una stanza vuota, per cui lavora da casa."
“Esatto” disse questi. “Molte creature magiche vanno a lavorare là, mentre a volte maschi altre femmine, stanno a casa ad accudire i figli, anche se non sempre è così. Conosco parecchie coppie nelle quali lavorano entrambi.”
"Io sono una cantante da anni. Scrivo e canto canzoni e ho anche iniziato a recitare da bambina."
Demi sorrise e cercò una posizione più comoda fra l'erba che circondava la proprietà di Eliza.
"Che bello! Facci sentire qualcosa" pregò Isla.
Colta dall'imbarazzo Demetria si rifugiò nel silenzio, e cercando la mano di Andrew, ritrovò il coraggio.
"Va bene."
Incrociò le gambe e respirò a fondo.
Non era sicura di potercela fare, più che altro perché stava parlando in italiano e, se non si era sbloccata prima tornando all’inglese, perché avrebbe dovuto accadere ora? In ogni caso, provare non costava nulla. Si augurò solo di non fare una pessima figura. A occhi chiusi, immaginò di essere nel suo solito studio di registrazione a Los Angeles con Isla, Oberon, Eliza, Andrew e le quattro bambine come suo pubblico. Le ci volle qualche secondo per decidere quale fra i tanti brani far ascoltare, e appena pronta iniziò a cantare.
Skies are crying, I am watching
Catching teardrops in my hands
Only silence, as it's ending
Like we never had a chance
Do you have to make me feel like
There's nothing left of me?
 
You can take everything I have
You can break everything I am
Like I'm made of glass
Like I'm made of paper
Go on and try to tear me down
I will be rising from the ground
Like a skyscraper, like a skyscraper
 
As the smoke clears
I awaken and untangle you from me
Would it make you feel better to watch me while I bleed?
All my windows still are broken but I'm standing on my feet
[…]
Ci sono riuscita! Ho cantato in inglese.
Fu meraviglioso essere di nuovo capace di parlare la sua lingua e, per un momento, rimase immobile con gli occhi sbarrati, notando che Andrew e Mackenzie facevano lo stesso. Nessuno degli altri, però, si era accorto di qualcosa.
“Chissà se ne sarei in grado anch’io” si dissero padre e figlia.
L’uomo, però, non tentò perché, oltre al fatto che non avrebbe saputo cosa cantare, non si riteneva di certo bravo come la fidanzata e temeva di fare una brutta figura e Mackenzie, che non poteva parlare, si limitò a sognare di riuscirci mentre la coglieva un vago senso di tristezza.
Demi si domandò cosa sarebbe successo. Come avrebbe parlato, ora che era riuscita a cantare nella sua lingua madre? Come tanti altri, anche Skyscraper era un testo dalle parole forti, che aveva scelto per una ragione precisa: raccontare i propri problemi senza il desiderio di urlare o di piangere come spesso accadeva quando qualcuno le chiedeva di farlo, anche se con gentilezza. Era inutile, più forte di lei, si bloccava e non riusciva, ma non quando cantava. Allora era diverso, in particolar modo se tutti i suoi sentimenti e le proprie frustrazioni venivano riversati nei testi. Skyscraper era una canzone importante, che parlava tanto di dolore quanto della voglia di resistergli ed essere se stessi nonostante tutto, nonostante ogni sfida nel corso della propria vita. Non era sicura che gli altri avessero capito le parole essendo queste in un'altra lingua, per cui tradusse. A giudicare dagli sguardi velati dalle lacrime di ognuno di loro dopo la fine dell'ultima strofa, quando riaprì gli occhi ne fu certa: li aveva colpiti.
"Demi… è s-stato…" balbettò Isla.
"Da togliere il respiro, quasi ci siamo dimenticati di prendere aria" finì per lei il marito, cingendole un braccio attorno alle spalle per darle sicurezza.
“Hai la voce di un angelo, si percepiva tutto il tuo dolore. Perché era personale, vero, cara?” le domandò la madre di Lucy e Lune con dolcezza.
“Sì. Ho avuto qualche problema e con questa canzone mi sono data forza, alzata come un grattacielo. Grazie per il complimento, ma esageri.”
“Ti assicuro di no.”
“Non me l’avevano mai detto, comunque.”
Ecco, ho parlato di nuovo in italiano.
Quindi, per qualche arcano motivo, la sua testa riusciva a saltare dall’una all’altra lingua solo durante il canto.
"Non ce l'aspettavamo, sei bravissima" le disse Lucy, sorridendole e sollevando una mano come per farsi battere il cinque.
Demi le concesse quel piccolo azzardo.
Andrew attese il suo turno di parlare, ma la dolce voce di Lune lo ridestò dai suoi pensieri.
"Tu che l-lavoro fai?" chiese soltanto, fermandosi a guardarlo con i suoi occhioni scuri.
"Lunie, io…" esitò, non sapendo come spiegarsi. "Io aiuto le persone che hanno problemi, sai? Così non passano troppo tempo lontane dalla loro famiglia. Sono un avvocato, capisci? Avvocato" scandì piano, assicurandosi di usare termini comprensibili a una bambina e scandendo bene l'ultimo perché lo comprendesse.
"Avo-avocado" replicò lei, sbagliando con tenera convinzione.
Gli adulti risero, ma sicura di sé la piccola non pianse, né ci rimase male. Non era la prima volta che commetteva un errore, poteva capitare, e poi le piaceva far ridere le persone, specialmente la sua famiglia.
"Sceglierlo come carriera è stato un gesto nobile da parte tua, Andrew" gli rispose Oberon, impressionato.
"Ti ringrazio."
Non ne aveva mai parlato, ma era orgoglioso di se stesso. Aveva scelto quel lavoro perché sin da bambino non aveva mai sopportato le ingiustizie. Sapere che ci fosse sempre più di un modo di rendere il mondo un posto migliore gli dava speranza con ogni nuovo caso che si trovava ad affrontare. Certo, non sempre le cose andavano bene. In un divorzio in cui i genitori non si trovavano d’accordo su nulla erano i figli ad andarci di mezzo e a soffrire, ma lui si adoperava per fare del suo meglio.
Di lì a poco l'assolato pomeriggio sfumò nel tetro imbrunire. Ancora una volta annoiate dal chiacchiericcio degli adulti, le bambine iniziarono ad allontanarsi per giocare insieme. Il buio si stava avvicinando, ma era ancora presto e, per loro fortuna, gli umani erano abituati a liberare in cielo colorate lanterne di carta le cui luci si accendevano e spegnevano prima di stabilizzarsi, ragion per cui anche l'oscurità più profonda non le avrebbe spaventate.
“Spettacolo suggestivo” commentò Andrew indicandole.
Oberon annuì e spiegò che erano prodotte dagli umani di Eltaria, cioè dalla famiglia di Christopher, e da quelli di Primedia.
“Inoltre, sono di carta per rappresentare la fragilità dei desideri dell’uomo” concluse.
“Fragilità in che senso? Una persona può anche desiderare qualcosa con fervore, per esempio” osservò Demi.
“Nel senso che non è detto che si avverino.”
Vedendo che le bambine se ne andavano, Isla le richiamò.
"Che fate, vi allontanate ancora? Perché non giocare insieme?"
E come? scrisse Mackenzie, incuriosita.
"In questo modo!"
Rise di cuore e la sollevò senza darle neanche il tempo di pensare.
Mac lanciò un urlo quando la terra si allontanò dai suoi piedi, strinse con forza le braccia attorno a Isla e cercò di calmarsi. In fondo non era nulla di pericoloso. La fata volava veloce, il vento pareva strappare il respiro a Mackenzie sbattendole addosso con veemenza, ma la bambina sospirò e si abbandonò contro la spalla della fata.
“Hai nausea? Ti viene da vomitare?” le domandò quest’ultima, che immaginava potesse capitare nella situazione della bambina.
Lei negò.
Non aveva più paura adesso che il volo si era fatto regolare, non voleva scendere, solo divertirsi. Increspò le labbra in un largo sorriso, e ormai lontana dalle figlie e dal resto della famiglia di umani, la fata fu costretta ad alzare la voce.
"Lucy, prendi Hope e vieni! La serata è fantastica!"
Mentre volava, disegnava con ogni battito d'ali mille figure nel cielo ormai tinto di nero.
In breve anche la piccola Hope riuscì a provare quell'esperienza, spaventandosi all’inizio, ma subito dopo dondolandosi fra le braccia della pixie e riempiendo l'aria notturna della sua risata cristallina.
"Volo! Volo!" ripeté più volte, contentissima.
Nonostante non capisse che le stava accadendo né vedesse più la mamma e il papà, la cosa non la toccava. Non sentiva nemmeno freddo, anche se l’aria lo era a quell’altezza. Volare era divertente e le lanterne, tutte colorate, le ricordarono le lucciole già viste in precedenza che quella sera si unirono a loro, danzando e spargendo mille luci nel cielo. Quando anche quel gioco ebbe fine, fate e umane tornarono con i piedi per terra. Di nuovo vicine ai genitori, le bambine si armarono di torce elettriche e meraviglia infantile, facendo anche scorta di pazienza.
"Fragole" propose Lune, dolcissima.
"Vuoi le fragole? Va bene, Lunie, ma dovrai trovarle, e sai cosa? Ti sfido" le rispose la sorella, stringendo in mano la propria torcia.
Le piccole si fecero dare da Eliza una scatola di media grandezza a testa per raccoglierle, poi corsero via.
Gli adulti non tardarono a seguirle e, sempre vicine, le due coppie si sostennero a vicenda. In un istante, le loro figlie erano già sparite.
"Oberon, credi che le ritroveremo?" azzardò Isla, non volendo neanche pensare alla seconda delle eventualità.
"Certo, cara. Non possono essere lontane" la rassicurò il marito, tenendole la mano mentre camminava al suo fianco.
Al contrario di loro, Demi e Andrew non ebbero paura. Era buio pesto, ma le piccole avevano ognuna una propria torcia, e abituata a seguire il padre in giro per i boschi dal giorno in cui erano stati catapultati in quei luoghi, Mackenzie non avrebbe avuto problemi. In fin dei conti, tutto partiva dalla sua mente e ogni cosa sarebbe andata per il meglio.
Passarono così prima dieci, poi venti minuti, e fu allora che i quattro le trovarono. Grazie al cielo tutte insieme e intere, impegnate a cercare e mangiare fragole dividendone qualcuna con un nuovo amico peloso. Simile a un lupacchiotto, con il pelo nero a focature color sabbia e una sorta di adorabile sorriso perennemente stampato sul muso.
"Ma tu guarda chi ha deciso di farsi rivedere!" esclamò Oberon, tutt'altro che sorpreso.
"Carino! Chi sarebbe?" domandò Demi, intenerita ma confusa dalla vista di quello strano animaletto.
"Solo Rover, cara, l'Arylu delle mie figlie" si apprestò a spiegare il folletto.
"Arylu? E che accidenti è?" non poté evitare di chiedere Andrew, che fra i due era ancora il più scettico.
"Quello che vedi. Un cagnolino" continuò Oberon, vantando una calma che l’avvocato avrebbe potuto definire mostruosa.
"Esistono anche sulla Terra e alcuni somigliano a questo, ma lui cos'ha di speciale?"
"Molto, Demetria. Su, prova a chiamarlo e chiedergli di sedersi, avanti."
"Okay. Uhm… Rover?" Il cucciolo si voltò verso di lei. "Vieni, bello" titubò la ragazza, impacciata.
Con ogni passo del cagnetto verso di lei la terra tremò, forse complici le emozioni dell'animaletto. Quando si sedette di fronte a Demi, il terreno che sfiorò con le zampe divenne all'istante un cumulo di terra, da cui Rover osservò tutti con fare ingenuo, come dalla sommità di un piedistallo. La cantante rimase a bocca aperta.
“È pazzesco!” Dopo una breve pausa riprese: “Quindi l’ha fatto usando il suo potere, che immagino sia quello della terra.”
“Esatto, lo stesso di Lucy” rispose Isla.
“Anche Kaleia ha un Arylu, si chiama Cosmo” spiegò la maggiore delle sorelle. “È nero a focature azzurre.”
Alla cantante quel nome non piaceva, ma tenne tale pensiero per sé e rimase alquanto stranita dal fatto che un cane potesse avere l’azzurro come uno dei colori del suo pelo. Si trovava in un mondo fantasy e nulla avrebbe dovuto più stupirla, ma fu inevitabile.
“Davvero? Spero che lo conosceremo presto, allora” commentò.
Adorava i cani e sorrideva ogni volta che ne accarezzava uno.
“Lo incontrerai nei prossimi giorni, spero” le rispose Isla e abbassò la voce perché le bambine non sentissero. “Non so se dovrei dirtelo io o lasciare che te ne parlino loro, ma suppongo non ci siano problemi. Lei e Christopher mi hanno raccontato di averlo trovato nei boschi quando aveva circa due mesi, ora ne ha sei. Sua madre era morta. Le ninfe hanno tentato di salvarla con la magia, ma non ci sono riuscite, e quando la fata e suo marito l’hanno incontrato piangeva e cercava di svegliarla.”
A Demi si inumidirono gli occhi: certo, gli animali vivono il dolore in modo diverso rispetto agli umani, ma quel piccolo doveva essersi sentito solo e perso senza la mamma.
“Povero cucciolo” commentò Andrew, dispiaciuto. “Sarebbe morto se non li avesse trovati.”
“Probabilmente sì” mormorò la fata.
“Per fortuna non è successo e ora sta bene ed è felice con la sua nuova famiglia!”
Con quel commento Demi provò a tirare su il morale a tutti e ci riuscì, perché sorrisero.
Dopo aver raccolto le fragole, le portarono a Eliza. La donna preparò assieme a loro la marmellata. Il procedimento non fu lungo e ognuno di loro ebbe un ruolo. Quella sera, tutti mangiarono panini e la marmellata li conquistò con la sua consistenza vellutata.
Giunta l'ora di dormire, ognuno prese sonno serenamente sognando il proprio avvenire. Nonostante si trovassero in un mondo creato da un sogno di Mackenzie, i suoi genitori erano ancora disorientati, ma speravano che, almeno lì, il loro futuro sarebbe stato sereno.
Non voglio che succeda niente di brutto pensò Mac nel dormiveglia.
Sperava che la sua mente avrebbe registrato quel pensiero e che sarebbe riuscita a indirizzare il sogno verso una strada priva di difficoltà, anche se nel suo cuore sapeva che, probabilmente, non sarebbe sempre stato così.
 
 
 
CREDITS:
Demi Lovato, Skyscraper

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Capitolo 13
*** Comunità e calore ***


CAPITOLO 13.


 

COMUNITÀ E CALORE

 
Dopo essersi alzati e lavati, Demi e Andrew stavano rifacendo i letti.
Mackenzie prese la parola, riportandoli alla realtà.
Sai mamma, è strano non fare più brutti sogni. Le spiegò che in parte la rilassava il fatto di non svegliarsi nel bel mezzo della notte o del pomeriggio sudata e in lacrime a causa di uno di quegli incubi orribili, ma d’altro canto stava capitando qualcosa che non rispettava quella che per lei era la normalità. Non ho più nemmeno flashback, niente di niente, non gioco più in quel modo ripetitivo, né mi viene da disegnare la mia vecchia casa. È tutto diverso qui, più semplice, mi fa emozionare.
Non si chiudeva più in camera sua con alcuni peluche, li metteva per terra e fingeva che uno ne uccidesse due davanti agli altri due che rimanevano. Anche quello era un sintomo del disturbo post traumatico da stress: ripetere ciò che rammentava il trauma attraverso il gioco. Ma lì non capitava. E non riviveva l’omicidio tramite improvvise immagini mentali come se tutto stesse accadendo in quel momento, una delle cose più spaventose che le fossero mai capitate.
Un pomeriggio di qualche tempo prima stava parlando con la psicologa delle poche cose che ricordava, quando a un certo punto aveva udito i due spari e poi le urla agghiaccianti di sua madre. Sapeva che era accaduto qualcos’altro, ma non era riuscita a ricordarlo e, estraniandosi dalla realtà, le era parso di trovarsi ancora nella sua casa, con i genitori ancora vivi, ma immersi in una pozza di sangue.
Sangue, aveva scritto, c’è tanto sangue per terra! Quanto sangue! Ce n'è dappertutto. La mia mamma piange, urla.
Non aveva più sentito la psicologa che aveva cercato di calmarla, di dirle che nessuno le avrebbe fatto del male, seguitando a vedere e rivedere i genitori con una ferita sul petto, mentre quel liquido rosso si era spanto sul pavimento a una velocità impressionante e lei era rimasta a bocca aperta, non riuscendo nemmeno a gridare, con Hope fra le braccia che aveva continuato a piangere disperata. La mamma le aveva chiesto di metterle un cuscino sotto la testa e lei aveva obbedito, sperando che i genitori si riprendessero, ma quando ne aveva chiesto conferma alla madre e lei aveva balbettato, si era resa conto che non sarebbe stato così, che stavano per morire.
Non sopportò più il dolore che quei ricordi le provocavano. Fu scossa da un violento tremore ritornando al presente. La mamma dovette notare la sua agitazione, perché le si avvicinò.
“Amore, va tutto bene. Ci siamo io, papà e Hope qui con te, sei a Eltaria e al sicuro.”
Le parlava in modo dolce, accarezzandole il collo e i capelli. Quei gesti la rilassarono, mentre prendeva respiri profondi come la mamma le suggeriva. Il papà le portò un bicchier d’acqua e, dopo aver bevuto, si sentì più tranquilla.
“Per fortuna non ha avuto una crisi” mormorò suo padre affinché lei non sentisse, ma aveva udito e sì, si ritenne fortunata.
Grazie al cielo, anche se il suo sogno per un po’ era stato brutto, non si era trasformato in un incubo.
Non avrei voluto ricordare anche qui.
“Lo so, piccola, ma non possiamo controllare la nostra mente nemmeno nei sogni. Ne vuoi parlare? Potrebbe farti bene.”
È stato orribile, mamma, orribile! Si asciugò le guance rigate di lacrime. Loro erano ancora vivi, ma stavano morendo davanti a me.
Pianse per qualche minuto, immergendosi del tutto nel proprio dolore e dimenticando la bellezza di quel sogno. Era frutto della sua mente, ma ciò non significava che non ci sarebbero stati brutti momenti come quello. I genitori le rimasero accanto asciugandole gli occhi.
“Sei stata forte anche stavolta, piccola, e sono sicura che loro siano orgogliosi di te” le mormorò Demi all’orecchio.
“Non possiamo immaginare quello che hai passato, ma siamo qui, non ti lasceremo mai sola” le assicurò il papà. “Starai meglio, vedrai.”
Tirando su col naso, Mackenzie fu invasa da un senso di sollievo, simile a quello che aveva provato quando si era resa conto che avrebbero ritrovato Hope.
Grazie rispose. Mi sento un po’ meglio, possiamo andare.
Sorrise, anche se si trattò di un’espressione tirata.
“Immagino che il fatto di non avere più incubi o altro sia un’esperienza particolare, tesoro” mormorò la mamma. “A volte stai male, come hai visto, ma poi riesci a rialzarti, è questo che conta. Devi vivere il dolore, è giusto che sia così, ma sono sicura che riuscirai ad affrontare qualsiasi cosa.”
Parole forse un po’ difficili per una bambina della sua età, ma Mackenzie annuì.
“Siamo contenti che qui tu stia bene” riprese Andrew. “Cerca di goderti questi momenti più che puoi, però, non pensare a cosa non succede, ma a quello che invece capita, a quanto ti stai divertendo, alle bambine che hai conosciuto e alle cose di questo mondo che stai scoprendo. Capisco che sia strano, ma è positivo che tu non faccia brutti sogni. “Devi vederlo come un buon segnale.”
Non ero così felice da anni confessò la piccola con un sorriso enorme, stavolta sincero, che sembrò illuminare la stanza ed espandersi per tutto il bosco, dandole la sensazione che il peso che aveva sul cuore si alleggerisse.
I genitori la abbracciarono, commossi, con il cuore leggero. Vedere il proprio figlio sereno o felice è la cosa più bella. Mackenzie si meritava pace e sollievo.
 
 
 
Dopo che tutti ebbero mangiato, Eliza chiese a Demi e ad Andrew se sarebbe piaciuto loro fare un giro all'emporio. Era una giornata di sole e i due accettarono di buon grado, non volendo perdersi nessuna delle esperienze che avrebbero vissuto in quel mondo.
"Dove andae?" chiese Hope quando la famiglia si diresse in camera a vestirsi.
Demi le stava facendo indossare un abitino azzurro a fiorellini rosa.
"In un posto in cui ci sono tanti negozi e si possono comprare delle cose" le spiegò, dato che la parola emporio sarebbe stata incomprensibile per una bambina della sua età.
Non vedo l'ora di scoprire cosa c'è di bello! commentò Mackenzie, indossando una semplice e corta tuta da ginnastica blu e un paio di sandali.
Anche gli adulti erano incuriositi, di sicuro non avrebbero visitato dei negozi normali come quelli che c'erano a Los Angeles. Indossarono un paio di tute, nulla di troppo elegante, ma Andrew si mise il gel sui capelli e Demi li raccolse in due trecce.
Quando furono pronti a partire Eliza disse che quel giorno le figlie, Christopher e Noah non sarebbero venuti, ma di non preoccuparsi, non era successo niente e li avrebbero rivisti di sicuro il lunedì. Una volta in cammino verso la piazza al centro del villaggio, i cinque incontrarono la famiglia Hall. Isla salutò Demi e, pur non conoscendola ancora un granché, la abbracciò.
"Non ho dimenticato la tua canzone di ieri" le sussurrò all'orecchio. "Hai una voce stupenda, mi farai sentire qualcos'altro più tardi?"
"Se mi hai apprezzata così tanto, certo" le rispose l'altra, sorridendo.
La donna indossava un paio di pantaloncini leggermente attillati, che mettevano in risalto le sue gambe magre, e una maglietta a maniche corte. Alzò un braccio per proteggersi dal sole e Demi udì un lieve tintinnio. Un braccialetto d’argento andava su e giù e rifletteva la luce. La ragazza si complimentò per quel gioiello e Isla la ringraziò.
“Tu non ne porti?”
“Alle feste o in occasioni importanti come i concerti, ma per il resto mi darebbero solo fastidio.”
Quando la fata chiese a lei e al suo ragazzo il perché di quelle maglie lunghe, usarono la stessa bugia.
Ti prego, Signore, fa’ che non dobbiamo ripeterlo cento volte! pensò la ragazza.
Perché Isla non aveva detto nulla il giorno precedente? Forse non aveva trovato il momento giusto, ma non importava.
“Freddolosi a maggio? Conosco una fata che è come voi” ridacchiò quest’ultima.
Andrew e Oberon si salutarono e quest'ultimo, più espansivo, gli batté un pugno scherzoso su una spalla, sperando di non avergli dato l'impressione di voler affrettare un'amicizia non ancora nata. Il primo, però, accolse quel gesto con un sorriso e ricambiò, così l'altro poté rilassarsi.
"Tutto bene?" gli chiese. "Come vi trovate qui?"
"Benissimo, ci avete accolti e ci sentiamo, in un certo senso, a casa."
"Ne sono felice."
Le bambine si strinsero in un abbraccio di gruppo. Mackenzie disse a Lucy e Lune che il rosso delle loro gonne donava a entrambe.
“Grazie” risposero all’unisono.
Ma vi vestite sempre uguali?
“No.”
L’avevano detto ancora una volta insieme e la bambina scoppiò a ridere.
Quando Isla li informò che anche loro stavano andando all'emporio, si misero tutti in cammino. Impiegarono pochi minuti ad arrivare in piazza. Lì c’erano pixie, fate, folletti, ninfe e satiri da ogni parte. L'emporio era enorme, tanto che Andrew, Demi e le bambine non sapevano nemmeno da dove cominciare. Data tutta quella gente che camminava, parlava, entrava e usciva dai negozi con borse stracolme, e soprattutto visto l'alto numero di creature magiche alle quali loro non erano abituati, i quattro si sentivano disorientati e a Demi girava la testa. Isla dovette capirlo perché disse:
"Venite, entriamo in un negozio dove c'è poca gente. Avete solo bisogno di un po' di tranquillità."
"Bambine, non allontanatevi" raccomandò Andrew alle figlie, non volendo perderle in quel marasma.
Hope, che stringeva la mano della mamma, gliela lasciò. Demi respirava con affanno e per questo la piccola aveva la sensazione che qualcosa non andasse. Il suo compagno l'aveva capito e voleva lasciarla libera di ritrovare la calma. Demetria lo ringraziò con lo sguardo. Le sue figlie, le altre bambine, Eliza e il resto degli adulti vennero trascinati via dalla folla. Mackenzie e Hope erano lontane, troppo lontane. Avrebbe perduto tutti. Non doveva andare così. La testa le vorticò più forte. Non sarebbe più riuscita a trovare la strada di casa con tutta quella confusione attorno, abitava lì da troppo poco per aver già memorizzato il percorso. Qualcosa premette sul suo petto, un macigno immaginario che si mescolò agli spintoni involontari della gente che la sballottavano di qua e di là e tutto ciò fece male. Una bolla di nausea le invase lo stomaco e la bile le salì in gola, mentre la bocca le si riempiva di un sapore acido. Dovette fare uno sforzo immane per non sputare a terra, maledicendosi per non avere con sé un fazzoletto. Davanti a lei, una donna corpulenta rimaneva immobile mentre parlava con un signore. Non si sarebbe mai comportata così, né lì né sulla Terra, nei confronti di una sconosciuta e si vergognò, ma allungò le mani e le appoggiò appena alla schiena della donna, che sembrava non essersi accorta di nulla. La ragazza aveva bisogno di un sostegno, o sarebbe precipitata al suolo. Restò lì solo per qualche secondo, però, sperando di recuperare fiato, cosa che non avvenne. La nausea diminuì. Non avrebbe mai voluto che quella signora pensasse che desiderava rubarle dei soldi dalla borsa che le penzolava da una spalla. Si scostò di scatto, sbattendo la schiena contro qualcuno.
"Stia attenta!" sbottò una voce maschile.
Demi si girò e incontrò lo sguardo infastidito di un folletto.
"Mi scusi" riuscì a mormorare, con un filo di voce, prima che l'altro se ne andasse senza nemmeno risponderle.
Con il fiato corto, grondante sudore e temendo che presto avrebbe avuto un attacco di panico, cosa che non le succedeva da tempo, Demetria si slanciò in avanti. Prese a correre spinta da una forza che non credeva di possedere, sbatté contro la gente ricevendo esclamazioni infastidite, ma non si scusò, non ne aveva la forza. Proseguì fino a vedere Isla e a prenderla, con una certa irruenza, sottobraccio.
“Scu-scusami” balbettò, con la gola secca.
“Ti eri persa?”
“Sì” mormorò e le parlò a fatica delle sensazioni che aveva provato.
“Oh, tesoro, tranquilla. Non mi ero resa conto fossi rimasta indietro, perdonami. Tieniti a me, d’accordo? Andremo insieme.”
La voce vellutata della donna fu capace di tranquillizzarla.
Andrew e gli altri si girarono udendo quella frase sopra la confusione.
“Demi, ti senti bene?” le domandò il fidanzato. “Perdonami, non mi ero accorto.”
“Non preoccupatevi, ora va meglio” rispose la ragazza, che non voleva alimentare in ognuno inutili sensi di colpa.
Los Angeles era molto popolata, perciò Demi non aveva problemi a camminare in mezzo alla folla per le strade o nei centri commerciali, ma in un posto che non conosceva il panico aveva rischiato di prendere il sopravvento. Isla tirò fuori dalla borsa una bottiglietta d’acqua.
“È mia, ma bevi pure. Ti farà bene” aggiunse, vedendo che la cantante aveva aperto la bocca, forse per rifiutare.
Dopo qualche sorso e altri respiri profondi, si calmò ancor di più e riprese a camminare. Per fortuna il tragitto fu più breve di quanto si sarebbe aspettata, ma continuò a stritolare la fata come se fosse stata l'unica sua ancora di salvezza.
Quando il campanello della porta del negozio tintinnò e tutti furono dentro, Demetria tirò un sospiro di sollievo così lungo che le parve di non aver respirato per ore intere.
"Grazie" sussurrò, la voce incrinata da una lieve nota di panico ancora presente.
"Figurati. Ora rilassati e guardati intorno, d'accordo? È normale spaventarsi con così tante creature che non conosci, ma ti assicuro che non ti faranno niente."
"Mamma, c’è uno scettro come il mio!" Lucy indicò alcune scatole su uno scaffale alla loro destra. “Anzi, è ancora più bello di quello che ho.”
In particolare puntava il dito verso una di esse, che sopra era trasparente e lasciava vedere al suo interno vari scettri di colore azzurro con dei rubini in cima.
"Quelli sono…" Andrew restò senza fiato come la fidanzata.
Sono pietre preziose, mamma? chiese Mackenzie, ammirandone il colore rosso che splendeva anche grazie alla luce del sole.
"Sì, si chiamano rubini."
Sono bellissimi!
"Il mio scettro ne ha uno" disse orgogliosa Lucy, come se gli altri non l'avessero già capito dal suo precedente commento.
Me lo fai vedere, per favore? domandò Mackenzie, sempre più incuriosita.
"Sì, ma quando saremo a casa di Eliza."
Okay.
Sul medesimo scaffale e quelli intorno c'erano altri scettri di tanti colori diversi. Il negozio vendeva pozioni contenute in alcune boccette sopra alti scaffali e in varie scatole, anche queste di colori differenti.
"Gli scettri vengono dati alle fate o alle pixie a un'età specifica?" volle sapere Demi.
"Non c'è una regola, possono averlo come no. È un supporto in più, diciamo" spiegò Oberon.
"Io l'ho avuto il giorno del mio settimo compleanno, sai?" proseguì ancora Lucy.
"Che bel regalo!" esclamò Demi accarezzandole i capelli.
Quella bambina le piaceva, era chiacchierona, ma non dava fastidio e anzi, la sua allegria contagiava tutti. Chissà se anche Hope, crescendo, sarebbe diventata come lei. Mackenzie avrebbe mai ripreso a parlare? Come sarebbe stata la sua voce?
Sarà una bambina silenziosa o logorroica?
Sperava di sentir parlare la piccola, un giorno, ma sarebbe stato necessario un lavoro di anni con una logopedista e adesso Mackenzie, che non aveva ancora superato un trauma che, comunque, non si sarebbe mai lasciata del tutto alle spalle, non era pronta ad affrontare un percorso logopedico, gliel’aveva spiegato la psicologa. Catherine credeva che Mackenzie non sarebbe riuscita a gestire una terapia per trattare i propri problemi e capire ciò che provava e anche il fatto di ricominciare a parlare. Tutto ciò le avrebbe messo troppa pressione addosso. L'importante era che riprendesse a stare bene, che il suo futuro fosse sereno, si disse la ragazza, ma la mancanza della parola era comunque un problema.
"Benvenuti nel negozio di Beatrice, ma potete chiamarmi Bea."
Si fece avanti una donna in carne, con i capelli di un biondo scuro misto al rosso delle fragole e gli occhi color miele.
"Grazie" rispose Andrew.
"Conosco Eliza e gli Hall, ma voi? Siete stranieri?"
Non lo disse né con disprezzo né con paura e ciò fece sentire sollevati tutti quanti.
"Sì, siamo arrivati da poco" le spiegò Demi.
"Capisco. Come posso aiutarvi?"
"Stavamo solo dando un’occhiata," riprese l'uomo, "ma nel caso avessimo bisogno le chiederemo."
"Venite, vi mostro delle cose."
Per cortesia la seguirono, ma tutti ebbero la sensazione che volesse vendere ai Lovato qualcosa a ogni costo. Li portò nel retro del negozio dove mostrò loro varie boccette con pozioni di diversi colori e altri oggetti legati alla stregoneria. In particolare, si soffermò su alcuni cristalli che sembravano risplendere di luce propria.
"Ma sono bellissimi" mormorò Demi, incantata.
"Vero? Ed estremamente delicati, ma vi assicuro che vale la pena possederli. Se metterete uno di questi nella vostra casa come soprammobile, la renderà più accogliente."
"Mille rubli di luna?" chiese Andrew leggendo il prezzo.
Non sapeva se avessero lo stesso valore dei dollari, ma supponendo di sì si disse che era parecchio e altri superavano addirittura i tremila.
"A volte la bellezza ha un alto costo, signore" rispose la venditrice.
"A parte il fatto che non abbiamo i soldi che si usano qui, non compriamo mai cose così costose" precisò Demetria.
Nonostante la sua ricchezza, cercava sempre di non eccedere.
"Oh, ma posso darvene uno gratis se la prossima volta acquisterete qualcosa qui" provò la donna, disposta a tutto pur di vendere un prodotto anche in seguito.
"Bea, credo che i miei ospiti abbiano detto di no" intervenne Eliza con voce ferma.
Non avrebbe voluto trattarla male e si era posta in modo gentile, ma quando ci voleva ci voleva.
"Okay, scusate" rispose solo questa e se ne andò con lo sguardo basso.
Perlomeno non aveva insistito troppo.
Visitarono un negozio di vestiti. Demi avrebbe voluto comprare qualcosa per lei e le figlie e anche Andrew sarebbe stato felice di avere degli abiti suoi, ma non avevano soldi e non osavano chiedere. Isla, però, se ne accorse e li convinse che avrebbe pagato tutto senza alcun problema, lottando contro i loro cortesi rifiuti. Alla fine, la cantante scelse qualche tuta da ginnastica con pantaloncini e maglietta corti, alcune maglie lunghe, prese vestiti simili anche per le figlie, diverse paia di scarpe, ciabatte e sandali per tutte e tre, un paio di giacche leggere a testa nel caso avesse fatto più fresco, intimo, pannolini per Hope e una gonna per lei. Andrew optò per un paio di tute e dei sandali. Provare tutto e cercare gli abiti giusti portò via loro tempo, ma alla fine uscirono con tre borse piene di acquisti e ringraziarono Isla.
Il terzo negozio era una libreria piena di libri di magia: manuali di incantesimi, enciclopedie e romanzi con fate, streghe, ninfe e altre creature che raccontavano le loro avventure amorose, d'azione o di altri generi. Demi si avvicinò a uno scaffale e prese in mano un volume dalla copertina gialla, di circa settecento pagine e ben messo.
"Vediamo. Il suono dell'amore, di Wren Doyle. Mmm, interessante."
Di solito si diceva Il calore dell’amore, ma non l’aveva mai sentito accostato alla parola suono. La trama narrava la storia di una fata che, dopo varie difficoltà legate ad alcuni problemi della sua famiglia, conosceva un folletto e se ne innamorava. Lui ricambiava e a quanto pareva la storia d'amore si costruiva lentamente, non come accade in certi romanzi o in alcune fanfiction nelle quali i due stanno insieme dopo una settimana o un mese dal momento in cui si sono incontrati la prima volta, ridicoli secondo Demi. Ma le difficoltà non erano finite per i due, perché la fata scopriva di essere incinta. E la trama si interrompeva, con qualche frase vaga. La ragazza avrebbe tanto voluto leggerlo. Poteva apparire una storia cliché dato il riassunto, ma secondo lei non lo era affatto.
"Ti interessa?" le chiese Isla.
"Sì, parecchio."
"Io l'ho letto, è ben scritto e pieno di colpi di scena, non prosegue con troppa lentezza e si sofferma sulla psicologia e le emozioni dei personaggi. Ci sono anche quattro seguiti, te li consiglio. Eccoli qui. La saga è già completa."
Anche La musica dei nostri cuori, il secondo libro, era un bel titolo e i seguenti le piacquero perfino di più.
"Vorrei tanto prenderli" confessò.
Non aveva mai letto una saga intera se il primo libro non l’aveva catturata, ma quella volta una sorta di sesto senso le suggerì che poteva fidarsi delle parole della fata.
"Se vuoi te li posso comprare io" si offrì questa con un gran sorriso.
"No, no! Non voglio che tu spenda ancora per me. Ci hai già preso i vestiti e poi costano troppo. Cioè, non… insomma, sei gentile, ma mi imbarazza che tu voglia regalarmeli perché non ho soldi."
"Non è di certo colpa tua, cara. Dai, coraggio. Vedilo come un dono di conoscenza. Non siamo ancora amiche, è troppo presto."
L'altra annuì: non poteva che concordare, ma Isla le stava simpatica e non escludeva che un giorno sarebbero potute diventare amiche.
"D'accordo" si arrese infine.
Lì costava tutto meno rispetto al suo mondo, anche i vestiti che, seppur di buonissima qualità, avevano un prezzo ridicolo. E così, poco dopo aveva anche una borsa con cinque libri sottobraccio. Intanto Mackenzie e Hope avevano preso, grazie a Eliza, alcuni libri per bambini, la prima di favole e la seconda di disegni da colorare.
Andrew, che non avrebbe saputo come ricambiare la loro gentilezza, le ringraziò.
"Figuratevi, l'abbiamo fatto col cuore" rispose Eliza.
“Cosa sono quelle?”
Demi stava indicando delle lanterne di ceramica appoggiate su uno scaffale.
“Ciò che sembrano, credo” le rispose il fidanzato.
“No, non esattamente.” Era stata Isla a prendere la parola. “Sono quel che pensate, ma servono per i neonati. Quando vengono alla luce, pixie e folletti sono piccoli come lucciole e i genitori li mettono, con molta delicatezza, dentro queste lanterne che li proteggono e li tengono caldi con la loro luce. Solo mamma e papà possono aprirle, ed è verso i due mesi che i piccoli hanno una sorta di picco di crescita e diventano grandi come bambini umani della loro età.”
Demi, Andrew e Mackenzie guardarono Isla con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Sì, quello era un mondo magico, ma c’erano sempre più diversità rispetto al loro che li sorprendevano ogni volta, alle quali ancora faticavano a credere.
“Che cosa particolare” commentò Demetria, che doveva ancora realizzare del tutto.
Domandò quale fosse la differenza tra fata e pixie. Aveva sentito pronunciare entrambe le parole in quei giorni, ma a quanto ne sapeva un pixie era una sorta di folletto e, da stupida, non aveva chiesto delucidazioni. Grazie alla risposta di Eliza, scoprì che si trattava di una fata prima del compimento dei tredici anni e la cantante ricordò che Emmastory, l’autrice della saga, l’aveva spiegato in una nota aggiungendo che se l’era inventato.
“La gravidanza funziona in modo diverso rispetto a quella degli umani? Come si fa a sapere se il piccolo sta bene?”
Demi pose quelle domande dato che era sicura che lì non esistessero ospedali e che, com’era probabile, a parte i guaritori – credeva si chiamassero così – gli altri non ne sapessero molto di medicina.
“Chi da una mano alla fata in questione quando deve partorire? Un’altra fata senza nessuna esperienza per quanto concerne la gravidanza o il parto? Una con esperienza, magari una levatrice?” domandò Andrew.
Isla, l’unica che aveva partorito, rispose:
"Dato che siamo esseri magici la questione sembra complicata, ma in realtà è tutto più semplice di quanto pensiate. Per noi fate l'attesa è di nove mesi, come per gli umani, anche se in genere siamo aiutate dalle ninfe o da altre fate di cui ci fidiamo ciecamente. Quando sono nate Lucy e Lune abbiamo fatto questo e per fortuna non ci sono stati problemi. Già appena nate cercavano di starmi vicine, ho potuto tenerle in mano" aggiunse, mentre le si inumidivano gli occhi al solo ricordo di quelle due minuscole pixie, una color avorio e l'altra sui toni del rosso ancora spento.
"Cielo, d-dev'essere stato…" balbettò in risposta la ragazza, ancora incredula.
Chissà cosa si provava a stringere una creatura tanto piccola.
"Bellissimo, e stanne certa, un giorno proverai le stesse cose anche tu."
O forse mai pensò la ragazza.
Isla non sapeva niente della sua sterilità, ma quella frase costrinse comunque la cantante a inghiottire un boccone amaro.
Si diressero a un quarto negozio. Le pareti erano dipinte di un giallo acceso e alcune scatole di rosa o azzurro. Si trattava di un luogo in cui si vendevano vestiti, ma solo per neonati e bambini fino a un anno, copertine, culle, carrozzine, passeggini, seggioloni e molto altro. Andrew e Demi accarezzarono alcune tutine in ciniglia appese lì intorno, godendosi la loro morbidezza.
"Magari un giorno potremo avere anche noi un bambino" sussurrò lui all'orecchio della fidanzata.
Lei respirò piano, serrò le labbra e deglutì a vuoto.
"Non lo so, amore” disse con un filo di voce. “Dovremo pensarci con molta attenzione."
Le procedure per un qualsiasi trattamento di fertilità non sarebbero state semplici o brevi. Ne discusse con lui.
"Le tue paure sono anche le mie" le rispose l'uomo. "Sentiremo un ginecologo, faremo degli esami. Forse ci consiglierà una clinica per la fertilità, o andremo in quella in cui sei stata tu. Magari non ce la faremo, o invece riusciremo lo stesso a crearci una famiglia più grande, chi lo sa? Altrimenti adotteremo un altro bambino, un neonato di una donna che potrebbe sceglierci come genitori."
"Sono aperta a entrambe le possibilità, ma per quanto amerei restare incinta la cosa mi fa anche molta paura, forse perché temo di non riuscirci, rimanere delusa ogni volta, o di perderlo, dato che sarebbe la prima gravidanza che, credo, spaventi tutte le donne. Dovrei essere più elettrizzata, me ne rendo conto. Do l’idea di trattare questo periodo come un peso, ma non è così."
Lui le prese la mano.
“Lo so” rispose con dolcezza e lei si sentì capita.
Ne avrebbero discusso a tempo debito, ora non era il momento, anche perché non sapevano nemmeno come sarebbe proseguita la loro relazione.
Gli altri non li avevano sentiti, erano più avanti o più indietro.
"Guarda, Hope." Demi le indicò una tutina bianca. "È simile a una di quelle che ho preso per te quando sei arrivata."
C'era scritto Sei mesi sul cartellino, l'età della bimba quando l'aveva incontrata la prima volta. Lei, non capendo del tutto ciò che la mamma aveva detto, sorrise appena.
Anch'io portavo vestitini così piccoli, papà?
"Certo Mac, e sono sicuro che erano morbidissimi."
A differenza di quanto accaduto nei precedenti negozi, non erano soli. Alcune coppie gironzolavano tra le corsie e fra di loro c’erano un paio di donne in stato di gravidanza avanzata. Demi sorrise nel guardarle, ma allo stesso tempo provò una fitta allo stomaco, tanto che dovette mettersi le mani davanti a esso per non vomitare. Anche se ormai si era rassegnata al fatto di essere sterile, non era mai riuscita ad accettarlo fino in fondo. Da quando l'aveva scoperto si sentiva incompleta, meno donna, come se una parte di lei le fosse stata strappata via a forza. Una sensazione della quale non si sarebbe più liberata.
"C'è drin drin, mamma!" esclamò Hope quando entrarono nel quinto stabile, un negozio di giocattoli.
La bambina stava indicando una scatola con l'immagine di un sonaglio uguale a quello che le aveva dato la fata anziana.
"Ho visto, tesoro. E pensa che ne hai uno anche tu."
Lì dentro c'era di tutto: peluche, bambole di ogni tipo e dimensione, case delle bambole, accessori finti, in plastica, per cucinare, macchine e carrozzine giocattolo e non solo. Mackenzie, Hope, Lucy e Lune si guardavano intorno incantate neanche si fossero trovate in Paradiso, e con gli occhi sbarrati non sapevano dove puntare lo sguardo perché un secondo dopo qualcos'altro catturava la loro attenzione.
"Papà, c'è scritto che questa fata ha il mio potere. Posso averla?" chiese Lucy indicando una scatola.
"Va bene."
Lune trovò un orsetto con il suo elemento, mentre Eliza volle comprare a tutti i costi a Mackenzie e Hope dei cubi con le lettere parlanti. Andrew e Demi si opposero, ma lei insistette, anche se non in modo eccessivo e alla fine, per fare ancora più felici le piccole, i due accettarono.
Poco dopo, tutti fecero ritorno a casa. Isla, Oberon e le loro figlie si fermarono ancora un po' da Eliza e, mentre le bambine si rincorrevano a poca distanza da loro, la fata chiese a Demi di cantarle qualcos'altro come le aveva promesso. La cantante prese un gran respiro e scelse una canzone più leggera ma che a lei piaceva. Sperò valesse lo stesso per gli altri.
"Non parlo di Andrew in quella che sto per cantare, tra noi va tutto benissimo e ci amiamo" mise in chiaro, per evitare fraintendimenti.
“Cosa vuoi cantare, Without The Love?” le domandò il suo ragazzo.
“No.”
I due si sorrisero e la ragazza iniziò.
"I should've known when I got you alone
That you were way too into me to know
This isn't love boy, this ain't even close
But you always think we're something that we're not
And now you call me every single night
I only answer 'cause I'm too polite
We happened once or maybe it was twice
Yeah you always make it hard for me to stop
But you always think we're something that we're not
 
You wanna be more than just friends
I can't go through this again
Stop trying to get inside my head
Don't wanna do more than hook-up
It's getting stupid
'Cause I should've known but I forgot
That you think we're something that we're not, Hey!
 
I hear you're telling every one you know
That I'm the one like you can't let me go
And you just keep on blowing up my phone
'Cause you never seem to knowing you should stop
Don't introduce me any of your friends
Delete my number, don't call me again
We had some fun but now it's gonna end
But you always made it hard for me to stop
Now you always think we're something that we're not
[…]"
Tutti applaudirono e Demetria fece una sintetica traduzione.
"Descrive una ragazza, come posso dire? Tosta, ecco. Una che sa quello che vuole e non vuole e la cosa mi intriga" commentò Isla.
Anche Oberon si complimentò con lei e Andrew le disse che ogni volta che sentiva quella canzone la apprezzava di più.
Dopo poco la famiglia Hall tornò a casa propria, dato che era ormai ora di pranzo, ed Eliza si offrì di tenere d'occhio le bambine in modo che Andrew e Demi potessero rilassarsi.
 
 
 
Una volta in camera i due si distesero sul letto, sopra le coperte, e si presero la mano stringendosela piano.
“Che caldo!” La ragazza indossò la tuta più leggera che trovò. “Il viaggio di ritorno mi ha fatta sudare tantissimo.”
Per fortuna si erano lavati e ora stavano meglio.
“Già, ma almeno nei negozi l’aria era fresca. Direi loro la verità anche solo per togliermi questi vestiti lunghi di dosso.”
“Anch’io, ma è troppo presto.”
“Non potremmo dire, che so, che abbiamo avuto un qualche tipo di incidente?”
“E mentire ancora? Non me la sento.”
Lui sospirò.
“D’accordo, ma non vorrei tenerlo nascosto per sempre.”
“Nemmeno io, non possiamo vivere così. Sono sicura che, quando arriverà il momento giusto per dire ogni cosa, lo capiremo.”
"Spero tu abbia ragione.” Si fece ancora più serio. “Scusami se ho tirato fuori l'argomento del bambino, prima, in un posto del genere."
Solo dopo averlo fatto si era reso conto del proprio errore.
"Non importa.” La voce le si incrinò. “Ma questo è un argomento delicatissimo per me, sai anche tu quanto ho sofferto per le notizie che il dottore mi ha dato allora. E ogni volta che ci penso lo faccio ancora."
"Lo so, mi dispiace. Non riesco nemmeno a immaginare, non avrei dovuto" concluse abbassando lo sguardo.
"Tranquillo dai, tutto a posto. Comunque, per il momento per me andiamo bene così come siamo. Se vorremo un altro figlio ci ragioneremo con molta attenzione, va bene?"
"Benissimo. E anche secondo me siamo perfetti."
Lei si girò su un fianco, verso di lui, e lo abbracciò forte. Poco dopo li unì un bacio intenso e passionale. Le loro guance erano così calde che i due ebbero l’impressione che stessero andando a fuoco. Andrew le accarezzò la schiena facendo piccoli circoli con un dito e provocandole gemiti di piacere, che Demi cercò di controllare per non spaventare le bambine o far pensare cose strane a Eliza. Il solo pensiero la fece ridacchiare. Gli passò le mani fra i capelli castani inebriandosi del loro profumo fresco, sul collo, sul petto e Andrew rabbrividì, lo percepì anche lei sotto le dita.
"Ti amo" gli mormorò sulle labbra e lui fece lo stesso, con dolcezza, accarezzandola con quelle parole sincere.
Il pranzo passò tranquillamente. Le bambine divorarono tutta la loro porzione di pollo, per Hope divisa in pezzi piccoli, e le patate al forno che la padrona di casa aveva preparato. Per la più piccola aveva invece cucinato un purè di patate, pensando che le sarebbe stato più facile mangiarlo. Tutti ne assaggiarono perché ce n'era in più e convennero che era buonissimo.
"Per stasera pensavo di preparare una cosa particolare: pasta con speck e noci. Per Hope ho un po' di ragù."
Interessante commentò Mackenzie, che si leccava già le labbra.
"Non voglio metterti fretta, Eliza, e nemmeno darti fastidio dato che sei già così gentile, ma quando posso visitare l'orfanotrofio?"
"Anche oggi pomeriggio" rispose la donna con un gran sorriso, mentre aiutata da Andrew cominciava a sparecchiare.
"Mi farebbe un piacere immenso!"
Demi prese a battere un piede sotto al tavolo. Non vedeva l’ora di stare con i bambini e aiutare.
"Le anziane hanno detto che posso far visita anch'io. Vorrei, ma a chi lasciamo le bambine?"
Erano già state in casa-famiglia, non era il caso che venissero all'orfanotrofio e soprattutto che non lo facesse Mackenzie, dato che ricordava bene quell'esperienza. Per quanto quel luogo potesse essere, in certi momenti, pieno di allegria – o almeno così speravano –, si trattava pur sempre di un luogo dove si trovavano bambini che per svariate ragioni erano stati abbandonati.
"Vado da Isla a chiederle se può passare per fare loro da babysitter. Magari potrebbero divertirsi ancora con Lucy e Lune" disse Eliza e, dopo aver lavato i piatti, uscì.
Le bambine tornarono a riposare e anche Demetria e Andrew ci provarono, ma con scarsissimo successo.
“Non ho più sonno al pensiero di quello che faremo dopo” gli confessò la fidanzata nel buio, cercando la sua mano.
“Nemmeno io, e rimanere a letto quando non riesco a dormire mi innervosisce.”
Aveva continuato a girarsi da quando ci era entrato, così come lei.
“Tanto vale alzarsi, allora.”
Una volta in cucina, bevvero del succo d’arancia per rinfrescarsi. La ragazza sfregò le mani l’una contro l’altra. Era meraviglioso restare in attesa di una cosa che si desiderava tanto vedere o fare, e sperò che quest’ultima non sarebbe stata più bella dell’esperienza in sé.
“Non sarà così” si disse, mentre la voce nella sua testa appariva convinta.
“Come te non ho mai visitato un orfanotrofio e non so cosa aspettarmi, Demi. Piangerò perché proverò pena per quei bambini? O dolore? Oppure sorriderò? E loro come ci vedranno? E se alimentassimo in loro false speranze?”
Andrew parlò a macchinetta, fermandosi solo quando la fidanzata gli mise una mano sul ginocchio.
“Di adottarli, intendi? Sono sicura che i volontari spiegheranno loro chi siamo, non mi preoccuperei di questo. Per il resto, non possiamo sapere come reagiremo, ma in ogni caso sarà un’esperienza importante.”
Si zittirono.
Ora non restava che aspettare.
 
 
 
CREDITS:
Demi Lovato, Something That We’re Not
 
 
 
 
NOTE:
1. ho trattato a fondo i problemi di Mackenzie in Cuore di mamma. All’inizio avrei voluto farlo anche qui. Bisogna tener conto del passato dei personaggi. Ma Emmastory mi ha detto che questo è un sogno e nei sogni, almeno a volte, le persone sono più felici che nella realtà. Desiderava che, per Mackenzie le cose fossero un pochino diverse. È stata tranquilla fin dall’inizio per i motivi che abbiamo già spiegato. Non può e non deve dimenticare il proprio passato, infatti ce ne saranno accenni anche in futuro. Si tratta di un sogno e desideravamo che fosse contenta almeno qui, ma se non avessimo parlato almeno un po’ di ciò che le è accaduto e di cosa prova, il tutto sarebbe risultato incompleto. Tornerà alla realtà, dovrà di nuovo combattere contro i suoi demoni, ma adesso è più contenta, pur senza dimenticare, e noi la vediamo come una cosa bella.
2. Ho ripreso le frasi di Mackenzie riguardo il sangue e la mano della mamma da Cuore di mamma, mentre ho scritto io, per questa fanfiction, la descrizione di quanto è accaduto dopo, pur rifacendomi a quello che avevo raccontato nell’altra.
3. Per ciò che riguarda il percorso logopedico, in Cuore di mamma non ne ho parlato e non lo farò in futuro perché trattare di due terapie diverse e così importanti insieme sarebbe stato troppo pesante da leggere e difficile da affrontare per me, perché queste sedute non si possono riassumere in poche righe, altrimenti non si vedono i progressi del personaggio, e avrei riempito troppe pagine parlando solo di terapia. Non posso dire nulla sul finale della storia, ma per capire quale sarebbe il percorso che Mac dovrebbe seguire ho contattato una logopedista che mi ha dato alcune informazioni. Quando le ho scritto che la psicologa pensava che Mackenzie non fosse pronta ad affrontare quel percorso assieme all’altro, non mi ha detto che non si poteva parlare di una cosa del genere, anzi, ha anche contattato una sua amica psicoterapeuta per chiedere se una situazione come quella sarebbe stata plausibile.

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Capitolo 14
*** Un'esperienza forte ***


CAPITOLO 14.

 

UN’ESPERIENZA FORTE

 
Dopo un'ora Andrew, Demi ed Eliza uscirono di casa. Hope, Mackenzie, Lucy e Lune stavano giocando con i cubi parlanti sotto la supervisione di Isla. Quando costruivano qualcosa, i blocchi iniziavano a cantare canzoncine o a dire lettere o parole, un'altra cosa stranissima che sorprese tutti.
"L'orfanotrofio si trova nella comunità umana di Eltaria" spiegò la donna. “È un po’ lontano, spero non vi stancherete troppo."
I due fidanzati si tenevano per mano e decisero di non chiedere nulla. A essere onesti, non sapevano cosa aspettarsi. Se pensavano alla parola orfanotrofio si figuravano nella mente un edificio con la vernice scrostata, l'acqua che cadeva nelle crepe dei muri e tanti, tantissimi bambini, molti dei quali in condizioni orribili. Demi aveva letto, su internet – si augurava non fosse vero, ma purtroppo aveva trovato anche dei video su YouTube a riguardo – di un orfanotrofio in Russia in cui c'erano quattrocento bambini, tutti con gravi difficoltà di deambulazione e deglutizione, che avevano bisogno di assistenza da parte di infermieri e altro personale specializzato. Ventisette di loro erano morti denutriti, abbandonati a loro stessi e senza cure. Chi avrebbe dovuto curarli aveva lasciato alcuni di loro a digiuno, ad altri aveva dato del cibo che non erano in grado di masticare. Le autorità stavano indagando, il Direttore era stato accusato e la vicenda era venuta allo scoperto dopo la morte di un bimbo di undici anni che pesava solo dieci chili. Ma di quella storia non aveva saputo più niente. Come si poteva essere disumani e trattare i bambini peggio di oggetti vecchi e da buttare? Una lacrima le sfuggì, ma aveva pianto tanto per quell’orrore che forse non riusciva a versare più lacrime a riguardo. Credeva che non tutti i posti fossero così, ma tremava mentre si dirigevano verso quel luogo. A Eltaria le persone che aveva conosciuto erano buone e responsabili, voleva sperare che all'orfanotrofio le condizioni dei bambini fossero di gran lunga migliori, nemmeno paragonabili a quella casa degli orrori.
Per strada non c'era nessuno, tutti si trovavano nelle loro abitazioni a rinfrescarsi e riposare in attesa che passasse la calura del pomeriggio. L’emporio, però, era ancora aperto e in quella zona i vari negozi brulicavano di gente.
“Questa città è decisamente più tranquilla della nostra” disse Andrew.
Chiacchierando, un’ora e un quarto trascorse più piacevolmente.
"Eccoci, siamo arrivati" annunciò Eliza indicando un grande cancello in ferro battuto.
Il cartello appeso recitava:
Casa degli angeli del cuore
Dove i non voluti sono i benvenuti.

"Il nome è interessante e la frase sotto efficace" commentò Andrew.
Lui e la fidanzata sospirarono e lasciarono ricadere le braccia lungo i fianchi. Non erano abituati a camminare tanto, le vesciche erano sparite, ma i piedi e le gambe dolevano loro da giorni e, nonostante le chiacchiere, percorrere tutta quella strada non era stato semplice e si erano fermati un paio di volte per riprendere fiato. Seppur in parte privi di energie non desideravano rientrare, non in quel momento. Demi, ancora insicura, non diceva niente.
Non tutti i genitori che abbandonano i figli lo fanno perché non li vogliono, ma anche perché non possono prendersene cura pensò.
All’esterno la struttura era ben messa, una grande casa in mattoni, con un giardino verde e rigoglioso sul davanti. Non c'erano crepe nei muri e le piante erano curate, così come i fiori. Non dava l’impressione di essere un posto abbandonato a se stesso, il che era un buon segno. Ma le interessava di più capire come stavano i bambini.
"Tutto bene?" le domandò Eliza.
Demetria non sorrideva più, era in allerta. Non pareva nemmeno più la persona che aveva conosciuto solo pochi giorni prima.
"Sì, a posto" mentì quest'ultima, che non voleva rattristare la donna. "Ora cosa dobbiamo fare? Bussare? Suonare?"
"Io sono una volontaria." Eliza tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un grande mazzo di chiavi. Queste tintinnarono cozzando l'una contro l'altra e lei, conoscendole tutte a memoria, ne scelse subito una rossa, di ottone, la più grande di tutte. La infilò nella toppa e la serratura scattò. "Avevo detto alla Direttrice che sareste venuti, prima quando sono andata a chiamare Isla sono passata per avvertirla. Vorrà farvi qualche domanda, ma ho garantito io per voi e poi basta che mostriate i documenti."
I due annuirono in silenzio; da quando le anziane li avevano esaminati, ogni volta che uscivano se li portavano sempre dietro per sicurezza. Tutto era immobile, lì fuori. Il vento friniva fra gli alberi e qualche uccellino cantava. Sul prato si trovavano alcune giostre, tra le quali diverse altalene sia per grandi che per piccoli, quattro o cinque scivoli, cavallini a dondolo, una casetta nella quale rifugiarsi e altre ancora.
"È bellissimo qui."
Demetria aveva aperto bocca per la prima volta dopo minuti interi.
"Ti aspettavi un posto in cui i piccoli sono sempre tristi e le persone non si prendono cura di loro?"
La domanda così diretta della donna le fece abbassare lo sguardo e la cantante si vergognò.
"Non sono mai nemmeno stata nella casa-famiglia dove hanno vissuto Mackenzie e Hope. Nei film i bimbi sembrano felici, ma ho letto e so anche da me che nella realtà non è sempre così" spiegò. "Mi rendo conto di essere un'ignorante a riguardo e di saperne poco."
"Idem" mormorò solo Andrew.
Si diedero degli immaturi. Avrebbero dovuto informarsi e fare domande, prima di giungere a conclusioni affrettate. Ora Eliza stava di certo pensando che erano due persone che non sapevano niente, piene di stereotipi su quella e altre tematiche.
"Non sempre ciò che mostrano nei film è vero. E non tutto quello che si legge corrisponde alla realtà. Ci saranno altri posti nei quali, purtroppo, le condizioni dei bambini non sono buone, ma questo non è il caso. Io e altre persone che lavorano qui, professioniste e volontarie, tutte esaminate dalle fate anziane prima di poterci venire, cerchiamo di far sentire i piccoli a casa. Ma non è un compito facile. Molti, soprattutto i più grandi che non vengono adottati, hanno tanta rabbia dentro."
"Mi pare il minimo" disse Demi.
"Alcuni, quelli che hanno più difficoltà, parlano con una fata specializzata nella psicologia dei bambini, da noi si chiama così. Credo che si dica "psicologa”, nel vostro mondo, o sbaglio?” Essendo un'umana, mi pare di aver già sentito questo termine."
"È esatto" confermò Andrew.
"Vanno da lei per parlare e cercare di affrontare i traumi e tutti i sentimenti che provano. Anche questa fata lavora qui."
I due ritennero positivo che ci fosse una figura del genere a Eltaria. Demetria immaginava che nessuno lì sapesse cos'erano uno psicoterapeuta o uno psichiatra, ma la presenza di una psicologa per i piccoli valeva tanto.
Eliza aprì con una seconda chiave una grande porta in legno che cigolò appena. Si trovarono davanti un ingresso ampio, con le pareti dipinte di giallo con appeso qualche disegno di sicuro fatto dai piccoli. In uno erano raffigurate alte montagne con la neve, talmente realistica da assomigliare a panna livellata con il cucchiaio, in un altro una fata con in braccio un Arylu dalle focature azzurre e in un terzo due bambini, forse amici, che si tenevano per mano e sorridevano. Alla loro sinistra, dietro un lungo bancone, sedeva una donna che, quando riconobbe Eliza, si sporse per salutarla.
"È già la seconda volta che ti vedo qui oggi, come mai visto che è domenica?" le chiese in tono gentile.
"Ho portato un paio di conoscenti che vorrebbero vedere questo posto e lei ci lavorerà anche" rispose indicando Demi.
"Se è possibile dare una mano oggi, io sono disponibile" aggiunse Andrew.
Non voleva che quella donna pensasse che erano dei turisti che consideravano l'orfanotrofio un'attrazione da aggiungere al loro itinerario di viaggio.
"Oh, bene! Con cinquanta bambini ci fa piacere avere un aiuto. Io mi chiamo Jacqueline, piacere."
Aggirò il bancone e strinse loro la mano. Aveva i capelli lunghi fino alla fine della schiena, lasciati sciolti, e gli occhi di un intenso color miele simili a quelli di Madison, la sorella minore di Demetria. Avrà avuto al massimo venticinque anni ed era altissima, tanto che per baciare i nuovi arrivati su una guancia dovette abbassarsi alla loro altezza.
Dopo le presentazioni, la cantante le fece i complimenti per il suo sorriso.
"Grazie. Diamoci del tu" concluse Jacqueline in tono cordiale.
I due, ancora confusi da tutta quella confidenza, la baciarono e abbracciarono provando un senso di smarrimento che svanì poco dopo, quando Eliza li calmò con la sua voce vellutata.
"Perdonatela, qui siamo espansivi."
"Sì, mi dispiace, non era mia intenzione spaventarvi."
"Non si preoccup… ehm, non ti preoccupare" rispose Demetria con un gran sorriso.
"Vado a dire alla Direttrice che siete arrivati" annunciò Jacqueline e sparì in un attimo.
"Lei fa un lavoro di segreteria" riprese Eliza. "Registra i bambini che arrivano, le famiglie che li adottano, controlla i documenti assieme alla Direttrice e ha un registro a parte con tutti i nomi dei bimbi che vengono adottati, quelli dei genitori e altre informazioni. È brava in ciò che fa e si dà il turno con l'altra collega, Angie. I piccoli non sono tanti, per cui riescono a gestire bene questa situazione soltanto in due."
Sul bancone c'erano un contenitore con alcune biro e matite, diversi blocchetti di fogli, due o tre grossi registri e altre scartoffie. Per un momento straniti dal fatto che non ci fossero i computer e che lì facessero tutto a mano, Andrew e Demi si ricordarono che quello non era il loro mondo e che a Eltaria, sotto certi aspetti, si viveva in modo differente. A volte loro due non avrebbero saputo come fare senza il PC. Andrew lo utilizzava spesso al lavoro. Tanti documenti erano stampati, ma ne aveva altri solo lì. Con il computer preparava le arringhe e mandava email, mentre Demi lo utilizzava per scrivere le sue canzoni e non solo. Ma tutta quella tecnologia lì non c'era. Era un'altra, grande differenza tra la Terra, o almeno i paesi più sviluppati, ed Eltaria.
Poco dopo Jacqueline tornò accompagnata da una donna sulla sessantina, con i capelli ormai bianchi, un sorriso dolcissimo e due occhi azzurri ancora vivaci. Era bassa e in carne, ma la cosa che colpì Demi più di tutto fu l'espressione del suo volto. Sembrava in pace e anche molto buona.
Si avvicinò alla coppia.
"Buon pomeriggio. Io sono Theresa Horston, la Direttrice di quest'orfanotrofio." Dopo le presentazioni aggiunse: "Se volete seguirmi nel mio ufficio, controlliamo i documenti e parliamo un attimo."
Eliza fece loro cenno di andare, assicurando che li avrebbe aspettati lì. I due si mossero a passi incerti, mentre Theresa aveva un incedere spedito. Li guidò lungo uno stretto corridoio, su per una lunga scala, anche questa in legno e con il corrimano dello stesso materiale e, dopo aver attraversato un grande atrio vuoto, la donna aprì una porta.
"Accomodatevi pure, prego" li invitò, lasciandoli passare per primi.
"Permesso" dissero i due all'unisono.
L'ufficio aveva due grandi vetrate che accedevano a una piccola terrazza dalla quale si poteva vedere tutta la comunità di Eltaria. Dipinti di blu, i muri erano in parte occupati da disegni colorati per la maggior parte di rosso, giallo, arancione, rosa e verde, con vari paesaggi raffiguranti boschi o montagne che conferivano un tocco di allegria e vivacità all'ambiente. Demi e Andrew si accomodarono su due sedie imbottite e con i braccioli, che si trovavano di fronte a una lunga scrivania, anche questa piena di scartoffie.
"Allora," riprese la donna, "mi è stato detto che lei, Demi, vuole lavorare qui per qualche tempo."
Quindi Theresa dava loro del lei. Essendo una Direttrice doveva utilizzare un tono più formale, il che era giusto, ma dopo aver udito così tante persone dire di dare loro del tu fu strano sentire quel lei. D’altronde, ricordarono ciò che aveva spiegato loro Eliza a riguardo e la cosa non fu più tanto bizzarra.
"Sì, è esatto. Non so dirle quanto ci tratterremo, ma di sicuro qualche altro giorno."
O almeno spero.
Se avesse raccontato a Theresa del sogno di Mackenzie questa non ci avrebbe creduto, ne era sicura. Meglio restare sul vago.
"Capisco. Mi fa piacere."
"Anch'io sarei felice di aiutare oggi, se posso. Se ci sarà bisogno, verrò anche i giorni seguenti. Vogliamo davvero dare una mano" concluse Andrew, calcando su quelle ultime parole.
"Quindi non siete venuti qui per, non so, non fare niente e poi raccontare ai vostri amici che "Siamo stati in un orfanotrofio e abbiamo visto tanti poveri bambini"?" continuò Theresa facendo una voce in falsetto. "Scusate, non voglio mancarvi di rispetto. Anche se non ne ho viste molte, ho incontrato persone del genere. Venivano qui, facevano poco o niente e poi se ne andavano non tornando mai più. Quelle che invece vogliono aiutare si impegnano, passano il giorno con i bambini, magari donano qualcosa e quando possono fanno ritorno. C'è differenza tra fare volontariato per essere elogiati e svolgere quest’attività per arricchirsi, inteso come dare qualcosa ai bambini al di là dell'aspetto materiale e soprattutto donare loro il proprio cuore."
"Le assicuro, e posso parlare anche per Andrew, che noi non siamo il primo tipo di persone che ha descritto." Raccontò di Mackenzie e Hope, di come le aveva adottate, del suo amore per i bambini e del viaggio fatto in Kenya molti anni prima. "Ho visto posti che non dimenticherò più, paesaggi suggestivi ma anche tanta povertà. Tutti, però, sembravano felici, anche i bambini nelle scuole, benché immagino non sia sempre così a causa delle mille difficoltà che devono affrontare, difficoltà che, pur essendoci stata, in parte fatico ancora a immaginare. Mi commuoveva sentirli parlare e cantare. Assieme alle donne, ho portato l’acqua dal pozzo a casa con dei secchi. Eravamo tutte a piedi nudi, il caldo ci soffocava, io sudavo e avevo il fiatone. Ma l’ho fatto solo una volta, loro escono in cinque momenti della giornata per riuscirci. Dopo quest'esperienza, ho imparato moltissimo. Mi sono sentita vicina a quelle persone che lavorano duramente ogni giorno e tutto ciò mi ha fatta crescere.” La voce le si era spezzata. Le tremavano le mani. Tossì più volte e sussurrò: “Con la mia famiglia abbiamo deciso di adottare una bambina a distanza." Le spiegò di cosa si trattava e poi proseguì: "Le sue lettere, i disegni che fa, la pagella dove sono scritti i voti arrivano a casa dei miei, perché voglio che anche loro siano coinvolti in quest'esperienza, ma sono io a fare il bonifico. Cioè, insomma, a pagare perché lei riesca a mangiare e a studiare."
"Quindi ha aiutato molte persone, sia durante quel viaggio sia dopo, anche bambini" osservò Theresa. Non era rimasta indifferente alla commozione nei suoi occhi, le lacrime che avevano minacciato di scendere mentre parlava, le mani che si erano mosse frenetiche durante il racconto dell'esperienza in quel posto di cui lei non aveva mai sentito parlare prima, e aveva capito una cosa che le disse. "Ha un grande cuore."
"La ringrazio, ma faccio soltanto quello che sento dentro" rispose la cantante, schiarendosi la voce per ricomporsi.
"Io ho adottato un bambino a distanza con i miei genitori quando ero piccolo, poi un altro nel momento in cui sono diventato maggiorenne, ma in Madagascar" raccontò Andrew. "È sempre stato bello per me pensare che ho dato a questi bambini un futuro migliore, li consideravo un po' dei fratelli minori. Quando arrivavano le foto, i disegni o, ancora di più, le lettere, mi mettevo a piangere mentre le leggevo e…"
Nascose il viso tra le mani per non far vedere le sue lacrime.
"Va bene, mi basta sentire questo. Mostratemi i documenti."
Dopo averli esaminati con attenzione, la Direttrice chiese a Demi come mai non le avesse chiesto quanti soldi avrebbe guadagnato lavorando lì.
“Mi è sempre stato insegnato di non farlo” spiegò lei con semplicità, “ma avevo intenzione di domandarlo ora, con gentilezza.”
Theresa le sorrise con calore, quella ragazza era una persona umile.
“Qui paghiamo bene i nostri volontari: dieci rubli di luna l’ora. Fanno millecinquecento al mese.”
Era una paga più che onesta.
La signora fece sapere alla coppia che avrebbe potuto raggiungere Eliza. Concluse dando loro il benvenuto ufficiale nella Casa degli angeli del cuore e li salutò con gentilezza.
Una volta tornati dalla donna che li ospitava, i due la seguirono di nuovo oltre il primo corridoio, ma anziché girare a destra verso le scale, svoltarono a sinistra. Dopo aver aperto una pesante porta in ferro che si chiuse con un tonfo dietro di loro, Eliza disse ai fidanzati che i bimbi erano divisi per età ma non per razza e che non tutti erano in fasce.
Dalla prima stanza alla quale si avvicinarono, con la porta dipinta metà di rosa e metà di azzurro, non si sentiva provenire alcun suono. O i bambini stavano dormendo, oppure… I due adulti non sapevano cosa pensare. Eliza aprì piano.
"Qui ci sono i neonati" sussurrò.
Vennero accolti da una volontaria di diciotto anni al massimo, che disse di chiamarsi Julie. Più che sul suo aspetto fisico, Andrew e Demi si concentrarono su ciò che avevano davanti: cinque lanterne appoggiate su una coperta sul pavimento. Dentro di esse, cinque sfere luminose grandi come lucciole che brillavano di luce propria.
"Sono questi i bambini?" domandò Demetria incredula.
Non aveva mai sentito parlare di piccoli in forma di sfera prima d'allora, tranne un breve accenno all’emporio che, però, non le aveva fatto capire molto. Quella luce aveva qualcosa di particolare che la attirava, che la costringeva a non staccarle gli occhi di dosso.
"Esatto" rispose Julie. "Lei è Maisy, ha solo un giorno ed è una pixie. È stata abbandonata ieri nella sua lanterna qui fuori. Come volontari, possiamo aprire questi contenitori e controllare la salute dei piccoli, in quanto alcuni di noi sono guaritori, e curarli se c'è bisogno. Io sono una di loro, benché non sia esperta, sto ancora studiando. Ci prendiamo cura di tutti i bambini nel momento in cui si ammalano, facciamo il possibile. Lui invece è Thior, è uno gnomo e ha venti giorni." In effetti, la seconda sfera che stava indicando era più grande. Julie parlò degli altri tre, due femmine e un altro maschietto, tutti elfi. Una delle bambine, Lilith, avrebbe compiuto due mesi il giorno dopo, era quindi quasi pronta per la trasformazione. Ashley e Matthew, invece, avevano un mese. "Se volete potete parlare loro" concluse la ragazza.
“E come fate a capire se sono maschi o femmine, dato che sono lucine?” chiese Andrew.
“Da come si comportano” rispose Eliza. “Le femmine sono meno timide dai maschi. Se avvicini loro la mano, loro si avvicinano prima dei maschi.”
Fu Demetria la prima ad avvicinarsi.
"Ciao, piccolini" mormorò, per paura di spaventarli. “Mi spiace che siate qui, ma spero che troverete presto una famiglia."
"I neonati vengono adottati subito, abbiamo già diverse richieste" la rassicurò Eliza. "Nel giro di alcuni giorni dovrebbero essere tutti nella loro nuova casa."
"È così anche nel nostro mondo per i bambini piccoli" aggiunse Andrew, che si avvicinò e sussurrò loro qualche parola di incoraggiamento e d'affetto.
"Quelli che fanno fatica a trovare una casa sono i più grandi," proseguì Demi, "sopra i sette anni. Tutti vogliono bambini piccoli. Io ero aperta a riguardo, quando ho adottato le mie figlie. Mi aspettavo che Mackenzie fosse più grande, ma dato che il loro caso era grave, che avevano bisogno di una famiglia in tempi brevi e che mi sono innamorata di lei e della sorellina non appena le ho viste in fotografia, ho detto subito di volerle incontrare."
"Purtroppo è vero anche qui," constatò Julie, "molti bambini sono grandi."
Dopo averla salutata i quattro si diressero verso un'altra stanza. Dei pianti disperati riempirono l’aria.
"E adesso ci si diverte" mormorò Demetria all'orecchio del fidanzato, rammentando il periodo nel quale Hope aveva pianto ogni santa notte perché stava mettendo i dentini.
La seconda stanza, con la porta dipinta del medesimo colore, aveva bambini di due, tre, quattro e cinque mesi.
"Qui ci sono età diverse perché i piccoli sono pochi, soltanto dieci, sarebbe stato assurdo dividerli" spiegò loro Eliza.
La seconda volontaria disse che avrebbero potuto prenderli pure in braccio e la cantante e il suo ragazzo non se lo fecero ripetere due volte. Con i cuori che scalpitavano, si avvicinarono una a una culla e l'altro a una carrozzina. Quattro bambini dormivano e gli altri piangevano e si lamentavano, tanto che la volontaria e una sua collega che rientrò in quel momento dovevano continuamente intrattenerli. Li avevano già nutriti e cambiati, bisognava solo distrarli.
"Come date loro i nomi?" domandò Demetria mentre sollevava piano quella che, a giudicare dalle orecchie a punta, doveva essere una piccola elfa.
"Lei per esempio è Clary, ha solo due mesi” disse Eliza. “Quello che tiene il tuo fidanzato, invece, è Martin e ne ha cinque. Se i bimbi sono grandi ci dicono loro stessi come si chiamano. Per il resto li sceglie la Direttrice, ma anche noi possiamo suggerirne. A volte li diamo loro se nel giorno in cui li troviamo c'è qualche festa particolare, ma in generale rispetto a quelli che ci piacciono. Al momento dell’adozione, i genitori possono decidere se lasciarli loro o cambiarli. Questo accade soprattutto con i neonati o i bambini fino a un anno. I genitori che adottano quelli più grandi preferiscono lasciare ai bimbi il loro nome, soprattutto se sono abbastanza cresciuti da riconoscerlo.”
A Demi non era mai venuto in mente di cambiare i nomi delle sue figlie, non sarebbe stato giusto e non era nemmeno sicura delle procedure da adottare o se le sarebbe stato permesso.
“Nei casi nei quali, invece, lo cambiano, la Direttrice rilascia un certificato con il nuovo nome e quello di mamma e papà, se i genitori mantengono il suo ricevono comunque il documento. Una copia resta a noi e una a loro” proseguì Eliza. “Quando i bambini arrivano qui, dobbiamo chiamarli in qualche modo per registrarli, dare loro un'identità è importante. Altre volte, invece, è chi li abbandona che lascia un biglietto con scritto il nome. Qualsiasi età abbiano i piccoli, i genitori hanno dieci giorni di tempo per venirli a riprendere e spesso lasciano oggetti, anche magici, che possono dare loro la possibilità di riaverli."
"Più o meno come si faceva da noi una volta, per quanto riguarda i dieci giorni e gli oggetti" rifletté Andrew stringendo il piccolo che, sentendo la sua voce, si calmò.
Clary non aveva mai pianto, nemmeno quando erano entrati. Se ne stava tranquilla tra le braccia di Demi che, per sentirsi più sicura, si era seduta su un piccolo divano che si trovava di fronte alle culle e alle carrozzine. Le sosteneva la testina e la schiena e le aveva messo una mano tra le gambe per tenerla meglio. La bambina la guardava con i suoi grandi occhi marroni e le sorrideva.
"Sei dolcissima, lo sai?" le chiese la ragazza, mentre la piccola tirava un urletto e le stringeva l'indice con la manina.
Andrew, intanto, seduto accanto a lei, faceva il solletico a Martin che rideva.
"Me li porterei a casa entrambi" le fece sapere.
"Anch'io, te lo assicuro!"
Giocarono con loro per diversi minuti, li coccolarono, li accarezzarono, fecero fare loro il giro della stanza per calmare qualche pianto e fu difficile rimetterli giù. Si sentirono come se li stessero lasciando e se per colpa loro i piccoli vivessero un secondo abbandono, soprattutto nel momento in cui scoppiarono a piangere entrambi. Ma non potevano adottarli. Per quanto sarebbe piaciuto loro, quella strana situazione non permetteva ad Andrew e Demi di diventarne i genitori. In più quei piccoli non erano fratelli, non avrebbero potuto adottarli entrambi.
"Troveranno presto una famiglia che li amerà, vedrai."
L’uomo cercò di rassicurare la fidanzata, liberando poi un pesante sospiro.
"Lo spero." il suo sussurro fu quasi inudibile, mentre il groppo che aveva in gola non si voleva sciogliere né trasformare in pianto.
È quella la cosa peggiore, pensò la cantante, il momento in cui le lacrime vogliono uscire ma, chissà per quale arcano motivo, non lo fanno.
Eliza dovette notare la loro tristezza e chiese ai due se volevano prendersi una pausa. Entrambi annuirono e lei li condusse a fare una passeggiata in giardino. Pensare che quei bimbi fossero stati abbandonati era straziante perché, per quanto fosse bello tenerli in braccio, nessuno dei due poteva dimenticare ciò che avevano vissuto e che, anche se i piccoli non lo ricordavano, avevano già sofferto. I fidanzati non sapevano perché i genitori avessero lasciato lì quei cinquanta bambini, se per povertà, perché non li volevano o per altre ragioni. Certo era che ai piccoli causava dolore.
"Anche a me ogni tanto serve tempo per staccare" confessò Eliza dopo alcuni minuti di assoluto silenzio. "I bambini qui sono spesso felici, ma a un certo punto qualcuno dei più grandi mi chiede se troverà mai una mamma e un papà, o perché i genitori non l'hanno voluto, se torneranno, pensa che l’abbandono sia colpa sua.” La donna abbassò lo sguardo. “Io cerco di calmarlo, di fargli capire che non è in alcun modo responsabile di tutto ciò, che mamma e papà lo amavano, ma non potevano tenerlo. Non voglio che li odino, benché a volte sia inevitabile dato che in certi casi, per fortuna rari, anche quelli di quattro, cinque, sei o più anni vengono abbandonati qui fuori. Insomma, è difficile. Molti dei più grandi non sono cresciuti qui, sono stati lasciati, con un cartello al collo che diceva che avremmo dovuto prendercene cura. Di solito quelli vengono abbandonati di giorno, così possono suonare un campanello e viene aperto loro subito, i genitori magari promettono che torneranno, ma non lo fanno mai. I piccoli, invece, di solito vengono abbandonati di notte, nelle loro lanterne o avvolti in una copertina. Per cui sì, lo so, non è facile. Né per loro, soprattutto né, a volte, per chi ci lavora."
"Quanti ce ne sono di grandi?" chiese Demi sorridendo a Eliza.
"Trenta, dai cinque a i nove anni. Gli altri cinque, che dovete ancora vedere, vanno dai sei mesi all'anno e mezzo. Per ora non ne abbiamo di altre età. Con i più grandi dobbiamo ancora parlare per cui, Demi, li vedrai in questi giorni. Dobbiamo dire loro che verrai a lavorare qui, per questo non ve li faremo conoscere oggi. Vedendovi, potrebbero pensare che desiderate adottarli."
I due annuirono.
Sarebbe stato molto doloroso per loro scoprire che non era così, meglio fare attenzione, aveva ragione Eliza. Rientrarono dopo aver respirato a pieni polmoni l'aria pulita di Eltaria, e una volta nella terza stanza vennero accolti dalla risata argentina di un bambino. Stava gattonando sul tappeto che ricopriva tutto il pavimento e giocava con qualcosa, da quella distanza non riuscirono a capire se si trattava di un peluche o di cos'altro, ma appena li vide corse, sempre a quattro zampe, verso di loro. Aveva riconosciuto Eliza, che lo prese subito in braccio.
"Ciao, Harold!"
La volontaria che si occupava di loro si scusò dicendo che erano bambini vivaci, ma per i tre non c'era nessun problema.
"Vuoi tenerlo, Demi?"
“Volentieri, Eliza, grazie.”
Sedendosi stavolta su una poltrona foderata di velluto, la ragazza lo prese tra le braccia.
Il bambino, che aveva capelli e occhi nerissimi, scalciava, continuava a muovere le mani, rideva e urlava, ma pareva così contento che contagiò anche la ragazza facendola scoppiare in una sonora risata.
"Lui di che razza è?" chiese a Eliza.
"Uno gnomo. È qui da quando è nato, abbandonato a poche ore di vita."
Andrew, intanto, si era buttato sul tappeto a giocare con due bambini più grandi, uno di circa un anno e mezzo e l'altro forse di uno o poco meno, visto che a malapena si reggeva in piedi, entrambi elfi maschi. Li faceva divertire muovendo alcuni sonagli che producevano un rumore delicato, suonando una piccola tastiera giocattolo e inseguendoli per poi fingere di mangiare loro la pancia.
“Vi mangio tutti!” esclamava, mentre questi riempivano la stanza di risate.
Eliza si occupava a fatica degli altri due. Poco dopo, però, purtroppo i tre dovettero lasciare l'orfanotrofio. Era ormai sera, i piccoli dovevano mangiare e la padrona di casa necessitava di un po' di tempo per preparare il sugo.
"Allora, vi è piaciuto stare con i bambini?" chiese quando, dopo aver salutato le volontarie, la segretaria e la Direttrice, uscirono.
"Molto" risposero i due all'unisono.
"È stata un'esperienza forte, d'impatto per certi versi e divertente per altri" continuò Andrew.
"Non posso che concordare. E non vedo l'ora di lavorare qui e di dare una mano il più possibile."
"Come mai non ci sono ninfe e satiri?" domandò ancora l'uomo.
"Non è nella loro cultura abbandonare i bambini. I figli per quelle creature si tengono, in qualsiasi condizione. Se si ha un problema, ci si fa aiutare dalla comunità."
"Magari fosse così in tutto il resto del mondo, anche nel nostro."
Una volta a casa, Eliza si mise subito ai fornelli mentre i genitori, benché stanchi, giocarono con Hope e Mackenzie.
La pasta e il sugo vennero eccezionali. I maccheroni erano cotti a puntino e, nonostante lo speck fosse parecchio salato, com’era normale, la delicatezza delle noci contribuiva a smorzarne appena il gusto in modo che i due si equilibrassero e le ultime, con la loro croccantezza, si rivelavano una gioia per il palato. Dopo la buonissima cena la serata trascorse tranquilla tra giochi, qualche altra canzone che Demi cantò volentieri, di sua spontanea volontà, e chiacchiere. Tutti, però, andarono a letto presto. Li aspettava una giornata intensa: Andrew sarebbe rimasto a casa a svolgere qualche faccenda, Eliza e Demi avrebbero avuto una mattinata di lavoro all'orfanotrofio e Mackenzie il primo giorno di scuola, mentre Hope quello dell’asilo. E non vedevano l’ora.
 
 
 
NOTE:
1. la vicenda dell’orfanotrofio russo è, purtroppo, vera. L’ho letta nell’articolo “Bambini morti di fame e per soffocamento: accade in un orfanotrofio in Russia” sul sito wwww.fanpage.it, anche se l’ho trovata anche in altri siti come www.lagazzettadelmezzogiorno.it.
2. Demi ha festeggiato in Kenya, nella regione del Masai Mara, il suo ventunesimo compleanno. È stata lì una settimana ed è partita con l’organizzazione Me to We, che organizza viaggi di volontariato in vari Paesi. La descrizione del portare l’acqua è vera. Ho preso le informazioni sui siti www.theglobeandmail.com e www.looktothestars.com. Purtroppo non ho trovato altro che fosse di rilevanza per il capitolo, quindi il resto è inventato.

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Capitolo 15
*** Lavorare con il cuore ***


CAPITOLO 15.

 

LAVORARE CON IL CUORE

 
In un battito di ciglia, alla domenica si sostituì il lunedì. Demi faticava a svegliarsi e, aprendo gli occhi con uno sforzo che le parve immane, non vide quasi nulla. All’inizio solo immagini sfocate e distorte, poi la realtà, o almeno quella in cui ora si ritrovava a vivere. Si era di nuovo addormentata in casa di Eliza, nella stanza da letto che la donna le permetteva di occupare. Piccola, certo, ma per sua fortuna sempre accogliente. Si strofinò gli occhi, si rigirò fra le coperte profumate di pulito e, in silenzio, premette il viso contro il cuscino. Sorrise a se stessa e, stiracchiandosi come una gatta, senza neanche farlo apposta, sentì miagolare. Era Willow, la micia di Kaleia, giunta lì durante una delle sue gite fuori porta. Quel verso la distrasse per un attimo e, notandola, a malapena represse uno sbadiglio.
"Ciao, Willow" bofonchiò, le parole ancora distorte da tale gesto.
La gatta miagolò piano come per non disturbarla oltre. Si sdraiò sulla coperta e iniziò a muovere le zampe.
"Che fai, pasticci?" le chiese la ragazza, ridacchiando divertita.
“A te cosa smbra?” parve chiedere, o almeno fu così che Demi interpretò il suo miagolio.
“Fa’ una buona pasta, mi raccomando” le disse, poi rise.
La gatta iniziò a fare le fusa e abbassò lo sguardo.
La giovane scostò da sé le coperte e si alzò dal letto. Andrew dormiva ancora indisturbato e, conscia della sua stanchezza alle volte legata anche ai problemi di salute, preferì lasciarlo riposare. Gli depose un bacio sulla guancia e, infilate le pantofole, si preparò a uscire, ma in un attimo si ritrovò Willow alle spalle, sdraiata e con le zampe strette attorno alla sua caviglia. Per fortuna non usava gli artigli e si ritrovò a ringraziare chiunque in quella famiglia gliel'avesse insegnato. La gatta doveva essere stata attratta dal suono che producevano le ciabatte scivolando sul pavimento. Più divertita che arrabbiata, la ragazza si abbassò per accarezzarla e grattarle la testa. La micia smise di agitarsi.
"Su, basta. Giocheremo più tardi, va bene?"
Ancora una volta, e come se riuscisse a capirla, la gatta miagolò al suo indirizzo.
“Demi?”
Andrew sussurrò il suo nome e lei lo raggiunse sul letto.
“Shhh, continua a dormire. Scusami, non volevo disturbarti.”
“Non preoccuparti. Come ti senti? Per oggi, intendo.”
La ragazza sospirò: si era svegliata con un senso di oppressione al petto. Il giorno prima, eccitata alla sola idea di lavorare, non avrebbe mai immaginato che quell’emozione sarebbe stata offuscata da qualcos’altro.
“Non lo so, come se qualcosa mi rallentasse la respirazione rendendola più difficoltosa. Credo di avere paura” ammise con non poco sforzo. “I bimbi piccoli mi adorano, ma se non piacessi a quelli più grandi? Se non fossi brava con loro? Se si sentissero male, non solo fisicamente, e non ce la facessi ad aiutarli? Un conto è occuparmi delle mie figlie o di bimbi che hanno già una famiglia, un altro di piccoli abbandonati che possono avere delle difficoltà.”
Si mise la testa fra le mani, ma subito dopo lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi.
“Le ha anche Mackenzie e stai riuscendo a gestirle benissimo.”
“Come madre e perché la conosco, cosa che non è per quanto riguarda quei bambini. Davvero, ho paura di fare casino. Non capisco perché la provo solo ora.”
Sfregò le mani l’una contro l’altra, che tremarono come il suo intero corpo.
“Credo che fosse proprio questa sensazione a non farti provare paura. O magari la sentivi solo nell’inconscio, ma per il resto la felicità e l’adrenalina erano più forti. Ora il momento si avvicina e le tue emozioni sono differenti, è normale.”
Lei sbuffò e mormorò:
“Non lo so.”
“Ascoltami.” Andrew le strinse piano le mani e lei lasciò andare un respiro tremante, provando subito dopo un senso di sollievo. “In Kenya sei stata fantastica con i piccoli, me l’hai raccontato, e sei una madre meravigliosa. Hai pazienza, sei dolce e hai altre mille qualità. Sì, non sempre tutto sarà facile all’orfanotrofio, ma con la tua forza e l’empatia sono sicuro che riuscirai ad affrontare ogni cosa assieme ai bambini. E poi non sarai sola. Eliza ti rimarrà a fianco, così come le altre volontarie. Vivrai un’esperienza che porterai nel cuore per il resto della vita, vedrai.”
“Dici davvero? Ce la farò?” gli domandò stringendosi a lui.
“Sì, sta’ tranquilla.”
Demi lo baciò e lo ringraziò, poi respirò a fondo per calmarsi.
“Tu che farai?”
“Niente di che, rimarrò a casa. Uscirò a passeggiare, forse. Sto bene, non preoccuparti.”
“Ora dormi, e buona giornata” lo salutò con un sorriso.
“Anche a te. Dirò una preghiera, ma andrà tutto bene.”
“Grazie.”
Willow, che li aveva ascoltati muovendo le orecchie, si rimise in piedi e la seguì fuori dalla stanza. La porta cigolò appena. Giunte in corridoio, le due si imbatterono in Eliza.
"Buongiorno a entrambe, ragazze. Demi, hai fame?"
"Che c'è per colazione?"
"Puoi scegliere. Se vuoi dei cereali, magari solo un caffè, o se sei più golosa, dei waffle. Dovrò prepararli, ma non ci metterò molto.”
"Va bene solo il caffè, tranquilla. Decaffeinato, per favore" si limitò a dirle, non volendo imporsi in alcun modo.
Ormai lei ed Eliza conoscevano bene alcuni lati l’una dell’altra, anche se era presto per definirsi amiche.
“Meglio che mangi qualcosa” le sussurrò una voce nella sua testa. Non maligna come quelle che per anni aveva sentito soffrendo di disturbi alimentari e autolesionismo, bensì buona e gentile. “Ricordati che devi prenderti cura di te. Anni fa per colazione bevevi solo un caffè amaro o dell’acqua, o niente e non mangiavi mai. Per favore, non farlo anche ora.”
Se la immaginò come una ragazza dolce e premurosa, più o meno della sua età, con un bel sorriso e mani gentili e lisce che la accarezzavano. Insomma, una persona che si preoccupava davvero per lei. Pensò a come potesse essere il suo fisico, ma oltre a questo non le venne in mente altro. Quella voce aveva ragione: doveva occuparsi di se stessa. La aspettava una lunga giornata e, anche se per fortuna non aveva udito quelle cattive – accadeva pochissimo, ormai –, non era il caso di tentarle comportandosi in modo sbagliato.
“Credo che prenderò anche dei cereali, invece” aggiunse quindi con un sorriso.
"Caffeina e cereali siano, allora. Vieni, Willow e le tue figlie sono già di là che aspettano."
Demi affrettò il passo per starle accanto ed entrò in cucina, dove incontrò Mackenzie e Hope. Eliza doveva averle svegliate di sua volontà – per fortuna non aveva controllato se Hope dormisse ancora, o non trovandola si sarebbe spaventata a morte – e si assicurò che non fossero in ritardo per la scuola. La sera prima Isla le aveva spiegato che le lezioni e l’asilo iniziavano entrambi alle otto e mancava un'ora, quindi non avrebbero dovuto esserci problemi.
Alla sua vista Mackenzie sorrise e, affamata, tuffò il cucchiaio in una ciotola di Fairy O's a forma di stella. Mandò giù qualche boccone, prese il suo blocchetto e lo spinse verso di lei. Incuriosita, Demi lesse ciò che vi trovò scritto e sorrise a sua volta.
Buongiorno, mamma diceva, gentile, seguito poco prima del punto da una faccina sorridente e da un cuore.
Sorpresa da tale dettaglio Demi accarezzò quel piccolo disegno con le dita, e proprio allora sentì un balbettio.
"M-m-moji!" tentò Hope, sbagliando adorabilmente quella che nel linguaggio comune non aveva tardato a diventare una parola.
"Si dice emoji, bimba, con la e" le rispose la mamma, scandendo bene quella lettera.
La piccola la ignorò, la cantilenò invece che ripeterla correttamente e, sbavando senza volerlo, si sporcò il viso e il mento di latte.
"L'aiuto io" proruppe Eliza mentre, veloce, afferrava un fazzoletto. "Ecco fatto, anche se sai che non si parla a bocca piena. Birichina" aggiunse poco dopo, accarezzandole una guancia e facendola ridere.
Intenerita da quella scena Demi rise a sua volta, e nel silenzio di quel mattino qualcuno bussò alla porta.
Come se attendesse una persona già a quell'ora, Eliza scattò in piedi e Mackenzie guardò la mamma. Stringendosi nelle spalle, lei non riuscì a capire.
"Scusa, Eliza, chi è arrivato?"
"Dovrebbero essere Isla, Oberon e le figlie. Io e te dobbiamo lavorare, oggi, quindi ho chiesto loro di accompagnare le tue. Ti va bene, vero?" rispose l'altra in tutta fretta, mentre si precipitava alla porta e attendeva di poter aprire.
"No, mi piacerebbe portarle di persona, in fondo è il loro primo giorno. Pensi che riuscirò a farlo, se ci muoveremo in fretta? E sei sicura che avranno tempo di vestirsi? In quella scuola non hanno un codice d'onore o qualcosa del genere?"
Nelle parole di Demi c'era perfino più foga di quella visibile nei movimenti di Eliza.
"Demetria, calmati! Se vuoi possiamo accompagnarle e arrivare comunque in tempo. È il loro primo giorno, non serve mettersi troppo in mostra, di sicuro avranno delle uniformi della loro misura. E metti qualcosa di comodo, hai visto gli altri volontari, no?"
La cantante fece cenno di sì e, poco dopo, Eliza aprì la porta. Proprio come aveva detto, davanti all'uscio c'erano i quattro membri della famiglia Hall, anche se data la presenza di Rover seduto ai loro piedi sarebbe stato più corretto dire che erano in cinque.
"Demi. Eliza. Allora, le bambine sono pronte?" chiese Isla, annunciando il suo arrivo con la solita cordialità che la caratterizzava.
"Non ancora, scusami. Dacci qualche minuto. Intanto entrate pure, e niente scherzetti sul tappeto, piccolo Arylu" replicò la padrona di casa, che subito dopo scompigliò il pelo del cagnolino.
"Nessun problema, aspetteremo" mormorò Oberon.
"Già, non siamo neanche in ritardo" continuò Lucy.
Una veloce doccia aiutò Demi a distendere i nervi e un paio di jeans blu e una maglia bianca con sopra stampate alcune note musicali si rivelarono perfetti per l'occasione, indice di ciò che più amava fare, sempre energica e pronta ad allietare gli animi con la sua musica. Mackenzie si sciacquò il viso, le mani e i denti e indossò di nuovo la gonna blu ricevuta in dono da Eliza, abbinandola stavolta e grazie all'aiuto della mamma a una camicetta bianca senza troppi fronzoli. In fin dei conti stava andando a scuola, non attraversando il red carpet con le celebrità come lei. Ridacchiando a quel pensiero, tornò in salotto per salutare Lucy e Lune e accarezzare Rover che le piantò addosso le zampe e le leccò le mani. Ben presto fu il turno di Hope, vestita quasi del tutto di bianco e con indosso delle scarpine nere.
Una volta pronta, Demi tornò da Eliza e dai suoi ospiti. Si sfiorò la fronte, passandosi il dito sopra la cicatrice di quell’incidente, con la sensazione di aver appena sudato correndo una maratona ed espirò, sicura che i piccoli dell'orfanotrofio l'avrebbero fatta sorridere. Si fece dare uno zainetto dalla padrona di casa. In quello che Mac usava per portare i suoi fogli infilò anche la merenda e tre quaderni che le diede la donna che li ospitava, assicurandole che ne aveva altri nel caso fossero serviti. La piccola corse a prendere qualcos’altro, ma la ragazza non capì di che si trattava. Nello zaino di Hope mise un cambio nel caso si fosse sporcata. Non aggiunse la merenda perché, almeno nel suo mondo, le maestre la davano.
"Eccoci, perdonate l'attesa.” Si avvicinò alla porta con le bambine. “Possiamo andare.”
La strada era piena di centinaia di pixie e folletti, accompagnati dai genitori, pronti per un altro giorno di lezione alla scuola di magia Penderghast. Demi non scorse altri visi amici e partì con il suo gruppo. Pensò a cosa sarebbe potuto succedere a Mackenzie dato il suo mutismo, ma si impose la calma e cambiò mentalmente strada. Che senso aveva percorrere la stessa ogni volta, immaginando scenari inesistenti e catastrofici? Nessuno.
Dopo qualche minuto si ritrovarono di fronte al cancello della scuola, con un alto cartello in ferro con una bandiera appesa e, sopra la porta d’ingresso, una P in verde brillante. Era già aperto, così entrarono come gli altri fino a raggiungere l’atrio.
“Vado a parlare con la Direttrice” mormorò la cantante ricordando il consiglio di Oberon.
Aveva sussurrato affinché le bambine non udissero.
Tornò dopo poco. Aveva trovato l’ufficio della Direttrice grazie ad alcune indicazioni date da un’inserviente. La donna l’aveva accolta con calore e, dopo aver saputo che si sarebbero fermate un po’, accettato Mackenzie e Hope senza problemi indicandole le classi nelle quali sarebbero dovute andare. La ragazza sorrise nel vedere le quattro bambine saltare di gioia.
“Avrete un primo giorno fantastico, ne sono sicura” le incoraggiò.
Le abbracciò e se ne andò con Eliza.
Il viaggio le parve infinito, la stancò ma, sapendo ciò che stava per accadere, si fece forza e proseguì. Più volte camminò in punta di piedi per dar loro sollievo o si massaggiò le gambe indolenzite, ma per fortuna la loro andatura era lenta. A un certo punto si ritrovò con lei proprio davanti all'orfanotrofio. Cercò la sua mano per un briciolo di sicurezza e lei gliela strinse. La cantante si fermò, trasse un gran respiro, contò fino a dieci e le due entrarono.
Vennero accolte dalla Direttrice, da Julie, la volontaria già conosciuta e dalle altre colleghe e non ci volle molto prima che anche i disegni dei bambini, schizzi infantili ma secondo Demi bellissimi nella loro semplicità, facessero lo stesso.
"Jacqueline, ciao. Siamo in ritardo?"
"No Eliza, tranquilla. Theresa e io ci chiedevamo quando sareste arrivate. Prego, guidala pure, i piccoli vi aspettano."
Seguita da Demi, la donna entrò nella prima stanza alla fine del corridoio: quella dei neonati. Si portò un indice alle labbra per chiederle di fare silenzio. Demi rivide la piccola pixie Maisy, che ora aveva due giorni, lo gnometto Thior e Lilith, l'elfa che ormai aveva compiuto due mesi, si era trasformata in una bambina umana dai lucenti capelli neri e non era ancora stata trasferita nella camera lì accanto.
"Che dici, dormono?" sussurrò, assicurandosi di non disturbarli troppo.
"No, ma si spaventano con facilità. Avvicinati e, se proprio vuoi, parla piano" le rispose Eliza, muovendosi a scatti verso un armadietto chiuso a chiave.
Lo aprì con una di riserva che teneva nella tasca della veste e questo cigolò.
"Eliza, che stai facendo?"
"Sono le nove e un quarto, è ora che mangino di nuovo."
Indicò l'armadietto appena aperto con un gesto della mano.
Incuriosita, Demi si avvicinò. Conteneva oggetti piccoli e colorati simili a biberon, pieni invece che di latte di una strana sostanza a esso uguale per colore e consistenza, e per qualche motivo brillante.
“Quello cos'è?"
"La loro colazione. Se ti va, prendine uno e versa qualche goccia nelle lanterne, vedrai che succederà."
“Lo beve anche Lilith o dobbiamo dargliene di normale?”
“Finché è qui può bere questo senza problemi.”
Demetria eseguì e si avvicinò a quella dell’elfa. In totale onestà non avrebbe saputo spiegare perché avesse scelto lei e non gli altri, ma se le fosse stato chiesto, si sarebbe limitata a sorridere e dire che seppur magica, quella bimba le ricordava troppo la sua Hope forse a causa del colore dei capelli e degli occhi. Cauta, imitò Eliza sfiorando con le dita la catenina d'oro che teneva chiusa la sua lanterna e, prendendo in braccio l'elfa, le porse il biberon. La donna le mostrò un sorriso d'incoraggiamento.
"Vieni.” Le indicò la finestra rimasta aperta da cui filtrava quella del sole. “Hanno bisogno di luce, oltre che di cibo, per vivere."
Demi annuì, fece ciò che le aveva chiesto Eliza e in un attimo la piccola si attaccò alla tettarella. Sostenendola perché non si sforzasse o facesse male, la cantante rimase incantata. Non aveva parole. Era una sensazione indescrivibile, un po’ come quando aveva dato il latte a Hope per la prima volta. Tra le braccia aveva una creatura da proteggere e che necessitava della sua presenza. Andrew non era con lei, ma, se ci fosse stato, anche lui si sarebbe sciolto come neve al sole. Come si poteva non amare degli esserini così teneri?
“Perché sta ancora in quella se ha già due mesi?” chiese indicando la lanterna ora vuota.
“Prima della trasformazione si vede una luce fortissima, quasi accecante e all’improvviso la sfera luminosa diventa un neonato. Il piccolo può rimanere nella lanterna ancora per qualche giorno, ma poi è meglio utilizzare le culle, le carrozzine e tutto ciò che serve a un bimbo di quell’età, cosa che con Lilith faremo presto.”
“E come vi accorgete che i bambini hanno fame, dato che sono sfere luminose e non piangono?”
“Si agitano spesso, quando sono affamati. Io lavoro solo di giorno, ma un paio di volontarie restano qui la notte per controllarli e altre lo fanno con i bimbi più grandi. I bambini di tre, quattro, cinque o più anni si possono lasciare da soli per alcune ore, ma ci dev’essere sempre qualcuno per quelli di età inferiore e, comunque, anche i maggiori devono poter chiamare se hanno bisogno, per questo le volontarie sono parecchie e si gestiscono con gli orari.”
Poco lontana da Demi, Eliza si stava occupando di Thior che, al sicuro nella sua lanterna e troppo piccolo per uscirne, accettava ciò che gli offriva brillando con intensità sempre maggiore.
"Demetria, guarda" la pregò.
Ormai sazio, Thior si divertiva a giocare a modo suo con un sonaglio simile a quello che la cantante aveva visto durante il colloquio con le anziane, che se scosso, liberava polvere magica. Lo gnometto si agitava nella sua lanterna e, emettendo come al solito luce propria, parve danzare fra quelle piccole mura.
"Avevi ragione, è proprio un tesoro" commentò.
"Già" si limitò a risponderle l'altra, chiudendo gli occhi per evitare che una lacrima le solcasse il viso, mentre un sorriso le increspava le labbra.
Poco dopo aver nutrito anche Maisy, Ashley e Matthew, le due lasciarono quella stanza assicurandosi che i piccoli dormissero. Passarono a salutare Martin e Clary, entrambi addormentati nelle loro culle, raggiunsero un’altra porta ed entrarono. Lì trovarono i cinque bambini, che andavano tutti dai sei mesi all'anno e mezzo d'età, che Demetria aveva visto con Andrew. La ragazza seguì l'esempio di Eliza, che intanto si era seduta sul divanetto della stanza con in braccio un piccolo leprecauno. Aveva sei mesi e rideva e sorrideva soltanto guardandola. Gli fece il solletico e, coprendosi il viso con le mani, lo sorprendeva ogni volta.
"Dov'è andata Eliza? Dov'è?" gli chiedeva, avendo il piacere e la fortuna di sentirlo ridere ancora. "È qui!" rispondeva pochi attimi dopo, spostando le mani e storcendo il viso in mille facce buffe.
Il piccolo agitava braccia e gambe, non lasciando mai il suo giocattolo preferito. Semplice eppure adatta alla sua specie oltre che all’età, una finta pentola d'oro che Eliza gli insegnò a usare a dovere. Diede al bimbo una delle monetine di gomma e, facendo attenzione che non le mettesse in bocca, le mise al loro posto proprio nella pentola, invitando poi il bambino a imitarla.
Demi, che osservava da lontano mentre dondolava sulle ginocchia una pixie di un anno, le sorrise. La piccola volle scendere e camminare, e raggiunto il tappeto si inginocchiò alla ricerca di qualcosa con cui giocare. Demetria non osò interromperla, e attimi dopo la vide tornare indietro con in mano un cubetto di legno.
"Vuoi giocare, pixie? Va bene, aspetta" concesse, inginocchiandosi con lei sul tappeto.
Con mano ferma e rispettando i tempi della piccola, attese che capisse cosa fare e poi, insieme, innalzarono una torre di cubi alta fino al cielo, o così a Demi piacque pensare almeno fino a quando, annoiata o forse desiderosa di ricominciare, la bambina non mosse il cubo sbagliato e l'intera costruzione crollò.
È ora di cambiare idea.
Demi scorse proprio sul tappeto un Arylu di peluche. Sorridendo lo porse alla bambina e questa se lo strinse al petto. A quella vista, il cuore della ragazza si sciolse. Nel frattempo, Eliza aveva preso in braccio anche una piccola elfa, mentre un’altra volontaria si occupava dei due maschi, sempre della stessa specie.
A Eliza viene tutto così naturale. Io ho due figlie di età diverse e, per quanto sia diventata sempre più brava con il passare del tempo, a volte faccio fatica a gestirle.
Si avvicinò alla donna dopo aver fatto sedere di nuovo la bambina sul tappeto.
“Sei bravissima con loro. Io con Mackenzie e Hope a volte ho ancora difficoltà. Sono bambine tranquille, ma gestirne due, fra scuola e tutto il resto, non è facile.”
“Comprendo perfettamente. La sera in cui ho trovato Kaleia e Sky nel bosco, infreddolite, bagnate e affamate, ho subito detto loro di venire con me quando ho saputo che si trovavano lì da tempo. È stata una decisione improvvisa, inizialmente non mi sono ben resa conto che la mia vita sarebbe cambiata.”
“Accidenti, tutto così in velocità” mormorò Demi, dando all’altra la possibilità di udire. “Se sulla Terra ci fossero leggi diverse da quelle attuali riguardo l’adozione, non so se sarei stata in grado di prendere con me Hope e Mackenzie subito, senza ragionarci bene con l’assistente sociale e sola con me stessa, o a organizzarmi anche dal punto di vista pratico per accoglierle al meglio. Immagino che i giorni dopo tu abbia dovuto quantomeno fare compere.”
“Vestiti, giocattoli, libri per la loro età… Ero molto giovane, allora, di certo non pensavo che mi sarei fatta così presto una famiglia, ma è successo. Quando sei madre hai un’enorme responsabilità. Io lavoravo, dovevo lasciarle a qualcuno, portarle a lezione e gestire i vari impegni. Non è stato semplice.”
“E sappiamo che non è sempre facile crescere bambini che hanno sofferto.”
“Infatti. Mi hai detto che Mac ha incubi e qualche crisi.”
“Sì, sono entrambi molto brutti. Calmarla non è facile, le devo parlare, darle dell’acqua, ma a volte non so nemmeno io come comportarmi. Le crisi sono poche, ma sono le peggiori.” Una volta erano andate al parco e avevano incontrato un uomo che fumava. Mackenzie era corsa via, poi si era seduta a terra e aveva iniziato a tirare pugni all’asfalto. “Credevo le sarebbe uscito sangue dalle nocche. Guardava nel vuoto, non sembrava più lei” mormorò la ragazza, portandosi una mano alle tempie e deglutendo per impedire al dolore di trasformarsi in pianto.
Non avrebbe mai più dimenticato gli occhi inespressivi della sua bambina.
Sembrava persa, stordita, come se non fosse più stata in contatto con la realtà pensò.
“Dev’essere stato terribile!” esclamò Eliza.
La cantante fu scossa da un violento tremore.
“Sì. Le ho detto di calmarsi, che nessuno avrebbe voluto farle del male, usando il tono più dolce che potevo e, con le coccole, si è tranquillizzata. Di solito funzionano. Ma ho avuto paura di non riuscire a gestirla, come ogni altra volta.”
Trasse un profondo respiro e si fece portare dell’acqua dall’altra umana. Dopo qualche sorso stette meglio e guardò i bambini per concentrarsi su qualcosa di bello, che non fossero quei ricordi dolorosi.
“La psicologa cos’ha detto a riguardo?”
“Non ci andava ancora, ma credo che probabilmente mi avrebbe spiegato che in quel momento ha rivissuto il trauma, o una parte di esso, tramite un flashback, un insieme di memorie intrusive che fanno sentire la persona distaccata dal presente.”
“Dolce Dea!” Eliza si portò una mano alla bocca. “E poi ne avete parlato, tu e Mackenzie?”
“Poco. Le ho domandato se le aveva ricordato la sigaretta dell’uomo cattivo e lei ha annuito e poi le ho chiesto, da stupida, se allora non aveva dimenticato l’incubo fatto la sera precedente. Non ricordo cos’aveva sognato, ma comunque era sempre riferito al suo passato. Ha fatto cenno di no e allora mi sono decisa a farla aiutare, non solo perché stava male, ma anche dato che non si apriva molto con me riguardo il suo malessere.”
“Hai fatto la cosa giusta.”
“Avrei dovuto agire molto prima, in realtà, ma ho aspettato che l’adozione fosse finalizzata e sono successe altre cose, e…”
Eliza le prese una mano e la ragazza smise di parlare e prese un gran respiro. L’altra donna sussurrò:
“L’importante è che tu l’abbia fatto.”
“Già.”
“Sky non ha mai avuto reazioni del genere, ma mi parlava pochissimo e non mi guardava nemmeno in faccia. La sera, a letto, piangevo con il viso immerso nel cuscino.” Si era detta di essere una madre incapace, le raccontò, che forse sbagliava a causa della giovane età e dell’inesperienza, ma mai avrebbe portato quelle pixie all’orfanotrofio. Si erano già sentite abbandonate, non avrebbe fatto provare loro di nuovo quella sensazione. “Dopo un po’ di tempo le cose sono migliorate.”
“Sì, anche per Mackenzie è stato così, ma ogni tanto crolla. L’episodio del parco risale a qualche mese fa.”
“In ogni caso, stiamo facendo del nostro meglio come mamme. È sempre stato così, ne sono sicura!” esclamò Eliza, per risollevare a entrambe il morale.
“Sì, lo credo anch’io.”
Poco dopo, per i piccoli fu ora della merenda del mattino. Se ai più giovani toccò un biberon dello strano latte unito a quella che la cantante immaginò essere polvere magica, quelli un po’ più grandi mangiarono frutta omogeneizzata o vasetti di yogurt. Demi si inginocchiò sul tappeto dopo aver fatto sedere la sua pixie in un seggiolone e le porse un cucchiaino di purea di mela.
"Su, piccola, provalo" la incoraggiò.
All’inizio la bimba storse la bocca, ma dopo qualche cucchiaiata ci prese gusto e, invogliata sia da Demi che da quel sapore, finì il suo vasetto chiedendo con lo sguardo e il pianto che gliene venisse dato un altro. Per variare, la ragazza provò con uno alla pera e almeno allora la bimba non fece capricci. Nel frattempo, Demi si chiese cosa stesse accadendo a quella così prestigiosa scuola nel villaggio di Eltaria.
 
 
 
NOTA:
la questione dei flashback e delle memorie intrusive è un sintomo comune nel disturbo post traumatico da stress, o PTSD, di cui Mackenzie soffriva già allora. Durante questi episodi ci si sente distaccati dalla realtà e si possono sentire rumori o odori legati al trauma, oltre a vedere immagini che lo ricordano e vivere tutto ciò come se l’evento traumatico stesse avvenendo in quel momento. Ho preso tali informazioni dal sito www.healthyplace.com.

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Capitolo 16
*** Primo giorno alla Penderghast ***


CAPITOLO 16.

 

PRIMO GIORNO ALLA PENDERGHAST

 
Arrivata da due ore a scuola con Lucy e Lune, Mackenzie credeva di essere fuori posto, sopraffatta da un senso di profonda solitudine. Non scriveva niente, né prendeva appunti sulla lezione iniziata alle otto e che, stando a ciò che c'era scritto sulla lavagna, era una di Teoria Magica. Composta, guardava sia quella che l'insegnante, ma si spaventava e distoglieva lo sguardo. Cos’avrebbe fatto se la maestra l'avesse notata? Non riusciva a parlare, che avrebbero detto tutti i presenti? Non ne era sicura e nel dubbio attendeva. La ragazza non aveva fatto l’appello e lei era seduta in ultimo banco, forse per questo non si era accorta della sua presenza.
"Bambini, chi sa dirmi cosa sta alla base della piramide elementale?" chiese l’insegnante.
Piramide elementale? pensò lei, confusa.
Cosa diamine era? Tenendo le mani intrecciate, desiderò di diventare invisibile. Era assurdo solo pensarci, ma ora eccola lì seduta a fissare le pagine del suo nuovo quaderno ancora bianche come la propria camicetta e a rimpiangere la scuola di Los Angeles. Lì aveva a che fare con i bulli anche se la situazione si stava, forse, risolvendo e durante un'interrogazione aveva indicato San Francisco come capitale della California anziché Sacramento, ma almeno riusciva a capire di cosa il materiale parlasse. Strinse la presa sulla sua penna fino a farsi male e sospirò.
Fa’ che non chiami me, ti prego, fa’ che non chiami me implorò, sperando che qualcuno più in alto di lei riuscisse a sentirla.
Attimi dopo il silenzio dell'aula fu tale da renderla sorda e, nonostante le sue preghiere, prima udì la voce dell'insegnante, poi fu colpita dal suo sguardo fisso su di lei. La bambina si limitò a ricambiarlo, sospirando di sollievo quando uno dei compagni alzò la mano. Perfino più bassa ma meno timida di lei, una piccola elfa dai capelli castani che, sicura della risposta, cercava di farsi notare.
"Miss Godfrey, miss Godfrey! Lo so, lo so!" seguitava a dire.
"No, no, Harmony. Sei una brava alunna, ma diamo un'occasione alla nuova arrivata, d'accordo?" le rispose la maestra con il suo solito tono gentile.
Il cuore di Mackenzie batteva come impazzito nel petto e, pur aprendo la bocca per parlare, non si stupì affatto quando non ne uscì alcun suono. Come se non bastasse, non conosceva quella dannata risposta. Che fare ora? Tutti la guardavano. Respirando appena, abbassò lo sguardo e prese a scrivere. Menzionò i suoi genitori naturali e fu colta da un cerchio alla testa e una fitta allo stomaco che la piegò in due. Spesso si distraeva, ma il dolore restava sempre, qualsiasi cosa facesse, dovunque andasse, per presentarsi più forte in alcuni momenti. Trarre anche un solo respiro le risultò impossibile, ma contò fino a dieci e si sforzò di contenersi. Non voleva scoppiare a piangere davanti a tutti, per cui si girò dall’altra parte e si premette un fazzoletto sugli occhi. Raggiunse la cattedra e consegnò il foglio all’insegnante. Si disse che avrebbe potuto andare da lei molto prima, ma l’incertezza, la paura e la confusione l’avevano bloccata. La maestra aprì e poi chiuse la bocca. "Mackenzie,” sussurrò la maestra, “stavo per dire che la Direttrice ci ha informati tutti della situazione e che conosco la tua difficoltà, oltre che quello che hai passato. E mi dispiace tantissimo, anche se so che le mie parole significano poco in casi come questo. Anzi scusami, avrei dovuto presentarti subito alla classe, sono imperdonabile.”
Non ti preoccupare. E grazie.
Mackenzie le sorrise per lasciarle intendere che non si era offesa. Miss Godfrey le spiegò che, per non agitarla, aveva preferito lasciarle del tempo per ambientarsi, anziché chiederle subito di presentarsi davanti a tutti e si scusò di nuovo. Le disse anche che a Eltaria bisognava dare del lei agli insegnanti, un’altra differenza, rifletté la bambina, rispetto a quanto accadeva a Los Angeles. Sperò che non si sarebbe sbagliata più e riprese a scrivere.
Ho paura. Sono umana e non magica e qui nessuno mi si avvicina. Insomma, non ho neanche la divisa! Sono… sono nel posto sbagliato?
Osservò i propri vestiti e i compagni che, a differenza sua, indossavano sopra gli abiti una divisa verde e nera, con lo stemma della scuola cucito all’altezza del petto.
"Che sta succedendo? Ha una giustificazione? Perché non parla?" azzardò un folletto da un banco in centro all'aula, curioso.
"No, piccola. Hai il diritto di stare qui come tutti gli altri” le sussurrò all’orecchio la maestra. Alzò appena la voce. “Evan, Mackenzie è umana, è nuova qui, non è mai stata in questo regno e non capiva la lezione."
"Ma perché scrive?" continuò il folletto, serio.
Nella letterina la bimba aveva anche pregato la maestra di non dire niente a nessuno, perché conosceva tutti ancora molto poco.
"Non ci riesce da tempo. Non posso rivelarvi il motivo e vi chiedo, per favore, di non domandarle nulla a riguardo. Se mai se la sentirà, ne parlerà con alcuni di voi, ma non statele addosso. Ho comunque una bella notizia: resterà con noi per qualche tempo. Vorrei che vi comportaste bene con lei, fatela sentire a suo agio, d'accordo? Non è magica e non abbiamo mai avuto un’umana in questa scuola, ma c’è sempre una prima volta e dobbiamo trattarla come una di noi."
Un coro d'assenso riempì l'aula e, sorridendo appena, Mackenzie si diresse verso il proprio posto. Nella vecchia scuola ci erano voluti mesi prima che i compagni la capissero e lì, in quel regno di fate, magia e speranza, appena un giorno. Tornò a sedersi più serena.
“Mackenzie, non preoccuparti per la divisa. La Direttrice me ne ha data una apposta per te, stavo per consegnartela.” Si diresse verso un appendiabiti vicino a una parete dove, suppose la bambina, d’inverno i bimbi appendevano i giubbotti. Lì c’era la sua divisa. “Ecco. Va’ pure in bagno a indossarla.”
La bambina ringraziò e uscì.
Non l’avevo notata, prima. È davvero bella! pensò.
E inoltre comodissima e perfetta per la sua taglia. Quando ebbe finito, tornò in classe. Chiese alla maestra se anche i bambini dell’asilo dovessero indossarla e lei le rispose di no.
“Ti va di presentarti alla classe e dire qualcosa di te?” le chiese Nancy Godfrey.
La bimba le diede un’altra veloce occhiata. Era sulla trentina e, vestita con una tuta blu e una collana d’argento, anche carina.
Certo. Tossì come se avesse voluto schiarirsi la voce, poi si alzò. Mi chiamo Mackenzie Lovato, ho sei anni e sono qui con i miei genitori, Demi e Andrew, e la mia sorellina Hope che frequenta l’asilo in questa scuola. Mi piace leggere e adoro gli animali.
La maestra ripeté ad alta voce e lei non aggiunse altro.
“Bene, allora benvenuta in questo regno!” esclamò la donna seguita dai bimbi e Mac sentì il suo cuore scaldarsi.
Qualcuno la distrasse. Di nuovo una voce nell'aula, la stessa della bambina dalle orecchie a punta.
"L'aiuto io."
Era Harmony che, ottenuto il permesso dell’insegnante, si accomodò accanto a lei e si presentò. Mackenzie le sorrise per ringraziarla e riprese il suo quaderno.
Mi rispieghi dall'inizio, per favore? Cosa cavolo è questa piramide?
Con uno sforzo di concentrazione non indifferente era riuscita a disegnarla, ma non capendo nulla della spiegazione dell'insegnante l'aveva lasciata bianca, spoglia dei simboli che vedeva. A quanto ricordava, gli stessi osservati anche sul retro delle scatole di Fairy O's e che la incuriosivano. La sua compagna aprì il proprio astuccio e afferrò una manciata di matite colorate.
"Certo! Non è difficile, fidati." Ricopiò quel disegno e alcuni altri su una nuova pagina di un quaderno. "Ecco, vedi la foglia?"
Mackenzie annuì.
"Bene. Indica il potere della natura. Nessuno dei nostri compagni di classe ce l'ha, ma sta alla base, proprio come gli altri quattro."
Parlava con lentezza, mentre aggiungeva figure e dettagli alla sorta di grafico che aveva appena disegnato.
Quattro? Ma ci sono sette spazi! protestò la bambina.
"Esatto, ma tu guarda in basso. Ci sono natura, acqua, aria, fuoco e terra. È soltanto uno schema, lascia stare la sua forma" proseguì l’elfa, per poi scostarsi piano i capelli dal viso. Mackenzie contò e ricontò quelle figure.
Natura, acqua, aria, fuoco e terra si ripeté nella mente. Per essere più sicura annotò quei nomi, prima accanto e poi sotto ai disegni. E gli altri due?
Distratta, Harmony non la udì. Miss Godfrey camminava fra i banchi per controllare il lavoro dei bambini e, notando la giovane umana in difficoltà, si avvicinò. Le prese la mano e la aiutò a correggere una parola scritta male.
"Cosa fai, ti mangi le lettere?” scherzò. “È acqua, non aqua" le fece notare, guidandola gentilmente.
Oh! Scus… ehm, mi scusi, non… scribacchiò arrossendo.
"No, non fa niente, capita. Chissà, forse la penna ti è scivolata dalle mani."
Rinfrancata dalle sue parole, Mackenzie ricambiò il sorriso che la donna le rivolgeva e sfiorò gli unici due spazi rimasti vuoti nella sua piramide incompleta.
Qui cosa metto? Non vedo bene da così lontano. Possibile che siano solo due cerchi?
Grazie all'aiuto di Harmony la lezione non era più tanto difficile, ma fra una parola e l'altra si era dimenticata di quel dettaglio e ora, impegnata con i propri scritti, l’elfa l'aveva lasciata sola e con quel dubbio in mente.
“I tuoi tratti sono delicati, sei brava a disegnare a matita, Mackenzie.”
La bambina avvampò, mettendosi le mani sulle guance bollenti per raffreddarle.
Grazie, Miss!
L’insegnante prese in mano l’oggetto e si occupò di terminare quella sorta di capolavoro. Disegnò i due cerchi che la bambina aveva visto: uno rimase vuoto, mentre accanto all'altro aggiunse delle piccole stelle.
"Hanno la stessa forma, ma non sono solo cerchi. Uno rappresenta il sole, l'altro invece la luna. Se ti serve puoi scrivertelo, oppure colorarli."
La maestra si voltò richiamata da Evan e Mackenzie si fece spiegare, stavolta da Harmony, quella che nel mondo magico veniva chiamata compatibilità elementale. Un concetto semplice, reso difficile solo dai paroloni che aveva per nome.
"Sei fortunata, oggi stavamo solo ripetendo e questo ci è stato insegnato la settimana scorsa. Tanti di noi non capivano, così Miss Godfrey ne ha fatto un gioco. Pensa a questo. La terra è tutta attorno a noi, la vedo sempre quando cammino nel bosco e intorno c'è la natura, quindi sono collegate, ci sei?"
Sì.
Era solo il suo primo giorno, ma quell'elfa aveva ragione, era tutto più facile di quanto sembrava.
"Benissimo, poi ci sono acqua e fuoco. Una spegne l'altro, ma se la prima non ci fosse la natura non vivrebbe, perciò devono restare in equilibrio. Mi capisci?" continuò, cercando le parole giuste da usare.
Sì. Poi cosa c'è? L'aria, giusto? tentò Mackenzie, interessata a quella sessione di studio, mentre scriveva righe e righe di appunti.
"Brava, cominci a comprendere" si complimentò Harmony. "La maestra ci ha spiegato che è il simbolo della libertà. Non è legata a nessuno ma vicina a tutti noi, dato che ci serve per respirare. Quello che sto per dirti è scienza: è come se tutti facessimo parte di un eco… eco…"
Si bloccò su quella parola così lunga e difficile da pronunciare.
"Ecosistema, sciocca di un'elfa!" rispose per lei una voce proveniente da un'altra parte dell'aula.
"Zitto, Evan" lo rimbeccò la diretta interessata stringendo i denti. "Sai come mi chiamo, sono Harmony!" urlò.
"Non gridare. Ma ha ragione, signorino. Non sono cose da dire, fanno star male le persone." La maestra passò da dolce a dura in un solo istante. "Avanti, chiedile scusa" gli intimò.
Il bambino arrossì per la vergogna.
"Scusi, Miss Godfrey, e perdonami anche tu, Harmy" sussurrò, usando un diminutivo con il quale a volte la chiamavano tutti e che non le dava fastidio.
“Scuse accettate” brontolò la bambina.
La ragazza sostenne il suo sguardo e, con le mani ai fianchi, tornò al posto in cattedra.
"Che non accada mai più, intesi? Non in quest'aula, non tollero comportamenti del genere!" finì per gridare, battendo un pugno sul tavolo.
Impietriti, i piccoli alunni restarono a guardarla dimenticando per un attimo di respirare, e in silenzio tornarono a lavorare sui pochi concetti appena appresi. Tutti tranne proprio Mackenzie, che per qualche secondo ricordò i suoi problemi terreni. Molti compagni, in particolare tre, l’avevano offesa più volte in quel periodo e in maniera pesante. Respirò a fondo per non scoppiare in lacrime.
"Cielo, non lo sopporto quando fa così. Non riesco a ignorare insulti del genere" bisbigliò Harmony al suo indirizzo, le braccia ancora conserte sul banco per la rabbia.
L’altra capì che avrebbe dovuto trovare qualcosa da dire per risollevarle il morale.
Nemmeno io. Non lo conosco, ma non mi piacciono i bulli. Prova a non pensarci e aiutiamoci, va bene?
"Va bene."
Qualche minuto più tardi, un suono disturbò la quiete della classe.
"È l'intervallo, ma è meglio non muoverci mentre Miss Godfrey è arrabbiata" le spiegò Harmony.
Mackenzie riaprì lo zaino e ne estrasse un panino al prosciutto. L’elfa aveva con sé due brioche al cioccolato, e nonostante la gola, l’altra non si intromise. Ancora scossa, mangiò senza voglia, ogni morso una sorta di dovere. Miss Godfrey diede ai bambini il permesso di muoversi. Alcuni uscirono in corridoio, altri rimasero dentro e la maestra andò fuori dalla classe, ma restò nei paraggi a controllare la situazione.
Mackenzie e Harmony non si mossero. Poco dopo, qualcuno si avvicinò a loro.
"Ciao."
Bassina, una bambina con gli occhi azzurri e i capelli rossi, sul polso una piccola fiamma, il che significava che quasi sicuramente era una pixie del fuoco.
"Ciao, Mahel. Vieni, siediti pure" le rispose subito Harmony. “Lei è Mackenzie. Mackenzie, questa è Mahel. Dai, salutatevi!"
Le due bambine si sorrisero appena e si strinsero la mano. Spostando una sedia senza far rumore, anche la pixie si unì a loro.
"Perché non hai un segno?" chiese a Mac.
Non ne ho mai avuto uno. Come ha detto Miss Godfrey, Sono un'umana.
"Oh! Nemmeno due ragazzini nell'altra classe ce l’hanno" rispose la bambina di fuoco.
A quelle parole Mackenzie sorrise di nuovo e finì la sua merenda.
Allora, cosa fate per divertirvi?
Harmony prese la parola.
"Io e le altre compagne abbiamo un gioco. Lo fanno in tanti, si chiama Magimani."
Magi… come?
"Magimani" ripeté l'elfa, parlando piano perché capisse. "Si fa così."
Sollevò entrambe le mani. Mahel si unì al gioco e, non appena i palmi delle due pixie batterono l'uno contro l'altro, stille di magia si liberarono nell'aria, rosse e verdi come i loro elementi.
Però! Fico! commentò Mackenzie, meravigliata.
Conosceva quel gioco, l'aveva provato più volte sia con Hope che con la mamma, ma a quanto sapeva non aveva un nome. Chissà che stava accadendo nell'aula della sorellina.
"Mac, i fichi sono frutti" le fecero notare, interdette, parlando all'unisono come gemelle.
Certo, ma è anche un modo di dire di noi umani. Se qualcosa è fico, allora è bello spiegò, stando al gioco e ridendo con loro.
Dopo altro divertimento, la campanella suonò di nuovo. L'intervallo era finito e le due bambine tornarono ai propri posti, ma non senza aver prima sorriso a Mac. Lei si sfiorò il cuore, che batté più forte. Si sarebbero incontrate anche in un altro sogno? Una parte di lei non vedeva l'ora di scoprirlo e ci sperava.
Dopo la ricreazione, ad aspettarle ci furono un’ora di matematica e una di lettura. Contrariamente a ciò che pensava Mackenzie, in quella scuola si insegnavano anche materie scolastiche umane e per fortuna la matematica era più facile della magia. Ascoltava senza distrarsi, prendendo appunti su una nuova spiegazione. La lezione del giorno riguardava le addizioni. Secondo l'insegnante, di cui non ricordava il nome, nonostante si fosse appena presentato proprio a lei, nient'altro che una somma di vari numeri. Per provare quella regola, l’uomo scrisse tanti esempi alla lavagna.
"Se qualcuno di voi non capisce, ditelo pure" pregò il maestro.
In risposta un silenzio di tomba, e poco dopo la lezione riprese. A spiegazione finita, l’insegnante assegnò una decina di operazioni da risolvere. Se Mac fu tranquilla e pronta a lavorarci, lo stesso parve non valere per Harmony. Nonostante la distanza, Mackenzie la notava con i pugni stretti e la schiena persino troppo dritta, in tensione come spesso accadeva a Lizzie durante i compiti di quella stessa materia. Se la cavava se si trattava di studiare la teoria, ovvero, ad esempio, il modo in cui svolgere un’operazione, ma le formule, per quanto semplici, non le entravano mai in testa.
"Mac! Ehi, Mac" la chiamò l’elfa, a voce bassa e con le ali tremanti, andando alla forse disperata ricerca di aiuto.
La bambina la guardò negli occhi e l'espressione di puro terrore che aveva in volto parlò per lei.
"Harmony, mi dispiace, il maestro mi vedrà!" sembrava dire.
 
 
 
Questa tornò a fissare le proprie risposte senza alcuna convinzione. Stava imparando, ma gli altri avevano già finito, perfino Evan che la prendeva in giro, e come poteva cinque più cinque fare venti? Aveva sbagliato? Di poco? O era un errore più grave? Vicina alle lacrime, rischiò di scoppiare a piangere, e notandola, il maestro si alzò dalla sedia.
"Harmony. Che succede?” le chiese, posandole una mano sulla spalla.
"Non lo so, forse ho sbagliato" rispose la pixie, le ali sempre in movimento a causa dell'ansia. L'insegnante sollevò un sopracciglio, prese in mano la propria penna rossa e corresse ognuno degli errori. La piccola pixie sentì gli occhi riempirsi di lacrime, specialmente di fronte a quei segnacci rossi. Non era la prima volta che li vedeva, e ognuno era una dimostrazione di quella che credeva essere scarsa intelligenza.
"Harmy, piccola, sono solo calcoli sbagliati, non hai motivo di piangere. Qui hai sforato di appena quattro numeri. Cinque più dieci fa quindici, non undici, pixie! Cinque più cinque fa dieci, non venti. E poi, tre più sette fa dieci, tu hai scritto dodici, ti sei confusa con tre più nove, per caso?"
"F-forse, non volevo" si difese la bambina, piena di vergogna.
"Tranquilla, non è un problema, ti sei corretta. Imparerai presto, te lo prometto."
La guidò nella riscrittura di ogni calcolo, facendole sempre capire perché aveva sbagliato.
Harmony sorrise appena e si asciugò le lacrime. Nonostante tutti i suoi dubbi, il maestro aveva ragione e, alzando lo sguardo fino a incontrare il suo, si sentì meglio. Ritrovata la fiducia in se stessa rifece da sola ogni operazione da capo e, una volta finito, pregò che almeno allora fossero giuste. Senza una parola, l'insegnante si occupò di controllarle e, orgoglioso, non dovette neanche tirar fuori la penna. Abbassandosi quanto bastava, la strinse a sé.
"Visto? Ti avevo detto che avresti imparato" le ripeté, la voce bassa perché solo lei potesse udirlo.
La bambina ricambiò quella stretta.
"La ringrazio" mormorò, felice di sapere che era dalla sua parte.
La mamma e il papà le avevano insegnato a rispettare i propri superiori e a fidarsi, e Mister Alan Baxter era proprio la persona giusta.
 
 
 
Poco lontana da lei, anche Mackenzie si ritrovò persa in pensieri del genere, in particolar modo quando il volto di Miss Godfrey le riapparve in mente. Evan l'aveva fatta arrabbiare e in quel momento la tensione in aula si sarebbe potuta tagliare con un coltello, ma nonostante tutto era stata buona con lei, decisa a presentarla alla classe e a farla sentire a suo agio. Inoltre nessuno le aveva chiesto nulla, tutti stavano rispettando il fatto che non volesse aprirsi riguardo i motivi che l’avevano portata al mutismo. Ed era strano, vista la curiosità dei bambini e che caratterizzava anche lei, ma forse in quel mondo i piccoli erano più buoni che sulla Terra. Sorridendo, non attese che di scoprire il prosieguo di quella giornata.
L’ora seguente fu dedicata alla lettura. Solo una seccatura a giudicare dalle espressioni annoiate dipinte sui volti di alcuni dei compagni, ma per lei una vera liberazione. Leggere le piaceva. Era una possibilità di imparare, scoprire e passare il proprio tempo, un’occasione per vivere una vita diversa dalla propria. Aprire un libro, per Mackenzie, significava tenere in mano una piccola chiave capace di spalancare innumerevoli porte, ognuna delle quali conduceva nello stesso magico luogo: la fantasia. Era come viaggiare senza mai sapere dove sarebbe arrivata.
Era stato proprio leggendo che aveva conosciuto Kaleia, Sky, Eliza e il loro mondo. Senza una compagna da cui seguire, aveva abbassato lo sguardo verso il suo zaino alla ricerca di un libro, così che l'insegnante, Miss Adriana Spellman, non si arrabbiasse scoprendola senza nulla da leggere. Tirò fuori un volumetto con un drago sulla copertina e alcune uova al suo fianco. Si trattava di uno di quei libri che aveva acquistato all’emporio. Non volendo portarli tutti per non avere troppo peso sulle spalle, la bambina ne aveva scelto solo uno.
“I personaggi non restano soli, se li porto con me” si era detta e scusata con gli altri, promettendo che li avrebbe letti con calma.
“Che libro hai?” le domandò Miss Spellman, che si era avvicinata. “Ma è lo stesso dei tuoi compagni! Come sapevi che avremmo letto questo, se sei arrivata oggi?”
Non ne avevo idea.
Bastò un attimo e perse la cognizione del tempo. Si ritrovò a vivere un'altra vita, sola ma non spaventata, in un bosco simile a quello di Eltaria, vicina a una grotta già vista. Che appartenesse ad Aster e alle sue sorelle ninfe? Voltò pagina. Si trovava ancora alla Penderghast, ma allo stesso tempo in quello strano bosco e non poteva crederci. Tutto le appariva alieno eppure conosciuto, e le veniva da ridere. Trasse un respiro. Poco oltre gli alberi, nella grotta di dura roccia, cauto e acquattato dietro a un cespuglio, c’era un ragazzo dai capelli neri e l’abbigliamento di un esploratore: scarpe da ginnastica, una maglietta leggera, uno zaino sulle spalle e perfino una sorta di elmetto con annessa una lampadina ora spenta. Catturata, Mac si affrettò a leggere il seguito. Alla sua vista il giovane si era portato un dito alle labbra.
“Non fare rumore, o mi scoprirà” le sussurrò poi, risultando troppo enigmatico per i suoi gusti.
Lei non aprì bocca per timore che il ragazzo scoprisse l'unico segreto che non rivelava, e all'improvviso qualcosa si mosse facendola sussultare. Non un umano, non una creatura magica, né un animale, bensì alcune foglie, seguite da pochi sassolini spostati dal vento. Il ragazzo tornò al suo nascondiglio e, senza un fiato, attese il momento più propizio per avanzare. Immobile dov'era, Mackenzie non aveva idea di cosa cercasse, ma poi la vide. Nascosta nel buio di quella caverna, una scintillante montagna di monete d'oro, a cui qualcuno stava sicuramente facendo la guardia. Colta dal freddo della paura, mosse appena un passo avanti, mentre la gamba le tremava con violenza. Enorme, addormentato eppure pericoloso, c’era un drago dalle scaglie color del fuoco, quattro artigli appuntiti per zampa e denti aguzzi. Per sfortuna sua e dell’esploratore, quel singolo passo svegliò l’animale che, già in allerta, nel buio profondo sforzò gli occhi, ma non riuscì a vedere nulla. Sicuro che si trattasse di un falso allarme tornò al suo riposo e, sprezzante del pericolo, il ragazzo si avvicinò, ormai fermo nella decisione di andare incontro alla bestia e al suo oro.
Aspetta, aspetta! È arrabbiato e pericoloso, potrebbe mangiarci!
Mossa dall'istinto oltre che dall'adrenalina, Mackenzie provò a scrivere, ma invano.
All’inizio le parole non si impressero sul foglio, e quando finalmente accadde era già troppo tardi. Il ragazzo si era allontanato, entrando in quella tana senza voltarsi.
Con le lacrime agli occhi per ciò che aveva appena letto la bambina richiuse quel libro e, pur lasciandolo sul banco, lo allontanò da sé. Lei non era davvero stata all’interno della storia, tutto era frutto della sua immaginazione e non avrebbe potuto dire niente al ragazzo, ma ci aveva provato lo stesso, fallendo. Cercò un pacchetto di fazzolettini in una delle tasche esterne del suo zaino, ne afferrò uno e si asciugò piano le lacrime.
"Mackenzie, che ti succede?" le chiese Mahel, rompendo il silenzio creatosi in quell'aula e alzandosi per andarle vicino.
"Già, che hai?" azzardò anche Harmony.
Ancora intenta ad asciugarsi il viso, l’altra dovette calmarsi prima di riuscire a scrivere.
È colpa del libro, mi dispiace tanto per il protagonista…
L’insegnante si avvicinò, lesse e si commosse.
“Lo fa perché sto piangendo?” si chiese Mackenzie, che ancora non conosceva la parola compassione.
"Su, riapri il libro e continua a leggere. Sai che finisce bene?" le consigliò la donna, nel tentativo di farle tornare il sorriso.
Sì, Miss, ma sai… lei sa che questo è uno spoiler?
"E che sarebbe?"
Mackenzie ridacchiò nello scrivere quella risposta per lei tanto ovvia.
È una cosa nostra, del tutto umana. In realtà è una parola inglese, come il mio nome o quello di mia sorella e significa, diciamo, anticipazione. Se sto seguendo un film, o un cartone, o leggendo un libro e qualcuno anticipa cosa succede prima che ci arrivo, allora è uno spoiler.
La mano le si sporcò d'inchiostro e consegnò quel foglio alla maestra che lesse in silenzio.
"Tutto qui? Perché non ci ho pensato primaL?" commentò, ridacchiando divertita dal fatto che la bambina, come del resto lei stessa si era accorta, aveva sbagliato un congiuntivo.
Non lo so si limitò a rispondere Mackenzie, per poi aggiungere una faccina sorridente e arrossire.
Non era abituata a tanta attenzione e ora la sua tristezza era stata sostituita dall'imbarazzo.
Miss Spellman le posò una mano su una spalla.
"Grazie Mackenzie, adesso ho capito.”
Si allontanò dal suo banco. La bimba attese che l’ora terminasse. Secondo l’orologio dell’aula, mancava poco.
"Bene, bambini, qualcuno ha capito la morale della storia e può spiegarla chiara e limpida?”
Alzando la mano, Harmony fu la prima a tentare.
"Alla fine si capisce che il ragazzo non voleva ferire il drago. Era una femmina e aveva delle uova. Lui le ha fatte schiudere, quindi è stato gentile. Ha senso, vero?"
La maestra aprì la bocca per parlare ma, prima che potesse riuscirci, il resto dei suoi piccoli alunni la precedette.
"Harmony!" esclamarono in coro.
"Cosa?"
"Spoiler" le risposero, prendendola bonariamente in giro.
Colta alla sprovvista, la maestra scoppiò a ridere.
Dopo alcuni minuti la campanella suonò. Prima che Miss Spellman andasse via, Mackenzie la raggiunse.
Grazie per avermi rassicurata.
“Figurati, è mio dovere aiutare.”
No, pensò la bambina mentre l’altra si allontanava, non era solo suo dovere. Miss Spellman aveva un cuore grandissimo, ecco perché le era stata tanto vicina.
"Dai, Mac, è ora di andare a casa!" urlò Mahel, contenta di poter tornare.
Non che la scuola non le piacesse, ma aveva anche un ottimo rapporto con la sua famiglia ed essere figlia unica le garantiva tanti vantaggi cosa che, data la sua età, apprezzava in modo particolare.
Arrivo scrisse Mac, affrettandosi a rimettere tutto nello zaino e portandolo in spalla.
Non voleva perdere tempo, non se uscire subito da scuola significava rivedere Kaleia, Eliza e gli altri. Corse fuori dall'aula assieme a Mahel e Harmony e per poco non si dimenticò di Hope, che si premurò subito di cercare.
"Ti aiutiamo noi. La scuola è enorme, potresti perderti" le dissero le due compagne, ben felici di accompagnarla all'ala adiacente, dove venivano tenuti i bimbi dell'asilo.
Va bene, grazie.
Si avventurarono negli ampi corridoi. All’inizio tutti uguali, ma dopo qualche minuto, eccoli. Ariosi e colorati, quelli dedicati all'asilo, le cui porte erano piene di disegni: basse casette in legno con camini dai quali usciva un fumo nero, volpi dalla coda lunghissima, conigli bianchi che correvano fra l’erba e un paio di scoiattoli con una ghianda fra le zampe, sbilenchi e mal fatti, ma tutti con un sorriso sul muso, prati in fiore e, infine, un arcobaleno. La colpì in particolare uno dei disegni dei conigli: un animaletto se ne stava in disparte, indietro rispetto agli altri, tuttavia non sembrava che quelli volessero isolarlo. Chissà cos’aveva pensato il bambino che l’aveva disegnato. Forse anche lui, per qualche motivo, si sentiva solo, un po’ com’era capitato a lei quel giorno prima di incontrare Mahel e Harmony, e doveva essere così anche per il coniglietto. La bimba sospirò, mentre più guardava quel foglio, più il cuore le si faceva pesante. Pregò che quel bambino stesse bene, che un giorno avrebbe colorato un prato pieno di conigli che giocavano insieme felici, e adesso lei non aveva più nulla di cui preoccuparsi, non era sola. Riguardò ognuno di quei fogli e sorrise. Nonostante quello fosse un sogno, le sembrava di aver ricreato il trio composto da lei, Elizabeth e Katie.
Non poteva ancora definire quella bambina una sua amica, ci aveva parlato solo un po’ a mensa, ma le era parsa simpatica e desiderosa di stringere amicizia con loro due. Dato quanto successo Mackenzie ed Elizabeth non si fidavano molto dei compagni, ma avevano deciso che le avrebbero dato una possibilità. In fondo, Katie non era mai stata cattiva con loro, non aveva mai detto nulla di male, a differenza degli altri. Nemmeno Mahel e Harmony erano davvero sue amiche, così come Lucy e Lune, ma avrebbero potuto diventarlo. Dopo aver cercato un po’, ricordando le parole della mamma che aveva spiegato a Isla dove accompagnarle, trovò la sezione di Hope.
"Dai, tua sorella ti starà aspettando" le disse Harmony.
Mackenzie riaprì una tasca del suo zaino e, ripreso il blocco note, mise su carta i propri pensieri.
Dici che posso? Sono solo sua sorella, non la nostra mamma.
La calligrafia si rovinò a causa della mancanza di una base d'appoggio.
"Certo, sta’ tranquilla. Forse una delle maestre ci chiederà di aspettare i nostri genitori, ma cosa può andare storto?”
"Su, Mac, provaci" la incalzò Mahel, le piccole ali da pixie che già fremevano per l’impazienza.
Va bene, va bene! scherzò la bambina, ridacchiando e chiudendo la mano a pugno.
Dette tre colpi sul legno della porta. Istanti più tardi, una donna dall'aria gentile si presentò a loro.
"Salve a voi, signorine, cercate qualcuno?"
Mackenzie non ebbe cuore di dire subito la verità, e notando la sua timidezza, Harmony si fece avanti al suo posto, indicandola.
"Mackenzie cerca la sorellina. Un'umana, si chiama Hope."
"È lì nell'angolo che gioca, ma dove sono i vostri genitori?" azzardò l'insegnante che doveva avere la stessa età di Eliza.
In quel momento fu Mahel a parlare.
"Stanno arrivando. Mac è più grande di Hope, e la sorellina si fida di lei! Può riportarla a casa? Farà attenzione, promesso!”
“Questa scuola ha delle regole a riguardo. Siete troppo piccole per uscire da sole, e se ve lo lasciassi fare, la Direttrice si arrabbierebbe. Che succederebbe se le vostre mamme arrivassero qui e non vi trovassero? O se fuori vi accadesse qualcosa di brutto? Non vi conviene aspettare?"
Si abbassò al livello della pixie del fuoco e le posò una mano sulla spalla.
Spaventata da quella sola idea, Mahel fu vicina alle lacrime e come lei anche Harmony, mentre a poca distanza da loro Hope aveva ormai smesso di giocare, e già in piedi, camminava verso Mackenzie a passo svelto e barcollante, la tipica andatura dei bimbi come lei.
"Mac! Mac!" chiamava.
"Hope, principessina, ti sei divertita con la casa delle bambole?" le chiese la maestra, voltandosi nella sua direzione e prendendola in braccio.
"Sì, ma… mamma?" rispose la piccola, non avendo occhi che per la sorella maggiore. "Mac, mamma?" insistette.
"Starà arrivando, amore. Adesso la chiamo, va bene?" le rispose la donna.
La rimise a terra e le tenne la manina.
Mackenzie intuì il volere di quella signora tanto gentile e aprì per l'ennesima volta il suo blocco note. Girando le pagine, indicò un numero di telefono più che conosciuto, ovvero proprio quello della mamma.
"Grazie Mackenzie, dammi un secondo e tieni Hope per mano."
Mentre stringeva a sé la sorellina, la bambina disegnò per lei cuoricini e faccine sorridenti. Aveva quasi due anni, non sapeva ancora leggere, e se c'era un modo di farla ridere era esattamente quello. Lasciandole avere una matita la incoraggiò a disegnare a sua volta, e ben presto le ultime pagine di quel blocco appunti furono piene di divertenti schizzi infantili.
Speriamo che la mamma arrivi presto, pensò la più grande mentre veniva percorsa da un fremito d’eccitazione, non vedo l’ora di raccontarle del mio primo giorno di scuola!

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Capitolo 17
*** Vite solo in parte umane ***


CAPITOLO 17.

 

VITE SOLO IN PARTE UMANE

 
Ancora all'orfanotrofio, Demi si stava occupando di Lilith. L’aveva appena cambiata e, dopo un altro pasto stavolta composto di vero latte, la teneva in braccio e le cantava una ninnananna. La suoneria del suo cellulare la distrasse. Il numero risultava sconosciuto. Rispose comunque, anche se nel suo mondo non lo faceva mai in una situazione simile.
"Pronto?" azzardò, incerta.
"Salve. Lei è Demetria Devonne Lovato?”
"Sì, con chi parlo?"
"Sono l'insegnante di sua figlia Hope.”
“Mi dica” la incitò, la voce venata di preoccupazione.
Si fidava di Isla e, nonostante la donna le avesse detto che quella scuola era tanto inclusiva quanto prestigiosa, ora mille dubbi le torturavano la mente. Era successo qualcosa? Una delle bambine non stava bene?
“Scusi il disturbo, ma la sorella Mackenzie è qui con lei e vorrebbe portarla a casa. Capirà che non posso lasciarle andare senza almeno un adulto presente. Rimarrò con loro finché non arriverà qualcuno a prenderle, d'accordo?"
Le bambine uscivano da scuola per l'ora di pranzo, ma a causa del nuovo lavoro Demi aveva perso la cognizione del tempo.
"Certo, comprendo. In questo momento mi trovo lontana dalla scuola, ma do l’autorizzazione a Isla o a Oberon Hall di accompagnarle a casa. Sono nostri amici e genitori di due vostre alunne, Lucy che fa le elementari e Lune che frequenta l’asilo.”
“Isla e Oberon Hall” mormorò l’altra. Se li fece descrivere. “D’accordo, se mi dà il consenso allora li troverò e affiderò loro le sue figlie.”
“Va bene, la ringrazio. La prego, non le lasci da sole" implorò.
"Stia tranquilla, non mi muoverò di un millimetro.”
Non appena fu sicura che nessuno potesse sentirla, Demi sospirò cupamente.
Lavorare con i bambini era sempre stato uno dei suoi sogni, ma come aveva fatto a dimenticarsi delle proprie figlie? Era una persona orribile. Lei ed Eliza avrebbero dovuto partire almeno un’ora prima. Per un attimo le parve di tornare indietro, al primo giorno di quella stranissima realtà e alla sparizione di Hope, ma scosse la testa per liberarsi di quei pensieri.
"Va tutto bene?" le chiese Eliza, che la raggiunse dopo aver pulito con un tovagliolo il visetto del leprecauno che imboccava.
"Sì, ma avremmo dovuto andare a prendere Hope e Mackenzie partendo parecchio tempo fa.”
“Accidenti, ho sbagliato anch’io, mi dispiace.”
“Dovremo uscire prima di qui i prossimi giorni, se vogliamo arrivare alla Penderghast in orario.” Demi spiegò quanto aveva detto all’insegnante. “Torniamo a casa. Eliza, che cos’ho fatto? Mackenzie sarà arrabbiata con me?”
L’altra le accarezzò la testa.
“Ehi, calmati. Entrambe, pur non volendo, abbiamo commesso un errore. Non si trovano in mezzo a una strada, ma ancora a scuola, al sicuro, con un’insegnante a sorvegliarle. Sono certa che Mac non si arrabbierà e le prossime volte andrà tutto bene.”
Demi inspirò ed espirò piano, mentre le mani le tremavano.
“Hai ragione. Credi che qualcuno possa darci il cambio?"
"Certo, non preoccuparti. Julie e le altre si occuperanno dei piccoli in nostra assenza. Andiamo."
Poco prima che le due potessero farlo qualcuno corse, o meglio gattonò, verso di loro. Era Harold che, triste all’idea di essere lasciato da solo, continuava a fissarle tirando con delicatezza i lembi delle loro vesti. Mossa a compassione, Demi lo prese in braccio.
"Harold, tesoro, ora devo andare. Sta’ tranquillo, Julie arriverà subito."
Gli accarezzò il visetto paffuto e il piccolo sorrise, emise uno dei suoi soliti versetti e, scalciando, desiderò tornare al tappeto e ai suoi giochi. Demi lo accontentò e, quando arrivò Julie, uscì.
"Ricordi ancora la strada, vero?" indagò Eliza.
"Certo.”
"Perfetto."
La più grande accelerò il passo. Dato il lavoro mattutino, il viaggio di ritorno fu più stancante e la calura di certo non aiutava. Le due arrivarono a casa sudate e senza respiro. Demi si precipitò dentro. Lì Isla, Oberon, le sue figlie, Lucy e Lune le attendevano.
"Isla, ciao! Ascolta, mi dispiace tantissimo! Perdonatemi anche voi, bambine, siamo partite troppo tardi. Non succederà più. Usciremo…” controllò l’orologio da polso e fece due calcoli “verso mezzogiorno per essere lì in orario, promesso.”
Dati i trascorsi di Mackenzie e Hope temeva che la più piccola, anche visto quanto accaduto pochi giorni prima, potesse essersi sentita abbandonata e che la maggiore ne avesse sofferto.
"Cara, tranquilla! Gli insegnanti non lasciano mai i bambini da soli e tutto è filato liscio, puoi rilassarti" la rassicurò Oberon, calmo come l'acqua che riusciva a controllare grazie al suo potere.
"Meno male" sussurrò la cantante.
Non preoccuparti, mamma, è tutto okay.
Mackenzie la abbracciò e la ragazza fu invasa dal sollievo, che palesò con un sorriso enorme.
“Mamma!" strillò Hope, correndole incontro.
"Tesoro mio! Allora? Ti sei divertita?" le chiese, sollevandola.
"Sì, mamma, tanto!"
“Raccontami qualcosa di oggi, Mac.”
Disse alla mamma che Lune era arrivata subito dopo la fine delle lezioni. Lei e Hope erano con Isla e, quando questa aveva detto che era ora di andare, aveva ribattuto:
No!
“In che senso?” domandò la cantante.
“Sono rimasta perplessa anch’io, poi ha specificato.”
Mackenzie aveva risposto:
No, non senza Lucy!
“Tesoro, pensavi davvero che se ne sarebbe andata senza di lei?”
Demi le scompigliò i capelli e le diede un bacio.
Per un momento sì, non so perché.
Poco dopo, la pixie le aveva raggiunte.
“Sarei arrivata prima,” aveva detto, “ma Miss Spellman ci stava spiegando un incantesimo e non potevo perdermelo, poi mi ha chiesto di fare pratica.”
A sentire quel nome Mackenzie aveva spalancato gli occhi.
Anche tu hai la signorina Spellman? Cosa ti ha insegnato?
"Nulla di troppo complicato e la formula magica mi piace un sacco!"
E sarebbe?
"Vivifio. So che suona strano, ma se hai una bambola o un pupazzo a casa posso mostrartelo" aveva risposto subito, con il corpo immediatamente circondato da un'aura color dell'oro, simbolo di felicità.
“Il nome mi piace, è simpatico” osservò Demetria.
Anche a me. E non vedo l’ora di saperne di più!
 
 
 
"Bentornate" salutò Andrew, rimasto da solo fino a quel momento.
Nonostante il tono cordiale la sua voce giunse appena alle orecchie dei presenti e, curiosa, Eliza fu la prima a farsi avanti.
"Andrew? Ma dove…" tentò, confusa.
"In cucina, non preoccuparti" rispose subito lui, pur senza voltarsi.
Lo trovò in piedi davanti al piano cottura e a una pentola.
"Scusa, Eliza. Vi avrei aspettati, ma non avevo il computer con cui di solito lavoro e ho finito il libro che stavo leggendo. Visto che sono le due e un quarto, pensavo di aiutare" le spiegò l'uomo, sperando di non essersi spinto troppo oltre.
"Non fa niente, anzi, sei stato gentile. Grazie. I piccoli all'orfanotrofio mi tengono occupata anche oltre l'ora di pranzo, ci sono giorni in cui torno a casa e vado dritta a letto. Che c'è sul menù?"
"Spaghetti al ragù. Sono quasi pronti. Spero vadano bene per tutti, altrimenti…"
"Non preoccuparti, Lucy e Lune mangiano di tutto, vero, piccole?"
"Vero, papà" risposero le due all'unisono.
“L’hai fatto tu?” gli domandò Eliza.
“Sì, c’erano gli ingredienti e ne ho approfittato, non mi ha creato alcun disturbo.”
La fragranza del pomodoro riempiva cucina e salotto e inebriava tutti.
Demi raggiunse Andrew e, per lasciare loro un momento di privacy, la donna si eclissò in salotto e socchiuse la porta scorrevole della cucina.
“Pensavo aveste già mangiato, visto che le piccole sono tornate molto prima di noi” osservò la ragazza.
“No, le nostre figlie e Lucy e Lune hanno voluto aspettarvi per forza.”
“Ah. Beh, grazie a tutti!”
“Allora, com’è andata?”
“Benissimo!”
Ad Andrew bastò quell’unica parola per capire che la fidanzata stava sorridendo e adorò ascoltare il suo racconto.
“Sono felice che tu abbia avuto una giornata così bella” le disse alla fine, prendendola per mano.
“Il merito va anche a te. Le tue parole mi hanno trasmesso più coraggio di quello che avevo e le preghiere sono state d’aiuto.”
“Lo sono sempre.”
“Già. Tu che hai fatto oggi?”
“Niente di che, mi sono rilassato.”
“Ti sei sentito male?”
Quando era rimasto da solo, e proprio per quella ragione, il respiro aveva iniziato ad accelerare e lui a sudare.
“Non so perché mi sia accaduto. Forse perché ero solo in una casa che non è la mia e in cui mi trovo da poco. Devo ancora abituarmi. L’umore non è stato dei migliori e non sono uscito, ma niente in confronto ad altri giorni.” Le sorrise. “Sul serio, Demi” proseguì, dato che lei lo guardava preoccupata. “Non ho avuto brutti pensieri. Mi sono alzato dal letto, sono riuscito a fare le faccende di casa e mi sono goduto i suoni della natura attraverso la finestra aperta.”
La ragazza sospirò.
Sapeva benissimo cosa gli era successo quando si era sentito male in uno dei suoi momenti peggiori e odiava non essere stata lì per lui. Glielo disse.
“Non puoi rimanermi sempre accanto. E io sto ancora imparando a controllarlo. Ma è passato. Tempo fa sono stato peggio di stamattina.”
“Se ci fosse qualcos’altro…”
“Te lo direi, lo giuro.”
I muscoli della ragazza si rilassarono.
Andrew le disse che aveva anche letto riviste, sfogliato alcuni volumi e guardato la televisione. Le camminate della settimana prima, ma anche le emozioni e la stanchezza per il lavoro, l’avevano fatto crollare.
I due si strinsero in un abbraccio infinito e rimasero ad ascoltare il battito dei loro cuori che parevano cercare di andare allo stesso ritmo. Si sorrisero fino a sentir male al viso e si baciarono sulla guancia, temendo che le bambine potessero vederli. Sarebbero rimasti così per sempre, chiusi in un piccolo incanto, se un rumore della pentola non avesse fatto loro capire che era pronto.
“No, non andare!” si lamentò Demi aumentando la stretta e lo baciò di nuovo, con foga.
“Devo scolare la pasta, e avremo tempo per altre effusioni.”
“Va bene. Ti amo” gli soffiò sulle labbra.
“Ti amo anch’io!”
L’uomo chiamò gli altri e preparò i piatti.
Hope fu servita per prima e la mamma le tagliò gli spaghetti in pezzi piccoli.
 
 
 
Dopo pranzo, le quattro bambine rimasero sole. Seduta sul tappeto del salotto, Lucy scriveva su alcuni fogli per comunicare con Mackenzie e con lei anche Lune. Fra una riga e l'altra, tre di loro ridevano divertite mentre Hope, a poca distanza e con una scatola di pastelli accanto, disegnava.
Allora, quell'incantesimo che mi dicevi? scrisse Mackenzie, curiosa come non mai.
"È semplicissimo, mi basta prendere un pupazzo e pronunciare la formula. Lulu, posso usare uno dei tuoi?"
"No, q-quelli sono solo miei!" protestò la piccola, gelosa di ognuno dei suoi animaletti di pezza.
"Dai, Lulu! Solo per poco, promesso. Non gli farò del male" le rispose la sorella, sincera.
"Va bene."
Sorrise a Lucy e le mostrò il suo coniglietto. Tutt'altro che decisa a lasciarlo andare, se lo strinse al petto poco prima di affondare le manine nel suo pelo e lo posò piano a terra.
"Grazie, Lunie."
Lucy chiuse gli occhi. Respirando a fondo, concentrò l'energia magica nelle punte delle dita. "Vivifio!" Riaprì subito le palpebre e mosse piano le mani. A magia ultimata, il pupazzetto divenne perfino più vivo di Sunny, e seguendo i movimenti della piccola saltellò in giro per qualche secondo, salvo poi chiudere gli occhi e abbandonarsi lì dov'era, immobile. "Visto? È stato facile. “Divertente, vero?"
Mackenzie fece un cenno d’assenso e, rompendo il silenzio, la voce di Hope colse tutte di sorpresa.
"Vero!" trillò, tanta era la contentezza.
"Felice di sentirlo, Hope. Possiamo rifarlo un'altra volta, se vuoi."
"Sì, ancoa, Lucy, ancoa" pregò la piccola, negli occhi la meraviglia derivante dallo spettacolo appena visto.
La pixie della terra le sfiorò una manina e, tornando a concentrarsi, ripeté quella magia. Il coniglietto si animò di nuovo e riprese a zampettare attorno a loro fino a raggiungere Hope e lasciarsi accarezzare. Concentrata, la bimba più grande tenne sotto controllo quell'incantesimo per quanto poté, salvo poi portarsi una mano sulla tempia e chiudere a pugno quella che teneva aperta. All'improvviso non riuscì a respirare e barcollò verso la mamma.
"Lucy, pixie! Tesoro, usciamo un po’, devi distrarti."
Isla accorse ad aiutarla stringendola a sé con il suo amore di madre, e accompagnandola alla porta fece segno a Eliza, che già si era avvicinata a sua volta, di non preoccuparsi. Mackenzie le andò incontro e le prese la mano.
“Usciamo, starai meglio” le fece capire con un sorriso che valeva più di mille parole.
 
 
 
Demi rimase dov'era e, assicurandosi che stesse bene, prese in braccio Hope. In breve, sia gli Hall che i Lovato furono fuori di casa, e Andrew ebbe il compito più arduo: assicurarsi che Hope non si cacciasse nei guai. In fin dei conti, tutto era iniziato proprio per quello e non ne voleva una replica.
Mamma?
“Sì, Mac?”
La bambina respirava con affanno e aveva gli occhi lucidi, mentre una metaforica corda le stringeva il petto.
Lucy sta male per colpa mia?
“Cosa? No! No, non devi neanche pensarlo” insistette la ragazza.
Il senso di colpa poteva essere schiacciante e non voleva che la sua piccola si desse delle colpe che non aveva.
Ma ho insistito io perché facesse quelle magie, gliele ho chieste.
Se solo non gliel’avesse ricordato, forse a Lucy non sarebbe più venuto in mente. Ora, invece, stava male a causa sua. Di chi altri poteva essere la colpa?
Demi si chinò e le prese le mani.
“Guardami” mormorò. “Nessuno poteva prevedere quello che sarebbe successo, nemmeno tu o Lucy. Lei è ancora piccola e non è esperta. Forse ha mantenuto quell’incantesimo per troppo tempo e si è stancata, ma non è niente di preoccupante, d’accordo?”
“Infatti, Mackenzie, stai tranquilla” la rassicurò Isla, che aveva ascoltato. “Con un po’ di riposo le passerà tutto.”
Siete sicure?
La piccola si torceva di continuo le mani.
“Sicurissime” continuò la fata.
“Mac, starò meglio” sussurrò Lucy e le sorrise.
La piccola sospirò di sollievo, cercò di non sentirsi più in colpa, ricambiò il sorriso e si rilassò.
Il sole splendeva alto nel cielo e, mentre Lucy respirava a fondo per calmarsi e riprendersi rimanendo sempre vicina alla mamma, Mackenzie notò qualcosa, o meglio, qualcuno, in lontananza. Una pixie simile a Lucy, che a occhio e croce aveva la sua stessa età, accompagnata dai genitori e con un Arylu al guinzaglio. Hope si avvicinò piano. Protese una mano in avanti e attese il permesso di sfiorare quella nuvola di pelo.
"Ciao. Può accarezzarlo?" chiese allora Demi.
"Certo! Sparky è socievole, anche con gli umani" rispose subito la padroncina, regalando un sorriso alla famiglia intera.
"Grazie. Su, Hope, toccalo" replicò allora la ragazza, prendendo la mano della figlia nella sua e guidandola.
La piccina affondò le dita in quel pelo soffice a metà fra nero e oro, una sfumatura appena più tenue di quella del cucciolo di Lucy, poi ritirò la mano. Seppur timida, Mackenzie si ritrovò a imitarla e subito dopo una voce la distrasse.
"Mac! Mackenzie!" la chiamava, alta e insistente.
Erano Chris e Kaleia.
"Kia!" urlò Hope, liberandosi dalla stretta della madre per correre verso di lei.
"Ciao, piccola. Hai una nuova amica?" le chiese la fata, sorridendole e accarezzandole i capelli.
Troppo felice per risponderle, Hope si strinse a lei. Commosso da quella scena, Christopher cercò la mano della moglie e le sfiorò il ventre. Mackenzie le scrisse un biglietto e, muovendo qualche incerto passo in avanti, glielo porse.
Non ti aspettavo, ma mi fa piacere rivederti. Come stai?
"Bene, Mac, grazie."
La bambina indietreggiò fino a tornare dalla madre e, indicando Lucy con lo sguardo, si accorse che non era migliorata.
Ti senti meglio? le scrisse, preoccupata.
“Insomma.”
"No, cara, mi dispiace. Lucy non sta ancora tanto bene, sarebbe il caso di tornare a casa, scusaci" disse subito Isla.
D’accordo, allora ci vediamo rispose lei a sua volta, triste ma comprensiva.
Scuotendo la testa per liberarsi dei brutti pensieri, si ripeté che non aveva colpe e che tutto sarebbe andato bene. Tornò a concentrarsi sulla fata, trovandola accovacciata accanto a Hope.
Che state facendo? chiese, rivolgendosi stavolta a Christopher.
"Kia sta spiegando una magia alla tua sorellina."
Mackenzie si avvicinò all'amica fatata, le tirò piano una manica della veste e la convinse a voltarsi.
Posso provarci anch'io? indagò, già pronta a tentare il suo primo incantesimo.
"Certo! Se chiudo gli occhi riesco a seguire la scia magica delle creature e trovarle, e forse puoi anche tu. Basta fare come me e pensare a qualcuno in particolare."
La bambina sorrise e annuì.
Concentrò il pensiero su Batman e fece ciò che le aveva detto la fata. Vide nero e, appena pochi istanti dopo, comparve il cagnolino. Le saltò in braccio leccandole il viso e lei accarezzò il suo pelo bianco e nero. Alla vista del nuovo, strano compagno di giochi a lui simile, si esibì in una sorta di inchino. Abbaiò e agitò la coda. L’Arylu intuì il volere dell'altro e non tardò a imitarlo, così insieme, cane e lupacchiotto si annusarono e giocarono a rincorrersi, mentre ridendo, la pixie fu costretta a togliergli il guinzaglio.
"Sparky, non ti allontanare" pregò, urlando.
Per tutta risposta il cane abbaiò una volta sola, poi sparì accanto al suo nuovo amico. Kaleia rise di gusto, e a poca distanza da lei Hope le sfiorò una mano.
"Kia?" chiamò, con voce angelica.
"Sì, Hope, dimmi."
L’altra chiuse gli occhi e, in un attimo, il suo amato gatto Danny comparve proprio accanto a lei.
"Miao miao!"
I suoi occhi scuri erano nuovamente pieni di meraviglia.
"Sì, tesoro, è un gattino."
Fu Christopher a risponderle e, in silenzio, la bambina mosse piano le dita per intrattenere il micio e accarezzargli il pelo rosso. Danny, un cucciolo di cinque mesi, mosse le orecchie e le leccò il dito facendola ridere.
“Mio” ci tenne a sottolineare la piccola.
Batman e Danny scomparvero alla fine dell’incantesimo e la pixie se ne andò con Sparky al seguito, ma Hope e Mackenzie non ci restarono male.
“Potrete farli tornare nello stesso modo, se vorrete” assicurò loro Kaleia.
 
 
 
Dopo ore passate all'aria aperta, arrivò per tutti il momento di tornare a casa.
Vedere Lucy e la sua famiglia sparire in quel modo era stata una sfortuna, ma la pixie aveva bisogno di riposo e almeno allora Kaleia non voleva pensarci.
“È stato bellissimo vederti con Hope, prima” le sussurrò Christopher all’orecchio. “Mi ha riempito il cuore di gioia!”
Lei sorrise.
La bambina più piccola giocava sul tappeto. Tornata ai suoi disegni, di tanto in tanto si voltava verso Kaleia.
"Ti piace? Sta venendo bene?" sembrava chiedere, impegnata a intrecciare figure colorate e pressoché indistinguibili le une dalle altre.
"Bel disegno, piccolina. Che cos'è?" azzardò Christopher, ridendo divertito di fronte a quegli schizzi infantili.
"Sai tesoro, credo che quello verde sia un albero, e lì accanto, in rosso e marrone, una casa" commentò la moglie in risposta, interessata come e forse più di lui.
"E io credo che tu abbia ragione, fatina."
La abbracciò.
Kaleia si godette il calore e la solennità di quel momento, anche quando lo sposo la sorprese con un bacio sulla punta del naso, ma all'improvviso, qualcuno li distrasse.
"Buon Dio, non starete commentando gli scarabocchi di una bambina!" si lamentò una fata perfino troppo conosciuta, chiudendo la porta dietro di sé.
Era famosa per i suoi costanti sbalzi d'umore.
Kaleia alzò gli occhi al cielo. Voleva un gran bene alla sorella, ma quando si comportava in quel modo risultava antipatica.
"Sky!" la rimbeccò la madre. “Sei appena rientrata e già ricominci?”
"Cosa? Non hanno alcun senso! Sono solo poche linee fatte con appena tre pastelli" si difese la ragazza.
"Credo che Midnight ti abbia beccata troppe volte durante gli allenamenti, è meglio che tu vada a riposare, figlia del vento" continuò allora Eliza, con la voce roca per la rabbia.
Nonostante ora fosse vicina ai ventiquattro, in alcuni momenti, come quello ad esempio, la ragazza regrediva a un terzo della sua età.
"Va bene" sbuffò la fata, scocciata. "Ed è figlia dell'aria, vuoi una conferma da Major, per caso?"
“Chi sarebbe?” chiese Andrew a Demi.
“Il suo protettore” rispose Kaleia.
Come sorda alle loro parole, Hope continuava a disegnare, e mentre Mackenzie restava seduta in poltrona a rileggere la favola assegnatale dalla signorina Spellman, la vocina della più giovane ruppe il silenzio creatosi nella stanza.
"Sky nevvosa?" chiese, dolcissima.
"Già, piccola, ma non preoccuparti, le passerà" la rassicurò Kaleia, sporgendosi per accarezzarle le guanciotte paffute.
 
 
 
Nel silenzio tornato a regnare sovrano, un altro rumore.
"Eliza, aspettavi qualcuno?"
"No Demi, perché?"
A quel breve scambio di battute fra le due donne seguì altra quiete, poi Kaleia riprese la parola.
"Scusate…" ebbe appena il coraggio di dire, arrossendo in volto come una bambina.
Qualche secondo dopo tutti i presenti scoppiarono a ridere, fata inclusa.
"Tesoro!" la riprese bonariamente Christopher stringendola a sé.
"Chris, non è colpa mia, sai che…"
Un'aura immacolata le circondò prima il corpo e poi il ventre, proteggendola.
"Kaleia, cos'è quel bagliore?"
"Demi, i-io…"
Demetria le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio con dolcezza:
“Puoi dirmi tutto, lo sai.”
Sperò di non essere risultata troppo invadente, in fondo si conoscevano da poco. Si augurò che non fosse nulla di grave o preoccupante.
Si sente male? O c’è qualcosa che non mi ha ancora raccontato sul suo mondo?
Christopher cercò la mano della fata e la strinse forte.
"Vuoi che lo faccia io?"
"Per favore!" lo pregò, tremando impercettibilmente.
"È incinta, cara" annunciò, con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.
Demi sospirò di sollievo.
Il mio sospetto era fondato, allora!
Ognuno dei presenti si bloccò sul posto, tranne Eliza, Sky e Hope, che non capiva.
"Buon Dio, Kia, congratulazioni!" commentò allora la stessa Demetria, con un sorriso luminoso che subito dopo scomparve.
La fata la prese da parte.
“Non sapevo se dirtelo o no” sussurrò. “Insomma, io sono incinta, tu… Tu mi hai raccontato come stanno le cose, e mi dispiace, non sai quanto, quindi temevo che con l’annuncio della mia gravidanza ti avrei fatto male.”
L’altra trasse un bel respiro.
“Innanzitutto, ti ringrazio per il pensiero e la sensibilità. Io sono felice per te, Kia, davvero.” Il suo tono si fece grave. “Ammetto di provare gelosia, però, perché tu puoi concepire e io no. Essere sterile mi farà sempre sentire incompleta.” Le si strinse la gola, la voce le morì e dovette tossire più volte per ritrovarla, mentre le mancava il respiro e sudava. Per un attimo fu colta da un fortissimo senso di vertigine, ma si aggrappò alla mano della fata e le passò subito. “Tuttavia,” riprese, “sarebbe stato peggio se non me l’avessi detto, o se fossi venuta a scoprirlo da qualcun altro.” Le appoggiò una mano sul ventre. “Sono contenta che tra qualche mese questo piccolino verrà al mondo, okay? Sarai una brava mamma.”
“Come lo sai?”
“Vedo come ti comporti con le mie figlie. Sei così dolce con loro!”
“Grazie, mi viene naturale. Allora è tutto a posto?”
“Più o meno sì.”
Kaleia sorrise e Demetria fece lo stesso, cercando con gran fatica di mettere da parte i brutti pensieri. Non poteva dare la vita senza procedure mediche, ma Dio le aveva donato due bimbe stupende che le riempivano il cuore.
Non posso rimanerci male ogni volta che sento che una donna è incinta, o non vivrò più. Mi devo sforzare.
Dopo cena, tutti andarono a letto.
 
 
 
Di nuovo rivolta a mamma e papà guardando il soffitto, Mac raccontò loro la giornata come, ogni sera, faceva anche a casa.
Avete visto? Elizabeth è la mia migliore amica, ma anche le bambine che ho conosciuto qui sono importanti, e Katie forse lo diventerà proprio come loro. Vi piacciono tutte, lo so.
Strinse le mani a pugno. Non pensò alla notte che aveva cambiato per sempre la sua vita, ma ogni volta che le venivano in mente loro, o che si rivolgeva a entrambi, le mancavano come l’aria. Parlarci in quel modo era bello e brutto insieme, ma sarebbe stato peggio non farlo. Gli occhi le si velarono di lacrime e le bruciarono, ma dopo averne versate un po’ andò da mamma Demi.
“Tesoro, che c’è?” le chiese la donna quando la bambina le sfiorò il braccio.
Questa accese la luce e scrisse:
Mi mancano sempre mamma e papà. Voglio loro tanto bene.
“Oh, piccola!” esclamò Andrew, alzandosi per abbracciarla.
Stava meglio, ma anche i due si resero conto che, nonostante il sogno, il dolore non poteva scomparire.
“Sono sicura che ti guardano da lassù e sorridono pensando a che bambina meravigliosa sei” cercò di consolarla la madre, accarezzandole i capelli. “Sono fieri di te e ti vorranno bene per sempre, e anche a Hope.”
Mackenzie sorrise appena.
“Purtroppo non posso riportarli indietro,” riprese il papà, “né farlo con quel sorriso o la voce. Ma tu li pensi, li ricordi così e in questo modo, anche se non ci sono più, rimarranno sempre vivi dentro il tuo cuore.”
La bambina liberò un singhiozzo e tirò su col naso, mentre il groppo che le serrava la gola iniziava a doleva sempre meno.
Davvero?
“Te lo assicuro.”
Allora lo sanno che gli voglio bene.
Temeva che, dato che non parlava di loro da giorni, i suoi veri genitori credessero che non era così, che si stava scordando di loro.
Demi la strinse a sé tanto forte da rischiare di soffocarla.
“Certo che sì, Mackenzie!” la rassicurò. “Non avere mai dubbi su questo.”
La bambina inspirò ed espirò, come se si fosse liberata di un pesante fardello. Tornò a letto con l’animo più sereno. Non sapeva cosa sarebbe successo nei giorni seguenti, ma si augurò che lei, la sua famiglia e gli altri sarebbero stati bene.

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Capitolo 18
*** Problemi quasi umani ***


CAPITOLO 18.

 

PROBLEMI QUASI UMANI

 
Un rumore distrasse Demi, che giaceva ancora a letto. Erano appena le sei e mezza del mattino secondo l'orologio del suo cellulare e prima di dormire si era assicurata che la porta fosse ben chiusa, ma nonostante tutto, dopo una breve pausa di silenzio, rieccolo. Non il caratteristico bussare a cui la presenza di due bambine in casa l'aveva abituata, bensì qualcosa di diverso, più basso e insistente. Confusa, si alzò dal letto per controllare. Aprì la porta e un cucciolo di Arylu di pochi mesi entrò zampettando. Era molto peloso e aveva delle bellissime focature azzurre.
"E tu chi sei? Da dove salti fuori?" gli chiese, trattenendo a stento una risata.
Si abbassò per leggere ciò che c’era scritto sulla sua medaglietta d’acciaio appesa al collare azzurro:
Cosmo.
Il cagnolino abbaiò una volta sola e, come ipnotizzato dalla sua stessa coda, prese a rincorrerla e ringhiare, segno che la cosa gli piaceva da matti. Poco dopo si guardò intorno e, non trovando ciò che voleva, piegò la testa di lato.
"Che c'è, cerchi Kaleia?” tentò. “Hai sbagliato stanza, signorino."
A sentire quel nome l'Arylu drizzò le orecchie e abbaiò ancora.
"Demi, che diamine…" farfugliò allora Andrew, svegliato da tanto baccano.
"Scusa, amore. Abbiamo un piccolo ospite nella camera sbagliata."
"Ah sì? Beh, indirizzalo verso quella giusta, preferirei dormire" le rispose il compagno.
"Subito." Demetria incoraggiò il cagnolino a seguirla appena oltre il vano della porta e indicò il corridoio. "È nella camera accanto, su, vai" gli ordinò, la voce priva di autorità.
In molti le avrebbero detto che i cani tendevano a beneficiare di una mano ferma, ma armata di convinzioni ben diverse, lei aveva provato a modo suo e ora rideva nel vedere quel cucciolo zampettare lungo il corridoio alla ricerca della sua vera padrona. Non sarebbe mai stata uguale alla madre che aveva perso nei boschi, ma nonostante ciò quel piccolo mascalzone aveva scelto di fidarsi della sua amica fata. Demi tornò dal fidanzato, e seduta sul bordo del letto, gli accarezzò una guancia.
"Il mostriciattolo è sistemato" scherzò, cercando di farlo ridere.
"Ti ringrazio. Qualcuno dovrebbe insegnargli a non abbaiare tanto, non credi?" rispose Andrew, faticando a formulare quella frase.
"Avanti, Cosmo è adorabile! E poi è solo un cucciolo, vuoi davvero incolparlo? Probabilmente voleva soltanto giocare."
"Oh, adesso lo chiami anche per nome? Non bastava Batman, vero?" ringhiò lui di rimando, per nulla in vena di scherzi tanto sciocchi.
Demetria sbuffò.
"Andrew Marwell, ora basta. Che ti prende? Non ho intenzione di parlarti quando fai così" sbottò. “E poi parla piano, le bambine dormono ancora.”
Detestava litigare. Respirò a fondo, si impose la quiete e in un attimo il suo cuore rallentò. Attraversò piano il corridoio per arrivare in cucina, senza accorgersi che il compagno aveva già iniziato a seguirla.
"Demi?" la chiamò, la voce rotta e venata di dolore.
"Sì?" rispose lei, pur senza voltarsi.
"Mi dispiace" le sussurrò abbracciandola.
"Lo so, anche a me."
La voce le uscì più grave del normale.
Il silenzio cadde su di loro e i due si presero per mano.
“Non ho fatto il letto” disse Andrew con voce stanca.
Aveva dovuto fare uno sforzo per alzarsi, Demi lo intuì dalle occhiaie e dal suo sguardo un po’ spento.
“Non importa.” Non avere la forza di fare cose anche semplici era un sintomo di uno dei problemi di cui soffriva. “Lo sistemo io.”
“Sto peggio, oggi. Non so perché, ma a volte è così. Mi dispiace.”
“Sì, lo vedo.”
Demetria sapeva che la malattia di Andrew annienta la volontà, così gli aveva detto la psicologa e poi lui gliel’aveva riferito. Gli cinse la vita con un braccio.
“Non preoccuparti. Adesso vieni di là, se te la senti fai due chiacchiere, e magari oggi accadrà qualcosa che ti tirerà su. Prova a fare ciò che ti piace e che non possa stancarti, come leggere per esempio.”
“Ci proverò.”
A volte non ci riusciva, la sua malattia era più forte di lui, ma altre distrarsi lo aiutava a stare meglio e la ragazza si augurò che sarebbe stato così anche quel giorno.
Alla loro vista Eliza sbiancò, diventando pallida come una morta. Lei e l’altra donna avevano deciso, il giorno prima, di alzarsi ancora più presto in modo da arrivare presto all’orfanotrofio e passare comunque diverse ore con i piccoli, pur non uscendo all’una.
"Demi, Andrew. Che vi succede? Cara, non voglio offenderlo, ma il tuo ragazzo ha una cera terribile! E anche tu sei un po’ pallida."
Demetria si sentì malissimo e un veloce sguardo allo specchio del corridoio confermò ognuno dei suoi dubbi. Appena sveglia, stanca e spettinata, doveva sembrare un mostro.
"Scusaci, Eliza, non abbiamo dormito bene" spiegò.
Erano caduti in un sonno agitato, forse dovevano ancora abituarsi del tutto al nuovo letto e ai cambiamenti.
"Non preoccuparti. Piuttosto, cos'è quel coso?" la rassicurò Sky, già seduta a tavola e intenta a mangiare i suoi amati cereali.
Era presto, e grazie al cielo le bambine ancora addormentate non avrebbero sentito né visto niente, ma la fata si riferiva a una scatola bianca con una riga verde e piena di pillole con alcune scritte una sotto l’altra. In particolare, pareva essere rimasta colpita dalle prime quattro, perché non faceva che leggerle e rileggerle:
Carbolithium
300 mg
Capsule rigide
Litio carbonato
"Nulla di importante, Sky, tranquilla" rispose subito Andrew, poi non parlò più.
Si fece dare un bicchier d’acqua da Eliza e ingoiò una di quelle pillole.
Demetria non ricordava nemmeno che lui avesse preso la confezione per portarla in salotto. Nei giorni precedenti aveva preso i farmaci stando in camera. Non sapeva neanche come fossero finiti lì. Non si era di certo addormentato con le confezioni vicino, ma la mattina in cui si era svegliato nel bosco di Eltaria li aveva trovati accanto a sé, prendendoli quando era riuscito a trovare dell’acqua.
Mackenzie sa che sta male, ma non dei farmaci. Come fanno a essere qui, se questo è un suo sogno?
Inutile farsi domande. Li aveva e lei ne era contenta, lo stesso doveva valere per lui. Non prenderli avrebbe peggiorato la sua situazione ed era l’ultima cosa che entrambi volevano. Demi capiva il silenzio del fidanzato, o almeno ci provava. Che avrebbe dovuto fare? Aprirsi all'istante e confessare di assumere uno stabilizzatore dell’umore ogni giorno e un ansiolitico al bisogno, che in quel momento però teneva in camera, ormai da mesi per cercare di stare meglio e, nel frattempo, lavorare su se stesso per provare meno dolore per quanto accaduto? Forse colpito dai ricordi, l'uomo strinse gli occhi fino a farsi male e rischiò di piangere. Vicina a lui, Demi non mancò di consolarlo con un bacio e qualche carezza su un braccio.
"Sta’ tranquillo, Andrew" gli sussurrò a mezza voce, per poi alzarsi e versarsi una tazza di caffè. “Sono qui.”
Non ne beveva molto, ma non aveva dormito, e stando alle parole della madre Dianna, non c'era maniera migliore di svegliarsi e prepararsi alla nuova giornata o ricaricare le batterie. Sin da bambina quel modo di dire l'aveva sempre fatta ridere. La prima volta l'aveva sentito ad appena sei anni. Nel tempo, l’episodio era rimasto indelebile nei suoi ricordi.
"Mamma, le batterie sono nei giocattoli!" aveva risposto, facendo uso di una logica semplice ma schiacciante.
Dianna aveva riso con lei.
“Lo so, è un modo di dire.”
A quel solo ricordo, la ragazza sorrise a se stessa e versò una tazza di caffè anche al fidanzato. Questi bevve senza una parola e mangiò qualche biscotto, pur non avendo molta fame, e fu contagiato dalla sua improvvisa ilarità.
"Perché ridete? Che è successo?" azzardò allora Sky, stranita.
"Eh? Oh, niente, solo una storia buffa. Da piccola ero convinta che "ricaricare le batterie" valesse anche per noi umani, capisci?" spiegò Demi, ridacchiando fra una parola e l'altra.
"Sul serio, per noi fate tutto questo non ha senso. Abbiamo solo bisogno di luce e fiducia.”
Dopo un ultimo sorso di quella bevanda, Demi si congedò dai presenti per sparire nel bagno di casa. Rimasta sola, lasciò che la calda acqua della doccia le scivolasse piano sulla pelle e, dopo dieci minuti di totale rilassamento, si vestì con una tuta di un giallo delicato e un paio di scarpe da ginnastica blu. Si pettinò con cura e lasciò i capelli sciolti. Uscì dal bagno sentendosi fresca e piena di energia, e tornata in cucina rivide le sue bambine.
"Mackenzie, buongiorno!"
Ciao, mamma. Ci ha svegliate Eliza. Non siamo in ritardo, vero? Voglio tornare a scuola!
"Tranquilla. La Penderghast vi aspetta, ma manca ancora tempo all’inizio delle lezioni."
"Lucy? Lucy?"
"No, Hope. Oggi forse non verrà. Non si sente tanto bene" le disse, sperando che le sue condizioni fossero migliorate.
"Ha la bua" constatò allora la piccola, teneramente arguta.
"Già, ma tu no, e ti divertirai alla Penderghast" le assicurò Demi, che ora le pizzicava una guancia.
Poco dopo, Eliza e la cantante salutarono le bambine con baci e abbracci e partirono.
 
 
 
A Sky e alle piccole si aggiunsero Christopher e Kaleia.
“Bambine, volete i Fairy O’s?” chiese loro la fata della natura, quando seppe che non avevano ancora mangiato.
Entrambe dissero di no.
Kia avrebbe voluto proporre loro vari tipi di biscotti, ma poi guardò in frigo. C’era un contenitore con delle fragoline di bosco.
“Quelle con la panna montata sarebbero il massimo” suggerì Sky.
Le piccole si illuminarono alla sola idea e, poco dopo, ognuna aveva una ciotolina di quel cibo spumoso nella quale la fata versò le fragole, per poi lasciare che mangiassero tutto con un cucchiaino.
È proprio una colazione speciale, Kaleia, grazie. E grazie anche a te, Sky scrisse Mackenzie.
“Prego” risposero all’unisono.
“Stamattina Kia faticava a svegliarsi” raccontò Christopher. “Come sempre è dormigliona.”
Mackenzie ridacchiò e tuffò il cucchiaio nella ciotola. Il sapore fresco e dolce delle fragole unito alla morbidezza della panna creava una magia meravigliosa.
La fata assestò un pugno sul braccio al marito, ma entrambi stavano ridendo.
“Ehi, non ti permettere, custode.” Lo minacciò con il dito e spiegò che dormiva tanto a causa della gravidanza, anche se capitava più spesso dopo i pasti. “Solo la voglia di fragole mi ha convinta ad alzarmi, speravo che mia madre ne avesse.”
“Ha esclamato:
“Voglio le fragole!”
e poi mi ha fatto gli occhi dolci perché gliele portassi, ma sono riuscito a farla alzare.”
Christopher aveva usato una voce in falsetto che fece ridere le bambine.
“Mi stai prendendo in giro, per caso?”
“Io? Ma no, figurati!”
Scoppiarono a ridere entrambi, contagiando gli altri.
Kaleia prese due cucchiai di fragole per sé.
"Scuola!" esclamò Hope, entusiasta.
"Ci vai, piccina? Ti accompagno? Ti ci porta Kia?" le disse allora la fata, sentendo il cuore sciogliersi mentre le parlava.
Da settimane la giovane continuava a tenere il conto dei giorni, sperando che quello dedicato alla nascita del suo piccolo arrivasse al più presto.
"Sì. Zia Kia!" esplose la bambina, felicissima a quella sola idea.
"Va bene. Vieni, andiamo."
La prese in braccio e girò su se stessa, mentre Hope rideva. Reagendo a un misto di magia ed emozioni, le ali della fata si muovevano come se avessero avuto vita propria.
Nell’osservare la scena, Andrew sorrise.
"Puoi volare, piccolina! Puoi volare!" le diceva Kaleia, continuando a sollevarla, promettendole di farle toccare il cielo. “Allora le porto io a scuola, se per te non è un problema.”
Andrew disse di no e la ringraziò anche a nome di Demi.
“Mac, hai preparato lo zaino?"
Certo Kia, devo solo vestirmi, e anche Hope.
"Bene, aiuto io la tua sorellina."
Grazie, io arrivo subito assicurò, affidando quelle parole al disegno di una faccina sorridente e intenta a strizzare l'occhio.
Dopo essersi lavata e spogliata del pigiama, Mac passò in rassegna i vestiti che aveva nell'armadio scegliendo una maglietta a righe colorate, una gonnellina di jeans e il suo solito paio di scarpe da ginnastica nere.
 
 
 
Per la prima volta da quando Demi era giunta al bosco, il cielo era offuscato dalla nebbia. Questa foderava il territorio avvolgendo ogni cosa, ma per fortuna non era tanto fitta da impedire di muoversi. Mentre camminava, la ragazza sentì una speranza nascerle nel cuore. Stando a ciò che aveva imparato nel tempo Eltaria era un luogo di pace, che in quanto tale non prometteva nulla di infausto. Le sue figlie si trovavano bene con Kaleia e gli altri e, al solo pensiero, sorrise. Si era proprio sbagliata su di loro, all’inizio e ora ringraziava Dio di averle fatto incontrare persone tanto speciali. Lei ed Eliza procedettero in silenzio l’una accanto all’altra. La nebbia si diradò pian piano lasciando spazio al sole e, dopo il solito lungo percorso, raggiunsero l'ormai conosciuta Casa degli angeli del cuore nello stesso momento in cui iniziavano le lezioni alla Penderghast.
Accolte come sempre da Jacqueline e dal resto delle colleghe, scoprirono chiuse le due porte che conducevano alle stanze dei neonati e dei bimbi più piccoli.
"Non preoccupatevi. Julie e due altre ragazze si sono già occupate dei piccini. Tutta la mattina, per voi, è dedicata ai più grandi" spiegò la Direttrice, mentre continuava a camminare con loro lungo il corridoio.
"Bene! Dove sono?" chiese incuriosita Demi.
"Seguitemi. Abbiamo parlato loro di lei, Demetria, dicendo chi è e cosa fa qui" rispose la Direttrice, fermandosi di fronte a una nuova porta.
La stanza era ampia, colorata e piena di giocattoli, come chiunque in un luogo del genere si sarebbe aspettato. In altre parti del mondo dal quale la cantante proveniva la situazione non era, purtroppo, uguale, ma quella era Eltaria e, come aveva sentito dire dalla ninfa Aster e dal protettore Christopher, lì ogni essere magico aveva sempre una speranza.
"Pronte, signorine? I piccoli sanno essere… attivi, ecco."
"Certo! Che male potranno mai fare? Sono solo bambini!" commentò Demi, già divertita all'idea di incontrarli.
La Direttrice salutò e si allontanò, mimando con le labbra qualcosa che né lei né l’altra donna capirono, ma comunque simile a un "Buona fortuna."
"Miss Demi!" gridò una giovanissima pixie, correndo verso di lei e rischiando di inciampare.
La ragazza si chinò per abbracciarla. Pur senza conoscerla la strinse a sé, sfiorandole la fluente chioma biondo chiaro. Avrà avuto quattro o cinque anni e, a giudicare dalle alucce e dal segno sul polso, doveva essere una pixie del vento.
"Sono Kady, felice di conoscerla.”
“Per me vale lo stesso, piccola, ma dammi pure del tu.”
“Va bene, grazie. Lì ci sono due miei amici, Edwin e Misty. Lei usa il vento come me, lui, invece, deve ancora capire cosa riesce a fare. Io sono libera, libera come l'aria!" raccontò, piena d'energie, tutte concentrate nel parlare.
Demi si trattenne dal ridere e con lei anche Eliza, che ancora vicina, non esitò a soccorrerla.
"Va bene, Kady, va’ pure a giocare con loro. Io e Miss Demi ti raggiungiamo fra poco."
"Eliza, l'hai vista? Era così adorabile!" commentò la cantante non appena la bimba si fu allontanata, con gli occhi ancora pieni di stupore.
"Hai ragione, ma…”
Le disse che, lavorando lì da tempo, aveva avuto cura di memorizzare prima i nomi dei bambini e poi le ragioni per cui erano stati abbandonati e, anche se qualche volta la memoria le giocava brutti scherzi, in genere riusciva a rammentare ogni cosa. La bambina era arrivata quando aveva tre anni. I genitori le avevano detto che sarebbero tornati a riprenderla, ma proprio come lei e la Direttrice avevano temuto, non era mai successo. Dopo un’iniziale chiusura e un’apparente ostilità nei confronti di tutti, una sorta di meccanismo di difesa causato dall’abbandono, che aveva messo in atto non legarsi più a nessuno e non rischiare di soffrire ancora, la piccola si era sentita meglio nel corso dei mesi seguenti. Ci era voluto parecchio lavoro da parte dei volontari e di Kady stessa, nonché degli altri bambini, affinché si avvicinasse e giocasse con loro.
“Non dev’essere stato facile, per lei” commentò Demi.
“No, infatti. Non riesco nemmeno a immaginarlo. Ma nonostante tutto è stata molto forte. Non si è mai persa d'animo, e ogni tanto chiede dei genitori fra un gioco e l'altro. Per il primo anno l’ha fatto sempre, più volte al giorno.”
“E dopo cos’è cambiato?”
“Credo si sia resa conto che non sarebbero più tornati.”
Le due sospirarono.
Aveva pianto tanto per questo, continuò Eliza, ma erano molte le volte nelle quali si sentiva serena.
“In ogni caso, è ormai considerata una bambina adottabile da anni. Gliel’abbiamo spiegato, però non accetta che i suoi non torneranno” mormorò per non farsi udire.
“Magari è così espansiva proprio per nascondere quel dolore” osservò Demetria, pensosa. “O vuole vivere e giocare come tutti gli altri, o formare legami per vedere chi resterà con lei e chi no. E, quando qualcuno se ne va, un altro bambino prende il suo posto e la aiuta a riempire in parte quel vuoto.”
Era un’ipotesi, forse sbagliata, ma Eliza rispose:
“Come hai fatto a capirlo se non la conosci?”
“Quando il procedimento per adottare un bambino è iniziato, ho dovuto partecipare a dieci incontri con possibili genitori adottivi come me e con altri che, invece, desideravano prendere un bimbo in affidamento. Quella sorta di corso è stato interessantissimo. Ho imparato molto sui bambini che aspettano di far parte di una famiglia, i motivi per i quali si trovano in questa situazione e i differenti traumi che possono aver subito, benché quello di Mackenzie non sia facile da gestire, dato che è stata vittima di un evento molto drammatico e violento. A quelle lezioni ho anche imparato in quali problemi incorrono a volte i bimbi anche dopo l’adozione e, nei casi in cui siano stati adottati da piccolissimi, in che modo e quando dir loro la verità. Ho solo pensato che i comportamenti di Kady siano frutto dell’esperienza che ha vissuto.”
“Anche la psicologa, che segue lei e altri bambini una volta a settimana, ha detto quest’ultima cosa. Ha aggiunto che Kady ha paura di un altro abbandono, anche se non ne parla. Ci stanno lavorando da molto.”
“Sì, immaginavo fosse così” rispose Demi, mesta.
Quella piccola doveva stare malissimo, almeno in certi momenti.
“Noi le rimaniamo più vicini possibile, i suoi amichetti la aiutano, pur non rendendosi conto di quanto fanno per lei, la fata che la segue anche, per cui spero che Kady riuscirà a superare i suoi timori prima o poi, soprattutto se troverà una famiglia. Ci sono bambini che restano in attesa anche più di lei, ma due anni sono parecchi.”
Demi sospirò.
“Già. Tutti abbiamo modi diversi di reagire alla sofferenza. Alcuni si lasciano andare, altri no, ma fanno fatica a rialzarsi, altri ancora si comportano come se fosse tutto normale per crollare più avanti, e poi ci sono quelli che cercano di controllare il dolore con una felicità che non sempre è reale. Ecco, io penso che Kady sia una di queste persone.”
Le dispiaceva tantissimo per lei.
“Esatto” rispose Eliza con un gran sospiro, poi sorrise. “Dalla psicologa più che altro gioca o disegna, per ora, ma la chiacchiera non le manca, e almeno là riesce ad aprirsi e a sfogarsi. Quella donna segue bambini con un passato turbolento, rabbia repressa o altri sentimenti che necessitano di venire alla luce, in modo che i piccoli non abbiano problemi in futuro o che ciò capiti di meno.”
“Quanti anni ha, quattro o cinque?”
“Cinque. Comunque, sono sicura che presto avrà una casa con due genitori che la ameranno. Allora, cosa vuoi far fare a questi bimbi?"
"Niente. Non stanno già tutti giocando? Perché dovremmo decidere noi per loro?"
"Demi, sul serio. Questa giornata è dedicata alle attività di gruppo, non possono essere tutti concentrati su un gioco diverso, non credi?"
A riprova di ciò c'era Misty che si divertiva con delle bambole, e poco più lontano i suoi due amici, uno alle prese con un puzzle e Kady con il fallimentare addestramento di un Arylu di pezza.
"Va bene, bello, abbaia" gli chiedeva. Come c'era d'aspettarsi, il pupazzo rimaneva lì.
"Su, abbaia" insisteva allora la piccola. Il peluche non si muoveva di un millimetro. La pixie pestò i piedi per terra e fu ben presto vicina alle lacrime. "Dai, ho detto abbaia, non fermo!" Scoppiò a piangere. "Miss Demi!" gridò mentre correva sul tappeto e rischiava di scivolare a causa del velo di lacrime che aveva sul volto.
"Kady, dimmi."
La giovane la accolse fra le sue braccia e le accarezzò i capelli.
"Il cucciolo… non… obbedisce" spiegò allora la pixie, la voce spezzata dal pianto come l'ala di un uccellino ferito.
La ragazza si fermò a osservarla in silenzio, e persa in ricordi tutti suoi, sorrise appena sia alla bambina che a se stessa. Era piccola, come tutti i bambini adorava i pupazzi tanto da essere convinta che l’Arylu fosse vivo e, in quel caso, disobbediente.
"Perché? Le ho provate tutte!" continuò la bambina, piangendo ancora più forte e tirando su col naso.
Finì per stringersi ancora di più a Demi, mentre lei lasciava che si sfogasse.
"Pixie, anch'io da piccola avevo un cagnolino, sai?" le raccontò, abbassandosi al suo livello e posandole una mano sulla spalla.
"D-davvero?"
Alla cantante si strinse il cuore nel vedere i suoi occhioni verdi versare tutte quelle lacrime.
"Sì. Era bianco e si chiamava Buddy."
Le sfiorò i capelli lunghi lasciati sciolti sulle spalle e regalò un altro sorriso sia alla bimba che al suo ricordo.
Non l'avrebbe detto ad anima viva ma, dati i suoi trascorsi, parte di lei era convinta che quel dolce cucciolo fosse stato – almeno durante quel periodo – l'unico amico oltre ad Andrew capace di comprenderla. In fin dei conti, lui era rimasto con lei quando i ricordi di Patrick che tornava a casa ubriaco e incapace di muoversi senza barcollare, drogato e arrabbiato con la moglie, l’avevano tormentata. Non l’aveva lasciata sola nelle tante sere in cui, nonostante da un certo punto in avanti ci fosse stato Eddie nella loro vita, la piccola si era ritrovata a pensare ancora al padre che, in notti orribili, aveva sfogato la sua rabbia sulla mamma picchiandola e facendole del male, e c'era stato anche quando la paura del vento, unita a quella del papà che nonostante tutto amava moltissimo, le aveva impedito di dormire. Buddy le era rimasto sempre vicino, spesso seduto accanto a lei, con lo sguardo fisso nel suo.
La voce della giovanissima pixie bastò a riportarla alla realtà dalla quale si era estraniata senza volere.
"E adesso?" chiese, il tono calmo e con il respiro più regolare.
"Adesso, pixie, non c'è più. Se n'è andato tanto tempo fa, ma sarà sempre con me" le rispose, ormai in pace con quella realtà.
"Ma come… come lo sai?"
"Kady, ascolta, sai cosa succede dopo la pioggia?"
"Sì, c'è il sole, e anche l'arcobaleno" replicò la bambina, con un nuovo sorriso sul volto.
"Ecco, brava. Tu non lo sai, ma tutti gli animaletti che se ne vanno attraversano un ponte, che si chiama proprio Ponte dell'Arcobaleno. Sono sicura che sarà con me perché lo vedo ogni volta, felice e in alto nel cielo."
Demi la imitò e sorrise, nascondendo una lacrima prima che la bambina riuscisse a vederla.
"Che bello!" esclamò la piccola, meravigliata.
"Sì, moltissimo."
Annoiato, o forse incuriosito dalla sua presenza, un bambino le si avvicinò. A occhio e croce aveva la stessa età di Kady. Demetria capì che era Edwin, l'amico che la piccola le aveva descritto in precedenza. Portava con sé una palla di gomma colorata.
"Miss Demi? Miss Eliza dice che possiamo giocare insieme, vieni?" le chiese.
"Anche subito, Edwin, andiamo."
Il bambino la guidò fino all'altro lato della stanza, dove Eliza si stava occupando di intrattenere lui e un altro gruppo di amichetti. Aiutati da lei, quattro o cinque si erano radunati in cerchio lanciandosi la palla mentre altri, sempre insieme, si divertivano a giocare a campana, saltellando. Demi si unì al primo dei due gruppi. Fra un gioco e l'altro il cuore le si faceva più leggero, mentre con lo scorrere del tempo si chiedeva cosa, in quel secondo giorno di lezioni, Hope e Mackenzie avrebbero scoperto.
 
 
 
NOTE:
1. la scritta appartiene proprio alla scatola del Carbolithium, che assumo dalla fine del 2018.
2. Il corso a cui ha partecipato Demi, chiamato pre-service training, è propedeutico per adottare o avere in affidamento un bambino. Le modalità possono cambiare da stato a stato, ma anche da contea a contea. Ad ogni modo, a quanto riporta il sito www.healthyplace.com e  www.helpuskids.org, le lezioni in genere variano da quattro a dieci e servono per capire cos’hanno passato i bambini che sono in attesa di una famiglia e come integrarli al meglio nella propria. Servono anche a incontrare altri genitori e ad aiutarsi a vicenda, se necessario.
In Cuore di mamma ho solo accennato alla cosa, perché non sapendo come si svolge il corso nei dettagli non me la sono sentita di approfondirlo. Demi aveva già fatto parecchie riflessioni sull’adozione con l’assistente sociale che le aveva fornito diverse informazioni sull’iter e anche sui bimbi, per cui aggiungere altro sarebbe stato, in un certo senso, inutile.

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Capitolo 19
*** Piccole creature magiche ***


CAPITOLO 19.

 

PICCOLE CREATURE MAGICHE

 
Quella mattina, nell'ala scolastica dedicata ai piccoli dell'asilo, Hope giocava da sola, ma non si annoiava affatto. Passava il tempo a costruire torri di cubi colorati e scuoteva sonagli simili a quello che aveva ricevuto dalle anziane. Con lei c’erano altri diciannove bambini. Formavano due classi da dieci, ma se all’inizio erano rimasti nelle proprie aule a disegnare, ora si trovavano nel salone a divertirsi sotto la sorveglianza di due maestre. La piccola non si accorgeva dei minuti che passavano. Per variare, corse non solo lì, ma anche lungo il corridoio alla fine del quale si trovava una pesante porta in ferro. Troppo bassa per raggiungere la maniglia, non sarebbe stata comunque abbastanza forte per aprirla. Voci sommesse le arrivavano alle orecchie.
“Tesoro, là ci sono i bambini più grandi, dai tre ai cinque anni” disse una voce alle sue spalle.
Voltandosi, la piccola riconobbe una delle insegnanti delle quali non ricordava il nome.
La maestra aggiunse che non si doveva correre, nemmeno lì. A lei sembrò una regola stupida.
Ma allora perché si chiama corridoio?
Sbuffò; avrebbe voluto domandarlo, ma non era ancora brava.
La donna la prese in braccio. Confusa, Hope non seppe cosa fare. Avrebbe voluto scalciare e protestare per farsi rimettere giù. Fino ad allora quella signora era sempre stata gentile con lei. Aveva gli stessi occhi castani e un modo di fare simile a quelli di mamma Demi. Sorridendole per l'ennesima volta, abbandonò la manina nella sua.
"Vieni, Hope, così non resti da sola" commentò la donna, che attraversò la stanza incoraggiandola poi a giocare con gli altri.
Le maestre fecero in modo che i bambini si prendessero per mano. Una piccola pixie strinse subito quella di Hope e, formando prima una sorta di catena umana e poi un cerchio assieme al resto dei compagni, diede inizio a un girotondo. Hope si limitò a seguire ciò che vedeva seguendo come poteva la canzoncina che tutti cantavano. Ridacchiò tanto da restare senza respiro fino al momento in cui i bambini si lasciarono cadere sul pavimento per poi scoppiare a ridere. La piccola conosceva già quella canzone: a volte gliela cantava la mamma per farla giocare nello stesso modo e l’aveva udita all’asilo, ma non riusciva ancora a impararne le parole.
Le maestre rimasero in piedi, sorridendo nel notare che, anche se per puro caso, sdraiati insieme in quel modo e a giudicare dai colori delle loro magliette, i piccoli parevano ognuno parte di un coloratissimo arcobaleno. Le due li lasciarono divertire intervenendo solo quando, animati dalla gelosia o dalla frustrazione derivante dalla perdita di un giocattolo o del pezzo cruciale di una delle loro costruzioni, iniziavano a piangere.
Per la piccola Hope la giornata fu piena di divertimento, in particolare nel momento in cui quella bimba con le ali si riavvicinò a lei. La aiutò con la sua torre di cubi e le mostrò come costruire una casetta con i mattoncini, per poi aprire metaforicamente la porta a dei pupazzetti. A lavoro finito le due si abbracciarono e, mentre le lancette del tempo non accennavano a fermarsi, la bimba rivolse un pensiero anche alla sorella maggiore Mackenzie, desiderando che fosse lì a giocare con lei nonostante gli impegni, i compiti che le vedeva fare e i libri che, in braccio alla mamma o sul suo seggiolone all'ora di merenda, le guardava leggere.
 
 
 
Qualche ora dopo, sempre nella sua classe assieme a Mahel e Harmony, Mackenzie restava seduta al suo posto e ascoltava con interesse una nuova lezione con la signorina Spellman, che stava spiegando ai suoi magici compagni un semplicissimo incantesimo di levitazione. Conscia che la bambina umana non avrebbe certo potuto imparare, l'insegnante la lasciava osservare anziché interagire e, mentre annuiva, Mackenzie non faceva che prendere appunti, sperando che forse in un altro sogno o in quello la sua mente e la fervida immaginazione le avrebbero concesso dei poteri. Non le importava quali, le interessava solo provarli e diventare ogni giorno sempre più brava, così da poter prima o poi rivaleggiare amichevolmente e ad armi pari con Mahel e Harmony. Mackenzie scrisse la formula magica:
Levitatio.
I compagni la utilizzavano unita a un gesto della mano simile a quello che Lucy le aveva mostrato.
Dovrei raccontare tutto nel mio diario. Se solo ce l’avessi qui…
Non lo aggiornava da un po’, ma era sicura che i ricordi di quella settimana quasi giunta al termine sarebbero rimasti impressi nella sua mente per sempre. Sorrise e aprì il suo quaderno a una pagina casuale ma ancora immacolata. Si armò di una matita e alcuni colori e iniziò a disegnare. Al contrario di ciò che faceva di solito, non più la casa in cui abitava prima di andare in affidamento, se stessa o la sua famiglia biologica, ma ritratti dei dolci animaletti che aveva visto e accarezzato o dei quali aveva solo letto nel bestiario di Mahel. Disegnò a mano libera e senza un righello. Il primo era un Arylu. Per secondo un Pyrados, draghetto che, da cucciolo, era grande quanto un gattino di sei mesi, dalle ali leggere e nascoste da una criniera di minuscole fiamme, un corpicino che variava a seconda del piccolo – viola scuro o varie sfumature del rosso, ma sempre di uno dei colori del tramonto, nel suo caso arancione –, una lunga coda fiammeggiante e una sorta di uovo fra le zampe. Quei draghetti nascevano dalle uova e ne conservavano i resti, come ricordo dell'amore della madre anche dopo la crescita, l'eventuale adozione e l'ingresso nell'età adulta. Disegnò anche degli Slimius, ranocchie magiche che aveva visto saltellare per tutta Eltaria.
Soddisfatta del suo lavoro, sollevò il blocchetto.
"Che succede, Mackenzie?" le chiese l'insegnante, mentre alzava lo sguardo dal registro. Con un colpo di magia la donna richiamò a sé i disegni, dando dimostrazione dell'incantesimo che stava insegnando. Li studiò con occhio critico e li restituì all’alunna. "Bambini, Mackenzie ha fatto dei disegni bellissimi. E mi hanno ricordato una cosa, sapete?"
Si levò un brusio di fondo.
“Cosa, Miss Spellman?” chiese Evan.
"Oggi è un giorno speciale per tutti voi. Ci sarà una sorpresa che dovrebbe essere qui a momenti."
Qualcuno bussò alla porta e tutto fu silenzio.
"Avanti!" esclamò allora l'insegnante.
Entrò il maestro di Pozioni Carlos Ramirez. Harmony e Mackenzie risero, ma solo perché la realtà si stava scontrando con la fantasia.
E lui che cos'è? scrisse poco dopo quest'ultima.
L’uomo era altissimo e… strano.
"Credo sia un satiro. C'è una foto nel mio libro" le rispose subito Harmony, aprendo il suo bestiario alla pagina giusta e indicando con il dito una delle immagini, che raffigurava una creatura per metà umana e per metà con corna, orecchie e zampe da capra.
Questo sì che è particolare! Che dite, sarà bravo con noi? continuò la bimba, ancora incerta.
"La prima lezione di Pozioni è domani, ma una bambina nella classe accanto dice che è buonissimo" rispose Mahel.
“Se lo dice lei, puoi fidarti. Sa tutto di tutti, in questa scuola.”
“Non esagerare. Però è vero, le voci di corridoio e le notizie scolastiche sono interessanti.” E a proposito di voci di corridoio, Mahel non stava mentendo. Inez, la bambina con cui aveva parlato, di solito raccontava un sacco di stupidaggini, ma almeno allora diceva sul serio.
Quella mattina, le due pixie avevano chiesto di potersi sedere accanto a Mackenzie per tutto il tempo in cui sarebbe rimasta lì e ora erano insieme.
pensò Mac mentre sorrideva. Sono a casa.
E perché comincia domani se siamo a fine maggio? scrisse.
A meno che l’anno scolastico non durasse di più lì a Eltaria, le pareva una cosa assai strana. Era il 26 maggio, ma quanto mancava?
“La scuola finisce il 30 giugno” riprese Harmony intuendo i suoi pensieri. “Ma iniziamo gli ultimi giorni perché prima abbiamo dovuto diventare più bravi nelle altre materie.”
Capito. Da me finiscono il 10 giugno.
Mackenzie evitò di parlare della questione del sogno e del fatto che a Los Angeles era novembre, per cui la scuola sarebbe terminata l’anno seguente, per non confonderle.
“Non ti troverai male perdendo gli ultimi giorni?” le domandò Mahel.
No, non preoccuparti, non si fa niente in questo periodo.
Non poteva sapere se sarebbe stato così o meno, ma nei film negli ultimi giorni di scuola gli studenti ripassavano e basta, perciò forse aveva detto una mezza verità. Odiò mentire alle compagne, ma che altro poteva fare? Forse avrebbe raccontato loro tutto, ma di certo non adesso dato che le conosceva da pochissimo.
Scostandosi appena perché i bambini potessero vedere, il satiro rivelò quelle che agli occhi di Mac sembravano tre gabbie, tutte coperte da un panno. La bimba attese trattenendo il respiro. Dalle parole della maestra, dedusse che quella sorpresa era collegata ai suoi disegni, anche se non sapeva come.
"Cielo, credo di aver capito!" sussurrò Mahel, mentre tremava appena.
"Non parlare, o non lo scopriremo mai" le rispose Harmony, che si sfregava con forza le mani sui pantaloni.
La voce della signorina Spellman ruppe il silenzio.
"Chi vuole cominciare?"
I bambini alzarono la mano per rispondere con educazione.
"Come sospettavo. Servirà usare l'elenco, non credi, Carlos?"
"Creo que sí. Li chiami tu? Sarò terrible con la pronunciación dei loro nombres, ci scommetto."
"Tranquilo, no hay problema" concesse la collega, rispettosa delle differenze linguistiche dell'uomo.
Se lei e gli altri insegnanti si erano già abituati al suo spagnolo, peraltro involontariamente mescolato all'italiano, ai bambini ci sarebbe voluto qualche tempo, ma con un pizzico di fortuna ci avrebbero presto fatto l'abitudine. La signorina Spellman passò in rassegna nomi e cognomi e, uno alla volta, i bambini raggiunsero la cattedra. Oltre i panni tutti videro meglio tre recinti di ferro con dei cuccioli di Arylu, Pyrados e Slimius all’interno.
È come nei miei disegni! Mahel, allora forse sono magica! scrisse Mac a gran velocità.
Lei le sorrise.
"Chi te lo impedisce?”
Mackenzie ricambiò il gesto e annuì.
Incrociando le dita, la sua compagna le confidò che sperava che nessuno scegliesse i draghetti sui quali aveva posato gli occhi. Essere nata con l'elemento del fuoco sul polso rendeva quella decisione quasi obbligata, ma per fortuna sua e dei genitori, per lei non era affatto così.
Attendendo di sentire il proprio nome e cognome, Mackenzie perse addirittura il conto. Alla fine ne rimasero soltanto tre.
"Lightwood Harmony?" chiamò la signorina Spellman.
"Presente!" trillò la bambina, correndo verso la cattedra.
"Perfetto, dammi la mano e solleva come faccio io" le disse la donna, mentre guidava la piccola.
“Guarda, Mac” riprese Mahel, “sono così carini che Harmony non riesce a scegliere."
Le parlò con calma, ma non faceva che tamburellare con le dita sul banco. La compagna tornò a sedersi, lasciando che il suo Slimius le restasse incollato alle mani.
"Bleah! Harmony, che scherzo è? Lo sai che quei cosi mi fanno schifo!" protestò Mahel, poi storse la bocca.
Aveva sorriso nel vedere i compagni optare per i più giocosi Arylu chiudendo anche un occhio se qualcuno era stato indeciso prima di fare la propria scelta, ma no, gli Slimius erano forse l'unica specie che non riusciva a sopportare.
"Oh, per favore! Kermit è adorabile. Vero, piccolino?" replicò l'elfa, ridacchiando divertita.
Il rospetto gracidò, spiccò un balzo e si accomodò sul banco della nuova padroncina. Mentre metteva a posto il libro che intanto aveva ripreso a leggere, Mackenzie si assicurò che il nuovo amico della compagna non avesse sporcato le pagine.
Bavoso ma carino si limitò a commentare, non volendo prendere le parti di nessuno.
Piccole discussioni del genere capitavano anche nella sua vecchia scuola, e secondo gli insegnamenti era sempre meglio restare in disparte, pena il peggioramento della situazione, mamma Demi aveva ragione. Che sarebbe successo se avesse difeso una e non l'altra? Meglio non farlo, o forse una di loro due se la sarebbe presa, non tanto da interrompere il rapporto ma abbastanza da creare tensione. A braccia conserte, le tre attesero ancora.
"Lovato Mackenzie? Ho pronunciato bene il tuo cognome, vero?"
Lei alzò la mano, annuì e, sorridendole, il signor Ramirez la invitò a raggiungerlo. Giunta di fronte a quei tre recinti, il suo viso si aprì in un sorriso raggiante. Impacciati, gli Arylu si sfidarono in una corsa verso di lei solo per leccarle le mani. Ridacchiando, li sentì farle il solletico e mordicchiarle le dita, poi udì un dolce abbaiare. Spostò lo sguardo e ritirò anche la mano così che i cuccioli con cui giocava non le facessero male diventando esuberanti come il suo Batman. In un angolo, troppo timido per avvicinarsi, un Arylu cercava di restare nascosto. E in quel momento lo seppe.
“Scelgo quello” lasciò intendere, indicandolo.
"Perfecto. Sei afortunada, è una femmina, como tú” le rispose l’uomo.Ha due mesi.”
La aiutò a sollevarla.
Accettando quella mano amica, Mackenzie rimase dov'era e strinse a sé la sua cagnolina, grattandola piano dietro un orecchio. Tornò al suo posto ringraziando gli insegnanti con una sorta di inchino e si sistemò la piccola sulle gambe.
"Che carina! Come si chiama?" non poté evitare di chiedere Mahel.
Mackenzie abbassò lo sguardo per osservarla, sicura che, come aveva sentito in un documentario, a volte gli animali da compagnia possedessero già un nome, e bastava guardarli per lasciarselo comunicare. Proprio allora, le pixie notarono le focature grigie sul pelo nero della cagnolina e, non resistendo alla tentazione, Harmony la accarezzò. Lei chiuse gli occhi e mosse ritmicamente la coda. Un comportamento tutto da cani, che nella loro lingua poteva significare solo una cosa: si stava divertendo da matti. Mackenzie respirò a fondo e, afferrata una penna, scrisse:
Lilia.
“Un nome dolce” commentò Harmony.
Grazie.
Anche nella classe di Hope la giornata era dedicata a quella stessa divertente scelta? La cagnolina saltò sul pavimento e poi sopra il banco della padroncina producendo una piccola folata di vento. I suoi poteri erano dunque legati all’aria e forse con quel venticello la cucciola aveva appena dimostrato la sua felicità.
Tutti gli Arylu erano neri, compreso quello di Lucy. Grazie a Mahel, Mackenzie scoprì che era il colore base di ognuno di loro, solo le focature cambiavano. Incontrò gli occhi grigi di Lilia e i loro sguardi si fusero, poi questa aprì la bocca e Mackenzie si sorprese nel notare che la lingua era dello stesso colore. Anche quella doveva essere una caratteristica degli Arylu.
"Porter Mahel, tocca a te" le disse Miss Spellman.
"Finalmente! Ancora un po’ e avrei compiuto sette anni" commentò la pixie.
Compagni e insegnanti risero di cuore.
La bambina ignorò Arylu e Slimius, lasciando appena che le saltellassero intorno. Si sporse quanto bastava e prese in braccio un draghetto dal corpo color del fuoco.
"¿Elegiste?" le chiese il signor Ramirez, meravigliato dalla sua velocità.
"Ele… cosa?"
"Scusalo, Mahel. Il maestro non parla molto bene la nostra lingua. Hai scelto?" chiarì la signorina Spellman, veloce a tradurre.
"Certo. Lui è il cucciolo perfetto, non vedo l'ora di mostrarlo anche a casa!" rispose subito la bambina, per poi voltarsi e tornare al posto. "Ragazze, fate ciao a Vulcan" annunciò, sfiorandosi una spalla perché vi si appollaiasse.
L'animaletto obbedì all'istante e, con un solo battito delle ali cremisi, trovò il suo nuovo nido.
Mi piace scrisse Mac.
"Fico" commentò Harmony, sorpresa.
Cominci a capire le rispose l’altra, colpendola al braccio con fare inoffensivo.
Le tre bambine si scambiarono consigli e altre risate poco prima della merenda. Mangiarono insieme.
"Ricordate, bambini: un animaletto magico, o famiglio, è prima di tutto un amico. Abbiatene buona cura e saprà ricambiare" raccomandò loro la signorina Spellman, seria come i piccoli non l'avevano mai vista.
Tutti annuirono.
Dopo le ultime due ore, giunse il momento di tornare a casa. Mackenzie aveva divorato qualche altra pagina del libro di lettura e aveva scoperto, con la fine della favola, che Harmony aveva ragione: il ragazzo risparmiava alle uova di drago un destino altrimenti ben diverso, offrendosi addirittura di tenerle con sé fino alla loro schiusa. Uscì dall'aula assieme alle compagne solo dopo la campanella. Aveva memorizzato la strada che portava alla classe della sorellina e le salutò senza farsi accompagnare.
Dopo aver camminato un po’, giunse alla sua meta. Bussò un paio di volte e attese.
"Mackenzie!" urlò l'insegnante, soffocandola con un abbraccio.
Sono qui per Hope. La lezione è finita?
"Sei in perfetto orario."
Poco dopo tornò con in braccio la bambina.
"Mac!" trillò la piccola.
Non era sola, aveva un draghetto tutto suo.
"Potrete aspettare la mamma in corridoio. Abbiate cura dei vostri cuccioli, d'accordo?"
"Bene" rispose Hope.
L'anziana sorrise e rimase con loro.
 
 
 
NOTE:
1. Creo que sí. = Credo di sì.
2. Nombres = nomi
E se il probabile aspetto di quei tre animaletti magici, protagonisti insieme a Mackenzie e alle sue amiche di questo capitolo hanno solleticato la vostra curiosità, lasciate che ve le mostriamo.
 
Arylu-mod



Pyrados



Slimius

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Capitolo 20
*** Tensione e confessioni ***


CAPITOLO 20.

 

TENSIONE E CONFESSIONI

 
Demi ed Eliza raggiunsero l'aula di Hope in meno tempo di quanto si sarebbero aspettate. Erano andate più spedite e dolevano loro gambe e piedi.
"Signorina, salve" la salutarono entrambe le insegnanti e le strinsero a turno la mano.
"Salve a voi. Hanno fatto le brave? E soprattutto, loro chi sono?" indagò, confusa dai due animaletti, uno al proprio fianco e l'altro libero di volare poco sopra la sua testa.
"Magici animali da compagnia. A tutti gli alunni della Penderghast è permesso tenerne uno e, anche se Hope è piccola, non abbiamo voluto fare eccezioni" spiegò la più giovane delle due donne, parlandone come se fosse stata la cosa più normale al mondo.
Demi annuì.
Quindi, gli altri piccoli dell’asilo non dovevano aver ricevuto nessun cucciolo. Forse Mackenzie, nel suo sogno, aveva pensato alla sorella facendolo andare in quella direzione. In parte era brutto che non fosse stata attenta anche agli altri, ma in fondo aveva solo sei anni e la mamma non se la sentì di incolparla per questo.
“E da dove arrivano?”
Kaleia ne aveva trovato uno, ma quello di Lucy e i loro? Erano stati abbandonati e salvati?
L’altra maestra abbassò la voce.
“Alcuni vengono allevati allo scopo di essere dati ai bambini.”
Demi fece una smorfia. Nel suo mondo esistevano tanti allevamenti di cani o altri animali nei quali questi, a volte, venivano maltrattati e aveva il terrore che potesse succedere anche lì. La donna dovette intuire qualcosa perché si affrettò ad aggiungere:
“Le assicuro che sono trattati benissimo, viene fatto tutto nel modo più umano possibile. Gli allevatori sono gentili con gli animali, se ne prendono cura sotto ogni punto di vista. E per quanto riguarda i cuccioli, scelgono loro stessi con chi andare. Alcuni sono più timidi e i nuovi padroni li fanno avvicinare, altri corrono da loro. Hanno caratteri diversi come ogni animale.”
Demi si fidò di quelle parole. Se la donna gliel’aveva detto, significava che doveva intendersene e che, forse, era in contatto con gli allevatori stessi. Tirò un sospiro di sollievo e rimase in silenzio, poi si incamminò verso casa.
"Strani, vero? Ma puoi stare tranquilla, in genere non mordono né fanno del male. Dà loro del tempo e si abitueranno alle tue figlie" spiegò Eliza, notando la confusione dipinta sul volto della ragazza.
“Lo spero. Sono felice che non siano stati picchiati o altro, avevo delle brutte sensazioni."
Lei e la propria famiglia avrebbero dato ai due animaletti il miglior futuro possibile.
Data l'ora arrivare a casa significava mangiare e, nonostante non lo volesse, Demetria temeva che Ana e Mia si sarebbero ripresentate. Non aveva ricadute da anni, altrimenti non avrebbe potuto adottare un bambino, ma da certe malattie non ci si libera mai del tutto e, anche se raramente, quelle maledette voci si facevano sentire. Scuotendo la testa, sperò che non sarebbe accaduto.
“Mamma, fame” si lamentò Hope durante il tragitto.
La ragazza tirò fuori dalla borsa un pacchettino di caramelle gommose che aveva preso dalla dispensa di Eliza, nel caso le fossero servite per sopperire a un calo di zuccheri.
“Una soltanto, d’accordo?”
“Sì!” trillò la bambina, cacciandosela in bocca.
La ragazza chiese a Mackenzie se anche lei ne desiderasse una, ma la piccola negò.
Quando spiegò ad Andrew chi erano i due animali magici, l’uomo le rivolse uno sguardo interrogativo.
“Le nostre figlie non sono magiche e hanno un animale magico?”
Aveva ripetuto apposta quell’aggettivo.
“Lo so, ha sorpreso anche me, ma credo che gli insegnanti non volessero farle sentire in difetto, o qualcosa del genere” mormorò, affinché le piccole non udissero.
Una volta a tavola, seduta di fronte a un piatto di penne al sugo, la ragazza esitò.
“No, Demi. Sai che accadrebbe se mangiassi. Hai fatto tanto movimento in questi giorni, ma non basta. Hai i fianchi larghi, le cosce grosse, tutto in te è pieno di grasso, quando non dovresti averne nemmeno un filo. Non ti vergogni? Non ti piacerebbe essere più magra, più perfetta? Pensi di piacere ad Andrew e che lui ti accetti davvero ora che sei grassa, una balena, un cesso? E credi che gli altri ti apprezzino? E soprattutto, tu ti piaci? Ti rispondo io: no, ti fai schifo e hai ragione, se mangerai sarai orribile. Ti guardano tutti anche ora, ridono di te e sussurrano che sei una cicciona.”
Nonostante le sue preghiere, Ana la sorprese e, falsa e infida, continuava a sussurrarle quelle frasi. Demi strinse gli occhi fino a chiuderli e avrebbe voluto fare lo stesso con le orecchie, ma non osò per non destare sospetti. Si toccò i punti menzionati dalla voce.
A me non sembrano grassi.
Sì, aveva un po’ di cellulite, ma che importava?
“Allora non sto ricadendo in questa malattia, o non la penserei così riguardo il mio fisico” si disse.
Eppure, quelle parole le rimbombavano nella mente. Si lasciò sfuggire una sorta di lamento e per sua sfortuna le bambine e la padrona di casa dovettero sentirlo, perché a quella nella sua testa sopraggiunse la voce di Eliza.
"Demi, tutto bene?"
Continuava a guardarla come Sky, che però non fiatò.
"S-sì" biascicò a fatica la ragazza, stringendo la presa sulla forchetta finché le nocche non diventarono bianche.
Il piatto era enorme e il cibo davvero troppo.
“Se ingrasserai anche solo un po’ potresti scoppiare a piangere e darti mille colpe, lo sai, vero? Non far del male al tuo corpo, il cibo non ti serve. Non mangiare, o se lo fai alzati con calma, va’ in bagno, apri l’acqua e vomita.”
Di nuovo lei.
“Non voglio vomitare” sussurrò.
“Cos’hai detto, cara?” le chiese Eliza. “Ti viene da vomitare?”
Demi si aggrappò alla sedia per sopprimere l’istinto di alzarsi, dicendosi che non doveva, che si sarebbe fatta del male, che quello non era un comportamento sano.
Smettila! gridò nella sua testa.
La voce non parlò più. Strano, una volta replicava.
Per fortuna, si disse la cantante, non stava contando le calorie come faceva anni prima, né aveva intenzione di succhiare il cibo fino allo sfinimento.
Non sono più a quel punto, non sono più a quel punto.
Se lo ripeté più volte per convincersene.
“Niente, Eliza. No, non mi viene da vomitare. Io…”
Come avrebbe fatto a spiegarlo senza entrare nei dettagli? Era impossibile e non si sentiva pronta a sbottonarsi tanto.
Andrew, che aveva capito, le tolse la mano dalla forchetta che cadde sul piatto producendo un rumore metallico, e gliela strinse.
“Va tutto bene, amore” le sussurrò con dolcezza. “L’hai superata, sei guarita da tempo. Questo è solo un brutto momento.”
Lei inspirò ed espirò con lentezza per cercare di calmare il suo cuore in tumulto.
"Dovete scusarmi. Ho un problema. Sono guarita, diciamo, ma ogni tanto ritorna e faccio… fatica ad affrontarlo, ecco."
Sputò ogni parola con orrore, come se non desiderasse che liberarsene.
"Tranquilla. Ce ne parlerai quando te la sentirai. Se non hai fame…" le disse la fata della natura, comprensiva.
"No! Voglio… voglio dire, sì, mangerò" la rassicurò Demi, interrompendola e intervallando a quelle parole respiri profondi.
Nessun altro fu in grado di aprire bocca.
 
 
 
Mackenzie non seppe cosa pensare. Forse i demoni della mamma erano comparsi di nuovo, anche se non capiva di cosa si trattasse. Lei non aveva mai voluto parlargliene.
“Te lo racconterò quando sarai più grande” le aveva detto una volta.
Ma io sono grande, ho sei anni! aveva ribattuto.
“Sì, ma non sei un’adulta. Aspetta ancora qualche anno e non avere fretta di crescere.”
Magari quei demoni si comportavano come gli spiriti della foresta di cui aveva tanto letto, e sospirò di sollievo al pensiero che Hope fosse troppo piccola per capire.
Mamma, stai male? Chiese, tremando.
Demi si schiarì la voce.
“No, amore, sono solo stanca. Adesso mi passa.”
Riuscì nell’intento di rassicurarla, perché la piccola le sorrise e finì il pranzo.
In quel momento, Lilia e Agni iniziarono a lamentarsi.
"Credo abbiano fame" osservò Andrew.
Eliza prese una scorta di croccantini che teneva da una parte nel caso in cui avesse dovuto aiutare un Arylu o dar da mangiare a Cosmo quando veniva, per cui la piccola fu sistemata in breve tempo con la sua ciotola. Sulla confezione c'era scritto quanto cibo dare a un Arylu a seconda dell'età e che era sconsigliato lasciargli la ciotola piena, perché altrimenti si sarebbe riempito troppo lo stomaco.
"Come per i cani normali, insomma. Avendone avuti tre, mi considero un’esperta" disse Demetria.
"E Agni di cosa si nutre?"
Fu Andrew a porre quella domanda, ma in realtà se lo stavano chiedendo tutti, soprattutto perché il draghetto non faceva che volare attorno a Hope emettendo dei versi strani.
Eliza venne in loro soccorso.
"Un tipo particolare di frutta e insetti. Facciamolo uscire, lui si orienterà e saprà come trovare ciò che cerca qui intorno." Quando vide che aprivano la porta e Agni svolazzava fuori, Hope provò a seguirlo, ma la donna la fermò. "Tranquilla, piccola, non lo perderai. Si sta guardando intorno per imparare la strada di casa e presto lo riavrai."
Dopo alcuni minuti, infatti, il piccolo tornò e fece qualche altro giro per portarsi in casa alcuni di quei frutti che Eliza mise in un contenitore di plastica. Agni avrebbe dunque potuto nutrirsi anche di notte senza bisogno che qualcuno gli aprisse la porta.
"Però, è intelligente" sussurrò Demetria.
Mackenzie si batté piano una gamba e richiamò a sé la cagnolina, che si rotolò subito in terra mentre mostrava la pancia.
A poca distanza dalla bambina, Christopher e Kaleia coccolavano Cosmo. La fata lo ricopriva di carezze e complimenti, mentre lui gli offriva una fune annodata in due punti, morbida ma resistente. Lilia si avvicinò per indagare, e abbaiando, si esibì in una sorta di inchino.
"Posso averla? Posso? Giochiamoci, voglio provare!" sembrava dire, agitando freneticamente la coda.
"Chris, Cosmo ha un'amichetta! E tu come ti chiami?" chiese allora Kaleia,
dimentica di quanto fosse appena successo a tavola.
Anche lei non aveva capito molto, ma del tutto presa dal nuovo esserino magico, preferì concentrare il pensiero altrove.
Si chiama Lilia. L'ho scelta oggi a scuola spiegò Mackenzie.
Passò quel piccolo appunto a Christopher, che riferì alla moglie.
"Non avete fatto altro?"
Sì, Kia. Ho finito di leggere una favola: Il giovane e i tre draghi rispose la bambina, porgendo stavolta il foglietto proprio a lei.
"Un'avida lettrice come me! Conosco anch'io quella favola, sai?"
A Mackenzie parve che le andassero a fuoco le guance e, battendo le mani, attirò l'attenzione della sua Arylu. La coccolò e continuò a giocare con lei, rubando senza saperlo la palla preferita di Cosmo dal baule dei giocattoli lì in salotto. Il cagnolino la lasciò fare e, unendosi al gioco, sia lui che il draghetto riempirono il silenzio e l'aria di versetti simili a risate, tutti a dir poco adorabili.
"Agni! Agni!" lo chiamava Hope, saltellando e urlando.
“Dice il suo nome o sono lettere senza senso perché non riesce ancora a pronunciare la parola drago, secondo te?” chiese Demi ad Andrew.
“Non lo so, ma Agni è un bel nome, potremmo chiamarlo così.”
Il draghetto si esibiva in vere e proprie prove di volo appena sopra di lei, scendendo in picchiata solo per permettere alla padroncina di accarezzarlo. Sulla punta della sua coda era accesa una scintilla rossa. Quest’ultima non avrebbe fatto alcun danno, spiegò loro Eliza, e Agni la spegneva solo durante il sonno.
 
 
 
Intanto, sempre sul divano di casa, i due coniugi avevano come dimenticato anche il loro Arylu e non riuscivano a smettere di guardarsi negli occhi.
"Ti amo, lo sai?" gli sussurrò lei.
"Sì, fatina, anch'io."
Le strinse la mano con delicatezza per poi sfiorare appena l'anello che le aveva regalato, simbolo di amore e fede.
Poco dopo al gruppo si aggiunse anche Sky, che con fare sgraziato e le mani ancora sporche d'inchiostro, sprofondò nel divano. Aveva appena finito di scrivere uno dei tanti messaggi per Noah, consegnandolo a Midnight affinché glielo recapitasse.
"Sky! Che modi!" la riprese la madre alzando la voce.
"C'è di peggio a questo mondo, Eliza" ribatté l'altra, affatto in vena di scherzi.
"Sarà anche vero, signora dei venti, ma non ho alcuna intenzione di passare ore a togliere l'inchiostro dall'argento, sappilo" fu svelta a replicare la sorella minore, esasperata.
Lei era fidanzata e non sposata, ma solo perché il suo Noah, timido come pochi al loro mondo o a quello umano, non si decideva a chiederle nulla di diverso. In fondo che altra spiegazione poteva esserci dietro comportamenti di quel genere? Era gelosa, nient'altro. I suoi occhi non erano di certo verdi, ma dato ciò che provava madre e figlia erano convinte che quello, se reale, sarebbe stato l’indizio mancante.
"Perché non usciamo?” propose Andrew per smorzare gli animi. “Potrebbe farci bene, vista la tensione."
"Tensione? Sul serio? Credi sia questo il mio problema, umano?" replicò Sky, inviperita.
"Sky, ora basta! Andrew fa quel che può, va bene?" urlò Eliza, stanca di sentirla controbattere.
Alle sue parole seguì una battuta di silenzio e poi, inaspettatamente, lacrime.
"No. No, ma uscirò con voi, se questo può farvi felici" disse poco dopo la fata del vento, con la voce spezzata e il corpo scosso dai tremiti del pianto.
"Sicura? Potresti restare con le piccole, se proprio ti va di distrarti" le consigliò Kaleia, che ora capiva di aver esagerato.
"Preferisco uscire, Kia. Per quanto riguarda le bambine, c'è Marisa" rispose l'altra, per poi scivolare nel silenzio e asciugarsi gli occhi.
"Ha ragione. Vado a chiamarla, cosa sarà mai un favore?"
Eliza si diresse subito verso la porta. Prima che potesse aprirla, però, la figlia ebbe un'idea.
"Posso pensarci io, mamma.”
Chiusi gli occhi, Kaleia fece lo stesso con una mano, e posandosi un pugno sul petto, attese. Fu questione di istanti, e quando finalmente tornò a vedere, un capogiro la colse di sorpresa.
"Tesoro, ne abbiamo parlato. Niente…" le fece notare Christopher.
Influenzato dal suo lavoro di protettore, aveva lasciato la frase appositamente in sospeso perché lei la completasse.
"Magia avanzata, Chris, lo so, ma era un'emergenza." Spiegò a Demi e Andrew ciò che aveva fatto e cosa sarebbe successo. "Su, andiamo. Sky, vieni?"
Si alzò con lentezza e si avvicinò alla porta, accompagnata dal marito.
"Certo, lasciatemi prendere Midnight. Non è più un uccellino, ma odia stare da solo per troppo tempo." Si presentò al gruppo con l'amico piumato appollaiato su una spalla, tornato da poco. "Sono pronta" dichiarò, con il viso privo di lacrime.
Eliza le strinse la mano e le fu accanto.
Dove andate? si affrettò a chiedere Mackenzie, confusa.
"A fare una passeggiata, amore. Tra poco arriverà un’amica di Kia" la tranquillizzò Demi.
"Si chiama Marisa, è magica anche lei" aggiunse la fata della natura.
Va bene, forse ho capito chi è rispose la piccola, per poi tornare a giocare e aiutare Hope con l'ennesima torre di cubi.
Interessato ai giochi della bimba, anche Agni provò a dare una mano, o meglio un artiglio sollevando le costruzioni una per una e, per finire il gioco, colpirle con la coda fino a farle cadere. Andrew istruì Mackenzie su cosa fare non appena Marisa fosse arrivata.
"Busserà tre volte, ti basterà aprire la porta senza paura."
“Io vorrei aspettarla. So che in questo mondo tutto è più sicuro, ma non me la sento di lasciarle sole, sono piccole” obiettò Demi.
Mackenzie si disse che la mamma non riusciva ancora a pensare di trovarsi in un mondo diverso anche da quel punto di vista. Il papà fu d’accordo anche se, per un momento, pareva essersene dimenticato.
Quando la ragazza bussò, Mackenzie la fece entrare.
 
 
 
Sky, Chris e Kaleia, Andrew e Demi seguivano Eliza. In breve, i ciottoli della strada del villaggio di Eltaria si sostituirono prima al selciato e poi all'erba, ma nel silenzio, l'unico suono fu quello dei passi di ognuno. Era come se nessuno volesse osare nell'invadere troppo lo spazio dell'altro e fu così per minuti interi finché Christopher non ebbe l'idea perfetta per rompere il silenzio.
"A me e Kia manca poco prima di diventare genitori. Non che accada subito, lei è incinta di tre mesi, ma anche se tra un bel po’, dovremo cominciare a fare compere e resteremo sul neutro, non conoscendo ancora il sesso del piccolo."
"Dev'essere una di quelle esperienze che ti cambiano la vita, che trasformano te stessa in ogni senso. Kia, come ti senti?" domandò Demi, che dopo tanto aveva trovato il coraggio di parlare.
In quel momento li raggiunse Noah. Dopo i saluti, si avvicinò alla fidanzata, le circondò i fianchi con un braccio e la baciò su una guancia.
“Grazie per la lettera, amore. Anch’io ti amo” bisbigliò, facendola sorridere.
Se le scambiavano da tempo, anche se si vedevano spesso. Fra loro era tutto cominciato un po’ per scherzo, così come quello scambio di lettere, per vedere dove la cosa li avrebbe portati. Un messaggio aveva tirato l’altro come le ciliegie, e la ragazza ricordava ancora che una sera si era addormentata sulla scrivania con una matita in mano. Scriversi li faceva sentire più vicini e rendeva la loro relazione ancora più profonda. Kaleia l’aveva presa in giro, quella volta, sorprendendola con la testa sul tavolo.
“Scusa, stavo…” aveva iniziato la ragazza, strofinandosi gli occhi e tirandosi su in fretta.
“Scrivendo lettere d’amore al tuo ragazzo?”
Kia aveva ridacchiato e le si era rivolta in tono canzonatorio, ma Sky non si era offesa e aveva detto la verità, tanto non aveva mai avuto niente da nascondere con la sorella.
"Sto bene, ti ringrazio.” Kaleia riportò Demi e Sky alla realtà. “Ci sono giorni in cui il piccolo mi fa impazzire, ma lo amo già da ora e spero lo sappia. Le nausee sono cominciate all’inizio del secondo mese, il mio umore non è ancora stabile e a volte suoni come il canto degli uccelli, o odori troppo forti o anche buoni, per esempio quello dei fiori, mi danno fastidio, ma è tutto nella norma.”
“La nausea compare tra la quinta e l’ottava settimana di gravidanza e di solito se ne va entro la fine del quarto mese, solo poche donne continuano a sperimentarla in stadi più avanzati della gestazione, ma spero che non sarà il tuo caso” disse Demetria. "Sono certa che il bambino sente che lo ami con tutta te stessa. E ripeto, sono felice per te! Anche se, a essere onesti, io non lo sono stata per diverso tempo" concluse, in tono greve.
A quelle parole le fate, Noah, Eliza e il protettore sbiancarono e, confuso, il fidanzato di Sky non poté evitare di intromettersi.
“Non voglio mancarti di rispetto domandandotelo, ma che intendi? Puoi anche non rispondere, se non te la senti.”
Era quasi passata una settimana ma, nonostante ciò, la ragazza si fidava di quel gruppo pur non considerando nessuno un vero e proprio amico intimo e. Dopo essersi scambiata con Andrew uno sguardo d'intesa e averlo visto annuire, si preparò a raccontar loro tutta la verità. In quel momento il cuore della cantante era diviso in due metà, una sicura di volersi aprire, l'altra in completo disaccordo con la prima. Ignorando la seconda, prese un ampio respiro.
"È complicato da spiegare. Soffro di un disturbo da anni, ma non preoccuparti, non è grave perché ho superato la fase più critica tempo fa e ora si ripresenta solo ogni tanto. Ho anche altre difficoltà, che a volte mi ricordano che in passato è stata dura. Andrew e la mia famiglia fanno quello che possono per aiutarmi e, se non fosse stato per lui, i miei genitori, gli amici che mi sono fatta nel tempo e la mia musica, non so come ne sarei uscita."
Avrebbe voluto indorare la pillola per evitare di spaventarli, ma qualcosa, un sesto senso o una voce nella sua testa, diversa da quelle che sentiva ogni tanto, le diceva che farlo non avrebbe avuto alcun senso. Se fosse arrivata a smussare i dettagli, allora sarebbe rimasta chiusa in se stessa e lo sfogo a cui stava dando vita si sarebbe ridotto a un discorso privo di una vera fine.
"E dimmi, ha un nome questo disturbo?"
Stavolta fu Kaleia a parlare, mentre per istinto si portava una mano al ventre, come a voler proteggere la sua creatura.
Troppo presto per affrontare il discorso sui miei disturbi alimentari pensò Demi. Meglio che mi concentri su un’altra delle mie difficoltà.
La ragazza impallidì e prese a respirare con affanno, camminando spedita. Il suo cuore batteva troppo forte e, prima che la assalisse un’angoscia più violenta di quella che già stava provando, o che iniziasse un attacco d’ansia o di panico, Demi si inginocchiò di fronte a un fiumiciattolo e bevve alcune generose sorsate.
“Che cos’hai?” le domandò Eliza, correndole accanto.
“Sono solo agitata per quello che vi dirò, ma voglio continuare” precisò, rialzandosi e sentendosi un po’ più tranquilla. "Si chiama ansia, Kia. Ora la provo molto meno, ma stava iniziando proprio in questo momento.”
"Vuoi dire che ti capita di pensare cose che in realtà non esistono, o di preoccuparti troppo e allora muori di paura?" azzardò Christopher.
"Sì. Non immaginavo che l’ansia esistesse anche nel vostro mondo."
"Sembra strano, eppure è così. Appena Kia è rimasta incinta abbiamo avuto non pochi problemi, compresi dei dannati spiriti della foresta che continuavano a intimarle di lasciarmi e fuggire da me, convincerla che il nostro rapporto era, come dire…" fu veloce a rispondere Christopher, inciampando proprio sull'ultima parola che, per quanto cercasse, non riusciva a trovare.
"Malsano?" rispose Demi.
"Tossico?" suggerì Andrew.
"Esatto, entrambi. Il rapporto di complicità che si crea fra fata e protettore è quanto di più magico possa esistere, almeno finché secondo la legge magica quest'ultimo non sfocia in amore" rispose l'uomo, con la voce spezzata dal dolore legato a quei ricordi.
Andrew e Demi si guardarono per un solo attimo.
“Ma non è giusto!” proruppe la ragazza.
“È terribile che coppie come la vostra, sempre che ce ne siano altre, non possano vivere il loro amore in pace.”
Dopo aver parlato Demi pensò a tutti gli innamorati che, nei secoli passati, non potevano aver vissuto la loro storia in pace a causa delle religioni differenti o delle loro diverse classi sociali.
Si sedettero a terra e rimasero in silenzio, chi con le mani sulle ginocchia come Kaleia o Sky, chi attorno alla testa, come Demi, per cercare di attenuare una leggera emicrania. Forse raccontare il suo passato tutto in una volta non era una grande idea, si disse la cantante, ma che altro poteva fare? Lei e il suo ragazzo non sapevano quanto ancora sarebbero rimasti lì. Chissà, magari il giorno seguente si sarebbero ritrovati a casa, senza aver avuto la possibilità di salutare tutti loro. Prima non era stato il momento buono, dato che erano arrivati da poco e non si erano mai sentiti pronti non conoscendo bene chi li ospitava. Demi non aveva idea di cos’avrebbe deciso di fare Andrew, ma per quanto la riguardava, voleva parlare. In condizioni normali non si sarebbe aperta così tanto con persone semi-sconosciute, aspettando al contrario diversi mesi. Ma a Eltaria era tutto diverso e, non essendo sicura del tempo che le restava, lei, sentivano che nonostante potesse fidarsi molto di quella gente – altra cosa bizzarra, perché era passata solo una settimana –, o l’avrebbe fatto ora, o mai più.
Tutti ripresero il cammino e Kaleia, parlò.
"Quando ci siamo innamorati continuavo a svenire e nessuno riusciva a capire perché. Solo tempo dopo io, Chris e Sky abbiamo compreso che tutto si basava sul mio essere parzialmente umana, per cui ogni interazione con Chris causava una sorta di malfunzionamento nei miei poteri. Il ciondolo che porto sembra un gioiello, ma in realtà è una sorta di amuleto, l'unico capace di stabilizzare i miei poteri e i miei limiti di fata" terminò, tranquilla all’idea di essersi liberata di quello che aveva sempre considerato un segreto. “Per fortuna, dopo giorni lunghi e orribili, adesso gli spiriti non mi tormentano più, ma è stata dura.”
“Io ho sofferto d’ansia quand’ero più giovane” riprese Demetria. “Nel tempo sono stata aiutata, da alcune medicine e persone, per trovare tecniche in grado di dominarla ed essere più forte di lei anche se è stato difficile, con alti e bassi. Ma una persona ansiosa lo resta sempre e, quando succede qualcosa di stressante o brutto, mi agito tantissimo, forse più di quanto farebbe qualcuno che non è mai stato sopraffatto del tutto dall’ansia. Quando capitava, mi sentivo sempre annegare, soffocare in un metaforico mare in tempesta senza nessuna mano a cui aggrapparmi, alcun appiglio da stringere per salvarmi.”
“Dolce Dea! Dev’essere stato terribile.”
“Sì, Sky, parecchio.”
"Capisco quello che vuoi dire, Kaleia” riprese Andrew. “Tu parli di limiti, ma nel mio caso, la situazione è simile. Come Demi, anch'io cerco modi diversi di dominare la mia ansia e anche la depressione."
Dopo un silenzio interminabile, anche l’uomo aveva ripreso la parola, dando sfogo al minore dei suoi mali.
"Depressione?" gli fece eco Sky.
Conosceva la tristezza, il dolore, la rabbia e il resto delle emozioni, ma non aveva mai sentito quella parola.
Demi annuì, respirò a fondo e si concesse del tempo prima di parlarne a sua volta.
"Sì, Sky. Tu eri con noi, stamattina. La scatola che hai visto sul tavolo conteneva delle pillole per risollevargli l’umore perché, quando hai la depressione, non ce la fai da solo. Andrew ne prende un’altra per l’ansia. Anch’io ho preso una medicina per gestire quest’ultimo problema, in passato, ma i dosaggi, cioè la quantità, sono diversi."
Parlarne le dava una mano a liberarsi ed era sicura che avrebbe aiutato chiunque, ma quei ricordi facevano ancora male. L’ansia aveva controllato la sua vita per anni e odiava veder soffrire il proprio ragazzo. In preda al dolore, i due si chiusero nel silenzio, ed Eliza non mancò di avvicinarsi per confortarli. Anche lei era umana, ma aveva sempre vissuto in quei luoghi, stabilendosi a Primedia e solo successivamente a Eltaria per cui, pur non capendo fino in fondo, cercò di star loro vicino.
"Scusate, sono indelicata se chiedo come si manifestano? Posso immaginarlo, ma credo anche che vari a seconda della persona, sbaglio?" tentò la donna, sperando di non esagerare o scatenare in loro ricordi troppo dolorosi.
Ci fu una pausa, poi Andrew scelse di essere onesto.
"No, e non sbagli. Problemi di questo genere si manifestano in modi diversi, per esempio io divento ansioso per i motivi più disparati, dal lavoro che mi stressa ai ricordi di tante cose alle quali, a volte, non riesco a smettere di pensare. Sono ferite aperte.”
“Quando hai l’ansia cosa succede?” chiese Noah.
“Durante gli attacchi d’ansia, che possono durare ore, giorni o più e quelli di panico che invece sono più forti e brevi, al massimo dieci minuti, inizio a sudare, mi gira la testa, mi manca il fiato, respiro a fatica e in fretta, tremo con violenza e, per quanto riguarda il panico, mi dico che sto per morire e ho paura di passare a miglior vita, anche se non è vero. La mia testa fa questo tipo di ragionamenti, la situazione non è così grave e bastano alcune tecniche di respirazione, la voce di qualcuno che ti calma e, nel mio caso, pastiglie per sentirmi meglio.”
“E quella che abbiamo visto a colazione ti aiuta?”
“Sì, Sky. Si tratta di uno stabilizzatore dell’umore, con effetti simili a un antidepressivo. Si dà quando la depressione è grave o, come nel mio caso, altri farmaci non hanno fatto effetto.”
Nessuno fiatò per qualche minuto, nemmeno Demi che desiderava lasciare agli altri spazio e tempo per metabolizzare tutto ciò che il fidanzato aveva detto loro.
Kaleia stava riflettendo sul fatto che aveva provato ansia, ma mai, mai in maniera così devastante. Andrew doveva vivere ogni volta un vero inferno.
“Io soffrivo d’ansia a causa di tutta la pressione” riprese la ragazza. “Come sapete sono una cantante. Ho anche recitato, il che mi piace, ma è difficile. Tutti si aspettano il meglio da me o, almeno, era così una volta, ora chi lavora con me mi capisce di più e rispetta i miei tempi perché sa cos’ho passato.”
“Meno male!” commentò Noah. “In questo modo ti sentirai più tranquilla.”
“Sì, è così. Ma allora ero convinta di dover essere sempre perfetta, apparire in un certo modo, benché nessuno me l’avesse mai detto esplicitamente.”
“Ma allora perché provavi tutto questo?” domandò Kaleia.
“In parte perché tra album, tour, cioè concerti in giro per il mondo, film e così via, ci sono stati periodi nei quali era tutto un continuo e io avevo circa quindici anni quando ho iniziato a recitare nel primo film, anche se l’avevo fatto da più piccola in un cartone animato. Credo sarebbe dura per chiunque. Non ho mai sofferto di depressione, anche se ho avuto dei momenti terribili, perciò di questo vi parlerà Andrew.”
“Quando sei depresso è come se ti trovassi in una stanza piena di luce e colori e a un certo punto rimanessi solo, al buio e al freddo senza nessuno che ti possa tirar fuori di lì, con una profonda tristezza come unica compagnia, che si ripresenta di frequente.” Andrew sapeva che non si trattava solo di quello, ma era il modo più semplice per spiegarlo. “L’ansia e la depressione sono argomenti un po’ tabù nella nostra società, nel senso che se ne parla poco perché le persone non si documentano, non le conoscono e, spesso, non vogliono nemmeno farlo, perciò ne hanno paura e si allontanano da chi sta male. Non sempre è così, per fortuna, però capita. Ringraziando Dio, da quando Demi ha saputo che stavo male mi è sempre rimasta vicina.”
“La depressione non è una scelta,” proseguì la ragazza, “una persona non può decidere se esserlo o no, si tratta invece di una malattia. Influenza il modo di vivere e di pensare di una persona. Non è solo tristezza o qualcosa che presto passerà.”
“E stamattina cosa provavi, Andrew?” fu svelta a chiedere Sky.
“L’umore non era dei migliori ed ero stanco. La depressione mi fa stare così e mi abbatte. I farmaci aiutano, ma sono io, con la mia forza, a dover fare il lavoro maggiore e non è facile. Combatto contro i miei problemi da otto mesi."
L’argomento di cui stavano parlando era doloroso per Andrew e Demi. In quei giorni tutti, non solo i quattro umani arrivati da Los Angeles, stavano imparando quanto i loro due mondi fossero diversi sotto molti aspetti. Ora conoscevano nuovi modi di vivere, di affrontare certe situazioni, problemi ai quali non avrebbero mai pensato…
"E quanto tempo ci vuole per guarire?" domandò Sky.
"Mesi, anni, dipende da quanto accade nella vita di una persona e da come lei reagisce. Ci sono poi vari tipi di depressione e di ansia e non da tutti si guarisce. Per quanto riguarda la prima, nel mio caso si tratta di depressione reattiva, cioè dovuta a una reazione a una perdita: un lutto per esempio, o un licenziamento, ma non solo."
"E, se non sono indiscreto, posso chiedere di cosa si tratta nel tuo caso?"
Andrew fu colto da un singulto, ma poi trasse un respiro profondo a bocca aperta e sussurrò:
"Un lutto, Christopher. Mia sorella è morta."
Tutti smisero di camminare di botto. Un profondo silenzio cadde tra loro e Demi prese la mano del fidanzato per stringergliela forte. Lui non ricambiò subito, rischiando di annegare nel vuoto che quella perdita gli aveva lasciato.
“Dalla forma di depressione di cui soffro si può guarire.”
Andrew e Demi si scambiarono uno sguardo d’intesa. Era difficile far capire cosa fossero l’ansia, gli attacchi di panico e la depressione a parole, a persone che non li avevano mai sperimentati. Viverli era tutta un’altra storia, ma speravano di essere riusciti a far comprendere agli altri, almeno in parte, i loro problemi.
Il cammino del gruppo proseguì senza incidenti, almeno finché una folata di vento non disturbò la loro quiete.
"Che è stato?" domandò Andrew, confuso.
"Scusate, è colpa mia, avevo bisogno di sfogarmi" ammise Sky.
"Sfogarti, eh?" riprese Demi, sorridendo amaramente. "Sono anni che non mi capita, ma io avevo un modo orribile di farlo.”
"E quale… quale sarebbe?" tentò Sky, intrecciando le mani.
Demi non aggiunse altro. Arrestò il suo cammino e, prendendo un respiro per calmarsi e star meglio, si disse che forse era pronta. Senza esitare ancora, sollevò le maniche della maglia e fece cenno a tutti di avvicinarsi.
“Toccate le mie braccia.” Ciò che stava sotto era coperto da una scritta su ogni polso. “Non abbiate paura.”
“Sei sicura?” le chiese Eliza, e gli altri le rivolsero sguardi perplessi. Di certo si stavano domandando se fosse o meno il caso, dato che non la conoscevano bene. Lei annuì con vigore, respirò a fondo e inghiottì la bile che le stava riempiendo la bocca. Solo Eddie, sua madre, Dallas, Madison e Andrew le avevano toccato quei segni. Erano una parte molto importante di lei stessa, che la ragazza aveva sempre ritenuto dolorosa e privata. Lasciare che alcune persone che conosceva poco ci entrassero in contatto era una grande dimostrazione di fiducia. Inoltre, dire di averle e farle sentire erano due cose diverse e le sembrava giusto che chi aveva ascoltato con tanta attenzione la sua storia andasse fino in fondo.
Tutti la sfiorarono con dita delicate, come temendo di spezzarla. Quella parte del suo corpo era costellata di cicatrici. Le due coppie ed Eliza trattennero il fiato e rimasero immobili. Percependo gli sguardi di tutti puntati sui suoi tagli chiusi, Demetria li sentì bruciare come fuoco vivo, al pari di quando in passato si era tagliata con un coltello, una forbice o un temperino, o come nei momenti nei quali si era squarciata la pelle nel punto in cui era già presente un’altra cicatrice. Strinse i denti per non scoppiare a piangere o urlare a causa del tremendo dolore di quei ricordi, come mille schegge di ghiaccio che qualcuno le sparava dritto al cuore mozzandole il respiro.
"D-Demi, quelle sono…" balbettò Eliza, non riuscendo a crederci.
"Cicatrici" rispose la ragazza con un filo di voce e si abbandonò a un cupo sospiro.
Seguì un silenzio di tomba, così profondo che perfino Andrew provò pena per lei e le posò una mano sulla spalla.
“Allora è per questo che porti sempre le maniche lunghe” disse con un singulto, mentre leggeva le scritte Stay Strong, una su un polso e la seconda sull’altro.
Demi le spiegò che volevano dire Sii forte e annuì.
“Mi sono fatta questi tatuaggi per nascondere le cicatrici, ma anche per ricordarmi che non devo mai mollare.”
Kaleia le domandò come se le fosse procurate. Non c’era timore nel suo tono, cosa che rassicurò la ragazza. Sui volti degli altri non notò nessuno sguardo storto. Il metaforico dolore alle cicatrici sparì e le schegge se ne andarono lasciandole libero il cuore, mentre Demi tornava a respirare piano.
“Ve ne parlerò un’altra volta, se non vi dispiace. Sappiate, per il momento, che la mia non è mai stata una famiglia normale, diciamo così.”
Sky le chiese gentilmente di spiegarsi e Demi ricordò un episodio che la aiutò a raccontare. Ne aveva parlato con la madre e la sorella, anni dopo, quindi fu in grado di descrivere anche quello che, da piccola, non aveva visto o sentito e le sensazioni di Dianna e Dallas.
 
 
Era sera tardi, Patrick non era ancora tornato e Dianna, dopo aver dato da mangiare alle figlie e messo qualcosa nel suo stomaco, le mandò a letto presto.
“Mi fai schifo!” urlò a quest’ultimo e, anche se Demi e Dallas nelle loro camere non capirono a cosa si stesse riferendo, sapevano che capitava che vomitasse dopo aver mangiato e che non si nutriva mai tanto.
Non ne comprendevano la ragione, però, del resto avevano solo quasi tre e sette anni e mezzo.
Patrick aprì la porta e la sbatté con violenza inaudita. Demi e Dallas sentirono perfino tremare i vetri delle finestre e, per istinto, uscirono di soppiatto dalle loro stanze ritrovandosi in cima alle scale per guardare cosa stesse succedendo. Demetria cercò la mano della sorellina e gliela strinse. Stava per dire qualcosa, ma l'altra le mise un dito sulle labbra.
“Silenzio” sussurrò.
La luce delle scale era rimasta accesa, forse la mamma si era dimenticata di spegnerla dopo aver dato loro la buonanotte, così poterono vedere tutto ma, nascoste in parte dietro il muro, nessuno le notò.
"Dianna, ceni con me?" le chiese l'uomo, barcollando.
Le bambine sentirono la puzza di alcol fino a lì e in più il padre parlava in modo strascicato.
"Ho già mangiato, tesoro, è tardi" gli rispose lei, cercando di mantenere la calma.
"Che vuol dire che hai già mangiato? Tu devi aspettare me, hai capito, razza di stupida incapace?" Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo.
La donna non fece in tempo a spostarsi che una delle sue mani la colpì con violenza su una coscia. Urlò, ma lui le diede uno schiaffo sulla bocca, premendo forte per impedirle di farsi sentire. Dianna ricevette un terzo colpo sullo sterno che la fece rimanere senza fiato. Ognuna di quelle botte rimbombava appena per le stanze, un rumore secco che si aggiungeva al successivo. Se non si fosse appoggiata a una parete, la donna sarebbe caduta a terra.
Per quel che Dallas e Demi ne sapevano non la picchiava spesso, però la maggiore era a conoscenza del fatto che, due mesi prima di scoprire di aspettare la sua sorellina, la mamma aveva subito uno scatto di rabbia terribile da parte del papà che le aveva schiacciato una mano dentro una porta, staccandole l'anulare e il mignolo. Mamma le aveva detto che i dottori non avevano sistemato del tutto il suo dito più piccolo – le mancava l'ultima falange – perché aveva avuto un incidente, ma poi aveva capito che la situazione era ben diversa. Per fortuna lei non era stata con loro quella sera orribile, non riusciva a immaginare tutto il sangue… Le vennero i brividi e abbracciò
Demi che, cercando conforto e calore, si avvinghiò a lei. Alla polizia i due coniugi avevano detto che era stato un incidente.
Valutando la situazione ora che era adulta e potendo ricordare anche quei dettagli dei quali, a tre anni, non era ancora a conoscenza, Demi si diceva che forse allora i poliziotti non avevano indagato oltre a causa del fatto che non possedevano la tecnologia odierna. Non sapeva con esattezza se fossero venuti a casa o no, non aveva mai avuto il coraggio di chiederlo alla mamma per paura di procurarle troppo dolore.
Dopo quello schiaffo, Patrick lanciò a terra un bicchiere, urlò, insultò ancora la moglie e la ridicolizzò facendole credere di essere una nullità, mentre le figlie tremavano come foglie e battevano i denti sentendo le gambe cedere per la debolezza. Avrebbero voluto muoversi, fare qualcosa, ma il terrore le paralizzava e anche respirare era difficile. Dopodiché, l’uomo mangiò un boccone e andò a letto reggendosi a stento in piedi, mentre Dallas e Demi si erano già nascoste nelle proprie stanze. Non aveva mai fatto loro del male, ma la paura era sempre tanta. Non dormirono tutta la notte e non fecero altro che piangere rimanendo immobili, temendo che il minimo rumore o un loro respiro troppo forte potessero svegliarlo o adirarlo.
Quelle violenze, fisiche ma soprattutto psicologiche, andavano avanti da anni e durarono ancora per un po', finché Dianna, dopo varie volte nelle quali aveva provato ad andarsene, litigò furiosamente con il marito e lo cacciò di casa.
 
 
Dopo aver detto tutto questo, Demi si sentì più leggera. Si portò una mano alla gola e la massaggiò, come per diminuire la sofferenza causata da due mani che avevano cercato di strangolarla. Strinse gli occhi, che bruciavano a causa di un pianto imminente. Erano memorie che, nonostante la psicoterapia durata anni, non avrebbe mai potuto raccontare con facilità o senza dolore. Allora non lo sapeva, ma lei e Dallas avevano subito un trauma vedendo la mamma trattata in quel modo.
"È passato il tempo, io ero piccola e non ricordo tanto bene, ma a un certo punto ha incontrato Eddie, un uomo fantastico e si sono messi insieme. Lui ci ha amate come delle figlie fin da quando ci ha conosciute e io lo considero un papà a tutti gli effetti. Sono sposati da tanti anni e hanno avuto Madison, la mia ultima sorella."
"Hai fratelli?" le chiese Eliza e lei negò in silenzio.
“Mamma è rimasta assieme a mio padre per anni pensando di poterlo cambiare, nonostante le violenze che subiva, gli insulti, i momenti nei quali la ridicolizzava, tutto. Ma questo è l’atteggiamento tipico di una donna vittima di violenza che crede che il marito o il compagno possa migliorare, che si dà mille colpe quando lei non ne ha nessuna. Per fortuna poi ha capito.”
Noah non sarà mai così pensò Sky.
Era orribile credere che certe persone cambiassero, per chissà quale motivo, e si trasformassero in gente che, come aveva fatto Patrick, lanciava oggetti – anche contro lei e Dallas, come Demi raccontò –, urlava, beveva alcol e prendeva droghe.
“Che persona schifosa” mormorò Kaleia fra i denti, stando attenta che Demi non udisse, in fondo era pur sempre suo padre.
Ma secondo la fata dire così era poco, mentre Christopher annuiva senza riuscire a parlare.
Non solo Demi e Dallas avevano sofferto, ma anche la loro mamma che aveva dovuto lottare per se stessa e per loro, vittima di un uomo che, se la amava anche quando era violento, lo faceva nel modo sbagliato. Non era vero amore, ma violenza.
Demi non aggiunse che, negli anni, la mamma aveva capito che probabilmente Patrick soffriva di schizofrenia e disturbo bipolare e che si era sentita in colpa: se l’avesse saputo quando stavano ancora insieme l’avrebbe fatto curare, ma allora di quelle cose non si parlava. La ragazza avrebbe voluto esternare anche quello, ma sarebbero stati argomenti troppo complicati.
“È morto il 22 giugno 2013 di attacco cardiaco” continuò. “Ci ho sofferto nonostante i nostri trascorsi, non è stato facile né per me né per mia sorella maggiore. Adesso nemmeno io me la sento di proseguire, scusate. Ci sarebbe ancora tanto da dire, ma ne parlerò con calma.”
Tutti la rassicurarono.
“Continuerei anch’io il mio racconto, ma possiamo discuterne un’altra volta, se e quando me la sentirò? Adesso non ce la faccio, perdonatemi” ammise Andrew con un singulto.
“Non vi forzeremmo mai a dire qualcosa se non ve la sentite” precisò Sky.
“In ogni caso, ho scritto una canzone per mio padre qualche anno fa, una delle due, in realtà. Vi piacerebbe sentirla?”
Assicurò che per lei non era un problema cantarla e tutti accettarono, sempre felici di udire la sua voce angelica.
Demi trasse un respiro profondo e fu scossa da un lieve tremore. Un nodo le strinse la gola in una morsa dolorosa, segno di un pianto imminente, ma si impose di non versare alcuna lacrima, non prima di aver finito. Contò fino a tre e cominciò.
Father, I'm gonna say thank you
Even if I'm still hurt
Oh, I'm gonna say bless you
I wanna mean those words
Always wished you the best
I, I prayed for your peace
Even if you started this
This whole war in me
 
You did your best or did you?
Sometimes I think I hate you
I'm sorry, dad, for feelin' this
I can't believe I'm sayin' it
I know you were a troubled man
I know you never got the chance
To be yourself, to be your best
I hope that Heaven's given you
A second chance
 
Father, I'm gonna say thank you
Even if I don't understand
Oh, you left us alone
I guess that made me who I am
[…]
Percependo da quelle parole forti il dolore della ragazza e la fatica che doveva aver fatto anche solo per pensarle, Eliza la abbracciò e le loro lacrime e i respiri si mescolarono. Demi era una ragazza che aveva sofferto a causa di un padre dal comportamento mutevole e violento nei confronti della madre, Eliza una mamma che voleva proteggere quella che, ormai considerava una figlia o qualcosa del genere, nonostante il poco tempo trascorso insieme. Era inutile: la cantante si emozionava ogni volta mentre la cantava, che fosse ai concerti o da sola, e mentre il suo viso scottava a causa di ciò, le lacrime non ne volevano sapere di smettere. Fece una smorfia, non capendo che cosa stesse provando. Curvò le labbra all’ingiù, ma non era solo circondata da un’aura di tristezza. Senza accorgersene, aveva chiuso le mani a pugno. Non sarebbe mai arrivata a spaccare oggetti come aveva fatto suo padre, ma Dio, se lo odiava per quello che le aveva costrette a passare! Allo stesso tempo, però, gli voleva bene.
“Dannazione!” gridò, battendo le mani e con il volto sudato.
“Respira, Demetria, dentro e fuori, profondamente” mormorò Eliza al suo orecchio, mostrandole poi come.
Nel giro di poco la ragazza riuscì a regolarizzare la respirazione e guardò gli altri, tutti con gli occhi velati di lacrime, compreso Andrew che aveva udito quella canzone centinaia di volte. Tradusse per loro e Sky scoppiò a piangere, mentre ognuno si complimentava con Demetria.
“Apprezzo anche questa” mormorò Kaleia. “La più potente che io abbia sentito.”
“Ha p-parole intense” aggiunse Sky tra i singhiozzi, poi si scusò per non aver parlato moltissimo durante quella passeggiata. “Il vostro racconto è stato intenso e ho sempre parlato poco, con tutti intendo, ma ciò non significa che ora non abbia prestato attenzione.”
“Non preoccuparti, davvero” la rassicurò Andrew.
“Quando io e Kia eravamo nel bosco da sole, ricordavamo solo una luce bianca, nulla di più. Non sappiamo com’erano fisicamente i nostri genitori, né rammentiamo le loro voci, niente. Il che lascia in noi un senso di incompletezza, come se ci mancasse qualcosa di fondamentale, anche se Eliza è per noi nostra madre.”
Kaleia annuì.
Lei e la sorella erano senza ricordi, né sapevano bene cosa provare per coloro che le avevano messe al mondo, disse. Loro si erano allontanate e i genitori non le avevano più trovate nonostante le ricerche? O, peggio, le avevano portate lì per poi abbandonarle? E in quel caso, perché?
“Se penso a questo,” disse Sky con voce roca, “vorrei prendermela con la prima cosa che mi capitava a tiro, ma so che non servirebbe.”
“Spesso mi chiedo se siano morti e noi finite lì in qualche modo, e se ci hanno amate” concluse Kaleia, mentre alcuni singhiozzi la scuotevano.
Sky raccontò la loro permanenza nel bosco, il senso di abbandono che non le aveva lasciate mai, il fatto che si erano rifugiate in una grotta nel fitto della foresta e che per giorni e giorni avevano considerato quella la loro casa mangiando funghi e frutti.
“Mi lamentavo spesso, in quel periodo” ammise Kaleia. “Sky non sempre mi sopportava.”
“No, ma capivo che lo facevi per attirare l’attenzione, per ricevere l’affetto che ti mancava e di cui anch’io avrei avuto un estremo bisogno, quello di due genitori, che non avrei mai potuto darti. Ma ci ritrovavamo sole, per cui lo cercavi in me e tu, a tua volta, mi volevi bene. Dovevamo farcelo bastare.”
“È vero” mormorò la minore.
“Un ragionamento maturo per la tua età” osservò Demi.
“A volte la vita ti costringe a crescere troppo in fretta” rispose l’altra fata, la voce che le tremava. “Non vorresti, ma non puoi fare altro.”
Non capiva cosa le stesse succedendo. Stava confessando cose che, fino ad allora, aveva sempre tenuto per sé, parlandone un po’ con la sorella e con la mamma, ma per il resto vivendo da sola il proprio dolore. Quegli umani le stavano facendo uno strano effetto.
Andrew e la fidanzata faticavano a immaginare come doveva essere stata la permanenza di Mackenzie e Hope in casa-famiglia, dopo tutto quanto era accaduto, ma almeno dei volontari si erano presi cura di loro e avevano voluto bene a entrambe. Le due bambine avevano vissuto in una casa, con un tetto sopra la testa, cibo e vestiti. Le fate, invece, erano state costrette dalle circostanze a trascorrere giorni nel bosco, senza nessuno, mangiando probabilmente poco e portando gli stessi abiti. Avevano dormito in una grotta, erano rimaste sole anche la notte, il momento più pericoloso per restare in un bosco e patito freddo e pioggia. Non riuscivano a figurarsi una situazione del genere. Pareva loro troppo disperata e difficile per due bambine. Erano state molto fortunate a riuscire a sopravvivere.
“Quando Eliza ci ha adottate, Kaleia si è fidata subito, io no. Ho passato giorni interi rinchiusa in un silenzio quasi assoluto e volevo stare da sola, o comunque il più possibile lontano da lei.”
“Ma alla fine l’hai fatto” osservò Andrew.
“Ci è voluto qualche tempo ma sì. Anche se il dolore per quello che abbiamo passato non se ne andrà mai.”
Proprio a causa del fatto che non apriva spesso bocca molti incollavano addosso a Sky la pesante e fastidiosa etichetta di timida ragazzina superficiale, ma lei se la scrollava di dosso. Gli abitanti della foresta a lei estranei potevano dire quello che volevano, ma la fata era l'unica a conoscere la verità. I suoi trascorsi, quella dannata luce bianca, l'essere stata costretta a crescere prima del tempo per prendersi cura della sorellina di sei anni sotto la pioggia al bosco di Primedia prima del provvidenziale arrivo di Eliza, tutto. Era così che si scrollava di dosso qualsiasi giudizio negativo o non voluto, scostandosi i capelli color argento dal viso e andando avanti a testa alta, anche da sola.
Demi abbracciò entrambe ed Eliza fece lo stesso.
Prima di rientrare, tutti si fermarono al centro del villaggio. Ascoltarono il canto degli uccelli e il vento tra le foglie, per rilassarsi e riprendersi.
 
 
 
CREDITS:
Demi Lovato, Father
 
 
 
NOTE:
1. la parte in cui Mackenzie ricorda il dialogo con la mamma non è ripresa da Cuore di mamma, l’ho aggiunta io per questa storia.
2. ho descritto la depressione nel modo in cui la vivo io. È la stessa di cui soffre Andrew, scatenata dalla medesima motivazione.
3. La questione della gelosia e degli occhi verdi è un riferimento a Shakespeare, che in Otello la descrive così:
“Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre (…) non ama la donna che lo tradisce: ma oh, come conta i minuti della sua dannazione chi ama e sospetta.”
Molto dopo, si è diffusa la credenza che le persone con una caratteristica del genere fossero più inclini a tale sentimento. Ringrazio Emmastory per il la spiegazione.
4. Demi ha davvero sofferto d’ansia, anoressia, bulimia, binge eating (menzionato più avanti) e autolesionismo. Ho cercato di descrivere il primo di questi problemi rifacendomi in parte alla mia esperienza anche riguardo gli attacchi di panico. Ho letto un articolo dell’Huffington Post in cui la cantante ne parlava, spiegando che ha cominciato a provarla quando lavorava per la Disney. Non so, però, se abbia preso farmaci per curarla, ho inventato. Per quanto riguarda gli altri problemi, oltre ad aver ascoltato interviste di Demi e Stay Strong, uno dei suoi documentari, mi sono documentata sia leggendo testimonianze di persone che ne hanno sofferto, sia il libro di Dianna De La Garza Falling With Wings: A Mother’s Story, sia cercando sintomi e cure su internet. Per l’anoressia mi sono stati utili www.mypersonaltrainer.iit, www.obesita.org e www.stateofmind.it, oltre ad altri in cui psicologi e psicoterapeuti ne parlavano.
5. Demi ha sul serio questi tatuaggi. Se li è fatti dopo essere uscita dalla clinica, come riporta il sito www.cosmopolitan.com.
6. Ho preso le informazioni sulla gravidanza, anche quelle che darò in futuro, da siti come www.periodofertile.it e www.gravidanzaonline.it, oltre che da mia mamma.
7. Il flashback è inventato, ma tutto ciò che ho raccontato riguardo l’infanzia di Demi, il modo in cui Patrick trattava Dianna e come sono andate le cose è tratto dal memoir della donna e dal secondo documentario di Demi, Simply Complicated.

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Capitolo 21
*** Una strega per amica ***


CAPITOLO 21.

 

UNA STREGA PER AMICA

 
Sul divano, le bambine ascoltavano con attenzione la favola di una ragazza povera che abitava con la matrigna e le sue figlie, tutte cattive con lei soprattutto dopo la morte del padre. La mamma era passata a miglior vita quando la protagonista aveva un anno. Più Marisa proseguiva nella lettura di quel libro dalle pagine ingiallite trovato su uno degli scaffali della libreria del salotto, di sicuro uno dei tanti che Eliza doveva aver letto a Sky e Kaleia da bambine, più Mackenzie si rendeva conto che, anche se la protagonista aveva un altro nome, la favola era uguale a quella di Cenerentola. Ad aiutare la fata non c’erano dei topolini bensì degli scoiattoli e anche dei cuccioli di Pyrados, mentre unicorni e non cavalli guidavano la carrozza che avrebbe portato Nevia al ballo. Seppur un po’ stranita, la bambina si godette ogni parola.
Ma è strano innamorarsi così obiettò alla fine del racconto, dopo il classico E tutti vissero felici e contenti.
“Che vuoi dire?”
Marisa le sorrise con calore.
La mamma e il papà ci hanno messo tanto per innamorarsi, lui non è stato da subito il suo fidanzato. Anche gli altri miei genitori hanno fatto così.
Alcune lacrime le scesero lungo le guance, mentre il nodo che le serrava la gola le strinse anche il petto. Le forze la abbandonarono e provò la sensazione di svenire, mentre la terra sotto i suoi piedi pareva cedere trascinandola con sé in un buco nero, ancora più buio della sua sofferenza.
“Piccolina, non devi parlarne se non te la senti” la rassicurò la strega, prendendole la mano.
Mackenzie la strinse e constatò che era liscia e morbida, come se ci avesse messo della crema.
Il calore di quella mano e la vicinanza della ragazza, di cui la bambina iniziava già a fidarsi perché, se era amica di Kia, di certo non avrebbe potuto fare del male a lei e Hope, la aiutarono a riprendersi un poco. Si fece portare dalla strega un bicchier d’acqua, bevve a piccoli sorsi e si sentì non bene, ma meglio.
Non ci si può innamorare in una sola sera, come invece fanno Nevia e il principe.
“Lo so, tesoro, ma questa è una favola e nelle storie si può scrivere ciò che si vuole. Servono a far volare con la fantasia i bambini e anche i grandi, quindi possiamo comunque credere che, anche se nella realtà non è così, in questa favola e nel regno lontano in cui vive Nevia lo sia eccome.”
Mackenzie sorrise.
D’accordo, allora ci credo.
Hope non aveva capito bene di cosa stessero parlando la sorella e la strega. Si immaginava Nevia con i capelli biondi, lunghi fino alla fine della schiena e lasciati sciolti, gli occhi azzurri come il cielo e che una fata, simile a Kia o a Sky, l'avesse aiutata trasformando una zucca in carrozza. Ah sì, Cenerentola, o Nevia, indossava anche delle scarpette.
"Giochiamo?" Tirò il lungo vestito blu a maniche corte che Marisa indossava. “Giochiamo?”
"Certo. Che cosa vuoi fare?"
Lei scosse il capo perché l'altra capisse che non ne aveva idea.
"D'accordo, vi mostro qualcosa io."
Infilò la mano all’interno del cesto dei giocattoli: alcune bambole, qualche peluche di Arylu, Pyrados e Slimius, un coniglietto, uno jackalope, uno scoiattolo e poco altro. Ne estrasse un orsacchiotto dal pelo folto e nero che diede in mano a Hope.
Ma come… Cosa… Mackenzie era scioccata, non capiva: com'era possibile? Questo non c'era nel cesto!
"È stato un gioco di prestigio, tesoro" le rispose la strega con gentilezza.
Un che?
"Un'illusione attraverso cui ho fatto apparire questo giocattolo, che in realtà non esiste e che ora sparirà, dato che non posso mantenere tutto ciò ancora a lungo."
Mac sbarrò gli occhi mentre, con un secondo gesto, Marisa faceva scomparire il peluche.
Sul serio? Non c'è da nessuna parte?
Non aveva mai visto niente di simile se non qualche rara volta in televisione, pensando che si trattasse di un imbroglio.
"Te lo assicuro."
Le mostrò le mani, si alzò e le fece vedere che nelle tasche del vestito non aveva niente. Dopo poco, però, dovette occuparsi di Hope. Marisa non aveva tenuto conto del fatto che la bambina era piccola, non capiva tutte quelle cose e averle dato in mano un peluche che poi era scomparso si era rivelata un’idea pessima. Hope infatti era scoppiata in un pianto inconsolabile, singhiozzava così forte da rimanere senza fiato e le poche parole che pronunciava formavano un miscuglio di vocali e consonanti senza senso.
"No, piccola! Vieni qui." La prese in braccio e la bimba le tirò i capelli. "Ahia, Hope, mi fai male!" si lamentò Marisa. Capiva che fosse arrabbiata, ma accidenti, lei stava soffrendo parecchio. "Amore, adesso ti mostro una cosa, va bene?"
La mise giù, liberando i suoi capelli martoriati da quella stretta, prese il peluche di uno jackalope e, grazie alla sua magia, questo si mosse. Camminò arrivando accanto alla bambina più piccola, poi a Mackenzie, dopodiché saltò sul divano e corse per la stanza mentre le bambine, contagiate dal continuo movimento del finto animaletto, lo seguivano per prenderlo. Marisa cercava di schivarle quando allungavano le mani, ma alla fine lasciò che prima fosse Hope ad afferrarlo e poi Mackenzie, in modo da rendere felici entrambe. Infine fece tornare a sé il coniglio e terminò l'incantesimo con l’animale che, da solo, si riposizionava nel cesto.
Wow, è stato fantastico, Marisa! Mackenzie alzò le mani. Anche Kaleia e Sky lo sanno fare?
"Sì, se lo chiedi loro ti accontenteranno."
"Bello, bello, bello!" non smetteva di ripetere Hope.
Ogni traccia di pianto era ormai scomparsa per lasciare posto al suo meraviglioso sorriso.
La strega ridacchiò al pensiero che, una volta usciti i genitori, Mac aveva commentato:
Ma come fai a essere una strega buona? Quelle delle favole sono cattive.
“Non tutte, tranquilla. Io sono buonissima.”
Ci mostri qualcos'altro?
Quella domanda la riportò alla realtà.
Marisa si ricordò di tenere una cosa nella borsa e che aveva portato apposta, in particolare per la più grande. Mentre la prendeva, Mackenzie le raccontava dei giorni di scuola, delle compagne e dei cuccioli che lei e Hope avevano ricevuto. Agni riposava sullo schienale della poltrona, con le alette chiuse e la testina sopra una zampa, Lilia sdraiata su un fianco, con la boccuccia aperta e la linguetta fuori.
Cos'è quella? chiese la bambina.
Marisa stringeva fra le mani una sfera avvolta da una fitta nebbia che impediva di vederla bene. In che modo avrebbero potuto giocarci e divertirsi?
"Questa, bambine, è una sfera di cristallo. Chiedetele quello che volete sul futuro e vi risponderà. Si chiama preveggenza."
Pro… Provenza tentò Mackenzie.
Le pareva di aver sentito quella parola, ma non era una regione della Francia? Che c'entrava con la sfera?
"No, Mackenzie, preveggenza" ripeté Marisa, più lentamente.
Preveggenza. Wow, ci sono riuscita! esultò l’altra, alzandosi in piedi e battendo le mani dopo averle passato il foglietto.
"Sì, bravissima."
Ho imparato una parola nuova! Non vedo l'ora di dirlo alla mamma.
Era un termine fichissimo. Era sicura che né Lizzie né Katie sapessero cosa significava e desiderava incontrarle di nuovo per spiegarlo a entrambe.
La strega provò a far capire a Hope, con un esempio semplice, come funzionava la sfera, ma la piccola non era abbastanza cresciuta per pensare al suo futuro. Dato che non avrebbe potuto partecipare a quel gioco, animò un altro peluche.
Mentre la bambina lo inseguiva, lo accarezzava e prendeva di nuovo a corrergli dietro, Mackenzie si concentrò.
Che devo fare?
Pochi istanti dopo, chiuse gli occhi come la ragazza le aveva detto. Prese in mano la sfera di cristallo che si trovava sul tavolo del salotto, davanti a lei.
"Ora pensa a una domanda da porle."
Mackenzie si passò l'altra mano sulla fronte come per trattenere lì i pensieri che, altrimenti, le sarebbero sfuggiti.
Passerò il prossimo compito in classe? chiese, tremando appena non tanto per la paura di prendere un brutto voto, che comunque aveva sempre, quanto perché non sapeva se fosse una domanda facile per la sfera.
"Puoi aprire gli occhi e vedere la risposta" le annunciò Marisa.
Su di essa c'era l'immagine della lettera B.
Una B? Fantastico! esclamò la bambina. Non è il massimo, ma nel mio mondo è un bel voto, sai?
"Bene, sono contentissima per te. Vuoi riprovare?"
Okay. Eseguì lo stesso procedimento. Cosa succederà nel prossimo episodio di Pixie Club?
Nonostante fosse uno spoiler non poté astenersi dal chiederlo, fu più forte di lei e aspettò la risposta battendo la punta di un piede a terra.
Apparve l'immagine di sette pixie che contavano con le mani fino a cento.
Quindi impareranno a contare fino a quel numero? Oh, io lo so già fare. Vuoi sentire, Marisa?
"Certo, Mackenzie."
Dopo averlo fatto e ricevuto complimenti, domandò:
Mi insegni altro?
"Curiosa, eh?" “Considerava la curiosità una grande qualità. Avere voglia di imparare, di scoprire cose nuove, porta chiunque ad arricchirsi sempre di più.”
Sperò di non aver usato termini troppo difficili, ma Mackenzie disse di essere d’accordo.
Marisa le prese la mano e, dopo che entrambe ebbero toccato la sfera, la nebbia si diradò.
Ma è bellissimo!!!
Avrebbe voluto urlarlo, ma si limitò a metterci tre punti esclamativi per segnalare quanto le piacesse.
Hope, che nonostante la giovanissima età aveva già capito di non voler mai perdere un'esperienza che la sorella aveva fatto, chiese di provare.
"Oh!" trillò una volta finito, con gli occhi pieni di meraviglia.
Anch'io voglio essere magica come te. E un giorno lo sarò decretò Mackenzie, più decisa che mai.
"Ah sì? Ti auguro di riuscirci, allora, e ricorda: non smettere mai di credere nei tuoi sogni."
Mac la guardò intensamente: Marisa le aveva appena detto una cosa importante.
Anche la mamma si comportava così, a volte.
D'accordo.
In quel momento rientrarono i suoi genitori, le fate e gli altri umani. Dopo un breve saluto alle piccole, Christopher e Kaleia tornarono a casa.
Mentre Hope si faceva prendere in braccio dalla mamma, Mackenzie salutò i genitori. Batman le mancava. Ora aveva Lilia e, chissà, forse sarebbe riuscita a portarla a casa una volta finito quel sogno, ma avrebbe tanto voluto che i due si conoscessero. Ora, però, era troppo stanca per riprovare quella magia. Si avvicinò alla poltrona e accarezzò la sua cagnolina, pettinandole alcuni ciuffi che avevano deciso di non voler stare al loro posto. Riconoscendo la mano della padroncina, Lilia si svegliò, la leccò e volle essere presa in braccio.
"Marisa, ti fermi a cena?" le domandò Eliza dirigendosi in cucina.
"Mia madre spesso mangia anche da sola quindi sì, volentieri. Posso aiutarti?"
"No grazie, stai pure in salotto con gli altri."
Quando le si avvicinò, Demi ringraziò la strega per quello che aveva fatto.
"Figurati, è stato un piacere. Abbiamo giocato tantissimo, vero bambine?"
"Sì!" esclamò Hope saltellando attorno ai genitori.
Mamma, com'è andata la vostra passeggiata? domandò Mackenzie.
Era silenziosa. Che fosse successo qualcosa?
"Bene, piccola, sono solo stanca. Tra il lavoro e tutto il resto, sai com'è."
Restò vaga e la bambina fu soddisfatta di quella risposta. Sprofondò nel divano e allungò le gambe. Non era educato, ma i genitori non le dissero nulla e lei non se ne preoccupò. Mamma Demi le aveva spiegato che la stanchezza a volte non è tanto fisica, quanto mentale, e stare in una scuola in cui si studiavano materie magiche, tutte nuove per lei, era sì interessante, ma richiedeva tanta concentrazione.
“Vado a fare una doccia” annunciò Sky.
Poco dopo Lilia e Agni mangiarono di nuovo, ma tornarono presto.
 
 
 
Demetria si chinò per sfiorare la femmina di Arylu, che aveva il pelo ancora più soffice di Cosmo e accarezzò anche il draghetto. Il corpicino era ricoperto di squame. Si sarebbe aspettata che fosse stato appiccicoso come i pesci, ma in realtà la mano scorse senza problemi su di lui.
"Ciao, piccolo Agni" lo salutò, sorridendogli.
Il draghetto alzò la testolina e la strusciò contro il suo palmo e poi sul braccio, proprio come avrebbe fatto un gatto. Lei gli sfiorò piano la criniera. Non era calda, ma folta e morbidissima.
"Sei bellissimo" sussurrò, estasiata.
Hope era fortunata ad averlo, perché oltre a essere meraviglioso dal punto di vista fisico, sembrava anche una creaturina dolcissima.
"Posso?"
Anche Andrew si avvicinò e lo riempì di complimenti.
Vi piacciono? chiese Mackenzie.
“Ce ne siamo già innamorati” rispose Andrew parlando per entrambi.
Non volendo lasciare Marisa in disparte, Demetria le si sedette vicino.
"Kaleia non mi ha spiegato come siete arrivati qui. Ti va di parlarmene?"
L'altra raccontò tutto.
Nel frattempo, Sky tornò e toccò ad Andrew e poi a Noah lavarsi.
"È pazzesco! Vi trovate bene a Eltaria?"
Demi sorrise.
La sua interlocutrice era gentilissima, non la conosceva per niente, eppure si preoccupava per lei.
"Sì, Eliza e gli altri ci hanno accolti con calore."
"Mi fa piacere."
"Vivi da sola?"
Le bambine si stavano divertendo con i propri animaletti sul tappeto, davanti alle due ragazze. Ogni tanto Agni andava da Mackenzie e Lilia faceva lo stesso con Hope, così le piccole avevano modo di conoscere meglio il nuovo amico della sorella.
"No, con mia madre Zaria. Il che non mi dispiacerebbe, se non fosse che litighiamo spesso."
"Mi dispiace che non abbiate un bel rapporto. Io ne so qualcosa, anche se con mio padre e per motivi diversi."
"Io e Zaria avevamo un bel rapporto prima che decidessi di aiutare Kaleia. Abbiamo litigato anche oggi per questo motivo. Non so perché te ne sto parlando. Di solito non mi sbottono con le persone che non conosco, ma mi ispiri fiducia."
“Ti ringrazio, ne sono onorata. Mi spiace che abbiate litigato.”
“Anche a me.” Sospirò. “Penso sempre di esserci abituata, ma non è così, ed è brutto litigare con i propri genitori.”
Demetria trovò strano che qualcuno chiamasse la propria mamma anche per nome, a volte, ma ricordò che una sua compagna delle elementari lo faceva e che la cosa l’aveva sempre irritata.
“In che senso hai aiutato Kaleia?”
“Le ho dato io quell’amuleto che avrai visto. Ti ha spiegato a cosa serve?”
L’altra annuì.
“Nel frattempo l’ho ospitata a casa mia allo scuro di mia madre. Zaria rispetta con scrupolosità le leggi magiche, in più essere strega la influenza e tutto ciò che va contro di esse, come per esempio l'amore tra Kaleia e Christopher e il loro bambino, la manda in bestia."
"Accidenti."
"Non so che voglia dire ma sì, non è una bella cosa. In più, c'è la questione di Willow."
"La gatta di Chris e Kia? Che c'entra?"
"Prima era sua, ma non se ne prendeva cura. Io, però, non me ne sono resa conto."
Demi spalancò gli occhi e la bocca; quando, anche nel suo mondo, sentiva che qualcuno non si occupava di un animale, o ancora peggio lo picchiava o gli faceva del male in altro modo, soffriva. Strinse i pugni. Avrebbe tanto voluto pestare i piedi, gridare parolacce e insulti con tutto il fiato che aveva in corpo fino a rimanere senza voce, ma si aggrappò alla stoffa del divano, trasse dei respiri profondi con le narici che si dilatavano sempre più e, anche se con uno sforzo immane, si trattenne. Sulla Terra avrebbe pianto, ma in quel momento la rabbia fu più forte. Era convinta che chi ferisce gli animali è da considerarsi una vera e propria bestia. In California, come in molti altri Paesi della Terra, maltrattare un animale, e questo comprendeva anche il non nutrirlo e il non prendersene cura era reato punibile con il carcere. Ormai aveva capito che lì a Eltaria non esistevano cose del genere e lo reputava ingiusto. Non le andava bene che chi compiva orrori simili restasse impunito, non era corretto. E non gliene fregava niente che quello fosse un altro mondo e che si trovassero dentro un sogno, non era giusto lo stesso. Per quanto apprezzasse la dolcezza e la gentilezza di Marisa, non aveva idea di come si sarebbe comportata se si fosse trovata davanti sua madre, una donna che, anche soltanto per quello che aveva fatto a Willow, disprezzava con tutta se stessa.
"So che adesso la odi" riprese la strega, come leggendole nel pensiero.
"Forse odio è una parola troppo forte. Non la conosco e non dovrei permettermi, ma come potrei non disprezzarla dopo quello che mi hai raccontato?"
La sua voce si alzò parecchio, tanto che le bambine la guardarono, Lilia smise di giocare, Agni di svolazzare ed Eliza venne a chiedere se andava tutto bene. Sky era sparita, forse in camera sua a trovare un po' di tranquillità assieme a Noah ormai tornato dalla doccia, per riflettere sulle tematiche delicate affrontate quel pomeriggio con i suoi amici.
"Lo capisco e non la voglio giustificare."
"Ci mancherebbe solo questo" non poté astenersi dal ribattere Demi.
L'altra abbassò lo sguardo.
“Scusami, Marisa” riprese la cantante, in tono pacato. “Non avrei dovuto. È pur sempre tua madre.”
“Figurati. Mi vergogno a dirlo, perché le voglio bene nonostante tutto, ma anch’io a volte ho pensato questo. Non è corretto, lo so.”
Demi sospirò.
“A volte le nostre emozioni sono più forti di qualsiasi cosa.” Le prese la mano e la tenne per qualche secondo. “Non fartene una colpa. Anch’io ho odiato mio padre e ci sono stata malissimo.”
Marisa sorrise e la ringraziò.
"Io non mi sono accorta di quello che succedeva a Willow perché mia madre, non volendola in casa, la teneva sempre fuori e la incontravo molto poco, dato che era una gatta che girava spesso. La vedevo soltanto quando tornava entrando dalla finestra della mia stanza. Sì, sì, so cosa stai per dire e hai ragione: sono stata cieca, non so come ho fatto a non rendermi conto di quello che succedeva. Non me lo perdono” concluse, la voce venata di sofferenza.
Era impallidita all’improvviso.
“E quando te ne sei accorta?”
Trasse un pesante sospiro.
“Nel momento in cui ha cominciato a dimagrire così tanto. Il senso di colpa mi tormenta ancora oggi” ammise con voce strozzata. “Avrei voluto parlarne con mia madre, chiederle perché lo faceva, dirle che mi sarebbe piaciuto dare la gatta a qualcun altro dato che non potevo permettere che la trattasse così, ma avremmo litigato e io avrei perso, lei mi avrebbe ferita nel profondo con qualche commento pesante avendola vinta. È sempre così, tra noi. Per questo me ne prendevo io cura al meglio, poi grazie al cielo Kaleia se l'è portata a casa."
"Non puoi sempre sottostare a tua madre, non decidere mai niente per te o per gli altri, Marisa" cercò di farle capire Demi, in pena per lei e addolcendo ancora di più il tono.
Marisa voleva di sicuro bene sia alla madre che a Kaleia, benché in modo diverso, e desiderava tenerle accanto entrambe, ma questo la metteva in mezzo a loro e in una situazione scomoda.
L’altra sospirò.
"Hai ragione, ma non è facile. Anche perché le voglio comunque bene, il che complica le cose. So che mia madre in parte è cattiva,” mormorò, “ma in fondo ha un buon cuore."
La cantante le chiese di spiegarsi e la strega le raccontò del momento in cui aveva fatto una croce sul polso di Kaleia per aiutarla: avrebbe dovuto essere un modo di stabilizzare le due metà del suo animo, ma aveva funzionato a metà.
“Che significa?”
“Che continuava comunque a svenire ed era quello che cercava di evitare.”
“Quindi, dato che ha iniziato a farlo quando lei e Chris si sono innamorati, se Zaria l’ha aiutata vuol dire che ha accettato il loro amore.”
"Sì, ma quando Kia è rimasta incinta e mia madre ha saputo del bambino è uscita di nuovo di testa. Per fortuna alla fine la situazione si è risolta, anche se noi due litighiamo ancora."
Demi inspirò ed espirò più volte.
No, non avrebbe mai capito del tutto il motivo per cui Marisa non si fosse accorta della condizione di Willow, anche se non le sembravano scuse, e il suo rapporto con quella donna.
"Cambiamo argomento?"
Ti prego, fa’ che accetti!
Parlarono del più e del meno fino a quando Demi non fece la doccia, poi cenarono. Marisa li lasciò dopo mangiato.
Gli animaletti si erano addormentati di nuovo dopo un altro pasto e aver giocato tra di loro e con le padroncine. Sfiniti ma sereni, anche gli altri andarono a dormire.
 
 
 
A notte fonda, Andrew si svegliò di soprassalto. Si alzò di scatto e dovette aggrapparsi al comodino, cercandolo a tentoni, per non finire a terra. Si diresse in bagno, che si trovava appena fuori dalla stanza, trascinando appena i piedi. Non avrebbe mai voluto rischiare di svegliare la fidanzata o le figlie. Agni e Lilia si erano addormentati nei lettini vicino ai piedi delle bambine. Lui aveva due gatti, Jack e Chloe e adorava i momenti nei quali, la sera, saltavano sul suo letto per stargli accanto. Era sicuro che
Demi non avrebbe avuto nulla in contrario, visto che anche Batman e Danny lo facevano con regolarità.
Una volta in bagno si sedette sul pavimento freddo, accanto al water, e cercò di rallentare il respiro accelerato. Inspirò ed espirò piano, tirò dentro l'aria e contò fino a dieci prima di liberarla. Il tempo passò senza che la sua situazione accennasse a migliorare. Non si era trattato solo di un incubo, se fosse stato così dopo un po’ si sarebbe calmato.
"Che mi succede?" chiese a fatica, a voce bassissima.
Sudava, le mani gli diventarono appiccicose nel giro di pochissimi secondi e non faceva in tempo ad asciugarle sui pantaloni del pigiama che queste si bagnavano di nuovo. Il sudore gli colava anche dalla fronte e non solo. Da veloce, il respiro si spezzò. Non c'era aria, lì dentro, stava soffocando. Doveva uscire o sarebbe impazzito. Ma quando provò ad alzarsi in piedi, la testa gli vorticò a una velocità impressionante e fu costretto a rimettersi seduto. Chiuse le mani a pugno, le tenne strette per qualche secondo e poi le riaprì. Una tecnica che gli aveva insegnato non ricordava chi, dicendogli che in quel modo il sangue scorreva meglio nel suo corpo e lui sarebbe riuscito a tranquillizzarsi, anche se non sapeva se fosse vero, dato che aveva funzionato solo poche volte.
Sto morendo, non c'è aria.
La sua vita sarebbe finita lì, in un bagno, senza nessuno accanto.
L'unico rumore che si udiva nella stanza era quello dei suoi respiri. Nel pomeriggio aveva detto che la depressione era come un luogo buio e freddo. Ora non tremava a causa di quest'ultimo, ma l’oscurità lo circondava, lo sovrastava, lo avviluppava tra le sue spire come un serpente che non aspettava altro che divorarlo. Si mise carponi, non sarebbe mai riuscito ad alzarsi in quelle condizioni, e cercò di proseguire dritto davanti a sé. Il panico rischiava di immobilizzarlo, il respiro così affaticato lo portava a credere che da lì non sarebbe mai riuscito a muoversi. Invece ce la stava facendo. Ci mise un minuto buono a raggiungere la porta con sforzi immani, nonostante fosse a un metro da lui.
Gli venne in mente Demi quando, l'estate del 2011, pochi mesi dopo essere uscita dalla clinica, aveva avuto una delle sue ricadute. Non solo aveva vomitato dopo aver mangiato pochissimo pensando che i genitori non ne sarebbero venuti a conoscenza, ma la notte il suo dolore era aumentato così tanto che si era tagliata con la lametta di un temperino. Dianna, Eddie, Dallas e Madison dormivano ma lui, a casa propria, aveva avuto un sesto senso o qualsiasi cosa fosse e si era precipitato da lei con la sorella Carlie, aiutandola a rimettersi in sesto. Le aveva curato le ferite com'era capitato tante altre volte anche in passato. Solo ad Andrew, infatti, Demi aveva confessato di tagliarsi un anno dopo aver iniziato e l'aveva implorato di non raccontare nulla ad anima viva. Lui, da stupido, aveva accettato dopo parecchie esitazioni, non rendendosi bene conto, forse, della gravità del problema o forse per immaturità. Se n'era pentito così tanto da quando era entrata in clinica! Demi non l'aveva chiamato ogni volta che si era fatta male e quindi lui aveva pensato, da vero idiota, che accadesse solo a volte, ma anche questa non era una giustificazione, visto che fin da subito si era reso conto che quel problema era grave.
Eddie e Dianna avevano fatto bene a sgridarli entrambi. Ad ogni modo si erano svegliati, quella sera del 2011, perché avevano sentito Demi urlare. Giorni dopo Andrew gliene aveva chiesto la ragione. Demetria aveva domandato al cielo che qualcuno la aiutasse, qualcosa in fondo al proprio essere le aveva detto di non arrendersi, una flebile speranza la cui fiamma non si era spenta.
Dianna, vedendola con quei tagli, per fortuna superficiali, aperti, si era spaventata a morte come farebbe ogni madre. Demi allora era stata colta da un attacco di panico perché non voleva che la mamma le restasse accanto in un momento del genere, sapendo che avrebbe sofferto tantissimo, più di quanto stava già facendo.
E lui com'era riuscito a farle passare l'attacco?
"Dicendole di concentrarsi su qualcosa di positivo e lei ha pensato al mare" gli sussurrò una vocina dentro di sé.
Il mare. Piaceva anche a lui. Doveva provarci.
Le onde vanno su e giù, su e giù in un continuo movimento pensò. Le aveva detto che sembravano un grande respiro. Come il mare.
Inspirò ed espirò profondamente. Immaginò di camminare su una spiaggia di sabbia bianchissima, con i gabbiani che volavano sopra di lui e, davanti a sé, un mare dalle acque cristalline e senza confini. La sabbia era tiepida e cedevole sotto i propri piedi e il sole, non troppo caldo, gli colpiva il viso. Una brezza leggera che sapeva di sale lo accarezzava come avrebbe fatto una mano amica. All'inizio gli venne più facile iperventilare, ma non si arrese, nonostante la spossatezza dovuta all'ansia che gli schiacciava i polmoni. Tentò e ritentò, prima con respiri piccoli e poi sempre più grandi, chiuse e aprì le mani varie volte e alla fine, dopo interminabili minuti, il suo respiro tornò regolare. Andrew trasse un lunghissimo sospiro di sollievo. Era riuscito a superare un attacco di panico senza prendere l'ansiolitico, il Lexotan, che comunque aveva assunto quella mattina, dato che non era stato bene.
Tornò a letto e si infilò piano sotto le coperte.
Demi, però, era sveglia e lo stava aspettando.
"Tutto bene? Non ti ho sentito alzarti, ma poi mi sono accorta che il tuo posto era vuoto. Ci hai messo un po'."
Parlò a voce bassissima per non svegliare le figlie e i loro animaletti.
"Ho avuto un attacco di panico violento" rispose lui, senza forze.
"Avresti potuto chiamarmi!"
La ragazza si mise a sedere di scatto.
"Demi, tranquilla.” Le prese la mano e lei si rilassò appena, sdraiandosi di nuovo accanto a lui. “Non ne ho avuto la forza. Sono a mala pena riuscito a muovermi, dentro quel bagno, a causa dell'ansia che mi bloccava, come se il mio corpo fosse paralizzato."
"Capisco anche troppo bene la sensazione. Ma ti sei mosso, è una gran cosa."
"Sì e sono riuscito a superarlo senza medicine."
"È meraviglioso! Ora come ti senti? Vuoi dell'acqua?"
"Sì, grazie, ho la bocca secca. Sono stanchissimo, ma per il resto sto bene."
Demi tornò poco dopo con un bicchiere che gli passò.
"Grazie."
Andrew bevve a piccoli sorsi.
"A volte è difficile capire le cause che scatenano l'ansia o il panico, ma secondo te come mai ti è venuto?"
"Credo per tutti questi cambiamenti. Una settimana fa eravamo a casa tua, nel nostro letto, vivevamo la vita di tutti i giorni e adesso ci ritroviamo in un mondo magico, in un sogno di Mackenzie e dove tutto è nuovo. Ci sono magia e creature magiche e siamo riusciti a conoscere più o meno bene molti di quelli che abbiamo incontrato, nel giro di pochissimi giorni. Insomma, stiamo bene, ma è anche strano."
"Concordo, non avresti potuto esprimerlo meglio."
"Mi piacerebbe passare all'orfanotrofio, domani mattina. Non voglio disturbarvi, ma solo venire in visita."
"Per me va benissimo, ne sarei felice! Per Eliza non ci saranno problemi, credo, ma domandale per sicurezza."
Lui annuì.
La fidanzata gli parlò di Kady e di tutto ciò che aveva pensato riguardo a lei.
"Sì," convenne l'uomo, "è probabile che sia sempre felice per nascondere il proprio dolore, ma magari in parte è anche così di carattere. Che bambina coraggiosa! Però mi dispiace per lei."
"Già, anche a me e sì, è molto forte. Se fosse possibile vorrei adottarla."
"Lo faresti con tutti, e anch’io. Sono sicuro che presto troverà una famiglia che la amerà."
Dopo un abbraccio e un bacio casto su una guancia, si riaddormentarono e riposarono tranquilli tutta la notte.

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Capitolo 22
*** Lezioni d'amore e magia ***


CAPITOLO 22.

 

LEZIONI D’AMORE E MAGIA

 
Il giorno seguente, mercoledì, Demi si svegliò prima del solito. Erano solo le sei.
"Perché non sono rimasta di più a letto? Ho una giornata lunga davanti" mormorò.
Eppure non aveva più sonno. Rimettersi a dormire l'avrebbe solo innervosita. Non riusciva mai a rimanere a letto a lungo, se non dormiva. Sospirò, tornò in camera a prendere il libro che aveva comprato e ne proseguì la lettura una volta in sala. La storia la catturò in pieno e spesso si ritrovò con gli occhi lucidi, anche se era solo all'inizio. La protagonista e il suo futuro fidanzato si erano incontrati da poco, a mano a mano si conoscevano, scoprivano di avere interessi in comune come la scrittura, comprendevano pregi, difetti e abitudini dell’altra persona e stavano ancora cercando di capire se il loro rapporto si sarebbe evoluto in una vera amicizia o se, invece, fossero destinati a essere soltanto conoscenti. A Demi il tutto pareva realistico e ben costruito. Aveva letto tre capitoli ed era solo alla trentesima pagina. Il romanzo era parecchio corposo per un'autrice che, come scritto nella prefazione, era agli esordi. Doveva essere stato molto difficile, per lei, farlo pubblicare.
A Los Angeles, così come in tutto il mondo, un editore non prenderebbe mai in considerazione un libro tanto lungo di uno scrittore esordiente, a meno che non sia scritto divinamente.
Si sarebbe fatta fare volentieri un autografo se avesse incontrato l’autrice, ma lo riteneva poco probabile. Lesse un altro capitolo e poi un seguente, si immerse del tutto nella storia e immaginò di essere la protagonista. I capitoli erano lunghi, alcuni dieci pagine, altri arrivavano anche a venti ma non le importava. Più lo erano più li apprezzava, anche se contava la qualità, in quel caso eccellente.
Fu solo quando udì dei passi che alzò lo sguardo, lo puntò verso chiunque avesse interrotto la sua lettura e chiuse il libro con un tonfo sordo. Il tomo le scivolò dalle mani, ma riuscì a non farlo rovinare a terra.
"Scusami, Demi, non immaginavo fossi sveglia."
"Stavo leggendo, Sky, non riuscivo più a dormire.”
“Ah. Nemmeno io ho più sonno. Ero a letto, ma ci sono tornata da poco. Verso le cinque sono uscita per una passeggiata. È presto, lo so, ma avevo tanti pensieri e così ho preferito schiarirmi le idee."
"Pensieri di che tipo?" le domandò Demetria con dolcezza, mentre la fata si accomodava accanto a lei. “Se posso saperlo, ovvio.”
"Ma certo. Riflettevo su quello che avete raccontato tu e Andrew ieri pomeriggio. Mi ha colpita tantissimo. Non fraintendermi, non voglio dire che ho compassione di voi nel senso di "Oh, poverini", però mi dispiace comunque e sono anche rimasta positivamente impressionata dalla vostra forza, che vi ha aiutati a rialzarvi sempre. Molti al vostro posto si sarebbero arresi tanto tempo fa, ma voi no."
"Abbiamo fatto quello che potevamo" rispose Demetria con un sospiro. "E anche a me dispiace per te e Kia."
"È stata dura" ammise l'altra.
"Mackenzie ti potrebbe capire molto bene, se le spiegassi come non avere nessun ricordo dei vostri genitori vi ha sempre fatte sentire” mormorò la ragazza, attenta a non ferire i suoi sentimenti. Attese credendo che l’altra le avrebbe chiesto di smetterla, ma Sky non lo fece e sorrise appena, così continuò: “La psicologa la sta aiutando a ricordare e negli ultimi tempi è migliorata, ma ci sono ancora delle cose che non le vengono in mente. Ne soffre, ma lo fa anche quando un nuovo ricordo si affaccia. La psicologa la lascia libera di parlare di quello che le va e lei spesso si concentra sui propri ricordi. Disegna la casa in cui stava, per esempio, e poi le viene in mente qualcosa."
"E ritieni che non le faccia bene?"
La domanda diretta di Sky la lasciò spiazzata, perché non ci aveva mai riflettuto.
"Credo che la stressi. Non so, forse dovrei sentire cosa ne pensa la psicologa anche se credo che, se avesse notato qualcosa di particolare, me l'avrebbe detto subito."
"Penso sia obbligata a farlo. E sì, forse dovresti. Non dico che Mac non debba più ricordare, Però...I insomma, io non rammento niente dei miei genitori, ne soffro quando ci penso, ma ho comunque una vita felice. Secondo me, Mackenzie potrebbe averne una altrettanto stupenda anche senza tutti i ricordi."
"Già. La psicologa non la sta forzando, non si permetterebbe mai. Non so se mia figlia sarebbe dello stesso avviso, comunque. Quando torneremo a casa dovremo affrontare un bel po' di cose."
Si ripromise di raccontare tutto anche al fidanzato, voleva la sua opinione.
"Immagino di sì. Spero di non averti messa in crisi, desideravo solo farti riflettere."
"Tranquilla. Apprezzo che tu mi abbia detto ciò che pensi e poi non hai tutti i torti.”
“A otto anni mi sentivo come se ne avessi avuti almeno venti. Se Kia si allontanava mi preoccupavo, dovevo sempre assicurarmi che stesse bene, che fosse pulita per quanto possibile, che mangiasse, che restasse all’asciutto, proprio come farebbe una mamma.”
“Mi dispiace” sussurrò la ragazza dandole la mano.
L’altra la tenne nella sua per qualche secondo, poi strinse i pugni. Non ne parlò, ma Demi capì: non ricordare, non sapere se era stata abbandonata, se i genitori erano morti o che fine avevano fatto era un tasto dolente, tanto che non riusciva a dire nulla a riguardo. Sky trasse un profondo respiro.
“Da allora, sono sempre stata ancora più protettiva nei suoi confronti. Ma era una grande responsabilità per una bambina della mia età.”
“Lo posso solo immaginare.”
Il silenzio calò su di loro per qualche tempo, poi la fata batté le mani tre volte.
“Il villaggio è tranquillo di mattina, fare due passi ti aiuterà a svegliarti ancora di più e poi manca un quarto d'ora al suono della sveglia per gli altri."
"Perché no?"
Sky le prese la mano e Demi gliela accarezzò. Era liscia e morbida, un po' più piccola della propria, e trovò sicurezza nella sua stretta.
"Posso farti una domanda?" le chiese dopo un po'.
Stavano passeggiando sul selciato del villaggio. C'era poca gente in giro, che camminava o parlottava divisa in piccoli gruppi e non faceva caso a loro.
"Certo."
"Non ti piacerebbe diventare madre, vero? Non mi sembri molto a tuo agio, soprattutto con Hope e quindi ho dedotto che… Ma se mi sbaglio correggimi, non vorrei sembrare indelicata."
"Innanzitutto volevo chiederti scusa per quello che ho detto sui suoi disegni, mi sono comportata da vera insensibile."
"Non ti preoccupare, dai, è passato" la rassicurò la cantante.
"Comunque no, non sbagli. O meglio, in realtà non lo so. Non ci ho quasi mai pensato e non ho l'istinto materno come Kaleia."
"Forse invece ce l'hai, ma è solo nascosto. È anche vero, però, che non tutte le donne lo possiedono."
"Non so quale dei due sia il mio caso. Diciamo che, pur essendo sicura che Eliza mi ami, faccio per esempio fatica a capire cosa ti abbia spinta a volere un figlio e poi ad adottarlo. E ho paura di fare degli sbagli. Non aggiungo altro. Ho parlato di certe cose solo a Noah."
Demi annuì.
“Tranquilla, non si può dire ogni cosa a tutti. Se vuoi il mio parere, i genitori commettono sempre degli errori, ma non significa che non amino i loro figli. Voler essere mamma è una cosa che si sente da dentro, un desiderio di mettere qualcuno al centro della propria vita, di amarlo sopra ogni cosa e persona te compresa, di dargli tutta te stessa, di sacrificare la tua intera esistenza per lui se necessario. È un bisogno d'amore così grande e profondo che bisogna provarlo per comprenderlo."
"Lo capisco a parole, ma non sento un granché quando me lo spieghi, non so se sono stata chiara."
"Direi di sì."
"Non escludo di volerne avere, o forse ne adotterò uno, ma dovrò esserne convinta e non lo sono ora. Più avanti, quando mi sentirò pronta, io e Noah ne parleremo meglio."
Fecero il resto del giro del villaggio in silenzio, osservando il cielo. Demi non l'aveva mai visto così azzurro, nemmeno al lago Tahoe dov'era andata qualche volta in vacanza. Il sole era già sorto e mostrava i suoi raggi ancora pallidi proseguendo il suo viaggio nella volta celeste, limpidissima e senza nemmeno una nuvola bianca a solcarla.
"È pazzesco" mormorò.
"Bellissimo, vero?"
Rimasero con lo sguardo all’insù e ad ascoltare gli uccellini che cinguettavano allegri e che, già da tempo, salutavano il mattino.
Demetria sospirò.
"Posso solo sognare tutta questa pace a Los Angeles. Anche per questo è bello stare qui."
"Mi piacerebbe vedere la tua città!" trillò Sky, saltellando sul posto come una bambina.
"Non so se la troveresti interessante, è molto rumorosa."
"Magari la apprezzerei lo stesso."
Quel momento di chiacchiere e riflessioni dovette concludersi: era ora di colazione.
 
 
 
Ancora sotto le coperte, Kaleia e Christopher si tenevano la mano. Non parlavano, ma erano entrambi del tutto svegli. A volte era bello starsene lì sotto, distendere al massimo le gambe, godersi la freschezza delle lenzuola e alzarsi dopo qualche minuto.
“Buongiorno, fatina” sussurrò il ragazzo accarezzandole i capelli.
“Ciao, custode. Chissà cosa ci aspetta oggi!”
“Sei ancora più allegra da quando gli umani sono entrati nelle nostre vite.”
Lei sorrise.
Parlarono per qualche minuto di Cosmo e Willow: dovevano andare a casa a controllare che avessero acqua e cibo e a portare fuori il cane.
La fata sbadigliò e suo marito la prese fra le braccia, stringendola forte a sé. Kaleia si perse in quelle coccole godendosi il profumo fresco del suo amato, ma poco dopo si staccò controvoglia.
“Dobbiamo andare di là, altrimenti non ci alzeremo più e il piccolo finirà per farmi riaddormentare.”
Christopher la inseguì per la stanza, ma lei uscì e si nascose nel bagno mentre i due scoppiavano a ridere.
“Ti amo!” esclamarono insieme, poi si prepararono.
 
 
 
Appena fuori dalla grotta delle ninfe, anche Aster si stava godendo il sole, il cielo, il vento fra i capelli e i fiori rosa e azzurri sopra di essi, il cinguettio degli uccelli e, in generale, tutti i suoni della natura che la circondava. Inspirò ed espirò a fondo, riempiendosi i polmoni dell'aria salubre del luogo e poi osservò il lago appena increspato dalla brezza mattutina. I due cigni che anche Demi, Andrew e Mackenzie avevano visto volavano sopra di esso per poi entrarci, immergere la testa e mangiare qualche pesce. Erano una coppia, proprio come lei e Carlos. Volavano sempre insieme e, a loro modo, dovevano amarsi. Tutti quegli spettacoli diversi la aiutavano a meditare per affrontare al meglio la giornata. Alle ninfe piace farlo e, infatti, anche le sue sorelle presto sarebbero uscite per trovare un posto tranquillo nel quale riflettere, ognuna per conto proprio e per il tempo che avrebbe ritenuto necessario.
"Buenos días, mi amor!"
La ragazza avrebbe riconosciuto quella voce fra mille, non solo per lo spagnolo, ma anche perché alle sue orecchie suonava sempre come la musica più dolce del mondo. Tuttavia, in quel momento di meditazione non fu proprio così, perché la ninfa fece un piccolo salto e sbarrò gli occhi.
"Carlos, mi hai asustada!"
"Scusami, non volevo. Come stai oggi?"
"Bene, amore, e tu?"
Lui le si avvicinò, le cinse la vita con le braccia e la attirò a sé per baciarla. Aster non si oppose e anzi, adorava quelle coccole di prima mattina. Amò il momento presente soprattutto quando il satiro la fece distendere accanto a sé su un giaciglio di foglie che costruì in pochi minuti. La ninfa approfondì il bacio e le loro lingue si unirono in una meravigliosa danza mentre i due, innamorati più che mai, si isolavano da tutto e tutti. Se qualcuno li avesse visti non se ne sarebbero accorti, avvolti com'erano nel loro nido d'amore. Aster accarezzò le corna da capra di Carlos, mentre uno dei suoi zoccoli le batté piano contro un piede, senza però farle male. A degli stranieri come Andrew e Demi sarebbe parsa una creatura stranissima, ma non a lei, che considerava normale il suo aspetto. Stava, comunque, sempre attenta che le corna non la ferissero e Carlos faceva lo stesso. Aster gliele accarezzò.
“Non le temo” mormorò. “Non ho paura di te, né ne avrò mai.”
Lui la strinse di più e sorrise, ringraziandola con il solo uso dello sguardo.
I cuori dei due battevano all'unisono e sembravano esibirsi in continue capriole per la felicità.
"Ti amo tantissimo, Carlos. Non dimenticarlo" gli soffiò nell'orecchio, solleticandolo.
"Yo también" le rispose lui con altrettanta delicatezza e Aster sapeva che significava Anch'io.
"Come si dice Ti amo in spagnolo? Non me lo ricordo."
La baciò di nuovo, stavolta il bacio produsse uno schiocco più forte e si armonizzò alla perfezione con i suoni della natura.
La ninfa stava imparando quella lingua straniera grazie al suo ragazzo, ma la conosceva ancora poco.
"In due modi: Te amo e Te quiero. Il primo però vuol dire sia questo sia Ti voglio bene e il secondo Ti voglio, perché querer significa anche volere. Ci hai capito qualcosa?" ridacchiò.
"Sì, tutto, e mi piacciono da impazzire entrambi! Te amo, te quiero" sussurrò, non sapendo scegliere quale adorasse di più.
Però, se il primo era dolce e pieno di calore, il secondo pareva sensuale. Sì, era il termine giusto.
Ma che pensieri sto facendo?
Lo baciò con più foga, avvinghiandosi a lui con tutta la forza che aveva e piantandogli le dita nella schiena.
Il satiro ricambiò, con più dolcezza per non rischiare di farle male.
Non andarono oltre i baci e le carezze sul viso, sulla schiena e sui capelli di lei, e brividi di piacere corsero sui loro corpi. Quello non era né il luogo, né il momento di fare l’amore e si fermarono prima che la passione li travolgesse. Si separarono con difficoltà e rimasero seduti sul giaciglio per alcuni minuti a tenersi la mano, recuperare fiato e guardare il cielo. Lui la prese in braccio e si tirò su.
"Carlos, dai, mettimi giù! Per favore" insistette lei mentre rideva, anche se in realtà lo adorava perché lo facevano spesso.
Il fidanzato obbedì, ma solo dopo averle solleticato i fianchi per un po'.
"Devo parlarti di una cosa."
Si fece serio. Si era forse pentito delle coccole? Non poteva essere, tutto andava bene fra loro.
“Che c’è?”
"Oggi è la mia prima lezione di Pozioni con la classe in cui c'è anche Mackenzie. E sono preocupado" ammise con un sospiro. "Lei non è magica, non potrò coinvolgerla e temo possa sentirsi fuori posto, isolata dal resto degli alunni e non so come farle capire che non deve."
Aster gli sorrise con calore; il suo Carlos aveva un animo così sensibile!
"Se succederà, sono sicura che ci riuscirai. Non è detto che accada. In fondo la lezione sarà pratica, no? Quindi potrà seguirla senza problemi e anche se farai teoria sarà lo stesso. Sta' tranquillo, amore, andrà tutto bene. Posso venire anch'io?" chiese infine, imitando la voce della bambina che non era più.
"No, porque devo trabajar."
"Sì, so che hai il lavoro, ma mi sarebbe piaciuto vedere come te la saresti cavata."
"Non posso, amore, mi dispiace. Volveré presto, va bene? E ti racconterò tutto, promesso."
"Non tralasciare neanche un dettaglio, mi raccomando."
"De acuerdo. Cosa farò se la lezione finirà prima delle due ore?”
“Se manca parecchio tempo parla con loro, conoscili meglio.”
“Giusto. Ora devo proprio andare. Non sono in ritardo, ma prima di entrare a scuola devo fare una cosa importante e tu sai benissimo di che si tratta."
Lei annuì.
Si salutarono con un altro bacio e un "Te quiero" detto all'unisono.
 
 
 
Eliza stava preparando la colazione a tutti.
"Vuoi cacao e zucchero nel latte?"
Mackenzie annuì.
A casa usava il Nesquik, ma immaginava che lì non ci fosse e poi, in pratica, era la stessa cosa.
Demi e Sky erano tornate da un po' e stavano mangiando dei Waffle con la Nutella che avevano preparato per tutti. Hope stava già mangiando i Fairy O’s dalla sua ciotolina piena di latte caldo preferendoli all’altro cibo, mentre Andrew sorseggiava un caffè e mangiava qualche waffle.
"Sei pensierosa, oggi, Eliza. Tutto bene?" si informò l'uomo.
"Sì, tranquillo e grazie per averlo chiesto. Stanotte ho avuto un’idea, ma non so se è buona."
Quale idea? È una cosa divertente? volle sapere Mackenzie, agitando le braccia in aria.
"Spero di sì. Mi piacerebbe dare una festa, domani sera. Voi quattro avete conosciuto le mie figlie, Noah, Christopher, Marisa, Aster e Mackenzie e Hope avranno delle compagne con cui si trovano bene. Quindi pensavo: perché non organizzare qualcosa per passare un po’ di tempo tutti insieme? Se non siamo tanti potrei preparare tutto io, sempre che vi vada."
Sì, sì! Mackenzie si alzò. Voglio invitare Mahel e Harmony. Posso, vero Eliza?
“Si dice vorrei, tesoro” le fece notare la mamma.
"Chi sono, due compagne di scuola?" chiese la padrona di casa.
Sì.
"Certo, se mi dici i cognomi contatterò le loro famiglie, ma prima voglio sentire cosa ne pensano gli altri."
"Per me va bene, mamma, basta che non ci sia troppa confusione" disse Sky. “Non sopporto il casino.”
Christopher, Kaleia e Noah accettarono con gioia.
"Se non c'è tanta gente io non ho problemi, anzi, potrebbe essere divertente. Spesso l'ansia mi attacca proprio quando ci sono molte persone. Non accade in maniera allarmante, però a volte è come se il fatto di trovarmi in mezzo alla folla mi desse la sensazione di soffocare e allora vorrei solo sparire sotto terra, o scappare, o farmi piccolo piccolo, insomma qualsiasi cosa pur di non rimanere lì" spiegò Andrew parlando a macchinetta, sopraffatto dalle sue emozioni. “Se sto in un posto chiuso è ancora peggio.”
Gli mancò il fiato, proprio come se si fosse trovato in mezzo a una folla e solo dopo alcuni respiri profondi riuscì a calmarsi.
"D'accordo caro, vedrai che non ti sentirai male" gli promise Eliza che, poco dopo, si mise a stilare una lista.
Oltre alle sue figlie, Noah e Christopher avrebbe invitato Marisa, Aster e Carlos, gli Hall – sempre che le condizioni di Lucy le avessero consentito di venire –, Harmony Lightwood, la madre e il padre e Mahel Porter e i genitori. In tutto ventidue persone, compresa lei. Chiese ad Andrew se fossero troppe e gli assicurò che la festa si sarebbe svolta all'aperto.
"In questo caso non credo proprio, visto che spazio ce n'è."
Le sorrise.
“Avviso io Marisa” annunciò Kaleia.
 
 
 
Qualcuno bussò alla porta ed Eliza aprì.
“Aster? Ciao!”
"Ciao, Eliza! Mi sono detta che, dato che avevo aiutato Andrew, Demi e Mackenzie, sarebbe stato carino da parte mia venire a vedere come stavano." Quando fu in salotto, li guardò e continuò: "Scusatemi se non sono passata prima. Avrei dovuto, ma ho pensato che vi servissero alcuni giorni per ambientarvi e temevo di disturbare o stressarvi con la mia presenza."
"Ma figurati, Aster." Demi si alzò, le si avvicinò e, dopo un momento di esitazione, la abbracciò. "Siamo tutti felici di vederti."
"Anch'io sono contenta di incontrarvi di nuovo."
Mackenzie la salutò con la mano e poi le si avvicinò per stringergliela.
Ciao. Come stai?
"Molto bene, grazie Mackenzie. E tu?"
Anch’io, ti ringrazio.
“Oggi avrai la prima lezione con Carlos, il mio ragazzo."
Pozioni.
"Esatto."
Spero sarà divertente.
"Sono sicura di sì."
"Ti offro qualcosa, Aster? Ho colto delle fragole stamattina" le interruppe Eliza.
"Le mangerei volentieri, ti ringrazio."
La donna invitò lei e il suo ragazzo alla festa e la ninfa le assicurò che ci sarebbero stati. Mentre metteva in bocca un piccolo frutto alla volta per gustarselo al meglio, salutò Hope e le scompigliò i capelli.
"Sono davvero buone, Eliza. La tua mamma e il tuo papà erano preoccupatissimi per te, lo sai, Hope?"
"Ciao" rispose la bimba dopo un momento di pausa, facendola sorridere.
"Grazie per averci aiutati e rassicurati, e scusaci se abbiamo sclerato."
"Avete fatto cosa, Andrew?"
Aster lanciò loro uno sguardo interrogativo, non aveva mai sentito quella parola e non era nemmeno sicura di averla capita bene. La confusione era dipinta anche sui volti di Sky, Kaleia, Eliza, Noah e Christopher.
"Perdonaci se siamo usciti di testa e ti abbiamo urlato contro, eravamo impazziti di dolore."
"Ah! Non preoccupatevi per questo, posso solo immaginare cosa stavate provando. Nessun genitore vorrebbe viverli e sono felice che alla fine sia andato tutto per il meglio."
Dopo un abbraccio alle piccole, ai loro genitori e un ultimo saluto, Aster ringraziò e se ne andò facendo ondeggiare con la sua camminata leggera i lucenti capelli castani.
"Che creatura particolare" commentò Demi. "È molto gentile, ma intorno a lei ho percepito anche un'aura di mistero, non so come spiegare."
La cantante e le bambine corsero in camera. La donna le aiutò a vestirsi per andare a scuola e a preparare i rispettivi zainetti.
"Hai un quaderno per gli appunti?" chiese a Mackenzie che, intanto, stava leggendo l'orario.
Se l'era fatto dire il giorno prima da Harmony e l'aveva scritto su un foglio volante. Mostrò alla mamma due quaderni: uno per la lezione di Teoria Magica con Miss Godfrey e l'altro per Pozioni con Mister Ramirez.
"Benissimo, infilali nello zaino e metti dentro l'astuccio. Ma, Mackenzie, sai che voglio che lo prepari sempre la sera prima. Altrimenti rischi di dimenticarti qualcosa."
Hai ragione, mamma, ma ieri sera ero stanca e mi sono dimenticata. Mi perdoni?
"Sì, ma solo per stavolta" le rispose con un gran sorriso.
 
 
 
Quando tornarono in salotto, Andrew prese la fidanzata in disparte.
“Vedrai che anche questa giornata andrà benissimo” la rassicurò. “E ricorda che ti amo e che quei bambini hanno bisogno di te.”
“Grazie.”
Gli accarezzò la fronte, i loro nasi si scontrarono e i respiri si fusero durante il bacio. In seguito ce ne fu un altro, e più aumentavano più si facevano intensi mentre i loro cuori sembravano andare a fuoco. I due sudavano e bramavano con forza di volta in volta maggiore quel contatto. Si trovavano nel corridoio, la porta era semi-chiusa e nessuno li vedeva da lì. Avrebbero potuto sentirli, ma in quel momento i due non se ne curavano, tutto il mondo era sparito. Demi accarezzò la schiena del fidanzato provocandogli un brivido, lui le passò una mano vicino ai seni e la ragazza represse un gemito. Dopo un’ennesima stretta si divisero a fatica e Demi andò via con Eliza.
 
 
 
NOTE:
1. Asustada = spaventata
2. Trabajar = lavorare

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Capitolo 23
*** Mackenzie l'apprendista ***


CAPITOLO 23.

 

MACKENZIE L’APPRENDISTA

 
Isla venne a prendere Mackenzie e Hope alla solita ora.
Possiamo portare Lilia e Agni a scuola?
"Non credo" rispose Andrew prima della fata. “Nel mondo reale un animale può entrare in un'aula solo se è un cane guida per non vedenti.”
"In realtà è permesso. Possono seguire le lezioni vicino ai banchi o nei trasportini. Hanno mangiato?"
Sì, stamattina appena ci siamo svegliati.
"Bene, mettete comunque loro del cibo nelle gabbiette in modo che possano nutrirsi durante le prossime ore e a ricreazione vi sarà permesso farli uscire per i bisogni. Hope verrà aiutata da una maestra. Sia a scuola che all'asilo gli insegnanti hanno già avuto a che fare con situazioni di questo tipo, perciò non preoccupatevi."
Dopo qualche minuto Mackenzie sollevò a fatica il trasportino di Lilia e Isla quello di Agni e uscirono.
La fata e Mac lasciarono la bambina più piccola all'asilo, che corse subito dalla sua maestra.
Lucy è rimasta a casa anche oggi?
“Sì. Sta meglio, ma l’ho lasciata riposare.”
La bimba fu felice che Isla non l’avesse costretta a frequentare la scuola nonostante non si sentisse bene. La mamma le aveva raccontato che, soprattutto crescendo, aveva dovuto fare audizioni o cantare anche se era stata male, perché nonna Dianna la costringeva ricordandole che quello era un lavoro, o frequentare la scuola o studiare a casa con il tutor nonostante qualche linea di febbre. La bambina adorava la nonna, però non capiva quel comportamento. Non doveva essere stato facile per la mamma.
A differenza del lunedì, in cui la bambina era arrivata in aula per ultima e quindi leggermente in ritardo, ora – come il giorno prima – gli alunni della sua classe si riunirono nell'atrio della scuola in un gruppo compatto.
Per fortuna andiamo tutti insieme, pensò la piccola, o mi perderei.
Al suono della campanella attraversarono l'atrio, girarono a destra in un lungo corridoio che percorsero fino a metà e lì, di nuovo a destra, la loro aula.
Harmony? chiese alla compagna, che le sedeva accanto.
"Sì?"
Non dobbiamo andare in biblioteca?
"Certo, ma aspettiamo qui Mister Lambert."
L'avete mai incontrato?
"No," intervenne Mahel, "perché la sua ora è stata introdotta da poco, almeno a noi del primo, dato che prima dovevamo imparare meglio a leggere, ma la Direttrice ha preferito farlo adesso e non il prossimo anno scolastico, anche se siamo ormai alla fine. Harmy, ti rendi conto che tra due settimane potremo goderci le vacanze?" trillò alzando le braccia in aria e Vulcan, contagiato dalla gioia della padroncina, emise un lieve ruggito.
"Già, voglio rilassarmi. In realtà ci sono delle lezioni estive, ma sono… come si dice?”
“Facoltative” le venne in aiuto Mahel, alla quale l’elfa aveva rivolto uno sguardo per chiedere una mano.
“Che parola difficile! Alcuni le frequentano, altri stanno in vacanza, ma continuano a fare pratica da soli e a conoscere i loro famigli.”
Anche lei aveva portato il proprio cucciolo, Kermit, che nella sua gabbietta restava in silenzio e guardava gli altri due con curiosità.
Intorno a loro il brusio aumentava, non trasformandosi però mai in schiamazzi.
Mac sospirò.
Magari fosse così anche nella mia scuola in California.
Poco dopo la porta si aprì ed entrò una specie di drago strano, o almeno, questa fu la prima impressione di tutti i bambini, che si zittirono all'istante.
"È un gargoyle" mormorava qualcuno.
"Un che cosa?" chiedevano altri.
Ma sì! pensò Mackenzie. Li ho già visti in "Il gobbo di Notre Dame", sono sicura.
Non si rese conto, però, che l'aveva anche scritto e le sue compagne lo lessero.
"Che cavolo sarebbe?" chiese Mahel.
"Infatti. Cos'è, un horror?" volle sapere Harmony, interessata quanto l'amica.
Sulle prime la terza bambina le guardò come a chiedere loro se fossero state stupide, poi si diede della sciocca per averlo pensato e ricordò a se stessa che erano un'elfa e una pixie e non umane.
Un film, ne hanno fatto anche un secondo.
"Ed è interessante?"
Sì, Harmony. Questo ragazzo, Quasimodo, vive in un campanile con tre gargoyle.
L'insegnante, dopo essersi seduto accanto alla cattedra, li salutò con il suo vocione dicendo:
"Bonjour à tous!" Quando si rese conto che la maggior parte di loro non lo capiva, parlò in italiano. "Buongiorno a tutti. Io sono Etienne Lambert. Scusatemi, come potete sentire dal mio accento e dalla r moscia sono francese, e spesso uso parole nella mia lingua. Ma so bene l'italiano, anche se lo parlo in modo un po' strano."
"Buongiorno, Mister Lambert" risposero in coro.
"Mackenzie Lovato?" chiamò l'insegnante.
Lei alzò la mano.
"So che non puoi parlare. Se dovrò chiederti qualcosa scriverai e mi mostrerai il foglio, va bene?"
La bimba andò alla cattedra a consegnare la sua risposta.
Perfetto. Grazie, Mister Lambert.
"Figurati. Torna pure al posto. Tanto per precisare, in francese signore si dice monsieur, ma potrete utilizzare Mister per comodità." Fece l’appello e riprese: "Con me andrete in biblioteca a leggere. Non sarà una lezione, ma un'ora la settimana in cui potrete divertirvi, viaggiare con la fantasia e poi, se vorrete, riassumermi le pagine che avete letto, o scrivendo un testo di poche, semplici frasi o parlando, a vostra scelta."
"Ecco, sapevo che c'era la parte noiosa" mormorò Mahel a Mackenzie, che ridacchiò e poi le fece cenno di restare in silenzio.
Per fortuna l'insegnante non la udì.
Era poco più alto di un umano di media statura, molto largo, con due occhi grandi e gialli, un sorriso gentile, due ali enormi e denti aguzzi che, quando parlava, si vedevano benissimo. Aveva una voce grave, ma Mister Lambert riusciva comunque a mantenere un tono gentile.
 
 
 
Mahel alzò piano una mano e il suo braccio tremò, mentre il cuore le batteva forte e la testa le girava.
"Dimmi. Tu sei?"
"Mahel Porter, Mister Lambert" sussurrò questa, a voce così bassa che il drago si sporse per udire.
La bambina serrò le labbra e intrecciò le mani in grembo.
"Vuoi farmi una domanda? Non temere, su."
Le sorrise e, per poco, la pixie del fuoco non cadde dalla sedia.
"Tu sei un drago fatto di pietra con i denti grandi e affilati” constatò, in tono normale ma con la voce che ancora le tremava. “Non mi mangi, vero? E non mi trasformi in pietra, giusto? Perché altrimenti io scappo."
Sudava. Il suo corpo era scosso da tremiti sempre più violenti, mentre il cuore le martellava nel petto. Avrebbe voluto correre via veloce come il vento, però le gambe non rispondevano ai comandi del cervello e rimanevano immobili. Ogni muscolo del suo corpo era così teso da far male. Aveva la sensazione che, se si fosse alzata, sarebbe caduta per terra.
Alcuni bambini risero, ma l'insegnante li fermò subito.
"No, non tollero prese in giro nelle mie classi, smettetela. È normale avere paura di qualcosa, se non lo si è mai visto o non lo si conosce. Ma non preoccuparti, Mahel."
Si avvicinò piano al banco della bambina, studiando le sue reazioni e continuò a sorriderle e a parlarle in tono pacato. Lei traeva lunghi respiri e teneva d’occhio i movimenti lenti che compiva.
Se voleva ferirmi l'aveva già fatto pensò la piccola.
"Io sono buono, altrimenti non mi troverei qui a insegnare. Non farei mai del male a nessuno di voi, ve lo assicuro. E se dovessi arrabbiarmi, non vi torcerei un capello. State tutti tranquilli."
“D-davvero?”
“Te lo giuro, Mahel. Non potrei fare l’insegnante, se pensassi di voler far male ai bambini o a qualsiasi altra creatura.”
Era davanti al suo banco, ora, e Mahel si allungò per accarezzargli la pancia.
Mister Lambert rimase immobile e non smise di mostrarle quel sorriso che, nonostante i denti aguzzi, restava luminoso.
"Visto? Non è successo niente e tu sei stata bravissima, hai superato la tua paura. Coraggiosa, Mahel, complimenti."
Non sapendo cosa dire, la fatina del fuoco sorrise e arrossì ammettendo a se stessa che si sentiva meglio.
 
 
 
"Qualcun altro ha questo problema?" chiese Mister Lambert.
Tutti fecero cenno di no.
"Bene. So che morite dalla voglia di andare in biblioteca, ma c'è una cosa che dovete sapere." In quel momento qualcuno bussò alla porta. "Avanti" disse l'insegnante.
Entrò una fata che, a giudicare dal volto, doveva avere più o meno l'età di Eliza, rifletté Mac. I capelli biondi e corti le sfioravano appena le spalle e aveva la postura dritta e il portamento elegante. Sorrise ai bambini e li salutò mentre loro si alzavano.
"Buongiorno, Signora Direttrice."
Mackenzie rimase in silenzio, ma lo scrisse, in automatico, su un foglietto che le portò, perché le pareva maleducato restarsene lì impalata.
"Ciao, tu devi essere Mackenzie Lovato."
Sì, signora Direttrice.
"Ho sentito tanto parlare di te, anche se sei qui solo da qualche giorno. Benvenuta alla Penderghast."
La ringrazio.
Le risultava difficile dare del lei, alle maestre nella sua scuola si rivolgeva con il tu e aveva incontrato la Preside Carlisle solo qualche volta.
"Sai quanto ti fermerai a Eltaria?"
Non ne ho idea.
"D'accordo. Ricorda che siamo tutti felicissimi di averti qui."
La Direttrice le strinse la mano e Mackenzie fece lo stesso, poi la prima le disse di andare al posto.
"Bambini," riprese, "sono qui per un motivo preciso e tranquilli, non è nulla di brutto. La scuola è quasi finita e vi annuncio che domani andrete in gita al Giardino di Eltaria."
Si levò un brusio di fondo, molti si chiedevano come mai non fosse già stato comunicato.
"Sì, avete ragione, di solito viene detto qualche settimana prima, ma gli insegnanti non riuscivano a decidere se portare questa e altre classi, che andranno nei prossimi giorni lì o da un'altra parte e si sono accordati ieri pomeriggio. Starete via tutta la mattina, ma non dovete vederla come una gita noiosa. Sarà più che altro un divertimento. Mister Baxter vi accompagnerà e, assieme a lui, un volontario tra i vostri genitori o amici di famiglia, che ho già contattato inviando una lettera. Ho bisogno di una persona che abiti nei pressi del Giardino e che faccia questo favore, soprattutto se conosce bene il posto. Sceglierò il primo che si presenterà nel mio ufficio fra un'ora e lo vedrete domani."
"Bellissimo!" esclamò qualche bambino.
Inoltre, si disse Mac, andarci significava non solo fare qualcosa di diverso ma anche saltare scuola, il che forse era ancora più fantastico.
“Portatevi uno zaino con una bottiglietta d'acqua e qualcosa da mangiare. Vi lascio qui delle lettere da dare ai vostri genitori nelle quali è spiegato tutto. Dovranno firmarle e, prima di partire, domani mattina me le mostrerete. Se qualcuno non firmerà, dovrà venire a riprendersi il proprio figlio, perciò dite loro di scrivere subito nome e cognome."
Le distribuì, chiese se c'erano domande, ma nessuno alzò la mano così, dopo un altro saluto e l'augurio di divertirsi il giorno seguente, se ne andò.
I bambini esplosero in applausi e un urlo liberatorio che l'insegnante diede loro il permesso di fare. Mackenzie batté le mani. Le dispiacque solo che Vulcan e Lilia si fossero spaventati nel sentire i compagni gridare.
"E ora," riprese il maestro, "in biblioteca. Mi raccomando, è un luogo tranquillo, quindi dovete stare in silenzio quasi assoluto o, al massimo, parlare ogni tanto a voce bassissima."
I bimbi si infilarono in un corridoio adiacente al loro. Camminarono in fila per due, come l’insegnante aveva detto loro e Mahel prese la mano di Mackenzie. Harmony, invece, stringeva quella di una bambina di cui la piccola non conosceva il nome.
La biblioteca si trovava alla fine del corridoio in questione, come gli altri luminoso grazie alle grandi finestre su entrambi i lati. L'insegnante aprì la porta e tutti entrarono con ordine. Era una stanza dipinta di un tenue giallo, colore che trasmetteva fin da subito un senso di rilassatezza. Al centro si trovava un grande tavolo con trenta sedie – le classi non superavano tale numero di allievi, anche se quella di Mackenzie era di venti – e, tutto intorno, scaffali pieni di libri di diversi generi. Quando gli scolari ebbero preso posto, l'insegnante si mise vicino al tavolo e annunciò:
"Adesso avrete la possibilità di cercare, con calma e senza litigare, un libro che vi piace e leggerlo, parlandone poi con qualche compagno se volete ma, ripeto, sempre con attenzione per non disturbare gli altri. Non tutti hanno voglia di condividere, ad alcune persone piace leggere in silenzio ed essere lasciate in pace.”
A uno a uno, i piccoli si diressero verso gli scaffali. Mackenzie si prese tutto il tempo necessario. C'erano libri voluminosi, altri spessi ma non tanto quanto i primi, e poi medi e piccoli.
Forse devo leggere di che genere sono prima di scegliere.
Non era mai stata nella biblioteca della scuola a Los Angeles, ma immaginava che si facesse così anche là come in ogni altra.
I volumi più in alto, che se avesse voluto prendere avrebbe dovuto salire su una scala, erano le enciclopedie. Non sapeva di cosa, ma conosceva il significato del termine e si disse che no, non ne avrebbe letta nessuna perché al momento non le interessava. A seguire gli altri generi erano horror, avventura, fiabe e leggende, favole, raccolte di poesie e molto altro. Ne scelse uno di favole, c'era scritto Dai sei ai nove anni. Si sedette e lo aprì subito.
Harmy, che cos'hai preso? domandò, curiosa.
"Un libro di leggende."
"Anch'io, ma di un altro autore" spiegò Mahel.
Il Pyrados e l’Arylu recitava il primo titolo del libro che aveva scelto Mackenzie. La storia parlava di un drago che sonnecchiava nella grotta dove viveva mentre, lì intorno, alcuni Arylu facevano festa e tantissima confusione. Uno di loro, nella foga della corsa, finì sopra il Pyrados. Quest'ultimo riuscì ad afferrarlo con una sola zampata, deciso a sbranarlo e mangiarlo. L'Arylu guaì e supplicò di essere lasciato andare promettendo che, in cambio, gli sarebbe stato riconoscente in eterno. Più leggeva, più Mackenzie si rendeva conto che anche quella favola era adattata, perché simile in tutto e per tutto a Il topo e il leone che la mamma le aveva letto spesso. In quel caso non solo i protagonisti erano altre creature, ma il titolo metteva prima il nome dell’animale più pericoloso. Terminata la lettura, felice per l'Arylu che aveva liberato il Pyrados e per il fatto che erano diventati amici, si ripeté ancora una volta, nella mente, la morale a parole sue:
Anche i piccoli possono aiutare i grandi.
Lesse qualche altra favola, dopodiché prese un secondo libro. Proprio in quel momento, però, Lilia abbaiò con insistenza, Kermit gracidò e Vulcan si agitò dentro la gabbia.
"Cos'è questo baccano?"
L'insegnante alzò la voce e tutti smisero all'istante di cercare un libro o di leggere per guardarlo.
Il gargoyle si avvicinò alle tre bambine e notò le gabbiette accanto a loro.
"Conoscete le regole: non si possono portare i famigli in biblioteca" decretò, serio.
Io in realtà no scrisse Mackenzie, con una calligrafia disordinata a causa dello spavento.
La voce del maestro si addolcì.
"Nessuno te l'aveva detto?"
No, Mister Lambert, mi dispiace. Se lo sapevo, avrei lasciato Lilia in classe.
Il gargoyle sorrise.
"Se l'avessi saputo" la corresse con gentilezza. "Comunque, Harmony e Mahel, avreste dovuto chiederle se conosceva la regola. E poi è vietato perché questo è un posto tranquillo, gli altri insegnanti ve l’hanno spiegato mesi fa."
"Ci dispiace, Mister Lambert" risposero le due all'unisono.
"Per stavolta non me la prendo, ma riportateli in classe."
Le bambine obbedirono tenendo gli occhi bassi.
Non è giusto, però si lamentò Mackenzie.
"Hai ragione, è una regola stupida" convenne Mahel.
Harmony si limitò a sbuffare.
Lasciarono le gabbiette sui banchi e chiesero ai loro animaletti di comportarsi bene e restare in silenzio o, al massimo, fare i loro versi ma piano e tornarono in biblioteca.
Le amiche ripresero la lettura dei libri, mentre Mackenzie ne cercò un altro, stavolta nella sezione dedicata ai racconti e alle leggende. Dopo qualche minuto, un libro con l'immagine della mappa dei boschi di Primedia e di Eltaria sulla copertina catturò la sua attenzione. Il titolo, scritto in grande, recitava:
Misteri e scoperte a Primedia ed Eltaria.
L’autore si chiamava Aiden Woods. La brevissima biografia diceva che era un folletto, quand’era nato e che abitava a Eltaria con la moglie e i tre figli, ai quali aveva dedicato quel volume.
Il primo capitolo descriveva le lanterne che venivano appese o fatte volare la sera in tutta Eltaria affinché non piombasse nell'oscurità più totale. L'autore spiegava cos'erano, a cosa servivano e i loro colori. Fino ad allora la bambina aveva pensato che fossero vari solo per una questione di bellezza, ma leggendo le poche paginette del capitolo, scoprì che non era così. Vicino alle immagini delle lanterne c’era scritto il significato del colore in una sola parola. Il bianco simboleggiava la novità, il verde la speranza, il giallo la gioia, il rosso l'amore e, infine, il nero la morte.
Caspita, non lo sapevo!
Il secondo capitolo si concentrava, invece, sul modo in cui le fate e le altre creature avevano popolato i boschi ed erano entrate in contatto con gli umani fino a far pace con loro. Per secoli, la convivenza non era stata affatto buona. Gli uomini temevano un’invasione da parte di quelle sfere luminose, avevano paura che volessero cacciarli e quindi erano loro a farlo con tutte le forze. Anche in quel caso erano presenti delle didascalie. La prima raffigurava una sfera luminosa che entrava nel villaggio degli umani, ma uno di loro la allontanava con la mano e aveva la bocca aperta, simbolo che stava urlando. La spiegazione diceva:
In origine, le fate sono sempre state sfere luminose e vivevano nei boschi prima che gli esseri umani le accettassero e loro potessero quindi venire in contatto con gli uomini ed entrare nei villaggi di questi ultimi. Tutto cambiò nel 1200, grazie all’intervento di una fata che ancora oggi si ricorda.
Leggendo e guardando le figure, Mac scoprì anche che i leprecauni avevano cercato ricchezze sin dall’alba dei tempi e si erano attaccati all'oro, gli gnomi erano da sempre stati esseri pacifici e molto altro sul resto delle creature. Non si era mai chiesta cosa fosse successo lì in passato, ma più leggeva, più si poneva domande e più trovava le risposte che cercava.
Il terzo capitolo spiegava quanto potevano essere importanti i protettori per le fate, dato che le aiutavano e le allenavano, e che una relazione amorosa fra loro era proibita. Kaleia e Christopher dovevano aver vissuto momenti difficili o starli ancora attraversando. La bambina sperò con tutto il cuore che non fossero in pericolo. La vista le si appannò e gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Mackenzie, tutto bene?” le chiese Harmony.
Sì, tranquilla rispose, e fu solo dopo diversi minuti passati a fare respiri profondi che riuscì a calmarsi, decidendo di mettere quei pensieri da parte o, almeno, di provarci.
Christopher e Kaleia sembravano stare bene, ma non appena li avesse visti l’avrebbe chiesto loro. Andò avanti nella lettura.
Se una fata non viene rincuorata dal protettore o da qualcuno che ama per lei è finita, quindi spegne la sua luce, il che significa che muore.
Era tristissimo morire così.
L'autore parlava inoltre degli animali magici e dell'importanza che avevano per le fate. Anche in quel caso, prima di ogni piccolo paragrafo c'era un'immagine della creatura in questione, fatta bene giudicò la piccola.
Gli Arylu sono fedeli e capaci di proteggere la fata o l’essere magico che accompagnano anche senza magia, ma con le unghie e i denti.
La didascalia riportava un cane che difendeva la sua padrona da un'altra fata, mordendola a una gamba.
I Pyrados hanno un grande senso dell’onore e del dovere.
Quest’altra rappresentava un drago che rimaneva vicino al suo padrone, un folletto, che pareva malato.
Gli Slimius sembrano pigri, ma se attaccano in gruppo diventano pericolosi.
E nella terza alcune ranocchie aggredivano non si capiva bene chi o cosa.
A lezione finita, la bambina mise via il libro controvoglia.
"Potete portarvi a casa un volume, se volete, ma rimettetelo nello scaffale giusto la prossima settimana" si raccomandò l'insegnante.
Mac non aveva idea di quanto sarebbe rimasta per cui, anche se a malincuore, lo rimise al suo posto. Non avrebbe mai voluto portarlo a casa per sbaglio e temeva di non fare in tempo a riportarlo.
Fu felicissima di ritornare in classe e vedere Lilia. Mister Lambert permise a lei e alle sue compagne di far uscire i loro animaletti.
"Potete lasciarli andare fuori, se devono fare i bisogni, anche prima della ricreazione" disse loro. "Vi assicuro che torneranno."
Fu così, infatti.
"Che abbiamo adesso?" domandò Mahel.
"Due ore di Teoria Magica, fino alle undici, poi ricreazione e Pozioni" rispose Harmony.
"Che bei cuccioli avete!" esclamò la bambina che prima l'aveva tenuta per mano, una pixie del vento con i capelli biondissimi e gli occhi color miele. "Posso accarezzarli?"
Era alta più o meno come Mahel e aveva un sorriso dolce.
Le tre acconsentirono e la piccola salutò e coccolò tutti con dolcezza.
"Io ho preso un cagnolino, si chiama Doran. L'ho lasciato a casa. Avrei voluto portarlo, ma mia mamma ha detto che prima avrebbe dovuto ambientarsi lì."
Alle altre sarebbe piaciuto risponderle, ma in quel momento la porta si aprì di nuovo.
"Buongiorno, Miss Godfrey" salutarono i bambini, mentre Mackenzie si limitò a farlo con la mano.
"Buongiorno a tutti. Siamo un po' indietro con il programma e in pochi giorni dobbiamo terminarlo. Tutto chiaro?"
Dopo aver udito la loro risposta d’assenso detta sempre in coro, Miss Godfrey notò gli animaletti di Mac, Harmony e Mahel che ora dormivano nelle loro gabbiette, commentò che erano carini e ne chiese i nomi.
"Mi piacciono. Bene, cominciamo la lezione. Tirate fuori il quaderno di Teoria Magica e prendete appunti come le altre volte."
Mackenzie lo aprì a una pagina bianca su cui scrisse la data, anche se stava per sbagliarsi fra novembre e maggio, non ancora abituata a quel cambiamento. Forse non l'avrebbe fatto mai. Le risultò anche strano scrivere Eltaria e non Los Angeles.
"Cosa studieremo oggi, Miss Godfrey?"
"Adesso lo spiegherò, Evan, porta pazienza." La donna estrasse dalla borsa quella che, a giudicare dalle scritte, doveva essere una sorta di scaletta. "Come al solito, se avete domande potete interrompermi, alzare la mano e aspettare che vi dia il permesso di parlare e ditemi anche se vado troppo veloce."
Tutti annuirono.
"Oggi studieremo l'origine dei segni, tra cui quello che ognuno di voi ha sul polso. La prima cosa importante da sapere è che non lo possiedono solo pixie, fate, folletti, gnomi, leprecauni e satiri. Mackenzie, anche se tu non ne hai uno non ti devi sentire inferiore, sei uguale agli altri in tutto e per tutto. Non hai poteri magici, ma altre qualità che ti rendono speciale. Per questo dico che lei è uguale a noi, pur non essendo magica" ribadì.
Mackenzie sperò che il messaggio arrivasse in particolare a Evan e che il bambino non avrebbe iniziato a dire cose come:
“Se non è magica, allora è diversa.”
Per non andare alla cattedra – ma perché diavolo non aveva chiesto di essere cambiata di banco? – la ringraziò con un sorriso.
"I segni vengono anche chiamati marchi. Brutta parola, vero?" aggiunse, dato che alcuni bambini avevano una smorfia di disgusto dipinta sul volto.
Si adattano più agli animali, o forse nemmeno pensò Mackenzie, ma evitò di dirlo per paura che qualcuno credesse che voleva offendere le bestiole.
Quel termine riferito alle persone, umani o creature magiche che fossero, non le piaceva affatto.
"Avete ragione. La buona notizia è che molti protettori stanno facendo sì che la parola marchio non venga più utilizzata perché troppo negativa."
"Meno male!" esclamò Mahel.
Mackenzie alzò una mano.
"Sì? Se hai una domanda vieni pure, leggerò io per gli altri.”
La bambina si avvicinò alla cattedra.
Fa male averlo?
"No, è come una voglia sulla pelle, che c'è ma non dà fastidio.
Nessuno prova mai dolore? Nemmeno quando è in pericolo?
La bambina trovava i segni affascinanti e misteriosi allo stesso tempo.
"No, in quel caso il segno brilla. Dolore e sensazioni strane arrivano quando la creatura in questione usa troppa magia, o si sforza fisicamente per un incantesimo particolare."
Soddisfatta delle informazioni, Mackenzie ringraziò.
"Altre domande?"
Nessuno parlò.
L'insegnante proseguì scrivendo un elenco alla lavagna. Il proprio segno, spiegò mentre scorreva con il gessetto, si otteneva in tre modi diversi. Il primo era la discendenza, quindi grazie ai genitori o a uno dei due. Per secondo veniva lo sviluppo, cioè un gesto significativo durante la crescita che cambiava le regole di discendenza e qui Mackenzie rifletté. Durante una delle loro chiacchierate, Lucy le aveva spiegato com’era avvenuto il mutismo di Lune.
"I traumi, per esempio, possono provocare la comparsa del segno" stava dicendo Miss Godfrey, quindi la bambina capì che la sua deduzione era giusta. "Si può avere, infine, per condizioni di nascita."
La pixie che aveva domandato loro se avrebbe potuto accarezzare i cuccioli alzò la mano.
“Cioè?”
"Se per esempio da una coppia nascono due gemelli e uno viene al mondo un minuto prima della mezzanotte e l'altro dopo un minuto, la data cambia e così il segno. Tutto chiaro?"
“Splendente” si disse Mac mentre scriveva ogni cosa e i suoi compagni annuivano o rispondevano. Quindi, visto il primo caso, Kaleia e Sky potrebbero averlo preso dai loro genitori, quelli che non hanno mai conosciuto proseguì la bambina, che le aveva udite parlare di ciò. E Sky forse ha l'elemento aria perché è nata in autunno e Kaleia quello della natura perché è venuta al mondo in estate. Ma come mai non la primavera? È in quel periodo che si sveglia.
Nonostante il suo dubbio, Mac era sicura che il ragionamento fosse corretto e la lezione le servì a capire di più chi aveva intorno. Ringraziò mentalmente Miss Godfrey per questo.
La spiegazione continuò con l'insegnante che faceva capire con ulteriori esempi le nozioni appena dette. L'ora successiva si svolse sempre sulla stessa linea.
Quando Teoria Magica terminò Mahel, Harmony e l’umana erano distrutte.
La ricreazione fu veloce e trascorsa quasi del tutto in silenzio a causa della stanchezza dei piccoli, che non avevano nemmeno la forza di giocare. Solo i cuccioli fecero qualche verso e si lasciarono accarezzare da tutti i bambini, compiendo il giro della stanza. Del resto, a quale piccolo non piacciono le coccole? Dopo aver mangiato, essere andate in bagno e a lavarsi la faccia, le tre bambine tornarono subito sui banchi. Se l’insegnante le avesse trovate fuori dalla classe durante l'orario di lezione, si sarebbe arrabbiato ed era l'ultima cosa che volevano.
Pronte per Pozioni? chiese Mackenzie mentre Lilia, nella sua gabbietta, sgranocchiava alcuni croccantini.
"Non ne ho idea, più che altro sono curiosa" disse Harmony.
"Io ho un po' paura. Non sappiamo se è buono o no, l'abbiamo incontrato solo ieri per venti secondi e, come dice mia mamma, l'approccio con un nuovo insegnante non è mai facile" concluse Mahel, pronunciando quelle ultime parole in falsetto.
Che significa approccio?
"Incontro, credo."
Ah. E non è più semplice dire così?
"Sì, ma i grandi usano sempre parole difficili."
"Verissimo" concordò Harmony. "I miei dicono sempre che devo impararne tante per diventare più brava di loro."
Anch'io voglio fare così! si eccitò Mackenzie.
"Sì, anch'io. È bellissimo capire il significato di una parola che non conosci" disse Mahel.
Le tre compagne avrebbero voluto chiacchierare ancora, ma la porta si aprì e Carlos Ramirez entrò.
"Buongiorno, bambini." Sorrise. "Farò l'appello, dato che ancora non vi conosco" riprese dopo il loro saluto. "Oggi è la nostra prima lezione, quindi voglio conoscervi. Ditemi cosa vi piace fare nel tempo libero."
Il giro ripartì. Quando fu il turno di Mac, questa scrisse che adorava giocare con la sua sorellina e gli animali di casa. Aveva scoperto che a Harmony piaceva leggere e Mahel disse che si divertiva ad aiutare la mamma a cucinare o a fare altri lavori in casa, dato che alla fine della settimana questa le dava cinque rubli di luna per premiarla.
“È una cosa muy bonita. Molto bella" tradusse l’insegnante. "Perfecto, ora possiamo iniziare. Per oggi prepareremo solo una pozione, dato che siete principianti e non ne avete mai fatta una. Si chiama Sorrisucco."
Sorrysucco? domandò Mackenzie, insicura.
Un momento: aveva appena utilizzato una parola nella sua lingua unita da una in italiano? Com'era possibile se, fino a poco tempo prima, l'inglese in lei sembrava bloccato al pari di una lampadina rotta e si attivava solo nella mamma quando cantava? Inutile domandarselo, non l'avrebbe mai scoperto.
"No, Mackenzie, con la i. Te lo scrivo alla lavagna" le rispose l'insegnante.
Ah, così! Grazie. Mi scusi, Mister Ramirez, è che nella mia lingua sorry significa scusa e l'ho confuso.
"Non ti preoccupare, succede."
La piccola provò a scrivere di nuovo il nome della pozione ma con la y, o la parola in inglese senza niente dopo. Non ne fu più capace.
Assurdo.
Il fatto che si trattasse di un sogno rendeva alcune situazioni inspiegabili, era l'unica cosa a cui riusciva a pensare.
Chissà cos’avrebbero detto i suoi genitori biologici di tutta quella situazione. Se fosse finita nel sogno assieme a Hope e a loro due, avrebbero apprezzato stare lì? Oppure odiato tutto non vedendo l’ora di tornare a casa? In quei giorni sognava solo cose belle, per la maggior parte quanto le era accaduto durante la giornata. Non avere più incubi né sintomi del PTSD era stranissimo. La faceva sentire bene da un lato, ma un po’ spaesata dall’altro. Aveva la sensazione di essere troppo felice e forse, a conti fatti, non era sempre una gran cosa.
L'insegnante mise, con non poca fatica, uno scatolone sulla cattedra. Lo aprì e distribuì a ognuno un pentolino di rame, che appoggiò sopra un treppiedi in metallo prima di posare tutto sul tavolo di ogni bambino.
"La cosa si fa interessante" commentò Harmony a bassa voce.
"Adesso darò a ognuno un bicchiere d'acqua distillata. Versatelo nel pentolino senza farne cadere neanche una goccia." A operazione eseguita, gli alunni rimasero in attesa. "Ora arriverà a tutti un vasetto con un fiordoro.”
Un fiore d’oro?
Mac gli portò quel biglietto e gli lanciò uno sguardo interrogativo.
“Ora capirai. Dovrete mettere cinque petali nel pentolino, uno per uno."
Facendo attenzione per paura che il fiore soffrisse troppo, Mackenzie tolse con delicatezza i cinque petali e poi lo accarezzò.
"Mi dispiace, fiorellino" parve dirgli.
Ne aveva una quarantina, tutti dorati anche se non si trattava di oro vero e a un’occhiata più disattenta sembravano soltanto gialli.
"Io ne ho quasi il doppio" osservò Mahel. "Perché, Mister Ramirez?"
"I fiordoro possono essere di varie grandezze."
Passò tra i banchi a controllare che tutti ne avessero messi proprio cinque. In seguito, diede loro un sacchettino con della polvere di fata. Ai bimbi bastò aprire l'involucro e prenderne un pizzico con due dita per poi aggiungerlo. Il tutto si chiuse con un cucchiaino di zucchero.
"Adesso mescolate fino a quando gli ingredienti non saranno ben amalgamati a formare un composto omogeneo. Passerò a vedere come state andando."
Sto davvero facendo una pozione magica?
La mamma aveva raccontato a Mackenzie che, uno dei primi giorni delle elementari, la maestra aveva fatto assaggiare a tutti un cucchiaino di qualcosa mentre tenevano gli occhi chiusi e poi ognuno le aveva sussurrato all’orecchio di che si trattava. La risposta di Demi era stata:
"È una pozione magica."
Poco dopo aveva scoperto che era limone.
Lo zucchero si sciolse presto, la polvere di fata invece no, ma penetrava nei petali dei fiori e, col passare dei minuti, tutto si amalgamava. Mescolare non era facile perché a mano a mano il composto si addensava e bisognava metterci sempre più forza. Prima la bambina usò la mano destra, poi la sinistra, infine provò diverse posizioni nelle quali tenere il cucchiaio, ma non smise mai di mescolare. Harmony fu la prima delle tre a finire e a ricevere i complimenti dell'insegnante. Toccò a Mahel e infine a Mackenzie, mentre anche gli altri terminavano.
"Muy bien, ci siamo tutti!"
I piccoli scoppiarono a ridere, contagiati dall’atteggiamento festoso dell’insegnante. Applaudirono, si alzarono in piedi e si diedero il cinque.
"Va bene, basta" li zittì lui. "Accenderò sotto il pentolino di ognuno una fiamma lenta. Non preoccupatevi, non prenderà fuoco nulla perché vi seguirò durante il procedimento. Dovrà cuocere per una decina di minuti. Mescolate piano, altrimenti la pozione diventerà grumosa e non farà effetto."
Il composto di Mackenzie era di nuovo liquido. La bimba lasciò andare il cucchiaio e strinse i pugni, mentre tutto il suo corpo sussultava. Tentò di scrivere, ma non riuscì nemmeno a tenere la penna in mano. Il suo sguardo saettò da una parte all'altra della classe.
"Mackenzie, ¿qué pasa?" le chiese il maestro quando si avvicinò al suo banco.
Lei non capì, ma rispose.
La mamma mi ha sempre detto di non toccare il fuoco e che non posso mescolare niente di quello che mette in pentola, perché sono troppo piccola. Mi fa paura.
L'insegnante fece il giro del banco e si chinò alla sua altezza.
"Non vorrei andare contro il volere di tua mamma, ma questa pozione va cotta. Ti mostro come si fa per aiutarti a capire che non succede niente, poi continuiamo insieme e, se te la sentirai, proseguirai da sola."
La bambina annuì e nessuno degli scolari obiettò.
Carlos accese la fiamma che, lenta, cominciò a cuocere la pozione da sotto il treppiedi. Mescolò con calma, sia intorno che verso il centro della pentola in modo che nulla si attaccasse.
Scotta? gli chiese la piccola.
"Il cucchiaio? No, affatto. Vuoi provare?"
Mackenzie respirò a fondo, strinse una mano al bordo del banco, raccolse tutto il coraggio che aveva e tentò. Girò in senso orario anche se, chissà per quale motivo, quando lo faceva a casa le veniva più facile il contrario. In quel momento, però, si sforzò per essere il più precisa possibile. Mescolare per dieci minuti interi non fu facile per nessuno, ma alla fine Carlos Ramirez aiutò ciascuno a versare in un piccolo bicchiere, di plastica e della stessa grandezza di quelli che Mac ogni tanto vedeva in televisione quando qualcuno prendeva il caffè dalla macchinetta, un po' di quella pozione.
"Non potete berne più di mezzo bicchiere" spiegò. "Rende le persone calme e felici e, se ne consumaste troppa, diventereste iperattivi." Lilia, nella sua gabbietta, girò inseguendosi la coda per tentare di prenderla, ma falliva ogni volta, così le ringhiava. "Come lei, anche se sta solo giocando” continuò lui indicandola. “Chi lo è non può restare fermo per molto tempo."
"E che gusto ha?" domandò Evan.
"Quello del cibo che amate di più."
Mackenzie fu deliziata quando, dopo aver soffiato per raffreddare la sua pozione, assaporò il gusto delicato del cioccolato al latte. Harmony invece le disse di sentire quello della fragola e Mahel dei frutti di bosco.
"Segnatevi gli ingredienti e i passaggi per preparare questa pozione," asserì il ragazzo, "la prossima volta potrei chiederli a qualcuno in una piccola interrogazione."
Nell'udire quella parola alcuni bimbi sbuffarono.
"Come vi trovate con i vostri cuccioli?" chiese non appena tutti ebbero terminato di scrivere. "Sì, Harmony?"
"A Kermit piace tanto giocare con me" trillò la piccola.
"Fantastico!"
"Io e il mio Arylu Magic abbiamo dormito insieme, stanotte. Mamma e papà dicono che non c'è problema se lo facciamo" fu svelto a rispondere Evan.
Lilia è la cagnolina più dolce del mondo scrisse Mackenzie. Mi dà il cinque. Vuole vedere, Mister Ramirez?
“Molto volentieri.”
La bimba aprì la gabbietta e fece uscire la cagnolina, le mostrò la mano e batté su di essa un dito dell’altra. Lilia allungò una zampa e le sfiorò quella rimasta aperta.
“Ma è bellissimo, Mackenzie. Quando gliel’hai insegnato?”
Stamattina a ricreazione.
"Ehm, Vulcan mi ha bruciacchiato una pagina di un libro che stavo leggendo, ma per fortuna non era di scuola e si capisce lo stesso."
La lezione continuò tra chiacchiere su vari argomenti, dal rapporto con i genitori – Mackenzie non accennò a quelli naturali –, al legame con i fratelli maggiori o minori e al tempo libero.
"Mister Ramirez, ora ci dica lei una cosa: ce l'ha una fidanzata?"
Lui rise.
"Sì. E tu, Evan?"
"S-sì" balbettò, ma non volle dire di chi si trattava.
Chissà, forse si trovava proprio in quella classe, dato che Lynn, la pixie che Mac aveva conosciuto prima, gli rivolse un enorme sorriso.
La campanella suonò.
"Per oggi niente compiti, bambini, ma dalla prossima volta sì. Ci vediamo mercoledì e mi raccomando, ripassate quel poco che abbiamo imparato oggi."
Dopo essere andata a prendere la sorella, Mackenzie aspettò la mamma con Hope e la maestra.
 
 
 
NOTE:
1. in Falling With Wings: A Mother’s Story, Dianna scrive che crescendo le sue figlie hanno dovuto lavorare anche quando non stavano bene.
2. ¿Qué pasa? = Che succede?

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Capitolo 24
*** Timori e riflessioni ***


CAPITOLO 24.

 

TIMORI E RIFLESSIONI

 
Erano le dieci e, mentre Mackenzie studiava chissà cosa Hope rifletteva, per quanto potesse farlo una bambina della sua età. Ormai aveva capito che la sorella, a scuola, faceva cose più difficili di lei e, anche se da una parte avrebbe voluto diventare grande, dall'altra si divertiva di più all'asilo a giocare. Più volte a casa era capitato che prendesse uno zainetto, se lo mettesse sulle spalle e dicesse:
"Scuola, compiti"
e la mamma ridesse. Ora, anche se era in un asilo nuovo, si stava divertendo da matti. Le maestre avevano portato lei e gli altri bambini in una stanza piena di cuscinoni e la piccola stava saltando su uno di essi. La cosa più bella era sprofondarci appena quando ci finiva sopra. Ogni tanto alzava le braccia in aria, oppure gridava e si buttava sul morbido cuscino in varie posizioni. Intorno a lei, i suoi compagni facevano lo stesso e c’era chi camminava, ma altri correvano e rischiavano di andarsi addosso. Le insegnanti supervisionavano tutti, ognuna i dieci bambini che aveva nella propria classe e cercavano di mantenere un minimo di ordine.
Hope udì una di loro rimbrottare un folletto che cercava di prendere un cuscino a una pixie, la quale lo stringeva al petto anche se con fatica vista la grandezza.
“Jackson, quello è di Diandra, lasciaglielo.”
Stanca di saltare e con il fiatone, Hope si gettò a peso morto sopra uno di quei cuscini, ma non fece in tempo a riposarsi perché, poco dopo, un suo compagno le sarebbe saltato sulla pancia se lei non si fosse spostata in velocità. Salì allora sopra un altro cuscino, più piccolo e a forma di cavallino a dondolo, sul quale si dondolò per diversi minuti avanti e indietro fissando un punto indefinito. Dopo un po', qualcos'altro catturò la sua attenzione: si trattava di un terzo cuscinone a forma di tunnel dentro il quale ci si poteva infilare. Nessuno lo stava usando, quindi lo fece lei. Ci passò all'interno, uscì dall'altra parte e rise di cuore, salutò con la manina e continuò così senza stancarsi mai. Le sembrava di sparire e poi ricomparire come in una magia, magari una di quelle che sapevano fare Sky e Kaleia e che anche a lei sarebbe piaciuto imparare. Perché non ci riusciva? Non fu capace di darsi una risposta.
Le maestre richiamarono i bambini nelle rispettive classi per dar loro la merenda, che quel giorno consisteva in qualcosa di più gustoso dello yogurt del mattino prima: pane e Nutella. Il pane era morbidissimo e le insegnanti lo spezzarono a tutti in pezzi né troppo piccoli né di esagerata grandezza, giusti perché potessero metterli in bocca senza che accadesse nulla di male. Piacque a tutti e non solo mangiare li zittì facendo calare sulle due aule un silenzio assoluto, ma ogni bambino si sporcò, chi il naso, chi una guancia e chi, come Hope, addirittura la fronte. Le maestre li aiutarono a pulirsi e a lavarsi e raccontarono loro una favola.
 
 
 
Finito il suo racconto, l'insegnante della classe di Hope contò gli alunni e si rese conto che ce n'erano solo nove.
"Dov'è Hope?" chiese.
Nessuno le rispose.
Strano, non li perdeva di vista un attimo, non si era accorta che la bambina si fosse allontanata.
Se le fosse successo qualcosa non me lo perdonerei mai.
Ma ora l'importante era trovarla. Forse era caduta o si era ferita, chi poteva saperlo? Il cuore della signora saltò un battito mentre la assaliva la consapevolezza che aveva pochissimi secondi per decidere cosa fare: cercarla da sola o chiamare l'altra maestra? Ma in quel caso, con chi sarebbero rimasti i loro bambini? Il tempo era tutto in quella situazione e, anche se dubitava fortemente che la bambina fosse uscita dalla scuola senza essere vista e fermata, non si poteva mai sapere. La porta era chiusa e non abbastanza bassa da permetterle di aprirla. Tirò un sospiro di sollievo, mentre gli altri bambini la guardavano straniti. Diede loro dei fogli e alcuni barattoli di pennarelli dicendo a ognuno di farle un disegno che poi avrebbero appeso in classe, in modo da tenerli occupati, promise che sarebbe tornata subito e uscì lasciando la porta aperta.
Al centro di una stanza si trovava una casetta di plastica che i bimbi utilizzavano spesso per giocare.


 
 
Hope si era infilata lì dentro da un po'. La storia che leggeva la maestra non le stava piacendo poi tanto e così aveva pensato che avrebbe preferito andare a giocare da qualche parte. La casetta era simile a una che vedeva ogni tanto nelle pubblicità a casa e che desiderava chiedere alla mamma. Quella in cui si trovava non era grande, ma lei ci sarebbe stata benissimo anche sdraiata e con le braccia spalancate non prendendo tutto lo spazio. Non c'erano sedie, ma davanti a lei si trovava un piccolo tavolino con un telefono finto. Compose un numero a caso e prese in mano la cornetta.
"Pronto? Ciao. Sì, sì, ciao mamma" concluse, prima di mettere giù e ridere come una matta.
Aveva appoggiato per terra una bambola, che mise seduta accanto a lei, e due tazzine di plastica. Finse di preparare il tè e lo offrì alla sua amica, poi lo bevvero insieme.
"È buono!" esclamò. “Tanto.”
In quel momento la porticina si aprì e la maestra, troppo alta per entrare lì dentro, le parlò dall'uscio.
"Hope, piccola, ecco dov'eri finita!" Avrebbe voluto abbracciarla per il sollievo che stava provando, ma doveva spiegarsi. "Tesoro, ascolta, non puoi andare via senza dirmi dove, potresti farti la bua e io devo sapere sempre se ti trovi con me o se stai giocando, capito? Non fare più così."
Alzò appena la voce e la bimba la guardò, poi abbassò gli occhi.
"Dire dove sono" sussurrò, dopo averci messo qualche secondo a comprendere.
"Esatto, bravissima. Sempre, sia alla mamma, sia a me o alle altre persone che ti fanno compagnia e ti conoscono, almeno finché sei così piccola."
Tornata in classe, anche lei si divertì con i colori. Disegnò la casetta, con la bambola e la scena che stava mettendo in atto prima che l'insegnante arrivasse a interromperla.
Le restanti ore passarono tra giochi, canzoncine, un girotondo e altre favole.
 
 
 
"Sky?" chiese Andrew, dopo che la ragazza era appena rientrata da una passeggiata.
"Sì?"
"Ho sistemato la cucina e il bagno così Eliza non dovrà lavorarci, e spolverato il salotto e passato l'aspirapolvere. Ho anche lavato i piatti e le tazze della colazione."
La ragazza rimase colpita.
"Non dovevi. Sei un ospite, se mamma sapesse ti direbbe di non stancarti. Ti vedo provato."
Andrew era pallido e con le occhiaie.
Poteva sembrare che lei non si preoccupasse per gli altri, ma non era affatto così e, anche se non aveva ben capito cosa volesse dire soffrire di ansia e soprattutto di depressione, cercava di immedesimarsi in lui e in ciò che aveva raccontato. Andrew era pallido e con le occhiaie.
"Non sono le pulizie a stancarmi, o almeno non così tanto. A volte è colpa dei miei problemi, se mi sento peggio la mia mente è affaticata e di conseguenza anche il mio fisico pensa di esserlo."
"Stai più male di ieri?"
Glielo chiese in tono grave, avvicinandosi piano.
I loro occhi si incontrarono, verde nell'azzurro, e si fissarono con intensità per un lungo istante.
"Ho avuto un attacco di panico, stanotte. Nulla di grave, ce ne sono stati di peggiori, ma per diversi minuti sono stato male."
"Mi dispiace, e hai idea del perché?"
Le disse ciò che aveva riferito alla fidanzata.
"Sì, cambiamenti tanto drastici di vita, luogo in cui si abita e altro possono scombussolare, in effetti, o almeno credo" rispose la fata, con la testa fra le mani. "Il semplice fatto di dormire in un letto diverso influisce quantomeno sul sonno."
Andrew annuì, scusandosi per non aver rifatto bene il letto: gli capitava di tirare male le coperte, di farlo con svogliatezza. Aggiunse che perfino alzarsi e aprire la finestra era stato difficile, tutto ciò per colpa della depressione.
“Tranquillo, lo sistemo io.”
“Non vorrei darti l’impressione di essere uno sfaticato” si affrettò a dire, mettendosi le mani davanti al volto.
A casa propria poteva fare ciò che voleva, ma era un ospite e si sentiva maleducato.
Sky gli sorrise e gli poggiò una mano sulla spalla.
“Va tutto bene, non angosciarti.”
“Grazie, Sky. Forse dovrei andare a fare due passi per schiarirmi le idee e tirarmi su. I dottori dicono sempre che passeggiare aumenta le endorfine. Significa che aiuta a migliorare l'umore."
La fata confermò che era così asserendo che accadeva anche a lei e, dopo avergli chiesto se aveva bisogno di un'accompagnatrice e aver ricevuto risposta negativa, lo guardò uscire.
Sospirò e pregò qualcuno più in alto di lei e di chiunque altro. Non sapeva a chi rivolgersi con esattezza, se fosse quel Dio di cui a volte Demi e il suo ragazzo avevano accennato oppure no, ma gli domandò di fare in modo che Andrew stesse bene e che lui e la sua famiglia fossero felici. Si accomodò sul divano e rimase in silenzio per un po', finché Midnight non entrò dalla finestra aperta. Anziché appollaiarsi sulla sua spalla, le piombò tra la pancia e le gambe. Cinguettò facendola sorridere.
"Sei venuto a risollevarmi il morale, eh, Midnight?" gli chiese, poi prese ad accarezzargli con un dito il nero piumaggio.
Era di una morbidezza incredibile.
Non sapendo cosa fare, Sky prese un libro, poi si risedette con il merlo che si rimise subito nella posizione di poco prima. La fata del vento si immerse nella lettura del romanzo d'avventura che aveva iniziato pochi giorni addietro, immedesimandosi nel protagonista e vivendo, almeno per un po', le sue vicende. Non era quello il genere che preferiva, non amava in modo particolare i libri di narrativa, ma il volume che aveva fra le mani l'aveva catturata e così si era decisa a dargli una possibilità. Anche se adesso aveva una vita felice, adorava estraniarsi dalla realtà in quel modo, staccare la spina ed evadere per poi ritornare più piena di energia. Nel frattempo, Midnight la osservava alzando la piccola testolina e sbirciava le pagine. Non era la prima volta che accadeva e, quando se ne accorse, Sky lesse ad alta voce. Poco dopo il merlo volò sul suo trespolo e, continuando ad ascoltarla, chiuse gli occhietti, si rilassò e si addormentò. Sky sorrise a quella vista. Non voleva disturbarlo, quindi riprese la lettura in modo silenzioso.
Dopo alcuni minuti sentì qualcuno bussare alla porta.
Mise un segnalibro, chiuse il volume, lo ripose al proprio posto e aprì.


 
 
Davanti a lei c'era Noah e, desiderando un bacio da lui, la ragazza gli si gettò addosso e gli catturò le labbra nelle proprie. Il ragazzo rimase spaesato per qualche momento ma, abituato all'impulsività della fidanzata, si riscosse subito e ricambiò con passione. Dopo il primo bacio Sky si staccò appena e i due rimasero abbracciati per minuti interi senza parlare, guardandosi con gli occhi di chi ama e con il cuore che faceva le capriole per la felicità. Non sentivano nessun rumore intorno a loro, né si rendevano conto di essere ancora sull'uscio di casa. La ragazza non si preoccupò nemmeno del fatto che Andrew sarebbe potuto tornare da un momento all'altro e che avrebbe potuto vederli. In quel momento esistevano solo Sky e Noah, come se fossero stati gli unici abitanti di quel mondo. I loro respiri si fondevano l'uno con l'altro creando nuvolette di vapore mentre i cuori e le anime erano da tempo una cosa sola.
"Dovremmo rientrare, non credi?" mormorò Noah, timoroso di interrompere un momento tanto intenso e farla star male.
"Forse è una buona idea."
Ritornare alla realtà fu come essere scagliati giù dal cielo e battere con violenza la testa sul duro suolo, ma erano ancora lì, insieme, e nessuno impediva la loro unione. Si tennero per mano e si sedettero sul divano.
"Allora, come stai?" le domandò Noah. "Ieri eri strana.”
"Si tratta di quanto ci hanno raccontato. Credo ci sia dell'altro, Demi stamattina me l'ha confermato. Penso che siano stati peggio di così" ammise abbassando lo sguardo.
"E sei preoccupata."
"Sì."
Seguì una breve battuta di silenzio, durante la quale lui rifletté.
"Beh, non puoi costringerli a parlare."
"Non voglio, infatti."
"Lo so, ma stavo per aggiungere che se si apriranno vorrà dire che si sentiranno pronti, che si fidano di noi in modo incondizionato e a quel punto potremo saperne di più. Secondo te che è successo?"
"La morte della sorella deve aver segnato Andrew in modo più profondo di quanto ieri ci ha dato a intendere, ma per ciò che riguarda Demi non so proprio che dire. Prima ho parlato con lui e l'ho visto abbattuto. Forse dovrei fare qualcosa per tirare su il morale a tutti o, comunque, renderli felici."
Se mesi prima, in un impeto di profondo calore umano, aveva avvolto attorno al collo di Bucky una sciarpina per proteggerlo dal freddo, ora era sua intenzione aiutare i compagni per quanto possibile, anche con un gesto semplice.
"E stai pensando a qualcosa?"
La ragazza annuì.
"Vorrei fare una torta."
"Una torta?"
"Sì, al cioccolato. Alle bambine piacerà di sicuro e spero anche ai grandi. Non sono bravissima in cucina, ma ci posso provare."
L'importante è il pensiero rifletté Noah, o almeno i suoi genitori gli avevano sempre detto così.
I due si diressero nel villaggio degli umani e poi nel negozio di alimentari, dove acquistarono biscotti, cioccolato fondente, burro e uova per preparare il salame di cioccolato. Noah disse che ci andava anche il rum, ma lo ritennero poco consono data la presenza di due bambine.
Una volta tornati, e dopo un altro fugace bacio, si misero subito all'opera. Noah tritò il cioccolato fondente e lo fece sciogliere a bagnomaria. Mentre aspettavano che diventasse del tutto fuso, i due innamorati si strinsero di nuovo.
"Secondo me, di carattere, sei più dolce tu di questa torta" le sussurrò il suo ragazzo sfiorandole la guancia con un dito.
Sky sentì un brivido correrle lungo la schiena e le braccia, che le fece venire voglia di baciarlo di nuovo.
"Non ne sarei sicura, ma grazie" gli rispose, considerando strano quel complimento.
Anche se con gli altri faticava ad aprirsi, con Noah riusciva a sfogarsi di più.
La ragazza stava sbriciolando i biscotti, ma lui la prese fra le braccia e le sorrise. Fu un sorriso un po' strano, che non gli arrivò agli occhi. Lei si voltò, gli accarezzò il collo e le guance sbarbate, poi lo baciò con dolcezza.
"Che succede?"
La sua voce fu delicata come i petali di una margherita, poche volte le era uscita così.
"Stavo pensando a una cosa. Ho sempre sentito dire che due fidanzati, per essere ancora più intimi, dovrebbero condividere le loro paure. Stiamo insieme da qualche anno, ormai, ti conosco e credo di sapere quali sono, ma non ne abbiamo mai parlato in profondità. Ti andrebbe di farlo ora?"
Sky si irrigidì all'istante e lui si pentì subito di aver posto quella domanda. Sapeva che era un argomento delicato per la ragazza perché conosceva in particolare una delle sue paure, quella più grande, profonda e che, lui non si capacitava di come, mascherava benissimo, ma che la tormentava dall'età di otto anni.
Sky respirò con le narici dilatate e strinse le mani a pugno per un secondo, senza sapere come sentirsi. Noah non l’aveva chiesto con cattiveria, ma solo per aiutarla e starle vicino perché, anche se lei non lo diceva, aveva bisogno di questo, ma non si aspettava un simile quesito. Forse, ragionò, parlarne in modo sincero le avrebbe dato una mano a sentirne meno il peso.
"D'accordo," mormorò, "ma inizia prima tu."
Noah stava mettendo del burro a pezzetti in una ciotola, aggiunse lo zucchero e montò il tutto con le fruste elettriche, incorporando le uova una alla volta. Dopo aver usato ancora le fruste, lasciò che la fidanzata continuasse e parlò.
"Io ho paura degli insetti. Mi fanno schifo. So che siamo in un bosco e che ce ne sono tantissimi, quindi sembrerebbe una fobia assurda, ma succede lo stesso."
Dopo aver aggiunto il cioccolato al composto chiaro e spumoso, Sky continuò a mescolare per amalgamarlo, ma poi si fermò e lasciò che fosse il suo ragazzo a continuare.
"Sminuzza i biscotti quando la cioccolata sarà incorporata al resto, poi aggiungili a tutto questo e continua a mescolare" gli ordinò. "Scusa, ma se voglio parlare delle mie paure devo fermarmi, o combinerò un disastro."
"Non preoccuparti."
"Io…" Esitò. "Dobbiamo proprio parlarne mentre prepariamo un dolce?"
Ridacchiò, sfregandosi una mano sui pantaloncini corti.
"Siamo soli e sì, riconosco che non sia la situazione ideale, ma mi è venuto in mente quest'argomento. Se preferisci, possiamo farlo un'altra volta."
Potrei non riuscire a dirlo, più avanti pensò la ragazza.
Scosse la testa con vigore.
"No. Va bene." Prese un tremante respiro, come se stesse per piangere. "Io ho paura dei ragni, come Kaleia." Aveva detto prima quello perché era il timore più facile del quale parlare. Si guardò intorno alla ricerca di qualche insetto o ragnatela, ma non ne trovò. "E poi temo qualcosa di peggiore."
Dopo un breve momento di silenzio, Noah disse:
“Parlamene solo quando te la senti, prenditi il tuo tempo.”
Lei lo ringraziò con lo sguardo. Aveva la gola riarsa e bevve due bicchieri d'acqua a piccoli sorsi prima di stare meglio. La testa le girò, ma si aggrappò con forza al piano di lavoro della cucina. "Temo l'abbandono."
La parola abbandono aleggiò nella stanza per qualche secondo, ma i due ebbero la sensazione di udirne l'eco nelle menti per interminabili istanti, mentre quel vocabolo rimbalzava a destra e a sinistra come tra due pareti di roccia. Visto quanto Sky aveva passato quella era una parola intrisa di sofferenza, nonostante tutto.
"Continua solo se ce la fai, amore mio" mormorò Noah, non volendo costringerla in alcun modo.
"Quando Eliza ci ha prese con sé la tenevo lontana, lo sai, con quel vento, ma era anche un modo per metterla alla prova, per capire se si sarebbe avvicinata o arresa alla mia diffidenza."
Ricordava di aver passato giorni chiusa in camera. Era uscita a fatica e solo per mangiare o giocare con Kaleia, per renderla felice. Per il resto non aveva mai risposto, perlomeno non a voce, alle richieste di Eliza di fare qualcosa insieme o di conoscersi meglio e, mentre quella aveva tentato e ritentato rispettando comunque i suoi spazi ma senza successo, lei non aveva fatto altro che annegare nella palude della tristezza, non riuscendo a smettere di riflettere sulle giornate trascorse nel bosco sola con la sorella. Era arrivata a pensare che nessuno le avrebbe mai trovate, né si sarebbe occupato di loro con amore. E anche se poi era successo, lei si era sentita troppo arrabbiata contro chi l’aveva abbandonata o dimenticata con Kaleia per essere in grado, al contrario della sorellina, di considerare Eliza una mamma. La sua era morta, o le aveva abbandonate scordandosi di loro e sparendo chissà dove, come se non le fosse importato di quello che avrebbe dovuto essere il suo regalo più prezioso: le figlie. Avrebbe, appunto.
L’atteggiamento di Sky è comune nei bambini che sono stati abbandonati o comunque adottati per qualsivoglia ragione pensò Noah, dopo che la ragazza gli ebbe riferito ogni cosa.
Non era chiaro cosa fosse successo ai genitori di Kaleia e Sky, ma loro l'avevano vissuta in quel modo.
"Lei, però, ha capito. Mi ha aiutata e tutto è andato meglio. Mi sono innamorata di te relativamente presto, ma la sofferenza è arrivata dopo."
Fu terribile dirlo, le provocò una fitta così forte al petto che per poco non cadde all'indietro, ma mise le mani sopra di esso e respirò più tranquillamente possibile.
"Hai paura che io ti abbandoni, o ce l'avevi, Sky?"
La voce del suo fidanzato era pacata. Se l’aveva ferito, lui non lo dava a vedere. Quel tono gentile le accarezzava i punti nei quali le ferite del suo passato travagliato sanguinavano ancora e pareva cercare di cicatrizzarle con quanta delicatezza possibile.
"L'ho avuta, sì.” La sua voce si frantumò come vetro. “Ma non te ne ho parlato perché non stavamo insieme da molto. Temevo che un giorno, senza dirmi niente, te ne saresti andato e a volte ne ho ancora paura. So che tu non sei quel tipo di persona, mi dispiace anche solo aver avuto un'idea del genere, ma ero spaventata a morte. Ogni tanto sogno di svegliarmi e non trovare più nessun membro della mia famiglia, solo un biglietto con scritto che se ne sono andati e che a loro non importa niente di me."
Le sue labbra si piegarono in un sorriso triste, il più pieno di sofferenza che Noah avesse mai visto nella vita. Sky non smetteva di sorridere, eppure non mascherava più i suoi sentimenti, li stava mostrando a lui com'era successo tante altre volte. Nei suoi occhi gli parve di vedere una sottile nebbia, rendendoli ancora più profondi. Erano azzurri, eppure adesso parevano più scuri, come quando il cielo si riempie di nuvole grigie prima del diluvio.
“Io ti amo, Noah, ti amo tantissimo! Però ti prego, non lasciarmi! Non lasciarmi da sola!" La voce le si arrochì a causa della disperazione. "O, se succederà, ti supplico, ti imploro, prima parliamone, noi…"
Noah la prese in braccio come fosse stata una principessa o la sua sposa e la baciò con dolcezza. Le sue labbra erano seta al contatto con quelle di lei.
"Io non ho alcuna intenzione di lasciarti, Sky. E se per qualche assurdo motivo mi comportassi come uno stronzo, ti assicuro che me ne pentirei e mi farei perdonare, ma mi disgusta anche solo il fatto che io ti stia dicendo che potrei arrivare a questo. Ti amo da morire, voglio stare con te per sempre e non potrei vivere senza di te.” Le accarezzò una guancia. “Non posso darti quello che ti è stato tolto, non riesco a restituirti i tuoi veri genitori o a cancellare il dolore che provi, ma riuscirò a trasmetterti tutto il mio amore ogni giorno, se me lo permetterai."
“Sul serio?” chiese lei, con una vocetta acuta come quella di una bambina.
"Te lo giuro.” Le baciò i capelli. “Io ti amo più della mia stessa vita, tua sorella ed Eliza fanno lo stesso anche se in modo diverso e nessuno ti abbandonerà mai. Di' a quei sogni che sono solo frutto della tua mente, che non corrispondono alla realtà, e vedrai che li temerai di meno. Se non dovesse essere così, parlane con me ogni volta che vuoi."
La sua voce, i gesti di lui, tutto la fece scoppiare in lacrime. Un pianto liberatorio e a singhiozzo che non si concedeva da tempo immemore. Soffriva sempre, nel profondo della sua anima, anche quando non pensava al proprio passato, perché certe esperienze non si scordano in nessun momento, ma era sollevata. Sapeva che Noah le sarebbe rimasto accanto, ma sentirglielo dire, essere rassicurata, le trasmise un senso di calore che la avvolse e le entrò dentro, facendola tornare a respirare di nuovo.
"Se ci sei non ho paura, Noah" mormorò, asciugandosi gli occhi, prima di baciarlo di nuovo. "Grazie."
Lo disse in modo accorato e Noah ne rimase colpito.
"Figurati. Se fosse capitato a me, tu avresti fatto lo stesso."
"È vero. Ti amo anch'io, Noah!" gli ripeté.
Un altro bacio li unì, più lento e profondo stavolta, dopodiché ripresero a preparare il dolce prima che si rovinasse ogni cosa.
 
 
 
Christopher e Kaleia avevano da poco trovato riparo all’ombra di una quercia. Si fecero aria con le mani per respirare meglio e lei si asciugò la fronte con un fazzoletto.
“Avremmo dovuto uscire prima per la nostra passeggiata” commentò.
“Hai ragione. In pratica, l’estate è già qui.”
Accanto a loro, Cosmo era sdraiato sull’erba a pancia all’aria e con la lingua fuori. A sei mesi non gli mancavano le energie, ma il caldo aveva messo al tappeto anche lui.
Kaleia si sfiorò il ventre: aveva appena sentito muovere il bambino. Si era trattato di un movimento lievissimo ma percepibile da lei in quanto fata e del quale un’umana, al contrario, non avrebbe potuto ancora accorgersi.
“Ti immagini come sarà?” chiese, la voce ridotta a un sussurro.
“Bellissimo, amore mio.” Christopher le circondò la vita con un braccio. “Hai dubbi?”
“No.” Il suo volto si aprì in un sorriso, poi tornò serio mentre lei si grattava la testa bruna. “Mi domando solo se saremo bravi genitori.”
“Stai pensando ai…”
Ma il ragazzo si interruppe quando lei si rabbuiò e un velo di dolore le circondò e coprì gli occhi.
“Ne abbiamo già parlato. Non voglio farlo ancora, non adesso.”
Avevano trattato l’argomento poco tempo dopo la scoperta di essere incinta e Kaleia era scoppiata a piangere. Voleva loro bene e al contempo li odiava, nonostante gli sforzi fatti da Eliza affinché lei e Sky non provassero questo. Un momento credeva che fossero state due figure amorevoli, un altro no e la sua testa si riduceva a un guazzabuglio di pensieri in contrasto. Per quanto fosse più espansiva di Sky, il loro dolore era lo stesso.
“Va bene, scusami.” La voce dolce di Christopher le fece tirare un sospiro di sollievo evitandole un’emicrania. “Allora di cosa? O di chi?”
“Di Eliza. È l’unica mamma che conosco, è lei che mi ha insegnato molte cose sulla vita e sull’amore.” Kaleia ritrovò il sorriso. “Sarò una brava mamma quanto lo è sempre stata lei con noi? E siamo pronti per diventare genitori?”
Suo marito rifletté per qualche istante.
“Mi pongo anch’io queste domande pensando a mio padre. Credo che nessun genitore sia mai davvero pronto a diventarlo, nemmeno quando vuole un figlio con tutto se stesso.” Le accarezzò i capelli e le scostò una ciocca dalla fronte. “Ma grazie a tua mamma e a te stessa sei diventata una persona con dei saldi valori, paziente, che ama i bambini e che ha altre mille qualità.”
“E difetti.”
“Anche, come tutti. Ma un innamorato li accetta e a volte fatica a vederli” ridacchiò, dandole poi un bacio. “Sarai una mamma meravigliosa.”
“Grazie, e tu un padre fantastico.”
Lui la strinse in un abbraccio e la ragazza ricambiò; restarono immobili per parecchio tempo a godersi il reciproco calore e la sicurezza di quella stretta, non facendo più caso al caldo della giornata. Cosmo si erse sulle zampe e parve volesse mettersi in mezzo, ma alla fine si sedette.
“Sì, ce la possiamo fare” asserì lei, più convinta e sciogliendo l’abbraccio. “Di sicuro non saremo i migliori, sbaglieremo, ma impareremo a non commettere più gli stessi errori con il tempo. Almeno spero.”
“Esatto, nostro figlio ci aiuterà in questo, pur non sapendolo.”
“Ci farà crescere.”
“Sì.”
Non lo dissero, ma tremarono, segno che i loro timori non erano scomparsi, benché parlarne avesse fatto bene a entrambi. Nei mesi successivi sarebbero aumentati soprattutto per lei con l’avvicinarsi del parto, Kaleia ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa. Per un momento le mancò il fiato, ma si toccò di nuovo la pancia e cercò di non pensarci. Mancava ancora tempo e, chissà, magari avrebbe potuto parlarne con qualcuno per dei consigli. Non ce la poteva fare da sola, aveva bisogno di sostegno e non solo dall’uomo che le stava accanto.
I due rimasero in silenzio a riflettere sul futuro che li attendeva, sulla vita che avrebbero vissuto non in due ma in tre. Stringere il loro figlio tra le braccia sarebbe stata un’emozione tanto forte che non riuscivano nemmeno a immaginarla, e da lì avrebbero iniziato un cammino come famiglia, fatto di alti e bassi, gioie e dolori, ma nonostante tutto sapevano una cosa: ne sarebbe sempre valsa la pena.

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Capitolo 25
*** Rivivere il passato guardando avanti ***


CAPITOLO 25.

 

RIVIVERE IL PASSATO GUARDANDO AVANTI

 
Andrew procedeva piano, ascoltando i suoni della natura attorno a sé. Tutto era tranquillo eppure pieno di vita, animali e piante si univano a formare un unico cuore che pulsava senza smettere mai.
Non farei queste riflessioni a Los Angeles.
La confusione e la fretta là regnavano sovrane, mancava il tempo per soffermarsi su cose del genere. Eppure, l’aveva capito davvero soltanto in quei giorni, farlo trasmetteva un senso di tranquillità che non aveva mai provato prima né durante le gite nei boschi attorno alla città, né al lago Tahoe. Inspirando ed espirando per riempirsi i polmoni dell’aria salubre di Eltaria, si disse che uscire era stata la cosa migliore. Farlo prima, però, gli avrebbe giovato e si pentì di aver scartato più volte l’idea.
Sono stato pigro.
Sospirò; le forze gli mancavano anche ora e faticava ad alzare lo sguardo, lo teneva rivolto verso terra. Avrebbe potuto mettersi a scrivere qualcosa. Lì tutto era stupendo, perfino il sole e, di sera, la luna parevano brillare di più. Si era portato dietro un taccuino e una penna nel caso gli fosse venuta l’ispirazione, ma per il momento non sentiva nulla. Li estrasse dalla tasca dei jeans e si mise a pensare, ma tracciò solo una leggera linea, non gli uscì nessuna parola, nemmeno qualcosa di stupido. Vero, non scriveva spesso, non più come una volta, ma possibile che non fosse in grado di buttare giù nulla? Non molto tempo addietro aveva scritto una poesia sulla depressione che Demetria aveva apprezzato e sperava che, pian piano, il suo lato creativo sarebbe venuto fuori di nuovo, com’era accaduto durante la sua adolescenza. Era circondato da piante piene di frutti e foglie verdi, camminava su erba e aghi di pino, migliaia di uccellini riempivano l’aria di gioia e, Dio, anche lui avrebbe voluto sentire appieno tutta quella vita. Ne percepiva le vibrazioni, in fondo in fondo, ma non come quando non era malato, non come quando Carlie stava bene e la vita era più semplice. Non avrebbe potuto portare indietro il tempo e cambiare le cose, ma sperava che grazie ai propri sforzi e all’aiuto che stava ricevendo un giorno sarebbe tornato a sentirsi se non del tutto bene, almeno meglio, tanto da poter vivere sereno.
Si sedette per terra, con la schiena contro il tronco di un albero che non gli interessava riconoscere, e trasse un altro profondo respiro. Non poteva presentarsi all’orfanotrofio in quello stato, avrebbe fatto preoccupare Demi, angosciato Eliza e agitato i bambini ed era l’ultima cosa che voleva, ma non desiderava nemmeno chiudersi di nuovo in casa. La sua mente gli sussurrava che, invece, quella era l’unica cosa da fare, ma Andrew capì che la depressione gli stava parlando e che voleva ingannarlo, farlo vivere da recluso. Perché a volte lasciare fuori il mondo è più semplice che affrontarlo, ormai l’aveva capito, ma in quella maniera non avrebbe più vissuto. Alzò le braccia e le lasciò ricadere a peso morto sulle cosce. Da mesi la depressione faceva talmente parte di lui che non riusciva a sradicarla, un morbo che gli si era attaccato alla pelle, alle ossa, che gli era entrato dentro, troppo in profondità, senza il quale non avrebbe potuto essere l’uomo che era ora. La malattia l’aveva cambiato, ma grazie al cielo non solo in peggio, anzi. L’aveva portato ad analizzare con maggior precisione i suoi sentimenti, ad accoglierli e non ad allontanarli, per quanto potessero far paura. In quel momento si sentiva triste e non fece nulla per cambiare le cose. Aveva imparato che a volte bisogna lasciare che sensazioni del genere passino da sé.
La mano gli tornò al taccuino, che si appoggiò sulle ginocchia. Guardò il sole nonostante il dolore agli occhi e il fatto che, per qualche istante, non vide più niente, poi chiuse le palpebre e immaginò la luna. L’aveva vista splendere in tutta la sua bellezza nei giorni appena trascorsi. Quasi piena, solcava il cielo come una regina attraversava il proprio regno in sella a un destriero bianco. Fu con quest’immagine in testa che le parole fluirono in modo automatico, senza che se ne rendesse conto.
 
 
La regina del cielo
 
Aspetta la notte, poi potrai osservarlo.
Il suo viso pallido, il suo esser libera ma in stallo.
 
Quando i giorni scompaiono e il buio la raggiunge,
La gente chiude gli occhi, o sospira e si strugge.
 
Pochi sono quelli che guardano il cielo,
Mentre lupi e altre bestie le professano amor sincero.
 
Due partecipanti in un gioco astrale,
Il sole si inchina alla luna per lasciarla respirare.
 
 
A volte si era fermato a pensare alle esatte parole per spiegare ciò che intendeva, ma gli risultò più facile di quanto si sarebbe mai aspettato. Era stato così anche per la poesia sulla depressione. Rilesse più volte il componimento, composto in poco più di mezz’ora.
Fantastico!
I versi erano liberi, ma non trovò nulla fuori posto. Alzò il taccuino e lasciò che i fogli sventolassero, desiderando che le sue parole si unissero alla natura,. Dopo un po’ lo rimise in tasca, al sicuro. Non credeva ci sarebbe riuscito, eppure era stato così e, tra l’altro, aveva utilizzato la sua lingua madre. Batté le mani e quei brevi colpi echeggiarono per il bosco, mentre un senso di soddisfazione lo pervadeva e lottava per sovrastare la tristezza, anche se questa mostrava unghie e denti per avere la meglio. Il mal di testa causato dalla confusione dei propri sentimenti arrivò poco dopo e lo attaccò con violenza facendolo gridare. Andrew corse a un ruscelletto nelle vicinanze e bagnò un fazzoletto che si passò sulle tempie e sul volto. La frescura dell’acqua diminuì la sofferenza fisica. Bevve qualche sorso e gli parve di respirare meglio.
Vedeva la poesia appena composta come un ringraziamento a quel mondo e a tutte le persone che stavano facendo del bene a lui e alla sua famiglia, e la scrittura gli trasmise sollievo.
“Ora sono pronto” mormorò.
Con il cuore più leggero, si avviò verso la sua meta.
 
 
 
Quando arrivò all'orfanotrofio, Demi si sentiva più carica che mai. La notte precedente non era stata delle migliori, non aveva dormito bene ed era rimasta ore a pensare all'attacco di panico del fidanzato e all'ansia che lei stessa aveva provato. Sarebbe mai riuscita a raccontare agli altri tutto il resto? Sentiva che lo doveva loro, che lasciarli in sospeso a domandarsi da dove provenissero quelle cicatrici non era corretto, dato che di sicuro si erano preoccupati per lei. Inoltre, avrebbe scommesso qualsiasi cosa che Eliza non aveva dimenticato quanto accaduto il giorno prima a pranzo, e come avrebbe potuto? Demi si rammaricò di aver fatto spaventare tutti, quello che era accaduto non le capitava spesso.
"Dovevi farmi star male proprio ieri?" chiese, parlando a se stessa e ad Ana. "Anzi, come mai ti sei presentata? Io sono guarita e, anche se ogni tanto torni, non mi fai più del male."
Si riscosse quando Eliza le fece notare che avrebbero dovuto proseguire, rendendosi conto di essere rimasta impalata in mezzo al corridoio. Si scusò e la seguì nella stanza in cui aveva incontrato i bambini più grandi, tra i quali Kady che le si gettò addosso.
"Miss Demi, sei tornata! Sei tornata!" esultò muovendo le braccia di qua e di là.
"Sì, piccola, sono qui. Credevi me ne fossi andata senza salutarti?"
La ragazza sorrise: la bimba era così contenta di vederla. Aveva cominciato ad affezionarsi a lei, ma non si sarebbe mai aspettata un'accoglienza tanto calorosa.
"No, però volevo rivederti."
Demetria si sentì sciogliere il cuore e si chinò a darle un bacio.
"Ora sono qui e vorrei fare con te e i tuoi amichetti qualcosa di bello."
"Cosa? Che cosa?" chiesero gli altri bambini in coro, smettendo subito di giocare.
Mentre camminavano per giungere lì, Eliza aveva spiegato alla cantante che l'orfanotrofio aveva una stanza in cui era presente un pianoforte.
"Io suonerò con il piano e canterò per voi, vi va?"
I piccoli si illuminarono. Kady disse che utilizzavano pochissimo quello strumento, solo una volta ogni due settimane quando una volontaria che aveva studiato musica veniva a suonare loro qualcosa e a farli provare.
"Sì, sì, sì!" esclamarono i bimbi chi saltando, chi correndo verso di lei e chi urlando.
L’aula di musica, se così si poteva chiamare, era grande e ariosa, con il pavimento in legno e due enormi vetrate dalle quali entrava tantissima luce.
Una volta che furono tutti seduti su delle seggioline in plastica, Demetria si accomodò davanti al pianoforte a coda. Era antico, con dei fiori incisi sul legno e alcune parti scheggiate, a simboleggiarne i piccoli danni causati dal tempo e, forse, da alcuni spostamenti o dalle tante mani che ci erano passate sopra. Immaginando che nemmeno i piccoli sapessero l'inglese, spiegò:
"Ora vi insegnerò una canzone nella mia lingua, che si chiama inglese. So che non la conoscete, ma ve la tradurrò dopo averla cantata e, se vi va, poi potrete seguirmi. Non importa se direte le parole sbagliate, se canterete solo la melodia o altre cose, l'importante è che capiate il ritmo, d'accordo?"
I bambini annuirono.
La ragazza accarezzò prima i tasti bianchi e poi quelli neri come se avesse voluto dire loro di suonare bene, di creare con lei qualcosa di incredibile. Dopo le prime note cominciò a cantare.
"Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are!
Up above the world so high,
Like a diamond in the sky.
Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are!
 
When the blazing sun is gone,
When the nothing shines upon,
Then you show your little light,
Twinkle, twinkle, all the night.
Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are!
[…]
"
La sua voce delicata, unita al suono dolce del pianoforte, riempiva l'aria e accarezzava i bambini che la guardavano e la ascoltavano a bocca aperta. Anche la loro maestra di musica era brava, ma Miss Demi la superava. Aveva una voce che la faceva somigliare a un angelo e riusciva a rendere quella canzone talmente bene che qualche bimbo, Kady compresa, sbadigliò perché quella melodia assomigliava a una ninnananna. Avvolgeva i bambini con il suo calore come farebbe una coperta in una fredda giornata d'inverno.
Quando Demi terminò, rimase qualche secondo con le dita sul piano. Le staccò e guardò il suo pubblico, che applaudì. Kady corse ad abbracciarla.
"Sei stata bravissima, ma come fai?" le chiese, con gli occhi ancora sbarrati.
"Nel mondo dove vivo sono una cantante, una persona famosa che scrive canzoni e fa concerti. Canto per tantissime persone, che sono i miei fan, che mi ascoltano e ai quali piace quello che scrivo."
Non aggiunse altro: sarebbe stato troppo complicato, soprattutto per i bambini di quattro e cinque anni, capire che le canzoni che componeva erano sempre personali e che alcune si riferivano alla sua storia passata, a quanto aveva sofferto.
Sono troppo piccoli per saperlo.
"Avete imparato le note musicali?" chiese, mentre sia Eliza sia un'altra volontaria le facevano i complimenti.
Un bambino alzò la mano.
"Ciao Miss Demi, mi chiamo Grant. Sì, Miss Hawkins ce le sta insegnando, però i bimbi più grandi sono più bravi. Vuoi farci un esame?"
La ragazza scoppiò a ridere così forte che per poco non cadde dalla sedia.
"Scusami, non voglio prenderti in giro, è che non mi aspettavo questa domanda. No, non vi farò nessun esame, ma potremmo divertirci con la musica, se vi va."
I trenta bambini urlarono che erano d'accordo e alzarono tutti entrambe le mani per enfatizzare la cosa.
"Va bene, va bene, siete contenti di farlo. Ne sono felice. Adesso suonerò una nota e, se qualcuno di voi saprà di quale si tratta, alzerà la mano. Dopodiché io chiamerò, tutto chiaro?"
"Sì, Miss Demi."
"Perfetto. Chi sa che nota è questa?"
Ne suonò una a caso, ma rimase nella scala delle sette note e si impose di non toccare i tasti neri, troppo difficili da riconoscere per dei bambini di quattro, cinque e sei anni che, sicuramente, non le conoscevano. Non sapeva che pensare degli altri, dato che non aveva idea di cosa la maestra di musica insegnasse loro.
Un altro bambino alzò la mano e Demi lo riconobbe.
"Sì, Edwin?"
"Un Do?" tentò, insicuro.
"Esatto. E quest'altra?"
"Un La" rispose Misty, convinta.
"No, tesoro, è un Fa. Il La è più alto, te lo faccio sentire." Suonò quelle due note un paio di volte per far capire loro la differenza. "Tra di esse ce n'è un'altra, chi la conosce?"
"È il Sol" rispose senza esitazione Kady.
"Giusto, eccola. E quella che suonerò adesso?"
Anche i bambini più grandi, che andavano dai sei ai nove anni, si fecero avanti. Nonostante giocassero e si divertissero come tutti gli altri, studiavano lì all’orfanotrofio con degli insegnanti e, quindi, la mattina erano a scuola – perciò Demi non aveva interagito molto con loro –, ma per quel giorno le maestre avevano deciso di fare un’eccezione e lasciarli divertire.
“Un Mi, è facilissimo” rispose una bimba che doveva averne circa nove, che guardò Demi con i suoi profondi occhi marroni.
“Bravissima! Come ti chiami?”
“Lydia, Miss Demi.”
“I bambini di quell’età imparano più in fretta, per cui l’insegnante di musica, con loro e gli altri di otto anni, fa tre ore ogni due settimane anziché solo una. Poi noi qui li facciamo allenare un po’ ogni giorno, tutti quanti” le sussurrò Eliza.
Demi annuì, anche se per lei i quindici giorni avrebbero dovuto ridursi a una settimana soltanto.
“Sei stata fantastica, Lydia! Ma dimmi, sapresti suonarmi qualcosa con il pianoforte?”
La piccola arrossì.
“S-sì, ma è una canzoncina semplicissima. Non sono brava come te” ammise, mentre la voce le tremava.
Demetria si rivolse a tutti.
“Io ho imparato con il tempo, sapete? Non ci ho messo un giorno, una settimana, un mese o un anno ma tanti, tanti anni. Canto da quando ne avevo cinque e pochi anni dopo ho imparato a suonare la chitarra e il piano, ma non è stato facile. Ho dovuto studiare molto, fare tante lezioni e allenarmi anche a casa. Quindi non preoccupatevi se non siete bravi come me, fate il meglio che potete e andrà benissimo così.”
I bambini sorrisero, sia i più grandi che sapevano già suonare qualche brevissima canzone, sia i più piccoli che conoscevano solo le sette note.
Lydia le lanciò uno sguardo interrogativo come a chiederle se sarebbe potuta venire e Demetria le fece cenno di sì. La bambina si sedette al piano e mise due dita su un paio di tasti, ma si ricordò che andavano posizionate tutte e cinque.
“Perfetto” la incoraggiò la ragazza.
La piccola suonò una canzoncina semplicissima con la mano destra, le sette note, un si bemolle e nulla più e aggiunse qualche accordo con la sinistra. Era una melodia ripetitiva, ma allegra e incalzante, tanto che mentre suonava e poi la rifaceva daccapo, tutti presero a battere le mani a ritmo. Poco dopo, un applauso scrosciante riempì la stanza e Lydia ringraziò tornando poi al suo posto, con il cuore gonfio di gioia.
“L’ho scritta io con il pentagramma” spiegò una volta seduta.
Demi sbarrò gli occhi.
“Dici davvero?”
A quell’età lei sapeva già scrivere musica, ma non era una cosa semplice.
“Sì, la maestra ce lo sta insegnando.”
“Complimenti! Qualcun altro vuole provare?”
Nessuno se la sentì.
Verso la fine di quella lezione Demi lasciò che, uno alla volta, i bambini dai quattro ai sette anni suonassero le note dal Do al Si. Alcuni lo fecero con una certa facilità, altri utilizzarono solo un dito e lei dovette spiegare loro che si faceva in un altro modo, altri ancora titubarono ma, alla fine, ognuno riuscì a esercitarsi con quella scala. Ai più grandi chiese di suonare diverse note che diceva a voce, o di fare qualche scala, o usare alcuni tasti neri e tutto andò bene, anche se non tutti i bambini avevano un buon orecchio. Lydia possedeva un orecchio relativo ottimo: non riconosceva tutte le note come nel caso di quello assoluto, ma sapeva farlo con moltissime.
"Miss Demi, possiamo cantare?" domandò Witney, una bambina di otto anni con i capelli nerissimi raccolti in tante treccine.
"Va bene, ma non conosco le canzoni che sapete voi. Posso ripetere piano quella di prima, e mi seguite come avevo detto."
Chi urlando, chi cantando, tutti riuscirono a ripetere la prima strofa e il ritornello. Alcuni bambini, come Kady, erano intonati, altri per niente. Demi ricordava che la sua insegnante di canto le aveva detto che se qualcuno che sembra non sappia cantare lo fa piano e segue chi è migliore di lui, poi può diventare più bravo. Demetria era convinta che con alcuni di loro sarebbe successo. Molti non riuscirono a pronunciare l'inglese, cantarono quello che credevano di capire, ma non importava, tutti furono in grado di seguire bene il ritmo anche quando Demi fece riprovare di nuovo loro la canzone ma a velocità normale.
Una volta finito tutti la circondarono, le si aggrapparono alle gambe, vollero essere presi in braccio, la strinsero e la ringraziarono e lei, sorridendo e dando baci sulle guance a destra e a manca, non avrebbe potuto sentirsi più felice. Aveva coinvolto dei bambini in quella che era la sua più grande passione, il canto, proprio come a volte faceva con le figlie.
“Miss Demi, puoi cantare e suonare ancora? Per favore, solo un’altra canzone!” la pregarono in coro e lei non riuscì a dire di no a quegli occhioni imploranti.
Stavolta optò per un brano di Taylor Swift che adorava: You’re Not Sorry. Parlava di una ragazza che, delusa da quello che credeva essere l’amore della sua vita, lo lasciava e gli diceva che, in sostanza, per loro non c’erano più speranze visto il comportamento di lui. Tristissimo, ma i bambini non l’avrebbero mai saputo. Si trattava di una canzone tranquilla che di sicuro sarebbe piaciuta loro. Si concentrò, guardò con intensità la tastiera, suonò le prime note malinconiche, infine trasse un profondo respiro e cantò.
All this time I was wasting hoping you would come around
I've been giving out chances every time and all you do is let me down
And it's taken me this long, baby, but I've figured you out
And you're thinking we'll be fine again, but not this time around
 
You don't have to call anymore
I won't pick up the phone
This is the last straw
Don't wanna hurt anymore
And you can tell me that you're sorry
But I don't believe you baby like I did before
You're not sorry (No no no no)
 
You're looking so innocent, I might believe you if I didn't know
Could've loved you all my life if you hadn't left me waiting in the cold
And you've got your share of secrets
And I'm tired of being last to know
And now you're asking me to listen 'cause it's worked each time before
[…]
La sua voce aumentò di potenza lungo il ritornello e i bambini la seguirono battendo le mani. Era incredibile come, durante il canto, le venisse così spontaneo usare l’inglese. La sua mente si liberava da catene invisibili che la tenevano legata, anche se non troppo stretta, e ciò le garantiva la libertà di esprimersi. Non le dispiaceva parlare in italiano, dato che capiva tutto e lo usava con scioltezza come utilizzare la sua lingua madre, le veniva naturale nonostante lo shock iniziale, ma tutta quella situazione era a dir poco surreale.
Cantando riusciva a liberare le proprie emozioni, anche se quella canzone non le ricordava niente di specifico. La aiutò, però, a essere ancora più leggera. L’applauso che seguì la riportò alla realtà e le fece spuntare un luminoso sorriso sul volto. I bambini si complimentarono e la abbracciarono ancora.
“Grazie, grazie! Siete i miei migliori fan!”
Si fece dare da Eliza un blocchetto di foglietti e spiegò ai bimbi cosa fosse un autografo, dopodiché chiese se sarebbe piaciuto loro averne uno suo. I piccoli, eccitati da quella novità e dal fatto che Miss Demi, nel proprio mondo, fosse una celebrità, urlarono un “Sì!” talmente entusiasta che la ragazza si commosse. Rendere felici quei piccoli che non avevano una famiglia era pura gioia per il suo cuore.
Ciao Kady, sono Demi Lovato o Miss Demi, come preferisci.
Sei una bambina forte. Tu sorridi sempre, ma non c’è nulla di male a sfogarsi ogni tanto, se ne senti il bisogno, ricordalo. Ti auguro di avere una vita felice, qualunque cosa farai.
Ti voglio bene!
Scrisse questo nel biglietto destinato alla piccola amica, che se lo strinse al cuore.
“Non lo perderò mai, Miss Demi, te lo prometto. Lo metterò in una scatola al sicuro.”
Alcuni bambini le chiesero se la seconda canzone che aveva cantato era sua e lei spiegò di no, che apparteneva a un’altra ragazza.
“Perché non ci canti qualcosa di tuo, Miss Demi?” le domandò Justin, uno dei bambini più grandi.
“Mi piacerebbe, magari domani” rispose lei, vaga.
La verità era che non avrebbe saputo quale scegliere dato che alcune sue canzoni trattavano, anche se in modo un po’ indiretto, argomenti pesanti. I piccoli non avrebbero capito, ma non voleva renderli tristi con la sua musica.
Forse qualche canzone di “Camp Rock” o “Camp Rock 2” pensò.
Anche negli altri biglietti Demetria utilizzò parole simili riguardo la forza dei bambini, nella quale credeva con tutta se stessa visto quello che avevano passato, e augurava a tutti di essere felici e di rialzarsi sempre nonostante le difficoltà. Usò espressioni semplici ma efficaci e ognuno apprezzò quel gesto. Ma più che dai ringraziamenti, Demi rimase colpita dai loro sorrisi, che parevano più luminosi del sole. Non aveva fatto un granché per loro se non aiutarli a divertirsi, ma per quei bimbi il suo gesto valeva moltissimo.
 
 
 
I bambini tornarono a giocare e le volontarie li portarono in giardino. Quando sarebbe stato più fresco l'avrebbero fatto anche con quelli più piccoli, spiegò Eliza a Demetria, perché ritenevano importante che non restassero tutto il giorno chiusi dentro quando fuori splendeva il sole. L'aria pura faceva bene a tutti, in fondo.
“Fanno benissimo,” disse la cantante, “è sempre bello stare all’aria aperta.”
Lei e la donna li seguirono e li osservarono mentre giocavano a nascondino accucciandosi dietro gli alberi o a prendersi. Kady scivolò e cadde, ma riuscì a proteggersi la testa. Si sporcò il vestitino azzurro di fango ma, prima che potesse andare da qualcuno a farsi aiutare, un bambino le si parò davanti.
“Lui è Sebastian, ha nove anni e Kady bambina non ci ha mai avuto molto a che fare” spiegò Eliza a Demi.
Kady gli sorrise, credendo che volesse darle una mano.
"G-grazie" balbettò la piccola, porgendogli la mano perché lui la stringesse.
Ma quello la fissò e scoppiò a ridere così forte che fece voltare altri bambini.
"Fai schifo, fai schifo" cantilenò. "Sei tutta sporca e maldestra, nessuno ti adotterà mai finché continuerai così."
Demi, che si era avvicinata per dare una mano alla piccola, udì quel commento e sbarrò la strada al bambino che se ne stava andando. Kady, intanto, era rimasta a bocca aperta e i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime. Li strinse per trattenerle fino a sentire una fitta di dolore che li penetrava in profondità. Si trovava lì da due anni e nessuna famiglia l'aveva ancora presa con sé, né i genitori erano tornati – ormai sapeva che non l'avrebbero fatto più, anche se nel profondo del cuore ci sperava –, ma non aveva mai pensato fosse colpa sua. Un nodo le serrò la gola e, quando deglutì per non vomitare, faticò. Il suo stomaco era sottosopra e aveva la nausea. Le lacrime le inzuppavano i capelli e finivano sulla terra della quale percepiva l'odore delicato. Le sarebbe piaciuto, lo apprezzava soprattutto dopo la pioggia, ma in quel momento non ci badava. Per paura di fare troppa pena si tirò su, barcollando a causa della vertigine che la colse, e guardò cosa stava succedendo.
"Non puoi comportarti così" disse Demi a Sebastian, serissima. "Non devi prendere in giro i tuoi compagni, nemmeno se fanno qualcosa di sbagliato. E non è giusto che tu le abbia detto quelle cose.”
“Perché?” chiese lui. “Io stavo solo scherzando. Non posso nemmeno fare questo?”
“Puoi, ma con gli scherzi veri, non con le prese in giro.”
Kady guardava Demi con gli occhi sgranati. Quando era arrivata all'orfanotrofio e aveva paura di giocare con gli altri bambini, alcuni l'avevano presa in giro.
"Se non ti avvicini a noi, allora sei stupida e non vuoi giocare."
"Ma io voglio!" aveva insistito lei, "solo che non riesco. Ho paura."
"Paura di noi? Allora sei una fifona."
Le volontarie l'avevano difesa assieme a Misty ed Edwin e le donne e la psicologa avevano spiegato ai bambini che la offendevano che non dovevano comportarsi così con chi aveva qualche difficoltà, ma anzi, aiutarlo. E Demi, che la conosceva soltanto da due giorni, stava facendo lo stesso.
Hai mai pensato a quanto fai soffrire le persone con questo atteggiamento, anche se magari non vuoi?” riprese la cantante, rispondendo alla domanda di Sebastian. “Non sono solo prese in giro che a te sembrano divertenti, sugli altri non hanno questo effetto. Non c'è niente da ridere, Sebastian." Sperò di non aver usato un linguaggio troppo complesso per un bambino di quell'età o di non essere stata troppo brusca. "Sai, quando ero piccola anch'io ho subito molte prese in giro, che si sono ripetute per giorni, mesi, anni e sono quindi diventate una cosa che, nel mio mondo, si chiama bullismo. Per esempio, quando avevo nove, dieci anni ero grassottella e venivo offesa per questo. Piangevo sempre perché i miei compagni vedevano solo quello che non andava in me e non usavano il loro tempo per conoscermi. Negli anni la cosa è peggiorata, ma questa è un'altra storia."
Sebastian rimase qualche secondo a guardarla come inebetito.
"Non pensavo l'avrei fatta stare così male."
Abbassò gli occhi e sospirò.
"Lo so, l'importante è che tu l'abbia capito. Adesso chiedi scusa e non farlo più" gli suggerì la ragazza con dolcezza.
"Scusami, Kady, non volevo essere tanto cattivo. Spero che un giorno troveremo entrambi una famiglia."
Le sue parole le sembrarono sincere, per cui la bambina gli diede la mano.
"Va tutto bene, ti perdono" mormorò prima di allontanarsi con Demi. "È colpa mia se sono ancora qui?" le domandò, mentre un'altra lacrima le rotolava lungo uno zigomo.
"No, Kady, non devi nemmeno pensarlo. Nessuno è in quest'orfanotrofio per colpa sua, credimi. Tu ti ci trovi, come gli altri, perché la vita ha voluto così, ma non significa che ci resterete tutti per anni. Sei una bambina meravigliosa, ricorda quello che ti ho scritto nel biglietto."
La ragazza la abbracciò, incurante di sporcarsi e la baciò su una guancia mentre Kady ricambiava con un sorriso.
"Va bene, allora ti credo. Grazie, Miss Demi."
 
 
 
Non appena ebbero portato dentro i bambini, Demetria ed Eliza fecero una pausa nella quale uscirono dall'orfanotrofio e mangiarono alcuni frutti del bosco.
"Mi dispiace per quello che hai passato. Quando hai detto che quella è un'altra storia mi sono venuti i brividi. Dev'essere stato brutto."
La cantante le raccontò che una volta una sua compagna aveva lanciato una petizione chiedendo di firmare. C’era scritto:
Demi dovrebbe uccidersi.
"L'hanno fatto tutti. Avevo dodici anni, credo" concluse con voce strozzata.
"Ma è terribile!" Eliza non sapeva che altro aggiungere. Come potevano esistere persone del genere? "I tuoi genitori non sapevano nulla?"
Demi tirò su col naso.
"Avevo parlato a mia mamma di quello che succedeva, ma mi aveva risposto di lasciar stare." Non se la sentiva di raccontare tutta la storia, ma aggiunse che si era procurata il primo taglio a undici anni a causa dei bulli e del fatto che quello, secondo lei, era un modo per affrontare la situazione, per provare sollievo dal dolore psicologico.
"Tenevo tutto nascosto, l'ho detto solo ad Andrew a dodici anni, facendogli giurare di non raccontare nulla. Lui me l’ha promesso nonostante fosse più grande e, in teoria, maturo di me, solo dopo ci siamo resi conto di aver fatto una cazzata."
La donna guardò con attenzione quelle cicatrici. Demi le aveva lasciate scoperte, dato che aveva raccontato tutto e che quasi non si vedevano. Alcuni bambini, Kady compresa, prima di entrare si erano avvicinati e le avevano chiesto cosa fossero quelle linee bianche sulle sue braccia.
“Mi sono fatta tanto male da piccola, cadendo” aveva risposto.
Eliza le sfiorò le cicatrici con dita tremanti e Demetria, che non si aspettava quel gesto, fu percorsa da un lieve brivido, ma poi lasciò fare.
"Procurarsi ferite e sofferenza fisica per sentire meno quella psicologica" mormorò la donna. "Non lo capisco. Non sto dicendo che sia sbagliato, non so cosa pensare a riguardo, solo che non riesco a comprendere una cosa del genere, è più grande di me. Non ho mai avuto esperienze simili, nemmeno indirette. Insomma, se una persona si taglia mette in pericolo la propria vita, e se già sta soffrendo non peggiora la sua situazione?”
Che senso aveva? Come Demi le chiarì, il dolore a volte porta alla disperazione e, quando non si riesce a esternarlo per qualsivoglia motivo, in certi casi si può arrivare anche a questo. Disse che i bulli l’avevano portata a odiarsi, a disprezzare il suo corpo e a vergognarsi di esso e di se stessa, e il dolore per quella situazione aveva fatto il resto. Il sangue, aggiunse Demi, per lei era sempre come un pianto: lacrime scarlatte che cadendo nel lavandino l'avevano fatta sentire, per un po', sollevata, perché anche se aveva odiato con tutta se stessa il dolore fisico e lo faceva ancora, i suoi demoni avevano esultato ogni volta che si era ritrovata in mano una lametta di qualunque tipo. Poi aveva iniziato a tagliare da un lato del polso o più in su.
"Il sangue usciva lento e la sofferenza si propagava sempre come una stilettata" continuò a spiegare.
"Pensavo a quello che mi dicevano i bulli, al fatto che mi chiamavano grassa, puttana, puttanella e allora proseguivo con i tagli, finché a un certo punto il dolore fisico spariva e iniziavo a sentirmi libera. Il peso che mi gravava sul cuore svaniva e tornavo a respirare. Durava poco, poi stavo peggio e mi odiavo, mi dicevo:
“Guarda che schifo hai fatto”,
ma non riuscivo a fermarmi. Dopo il primo taglio, l'autolesionismo si trasforma in una dipendenza, non ne puoi fare a meno."
Eliza le domandò se non avrebbe potuto smettere o parlarne con qualcuno.
"So che è strano, ma non credevo fosse un problema e non è così semplice. Il bisogno di farsi male è più forte della propria volontà. Anche se a un certo punto mi sono resa conto che era pericoloso, fermarsi mi veniva impossibile. Dopo il ricovero in clinica per curare questo e altri disturbi ho avuto giorni sì e ricadute finché ho smesso, ma ci sono voluti anni."
L'altra rimase senza parole.
Per gli abitanti di Eltaria, rifletté Demi, tematiche come autolesionismo, disturbi alimentari, ansia e depressione dovevano essere qualcosa di estraneo e in certi casi forse sbagliato e inconcepibile.
"Immagino ti sia difficile, se non impossibile capire, veniamo da due mondi diversi e abbiamo avuto esperienze differenti. Non mi aspetto che tu comprenda, ma già il fatto che mi abbia ascoltata, che non mi giudichi e mi rispetti per me vale tanto."
Eliza si schiarì la voce.
"Io so solo che hai sofferto moltissimo, Demi, forse più di quello che mi hai detto. E che sei più forte di quello che pensi. Le cicatrici ne sono la prova: hai superato gli anni orribili dei quali mi hai parlato e ne sei uscita. Le ferite che abbiamo ci rendono più coraggiosi e non solo quelle dell'anima o del cuore. Non mi permetterei mai di giudicarti, non mi sembra corretto dato che non conosco a fondo il problema e, anche in quel caso, non lo farei."
La ragazza ringraziò Eliza e si lasciò cullare tra le sue braccia come avrebbe fatto tra quelle di sua madre. Respirò a fondo il profumo fresco della donna e si sentì non solo capita, almeno in parte, ma anche al sicuro, lontana dai pregiudizi e dalle cattiverie della gente del suo mondo. Mangiò un'altra manciata di fragole, cercò di sorridere e, assieme a lei, rientrò.
Si diresse con Eliza nella stanza dei neonati. Julie stava dando il latte a Thior e loro due si occuparono degli altri tre – Lilith era stata messa proprio quella mattina assieme ai dieci bambini dai due ai cinque mesi.
"Lilith sarà adottata domani, sai?" annunciò Julie a Demi che, in quel momento, stava nutrendo Maisy.
"Davvero?"
La ragazza era sorpresa. Nessuno gliel'aveva detto il giorno prima.
"Già. Quella coppia, della stessa razza della piccola, desiderava un bambino ed essendo giovane la Direttrice ha scelto di dar loro un neonato.”
Demi non aveva ben capito come funzionasse lì l'iter adottivo, ma era sicura di una cosa: le volontarie e la Direttrice amavano i bambini e volevano il meglio per loro.
"Sono contentissima per lei.” Una singola lacrima le rigò la guancia. “Verranno a prenderla domani mattina?"
"Sì, presto, dopo aver fatto un altro breve colloquio e firmato altri documenti. In seguito, per circa sei mesi la Direttrice, aiutata da alcune di noi e dalla fata che lavora come psicologa, controllerà di persona come stanno andando le cose e infine, dopo un ultimo colloquio generale che prenderà in considerazione anche quanto accaduto in quel periodo, finalizzerà l'adozione con un altro documento."
"Questa procedura è simile alla nostra, anche se più semplice" commentò Demi.
Appena fece il suo ingresso nella stanza in cui si trovava Lilith, la cercò subito.
"Ehi, ciao!" esclamò, prendendola in braccio dalla carrozzina nella quale era stata posta. "Ho sentito che domani incontrerai la mamma e il papà. Sono sicura che avrai una vita meravigliosa."
Le accarezzò i capelli neri e le diede un bacio su una guancia, mentre gli occhi le diventavano di nuovo lucidi.
Se la meritava. Una volta che avesse saputo di essere stata abbandonata si sarebbe sentita ferita. La vita le avrebbe riservato alti e bassi come a tutti, ma Demi pregava in cuor suo che la sofferenza non sarebbe stata troppa. Si augurò che i genitori avrebbero deciso di dirle di essere stata adottata. Durante gli incontri che aveva seguito durante l'iter adottivo, gli assistenti sociali avevano detto che farlo era importante, perché se un bambino veniva a saperlo in seguito poteva sentirsi sì felice per aver avuto una bella vita con due genitori amorevoli, ma anche tradito per averlo scoperto tardi o, ancora peggio, per caso. Cullò la bambina finché non si addormentò, stando sempre attenta a non fare movimenti bruschi. Non avrebbe mai voluto che si ferisse dopo esserle caduta, anche se ricordava una frase che le aveva sempre detto Dianna:
"I neonati si fanno male come tutti i bambini, ma sono più forti di quello che pensi, sembrano di gomma."
Lei aveva riso, però crescendo aveva finito per capire che era la verità.
 
 
 
Quando Andrew, che aveva deciso di fare una deviazione, la raggiunse all'orfanotrofio, Demi ne fu contentissima. Gli presentò Lilith, che ora dormiva e che lui non volle prendere in braccio per non disturbare. Eliza e i due fidanzati uscirono dalla stanza lasciando i piccoli con due volontarie.
Stavano per dirigersi in quella dei bambini dai sei mesi all'anno, quando una bambina corse verso di loro e, una volta davanti alla cantante, prese a saltellare.
"Miss Demi, Miss Demi, sei ancora qui!"
"Che accoglienza, Kady. Che c'è?"
La piccola indossava un altro vestitino, stavolta giallo.
"Niente, volevo salutarti e la volontaria ha detto che potevo. Lui chi è?"
L'uomo si fece avanti.
"Ciao Kady, io sono Andrew. Demi mi ha parlato benissimo di te."
Le sorrise e le diede la mano, che lei strinse.
"Sei il suo fidanzato?" domandò, diretta come molti bambini della sua età.
"Kady!" la rimbrottò Eliza, ma i due stavano ridendo.
"Sì, lo sono, stiamo insieme da nove mesi ormai, ma siamo amici da sempre."
"Che bello! E adesso vi date un bel bacio?"
"Non qui, tesoro, non è il posto giusto" le spiegò Demi, tentando a fatica di trattenere la propria ilarità.
"Domani verrò di nuovo, d'accordo? Mi fa piacere e poi così potrò passare più tempo con te, i tuoi compagni e gli altri bimbi per giocare. Ne saresti felice?"
"Tantissimo! Verrai? Promesso?"
Lui le scompigliò i capelli.
"Promesso."
"Fantastico!" Kady diede un bacio a entrambi quando questi si chinarono alla sua altezza e li abbracciò. "Ora torno a giocare, a domani."
E corse via.
I fidanzati si guardarono.
"Mi avevi detto che era sempre felice, tuttavia non immaginavo così tanto. Mi sa che hai ragione, in parte è una facciata" sussurrò Andrew all'orecchio della ragazza, facendo comunque in modo che anche Eliza potesse udire.
"Già." Demi sospirò. "Sono preoccupata. Forse pensa che io possa adottarla o che lo faremo insieme. Le sono entrata nel cuore e non vorrei che…"
Quando avesse saputo che i due non avrebbero potuto, il dolore per la piccola sarebbe stato insopportabile. Già la vedeva piangere ai loro piedi, avvinghiarsi alle caviglie di entrambi e supplicarli di adottarla.
"Non preoccuparti, Demetria, non dovrai darle nessun dispiacere" intervenne Eliza.
Andrew e la sua ragazza le lanciarono uno sguardo interrogativo.
"Lei ancora non lo sa, glielo comunicherà la Direttrice oggi pomeriggio nel suo ufficio, ma anche Kady è stata adottata. Andrà via la settimana prossima. Con lei oggi ci sarà anche la psicologa, per darle una mano in questi giorni a prepararsi per l'incontro. Non conosco la famiglia, ma Theresa mi ha detto che sono una fata del vento come lei e un folletto dell'acqua e che sono meravigliosi, anche loro sottoposti a tantissimi controlli prima di poter adottare. Si tratta di una famiglia semplice, giovane, sposata da poco. Theresa mi ha spiegato che sono dolcissimi, quindi speriamo che l'incontro e tutto il resto vada bene."
"E nei casi in cui l’incontro non va per il meglio?" domandò Andrew.
A volte, purtroppo, poteva accadere.
"La psicologa cerca di capire con il bambino i motivi per cui le cose sono andate male, ma nella maggior parte dei casi i genitori non possono tornare e adottarlo e lui dovrà aspettare ancora. Sono sicura, però, che non sarà il caso di Kady. Chiede dei suoi, è vero, ma sa anche che loro non torneranno. Non si è rassegnata, però aspetta comunque che qualcuno la adotti. In realtà io so, perché la conosco, che ha molta rabbia repressa. La Direttrice ha consigliato ai genitori di farla seguire da un'altra fata di loro scelta che fa il mestiere di psicologa, perché ne ha bisogno. Inoltre questi giorni non saranno facili: per un bambino rendersi conto che c'è la possibilità di avere una famiglia è spesso motivo di forte ansia."
"Più o meno quello che mi ha detto la mia assistente sociale" ricordò Demi.
Chiese se sarebbero potuti uscire un momento.
Si ritrovarono nello stesso luogo in cui lei ed Eliza erano andate per parlare in tranquillità e, dopo essersi seduta su un tronco di un albero caduto, la cantante scoppiò in lacrime.
Eliza e Andrew non sapevano come comportarsi. Non riuscivano a capire la causa di quel pianto improvviso, per cui non avevano idea di come aiutarla.
Demi singhiozzava e non cercava di soffocare i gemiti di dolore che, anzi, risultavano amplificati perché teneva le mani davanti al volto. Si sarebbe volentieri presa a schiaffi: avrebbe dovuto essere felicissima per Kady e, invece, si premeva un palmo sul petto perché una dolorosa e continua fitta lo dilaniava. Era come avere una mano con unghie affilate che, con lentezza, penetrava in lei per cercare di strapparle il cuore. Quest'ultimo si spezzò, le parve di sentirne lo schiocco, un suono cupo che rimbombò per tutto il bosco. Tremava da capo a piedi e non riusciva a tenere ferme né le braccia, né le gambe, mentre il proprio petto sussultava a ogni singhiozzo. Nella sua testa, un martello batteva e batteva facendola impazzire. Si accorse di aver chiuso gli occhi per non versare altre lacrime solo quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla.
"Demetria, cara, sono andata a prenderti del cioccolato fondente e un po' di succo di frutta. Li vuoi?"
Eliza l'aveva vista impallidire come un cadavere e, dopo essersi accorta che sudava, aveva capito che forse darle da mangiare e da bere sarebbe stata la cosa giusta.
La ragazza annuì: aveva bisogno di zuccheri.
"Grazie."
Mangiò e bevve in silenzio.
"Scusatemi" disse sussurrò.
"Figurati, amore, ci siamo solo preoccupati per te. Hai paura che qualcosa vada male tra Kady e la sua famiglia?"
Andrew le si sedette accanto e le prese la mano con la stessa dolcezza con la quale aveva parlato.
"No. Non li conosco nemmeno, non posso giudicarli e mi fido delle parole di Eliza e della Direttrice. Io sono contentissima per Kady, è solo che mi ci sono affezionata più di quanto chiunque possa immaginare. È strano, dato che la conosco da soli due giorni, ma qui ho fatto conosciuto gente a velocità impressionante, quindi ormai non mi stupisco più di nulla. Molte cose, compresa questa, sono diversissime per noi rispetto al nostro mondo, benché comunque io mi affezioni con facilità a un bambino. Mi sono innamorata di Hope e Mackenzie solo vedendole in foto, forse perché sapevo che avrebbero potuto diventare mie figlie, non ne ho idea, ma è successo e mi è capitato anche qui, pur con meno intensità. Se potessi io la adotterei, e non sto scherzando o esagerando. Lo farei con tutti, ma Kady… non riesco a spiegare, lei mi ha conquistato il cuore per la sua simpatia, quella felicità e soprattutto per il candore e la dolcezza che la caratterizzano” disse con convinzione. “Il solo pensiero che andrà via, che forse la vedrò partire o magari no – chi lo sa? –, mi spezza il cuore."
Il suo ragazzo ed Eliza rimasero in silenzio per qualche istante. Le sue erano state parole intense e dette con la voce che rischiava di spezzarsi.
"Anche se non potrai stare con la piccola, Kady ti ricorderà per il resto della vita, ne sono sicura" le disse Eliza abbracciandola. "E tu farai lo stesso con lei. Quella bambina ti ha dato affetto, ti ha fatta ridere e succederà ancora e tu le hai trasmesso tutto il tuo amore. È questo che le resterà nel cuore e credimi, vale tantissimo sia per lei sia per gli altri piccoli. Non tutti lo rammenteranno, ma lo sentono e lo faranno ancora, è questo che conta."
"Eliza ha ragione.” Andrew le prese la mano. “Hai un cuore grandissimo con un amore infinito da dare, lo fai con Hope e Mackenzie e anche con questi bambini, benché non siano tuoi figli. Tu, Demi, sei speciale per questo. L'amore non è solo ricevere ma soprattutto dare e ne sei l'esempio."
La ragazza si commosse, colpita dai loro discorsi: non si aspettava di ricevere dei complimenti perché riusciva ad amare, una cosa che le veniva naturale come respirare.
"Mi godrò al massimo questi giorni con lei e con tutti loro" asserì. "Mi sono emozionata prima, per Lilith, ma non credevo che per Kady avrei avuto questa reazione."
Si asciugò gli occhi, riprese a respirare con regolarità e, calmata dai suoni della natura che tanto amava, rientrò poco dopo.
Passò a salutare Martin e Clary, che vollero essere presi in braccio, poi si diresse nella stanza in cui era già stata altre volte. Andrew riconobbe subito i due bimbi con i quali aveva giocato qualche giorno prima. Inseguì il più grande a piedi e lo lasciò sempre vincere e il secondo, ancora malfermo sulle gambe, carponi. Demetria salutò Harold, che lanciò gridolini di gioia e allungò le mani per essere preso in braccio.
“Siamo fortunatissimi questa settimana” annunciò Eliza.
“Anche lui sarà adottato?” tentò la ragazza.
“Esatto, da due gnomi, verranno a prenderlo domani. Di solito non capitano così tante adozioni in pochi giorni, ma ci sono sempre più coppie o single che adottano bambini, perciò…”
Le parlò anche di una donna single, una fata della natura. Quando la Direttrice le aveva chiesto se il sesso del bambino che avrebbe desiderato adottare le importava, aveva risposto di no.
“Come ho fatto io” disse Demi.
“Ma poi ha aggiunto che pensava che con una femminuccia le cose sarebbero andate meglio in quanto riteneva più difficile crescere un maschietto senza una figura paterna. Non è stata insistente a riguardo, la sua era solo una considerazione.”
“Ah. E quindi?”
Intanto, Harold tirava i capelli di Demi che cercava di non gridare e di liberarsi, purtroppo con poco successo. Come Hope alla sua età, anche lui aveva una forza non indifferente.
“Forse Ayanna, la pixie con cui hai giocato, se ne andrà. Non subito, tra qualche mese credo, ma la Direttrice è convinta. È qui, come Harold, da quando è nata e la fata ha solo ventuno anni, perciò non potremmo darle un bambino di cinque, per esempio, o meglio sì, ma Theresa preferisce fargliene adottare uno piccolo che però sia qui da parecchio. Cerchiamo sempre di dare prima in adozione i piccini i cui casi sono più urgenti per qualsivoglia motivo, per esempio se sono qui da molto o se si tratta di gruppi di fratelli benché tutti, senza distinzione di razza sesso o età, abbiano diritto a trovare una famiglia.”
Demi disse che anche nel suo mondo era così, aggiungendo che i bambini con la pelle di un colore diverso facevano più fatica a essere adottati, anche se lei non ne capiva la ragione. Domandò poi a Eliza se poteva raccontarle tutte quelle cose: in fondo si trattava di possibili genitori adottivi e le loro scelte, nel suo mondo un’assistente sociale non si sarebbe mai permessa di andare così a fondo nelle loro vite con qualunque altra persona. Eliza non svolgeva quella professione e lì, di sicuro, non c’era in molti casi l’idea del segreto professionale, ma le risultava comunque strano.
“Ci è concesso parlarne non entrando troppo nella loro vita privata e rivelando pochi dettagli. Io ti ho solo spiegato quello che ha detto, non il suo passato o cosa l’ha portata a decidere per l’adozione.”
Demetria annuì.
Harold volle scendere e, gattonando sul tappeto, si avvicinò al cesto dei giocattoli. Con una leggera fatica tirò fuori un Arylu di peluche e prese a batterlo per terra. A nove mesi d’età, riusciva a stare seduto da solo senza un sostegno come in quel momento anche se, ogni tanto, le volontarie lo circondavano di cuscini per sicurezza.
Demi si avvicinò ad Ayanna che, seduta anche lei, si divertiva invece con un Pyrados di pezza.
“Ciao, tesoro” mormorò la ragazza accarezzandole la testolina rossa.
La bambina alzò gli occhietti grigioverdi verso di lei e le sorrise, riconoscendola. Demi sapeva che, a un anno, i bimbi riescono a farlo solo con due o tre persone, primi fra tutti i genitori e sentì il suo cuore scaldarsi quando la piccola si diresse da lei con il passo più spedito che poté e le prese le caviglie per essere sollevata. La ragazza sorrise e la prese in braccio, e dopo averle dato la merenda come fecero anche Andrew, Eliza e l’altra volontaria con i loro piccoli, la portò nel bagno lì vicino per cambiarla. Non fu facile, la bambina scalciò e strepitò senza sosta per minuti interi, ma a lavoro finito Demetria tornò con lei nella stanza.
Giocarono di nuovo con i cubi, costruendo una torre ancora più alta della volta precedente e, grazie al cielo, la piccola non la fece cadere.
“Sono bellissimi, vero?” chiese Andrew alla fidanzata, avvicinandosi con il piccolo leprecauno di sei mesi fra le braccia.
“Meravigliosi.”
L’uomo fece il solletico ai fianchi della bambina che rise un sacco e agitò le gambette dando, senza volerlo, piccoli calci a Demi.
Dopo aver affidato il bimbo a una volontaria Andrew giocò con la piccola facendole rotolare davanti una pallina che Ayanna prendeva con le mani e cercava di rilanciare.
Le ore passarono e, a mezzogiorno, la coppia ed Eliza decisero di uscire per un altro breve momento di pausa.
 
 
 
CREDITS:
Twinkle, Twinkle, Little Star è una ninnananna la cui melodia è francese, intitolata Ah! Vous Dirai-Je, Maman, di M. Bouin. Le parole, invece, sono state scritte per la prima volta da Jane Taylor in una poesia intitolata The Star.
 
 
 
NOTE:
1. Demi è stata vittima di bullismo e racconta della petizione della sua compagna nel documentario Simply Complicated. Era stata presa di mira anche prima, a causa del suo peso, come spiega la ragazza qui e come scrive sua madre nel libro “Falling With Wings: A Mother’s Story”. La piccola parlava alla mamma di quanto succedeva, ma lei le diceva di ignorare i bulli, così la bambina ha iniziato a mandare lettere a questi ultimi con scritti insulti pesanti. Solo quando Demetria ha chiamato la mamma, terrorizzata, mentre i bulli la inseguivano e lei era nascosta in un bagno la donna si è resa conto della gravità della situazione. L’ha ritirata da scuola e nessuno è stato punito. Ma Dianna scrive anche che non aveva capito che quest’esperienza e tutto il bullismo passato avevano lasciato nella figlia segni più profondi.
2. La riflessione sul sangue e le lacrime è inventata, così come la descrizione del suo primo taglio (non so come sia andata davvero, ovvio), ma il fatto che Demi si vergognasse di se stessa e trovasse nell’autolesionismo uno sfogo non lo è.
3. In un’intervista con Robin Roberts a “20/20” dice:
"It was a way of expressing my own shame, of myself, on my own body. I was matching the inside to the outside. And there were some times where my emotions were just so built up, I didn't know what to do. The only way that I could get instant gratification was through an immediate release on myself. […]
I don’t think I was ever trying to kill myself. But I knew that if I’d ever gone too far I wouldn’t care.”
 
Traduzione:
“Era un modo per esprimere la vergogna di me stessa, sul mio corpo. Stavo facendo corrispondere l’interno con l’esterno. E c’erano volte in cui le mie emozioni erano così represse che non sapevo cosa fare. L’unico modo in cui potevo avere un’immediata gratificazione era attraverso un sollievo istantaneo su me stessa. […] Non penso di aver mai provato a uccidermi. Ma sapevo che se mai fossi andata troppo in là non mi sarebbe importato.”
4. Emmastory ha scritto la poesia di Andrew. È pubblicata anche nel suo profilo e abbiamo deciso di riportarla qui.

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Capitolo 26
*** Il futuro in quel mondo ***


I’ve battled demons that won’t let me sleep
Called to the sea but she abandoned me
But I won’t never give up, no, never give up, no, no
 
No, I won’t never give up, no, never give up, no, no
And I won’t let you get me down
I’ll keep gettin’ up when I hit the ground
Oh, never give up, no, never give up no, no, oh
I won’t let you get me down
I’ll keep gettin’ up when I hit the ground
Oh, never give up, no, never give up no, no, oh
(Sia, Never Give Up)
 
 
 

CAPITOLO 26.

 

IL FUTURO IN QUEL MONDO

 
Mentre si dirigevano alla porta, un campanello risuonò per tutto l’orfanotrofio.
Eliza sospirò.
“Qualcuno ha abbandonato un bambino.”
La Direttrice li raggiunse correndo e, senza fiatare, aprì la porta e il cancello. Lì fuori trovarono una lanterna con dentro un folletto già trasformato in neonato, forse di quattro mesi. Piangeva forte e di fianco a lui c’era una lettera.
“Possiamo?” domandò Demi con un filo di voce.
Theresa annuì e la ragazza lo sollevò piano. Era vestito bene, con una tutina azzurra non troppo leggera, in modo che non prendesse freddo a causa della brezza frizzante che stava soffiando. Il suo visetto era paffuto e il piccolo appariva ben nutrito, non pareva sudare, né al contrario avere freddo. Chi l’aveva lasciato lì doveva amarlo. La ragazza si isolò per un momento da tutto e tutti, concentrandosi solo sul bambino che, intanto, aveva smesso di piangere.
“Ciao” mormorò Demi. “Dov’è la tua mamma?”
Il bimbo le sorrise ed emise qualche gorgoglio.
Andrew, intanto, aprì la lettera e lesse a voce alta.
Gentilissimi,
so che qui vi occupate dei bambini con amore in attesa che trovino una famiglia. Io non sono la mamma di questo bimbo, ma la nonna. Il padre se n’è andato quando mia figlia è rimasta incinta. Ma ci sono state delle complicazioni, lei ha avuto un’emorragia dopo il parto e i guaritori non sono riusciti a salvarla nonostante i vari tentativi. Per me è e sarà sempre il dolore più terribile di tutti.
 
Ho provato a prendermi cura di mio nipote, sul serio. Ma sono vecchia, presto morirò, lo sento e non ho più le energie che avevo a vent’anni. Ne ho compiuti ottanta l’altro giorno e, pur avendo avuto mia figlia a cinquanta e, non essendomene mai pentita, nemmeno per un singolo istante, crescerla non è stato semplice. Le avevo promesso di prendermi cura del suo piccolo, ma non ce la faccio. Non ho un lavoro ormai da tempo, non avrei nemmeno le forze di trovarne uno. Continuo a vivere coltivando a fatica il mio orto e mangiando le uova delle mie tre galline, non ho persone che possano aiutarmi in quanto vivo in un posto isolato. Non conosco molta gente e mi ammalo spesso di influenza, bronchite e altri disturbi che mi indeboliscono sempre di più. Non posso crescere un bambino in queste condizioni, lui ha bisogno di una madre. Una madre vera.
 
Ho pensato per mesi a questa decisione, la più ardua della mia intera vita. Ho passato notti insonni e non solo a causa del suo pianto, mi sono sentita e mi sento ancora adesso in colpa per fare così schifo da abbandonarlo. Ho pianto, mi sono detta che avrei dovuto essere più forte, che dovevo essere uscita di senno per pensare a cose simili. Ma non ho il coraggio di prendere altri provvedimenti.
 
Spero possiate, almeno in parte, comprendermi e trovare una famiglia meravigliosa al mio nipotino, che è quanto di più bello mia figlia mi abbia lasciato. Si chiama Seth, vorrei che non gli cambiaste nome, né che lo facessero i genitori adottivi, perché l’ha scelto mia figlia ed è una cosa che li lega.
 
Gli lascio alcuni oggetti della mamma, in suo ricordo.
Seth, amore mio, perdonami per quello che ho fatto, ma ho agito pensando al tuo bene, anche se tu forse non lo capirai. Non potevo darti una vita degna di questo nome e ho pensato prima di tutto alla tua felicità, che non avresti avuto rimanendomi accanto.
Ti voglio bene,
la nonna Paris.
La tua mamma si chiamava Margaret. Se puoi, perdonami. E sappi che ti amavamo entrambe.
Non dimenticarci.
Vicino alla lanterna Andrew trovò anche un sacchetto con un paio di orecchini e una collana d’argento, il peluche di un gattino marrone che, presunsero tutti, la ragazza aveva comprato per lui e una tutina azzurra per l’inverno, con calzini abbinati.
Rimasero in silenzio per qualche minuto. Il lieve lamento del piccolo l’unico rumore che si udiva oltre al canto degli uccelli e alle voci lontane, dei bambini rimasti dentro. Nessuno riusciva a capire il gesto di quella donna, né lo condivideva, ma le situazioni per le quali qualcuno abbandona un bimbo sono tante e diverse e non si sentivano di condannarla del tutto.
Ha comunque sbagliato pensò Demi. Avrebbe potuto almeno provare a chiedere una mano alla poca gente che conosceva. Forse, però, si vergognava. Sono una brutta persona se penso queste cose?
Perlomeno l’aveva vestito e non l’aveva abbandonato di notte, quando faceva più freddo. Quello sì che l’avrebbe fatta incazzare. Aveva sentito parecchie storie di bambini abbandonati in quel modo nei cassonetti o in altri luoghi e non ne poteva più. Non immaginava nemmeno la disperazione che portasse a compiere un atto simile, ma perché lasciarli là se c’erano altri posti in cui portarli, come gli ospedali?
“Mmm, mmm” mormorò il bambino, stringendo forte un lembo della maglia della ragazza.
Demi sorrise.
“Sta’ tranquillo, non sono triste” mormorò.
Il bimbo ricambiò il sorriso e lanciò un gridolino di rimando. Sembrava apprezzare il suono della voce della ragazza. Si voltò verso di lei e le afferrò una ciocca di capelli, senza tirarla.
Eliza e la Direttrice erano abbattute. Situazioni come quelle non capitavano spessissimo, lì a Eltaria, ma quando succedeva comprendevano ancora di più che per alcuni le cose non andavano. Le ninfe, in particolare, cercavano di aiutare la gente povera che si rivolgeva a loro, o lo faceva la comunità in cui queste persone vivevano, ma non tutti trovavano la forza di chiedere aiuto, per loro o per i propri familiari. Sapere che una società in armonia e in pace come quella aveva ancora dei problemi, per la maggior parte invisibili agli occhi, provocava una fitta al petto.
Andrew si diceva che, se la donna fosse rimasta di più, avrebbero potuto parlarci e magari aiutarla, convincerla a non farlo.
“Deve riuscire a volare veloce, se già non c’era più quando siamo usciti” constatò la Direttrice. “Manderò comunque alcune volontarie a fare un giro qui in zona, magari non è troppo tardi.”
Tornò dentro e poco dopo uscì con alcune ragazze, alle quali spiegò la situazione e disse che avrebbero dovuto cercare una fata che presumibilmente volava veloce e sembrava scappare. Più di questo non seppe che dire, dato che non aveva altre informazioni.
Demi si sedette su un muretto lì accanto. Il bambino si succhiava le dita, non la smetteva di produrre suoni che facevano sorridere tutti e con lei sembrava a suo agio. Appoggiò la testolina contro la sua spalla.
“Se non altro, l’ha lasciato qui e non in altri posti. Insomma, voleva che qualcuno lo trovasse” considerò.
“Sì, infatti. Nella sfortuna è stato fortunato” aggiunse Andrew.
Avrebbe voluto prenderlo in braccio, ma lo vedeva così tranquillo tra le braccia della fidanzata che non se la sentì di disturbarlo. Non resistendo, gli fece comunque qualche carezza sul viso.
I due rimasero a coccolarlo e a fargli il solletico per una buona mezz’ora.
“Ah, ah” mormorava ogni tanto il bambino.
“Però, quanti vocalizzi!”
“È normale, Andrew. Verso i quattro mesi iniziano ad allungare le vocali e a produrre più suoni per comunicare e tra l’altro provano anche piacere nell’ascoltarsi.”
La ragazza diede il biberon a Seth e poi lo portò dentro, sia perché la brezza si era fatta più fredda e non voleva che si ammalasse, sia per cambiargli il pannolino, chiedendo al fidanzato di aiutarla per fare prima.
“È stato bravo?” chiese Theresa entrando nel bagno mentre lei lo rivestiva.
“Un po’ scatenato ma sì, pensavo peggio” rispose Andrew.
“Sono entrata qui per dirvi che Seth dev’essere visitato. Scusate l’intrusione improvvisa. Prima non ho parlato perché vedevo che stava bene e che non c’era urgenza di una visita, anche ora sembra tutto a posto, ma per sicurezza…”
“Certo, capisco benissimo” rispose Demi, lo riprese fra le braccia e, in quel momento, tornarono le fate.
“Niente, Theresa” disse una di loro. “Abbiamo scandagliato un’ampia zona del bosco palmo a palmo, ci siamo anche divise andando in luoghi diversi. Abbiamo chiesto in giro, ma nessuno ha visto una fata scappare. Certo poco meno di un’ora di ricerche non è molto, se vuoi riproveremo nel pomeriggio.”
La Direttrice sospirò.
“Non è la prima volta che capita una cosa del genere e non riusciamo a trovare nessuno. A volte funziona, altre invece chi abbandona i figli si volatilizza e fa di tutto per sparire per sempre.” Aveva mandato proprio loro perché in altre occasioni avevano fatto ricerche. Quelle ragazze volavano veloci e non tralasciavano nulla. “Riprovate più tardi, ma se non troveremo nulla, il bambino resterà qui. E manderò qualcuno a chiamare Amelie. Si tratta della cugina di Aster, non so se la conoscete” continuò rivolgendosi a Demi.
“Ci ha aiutati quando siamo arrivati qui.”
“Bene. Amelie spesso ci dà una mano. Non è medico di professione, ma se ne intende di bambini, ne visita molti anche con l’aiuto della magia.”
Si avvicinò a Demi, accarezzò il bambino e gli diede il benvenuto.
La cantante strinse ancor di più al cuore il piccino, sussurrandogli parole dolci per calmarlo.
“Adesso sei al sicuro, va tutto bene.”
Lui agitava braccia e gambe, la guardava, lanciava gridolini ed emetteva semplici vocalizzi. Era attivo. Buon segno: significava che, almeno in teoria, stava bene. Le accarezzò una guancia con una manina. Demi sorrise e gli sfiorò i capelli lisci e morbidi come seta. Julie accorse e lo portò via.
“Dove…” iniziò la ragazza.
“Lo metterà in una stanzetta apposita per le visite” spiegò loro Eliza. “Adesso lei e altre guaritrici si laveranno bene le mani, se le disinfetteranno e lo visiteranno.”
Theresa Hudson chiese alla donna di andare a chiamare Amelie e seguì Julie.
“Ragazzi, vi lascio soli per un po’.”
“Non preoccuparti Eliza, noi restiamo qui a vedere come si evolve la situazione.”
“Devo andare a prendere le bambine” fece notare Demi ad Andrew. Era ormai l’una e non aveva chiesto a Isla o Oberon di portargliele a casa, perciò doveva occuparsene di persona. “Mi racconterai come sono andate le cose, pregherò per lui nel frattempo, ma adesso devo proprio scappare” concluse.
“Giusto, amore, non mi ero accorto dell’orario. Ci vediamo dopo a casa, e Demi, tranquilla.” Le prese una mano e gliela accarezzò. “Starà bene, non preoccuparti.”
Lei sorrise e fece un cenno d’assenso, salutò e partì.
Sperò di ricordarsi bene il percorso e di non perdersi nelle numerose, piccole curve che deviavano la strada da una parte o dall’altra. Non era lì da molti giorni e il suo senso dell’orientamento non granché spiccato. Durante il tragitto non fece altro che pensare a Seth. Come per gli bambini, tenerlo in braccio era stato meraviglioso. Aveva cercato di trasmettergli, in quei pochi minuti, tutto il suo affetto e una sicurezza di cui, lo sentiva nel cuore, il piccolo aveva avuto un estremo bisogno. Chissà cos’aveva pensato, quando si era ritrovato lì da solo nella sua lanterna, in un posto sconosciuto. Una lacrima le bagnò il volto mentre ripensava a sua nonna e alla difficile decisione che era stata costretta a prendere dalle circostanze e si disse che, se avesse potuto, l’avrebbe volentieri aiutata. Ma forse era tardi. Sperava che le fate l’avrebbero trovata, ma anche che, nel caso in cui non fosse stato così, Seth stesse bene e che si sarebbe ambientato presto in un luogo che, anche se non era una vera e propria casa, aveva comunque molte persone che davano tutto l’amore che potevano ai bambini e anche di più.
“Signore, fa’ che trovino tutti quanti una casa nel più breve tempo possibile” pregò.
Immersa in quei pensieri si concentrò comunque sulla strada da seguire e, con sua grande sorpresa, non si perse nemmeno una volta, ritrovandosi infine davanti al cancello già aperto. C’erano genitori, nonni e altri parenti lì ad aspettare e tanti bambini che li stavano raggiungendo, con o senza insegnanti. La ragazza si fece largo fra loro e, con difficoltà, riuscì a entrare, dirigendosi verso l’ala dedicata all’asilo. Il giorno prima aveva trovato lì entrambe le sue figlie e accadde anche in quell’occasione.
 
 
 
Durante il tragitto, le bambine raccontarono senza sosta ciò che avevano fatto quel giorno e anche Demi diede qualche dettaglio, evitando di parlare di Seth per non sconvolgere Mackenzie per il fatto che fosse stato abbandonato.
Una volta a casa, la ragazza andò a farsi una doccia, mentre Sky aiutò le piccole a infilarsi una tuta da ginnastica per stare più comode.
“Ho preparato una sorpresa per voi, oggi” annunciò, mentre Mackenzie e Hope facevano uscire Lilia e Agni dalle loro gabbiette. “In realtà per tutti, ma più che altro per voi. Non ditelo a nessuno, d’accordo?”
Le piccole risero: se quella sorpresa era soprattutto per loro, doveva essere qualcosa che piaceva ai bambini.
Che cosa? Che cosa? domandò Mackenzie, saltellando.
“Il salame al cioccolato, non so se l’avete mai mangiato.”
La bambina negò e Hope, che non aveva capito bene, la imitò. Ma la più grande pensò che il fatto che in quello che credeva essere un dolce ci fosse il cioccolato era già un buon inizio.
“Bisogna aspettare fino a domani per mangiarlo, a colazione.” Vedendo che Mac si intristiva, si affrettò ad aggiungere: “Lo so, tesoro, ma non manca molto tempo e poi ha bisogno di riposare in frigo per diverse ore. Oggi pomeriggio chiederò a Kaleia di preparare con me qualcos’altro di buono per tutti, va bene?”
L’altra ritrovò il sorriso e la ringraziò sia con le parole che con un fortissimo abbraccio, cosa che fece anche Hope.
La fata aiutò Mackenzie a dare da mangiare e da bere a Lilia, che aveva finito il proprio cibo nella gabbia da tempo. Lasciarono che Agni uscisse per nutrirsi e, quando la cagnolina finì, la portarono fuori per i bisogni.
“Hope, ti va di giocare con me?” le chiese Noah e la bambina corse subito da lui.
Cercarono qualcosa nel cesto e trovarono un Arylu e una lepre di peluche, iniziando poi a mettere in scna un finto inseguimento.
“Loro…” Hope indicò i due animali, mentre si muoveva sul tappeto per sfuggire all’Arylu. “Loro amici.”
“Sì, sono amici. Si vogliono bene e stanno giocando.”
Nel frattempo Mackenzie dava una mano a Sky a preparare la tavola, mettendo i bicchieri, i tovaglioli e le posate che lei le passava.
“Sei stata gentile ad aiutarmi, piccola, ti ringrazio” le disse alla fine accarezzandole una guancia.
Di niente. Anche a casa lo faccio, qualche volta.
“Bravissima! Cerca di aiutare sempre la mamma, quando te lo chiede.”
Va bene.
In salotto, Hope e Noah avevano smesso di giocare. La bambina era stanca e non ne aveva molta voglia, per cui adesso il ragazzo la teneva in braccio seduto sul divano.
“Sono teneri” sussurrò Sky, dubitando un istante dopo della sua sanità mentale.
Ma che le stavano facendo quelle due bambine? Già Lucy e Lune erano adorabili anche se l’avevano infastidita come quella volta in cui la più grande, il giorno del volo delle pixie nel quale aveva ritrovato i suoi genitori, non aveva fatto altro che ripeterle:
“Sai che oggi è un giorno speciale?”
Mackenzie e Hope la facevano sorridere sempre di più. Non c’era dubbio che si fosse affezionata a loro, poteva negarlo ma era la verità.
Sky, tutto bene?
“Sì Mac, stavo solo pensando a quanto voglio bene a te e a tua sorella.”
La bambina le sorrise con calore.
Anche noi te ne vogliamo. Hope a volte lo dice, ma più che altro lo fa vedere.
“Lo so.”
Stavano per abbracciarsi di nuovo, quando sentirono dei passi avvicinarsi alla cucina. Era Demi, lavata, vestita comoda e pettinata, con i capelli castani che le scendevano lungo il collo come una cascata lucente. Chiese alla figlia se gli insegnanti le avessero dato compiti e lei rispose di no.
Sky, anche tu e Kaleia siete andate alla Penderghast?
“No Mac, noi abbiamo studiato dalle fate anziane.”
E perché?
“A Primedia la scuola non c’era, quindi nostra madre ci ha educate in un altro modo.” La fata mise la pentola sul fuoco. “Cucino la pasta, una delle poche cose che so fare senza combinare disastri” ridacchiò, contagiando le altre due.
 
 
 
La risata di Mackenzie si sentì appena, ma le ragazze non se l’erano immaginata. Qualche tempo settimana prima la bambina aveva confessato alla mamma che l’aveva sempre tenuta allenata, ridendo un po’ ogni giorno senza motivo, per non perdere quel piccolo barlume di speranza che le ricordava che aveva ancora una voce, che riusciva a produrre un suono anche se lieve. Demetria era rimasta colpita. Non l’aveva mai sentita ridere in camera sua o di nascosto e non credeva lo facesse. Ciò significava non solo che voleva comunque conservare la propria voce, ma anche che ridere le piaceva, il che era positivo, e che le sue corde vocali non erano messe così male. Funzionavano ancora, anche se poco e sarebbe bastato che ricordasse e un percorso lungo da una logopedista per sbloccarle del tutto.
Sì, ma non è così semplice.
Non lo era, infatti, però Demi sperava che al massimo alla fine dell’anno seguente Catherine avrebbe detto alla bambina che la vedeva stare meglio, ricordi o meno, e quindi pronta per intraprendere un percorso logopedico. Mackenzie aveva sei anni, non parlava più da quasi due. C’erano ragazzi che avevano ripreso a farlo dopo tanti anni, come aveva letto nel libro, che parlava di una storia vera, Come in una gabbia di Torey L. Hayden, ma un anno e nove mesi era già un tempo considerevole e sperava che Mackenzie non avrebbe dovuto aspettare tantissimo per ricominciare a parlare. D’altro canto, la sua salute mentale era la cosa più importante e per guarire dal PTSD ci sarebbero voluti diversi mesi se non di più, considerando che aveva scoperto di soffrirne molto dopo il suo inizio. La cosa più importante era che lei stesse bene, con o senza la parola o i ricordi.
“È bello sentirla ridere” commentò Sky quando la piccola corse in salotto a giocare con la sorella.
“Moltissimo. La prima volta che l’ha fatto era a casa da qualche tempo. Mi ha resa così felice, non credevo ci riuscisse.”
Dopo un momento di esitazione, Demi raccontò alla fata quanto era successo all’orfanotrofio prima che lei se ne andasse. Sky ascoltò con attenzione.
“Non capisco come abbia potuto anche solo pensare di abbandonarlo!” proruppe infine. “Ha scritto che non conosceva molta gente, ma significa che aveva comunque dei contatti, no? Non avrebbe potuto chiedere una mano a quelle persone? O andare dalle ninfe? Aster è sempre gentilissima, come l’ha fatto con voi non l’avrebbe certo negato a una signora anziana con un bambino. Dannazione, non capisco!”
Per questo non volevo dirglielo, per non farla soffrire pensò Demi.
“In un certo senso hai ragione e non voglio giustificarla, ci mancherebbe altro, ha comunque fatto una cosa che non ritengo giusta, ma noi non sappiamo cosa ci fosse nella sua testa. Guarda il lato positivo: avrebbe potuto abbandonarlo avvolto in una copertina, o anche no, nel bosco, dove forse sarebbe stato trovato troppo tardi, invece è venuta fino all’orfanotrofio, dove sapeva che qualcuno se ne sarebbe preso cura. Un ultimo gesto d’amore, non credi?”
“Ma l’ha abbandonato” ruggì la ragazza. “L’ha lasciato solo. E anche se, come hai detto, forse non aveva molta scelta e se si è vista sola e disperata, non mi convincerai mai che l’abbandono per il suo bene sia un gesto d’amore. Avrebbe dovuto avere più forza di volontà e chiedere una mano anziché dire:
“Oh, sono povera e vecchia, non conosco molta gente e quindi lo abbandono.”
Questo non è amore, è non provare a risolvere una situazione chiedendo una mano, è scappare dalle proprie responsabilità!” urlò, stringendo le mani a pugno.
Si era piantata le unghie nella pelle, lasciando alcuni segni.
Demi sospirò.
Concordava con lei sul fatto che abbandonare un bambino fosse sempre e comunque una cosa orribile, ma nessuna di loro era nella testa di quella donna e, comunque, perlomeno non l’aveva lasciato perché non lo voleva più. Nelle parole della fata leggeva un dolore ancora vivo, di quelli che marchiano a fuoco la pelle e non se ne vanno più. Stava di certo pensando a quanto accaduto a lei e Kaleia in passato e Demetria si pentì ancor di più di aver tirato fuori l’argomento.
“Non so cos’altro dirti, Sky. Non credo l’abbia fatto a cuor leggero, anzi, nessuno si comporta così immagino. È un tema delicatissimo.”
“Sì, hai ragione su tutto” concordò l’altra abbassando il tono. “Non avrei dovuto scaldarmi tanto. Io parlo così a mente fredda, ma non conosco la situazione, anche se non farei mai una cosa del genere, ne sono sicura. Vero, bisogna trovarsi nelle situazioni per capire fino in fondo, ma piuttosto chiederei una mano cercando di superare la vergogna o ciò che mi frena e, se ho forze, lavorerei ore ed ore per mantenerlo. Speriamo solo stia bene.”
Chissà come si sentirà male quella donna, adesso.
Demi non osò dirlo.
“Scusami, Sky” mormorò.
“Non importa.”
Andrew ed Eliza rientrarono quando il pranzo era pronto e le due ragazze lo stavano servendo.
“Come sta il piccolo?” chiese Demetria alla donna.
“Bene, non è ferito né ha danni interni o di nessun altro genere. L’hanno idratato dandogli da bere perché aveva la lingua secca, ma per il resto è attivo, risponde agli stimoli e la temperatura corporea è normale per la sua età. Jacqueline l’ha registrato con tutti i dati ed ora è nella stanza giusta con gli altri. Si ambienterà presto.”
La cantante e la fata tirarono un sospiro di sollievo.
“Gli ho dato un bacio per te e detto che tornerai a salutarlo domani” le sussurrò Andrew.
“Grazie, amore!”
Mentre mangiavano, le piccole ripresero a parlare della loro giornata informando anche Andrew ed Eliza, ma una volta finito persero la loro energia e i genitori le portarono a letto per un riposino lasciando la porta socchiusa in modo che, se Hope avesse pianto, sarebbero riusciti a udirla.
 
 
 
“Erano proprio distrutte” commentò l’uomo rientrando in cucina, mentre Demi aiutava Eliza a lavare i piatti.
Si ritrovarono tutti seduti fuori, su un muretto, con le finestre aperte per udire le piccole. Prima ancora che potessero dire qualcosa, arrivarono Isla e Oberon, soli. Li salutarono ed Eliza chiese loro dove fossero le bambine.
“A casa con una mia amica” disse la fata.
“Verranno più tardi,” intervenne Oberon, “abbiamo pensato di farvi una visita adesso, in modo da parlare con più tranquillità e andare a prenderle quando Mackenzie e Hope si sveglieranno.”
In quel momento li raggiunsero anche Christopher e Kaleia.
“Come state, ragazzi?” domandò ancora Isla.
“Oggi meglio, ieri ho avuto un piccolo crollo” disse Demi e spiegò cos’era successo durante il pranzo. “Per capire chi sono, dovrei raccontarvi qualcosa in più.”
Parlò di ciò che era successo all’orfanotrofio, comprese le prese in giro che Kady aveva subito e ciò che lei aveva detto a Eliza. Isla, Oberon, Christopher e Kaleia si dispiacquero per il bambino, ma considerarono una gran fortuna il fatto che fosse stato abbandonato di giorno e trovato subito e guardarono a lungo Demetria.
“Mi dispiace che tu abbia sofferto e sia arrivata a farti del male a causa di persone del genere” mormorò Isla, riassumendo il sentimento di tutti, mentre il cuore le si stringeva.
Le si avvicinò e le accarezzò una mano per confortarla. Demi le sorrise.
“Ti ringrazio. Un po’ di tempo fa ho incontrato Denise, la ragazza che aveva lanciato la petizione. In tutti questi anni non ho mai dimenticato, farlo sarebbe impossibile, ma speravo che prima o poi sarei riuscita a perdonarla. Mi sono resa conto che quella gente non ha il diritto di chiedere né di ricevere perdono, speravo però di provare meno rabbia nei suoi confronti. Non è stato così, purtroppo.”
“Hai ragione,” intervenne Noah in tono grave, “certe cose non si possono perdonare.”
Rivedere il viso di quella stronza e sentire la sua voce, seppur cambiata, aveva riempito a Demi la testa di ricordi che l’avevano tormentata giorno e notte per anni. A ogni taglio, strenuo allenamento o comportamento sbagliato per dimagrire, tutto ciò le tornava in mente. Lo raccontò ai suoi compagni.
“Mia mamma ha avuto problemi di anoressia per molti anni, per questo mangiava poco come vi avevo detto. Si tratta di una malattia a causa della quale una persona, che soffre tantissimo per qualche motivo, pensa che dimagrendo risolverà il problema. Essere più magra equivale a sentirsi meglio con se stessa, a credere di avere pieno controllo sulla propria vita, ma questa malattia fa sì che la persona mangi e vomiti, si pesi di continuo, si alleni anche per dieci ore al giorno in casi estremi e soprattutto sia magrissima, e intendo davvero magrissima, trentotto chili o anche meno.”
Kaleia spalancò la bocca.
“Lei però si vede sempre grassa,” riprese Demi, “imperfetta, sbagliata e sta male. Si odia. Si dà degli obiettivi di peso e se non li raggiunge riduce il consumo di calorie, se invece lo fa desidera andare ancora più sotto. Le sue difficoltà non si risolvono, ma per un po’ lei si sente meglio per poi ripiombare nel baratro. E per gli altri non è sempre facile rendersi conto che una persona ne soffre. Quelle con disturbi alimentari sanno essere manipolative e nascondere bene il proprio stato.”
Eliza restò immobile; il giorno prima aveva capito che c’era qualcosa che non andava, ma non si sarebbe mai aspettata tutto ciò. Già la parola anoressia era orribile e, nel pensarla, un brivido di freddo le percorse l’intero corpo, viverla doveva essere un inferno.
Kaleia si augurò che nulla del genere sarebbe accaduto mai al suo bambino e Isla fece lo stesso, anche se era improbabile che succedesse qualcosa. Quei mali erano estranei al loro mondo.
“Sarebbe troppo lungo spiegare perché mia madre lo faceva,” riprese Demetria, “ma ha nascosto bene tutto questo per molti anni o, se qualcuno notava qualcosa, lei inventava scuse, non dimagriva mai eccessivamente o si vestiva a strati per nascondere il suo problema e avere meno freddo, uno dei tanti sintomi dell’anoressia.”
Demi aveva notato spesso che si era truccata per nascondere il pallore del suo viso e aveva trovato altre soluzioni per camuffare la propria malattia, così come la depressione post partum della quale aveva sofferto dopo la nascita sua e di Madison.
“Quindi è ereditaria?”
La ragazza rifletté un momento. In parte sì, rispose a Eliza, lei credeva di essere nata con quella malattia, ma anche causata dai problemi che aveva avuto. Fin da piccola aveva voluto essere sempre perfetta come la mamma anche se lei, da bambina, non si era resa conto che Dianna avesse pensieri simili. Sotto quel punto di vista e molti altri avevano tante cose in comune. Si rivedeva, a tre anni, davanti allo specchio a sospirare di fronte alla sua immagine, a palparsi lo stomaco e a domandarsi se un giorno sarebbe mai stato piatto. Dopodiché si fissava con una smorfia di disgusto e andava via. Crescendo, lavorare come attrice le aveva fatto capire che era necessario apparire in un certo modo. Ma quello era stato il problema minore, aveva contribuito solo in piccola parte ai suoi disturbi alimentari.
“Leggevo commenti su di me,” continuò, “dicevano cose brutte sul mio aspetto e ciò mi ha condizionata.”
Qualche silenziosa lacrima le scivolò lungo le guance. Nel suo cuore c’era un piccolo buco causato da tutto il dolore che l’aveva scavato ma che, adesso, si stava trasformando in una voragine. Omise molte cose della sua storia, altrimenti avrebbe dovuto scriverci sopra un’autobiografia e, chissà, forse un giorno si sarebbe cimentata in quell’impresa.
La porta, rimasta socchiusa per far passare i cuccioli, si aprì con un leggero scricchiolio e Lilia zampettò verso di loro, andandosi a sedere proprio sule gambe della ragazza come se avesse capito che aveva bisogno di lei, compagnia e conforto. Demi prese ad accarezzarla e le grattò le orecchie, mentre la cagnolina alzava la testa per ricevere sempre più coccole.
“A nove anni mangiavo troppo,” riprese, “per controllare l’ansia per aver iniziato a lavorare recitando in un cartone, non andare più a scuola e la nascita di Madison, per non essere più la piccola di casa. Questo disturbo si chiama binge eating. Mia mamma pensava si trattasse di una fase della crescita e non ci ha fatto granché caso.”
Demi fece una pausa. Eliza la stava fissando, gli occhi socchiusi, la fronte corrugata e la ragazza le chiese a cosa pensava.
L’altra sospirò.
“Al fatto che chissà se me ne sarei accorta se fosse successo alle mie figlie.”
“Non sarebbe stato semplicissimo, ma prima o poi l’avresti notato dal fatto che sarebbe sparito troppo cibo in poco tempo o dal loro aumento di peso” rispose Andrew.
La cantante fece un cenno d’assenso, poi continuò.
“A undici, dodici anni ho cominciato a non mangiare, o a farlo poco e poi vomitare per sopportare il dolore che le parole dei bulli mi provocava. Ho pensato:
Allora è perché sono grassa che non ho amici.
E mi sono detta che se fossi dimagrita ne avrei avuti, ma non è stato così. Non a scuola, almeno, perché Andrew c’è sempre stato. Mia mamma, troppo presa dalla sua malattia, notava qualcosa, ma si diceva che era solo una fase della crescita. I bulli hanno fatto il resto.”
Inspirò ed espirò in fretta e si batté le mani sulle cosce mentre un tremito la scuoteva. Percependo l’agitazione e le altre mille emozioni che sconvolgevano la ragazza, Lilia abbaiò piano e le leccò il viso, cosa che la fece scoppiare in una fragorosa risata. Demi si sorprese: non credeva ci sarebbe riuscita, in quel momento. Gli animali, pensò, sono in grado di risollevarti anche nei periodi più duri, pur non capendo appieno ciò che stai passando. Per questo a volte li giudicava migliori delle persone, che invece non vedono l’ora di dirti cosa devi o non devi fare.
“A un certo punto, quando ero più grande, sono arrivata a vomitare sei volte al giorno e a fare due pasti in una settimana, credendo che anche un bicchiere di succo mi avrebbe fatta ingrassare.”
Tornò un po’ indietro con il racconto. Un giorno, a undici anni, finita la scuola, era tornata a casa e aveva pianto chiusa in camera, lontano da orecchie e occhi indiscreti, poi aveva preso una lametta. All’inizio l’aveva fatto dopo averlo visto in televisione e a scuola ne aveva sentito parlare, ma poi era diventato un modo per cercare sollievo dalla sofferenza e si era tagliata sempre più in profondità ogni volta, con tagli corti o lunghi per provare meno senso di colpa. Perché doveva esserci qualcosa che non andava in lei, se tutti le si accanivano contro con cattiveria. La cosa era andata avanti per anni.
A tutti si bloccò il respiro. Vedere le cicatrici era una cosa, sentirne parlare in modo tanto approfondito un’altra. Quella ragazza si era fatta del male di sua volontà. Come era stato incomprensibile per Eliza lo fu anche per gli altri, e Demetria dovette rispondere a domande simili a quella che le aveva posto la donna per spiegare il suo punto di vista.
“Per noi è fuori da ogni logica” commentò Oberon.
“Già.” Christopher si sfiorò la testa. “Nessuno qui ha mai pensato di mutilare il proprio corpo, ne sono sicuro. L’idea non ha nemmeno sfiorato le nostre menti, né quelle degli altri abitanti. Tutto questo è irreale, è troppo strano.”
I suoi compagni non la guardavano con paura o disprezzo, ma i loro occhi confusi colpirono Demi più di quanto avrebbe mai immaginato. Li vedeva persi, con le lacrime che rischiavano di scendere e, sospirando, si diede della stupida. Forse avrebbe dovuto andarci più piano, capire che li avrebbe scossi. Ma con tematiche come quelle non si può né scherzare, né sorridere o restare sul leggero, l’aveva capito sin dai suoi undici anni. Certe parole andavano dette, se si voleva spiegare la propria situazione agli altri, nonostante il rischio di turbarli. Avrebbe voluto scusarsi, ma non ne trovò il coraggio.
“Qui al bosco non…” Sky scoppiò in lacrime rifugiandosi fra le braccia della madre. “Mamma!” singhiozzò. “Mamma, perché persone così buone devono soffrire tanto? Perché? Non è giusto!” urlava, piantandole le unghie nella schiena.
“Hai ragione, tesoro. Purtroppo è successo, ma ora stanno meglio e hanno trovato in noi dei confidenti, questo conta molto. Shhh, tranquilla.”
Le passò un pacchetto di fazzoletti e la ragazza ne prese uno con mani tremanti.
Andrew rifletté ad alta voce sul fatto che la vita a Primedia e a Eltaria doveva essere più semplice, con le sue difficoltà, ma non grandi come quelle del loro mondo. Anche per questo si trovavano così bene lì.
“In seguito, verso i quindici anni,” riprese Demi, “c’è stata la fase nella quale mi abbuffavo e poi vomitavo, la bulimia, che ha come obiettivo sempre quello di dimagrire. Queste due malattie si sono alternate nel tempo.” Non era facile riesumare tali ricordi, sapere che si era fatta violenza non dicendo niente a nessuno, o quasi. I problemi che si era portata dietro l’avevano imprigionata con catene invisibili delle quali a volte, ancora adesso, percepiva la stretta se ne parlava. “Alla fine, quando avevo dodici anni mamma ha capito che il bullismo era serio, benché all’inizio non ci avesse dato peso, e ho studiato a casa.”
Si era nascosta in un bagno, sentendo le ragazze che la cercavano, che dicevano:
“Picchiamo la puttana”
e aveva chiamato la mamma, corsa a prenderla mentre Demetria era filata più veloce che poteva nell’ufficio del Preside per non essere presa dalle altre. Dianna l’aveva trovata tremante, su una sedia, e portata via. Prima, però, la figlia le aveva mostrato quello che aveva definito “il muro dell’odio”, una parete piena di offese rivolte a lei.
“Ti ha aiutata a superarlo?” chiese Christopher.
La cantante sospirò.
“Non ha compreso quanto profonde fossero le mie ferite, quindi no, ma non la incolpo. Non ne abbiamo parlato più, io mi sono chiusa e ho seguitato a tagliarmi e non solo, mi pareva l’unico modo per affrontare la cosa. Quanto abbiamo sbagliato!”
In quel momento uscì anche Agni che, dopo essere andato a mangiare, prese a correre e a volare attorno a loro mentre la cagnolina, scesa dalle gambe di Demetria, lo inseguiva e saltava per cercare di prenderlo, non riuscendoci mai. L’altro era più veloce e schivava ogni tentativo di assalto. Tutti sorridevano nel pensare che si divertivano come bambini. A Demi quella pausa fece bene, perché prese qualche respiro profondo godendosi l’aria fresca che avevano trovato sotto l’ombra di quell’albero, un vento leggero che le trasmise energia.
Ma i problemi alimentari erano continuati così come il bisogno incontrollato di farsi del male. Si era sempre vista troppo grassa, brutta, sbagliata, le frasi dei bulli le erano rimaste in testa qualunque cosa avesse fatto per scacciarle, le loro parole le avevano marchiato la mente a fuoco. Lavorando come attrice e crescendo, aveva preso come modello alcune ragazze. Con le loro foto aveva fatto un collage: sotto quelle grasse aveva scritto che non voleva essere così ma che lo era, e con le altre, magrissime, che aspirava a diventare come loro: perfetta.
“Anche questo era un comportamento sbagliato. Vedevo il mio corpo in modo distorto.”
“Se già stavi male, perché procurarti tutto questo dolore? Non capisco.”
Lei sorrise amaramente.
“Noah, i disturbi alimentari sono bastardi. Non è una questione di piacersi o meno, di voler dimagrire, di non voler mangiare, l’anoressia e la bulimia non sono delle diete come molti, anche nel mio mondo, pensano. Soffrirne non è una scelta. Non puoi decidere se ammalarti o meno quando hai l’influenza, giusto? Ecco, è lo stesso per queste malattie.”
Sono problemi subdoli, partono dalla mente. Non si mangia, si vomita, o ci si abbuffa e si rimette e si vuole dimagrire per sopire un dolore, una difficoltà più grande di tutto che non si è capaci di superare chiedendo aiuto. Le anoressiche, le bulimiche – ma ci sono anche maschi che soffrono di queste malattie – o chi è vittima di altri disturbi alimentari, non vogliono farsi curare perché pensano che vada bene così, che sia tutto okay. È un discorso meramente psicologico. E la testa è la più difficile da curare.”
In clinica aveva capito che il cibo non era il suo nemico, ma lei di se stessa. Demi e le altre ragazze avevano fatto ore di terapia di gruppo e attività nelle quali avevano tirato fuori le loro emozioni attraverso il disegno e le parole, affrontando il modo in cui si vedevano, la maniera nella quale erano sicure le percepissero gli altri e scavando, in particolare nelle sedute individuali con lo psicologo, nei problemi familiari o in ciò che avrebbe potuto causare tali difficoltà. Nel suo caso, oltre al passato travagliato, vivere in una famiglia con una mamma che soffriva di anoressia era stato un altro fattore scatenante.
Noah sospirò.
“Capisco, o almeno, tutti ci stiamo provando. In pratica, non basta dire di mangiare a una persona che soffre di anoressia o asserire di non abbuffarsi a una che sta male per la bulimia, giusto?”
“Esatto, non è quello il problema. Bisogna cambiare modo di pensare, di vedersi per curare il proprio aspetto e capire che è necessario occuparsi di se stessi nel modo corretto, io l’ho imparato ma ci è voluto tanto.”
Per moltissimo tempo aveva pensato a cosa mangiare o meno, a quello che le sarebbe piaciuto mettere in bocca o al cibo che si pentiva di aver ingurgitato, pesandosi spessissimo e facendo diete ed esercizi fisici per ore ed ore, inventando scuse per non mangiare e rimanendo fuori il più possibile.
“E poi cos’è successo?” chiese Sky.
“Alla fine sono andata in clinica, un posto dove dei dottori mi hanno aiutata per tutti questi problemi. Il percorso è stato lungo e non facile, anche una volta fuori. L’anno dopo ci è entrata mia mamma. Ora stiamo entrambe molto meglio.”
“Dev’essere stato stancante fare tutti questi ragionamenti sul cibo, come un’ossessione” commentò Isla.
Demi si limitò ad annuire, aggiungendo che la sua mente non aveva mai smesso, in quel periodo, di pensare a esso e al peso.
“Mi sentivo come se qualcosa non andasse nel mio cervello, quasi non umana. E credevo che la mia carriera fosse finita.”
Parlò della sua ripresa, di quanto era stata dura anche per ciò che concerneva l’autolesionismo, delle ricadute terribili che aveva avuto e Andrew raccontò di quello che aveva ricordato a riguardo poche ore prima.
“Quando una persona soffre di questi problemi, non è facile né per lei né per chi le sta accanto” disse, l’immagine di Demi con i tagli aperti ancora vivida nella sua memoria. “Quella notte l’abbiamo convinta a mangiare, ma ha fatto una fatica immensa.”
“L’anoressia, la bulimia e l’autolesionismo erano come delle voci nella mia testa che mi parlavano e mi mormoravano o urlavano quello che dovevo o non dovevo fare, che erano le mie uniche amiche e cose del genere. Il binge eating, invece, non mi ha mai sussurrato nulla. Skyscraper, la canzone che avete già ascoltato, parla della mia ripresa, di come sono risalita dal fondo. Sono stata fortunata: in certi casi l’anoressia può portare alla morte.”
Quella parola cadde su di loro come un macigno, tutti piegarono la testa e la schiena come se ne sentissero sul serio il peso e facessero fatica a sostenerlo.
“Allora è molto grave” mormorò Eliza.
“Sì.”
Isla si portò una mano davanti agli occhi, Kaleia e Sky respiravano a malapena e gli uomini si guardavano inquieti.
Demi appoggiò una guancia contro la mano. Si sentiva svuotata di ogni energia, soprattutto mentale. Anche se raccontare quello che aveva passato aiutava tanta gente, nonostante lei sentisse di volerlo fare anche con i suoi compagni, parlarne non era mai semplice. Quanti anni aveva sprecato a causa di quelle malattie? Quanta vita?
“Ma sapete una cosa? Rialzandomi a fatica, mi sono resa conto di essere molto più forte di quello che credevo. Ho imparato tanto su me stessa a causa della mia sofferenza, sui miei limiti, su come prendermi cura di me, sul modo in cui posso aiutare le altre persone raccontando cosa mi è capitato.”
I due fidanzati decisero che, per il bene della ragazza, sarebbe stato meglio se avesse riposato, anche perché non c’era altro da dire.
Christopher preparò per tutti una tisana ai frutti di bosco. La cantante e il fidanzato andarono a letto. Non parlarono, ma si addormentarono abbracciati come per darsi conforto e trasmettersi coraggio. L’insicurezza la faceva da padrona quando erano soli, a volte, ma sapevano di avere anche una grande forza che, se stavano insieme, aumentava.
 
 
 
Intanto, gli altri rimanevano in silenzio.
“Che ne pensate?”
“Che sono tematiche particolari per noi, Noah, per il nostro mondo e mi risulta difficile capirle” commentò Oberon.
Tutti concordarono e alcuni sospirarono, mentre ripensavano alle peripezie della ragazza.
“Al suo posto non so se sarei sopravvissuta, come avrei potuto resistere” disse invece Kaleia. “Forse sarei morta.”
“Io impazzita, sorellina.”
“Non ho idea di come sarebbe stata la mia vita. Soprattutto se mi fossi ammalata avendo già Lucy e Lune, o prima, come nel caso della mamma di Demi. Immagino che mangiasse normalmente, o almeno si sforzasse di farlo, quando era incinta. Tutti quegli anni di segreti, come sono riuscite a sopportarlo? Per sua mamma sarà stato scioccante sapere che la figlia aveva questi problemi, si sarà sentita in colpa e preoccupata da morire.”
Isla era madre e si metteva le mani nei capelli al solo pensiero, non immaginando nemmeno cosa sarebbe successo se fosse capitato a Lucy o a Lune. I genitori cercano sempre di aiutare i propri figli, di proteggerli dal dolore e dalla cattiveria del mondo, dai problemi, ma non ci riescono mai del tutto, lo sapeva. Era conscia anche di un’altra verità: in parte è giusto così, altrimenti questi non faranno mai le loro esperienze, d’altro canto però per loro vederli soffrire è uno dei colpi più duri, sapere di non esserci stati abbastanza nei momenti critici nonostante gli sforzi.
“Hai ragione, tesoro, anch’io mi sentirei come te.” Oberon le circondò le spalle con un braccio. “Ma vedrai che qui non accadrà nulla di tutto questo. Le nostre figlie avranno altri problemi, però, dobbiamo metterlo in conto.”
Si augurarono che l’adolescenza, per le piccole, non sarebbe stato un periodo troppo critico. Pregarono che Lucy e Lune non si sarebbero chiuse in loro stesse e avrebbero trovato il coraggio di parlare, se si fosse presentata qualche difficoltà, ma sapevano che non sempre sarebbe accaduto.
“Comunque,” intervenne Eliza, “è bello che Demi abbia trovato qualcosa di positivo in tutto questo dolore.”
“Vero” sussurrò Kaleia. “Non dev’essere facile arrivarci.”
“Chissà cos’è successo ad Andrew. Secondo voi ce ne parlerà? Ieri ci diceva di un lutto ma non ha aggiunto altro.”
“Non ne ho idea, Sky, ma se vorrà lo ascolteremo.”
“Certo, mamma. Kia, che ne dici se prepariamo una merenda golosa per tutti? Sono sicura che tirerà su il morale a ognuno di noi.”
“Perché no?”
Mentre Isla e il marito andavano a prendere le figlie, le due sorelle tiravano fuori gli ingredienti necessari per preparare un cibo che adoravano.
“Niente sciroppo d’acero, vero?”
“Direi di no, Sky. Alle piccole potrebbe non piacere e non so se ci sta bene con questa” rifletté Kaleia, indicando un gran barattolo ancora chiuso appoggiato sul tavolo.
“Bene, facciamoli e poi riempiamo, allora.”
Ma oltre a controllare con precisione le dosi e leggere più volte la ricetta, sapevano che come per ogni piatto bisognava metterci anche l’amore, così sarebbe diventato più buono. Tenersi impegnate le aiutava a non pensare, anche se non sempre era possibile. A volte serviva loro un po’ di tempo. Se lo sarebbero preso quella sera, parlandone con i loro fidanzati. Demi aveva aperto loro il suo cuore e desideravano fare un piccolo gesto affinché le spuntasse un sorriso. Ciò non sarebbe servito a scacciare il suo dolore, ma quantomeno a rasserenarla. Eliza, intanto, venne in cucina a preparare un caffè per tutti, dato che aveva sentito dei movimenti nella camera dei suoi ospiti. In silenzio, pregò affinché i giorni seguenti, per Andrew e Demi, sarebbero stati più sereni e si augurò lo stesso per il resto della loro vita. Meritavano un po’ di pace e lei, le figlie e tutti gli altri avrebbero cercato di far vivere loro esperienze indimenticabili.
 
 
 
CREDITS:
la frase “Sai che oggi è un giorno speciale?” è tratta dalla storia Luce e ombra: Il bosco delle fate di Emmastory. L’ho messa in corsivo perché si tratta di una citazione.
Dianna De La Garza, Falling With Wings: A Mother’s Story
La frase “Picchiamo la puttana” è tratta dal libro e la versione originale è “Let’s beat that bitch up”. “Il muro dell’odio”, invece, è “the hate wall”.
 
 
 
NOTE:
1. le informazioni sui bambini di quattro mesi, anche quelle future, sono tratte dal sito www.nostrofiglio.it.
2. Dianna ha davvero sofferto di anoressia e depressione post partum, ha avuto anche altri problemi che qui non abbiamo menzionato. Scrive di tutto ciò nel suo memoir.
3. Denise è inventata, ma l’episodio di bullismo per cui poi Demi ha lasciato la scuola è vero.
4. Demi ha rivelato a People che si tagliava, all’inizio, perché l’aveva visto in televisione, e a 20/20 che sapeva che alcune persone a scuola lo facevano e si era detta che poteva essere un modo per controllare la sofferenza.
5. Dianna parla dei motivi del binge eating e dell’anoressia della ragazza nel libro, anche se alcuni si intuiscono e basta vista la situazione. È vero anche il fatto che la donna non capisse le difficoltà della figlia, sia con i bulli che con il cibo, ne parla in diverse pagine.
6. Sempre a People Demi ha detto che ha smesso di mangiare, a dodici anni, perché non aveva amici e pensava che facendolo le cose sarebbero state diverse. Ha accennato anche ai blog, ai commenti e al lavoro alla Disney. Ha anche spiegato:
“[…] When I was about 15, I was only eating two meals a week, but I wasn’t losing any more weight because my body adjusted to that. So I tried new things: laxatives, fasts-nothing was working. I decided maybe I should start throwing up. At my worst, I was doing it five times a day. I threw up so hard and so much, it was just blood in the toilet.”
 
Traduzione:
“[…] Quando avevo circa 15 anni, mangiavo solo due pasti al giorno, ma non perdevo più peso perché il mio corpo si era abituato a ciò. Così ho provato nuove cose: lassativi, digiuni – niente funzionava. Ho deciso che forse avrei dovuto vomitare. Nel momento peggiore, lo facevo cinque volte al giorno. Vomitavo così tanto che c’era solo sangue nel water.”
Poco dopo c’era scritto che la bulimia è iniziata a quindici anni.
7. Al Katie Couric Show ha rivelato che il succo la faceva ingrassare, che da piccola si metteva la mano sulla pancia e che crede di essere nata con quel problema.
8. Ecco la differenza, spiegata più nel dettaglio, tra anoressia, bulimia e binge eating dal sito www.psicologo-parma-reggioemilia.com.
In genere l’Anoressia Nervosa si esprime con un controllo rigido e costante sull’alimentazione. Chi ne soffre non “sgarra” mai con il cibo: conta le calorie di ogni porzione e sa con esattezza di quali nutrienti è composta. Se l’Anoressia si manifesta in questa forma, è facile distinguerla dalla Bulimia in cui si hanno, invece, episodi più o meno frequenti di abbuffate, cioè di perdita di controllo sulla quantità di cibo ingerito. Esiste, però, un particolare sottotipo, definito “Anoressia Nervosa con abbuffate/condotte di eliminazione”, in cui si hanno le abbuffate e la messa in atto di azioni compensatorie che, come nella Bulimia, comprendono il vomito autoindotto, l’esercizio fisico compulsivo e l’uso di diuretici o lassativi. Le condotte del paziente anoressico e di quello bulimico possono apparire, quindi, molto simili. Ciò che distingue sempre uno dall’altro, tuttavia, è che il primo si presenta in sottopeso e manifesta il rifiuto, a parole o con i fatti, di recuperare o mantenere il proprio peso al di sopra del minimo normale. Il paziente bulimico, invece, è spesso normopeso o in leggero sovrappeso.
[…] nella Bulimia sono attuate condotte compensatorie allo scopo di disinnescare la preoccupazione di aumentare di peso o il senso di colpa per aver violato regole alimentari. Il paziente con Binge Eating, al contrario, non attua tali condotte. Un’altra differenza sta nelle conseguenze sulla forma fisica. A differenza di chi soffre di Bulimia, chi soffre di Binge Eating è sempre in sovrappeso.
9. Le ore di allenamento, le diete, il fatto che Demi stava fuori per non mangiare sono eventi presi da alcune interviste. Per quanto riguarda la terapia, si tratta di tecniche delle quali ho sentito parlare su YouTube.

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Capitolo 27
*** Gita a cavallo ***


You're not alone
Together we stand
I'll be by your side, you know I'll take your hand
When it gets cold
And it feels like the end
There's no place to go
You know I won't give in
No I won't give in
 
Keep holding on
'Cause you know we'll make it through, we'll make it through
Just stay strong
'Cause you know I'm here for you, I'm here for you
(Avril Lavigne, Keep Holding On)

 
 

CAPITOLO 27.

 

GITA A CAVALLO

 
Demi e Andrew si svegliarono con un sonoro sbadiglio e dimenticarono di coprirsi la bocca. Avevano dormito un sonno agitato, popolato da brutti sogni riguardo il proprio passato, momenti che faceva loro male ricordare. Hope, invece, era seduta nel suo lettino e aspettava che la mamma la aiutasse a uscire, mentre Mackenzie si stava sfilando il pigiama e rimettendo la tuta.
Dopo aver vestito Hope, rifatto il letto e aperto le imposte, la coppia si diresse in salotto con le figlie.
“Abbiamo preparato la merenda per tutti” disse Sky dopo i saluti, guidandoli in cucina.
In quel momento tornarono anche Isla e Oberon con Lucy e Lune. Rover corse subito a giocare con Lilia, che se ne stava sdraiata sul tappeto, mentre il draghetto di Hope si esibì in piccoli voli e inseguimenti per il salotto.
Poco dopo, qualcuno grattò sulla porta, poi sulla finestra.
“Il mio drago!” esclamò Lune.
“Anche tu ne hai uno?” chiese Demi, che non se l’aspettava.
“Sì,” rispose Isla, “a scuola ce n’era uno solo e l’ha scelto un compagno e lei è tornata a casa senza un animaletto, perché nessun cucciolo l’ha scelta.”
“Dev’essere stato tristissimo” mormorò Andrew e lei annuì.
“Me l’hanno dato le ninfe.”
“Nella grotta c’è una femmina di drago,” continuò la mamma delle pixie, “voi non avete visto perché non c’era già più.”
“Era morta?” domandò Andrew, sbiancando.
“No. Tempo fa ha fatto le uova. Ma i draghi sputano fuoco e, dato che i boccioli dopo due o tre mesi mettono radici e sono ancorati al terreno, verrebbero bruciati da lei e dai cuccioli. Uno è andato a Lune e gli altri sono rimasti con la mamma” spiegò Oberon.
Isla aggiunse:
“Ma tutto questo è successo prima del sogno di Mackenzie, per questo non avete visto niente. Sarebbe stato difficile non notare dei draghi, non trovate?”
Tutti risero.
“Si chiama Flame” continuò Lune. “Ti piace?”
“Oh, è davvero bello, pixie” le rispose Andrew.
Era in tutto e per tutto uguale ad Agni e gli si avvicinò iniziando a volare con lui.
“Come sono teneri!” esclamò Lucy.
Mackenzie concordò e la abbracciò.
Come ti senti? Mi sono preoccupata.
Si era ritrovata a pensare spesso a lei. Quando era stata male, anche se la mamma e Isla le avevano detto di non sentirsi in colpa, la bambina aveva percepito un gran dolore al petto. Le notti precedenti si era svegliata qualche volta scuotendo piano la mamma.
“Mackenzie, che c’è?” le aveva domandato Demi, sempre più stanca.
Lucy sta male?
“Non credo, vedrai che le sarà già passato.”
Sei sicura?
“Isla ed Eliza si conoscono bene, così come Kaleia e Sky frequentano spesso gli Hall. Se fosse accaduto qualcosa di grave sarebbero venuti a dirlo, ne sono certa.”
Mac aveva pensato spesso a lei pregando Dio che stesse bene.
La voce di Lucy la riportò alla realtà.
“Meglio, grazie. Sono rimasta a casa e ho riposato.”
La piccola tirò un sospiro di sollievo constatando che Lucy era allegra e sorridente come quando l’aveva conosciuta.
Le due bambine si raccontarono a vicenda ciò che avevano fatto fuori e dentro scuola.
“Davvero andrai al Giardino domani? E anche Hope? Bellissimo!” trillò la pixie.
Com’è?
“Rilassante, ma non voglio anticiparti nulla o ti perderai tutto il divertimento. Io ci sono stata con la scuola l’anno scorso e ogni tanto ci torno con i miei genitori, piace anche a Lune.”
“Vero, ci sono tanti animali” aggiunse quest’ultima, piano e a fatica.
“Sì, e un sacco di piante che forse non avrai ancora mai visto, ma ora basta, o ti dirò ogni cosa.”
Sapendo di essere logorroica e di non riuscire, spesso, a fermarsi, Lucy si cucì la bocca sull’argomento e la sorellina la imitò perché, anche se più tranquilla, temeva di rovinare qualche sorpresa a Mackenzie.
“Lunie, giochiamo? Giochiamo?” le chiese Hope, tirandole il vestitino rosso che indossava.
“Lo farete, bambine, magari fuori, ma prima mangiamo qualcosa” le richiamò con dolcezza Demi.
L’aria che entrava dalla finestra aperta della cucina trasportava un buon odore di erba e fiori, così tanti che Mackenzie riconobbe solo quello delicato delle rose. Demetria aiutò Eliza a versare a ognuno un bicchiere di tè freddo, al limone o alla pesca a seconda dei gusti, e poi la maggiore e le figlie distribuirono a ciascuno un piatto di pancake alla Nutella.
“Li abbiamo fatti noi” disse Kaleia, “questo è il piatto preferito mio e di Sky.”
“Allora ci assomigliamo,” intervenne Demi, “uno dei miei due è il cioccolato.”
“E l’altro?” indagò Lucy.
“La pizza.”
I pancake erano tiepidi, la Nutella non ancora del tutto solidificata. Non sporcarsi risultava difficile, soprattutto per Hope, che il padre dovette aiutare prima di mangiare la propria merenda, ma questo non rendeva certo meno buono il dolce. Tutti si complimentarono con le sorelle, Mackenzie scrisse addirittura a bocca piena e Lucy e Lune, disobbedendo per una volta a quanto i genitori avevano insegnato loro, dissero a Kaleia che era stata bravissima con le guance tanto gonfie che si capì poco e niente. Tutti scoppiarono a ridere e Isla e Oberon non ebbero il coraggio di sgridarle.
“Andrew, qual è il tuo cibo preferito?” gli chiese Oberon.
“Non ne ho solo uno, come la mia fidanzata. Di salato mi viene da dire la pizza, di solito mi piace con le verdure e un po’ di formaggio spalmabile come il mascarpone, mentre per quanto riguarda il dolce, credo che la cheesecake alle fragole o, ancora meglio, al cioccolato, sia il massimo.”
“Io, invece, adoro le mele. Sono sane, ma buone e fanno bene” rispose il folletto e la moglie concordò con lui, ma riguardo i kiwi.
A un occhio esterno avrebbe potuto sembrare stupido, ma per loro anche solo parlare di fatti semplici come quelli li aiutava a conoscersi.
Mamma, posso bere il caffè?
Mac indicò le tazzine vuote sul lavello. Gli adulti dovevano averlo bevuto mentre lei, la sorellina e le altre bambine parlavano.
“No, sei troppo piccola.”
“Anche tu” disse Isla a Lucy, che voleva chiedere la stessa cosa.
“Uffa, ma perché? Io ho sette anni, lei sei.”
“Appunto,” riprese la cantante, “io ho bevuto il mio primo caffè a quattordici anni, a dodici solo un goccio ogni tanto.”
“Io anche più tardi, e comunque il caffè è forte per i bambini. Il decaffeinato meno, quello normale di più, però non è adatto in ogni caso” spiegò la fata.
Le due bambine si arresero e sospirarono, non vedendo l’ora di crescere per poter assaggiare quella bevanda dall’aroma stucchevole.
“Che vi va di fare oggi pomeriggio?” chiese a tutti Eliza, mentre lavava i piatti.
“Giocare!” trillò Hope e la donna, dopo essersi asciugata le mani, la baciò in fronte.
“Lo immagino, piccola e lo farete tantissimo. Ma oltre a questo, voi adulti che dite?”
“E tu, Eliza?” le domandò Isla.
“Vorrei andare a casa delle due amiche di Mackenzie, invitarle alla festa e fare lo stesso con gli altri invitati, anziché scrivere inviti e spedirli, o potrebbero non arrivare per domani. In più devo andare a comprare dei palloncini colorati e il cibo e le bibite necessari per il buffet, insomma organizzarmi.”
Andrew e Demi le lanciarono uno sguardo interrogativo e dissero che, invece, loro non avevano idea di cosa fare.
 
 
 
“Vi piacerebbe una passeggiata su un unicorno?” propose Kaleia.
“Aspetta, hai detto un unicorno?”
Demi era scioccata e temette di aver sentito male. Sì, quello era un mondo magico e, dal momento in cui era arrivata, aveva visto tantissime creature strane che nel suo non esistevano. Ma c’erano addirittura gli unicorni?
“Esatto, ce ne sono tanti qui” spiegò Chris.
“Wow! Scusateci, è che non… non ci aspettavamo anche questo” mormorò Andrew, che aveva avuto il suo stesso pensiero.
“Io sono andata a cavallo quand’ero piccola, dagli otto ai nove anni, poi ho smesso perché tra la scuola, il canto e in seguito la recitazione con i miei primi film non ho più trovato il tempo di portare avanti questa passione. È stata dura, un gran sacrificio, ma non potevo fare altrimenti.”
“Io invece ho cavalcato solo una volta.” Andrew raccontò che, qualche tempo prima, Demi li aveva portati in un ranch dove si recava da piccola e che lui e la fidanzata avevano montato. “Ma non sono andato un granché.”
“Sciocchezze, per essere stata la tua prima cavalcata te la sei cavata in maniera egregia.”
“Ti ringrazio. Insomma, non so come ce la potremo cavare con degli unicorni. E poi dove sono?”
“Nei prati che circondano la grotta delle ninfe. In parte avete visto quelle distese erbose, ma sono enormi e loro vivono lì. Sono tutti domati da fate, folletti e ninfe ma liberi, non sappiamo nemmeno quanti siano con precisione perché si spostano anche nel resto del bosco, forse centinaia o migliaia. Chiederò ad Aster di aiutarmi a trovarne quattro e vi accompagneremo io e Chris” concluse Kaleia, alla quale il marito riservò un’occhiata di rimprovero.
Lei era incinta e, anche se a mano a mano che la gestazione avanzava il pericolo di perdere il bambino si allontanava, non scompariva mai. In più, sapevano entrambi che cavalcare in gravidanza era sconsigliatissimo. La ragazza lo prese da parte e gli parlò. Gli spiegò che, essendo quello un sogno di Mackenzie, la piccola non avrebbe mai permesso che succedesse qualcosa di brutto a un bambino, per cui si sentiva tranquilla perché sapeva che non sarebbe successo nulla.
“Chiederemo ad Aster di fare in qualche altro modo, non voglio che tu ti metta in pericolo.”
Kaleia sospirò.
“D’accordo, hai ragione.”
“Tranquilla, Demi, portiamo io e Oberon le tue figlie e le nostre a giocare insieme, non le perderemo mai di vista” le assicurò Isla.
La ragazza insistette un po’ per non andare, non voleva esserle di disturbo, ma alla fine l’altra la convinse. La cantante la ringraziò e, più calme, le due coppie uscirono e si diressero alla grotta delle ninfe.
 
 
 
Aster era seduta all’ombra di un pino. Respirava il pungente profumo di resina che, però, tanto le piaceva e le solleticava il naso e cercava di svuotare la mente. Non voleva pensare a nulla, né di positivo né di negativo, anche se per fortuna negli ultimi tempi nella sua vita non era accaduto niente di brutto. Non aveva visto molte volte i nuovi arrivati al villaggio, ma le erano sembrate brave persone. Chiedeva con frequenza di loro a Kaleia, dirigendosi a casa sua per farlo e chiacchierare un po’ con lei, da buona amica qual era. Si faceva raccontare come stavano, non per spiarli o violare la loro privacy, questo mai, ma solo per assicurarsi che andasse tutto bene. La fata le raccontava le avventure, se si potevano definire tali, che vivevano insieme e il giorno prima aveva aggiunto che tutti avevano alle spalle un passato difficile che ancora li tormentava, ma non si era azzardata ad approfondire l’argomento. Un conto era discuterne con il fidanzato, la sorella, la madre o gli altri con i quali Demi e Andrew si erano confidati, un altro mettere a parte una persona con cui quei ragazzi avevano scambiato poche parole. Non aveva trovato giusto condividere con Aster dettagli tanto intimi della vita dei quattro umani, per quanto considerasse la ninfa una sua grande amica. Quest’ultima, per rispetto, aveva capito.
Chiedendosi cosa fosse successo loro e pregando che ora stessero meglio, Aster accarezzò con un tocco delicato uno dei boccioli sulla propria testa come farebbe una mamma con il suo bambino. Inspirò. L’aria sapeva di pioggia. Il cielo era ancora sereno e splendeva il sole, ma il vento stava cambiando facendosi più freddo e quella notte, ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa, sarebbe piovuto. Era accaduto non molto tempo prima, ma visto il caldo estivo i fiori, l’erba, le piante, gli animali e le altre creature avevano bisogno di più acqua. Kaleia aveva ragione a dire che la natura soffriva d’inverno, benché le piante sepolte nella neve non morissero, ma si trovassero sotto una coperta che le proteggeva da un freddo ancora maggiore. Inoltre, in quella stagione gli animali trovavano a fatica di che mangiare, ma l’estate si preannunciava torrida e, se non fosse piovuto, sarebbe stato un disastro per tutti.
Non è vero che niente mi turba, quindi.
Al contrario di lei, Kaleia in quei giorni appariva calma. Lo era sempre, a meno che non fosse autunno o inverno.
“Tranquilla, Aster. La natura sta ancora bene.”
Intorno a lei non sentiva nulla soffrire, né una pianta né nessun animale, nemmeno gli insetti, anche se il ronzio di qualche mosca appariva nervoso.
Respirò ancora più a fondo e contò fino a dieci. Cercò di rilassare i muscoli tesi. All’interno della grotta, alcune delle sue sorelle ridevano a causa di una battuta che qualcuna di loro doveva aver fatto, ma che lei non aveva udito. Non se la sentiva ancora di raggiungerle, anche se là dentro faceva più fresco.
Uno scalpiccio le fece alzare lo sguardo. Chris e Kaleia stavano accompagnando Andrew e Demi verso di lei. Dopo i saluti e un abbraccio caloroso, la ninfa chiese loro di cosa avessero bisogno. Kaleia glielo spiegò e l’altra si allontanò con lei.
 
 
 
“Vanno a cercare gli unicorni?” chiese Andrew.
“No,” rispose l’altro, “Kaleia rintraccerà la loro scia magica e li farà arrivare qui, un po’ come con Batman. Aster le tiene solo compagnia, una sorta di sostegno in questo incantesimo.”
Poco dopo un unicorno bianco, grosso e così alto che Demi avrebbe fatto fatica a toccargli la groppa, si fece avanti al trotto. Guardò Christopher e gli si avvicinò, piegò la testa e strusciò il muso contro il suo fianco, poi nitrì forte per salutarlo.
Demetria era affascinata, tanto che non poté trattenersi.
“Che animale magnifico!”
Ne arrivarono altri tre, di diversi colori.
“Questi unicorni sono due maschi e due femmine” spiegò Kaleia tornando da loro. Appariva sudata e stanca e con il fiatone, così preferì sedersi un po’ sull’erba. Sforzarsi troppo non faceva bene né a lei né al bambino. “Perché non mostrate loro come pulirli?” propose al marito e ad Aster.
I due portarono loro un paio di spazzole per sistemare criniera, corpo e coda degli unicorni. La prima e l’ultima erano crespe, ma ben curate anche se piene di polvere.
“Ti ricordi come ti ho insegnato?” chiese Demetria al fidanzato.
“Sì.”
Tenendo una mano sulla prima per non far male all’animale, Andrew la spazzolò a quello bianco mentre Demetria si occupò di un unicorno nero e Aster e Christopher degli altri due. Per la coda valse lo stesso. Lo sporco e la polvere vennero via con relativa facilità mentre passarono il corpo, dal pelo cortissimo e liscio, con piccoli movimenti circolari che rilassarono gli animali. Ogni tanto sbuffavano o si muovevano, solo una volta Demi rischiò di essere calpestata da uno zoccolo e il suo cuore saltò un battito, ma riuscì a spostarsi in tempo. Lavorando ascoltavano i respiri lenti degli unicorni, ne percepivano il calore sotto i palmi e le dita ed entravano in contatto con loro.
“Ci sai fare” commentò Kaleia.
“Ricordi di quando ero piccola rispolverati qualche tempo fa, ma non credevo di essere ancora così sicura di me.”
Lo spazzolava con un’espressione serena sul volto, non ne aveva paura nonostante la stazza.
“Saphira sente che le vuoi bene e che te ne stai occupando con amore, credimi.”
La femmina fissava la cantante con i suoi occhioni scuri e la testa alzata, ma appariva tranquilla.
“Ne sono felice, perché è proprio così. Mi fa piacere riuscire a trasmetterglielo attraverso il contatto.”
Andrew, invece, tremava appena e l’unicorno era un po’ più nervoso, per cui Christopher cercò di aiutarlo.
“Fa’ dei respiri profondi e rilassati, non succederà niente, vedrai. Lui percepisce le tue emozioni e forse avete bisogno di un po’ più di tempo per conoscervi e capirvi.”
“M-mi dispiace, non voglio agitarlo.”
Pregò di poter farsi piccolo piccolo e sparire sotto terra. D’accordo, non aveva esperienza né con i cavalli né con gli unicorni e temeva di essere pestato da uno zoccolo e ritrovarsi il piede spappolato, ma cercava di non pensarci anche perché non appariva nervoso fino a quel punto e poi diamine, lo stava solo spazzolando, non doveva essere difficile.
“Non preoccuparti, è normale sentirsi emozionati e anche un po’ spaventati la prima volta, lui è alto” ridacchiò Christopher, poi si rivolse all’animale e aggiunse: “Non ti stavo prendendo in giro, Xavros, perdonami, ma sei grande sul serio.”
Andrew eseguì ciò che Chris gli aveva consigliato, salutò l’unicorno e gli parlò di nuovo.
“Scusami, devo solo conoscerti, non ho mai incontrato altri unicorni prima. Adesso ti spazzolo così diventerai ancora più bello. Non ti farò male, promesso.”
Con un po’ di carezze e qualche rassicurazione l’animale si calmò e così Andrew, che riprese il suo lavoro con più serenità. Aster insegnò ai due come pulire gli zoccoli, la parte più difficile di quell’operazione e alla fine i quattro unicorni privi di sabbia, sporcizia e polvere erano ancora più maestosi di prima. I fidanzati, non abituati a quel genere di lavoro, si ritrovarono sudati e stanchi, ma non erano per nulla intenzionati a fare una pausa.
“Ora voi ne sceglierete due e monterete, d’accordo?”
Era stata Kaleia a parlare, si era ripresa e alzata in piedi.
“Benissimo, ma potreste dirci gli altri nomi, prima?”
“Certo Demi” rispose Chris. “Avete già conosciuto lui e come potete notare ha il segno di un fiore sottopelle. Funziona come per i simboli delle fate e delle altre creature, per cui lui simboleggia la natura.”
L’uomo proseguì con la spiegazione e, alla fine, Andrew scelse proprio Xavros, Demi invece Saphira, in parte perché il nome le piaceva e le ricordava la dragonessa di una delle sue saghe fantasy preferite, il Ciclo dell’eredità di Christopher Paolini, con sul fianco il simbolo di una goccia d’acqua.
“E voi due come farete?”
“So io come” intervenne Aster.
Si mise la testa fra le mani e guardò verso terra, poi il suo sguardo divenne nero e assente.
“Oh Dio, si sente male?”
“No Demi, sta manipolando la natura e fa così per mantenere la concentrazione, tranquilla” la rassicurò Christopher.
All’improvviso apparve davanti a loro una carrozza come quelle che i due fidanzati avevano visto tante volte nei film, in qualche illustrazione o, in rari casi, dal vivo, ma fatta di erba e foglie. Zagor, un unicorno maschio, grigio, che aveva come elemento il fuoco ed Emerald, con il pelo marrone, un po’ come ciò che rappresentava la roccia sul suo fianco, la terra, ci erano già attaccati, pronti a trainarla. I simboli, così come quelli sui polsi delle altre creature che avevano incontrato, non erano stilizzati come sarebbe accaduto nel loro mondo, ma perfetti tanto da sembrare veri, una cosa che non finiva mai di stupire Andrew e Demi.
In mezzo alla fronte di ognuno degli animali spiccava un lungo corno, ma qualcosa non quadrava.
“Come mai non hanno le ali?” chiese la cantante.
Si era posta quella domanda sin dal primo momento in cui li aveva visti perché, nell’immaginario comune del suo mondo e anche in My Little Pony, erano sempre stati così.
“In questo mondo non le hanno” rispose Aster. “Perché, nel vostro sì?”
Aveva la voce impastata, come quella di chi parla dopo essersi appena svegliato da un lungo sonno. “Sono rappresentati sempre in quel modo” spiegò Andrew.
“Ah giusto, dovevo immaginare che da voi non esistessero. Il vostro mondo dev’essere particolare.”
“Lo è anche questo per noi, ma ci piace.”
Demi annuì.
Dopo aver insegnato loro come mettere le redini e la sella, operazioni che richiesero un po’ di tempo, Kaleia e Christopher portarono due scale a tre pioli.
“Si potrebbe montare usando le staffe, ma qui non le utilizziamo e preferiamo questo metodo” spiegò l’uomo. “Siete pronti?”
“Prontissimi!” esclamarono insieme i fidanzati.
Demi mise le mani sopra la sella di Saphira per tenersi in equilibrio, dato che la scaletta non aveva qualcosa a cui aggrapparsi. Salì il primo gradino e questa rimase ferma, così come l’unicorno. Quella di Andrew, invece, traballò.
“Scendi, amico” lo pregò Chris, spostando un po’ sia questa sia Xavros, che obbedì al suo richiamo.
“Non usate mai la longia?”
“La cosa, Andrew?” domandò ancora l’uomo.
“Da noi, quando si prepara un cavallo, gli si possono mettere due cose: la capezza, una cintura di cuoio con un moschettone, attorno al muso e la longia, una corda di circa due metri. La si attacca al moschettone e si tira in avanti, così il cavallo capirà che deve avanzare, se per esempio lo si porta a passeggiare al proprio fianco prima di salirci o anche per farlo uscire dalla scuderia.” Sperò di non aver usato termini troppo tecnici, aveva cercato di spiegarsi nel modo più semplice possibile ma, dato che gli altri non gli fecero domande, continuò: “Pensavo solo che, per conoscerli meglio, prima li avremmo fatti camminare un po’.”
“Qui non si utilizza, non ne abbiamo mai nemmeno sentito parlare” proseguì Aster. “Ma se volete, potete tenere una mano sulla sella e camminare con loro.”
I due furono felici di vivere quell’esperienza, tuttavia si domandarono come avrebbero fatto a mostrare all’unicorno la direzione da prendere se avessero dovuto girare a destra o a sinistra senza avere la longia e con il timore che sarebbe accaduto qualcosa di pericoloso, ma si dissero che gli altri non li avrebbero mai messi in situazioni rischiose.
“Siete sicuri?” chiese Demi, mentre il cuore le martellava nel petto.
“Fidatevi di noi” le rispose Aster.
I due si sforzarono di sorridere e calmarsi, ma non era facile. Andrew partì per primo. Incedette piano, tremando, faticando a tenere la mano sulla sella, mentre l’unicorno lo seguiva e si adattava al suo passo. Per un po’ rimase con la testa alzata, le orecchie tese come se temesse che da un momento all’altro sarebbe accaduto qualcosa o quello sconosciuto gli avrebbe fatto del male, così Andrew prese a parlargli. Gli raccontò delle sue figlie, di quanto le amava e del motivo per cui erano finiti in quel mondo. Nel frattempo anche Demi aveva iniziato a camminare con Saphira. Era più bassa di Xavros e, quindi, le risultò più semplice tenere la mano in quel punto, ma il tremore del suo braccio era più visibile rispetto a quello del fidanzato e traeva respiri profondi prima di iniziare una nuova frase, con il battito tanto accelerato che lo sentiva rimbombare nelle orecchie. Entrambi si tenevano a una breve distanza dall’unicorno, per non rischiare di essere pestati, ma comunque abbastanza vicini da fargli sentire la loro presenza. Si imposero di respirare con calma, o perlomeno di provarci, continuando a pensare che nulla sarebbe potuto andare storto. Ma gli unicorni erano comunque animali abituati a stare sempre all’aperto per quanto domati, non c’era tutta la sicurezza presente nel loro mondo e ciò non permetteva ai due di rilassarsi. Xavros e Saphira avrebbero potuto decidere di correre via in qualsiasi momento, facendoli cadere a terra e ferendoli in modo grave.
“Demetria, guarda.”
La voce di Kaleia la distrasse dai suoi timori e anche Andrew alzò lo sguardo. Saphira aveva la testa abbassata e gli occhi semichiusi, le orecchie all’indietro e il respiro più lento. Si era rilassata, fidandosi del tutto della nuova padrona, se così la ragazza si poteva definire.
“Brava, bella” mormorò Demi accarezzandole un fianco.
Lei, il fidanzato, Kaleia e Christopher, che avevano lasciato gli altri due unicorni ad attenderli con la carrozza, si fermarono in mezzo a un prato per farli mangiare. Rimasero al loro fianco e li ascoltarono brucare l’erba e masticare, un suono rilassante che Demi aveva dimenticato da tempo.
“Troppo” si disse, ma con la vita che conduceva ora non sarebbe mai riuscita a riprendere l’equitazione, tra il lavoro e le bambine.
Forse in futuro, chissà.
La cosa che aveva sorpreso i due fidanzati era stata che tra i cavalli e gli unicorni c’era una differenza che non si sarebbero aspettati. I primi, infatti, vedono una persona o un oggetto da due metri di distanza in poi, a causa del loro muso lungo, mentre Xavros e Saphira li guardavano anche se si trovavano a pochi centimetri da loro.
In quel momento giunse Aster portando a ognuno una ciotola di fragole di bosco e dell’acqua del fiume, che i quattro gradirono moltissimo. Tornando indietro, entrambi gli unicorni erano tranquilli. Si erano rilassati sentendo che chi li guidava non tremava più, o lo faceva poco, e non si agitava, poggiando su di loro una mano che trasmetteva sicurezza.
Una volta al punto di partenza, Demi e Andrew si misero davanti al loro muso per accarezzarlo e sfiorare la criniera. Saphira e Xavros li annusarono e si strusciarono contro di loro a occhi chiusi. Anche i fidanzati li chiusero, per godersi la sensazione del loro naso umido sulla mano. Il respiro degli unicorni era calmo, proveniva dal più profondo dei loro petti che si alzavano e abbassavano piano. Scaldò loro le mani e gli animali nitrirono forte.
“Tra loro c’è complicità” spiegò Christopher, “o almeno così pensiamo. Li vediamo spesso insieme e crediamo siano più che amici.”
I fidanzati sorrisero.
Quando si ritrovarono entrambi in cima alla scala, pregando che questa non si spaccasse, fecero scorrere la mano destra fino a raggiungere le redini. Dopo averle prese, passarono la gamba sinistra dall’altra parte della sella, si diedero lo slancio e si issarono con un po’ di difficoltà. Se si fossero trovati nel loro mondo avrebbero speso quanto meno qualche ora in più per conoscere gli animali, ma non sapendo quanto sarebbero rimasti lì era necessario fare le cose in fretta. In ogni caso, i due unicorni si erano fidati di loro prima di quanto avrebbe fatto qualsiasi cavallo. Xavros restò immobile come una statua, mentre Saphira si mosse un po’, Demi tremò con violenza e il suo cuore prese a battere come una furia colpendo con veemenza la cassa toracica.
“Oh mio Dio!” mormorò, con il fiato mozzato e le mani tanto strette alle redini che le nocche sbiancarono.
“Tranquilla, Demetria, sta solo aspettando che tu ritrovi l’equilibrio” disse Kaleia.
Lei trasse qualche profondo respiro. Il fidanzato era tranquillo in groppa al suo animale. Dondolò un po’ temendo di cadere, rompersi la schiena, o le costole e i peggiori scenari le passarono davanti mentre un gelo paralizzante la bloccava, ma alla fine con uno sforzo riuscì a stabilizzarsi.
Christopher e Kaleia montarono in carrozza e i quattro partirono.
Zagor ed Emerald iniziarono a correre mentre i due fidanzati restarono indietro, così Chris e Kaleia tornarono da loro e fecero capire ai due unicorni che avrebbero dovuto andare se non alla loro stessa andatura, quantomeno poco più veloci.
“Andrew, stai tenendo male le redini” gli fece notare Christopher. L’uomo aveva la mano chiusa a pugno, con il pollice all’interno. “Usa entrambe le mani, così andrai meglio, poi prendi le redini tra anulare e mignolo e falle uscire tra pollice e indice, con il dito più grosso che preme appena su di esse. Così, esatto.”
Diede ai due fidanzati qualche altro dettaglio tecnico sulla posizione di braccia, mani e disse loro di stare dritti, con la schiena perpendicolare all’unicorno.
“In confronto a te mi sento una schiappa” sussurrò Andrew alla fidanzata.
“Ma dai, smettila. Non mi alleno da un sacco di tempo, stasera sarò un catorcio. E poi io stavo un po’ curva, tu almeno eri dritto.”
Tenendo sempre le gambe attaccate al corpo del proprio animale, ai due bastò stringere un po’ i polpacci e fare pressione perché avanzasse. Il rumore degli zoccoli risultava ovattato a causa del fatto che stavano procedendo su un terreno erboso, ma trovarsi sopra creature imponenti come quelle era comunque un’esperienza unica. Non se la sentirono di aumentare la velocità perché, pur essendo andati a cavallo, non erano mai saliti su un unicorno e non lo conoscevano ancora bene. Procedettero piano. Trovarsi su un unicorno e muoversi poteva essere descritto in tanti modi diversi, ma quello che la ragazza ritenne più azzeccato fu stare su un’onda del mare che la portava verso riva, giù nelle profondità e poi su di nuovo, ma con lentezza e dolcezza, come se la stessero cullando. Andrew, invece, si godeva la sensazione di essere avvolto da quel dondolio continuo, quasi che si fosse trattato di un abbraccio materno, delicato e protettivo.
“Piegatevi leggermente a destra” suggerì Christopher, cercando di sovrastare con la voce gli schiocchi degli zoccoli degli animali.
“Perché?” chiese Andrew, mentre Demi aveva già capito.
Lui non rispose.
I due obbedirono con un po’ di diffidenza, ma non accadde niente di brutto e gli unicorni girarono in quella direzione, mentre Emerald e Zagor lo fecero seguendo la mano di Christopher che indicava loro dove andare. Nessuno parlava. Fata e protettore si lasciavano cullare dal movimento continuo della carrozza e dalla morbidezza dei sedili. La cantante e il suo ragazzo ascoltavano il respiro del loro unicorno armonizzandolo, senza rendersene conto, con il proprio, mentre contavano i suoi passi per rilassarsi. Sentire il loro corpo attaccato a quello dell’amico che li trasportava, percepirne il calore era magnifico, una simbiosi perfetta, anche perché si capivano alla perfezione.
Ma all’improvviso lo sguardo di Andrew, fino a poco prima sorridente, si adombrò.
“Non ti senti bene?” gli chiese la fidanzata. “Vuoi che scendiamo?”
Era salito a cavallo una volta sola, la seconda esperienza poteva non essere facile sia dal punto di vista fisico che mentale. Forse aveva ancora paura. A lei era capitato di avere un attacco di panico su un cavallo una delle prime volte, e il fatto che fosse su un unicorno poteva complicare le cose per lui.
“No, non è questo. Possiamo fermarci, per favore? Scusate.”
I due tirarono le redini e Chris fermò la carrozza. I quattro animali smisero di camminare quasi in contemporanea.
“Mia sorella è morta otto mesi fa.” Lì era il 25 maggio, ma che importava? Lui teneva conto di quelli trascorsi nel suo mondo. “Ha avuto un grave incidente. Per parecchi mesi era stata in un altro Paese, lontanissimo dal mio, il Madagascar, a fare volontariato ed era tornata a casa da poco. Dopo quella notte è stata male per anni, addormentata in un certo senso e non si svegliava più. I medici tenevano d’occhio la sua respirazione, la nutrivano con un sondino, una sorta di tubo che passa i nutrienti informa liquida, stavano attenti che respirasse con regolarità, la cambiavano di posizione così che non si formassero piaghe, un fisioterapista la muoveva affinché le articolazioni non restassero immobili, e i dottori controllavano se c’erano segni di risveglio. Mi dicevano di parlarle, di farle ascoltare musica, leggerle qualcosa, portarle dei fiori. Alla fine il suo cuore ha smesso di battere. Hanno provato a riportarla in vita, ma non c’è stato nulla da fare.”
Per un momento valutò di aggiungere che i pazienti in stato vegetativo mantengono il ciclo sonno-veglia, ma da svegli non sono in grado di interagire con chi sta loro intorno. Avrebbe voluto dirlo a tutti, ma i ricordi l’avevano sopraffatto. Gli era tornato in mente, e lo raccontò, che una volta era stato in un ranch con i suoi genitori e lei. Carlie aveva circa tre anni, lui nove. Non aveva voluto montare a cavallo ma la sorellina, piccola eppure più coraggiosa, sì ed era salita su un minuscolo pony che in quel ranch usavano per fare lezione ai bimbi piccoli. E così, pensando a quello, gli era tornato in mente tutto il resto, anche se non lo dimenticava mai.
“Andrew,” mormorò Kaleia, “mi dispiace tantissimo. Tutti quegli anni, non dev’essere stato semplice.”
Non sapeva se al suo posto avrebbe resistito vedendo Christopher immobile in un letto.
L’uomo evitò di usare termini troppo tecnici, di dire che prima era stata in coma e dopo un mese passata allo stato vegetativo e non raccontò nemmeno com’erano morti i loro genitori, ormai sette anni prima, anche se disse che era accaduto.
“No,” riprese, “non lo è stato, però i medici mi hanno preparato già dopo pochi mesi al fatto che si sarebbe risvegliata con difficoltà e poi, più passava il tempo, più mi dicevano di sperare ancora, ma io sapevo che non avrei dovuto farmi troppe illusioni. Già dopo sei mesi in quello stato, le possibilità che un paziente si risvegli calano in modo drastico, o se lo fa non è detto che tornerà come prima, anzi.”
“Il giorno in cui è morta io ero con lui” riprese Demi “e avevo finalizzato l’adozione quella stessa settimana.”
“Mi sono tenuto dentro il segreto della condizione di mia sorella per tanto, troppo tempo. Non volevo essere di peso a nessuno. Demi l’ha saputo dopo qualche anno.”
Ai coniugi mancò il fiato. Non solo non aveva più una famiglia, non quella biologica almeno, non soltanto sua sorella aveva versato in quelle condizioni per anni, ma lui si era anche tenuto per sé ogni cosa.
“C-come hai fatto?” chiese Christopher.
Non balbettava mai, ma fu più forte di lui. Quell’uomo aveva sofferto troppo come la sua ragazza. Lui sarebbe impazzito se avesse vissuto la stessa situazione con sua sorella Leara.
L’altro sospirò.
“Non lo so. Seguitando a non parlarne mi sono arreso al fatto che non avrei mai smesso di sentire quel peso enorme schiacciarmi il cuore e l’anima. Non volevo che nessuno mi compatisse.”
Ma nel tempo aveva imparato ad aprirsi, proseguì, e non solo con Demi. Al lavoro aveva fatto amicizia con Bill, un altro avvocato e adesso erano parecchio in confidenza.
“Ed ora come stai?”
Kaleia lo chiese sottovoce, rendendosi conto che era una domanda stupida. Non sapendo se i suoi genitori biologici fossero morti o meno e non avendo perso nessun altro non poteva capire cosa provava Andrew, ma immaginava che otto mesi non fossero niente dopo un lutto.
“Insomma, alcuni alti e tanti bassi. Mi ci vorrà parecchio tempo, è stata ed è ancora durissima. Carlie per me era fondamentale, la mia vita non è più la stessa senza di lei. Sono successe altre cose dopo la sua morte e anche prima, ma non mi va di parlarne ora. E affrontare tutto questo con la depressione è ancora più difficile. So, però, che sto facendo del mio meglio per riprendermi, che continuo a lottare ogni giorno.”
Quando Demi l’aveva informato della scomparsa della sorella, dopo aver risposto a una di quelle telefonate che nessuno vorrebbe mai ricevere, Andrew si era sentito schiacciare da un peso troppo grande da sopportare. Quando era andato in ospedale l’aveva supplicata di non lasciarlo gridando, prendendole la mano mentre il suo corpo giaceva immobile, ma a nulla erano servite le sue suppliche. I mesi dopo erano stati terribili. Aveva provato a reagire, ma non ci era riuscito. Non era andato al lavoro avvertendo il suo capo, che per fortuna non l’aveva licenziato anche se avrebbe benissimo potuto farlo, e si era rifugiato nel suo dolore lasciando fuori il mondo e la vita che continuava, quella che lui non aveva saputo più come vivere.
Perlomeno, ora aveva ripreso a sorridere, a divertirsi, si distraeva e, spesso, non si sentiva più in colpa se per un po’ non pensava alla sorella e a quanto gli mancava. Con fatica, ma stava provando a riprendersi anche se non era passato tantissimo tempo. Adesso la ninfa, la fata e il protettore conoscevano un’altra parte importante del suo passato. Xavros nitrì e si agitò muovendosi a destra e a sinistra. Percepiva l’ansia del suo cavaliere, forse anche il fatto che aveva gli occhi lucidi e che lottava per trattenere le lacrime, deglutendo a fatica. Qualcuna sfuggì al suo controllo e la asciugò con il dorso della mano, ma stavolta non si scusò. Non ce n’era bisogno, non con loro né con nessun altro di quelli che aveva conosciuto in quel mondo.
Nessuno dovrebbe chiedere scusa se esprime il suo dolore, pensò, ne ha tutto il diritto.
“Grazie per fidarti tanto di noi da raccontarci tutte queste cose” riprese Christopher. “Continua a lottare, ma non metterti fretta e soprattutto non sentirti in colpa se a volte non ce la fai.”
“Più facile a dirsi che a farsi.”
“Lo so, ma provaci. Stai già facendo tutto il possibile e noi vi resteremo sempre vicini, tutti quanti. Se vi sentirete male vi sosterremo, combatteremo con voi.”
“Concordo. Gli amici si sostengono nel momento del bisogno. Forse noi non lo siamo ancora, dato che ci conosciamo da nemmeno una settimana, ma ci siamo.”
“Hai ragione, Kaleia” disse Demi. “Grazie. L’aiuto sarà reciproco.”
“Possiamo continuare” sussurrò l’avvocato e, dopo un profondo respiro, ripartì.
Gli bastò qualche carezza al cavallo e un altro po’ di camminata per sentirsi più leggero. Respirava con maggior facilità e il peso era diminuito. Gli animali, si disse, sanno guarire la nostra anima meglio delle persone.
Procedettero per un altro po’, poi fata e protettore li fecero scendere. I due fidanzati non erano abituati a trascorrere tanto tempo in sella e non volevano si stancassero troppo, anche perché lo sforzo che si deve fare con le gambe e la schiena non è indifferente e loro lo sapevano bene. Quando tutti smontarono, la carrozza sparì. Ogni unicorno salutò il suo cavaliere con un nitrito e poi si strusciò su d lui. Saphira leccò Demi quando questa avvicinò la mano per accarezzarle il muso, mentre Xavros sfregò il naso umido su quella di Andrew.
“Siete stati bravissimi, grazie” dissero all’unisono e l’uomo ringraziò il suo per essergli stato accanto in un momento tanto difficile.
“Non lo dimenticherò mai, amico” concluse con voce rotta.
Aster uscì dalla grotta con quattro mele in mano. Appariva pallida e i suoi occhi erano contornati da profonde occhiaie. Indicò gli unicorni.
“Se le meritano.”
“Decisamente” concordò Demi.
Tenendola sul palmo ognuno la offrì al proprio che la mangiò in due bocconi, tranne Saphira e Xavros che si avvicinarono e la divisero a metà.
“Che carini!” esclamò la cantante con voce dolce. Si rivolse a Emerald: “Tranquilla, troverai anche tu un compagno prima o poi.”
La femmina rispose con un nitrito e si godette le sue coccole.
Poco dopo, tutti e quattro partirono al galoppo e sparirono.
“Wow, è stato bellissimo!” trillò Demetria, saltellando come una bambina.
“Infatti, l’ho adorato, è andato tutto bene nonostante il momento di sconforto. Gli unicorni sono pazzeschi come i cavalli.”
“Siamo felici che abbiate apprezzato e a loro voi siete piaciuti, parola di fata. Aster, grazie per quello che hai fatto per me e Chris.”
“Figurati, è stato un piacere” mormorò trattenendo a stento uno sbadiglio.
“Ora però riposati.”
Mentre si dirigevano verso casa, una farfalla arancione passò davanti a Demi. Volava leggera e le fece spuntare un sorriso perché le sembrò libera come l’aria, un po’ come aveva detto di essere Kady.
Che bella! Speriamo porti fortuna a me e alla mia famiglia questo e, magari, anche il prossimo anno.
Ce ne sarebbe stato bisogno, la vita aveva già segnato tutti.
 
 
 
NOTE:
1. i cibi preferiti di Demi sono questi, l’ha detto in un video su YouTube nel quale rispondeva ad alcune domande dei fan.
2. Per quanto concerne l’esperienza sugli unicorni, io ho fatto equitazione per un anno e mezzo, per questo sono stata in grado di descrivere, al meglio delle mie possibilità, le posizioni da tenere e altri dettagli.
3. Mi sono informata sullo stato vegetativo. Non sono andata in profondità riguardo il motivo della morte di Carlie. Ha smesso di respirare, il cuore si era indebolito man mano anche se non sono entrata nello specifico. Più spesso, però, la causa è un’infezione respiratoria o un danno agli organi.

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Capitolo 28
*** Concentrarsi sul presente ***


CAPITOLO 28.

 

CONCENTRARSI SUL PRESENTE

 
Mackenzie e Hope stavano giocando da tempo con Lucy e Lune. Le maggiori più che altro chiacchieravano, ma a un certo punto iniziarono un puzzle che raffigurava un paesaggio innevato con montagne, un bosco e un lago, mentre le minori si rincorrevano e si facevano il solletico, tutto sotto lo sguardo vigile di Isla e Oberon. Lune non poteva comunicare benissimo, ma non era un problema, le due si capivano a gesti e anche se con alcune difficoltà la piccola parlava; Hope all’inizio la guardò in modo strano non capendo perché non le rispondesse o lo facesse a volte a fatica, quasi che si fosse accorta solo allora di quel problema, ma dopo un po’ ci si abituò e comunicò a gesti o con le espressioni facciali, per quel che riusciva vista la sua età. I cuccioli delle quattro giocavano in disparte, i cagnolini si inseguivano mentre i draghetti volavano facendosi piccoli agguati.
“Mamma, papà!”
Hope corse loro incontro.
Demi e Andrew salutarono le figlie, corsero dentro a darsi una ripulita e così come Christopher e Kaleia che sparirono a casa promettendo di tornare prestissimo. Eliza non si vedeva da nessuna parte, impegnata a comprare chissà cosa per la festa.
Il tempo passò e, alla fine, gli adulti si riunirono agli altri. Andrew e Demi raccontarono eccitati la passeggiata sull’unicorno. Dopodiché, i grandi lasciarono le bambine a giocare in pace e si allontanarono per parlare con calma.
 
 
 
“Mi dispiace per tua sorella, Andrew” mormorò Sky quando seppe l’accaduto.
Sentì un vuoto allo stomaco che le seccò la lingua e le inumidì gli occhi. La testa le vorticò e una forza misteriosa la tirò in avanti. Al solo pensiero che non sapeva come si sarebbe comportata se Kaleia fosse morta le veniva da vomitare. Tutte le volte nelle quali era svenuta o stata male si era preoccupata tantissimo, non avrebbe retto la sua scomparsa. Erano due persone diverse, ma unite da un legame fortissimo tanto che a volte, almeno per quanto la riguardava, credeva che in certe situazioni fossero un unico cuore.
“Ti ringrazio. È stata dura. Lo è sempre” mormorò l’uomo. “Tuttavia, sono sicuro che ora sia felice di sapere che ho incontrato persone meravigliose come voi e che, nonostante tutte le difficoltà, sto cercando di andare avanti, così come lo sono i nostri genitori. Questo mi consola appena, ma me lo devo far bastare.”
“E noi lo siamo di te” si intromise Eliza. “Perdere qualcuno non è facile, non tutti riescono a rialzarsi e credo che chi non ce la fa non debba essere giudicato per questo. Tu, però, ci stai provando ed è ciò che conta.”
Nessuno gli disse che sua sorella non avrebbe voluto vederlo soffrire ancora, né lo giudicò o gli impose di andare avanti e di reagire di più come purtroppo a volte fanno, si disse l’uomo, le persone con chi sta male spronandole quando, in realtà, spesso peggiorano non volendolo la loro situazione. Andrew tirò un sospiro di sollievo.
Non sapeva se avrebbe raccontato il resto, forse quella sera quando le bambine sarebbero andate a letto, ma di certo non in quel momento. Perché lo aspettava la parte più difficile e non riusciva a immaginare come gli altri avrebbero reagito. C’era il cinquanta per cento di possibilità che, allora sì, lo giudicassero male e non lo volessero più lì, nel peggiore dei casi, troppo spaventati da quanto aveva fatto. Non era pronto a correre quel rischio, non ancora, e probabilmente non lo sarebbe stato mai. Respirò a fondo.
Non pensarci adesso. Concentrati sul presente.
“Hai perso tutta la tua famiglia” mormorò Noah, rimediando un’occhiataccia da parte della fidanzata.
“Non mettere il dito nella piaga” avrebbe voluto dirgli, ma l’altro non se la prese e annuì, capendo che il ragazzo di Sky era solo molto colpito.
“Mi sono sentito solo e sperduto come un bambino, quando è successo.” Prima i suoi, poi Carlie in coma e dopo in stato vegetativo per anni. Ogni tanto apriva gli occhi o gli stringeva la mano, ma niente di più. Né sorrisi benché inconsapevoli e senza coscienza, né altre espressioni tranne qualche smorfia, né lamenti a parte una volta, tutte cose che possono accadere in quello stato, anche se quei piccoli gesti gli avevano sempre trasmesso speranza. Ma il peggio era avvenuto, la luce di sua sorella, quella che nonostante tutto irradiava ancora, si era spenta nel giro di poco tempo e lui era rimasto al buio. “Mi sono ritrovato non solo orfano, ma anche senza nessuno. Sapevo, ormai, che non si sarebbe più svegliata, ma non ho mai smesso di sperare. Mai.”
Tutti gli furono intorno, lo abbracciarono, gli misero una mano sulla spalla e gli promisero che ci sarebbero sempre stati per lui, anche Demi, nonostante il suo ragazzo lo sapesse già.
Andrew sorrise loro con calore. Lo confortava sapere che le persone che gli volevano bene cercavano di comprenderlo.
“Grazie, ragazzi.” Si schiarì la voce. “Va meglio ora. Vorrei solo godermi questo pomeriggio.”
 
 
 
Demi andò con Eliza in cucina ad aiutarla con le borse della spesa. Poco dopo le raggiunse anche Sky.
“Ho invitato tutti, proprio tutti quelli che avete conosciuto. Anche Zaria Vaughn, a dire la verità, cioè la madre di Marisa.”
Demi storse il naso e cercò di non far apparire sul suo volto un’espressione disgustata, ma lo sforzo fu immane.
“Sì, lo so, nemmeno a me piace” mormorò l’altra, “ma l’ho fatto per cortesia. In ogni caso ha detto un secco no e Marisa non riuscirà a convincerla, o se lo farà accadrà con molta difficoltà.”
Eliza aveva comprato cibo, bevande, una quantità esagerata di palloncini di tanti colori diversi, tovaglioli con figure di fate e animali del bosco e coriandoli.
Demi li indicò.
“E questi?”
“Mi sembravano divertenti. E i palloncini sono magici.”
“In che senso?”
“Domani lo vedrai.”
Una volta sistemato tutto, Eliza disse che aveva intenzione di portare fuori un grande tavolo di legno con tante sedie che teneva in una stanza della casa che utilizzava come sgabuzzino. Ci sarebbero stati tutti.
“Quando?” le domandò Sky.
“Direi domani mattina, prima della gita e del lavoro, così poi sarà tutto a posto.”
“E se dovesse piovere?”
“Ho anche un gazebo, Demi, gli uomini ci daranno una mano a montarlo. Dovremo alzarci presto.”
A momenti la sua voce si trasformava in una serie di gridolini, mentre Sky e Demi sospirarono appena.
“Forse hai un po’ esagerato, Eliza” disse quest’ultima. “A me sarebbe andata bene una cena in cucina o in salotto allungando al massimo il tavolo e anche agli altri, sono sicura.”
“Lo so, ma il lavoro per cucinare sarebbe stato troppo per me, e poi così sarà più bello. Dai, non ci metteremo tanto.”
Ma sì, una festa ci voleva ed era da parecchio che Demi non partecipava a qualcosa di simile. Se si fossero impegnati lei, il fidanzato, Eliza, Sky, Kaleia e i ragazzi ce l’avrebbero fatta. Con un po’ di difficoltà, ma non sarebbe stato impossibile.
“Va bene” assentì la fata, “Ma propongo di mettere il gazebo e il tavolo stasera, così ci aiuteranno anche Isla e Oberon.”
Le due annuirono e, dopo qualche minuto, tornarono tutte fuori.
 
 
 
All’improvviso, in lontananza si sentì una sorta di grido. Sì, assomigliava a una persona terrorizzata o, come la definì Andrew, “una che sta per essere sgozzata”. Per Demi fu un suono inquietante, ma non riuscì ad associarlo a nulla in particolare, anche se presto capì di cosa poteva trattarsi. Le bambine smisero di giocare e anche i cuccioli si fermarono. Non erano spaventati, solo tutti straniti e Demi si stupì perché aveva pensato che le figlie sarebbero corse da lei a piangere.
 
 
 
“Non preoccuparti, lo conosco” disse Lucy a Mackenzie e Lune cercò di farlo con Hope.
Le altre due chiesero di chi stesse parlando, ma le altre bambine si limitarono a sorridere.
L’unica volta nella quale la cantante aveva sentito il verso, purtroppo non quello vero, della volpe era accaduto nel cartone Teo e il primo fiocco di neve, che aveva intenzione di far vedere alle figlie non appena Hope fosse cresciuta un po’, per darle la possibilità di capire di più. Ma anche se là la volpe faceva la parte della cattiva, il suo verso non era affatto spaventoso, o meglio, da piccola l’aveva temuto ma adesso, ne era sicura, non l’avrebbe fatto più. Quello vero era peggio. Poco dopo se ne udì un altro simile e in seguito altri ancora, più deboli.
“Kaleia, sono Red e la sua famiglia!” esclamò Christopher, battendo piano le mani per far avvicinare gli amici animali.
Gli sguardi di tutti erano puntati sulle volpi e Mackenzie, camminando con calma, si avvicinò a loro. Riconobbe Red e Anya e notò anche quattro piccoli. Li poteva conoscere, finalmente. Erano grandi come cagnolini di due o tre mesi e chiedendo a Kaleia scoprì che ne avevano circa tre e mezzo.
Demi sorrise: ricordava di aver letto, una volta, che le volpi partoriscono circa cinque settimane prima dell’inizio della primavera, quindi pur essendo un sogno Mackenzie in questo ci aveva azzeccato, pur non sapendolo.
Non potendo chiedere ad Anya il permesso di accarezzarli e non desiderando portarla a pensare che avrebbe voluto prenderli o far loro del male, Mackenzie avvicinò piano la mano alla della femmina di volpe e la accarezzò com’era già accaduto. Questa strofinò il muso contro il suo palmo e così fece Red, poi i due si sedettero guardando i cuccioli che correvano intorno alla bambina annusandole le scarpe. La piccola rimase così per un po’, ricordando che quand’era andata a prendere Danny i proprietari del rifugio le avevano detto di aspettare che i gattini la annusassero e si avvicinassero. Non era facile, però: le dita le prudevano per la voglia di immergersi in quel pelo folto.
Hope provò ad avvicinarsi correndo, ma Demi la fermò. Era normale che facesse così alla sua età, anche con Danny e Batman ogni tanto accadeva, ma la ragazza non voleva che i cuccioli corressero via.
“Mamma, voio andae!” si lamentò la piccola quando lei la prese in braccio.
“Tra un po’, amore. Lasciamo prima il posto a tua sorella. Se si avvicinano troppe persone, le volpi prenderanno paura. E noi non vogliamo, vero?”
“Vero.”
“Brava.”
Il pelo dei cuccioli andava dal rosso chiaro a quello più scuro, alcuni si assomigliavano di più e Mackenzie non aveva idea di come avrebbe fatto a riconoscerli. Fu solo quando un piccolo di colore chiaro le si sedette davanti e puntò su di lei lo sguardo nocciola, lo stesso colore del resto della famiglia, che la bimba allungò piano una mano verso di lui. Lasciò che la annusasse ancora e gli accarezzò la testina e la schiena. Il piccino fece il suo verso, più carino rispetto a quello dei genitori, e la leccò.
“Sono parecchio addomesticati, vedo” disse Andrew a Christopher.
“Già, abbiamo deciso di farlo anche con i cuccioli in modo che non si inselvatichissero, per questo li cerchiamo il più spesso possibile, per prenderli in braccio e giocare con loro. Ma Mackenzie ha fatto bene ad andarci piano, sono pur sempre animali del bosco e, anche se non pericolosi, non la conoscevano ancora.”
La bambina accarezzò con dolcezza tutti i piccoli, grattò loro testa e orecchie e ricevette bacini da ognuno mentre i genitori, felici di quel comportamento, le fecero le feste. Poco dopo anche Hope poté avvicinarsi e i piccoli si misero a giocare con lei, lasciandosi inseguire e prendere in braccio. Uno le mordicchiò l’orlo dei pantaloni, ma la madre dovette sgridarlo perché emise uno strano verso e questi si allontanò subito dall’indumento, preferendo farsi coccolare. Mackenzie, invece, prese in braccio quello che aveva accarezzato per primo e si avvicinò ai genitori.
“Non è bellissimo?” sembrava dire con lo sguardo adorante.
“Ma è meraviglioso, questo piccolo!” Demi gli sfiorò il musetto. “Hanno tutti un nome?”
“Lui è Valiant, l’unico che ce l’ha, per il momento, ma presto ne troveremo anche per gli altri” rispose Kaleia.
Il volpacchiotto scalciò per essere messo a terra e si avvicinò a Demi, mordendole piano le scarpe finché lei capì che voleva essere preso in braccio.
“Sai come catturare l’attenzione, non è vero?” ridacchiò, grattandogli la pancia.
Il cucciolo le prese una mano con le zampe, ma senza farle male, poi la lasciò andare.
Anche Lucy e Lune si divertirono con i piccoli, mentre le due sorelle Lovato tornarono a giocare con gli altri quattro cuccioli che, o volando o correndo, non si stancavano mai, fermandosi solo per qualche pausa o per mangiare. Eliza aveva messo a Lilia e a Rover due ciotole di croccantini e due d’acqua anche fuori e in quel pomeriggio ce ne fu proprio bisogno.
“Bucky?” chiese Hope.
Ricordava che anche lui aveva dei cuccioli e le sarebbe piaciuto vederli.
“Non lo so, piccina, forse verrà domani” le rispose Kaleia, che lo sperava con tutto il cuore.
Ormai era sera, con sei piccoli e una compagna dubitava si sarebbe fatto vedere.
Poco dopo le volpi se ne andarono e tutti rientrarono per la cena. Rimasero anche gli Hall, invitati a trascorrere lì la serata.
“Vi aiuteremo volentieri domani mattina presto” disse Oberon quando Eliza gli parlò dei suoi progetti. Aggiunse che faceva freddo e tirava un forte vento, il che era vero, e non sarebbe stata una buona idea sistemare tutto in quelle condizioni. “Chiederemo a qualcuno di badare alle bambine, spiegando perché dato che suonerà strana la nostra assenza a quell’ora. Ma non sarà un problema.”
Mackenzie fece firmare ai genitori la circolare data anche a Hope. I due lessero. Non dovevano pagare nulla per mandare lei e la figlia minore alla gita.
“Strano. Nel nostro mondo per le gite si dà sempre qualcosa per il trasporto, chi mette a disposizione il luogo per gli studenti, le guide se ci sono, cioè persone che lavorano per spiegare la storia del posto o altro” raccontò Demi.
“A Eltaria non si fa perché tutta l’educazione è basata sull’esperienza. Fate e folletti nascono nella natura e questa li accoglie, è tutto qui. Il concetto di permesso, e quindi organizzazione, che è presente nel vostro mondo nel bosco non esiste, non regge proprio” rispose Isla.
Anche se il tutto era semplice, agli adulti suonava ancora stranissimo, insolito e, in parte, anche un po’ insensato. Sotto quel punto di vista dovevano ancora adattarsi e forse non l’avrebbero mai fatto.
Da lunedì Demi riceveva il suo compenso ogni giorno, la Direttrice aveva deciso di fare così con lei non sapendo quanto sarebbe rimasta, e la ragazza si domandava come avrebbe potuto spendere quei soldi.
“Eliza, serve altro per domani? O in generale?”
“In effetti sì, Demi. Non ho comprato molto cibo, credo. Perché?”
“Se il negozio è ancora aperto, potrei andare io.”
Erano solo le 20:00, però a Los Angeles tutto chiudeva verso le cinque di pomeriggio, dubitava che lì fosse diverso.
“Non chiude fino alle 20:30, se ti sbrighi forse puoi riuscirci.”
Le scrisse una lista di ciò che mancava, le ricordò dov’era il negozio e la ragazza uscì. Voleva rendersi utile, spendere qualcosa affinché non pagassero sempre tutto gli altri, non le pareva giusto. Le strade erano quasi vuote, il vento calato e le foglie che frinivano le tenevano compagnia. Il negozio era piccolo e carino, come uno di quegli alimentari che aveva visto qualche volta in alcuni paesini, e la cassiera fu gentilissima.
“Per quanto vi fermerete?” chiese a Demi, passandosi le mani tra i capelli rossi che le scendevano fino ai fianchi.
L’aveva riconosciuta, o perlomeno sapeva chi era.
“Non lo so, signorina, spero ancora qualche giorno.”
“Me lo auguro anch’io. La signora Eliza è contenta di avervi a casa propria, non fa altro che parlare bene di voi e di quanto abbiate reso migliore la vita di tutti.”
Le sorrise, un sorriso sincero che Demi ricambiò e che le scaldò il cuore.
“Ne sono felice, grazie per avermelo detto.”
Una volta tornata a casa, trovò tutti seduti sul divano con i cuccioli ai loro piedi. Lucy, Lune e Mackenzie stavano decidendo che film guardare tra i tanti DVD presenti nello scaffale sopra la televisione e la fata della terra leggeva a Hope le trame per coinvolgerla, così da dare anche a lei la possibilità di scegliere.
Eliza portò in salotto un tavolino basso e Sky riempì fino all’orlo un piatto di biscotti secchi e al cioccolato, mentre la madre distribuì a ognuno un piccolo secchiello di popcorn appena cotti.
“In pratica faremo una seconda cena” disse Noah, contagiando tutti con la sua risata.
“Ancora meglio che al cinema.” Andrew fece una pausa. “Non so se sapete di cosa si tratta, è un posto dove la gente va a vedere film che non sono ancora usciti in televisione. Si siede su alcune poltroncine in una sala spaziosa, mangia e guarda un grande schermo.”
“Sembra fortissimo!” trillò Sky. “Anch’io vorrei andarci.”
Il cartone animato era ambientato a Eltaria, più precisamente in un prato o e, in certe scene, nel bosco. Una femmina di unicorno, ancora giovane ma non più una puledra e di colore bianco, Sparkle, conosceva Jeon, un suo simile dal pelo grigio scuro. I due parlavano per un po’ del tempo, della bontà dell’erba e di altre piccolezze, poi si salutavano. Si vedeva la vita di entrambi con le loro famiglie o i gruppi dei quali facevano parte e, in varie occasioni, gli unicorni si incontravano di nuovo: al fiume mentre bevevano, durante una passeggiata sotto la luna e non solo. Iniziavano a conoscersi più in profondità, ma non mettendosi fretta. Quello era uno dei film che Demi definiva slow burn romance, cioè in cui il rapporto si sviluppava lentamente iniziando come una conoscenza, evolvendo in amicizia e, solo dopo tempo, in amore. Le piacevano perché erano realistici e fu felice che anche un cartone per bambini, nonostante non sempre dovesse rispecchiare la realtà, passasse il messaggio che amicizia e amore sono importanti, ma che quest’ultimo non può nascere da un momento all’altro, senza una base solida dalla quale partire. Hope non l’avrebbe capito, ma Mackenzie e Lucy forse sì, o almeno lo sperava.
Mac sapeva solo che stava adorando ogni momento, i dialoghi, le bellissime musiche, tutto la coinvolgeva a tal punto che pensava di trovarsi in quel mondo, non più a Eltaria. Inoltre adorava i personaggi, i paesaggi, ogni immagine era coloratissima e catturava l’attenzione. Chissà se anche la storia d’amore di mamma e papà si era sviluppata tanto piano.
Per questo è così bella?
Non le dispiaceva che si trattasse di un cartone lungo ma tranquillo e che non ci fosse tanta azione, anzi, la rilassava.
“Quando mia sorella Madison ha compiuto un anno le ho regalato un unicorno di nome Sparkle.” Demi si immerse nei ricordi. “Da piccola lo adorava. Se lo portava in giro tutte le volte che poteva, giocava soprattutto con lei e ci dormiva insieme.”
Sorrise.
“Che cosa dolce!” esclamò Isla. “I giocattoli, per i bambini, sono importanti. Tutti ne hanno uno preferito.”
Alla fine i due unicorni si innamoravano e, nelle ultime scene, avevano anche un piccolo.
Mamma, disse Mackenzie mentre scorrevano i titoli di coda, io so come si chiamerà.
“Ah sì? Come?”
Minicorno, ovvio!
Tutti scoppiarono a ridere non per prenderla in giro, ma a causa della tenerezza di quell’affermazione tanto decisa.
“Nome interessante, piccola” le rispose Oberon.
Era tardi, soprattutto per le bambine dato che le aspettava una giornata lunga. Gli Hall se ne andarono, Christopher e Kaleia tornarono a casa, Sky baciò Noah che uscì. Lei corse a letto e poco dopo lo fecero anche gli altri.
Mackenzie e Hope si addormentarono subito e con il sorriso sulle labbra. A Mac non capitava da tantissimo tempo di prendere sonno con il cuore leggero, ma accadde anche quella notte.
“Che giornata!” Andrew prese Demi fra le braccia. “Molto lunga, non trovi?”
“Già, ma anche questa è stata piena di emozioni contrastanti.”
“Concordo.”
Si erano divertiti, avevano imparato altre cose su quel mondo e anche raccontato molto di loro a persone delle quali si fidavano.
“Grazie per averci dato la forza di aprirci e di capire quanto e quando farlo, Signore” mormorarono.
Pregarono insieme. Non lo facevano ogni sera, ma spesso, perché per loro era importante. Pregare li aiutava a sentirsi più forti, a ritrovare speranza o fiducia quando le perdevano e a continuare a lottare.
Per la prima volta dopo tanto, nonostante sapessero cos’avrebbero fatto quello successivo, Andrew e Demi si resero conto che cercavano di vivere giorno per giorno perché non avevano idea di cosa li aspettasse, ma attendevano il seguente con fiducia, il sorriso e senza timore.

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Capitolo 29
*** Guarire o provarci ***


CAPITOLO 29.

 

GUARIRE O PROVARCI

 
Il mattino seguente, la coppia si vestì quando il sole era sorto da poco. Trovarono la colazione già pronta e, con Eliza, anche le sue figlie, Christopher e Noah. Tutti consumarono un pasto frugale. Quando Isla e Oberon li raggiunsero, gli uomini portarono fuori lo scatolone con i pezzi del gazebo, mentre Demetria e le altre si occuparono di fare lo stesso con i tavoli, entrambi ancora da assemblare, e le sedie in plastica impilate le une sulle altre. Ce n’erano una trentina e tutte si sorpresero di quanto fosse grande quello sgabuzzino, anche se per fortuna non c’erano molte altre cose, a parte un albero di Natale e alcune scatole di decorazioni natalizie o pasquali. La porta non si notava un granché perché era in parte nascosta da una tenda.
“Hai altre stanze segrete in questa casa?” le chiese Demi e tutte scoppiarono a ridere.
“Nessuna, te lo assicuro.”
Lasciando le sedie da una parte, le donne andarono ad aiutare con il resto. Dopo aver montato il gazebo e averlo fissato a terra con tiranti e picchetti, passarono ai due tavoli allungabili. Lavorarono gomito a gomito e ci misero meno di quanto avrebbero pensato. Tutto era in ottimo stato, per cui bastò passare uno straccio e una spugna bagnata per tirare via la poca polvere presente e lavare un po’.
“Ci abbiamo messo meno di un’ora, fantastico!” esclamò Sky.
Avrebbero potuto tornare a letto, ma nessuno di loro aveva più sonno. Dopo il lavoro si erano svegliati e si sentivano carichi per affrontare una nuova giornata. Si sedettero su alcune delle sedie appena posizionate per chiacchierare. Ma, in realtà, nessuno sapeva di che argomento trattare.
“A mia sorella sarebbe piaciuto tanto questo posto” cominciò Andrew, dicendo la prima cosa che gli era venuta in mente. “Lei adorava la natura, passeggiare nel bosco e le sareste stati tutti simpatici, ne sono convintissimo.”
“Hai una sua foto?” chiese Noah. “Mi piacerebbe vederla.”
Andrew aprì uno scomparto del portafoglio e la mise sul tavolo. Ritraeva Carlie nel giardino della casa in cui avevano vissuto per tanti anni assieme ai genitori, vicina a quella di Demi. Era da sola, in piedi, e fissava l’obiettivo con espressione serena. Portava i capelli sciolti e i suoi occhi azzurri erano illuminati da un sorriso.
“Gliel’ho scattata poco prima che partisse per il Madagascar. È l’ultima che ho di lei” mormorò, mentre un groppo in gola gli rendeva difficoltoso parlare.
La fitta di dolore alla quale era abituato si fece sentire con più violenza, come una scure che si abbatte su un tronco e lo ferisce, lasciandolo soffrire in un grido silenzioso e che nessuno udirà mai.
“Vi somigliate.”
“Insomma, Eliza, forse nei lineamenti del viso e nell’espressione, ma lei era più allegra di me e nel fisico più simile a mia madre. Non sopportava di tenere i capelli legati o di accorciarli troppo.”
Era il momento.
Ora o mai più.
Pensandolo, Andrew si tirò su le maniche della maglia leggera e mostrò anche lui le cicatrici bianche, che si vedevano ormai a fatica. Una era più lunga e pronunciata delle altre, partiva dal polso e si fermava sotto il gomito.
“Anche…” Christopher si schiarì la voce. “Anche tu sei stato autolesionista?”
Tutti puntarono gli occhi su di lui, scioccati. Sapevano che aveva sofferto, ma non immaginavano che anche lui sarebbe arrivato a tanto.
“Eppure avremmo dovuto immaginarlo,” intervenne Eliza, “dato che anche lui porta quella maglia come lo faceva Demi.”
“In effetti…” Sky non poteva crederci. “Non so come ho fatto a non arrivarci.”
“Forse tutti lo immaginavamo, nel nostro inconscio magari, ma non volevamo ascoltare quella voce interna” osservò Kaleia.
Il dolore può portare alcune persone, soprattutto le più sensibili, ad autodistruggersi in vari modi, alcuni solo mentali come riempirsi di sensi di colpa quando non c’è motivo per cui sentirsi così, altri anche fisici spiegò Andrew. Mise in chiaro che non tutti, per fortuna, diventano autolesionisti. Disse che aveva iniziato circa due anni dopo la morte dei suoi genitori.
“Mi mancavano da morire e Carlie diceva che sarebbe voluta partire. Io non le ho mai impedito di farlo, non sarebbe stato corretto, ma non ero riuscito a farmi dei veri amici né a scuola né altrove, non di quelli che ti rimangono accanto a lungo, almeno. Ero molto sulle mie e non uscivo un granché, non mi forzavo a farlo, il che è stato un errore. A parte lei e Demi non avevo nessuno, mi sentivo solo e soffrivo per la scomparsa dei miei genitori. E nonostante sapessi che Demetria ci era passata e quanto procurarsi ferite l’avesse fatta soffrire, è stato più forte di me. Anch’io sono caduto in quella trappola pensando di poter smettere, ma poi sono finito sempre più in basso. Dopo qualche mese in cui facevo di tutto per nascondere ogni cosa a mia sorella, lei mi ha raccontato che una sua amica le aveva detto di essere autolesionista e che l’aveva convinta a farsi aiutare da uno psicologo. Mi ha parlato della sua sofferenza, nella quale mi sono rispecchiato pur non conoscendo quella ragazza, e dello sforzo che lei aveva fatto per convincerla a non chiudersi nel proprio dolore.”
Quando Kaleia gli chiese se a quel punto le aveva raccontato che accadeva anche a lui Andrew negò, aggiungendo che allora temeva già di essere un peso e che non voleva farla preoccupare, ma che spesso si era sentito male per questo e aveva pensato di parlargliene. Le sue parole, però, l’avevano convinto a cercare una brava psicologa. E così, mentre lavorava in uno studio legale per fare pratica prima di sostenere un esame che l’avrebbe reso un avvocato a tutti gli effetti, aveva iniziato anche terapia. La donna lo ascoltava e lo aiutava da allora, gli aveva insegnato alcune tecniche per non farsi più del male come appallottolare un foglio, gettarlo con veemenza per terra, pestarlo, strapparlo, oppure urlare in un cuscino e altro ancora.
“All’inizio no, ma già dopo cinque o sei mesi ho cominciato a tagliarmi di meno. Se prima lo facevo due, tre, cinque volte al giorno, sono passato a resistere di più, un giorno, poi due, poi sempre di più fino a farmi del male solo una volta al mese. Il bisogno di ferirmi era ancora intenso, ma lei non riteneva necessario mandarmi anche da uno psichiatra per il momento, perché notava i miei progressi. Forse avrei dovuto, non lo so. Un farmaco di quelli che prendo ora, il Carbolithium, serve anche a diminuire tali pensieri, comunque ormai è andata così.”
Quando Demi aveva iniziato l’iter adottivo, Andrew aveva sostenuto un colloquio con la prima assistente sociale, Gladis Richardson, e non era stato facile convincerla che non sarebbe stato un pericolo per le bambine. Oltre alle mille domande lei l’aveva mandato da uno psichiatra per diversi colloqui e aveva voluto vedere una dichiarazione della sua psicologa che ne attestava i progressi e spiegava il suo percorso.
“Quella donna era una vipera.” Demi batté un piede a terra. “Avreste dovuto esserci per sentire le parole che mi ha rivolto. Ma con situazioni difficili come queste e un’adozione di mezzo bisogna andarci piano, per cui capisco la sua cautela. Anche quando ha parlato con mia madre ci è andata con calma.”
“Sì, la comprendo anch’io, ma non è stato… facile parlare di queste cose a una persona che nemmeno conoscevo quando non l’avevo fatto neanche con te, benché lei non mi abbia mai chiesto se tu ne fossi a conoscenza o meno. Spesso mi sono domandato se il fatto che tu fossi single sia stato solo uno dei motivi per cui ha rifiutato la tua richiesta di adozione. Magari non l’ha scritto, ma vista la situazione di Dianna e la mia…”
Per un momento nessuno parlò. Fu un istante così lungo che Demi si domandò se stesse respirando o meno.
“Avrebbe dovuto dirmelo se fosse stato così. Era suo preciso dovere mettermi al corrente di tutte le motivazioni” rimarcò. “Ma non credo fosse quello il problema, o non solo. Forse ci ha messo tanto per decidere se la mia famiglia e tu eravate idonei ad accogliere un bambino nelle vostre vite e soprattutto se io fossi pronta ma credimi, quella sera ce l’aveva con me, non con voi. Ed era proprio arrabbiata per il fatto che io fossi single, cosa che ho trovato del tutto non professionale.”
Al solo ricordo, Demi strinse i pugni e la lingua fra i denti fino a farsi male. Non avrebbe mai scordato quel giorno di fine aprile, uno dei più dolorosi della sua vita, in cui Gladis le aveva detto che visto che non conviveva o non era sposata e dato il suo passato, anche se stava bene non sarebbe mai riuscita a crescere un bambino. Per fortuna Holly Joyce, la seconda assistente sociale, era stata di un parere diverso.
Qualcuno grattò sulla porta ed Eliza aprì. Erano Lilia e Agni che, usciti, corsero via, probabilmente per fare i bisogni e, nel caso del draghetto, mangiare.
“Ti fai ancora del male?” chiese Kaleia raccogliendo tutto il suo coraggio.
“No, non più. Ho smesso del tutto, dopo un percorso lungo, quando Demi mi ha chiesto di venire a vedere le bambine nella casa dei loro genitori affidatari. Di sicuro questo ha aiutato, ma non è stata l’unica motivazione, né si è trattato di qualcosa di improvviso. Dopo la morte di Carlie, però…”
Andrew lasciò la frase in sospeso e tutti tranne Demetria lo guardarono con più intensità, scoprendosi spaventati da quello che sarebbe potuto venire dopo.
“C-cosa?”
La voce di Sky si udì appena.
Andrew trasse un profondo respiro. Era inutile girarci intorno.
“Stavo sempre peggio, mi sono isolato per più di due mesi volendo vedere pochissimo Demi e per nulla i miei colleghi di lavoro. Mesi nei quali non venivo pagato, ovviamente, ma non mi importava, non sarei potuto tornare al lavoro in quelle condizioni. Una sera ero così disperato che sono giunto al limite e…” Tremò, perdendo il controllo dei movimenti di braccia e gambe che si muovevano a scatti. Prese un respiro tremante, si schiarì la voce e mormorò: “Ho tentato il suicidio.”
Quelle quattro parole aleggiarono, sinistre, sopra le loro teste continuando a fare avanti e indietro, avanti e indietro senza fermarsi. Non ci potevano credere: Andrew era arrivato a cercare di uccidersi tanto grande era il suo dolore. La più colpita fu Kaleia che, sia a causa del racconto sia, forse, degli ormoni, scoppiò in violenti singhiozzi. L’uomo si sentì malissimo e si diede dell’idiota per aver fatto piangere una donna incinta, di certo tutto ciò non faceva bene né a lei né al bambino, ma in quei due giorni lui e Demi avevano raccontato molte cose, la storia meritava di essere terminata.
“Mi dispiace” sussurrò alla fata desiderando sprofondare metri e metri sotto terra, ma lei fece cenno di no con la testa e abbozzò un sorriso asciugandosi gli occhi. “Questa me la sono fatta recidendomi l’arteria radiale, dopo essermi procurato altri tagli, più per autolesionarmi che per farla finita, anche se all’inizio l’intenzione era stata quella di pugnalarmi al cuore. Per un attimo il desiderio di uccidermi è svanito, poi è tornato prepotente. Se non ci fosse stata Demi, in pochissimi minuti, forse meno di una manciata, sarei morto. La recisione di un’arteria è pericolosissima” continuò in tono greve.
“Sono arrivata a casa sua perché ero preoccupata per lui. Da giorni non rispondeva più ai miei messaggi e alle chiamate, né voleva vedere me o le bambine. Solo una volta siamo stati a cena insieme e mi sembrava stesse meglio.” Sospirò. “Ma mi sbagliavo.”
“Le ho anche scritto una lettera, prima di farmi del male.”
“Quando l’ho trovata, mi sono sentita mancare. Ho chiamato l’ambulanza,” riprese la cantante, con le lacrime agli occhi nel ricordare il momento in cui aveva letto quella lettera prima di trovare il fidanzato nel bagno, “e mi sono fatta spiegare come fermare il sangue, ma ce n’era tantissimo, dappertutto, io…” Tremò e inspirò profondamente. “Avevo paura di danneggiare qualcosa, che perdesse la mano o il braccio. Per fortuna la situazione era un po’ meno grave di quanto i medici si aspettavano, benché comunque seria.”
La recisione aveva interessato la pelle ma non del tutto il vaso sanguigno, per cui il braccio e la mano avevano avuto comunque vascolarizzazione e questo li aveva salvati.
Demetria parlò dei giorni nei quali Andrew era rimasto in ospedale, all’inizio troppo scioccato persino per parlare o mangiare. Veniva nutrito con una flebo e non c’era alcuna spiegazione medica per la sua condizione. Lo shock per il gesto compiuto e la morte della sorella gli avevano fatto perdere la volontà di reagire. Uno psichiatra e uno psicologo andavano da lui per aiutarlo, ma Andrew si rifiutava di parlare. Per fortuna quella situazione si era protratta per poco e piano piano si era ripreso. I seguenti giorni in ospedale non erano stati facili tra ricominciare a mangiare, a camminare e a muovere il braccio facendo esercizi di fisioterapia.
“Chi tenta il suicidio di solito va in psichiatria, un reparto in cui le persone con questi e altri problemi vengono aiutate, anche se non è detto che capiti. Io non ci sono finito, ma lo psicologo e lo psichiatra venivano da me ogni giorno per fare colloqui anche più volte, il personale mi ha tolto tutti gli oggetti con i quali avrei potuto ferirmi in qualsiasi modo e dovevo tenere sempre le porte aperte, anche quella del bagno, cosicché qualcuno potesse sempre tenermi sotto controllo mentre mangiavo e non solo.”
“Dev’essere stata dura” asserì Oberon.
“Molto, ma per fortuna lasciavano che Demi venisse a farmi visita.”
Andrew restava seduto composto, non tremava, ma ricordare era come sempre doloroso e non aveva mai avuto tanti sbalzi d’umore come in quei giorni orribili in ospedale, nei quali si era reso conto di essersi ritrovato per proprio volere a un passo dalla morte. Si era incolpato di essere stato troppo debole, detto che se solo fosse stato un po’ più forte avrebbe potuto evitarlo, ma non era servito a niente. Solo il tempo, l’aiuto della psicologa, di uno psichiatra, di Demi e delle bambine e sì, anche dei farmaci, tutti uniti alla sua forza, erano stati utili a farlo riprendere un po’, ma la strada era lunga. Aveva avuto ancora pensieri simili, soprattutto riguardanti l’autolesionismo, superarli era stato difficilissimo, ma l’aveva fatto senza procurarsi altre ferite. Non voleva ricaderci.
Terminato il racconto, l’uomo si appoggiò allo schienale della sedia e prese con mano tremante il bicchiere d’acqua che Eliza gli porgeva.
“Ci ho messo anche limone e zucchero.”
“Grazie, cara.”
Nessun altro parlò. Molti non se la sentivano di giudicare il suo gesto, perché non erano nella testa di Andrew e non capivano fino in fondo il dolore che provava. Chi tenta il suicidio, questo l’avevano capito, non lo fa per attirare l’attenzione, ma perché dietro ci sono delle motivazioni serie, una sofferenza estrema a causa della quale la persona in questione non riesce a chiedere aiuto, o pensa che non ne valga più la pena e che non ci sia più speranza. Noah seguitava a intrecciare le mani in grembo per separarle e riunirle.
“Amore, tutto bene?”
Sky gli accarezzò una spalla.
Pur non apprezzando quel tocco in un momento simile, Noah lasciò fare, annuì e guardò Andrew negli occhi con un’espressione indecifrabile.
“Non ti senti un egoista?” sbottò.
L’altro si limitò a fissarlo, non ritenendo saggio parlare, non ancora.
“D’accordo, non è facile chiedere aiuto, ascoltando le vostre storie l’ho capito. Ma arrivare addirittura a questo? Hai fatto soffrire Demi, con la quale forse stavi già insieme, e che ti ama con tutto il cuore.”
L’altro serrò i pugni. Non l’avrebbe mai colpito, ma chiudere le mani a quel modo fu più forte di lui. Anche se Noah non poteva comprendere fino in fondo il suo malessere, non avrebbe dovuto permettersi di dare un giudizio in maniera così diretta. Accidenti, c’era modo e modo di dire le cose. Spiazzato, deglutì a vuoto. Le parole di Noah l’avevano ferito, anche se non lo conosceva molto, facendo riaffiorare il senso di colpa che aveva provato per mesi dopo il tentativo di suicidio e sul quale, anche se non ne parlava quasi mai con Demi, continuava a lavorare con la sua psicologa, dato che ogni tanto ritornava a perseguitarlo. Demetria aprì la bocca, ma Andrew la fermò.
“Ci penso io” mormorò, poi si rivolse a Noah. “Sì, stavamo già insieme e sì, lo so e non sai quanto mi sono sentito da schifo per questo. Il dolore ci fa fare cose che non ci saremmo mai aspettati. La mente umana sembra forte, ma in realtà è fragile. Avrei potuto fermarmi e cambiare idea? Sì, se in quel momento fossi stato abbastanza lucido per capirlo, ma per qualche motivo a me sconosciuto non lo ero. Mi trovavo sull’orlo di un buco nero, anzi in parte ci ero già dentro, e vedevo solo il buio, la morte come unica via di salvezza, la sola cosa che mi avrebbe aiutato a non sentire più dolore.”
Noah non era il solo a pensare che tentare di farla finita fosse un atto di egoismo. Molti, sulla Terra, erano purtroppo della medesima idea, forse perché non avevano mai avuto la sfortuna di arrivare a un punto in cui pensavano non sarebbe stato più possibile tornare indietro, perché non avevano mai nemmeno immaginato che la loro fine sarebbe avvenuta in quella maniera. Andrew non se la sentiva di giudicare il ragazzo, di dire che era uno stronzo a causa della sua opinione. Per un momento l’aveva fatto, ora si diceva che, nonostante il commento di Noah fosse stato insensibile e non essere compreso facesse più male di una pugnalata, era contento che lui non fosse mai arrivato a riflettere su quelle cose. Anche se non era detto che fosse così. Aveva conosciuto, molti anni prima, un ragazzo che aveva tentato il suicidio a seguito della morte del suo migliore amico; dopo tempo aveva commentato che, se avesse incontrato una persona che aveva tentato di uccidersi, le avrebbe dato dell’egoista e fatto capire che aveva sbagliato e che avrebbe dovuto solo vergognarsi di questo, perché il suicidio non è la soluzione. Grazie a Dio non l’aveva più rivisto, perché se allora era rimasto male per il suo commento, dopo quanto accaduto ci sarebbe stato ancora peggio. Anche se sia lui che Demi avevano riconosciuto il suo errore, lei non gliel’aveva mai fatto pesare.
“Io non ti giudicherò mai, Andrew” disse Christopher. “E raccontandolo dimostri di essere più coraggioso di quanto credi. Non avrai superato questo trauma, ma lo stai affrontando. Dire ad alta voce cos’è successo è un buon modo per fronteggiare la sofferenza e non solo.”
“Nemmeno io lo farò” intervenne Sky mentre Kaleia annuiva, d’accordo con lei. “Avrai anche sbagliato, come dici tu, ma non saresti mai arrivato a tanto se la vita non ti avesse dato tutte queste disgrazie. A volte porta proprio allo stremo, a quanto pare.”
L’uomo si asciugò gli occhi umidi di pianto e sorrise per ringraziare, non trovando parole sufficienti.
“Cosa… cos’hai risolto tentando di compiere questo gesto?”
La voce di Noah, più acuta in quel momento, lo fece sussultare.
“Adesso smettila!” lo ammonì la fidanzata. “Non ti sembra che stia già soffrendo a sufficienza?”
Il ragazzo si addolcì.
“Scusami, Andrew, non voglio farti star male in alcun modo. Non so nemmeno se credo che il tuo gesto sia egoista, a dire la verità non ho idea di cosa pensare. Vorrei solo capire.”
“Non devi rispondere se non te la senti” gli fece notare Sky.
“Non vi preoccupate. Ora che l’ho fatto e che non sono morto…” Tutti furono percorsi da un brivido gelido lungo la schiena a quella parola, anche lui. “Dicevo, adesso ti rispondo che non avrei risolto niente ammazzandomi. Ma allora era diverso. La mia speranza si era spenta del tutto, non vedevo più una ragione per vivere, né per me stesso né per nessun altro e pensavo che il suicidio fosse una soluzione, l’unica soluzione. Se tornassi indietro e provassi le medesime sensazioni, non so che cosa farei, ma mesi fa è questo che è successo. Ho provato a contrastare tutto ciò, ho lottato fino alla fine contro il dolore, contro quella voce che mi diceva di tagliarmi, ma la mia testa non era più connessa al presente ormai, pensava già alla morte.” La sua voce si era arrochita per lo sforzo di ricordare momenti tanto drammatici e tossì. La gola gli doleva come se non bevesse da giorni. “So che anche questa tematica è difficile da comprendere per voi, che nel vostro mondo nessuno si sarà mai tolto la vita e che il solo pensiero vi sconvolge. Ma purtroppo negli Stati Uniti, dove viviamo noi, il suicidio è la terza causa di morte.”
“Sono parole forti, le tue” sussurrò Kaleia, “ma anche vere, lo sento dal tremolio della tua voce, dallo sforzo che stai compiendo e ti ringrazio per questo.”
“Ci avete parlato di tematiche delicatissime alle quali non avremmo mai pensato e aiutati a riflettere e anche arricchiti” continuò Oberon.
“Grazie a voi abbiamo imparato cose nuove, che non avremmo mai saputo senza la vostra presenza” proseguì Isla e sorrise appena. “Questa, forse, si può ritenere una cosa positiva in mezzo a tutto il vostro dolore.”
Eliza spiegò che sì, per loro quell’argomento in particolare era inconcepibile. La vita era troppo preziosa, per quanto potesse essere difficile, per togliersela, anche se conoscevano il significato del termine.
“Forse,” aggiunse Isla, “essere circondati dalla natura aiuta noi e molte altre creature a non pensare nemmeno per un attimo a cose tanto orribili.”
“Siete fortunati” mormorò Demi. “Anche noi vorremmo vivere sempre in questa pace.”
Con noi si riferiva non solo a lei e ad Andrew, ma anche a tutte le persone che, nel suo mondo, soffrivano. Forse stare a Eltaria avrebbe potuto aiutare tanti a vivere una vita non certo perfetta o priva di problemi, ma più facile e meno tortuosa.
“Prima di farlo ho ascoltato una canzone di un gruppo chiamato Radiohead, che si intitola How To Disappear Completely, cioè Come scomparire completamente.”
Demi lanciò uno sguardo interrogativo al suo ragazzo.
“Ce l’ho nel cellulare, se vi va di ascoltarla.” Non avrebbe mai voluto farlo stare ancora più male. “Posso?”
Lui annuì.
La ragazza la trovò e la fece partire. Fin dalle prime note, tutti si resero conto che il suono di alcuni strumenti assomigliava a un lamento, il pianto inconsolabile di una persona che ha perso la speranza e si dissero che forse mesi prima Andrew stava piangendo, o avrebbe voluto ma non ci era riuscito.
That there, that’s not me
I go where I please
I walk through walls
I float down the Liffey
I’m not here
This isn’t happening
I’m not here, I’m not here
 
In a little while
I’ll be gone
The moment’s already passed
Yeah, it’s gone
 
And I’m not here
[…]
Demi tradusse per tutti, fermandosi più volte per ricacciare indietro le lacrime. Al solo sentir parlare di un momento che era già passato, che se n’era andato e che la persona in questione sentiva di non essere lì, tutti capirono a cosa si riferiva o, almeno, a ciò a cui Andrew aveva associato quella canzone.
L’uomo terminò dicendo che stava continuando ad andare dalla psicologa e che si sentiva meglio, ma che non avrebbe mai dimenticato quell’esperienza.
“Così ora sapete tutto” sussurrò Demi alla fine. “Speriamo di non avervi turbati troppo.”
“Grazie per l’estrema fiducia che ci avete accordato” riprese Noah.
“Siete entrambe persone speciali, non dimenticatelo mai” si raccomandò Isla.
Tutti si strinsero in un abbraccio di gruppo pieno di affetto e calore dei quali Andrew aveva bisogno, perché a volte non servono altre parole, bastano i gesti.
“Grazie, ragazzi” sussurrò. “Vi ringrazio per tutta la comprensione, non so come…”
“Cerca di stare bene,” gli rispose Eliza con voce vellutata, “e ci avrai ringraziati abbastanza.”
 
 
 
Quando gli Hall tornarono a casa e gli altri rientrarono, Mackenzie era in piedi e li stava osservando già da un po’. Non aveva aperto la finestra per non ascoltare, la tentazione era stata forte, ma si era detta che non desiderava mancare loro di rispetto. Aveva capito una cosa, però: doveva trattarsi di un argomento serio dato che quasi nessuno sorrideva o, se qualcuno lo faceva, accennava un sorriso che si spegneva subito. Forse la mamma aveva raccontato una delle cose tristi che le erano accadute in passato, o il papà aveva parlato della zia Carlie e del fatto che ora era in cielo con Gesù. Lei non sarebbe mai riuscita a dire a Eliza e alla sua famiglia dei propri genitori biologici, per quanto si fidasse di tutti loro non l’aveva mai fatto nemmeno le volte precedenti, ma era sicura che la mamma l’avesse già raccontato.
Spiegherò tutto a Mahel e Harmony?
Le due non sapevano che era stata adottata, lei non ne aveva ancora fatto parola dato che le conosceva poco. Ma se le avessero posto qualche domanda sui propri genitori avrebbe dovuto, e anche voluto dirlo perché non si vergognava affatto della propria adozione, né provava paura nel parlarne. La difficoltà, però, sarebbe arrivata dopo.
“E dove sono la tua vera mamma e il tuo vero papà?” avrebbero potuto chiederle.
Come rispondere, allora? Che erano morti e che un uomo cattivo li aveva uccisi davanti agli occhi suoi e di Hope? No, avrebbe sicuramente avuto una crisi, e nemmeno tanto leggera. Forse un flashback nel quale avrebbe rivissuto il trauma, o un attacco di panico o chissà cos’altro, tutte cose che gli insegnanti non sarebbero riusciti a gestire.
Io in questo sogno sono felice. Voglio continuare a esserlo.
Almeno lì, per un altro po’. Pregò Dio affinché quel desiderio si avverasse. Se le fosse stata fatta qualche domanda, avrebbe detto che non se la sentiva di rispondere. Era sicura che sarebbe tornata a Eltaria ancora, forse per anni o, chissà, per sempre, e che avrebbe rivisto Mahel e Harmony.
“Ciao Mackenzie!” la salutò la mamma e le diede un bacio.
Ciao. Dormito bene?
“Sì, grazie. Tu?”
Anch’io.
 
 
 
Demi sperò che le avrebbe visto fare più spesso, nella realtà, sorrisi luminosi come quello. Andò a svegliare Hope, la cambiò, la vestì e tornò con lei in cucina. Mackenzie si era infilata da sola una tuta da ginnastica e le scarpe, perfino pettinata, anche se Demi dovette comunque sistemarle i capelli e tutti furono pronti.
“C’è il dolce che ho preparato per voi ieri” trillò Sky aprendo il frigorifero mentre Eliza disponeva piatti, tazze, tovaglioli e cucchiai sul tavolo della cucina.
“Ci hai fatto una torta? Non ne sapevamo niente.”
“Ne erano a conoscenza solo le bambine e Noah, che mi ha aiutata a farlo, Demi. È una sorpresa per tirare su a tutti il morale. Sono stati giorni intensi per tutti, ma soprattutto per voi due” e indicò Andrew e la cantante “e ho pensato di fare qualcosa per aiutarvi a sentirvi meglio.”
I fidanzati sorrisero.
Quello di Sky era un gesto piccolo ma dal significato profondo. Si era preoccupata per loro volendo dare una mano come poteva. Non era da tutti, soprattutto visto che si conoscevano da solo una settimana esatta.
“Sei gentilissima, Sky, ti ringrazio” le rispose Demi abbracciandola.
“Infatti, grazie. Ma non avresti dovuto, non era necessario.”
Andrew le strinse la mano.
“Lo era, invece. Spero che la vita sarà più dolce con voi da ora in avanti.”
Festeggiarono brindando in modo insolito, sollevando tazze di latte o tazzine di caffè e gustando una torta golosa e dalla consistenza perfetta. I biscotti erano stati sminuzzati grossolanamente, ma non erano troppo grandi e si erano amalgamati bene al burro, alle uova e al cioccolato, che non risultava troppo amaro ma nemmeno dolcissimo.
È ottimo, Sky, bravissima!
“Sono felice che ti piaccia, Mackenzie.”
“Nella saga Kaleia non ha mai detto che eri tanto brava in cucina.”
“Anch’io ho i miei talenti nascosti, Demi.”
Tutti risero.
“La verità,” si intromise Eliza, “è che non sa cucinare molte cose.”
“Già, solo un paio di torte, la pasta e poco altro. Il che è preoccupante visto che ho ventiquattro anni, ma la mamma mi sta insegnando pian piano.”
“E a me nessuno fa i complimenti? L’idea è stata sua, ma come ha detto ho aiutato” puntualizzò Noah con voce lamentosa.
Andrew, Demi e Mackenzie si scusarono e gli diedero i suoi meriti.
Dopo colazione, Eliza consegnò alle bambine un piccolo zainetto leggero. Dentro c’erano una bottiglietta d’acqua, un succo di frutta e una brioche al cioccolato, nel caso durante la gita avessero avuto fame o sete. Demi la ringraziò per quel gesto tanto gentile e poco dopo lei, Andrew, Eliza, Chris e Kaleia partirono.
Perché venite anche voi a scuola? Chiese Mackenzie a fata e protettore.
“Non ve l’avevamo ancora detto, ma io e Kaleia vi accompagneremo oggi in gita. Siamo noi i volontari dei quali forse avete sentito parlare. Io starò con le due classi dell’asilo e Kaleia con la vostra, Mackenzie.”
Davvero?
La bambina non poteva crederci. Si era domandata chi li avrebbe accompagnati, ma mai si sarebbe immaginata che si trattasse di loro due. Kaleia era una fata, credeva che la mattina si allenasse e che non avesse tempo per questo.
“Sì, piccola. Stamattina niente allenamenti per me, ma non sarà un problema. Con la gravidanza faccio comunque meno sforzi e anche al mio piccolo o, chi lo sa, ai miei piccoli forse, farà bene stare all’aria aperta e immergersi con me ancor di più nel bosco e nella natura” rispose la ragazza, allegra.
“Pensi che saranno più di uno?” le domandò Demi, curiosa.
Aveva sempre sentito dire che le donne incinte hanno un sesto senso, che a volte riescono a indovinare il sesso grazie a loro sensazioni, o che se la pancia è più a punta potrebbe trattarsi di una femmina mentre se è più tonda di un maschio. Certo erano tutte credenze popolari, ma Dianna ne aveva parlato quand’era rimasta incinta di Madison, anche se non aveva nemmeno provato a indovinare il sesso. Con Demi aveva sbagliato, credendo sarebbe stato un maschio. E pensare che aveva anche scelto il nome: Dylan, perché si sposava bene con quello della figlia maggiore, Dallas. Quindi con Madison aveva fatto qualche congettura ma alla fine, Demetria lo ricordava bene, aveva detto che anche se si fosse trattato di un’altra bambina, lei l’avrebbe amata più della sua stessa vita come faceva con le altre due.
La voce di Kaleia la riportò al presente.
“Non saprei. Noi fate siamo connesse ai nostri piccoli fin dall’inizio, nel senso che per esempio li sentiamo muovere un po’ fin dai primi mesi, non solo dal quarto in poi, ma questo non mi aiuta a immaginare se saranno più di uno, né tantomeno il sesso. Posso solo dirti che mi auguro che nasca sano. Mi piacerebbe avere una femminuccia, ma anche fosse un maschietto andrebbe benissimo lo stesso.”
Poco dopo la fata disse agli altri di aspettarla un momento, si precipitò dietro un albero e, per quanto amasse la natura, non riuscì a trattenersi. Le sfuggì un conato di vomito e sputò saliva, ma per fortuna nulla di più. L’ondata di nausea che l’aveva assalita era stata forte, causata dall’odore di un fiore che al momento non riconosceva, ma che il bambino non aveva gradito.
Quando tornò, Christopher le passò dell’acqua dal suo zaino.
“Grazie.” Bevve a piccoli sorsi, poi riprese: “Scusate. Ce l’ho sempre al mattino, a stomaco vuoto, ma a volte anche durante e dopo colazione, come in questo caso.”
“Tranquilla, è normale” la rassicurò Demi. “Nel nostro mondo ci sono donne che invece la provano al pomeriggio o la sera, anche per tutto il giorno o di notte. Non c’è una regola fissa, ma le nausee dovrebbero passare presto.”
“Ti ringrazio.” Sapeva che tutto era nella norma, ma una rassicurazione in più non faceva mai male. “Lo spero, perché non sono tanto leggere.”
Kaleia prese qualche respiro profondo, bevve ancora, mangiò un pacchetto di cracker che si era portata e, non appena si sentì meglio, tutti ripresero il cammino.
Perché il bambino fa star male Kaleia, mamma?
“Non è colpa sua, tesoro. È il corpo che si deve ancora abituare un po’ alla presenza del piccolo. Ma andrà tutto bene, promesso. Ora sta meglio, vedi? E presto il malessere passerà.”
La bambina annuì e sorrise.
In realtà la spiegazione non era così semplice. Demetria aveva letto che le cause delle nausee non sono chiare, l’ipotesi è che vengano per proteggere mamma e bambino da cibi potenzialmente pericolosi per la loro salute o perché in gravidanza aumenta il livello di alcuni ormoni. Ciò che sapeva per certo, e su cui si affrettò a rassicurare la figlia, era che la nausea non è un sintomo che qualcosa non vada.
Una volta che Mackenzie e Hope furono in classe, Chris e Kaleia attesero fuori dalla Penderghast e gli altri si diressero all’orfanotrofio per un’altra giornata di lavoro.
 
 
 
Le due sorelle non stavano più nella pelle. La più piccola aveva ascoltato Lucy parlare e la mamma e il papà avevano detto che anche lei, con i propri compagni, sarebbe andata al Giardino. Ma quando? E dov’era? E come mai lì all’asilo non ce n’era uno? Sì, esisteva un cortile con qualche giostrina, ma il verde non era molto. Prima di partire le insegnanti raccolsero le circolari firmate, come Mister Baxter nella classe di Mac, fecero uscire tutti i bambini e li lasciarono sfogare. Hope corse, saltò, andò sullo scivolo e fece su e giù per diverso tempo, infine volle salire su un’altalena e la maestra la spinse.
“Più alto! Più alto!” gridava, mentre la donna aumentava la velocità e lei rideva.
“Tieniti sempre, mi raccomando, Hope.”
 “Sì.”
Dopo una ventina di minuti, le insegnanti riunirono i bimbi in cerchio in mezzo al cortile e imposero il silenzio.
“Oggi andremo al Giardino di Eltaria” iniziò la maestra di Hope, più anziana, passandosi una mano tra i capelli ricci e grigi. “I bambini più grandi ci andranno un altro giorno. Vedremo gli animali e impareremo tante cose. Ma è un posto tranquillo, non bisogna fare tanto rumore.”
“Esatto” proseguì l’altra, con i capelli lunghi e biondi che le ricadevano lungo le spalle fino alle scapole. Il suo viso aveva meno rughe di quello dell’altra e sorrideva sempre. “E ci saranno anche alcuni bambini del primo anno delle elementari, solo una classe. Ma anche se non potrete fare tantissima confusione sarà divertente, promesso.”
Dopo averli contati e detto i nomi e i cognomi per sicurezza, le maestre li misero in fila per due, si posizionarono una in testa e l’altra alla fine della coda e partirono.
 
 
 
Nella classe di Mackenzie fu tutto più tranquillo. Mister Baxter fece sedere tutti ai propri posti e l’appello. Parlò loro del fatto che avrebbero imparato tante cose su piante e animali e consigliò ai bambini di portare un quadernino per scrivere qualche appunto, più che altro per avere un ricordo della gita. Nessuno ne aveva uno, come l’uomo aveva immaginato. Del resto, chi porta qualcosa inerente alla scuola in un giorno del genere?
“Li ho presi io per voi” concluse, distribuendoli.
I bimbi lo ringraziarono.
“Verrà qualche altra classe?” chiese Mahel.
“Alcune del vostro anno ci sono già state, una alla volta per non creare confusione, ma oggi con noi ci saranno i bambini più piccoli dell’asilo.”
“Conoscerò meglio tua sorella!” esclamò emozionata Harmony.
Già. Ti avverto, a volte è una peste.
“Oh, dai, non sarà poi così male.”
Prima conoscila davvero e poi vediamo.
Mahel e Harmony risero.
“Con noi verrà anche Kaleia, una fata che ha deciso di proporsi come volontaria, mentre per l’asilo sarà presente suo marito.”
“Non sono quelli che ti ospitano?” domandò Mahel.
Lo fa la mamma di lei, ma sì.
Il brusio nella classe era continuo. Mackenzie non aveva portato Lilia, così come Hope aveva fatto con Agni. Forse non si sarebbero annoiati durante la gita, ma per le due era più facile imparare senza di loro, soprattutto per la più grande che avrebbe anche dovuto scrivere e, magari, toccare qualche pianta, non avendo quindi il tempo di occuparsi di una cagnolina, per quanto la amasse. I due cuccioli si erano lamentati ma Mackenzie aveva promesso loro, con un sorriso e qualche carezza, che sarebbero tornati tutti presto. E comunque Sky era a casa, quindi avevano compagnia.
L’insegnante disse che sarebbero partiti a breve, il tempo di segnare che erano tutti presenti, ma i bambini continuavano a parlottare, alcuni come Mackenzie stringevano le mani a pugno, altri muovevano le gambe o battevano piano i piedi a terra. L’uomo sorrideva, contagiato dal loro entusiasmo. Quando si alzò e i piccoli lo seguirono ed esplosero in un grido di gioia. Mackenzie, Harmony e Mahel si abbracciarono, altri spiccarono un salto, poi però si ricomposero, si misero in fila per due e uscirono con l’insegnante in testa.
“¡Esperadme! Vengo anch’io.”
Mister Ramirez li raggiunse correndo in corridoio.
“Non hai lezione, oggi, Carlos?” gli chiese Alan Baxter.
“No, domani. Oggi sarebbe stato il mio día libre, ma ieri ho parlato con la Direttrice e detto che, dato che i bambini non sono pochissimi, sarebbe stato meglio essere in due. Mi fido di te, Alan, ma in due es más fácil. Mi ha dato il permesso di partecipare ed eccomi qui.”
Mackenzie gli sorrise, felice di rivederlo.
“Perfetto, benvenuto a bordo.”
I bambini risero per quella frase e l’uomo si avvicinò proprio a Mac.
“Ciao. Allora, sei felice di andare a conoscere un altro luogo del nostro mondo?”
Contentissima, Mister Ramirez! rispose con un gran sorriso.
Quando vide Kaleia, la piccola si limitò a sorriderle e a salutarla con la mano in modo che i compagni non le facessero domande o non pensassero che la fata preferiva lei rispetto a loro. Meglio evitare problemi almeno in quel sogno, visto il bullismo vissuto a scuola. La classe camminò verso il Giardino con i bimbi dell’asilo a poca distanza. E mentre le chiacchiere riempivano l’aria di allegria, Mackenzie non smetteva un attimo di scrivere per parlare fitto fitto con le compagne.
 
 
 
CREDITS:
Radiohead, How To Disappear Completely
 
 
 
NOTE:
1. nel memoir Dianna scrive che cedeva Demi sarebbe stata un maschio e che avrebbe desiderato chiamarla Dylan per il motivo di cui abbiamo parlato.
2. Non sono riuscita a trovare informazioni su cosa succede dopo un tentato suicidio in California. Non ho parlato dell’esperienza in psichiatria perché non ci sono mai stata, né ho letto abbastanza testimonianze da capire davvero come sia vivere là dentro. Ma ho precisato la questione dello psichiatra, lo psicologo e delle porte aperte e gli oggetti tolti perché ne ho sentito parlare in una delle esperienze che ho ascoltato su YouTube, e mi pareva appropriato aggiungerlo, dato che Andrew era considerato un paziente che doveva essere controllato, in quanto avrebbe potuto ritentare il suicidio in qualsiasi momento.
Mi rendo conto che una cosa del genere si può fare solo in psichiatria e non nel resto dell’ospedale, ma per quanto ci abbia pensato non sono riuscita a fare meglio di così. In ogni caso, cerco sempre di scrivere cose realistiche, o più veritiere possibili.
3. ¡Esperadme! = aspettatemi!

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Capitolo 30
*** Un domani incerto ***


CAPITOLO 30.

 

UN DOMANI INCERTO

 
Una volta entrati all’orfanotrofio, Andrew e Demi si diressero subito nella stanza dei bambini da cinque a nove anni, perché la Direttrice li aveva avvertiti del fatto che molti avevano richiesto un’altra lezione di musica. Si gettarono tutti addosso alla cantante e Kady si fece strada verso di lei. Le prese le mani con più forza di quanta Demetria si sarebbe aspettata.
“Sono stata adottata!” trillò. “Sono stata adottata! Verranno qui la settimana prossima e li potrò conoscere e poi, se tutto andrà bene, saranno i miei genitori.”
Un’ondata di tristezza velò gli occhi di Demi ed Eliza e Andrew capirono subito perché, ma la ragazza deglutì a vuoto e trasse un profondo respiro. Lo sforzo per riprendersi non fu indifferente, ma forzò un sorriso.
“Sono contentissima per te! Ti troverai bene.”
“Grazie. Spero che la mia nuova mamma sia buona e dolce come te. Se non mi adottavano loro, sarebbe stato bello se lo facevi tu.”
Demi sorrise sia per i verbi sbagliati sia, soprattutto, per quello che la bambina le aveva detto. Era una rivelazione non da poco e il suo corpo fu attraversato da un intenso calore.
“Grazie, Kady” si limitò a dire.
Per fortuna è andata in modo diverso. Mi piacerebbe adottarti, ma non avrei voluto darti una delusione dicendoti che non sarebbe potuto accadere.
Che reazione avrebbero avuto Mackenzie e Hope nel sapere della sorellina, se fosse stato quello il caso? Si sarebbero sentite felici? O gelose? O arrabbiate?
“Mi auguro la prima” disse fra sé, non riuscendo a immaginarlo.
“Ciao, io sono Kady” riprese la piccola guardando Andrew e ripetendosi come a volte fanno i bambini. “Ti ricordi di me?”
“Ma certo, so benissimo chi sei, principessa” rispose l’uomo con un gran sorriso e le scompigliò i capelli facendola ridere.
Gli altri bimbi, intanto, continuavano a chiedere a Demi di cantare e suonare ancora per loro. Edwin, Misty e Lydia furono i più calorosi con lei oltre a Kady e, poco dopo, tutti si diressero nella stanza con il pianoforte.
Demi si accomodò davanti a esso, Andrew prese un’altra sedia e le si mise vicino, mentre Eliza rimase con i bambini. La ragazza fece alcune scale per riscaldarsi e si aiutò anche con la voce, in modo che risultasse più potente. I bambini, chi cantando, chi urlando, la seguivano e la imitavano.
“Che cosa volete ascoltare?” chiese alla fine.
“Una tua canzone!” gridarono tutti.
“E canta anche tu” disse qualcun altro guardando Andrew.
Lui e la ragazza confabularono per qualche secondo, poi Demi suonò le prime note riempiendo l’aria di una melodia lenta ma allegra. Aveva scelto di mantenere quella della versione in spagnolo, non l’originale che invece era più veloce e suonata anche con altri strumenti, ma di cantarla comunque in inglese.
"I've always been the kind of girl
That hid my face
So afraid to tell the world
What I've got to say
But I had this dream
Right inside of me
I'm going to let it show
It's time
To let you know
To let you know
[…]"
Quando la cantava, Demetria non poteva che pensare a Joe Jonas, il cantante dei Jonas Brothers. In fondo l’aveva cantata con lui in Camp Rock. L’aveva amato tanto e rifletté sul modo in cui era andata a finire quando si erano lasciati. Il cuore le si riempì d’amarezza per alcuni istanti, la loro era stata una storia importante per entrambi. Ma gli anni erano passati, lei e Joe si consideravano amici anche se non si vedevano di frequente e adesso Demi aveva un ragazzo fantastico.
Andrew cantò la sua parte e lei si unì a lui dopo qualche attimo. L’ultimo verso fu tutto suo.
You're the voice I hear inside my head
The reason that I'm singing
I need to find you, I gotta find you
You're the missing piece I need
The song inside of me
I need to find you, I gotta find you
 
This is real, this is me
I'm exactly where I'm suppose to be, now
Gonna let the light
Shine on me
Now I've found
Who I am
There's no way to hold it in
No more hiding who I want to be
 
This is me
[…]
Va tutto bene pensò mentre suonava le ultime note.
Le loro voci si erano armonizzate alla perfezione, la sua più acuta e quella dell’uomo grave e calda, anche se comunque il fidanzato riusciva a raggiungere note alte con un po’ di sforzo.
L’applauso che ne seguì spazzò via qualsiasi tristezza dall’animo della ragazza. Andrew e Demi si abbracciarono e si diedero un bacio sulla guancia, trattenendosi dal fare di più dato che si trovavano in presenza di bambini.
“Evvai! Evvai!” esclamarono alzando le braccia al cielo.
“Quei due si amano” disse qualcuno.
Una bambina alzò la mano.
“Sì?” chiese Demi sciogliendo l’abbraccio.
“Ciao, mi chiamo Celine. Tu e Mister Andrew siete fidanzati?”
“Sì, da un po’ di tempo.”
“Aww” commentarono tutte le bimbe, mentre i maschietti rimasero indifferenti e i tre adulti scoppiarono a ridere.
La cantante fece suonare un po’ i bambini, divertendosi ad ascoltarli mentre cercavano di creare qualche melodia che risultava più stonata che mai. Ma i piccoli sembravano più interessati a sentirla suonare e cantare, così accettò la loro richiesta di farlo da sola. Nella stanza calò un silenzio ancora più assoluto di prima, tanto che quando iniziò a suonare i bimbi della prima fila, assieme a Eliza, poterono addirittura sentire il lieve rumore dei tasti del pianoforte che andavano su e giù sotto le sue mani. Un suo sospiro tremante riempì l’aria attorno a lei e Andrew le appoggiò una mano su una spalla per farle coraggio. Demetria si voltò e sorrise. La canzone che stava per cominciare aveva un grandissimo valore per lei. Tutte l’avevano, ma per quella in particolare, assieme a Skyscraper, c’era un posto speciale nel suo cuore.
This is a story that I have never told
I gotta get this off my chest to let it go
I need to take back the light inside you stole
You're a criminal
And you steal like you're a pro
 
All the pain and the truth
I wear like a battle wound
So ashamed, so confused
I was broken and bruised
 
Now I'm a warrior
Now I've got thicker skin
I'm a warrior
I'm stronger than I've ever been
And my armor, is made of steel, you can't get in
I'm a warrior
And you can never hurt me again
 
Out of the ashes, I'm burning like a fire
You can save your apologies, you're nothing but a liar
I've got shame, I've got scars
That I will never show
I'm a survivor
In more ways than you know
[…]
Nel ritornello la sua voce aumentava di volume, si alzava come una montagna che spuntava dal mare dopo essere cresciuta piano piano per millenni.
“La canzone di una combattente”, così l’aveva definita una volta Andrew, e Demetria non avrebbe potuto essere più d’accordo. Warrior racchiudeva in sé dolore, ferite, alcune cicatrizzate e altre forse no ma anche speranza e voglia di ricominciare, perché chi la cantava credeva ancora nella vita anche dopo aver visto quanto poteva, in molte situazioni, fare schifo. Era la canzone di chi non si era arreso, né l’avrebbe fatto mai.
A brano terminato, i bimbi non riuscirono a contenersi. Urlarono, batterono mani e piedi, saltarono per terra e alcuni perfino sulle sedie e le si gettarono tra le braccia l’uno dopo l’altro facendole mille complimenti.
“Sei bravissima, Miss Demi!” Celine batté ancora le mani. “Un angelo.”
Era una dei più grandi, avrà avuto la stessa età di Lydia.
“Ora esageri, tesoro, ma grazie.”
“No, no, è la verità.”
“Ma come fai a cantare così?” le chiese Kady. “Va bene, hai studiato, ma… è pazzesco!”
“E anche tu sei bravo, Mister Andrew” si complimentò Edwin.
“Grazie, amico.”
I due si diedero il cinque.
“Complimenti davvero” si intromise Eliza, poi si rivolse ai piccoli. “D’accordo, adesso calmatevi, respirate. Vi attende una lunga giornata, non vorrete sprecare tutte le energie.”
“No, vogliamo giocare!” gridarono i bimbi più piccoli.
Mentre tornavano nella loro stanza, ariosa e piena di luce, con le finestre aperte dalle quali entrava il sole, Demi e Andrew restarono in disparte.
“Tutto a posto?” chiese loro la donna.
“Vorremmo vedere Seth e salutare anche gli altri bambini” spiegò l’uomo.
“Ma certo! Andate pure, io resto qui.”
Poco dopo la raggiunse un’altra volontaria. Andrew e Demi, invece, passarono prima di tutto dai neonati. Anche l’uomo ebbe così la possibilità di dar loro il latte, sotto lo sguardo vigile di Demi e Julie.
“Pazzesco! Sto allattando un bambino che in realtà è una… sfera di luce” commentò, ancora incredulo. “Lei si chiama Maisy, giusto?”
“Esatto” confermò Julie. “Aspettate, vi faccio vedere una cosa.”
Aprì la lanterna e Maisy uscì sollevandosi appena.
“Mettete la mano vicino a lei” continuò la ragazza.
I due obbedirono, non smettendo un solo attimo di guardare quella piccola sfera muoversi senza sosta. Maisy si posò prima su quella di Andrew e poi andò da Demi. I due non sentirono niente, videro solo quella luce che rimaneva lì, immobile.
“Wow” sussurrò la ragazza, temendo che se avesse usato un tono normale la piccola si sarebbe spaventata.
“Quando nasce un bambino, chi assiste la fata o la creatura che lo mette al mondo le consiglia di lasciare che lui si posi sulla sua mano. I piccoli hanno freddo e fanno così per trovare calore” spiegò ancora Julie.
Poco dopo i fidanzati rimisero Maisy al sicuro nella sua lanterna e passarono a salutare Lilith, Seth e gli altri piccoli. Il nuovo arrivato stava benissimo.
“Ha passato una notte difficile, a dire il vero” fece sapere loro una volontaria. “Nuovo posto, nuovo letto, rumori ai quali non era abituato… è normale. Non ha dormito un granché, ma presto si ambienterà.”
“Avete trovato sua nonna?”
“Le ricerche sono durate fino a stamattina, senza risultati. Non c’è modo di trovarla. Gli oggetti rinvenuti vicino alla lanterna sono comuni e non ci dicono nulla della persona o di dove potrebbe stare. Non ci sono foto né altro, solo un paio di nomi anch’essi presenti nel nostro territorio. Se tra dieci giorni non verrà a prenderlo, Seth sarà dichiarato adottabile.
Andrew e Demi sospirarono.
Avevano sperato, pur non dicendolo, che quella storia sarebbe andata a buon fine. Ora non restava che concentrarsi su di lui.
“Ehi, piccolino!” Demi si avvicinò alla carrozzina e gli accarezzò il viso. “Come stai?”
Il bambino batté le manine più volte. Demetria non credeva potesse riconoscerla, in fondo erano stati insieme per poco tempo, ma ricordò che a quell’età i bambini sorridono alle persone conosciute.
“Mmmm” disse il piccolo, lanciò alcuni gridolini di diverse tonalità e allungò le braccia.
Lei lo sollevò e smise di porsi domande. Un’accoglienza tanto festosa la commosse e le fece sciogliere il cuore, trasmettendole un senso di pace. Seth fece qualche gorgoglio e i due fidanzati risero, le tirò i capelli e le sorrise. Quando Andrew lo prese fra le braccia, Seth fece qualche versetto ed esplorare il viso dell’uomo.
“Sembri piacergli molto” commentò Demi. “Non fa che guardarti.” Le parve di rivederlo, tempo addietro, quando Hope era più piccola e lo osservava nello stesso modo, con curiosità, e lui lasciava che gli sfiorasse il viso mentre entrambi si sorridevano. “Siete adorabili insieme.”
“Ti ringrazio. Ciao, tesoro! Sei un bambino bellissimo, come tutti qui dentro.”
Lui e Demi coccolarono Seth per qualche altro minuto, lo riempirono di baci e carezze, gli parlarono e gli portarono sonagli e piccoli cubi di legno, che lui afferrava e scuoteva. Dopo averlo affidato a una volontaria si divertirono con Lilith e tutti gli altri cantando loro alcune canzoncine che sembrarono apprezzare, e via via andarono a salutare i bambini più grandi tra i quali Harold e Ayanna, dedicando un po’ di tempo a ciascuno. Forse li avrebbero rivisti il giorno dopo, o magari no, e desideravano trascorrere almeno qualche minuto con ognuno.
“Ragazzi, volete un caffè?” chiese loro Eliza raggiungendoli quando uscirono.
“Volentieri” rispose Demi e la donna li guidò nella cucina dell’orfanotrofio, un grande stanzone dove non solo alcuni cuochi preparavano i pasti per i bambini e i volontari, ma i piccoli potevano anche mangiare, date le file di tavoli e sedie disposti in modo ordinato.
Una donna grassoccia con i capelli bianchi e il grembiule venne loro incontro.
“Salve!” Strinse la mano a Demi. “E così lei è la nuova volontaria, finalmente la conosco.”
“Piacere mio.”
“Siamo felicissimi di averla qui. Per quanto vi fermerete?” domandò ad Andrew.
“Non sappiamo, forse non tanto” sussurrò lui.
A Demetria mancò il fiato e si appoggiò una mano al petto.
Avevano salutato i bambini come se fosse stata l’ultima volta che li vedevano perché, anche se non avvertivano nessuna strana sensazione, preferivano farlo piuttosto che ritrovarsi svegli il giorno dopo senza aver detto una sorta di addio. Considerando il fatto che erano passati nove giorni dal loro arrivo e che quindi il sogno di Mackenzie doveva essere lungo, forse non sarebbe durato ancora molto. Il solo pensiero fece salire a Demetria le lacrime agli occhi e si sentì le guance andare a fuoco, segno di un pianto imminente.
Non devo, anzi, non dobbiamo pensarci. Magari staremo qui ancora per qualche ora o tutto il giorno, o chissà. Cerchiamo di rimanere calmi.
Se si fossero fatti prendere dall’ansia e dai brutti pensieri, non si sarebbero goduti il resto della permanenza e nessuno dei due voleva questo. Sperò solo che Mackenzie non provasse le loro stesse sensazioni così come Hope. Cercò di far capire tutto questo al fidanzato con uno sguardo e gli sussurrò che era necessario respirare profondamente. Eseguirono e contarono fino a dieci, sentendosi subito meglio.
La cuoca preparò loro due caffè decaffeinati, a quello di Demetria aggiunse il latte come da richiesta e offrì loro qualche biscotto al cioccolato che aveva cotto da poco e che era ancora caldo, ma non troppo.
“Sono squisiti!” esclamò la cantante.
“I bambini ne andranno matti, glielo posso assicurare.”
“Sono felice che la pensiate così. In effetti a loro piacciono. Li mangeranno oggi pomeriggio a merenda e domani a colazione. A pranzo e a cena per molti è difficile farlo con la verdura o la frutta, non sono abituati, ma con un po’ di lavoro e insistenza riesco a fargliele apprezzare.”
Dopo averla ringraziata i due si concessero una breve passeggiata per il giardino, ancora tranquillo dato che nessuno era uscito.
“Chissà che staranno facendo le nostre figlie!”
“Secondo me si divertono ad accarezzare gli animali e a guardare le piante” disse Andrew. “Ho sentito dire da Lucy che il Giardino di Eltaria è pieno di meraviglie. Vedrai che ameranno quella gita e avranno tante cose da raccontarci.”
“Già, lo penso anch’io. Torniamo dai grandi?”
Andrew annuì con un sorriso.
“Dov’è Kady?” domandò la ragazza a Eliza.
Contava ventinove bambini e non la vedeva da nessuna parte.
L’altra si guardò intorno e il suo sorriso scomparve.
“Mi ha detto che andava in bagno, credevo fosse tornata, ma non ci ho più fatto caso. Non è una che combina guai o si nasconde.”
Parlò a voce alta per farsi sentire sopra la confusione. Alcuni bambini giocavano, chi in silenzio, chi addirittura gridando.
“Dobbiamo cercarla subito” disse Andrew.
Dopo aver lasciato i bimbi con l’altra volontaria, la quale non aveva visto Kady da nessuna parte, i tre decisero di provare a trovare la piccola prima di allarmare la Direttrice. Poteva anche darsi che si stesse solo nascondendo per gioco. Non era possibile che fosse scappata, il cancello era chiuso e troppo alto per essere scavalcato da una bambina della sua età. Non c’erano altre uscite. Fecero il giro del giardino osservando sotto ogni albero ma nulla. Controllarono nelle altre stanze dei bambini, che intanto le volontarie iniziavano a far uscire all’aperto. Demi suggerì che la piccola doveva trovarsi in un posto in cui stare da sola e, al contempo, sentirsi al sicuro.
“Magari la sua camera” suggerì. “Io vado sempre lì quando non mi va di vedere nessuno, o meglio lo facevo quand’ero più giovane.”
Eliza li condusse su per una lunga scala. Oltrepassarono il secondo piano, in cui si trovavano le camere dei bambini da alcuni mesi a un anno o poco più e dei volontari che si occupavano di loro. Nel terzo, ancora più grande, c’erano circa quarantacinque stanze, per i bimbi più grandi e altre volontarie.
“Quella di Kady è la penultima in fondo al corridoio. Dopo c’è la mia, le poche volte nelle quali mi fermo qui di notte se qualcuno ha bisogno, per esempio se uno o più bambini sono malati, altrimenti la usano altri. Kady, sei qui dentro?”
Eliza parlò con dolcezza e bussò appena, ma non ci fu risposta, né alcun rumore.
“Nessuna porta è chiusa a chiave,” mormorò, “abbiamo troppa paura che rimangano dentro.”
“Almeno non dovremo pregarla di farci aprire” sussurrò Andrew.
I tre furono tentati di entrare e basta, ma d’altra parte non volevano violare il suo spazio personale o spaventarla e non capivano quale fosse il problema. Eliza la conosceva da quando era arrivata e raccontò che si era comportata così per diverso tempo. Si allontanò dalla stanza per parlare loro con più tranquillità, evitando che la piccola sentisse.
“Ha sofferto per l’abbandono dei genitori, non poteva credere che l’avessero lasciata qui ed era arrabbiata con il mondo, non si fidava di nessuno. È stata in terapia con la psicologa da quando è arrivata. Con il gioco, i disegni e più avanti anche parlando è riuscita a sfogarsi, a tirare fuori insicurezze e paure e a fidarsi di me e delle altre volontarie, ma è stato un percorso lungo e difficile. Ora ha anche molti più contatti con gli altri bambini, in particolare con Misty ed Edwin che sono i suoi migliori amici, ma all’inizio non parlava quasi mai con nessuno di loro. Forse è agitata a causa del fatto che sta per essere adottata: da una parte è felice, dall’altra ha paura del futuro.”
“Lasciate che provi a parlarle io” propose Demi.
Non era una psicologa, ma una mamma che aveva adottato due bambine una delle quali con grosse difficoltà e, anche se non si considerava un’esperta, tra iter adottivo e vita con le piccole ne sapeva parecchio. Se era riuscita a rassicurare Mackenzie facendole capire, nel tempo, che la amava davvero, forse sarebbe stata in grado di aiutare Kady.
Bussò tre volte, poi altre tre con colpetti un po’ più decisi ma non troppo, per non spaventarla.
“Kady? Tesoro, sono Miss Demi, posso entrare? Ci sono anche Andrew ed Eliza con me, ma ti prometto che verrò solo io per farti compagnia, non dovrai parlare se non te la sentirai.” Sperava che sarebbero riuscite a comunicare, ma per il momento voleva solo trasmetterle tranquillità andando un piccolo passo alla volta. “Non sono venuta per sgridarti o costringerti a giocare con gli altri, te lo giuro. Voglio stare un po’ con te e darti una mano, se posso. Batti un colpo se mi dai il permesso di entrare.”
Ci fu un lunghissimo, eterno silenzio carico di tensione, poi si udirono alcuni passettini avvicinarsi alla porta e due colpi appena accennati, seguiti da altri passi che si allontanavano. Demi fece cenno a Eliza e ad Andrew di non restare lì mimando un “Andrà tutto bene” con le labbra. Abbassò la maniglia, che cigolò appena.
La stanza era dipinta di un tenue giallo e aveva delle stelle disegnate sul soffitto. L’ambiente era accogliente e carino, perfetto per una bambina di quell’età. In un angolo si trovava un piccolo cesto con alcuni giocattoli, per la maggior parte peluche e qualche bambola, e sulla parete di fronte al letto un quadretto con una fotografia. Sotto le coperte c’era Kady, rannicchiata, del tutto nascosta. Demetria le lasciò ancora qualche attimo di calma e si avvicinò alla foto. Raffigurava una fata che teneva in braccio una pixie di circa un paio d’anni, con un gran sorriso e occhi pieni d’amore. Il folletto accanto a loro stringeva la moglie in un delicato abbraccio, cingendole le spalle. La piccola era Kady, non c’erano dubbi, e la ragazza che la teneva le assomigliava tantissimo, sia nei lineamenti del viso, che nel colore degli occhi, che nel sorriso, anche le labbra sottili erano uguali, ma Kady aveva preso quello dei capelli dal padre. Lì sembravano una famiglia felice. Chissà cos’aveva spinto quelle due persone ad abbandonare la loro figlia, che avrebbe dovuto essere la loro ragione di vita. Demi sospirò piano per non farsi udire e accarezzò la foto nel punto in cui si trovava la bambina. Si avvicinò al letto.
“Posso sedermi?”
Kady uscì dal suo nascondiglio facendo vedere vedere solo la testolina bionda, i capelli spettinati e in disordine che Demi accarezzò con un gesto lento prima di accomodarsi sul materasso. Si era aspettata che i bimbi, perlomeno i più grandi, stessero tutti insieme in una camerata, ma era contenta di sapere che al contrario ognuno avesse il proprio spazio.
La bimba si asciugò le lacrime che ancora le bagnavano il volto.
“Anch’io quando da piccola ero triste andavo sempre in camera mia, l’unico posto nel quale sentirmi tranquilla e in cui nessuno poteva disturbarmi. Ma ci hai fatti preoccupare, pixie.”
“M-mi dispiace” balbettò questa in risposta, con il labbro inferiore che le tremava.
“Non preoccuparti, l’importante è che tu non ti sia fatta male. Possiamo stare ancora un po’ qui, se ti va.”
Annuì impercettibilmente e il silenzio calò di nuovo su di loro.
“Sono mamma e papà. Quelli veri, che mi hanno abbandonata qui” sussurrò a un tratto la piccola, indicando la foto. “Non avevamo tanto da mangiare, i miei non riuscivano a trovare un lavoro dopo che papà aveva perso il suo, o qualcosa del genere. Mamma, invece, era sempre rimasta a casa. Una mattina mi hanno detto che mi porterebbero in un posto pieno di verde dove sarei felice e io ero contenta, perché pensavo di giocare con loro.”
Demi sorrise per quei verbi sbagliati, ma non si intromise.
“Ma non avevo capito… pensavo fosse un parco con dei giochi, non un posto dove i bambini vengono lasciati. Quando siamo arrivati davanti al cancello mi hanno abbracciata forte e mi hanno quasi soffocata, poi sono scoppiati a piangere e hanno detto:
“Torneremo, non preoccuparti.”
“Quando?” ho chiesto.
“Presto. Fai la brava bambina.”
E poi sono rimasta lì da sola. Mi sono seduta, ho gridato i loro nomi, poco dopo sono corsa loro dietro, ma erano già spariti in volo e io non ero abbastanza veloce per seguirli, anche se ci ho provato. Sono tornata indietro e ho suonato il campanello. Avevo tanta paura. I miei hanno lasciato una lettera. La Direttrice e la fata che mi aiuta hanno cercato di farmelo capire che i miei non potevano più tenermi, ma io ho sempre sperato che tornavano da me!”
“Quella fata è la signora con cui giochi e disegni?”
“Sì, si chiama Claire, il cognome non lo ricordo. Parliamo tanto.”
Batté i denti e Demi le cinse i fianchi con un braccio.
“Mi dispiace, tesoro mio” riuscì solo a dire, benché questo non sarebbe stato di conforto a Kady.
“Non so perché non mi hanno detto subito la verità. Miss Claire mi ha spiegato che forse allora volevano proteggermi o pensavano che le cose sarebbero migliorate, ma i giorni sono passati e sono diventata… adottabile, credo si dice così, che se fossero tornati dovevano fare tanti colloqui con le anziane, lei e la Direttrice per riavermi, ma non è mai successo. Secondo te mi volevano bene?”
In parte sa i congiuntivi. Imparerà presto a parlare benissimo.
Diede dell’idiota alla sua mente: al momento i verbi non erano importanti.
Kady tirò su col naso e Demetria la strinse di più.
“Certo! Sono sicura che te ne vogliono anche ora, ma forse la situazione non è migliorata e hanno pensato che stessi meglio qui.”
“Non lo capirò mai.” Kady aveva alzato la voce e strinse le mani a pugno. “Preferivo stare con loro ed essere povera piuttosto che restare qui. È un bel posto, ma non è casa.”
Quell’ultima frase fu un pugnale che trafisse il cuore di Demi, che si portò una mano in quel punto per soffocare un’immaginaria fitta di dolore che la lasciò senza energie.
Non è casa.
La sua testa continuava a ripeterlo. Capì cosa intendeva la bimba. Non si riferiva solo al luogo, voleva anche dire:
“Non è come vivere con mamma e papà.”
Demi sperava che la piccola non avrebbe avuto una crisi di qualche tipo, non era sicura di poterla gestire. Le disse di respirare piano e di contare fino a dieci come faceva lei e Kady, poco dopo, ci riuscì. Fu più facile di quanto la cantante si sarebbe aspettata e ben presto la bimba si sentì meglio. Forse significava che era in grado di gestire un po’ la rabbia e Demetria ringraziò la psicologa che la stava aiutando.
“Vuoi leggere la lettera?”
Senza aspettare una risposta, la tirò fuori dal comodino e la mostrò a Demi. La ragazza lesse in silenzio:
Amiamo la nostra bambina, ma non abbiamo più i soldi per occuparcene e quelli che ci vengono prestati non bastano. Non abbiamo nessun parente in vita o amici tanto stretti da poterla lasciare loro.
 
Speriamo possiate occuparvi voi di lei e che un giorno troverà una famiglia che le darà un amore incondizionato, quantomeno simile al nostro. Ve lo dirà lei stessa, ma si chiama Kady.
 
Vi prego, abbiate cura della nostra piccola!
 
Kady, ci dispiace, perdonaci. Decidere di portarti dove sei ora è stata la scelta più sofferta della nostra intera vita, non avremmo mai voluto arrivare a questo. Per noi sei la cosa più importante, il regalo più prezioso. Ti ameremo per sempre con tutta l’anima, ma non potevamo farti vivere così. Sappiamo che non capirai, ma è proprio per questo e per l’amore che proviamo per te che vogliamo darti la miglior vita possibile. Ti lasciamo una nostra foto, così non scorderai mai come siamo.
Penseremo a te ogni istante di ogni giorno.
Mamma e papà.
“La sai leggere?”
“No, e non voglio che lo faccia nessuno per me. Imparerò presto, spero. Mi dicono che c’è scritto che mi amano, è vero?”
Demi la strinse a sé e le diede un bacio.
“Sì, piccina, è così.”
“E non torneranno, giusto?”
Demetria trasse un profondissimo respiro. Dire la verità o mentire? Valutò i pro e i contro e, anche se avrebbero potuto esserci delle conseguenze negative, mormorò:
“No, Kady, e non riesco a immaginare come tu ti senta in questo momento, ma se vuoi parlarne sono qui.”
Le erano parse le parole più corrette da usare, ma aveva fatto bene a prendere quella decisione? La Direttrice e la psicologa non le avevano certo detto questo, almeno non tanto direttamente. Avrebbero dovuto comportarsi in modo diverso, essere oneste fin da subito anche se non troppo dure, e sperò che non avessero alimentato in lei false speranze, che quelle che aveva coltivato fossero scaturite solo dalla sua mente.
La piccola sospirò.
“Un po’ lo sapevo. Mi hanno detto che a volte le famiglie non possono tenere i loro bambini, ma che capita poco e che i miei mi volevano bene.”
La bambina versò solo qualche lacrima.
“Non capisco. Un figlio non si abbandona, vero?”
“Non si dovrebbe, ma…”
“Allora perché loro l’hanno fatto?” gridò e batté entrambe le mani contro il bordo del letto. “La psicologa dice che forse avevano dei problemi.”
“Sì, è possibile. A volte, chi è disperato fa cose che non capiamo, come questa.”
“Ma non è giusto!” ribatté la piccola.
“Ricorda” riprese Demi “che tutto ciò non è colpa tua, non lo sarà mai. E no, non è giusto.”
Non avrebbe saputo cos’altro dire. Nessuna parola sarebbe riuscita a togliere a quella bambina il dolore. Poteva solo starle accanto.
“Me lo dicono tutti, che non ho colpe.”
Ma la ragazza capì, da quelle poche parole, che la bimba non ne era del tutto convinta e ciò le fece male. Non era giusto che si sentisse così. D’altra parte, però, sapeva che capita che i bambini abbandonati si diano delle colpe che non hanno.
“Tu sei meravigliosa, loro lo sapevano come tutti qui. Erano disperati, probabilmente, e hanno fatto ciò che ritenevano il meglio per te, ma posso solo immaginare quello che provi.”
La bambina sospirò ancora e la abbracciò.
“I nuovi mamma e papà saranno buoni con me?”
“Sono sicura di sì. Chi adotta un bambino non può essere cattivo.”
Almeno non in questo mondo, spero.
Aveva sentito di genitori affidatari o adottivi che avevano picchiato i loro figli e fatto altre cose orribili, finché in un modo o nell’altro questo era venuto alla luce. Per fortuna si trattava di casi rari.
“Tu hai dei bambini? Perché con noi sei tanto brava.”
Demi la baciò in fronte.
“Sì, ho due bambine, Mackenzie e Hope. Una ha un anno più di te, l’altra è più piccola, ne ha quasi due. E pensa un po’, le ho adottate.”
Kady sbarrò gli occhi.
“Sul serio?”
“Giuro. Anche se ci è voluto un po’ di tempo per Mackenzie per capire che mi voleva bene, alla fine abbiamo compreso che il nostro era un legame speciale.”
“E tu l’hai capito subito che gli volevi bene?”
“Le, non gli” la corresse. “Sì, ho visto la loro foto e me ne sono innamorata e ancora di più quando le ho incontrate la prima volta. Sarà così anche per i tuoi. Sei stupenda, non si può non amare una bambina come te.”
Kady la abbracciò ancora e le due rimasero così per alcuni secondi, intensificando sempre di più la stretta come se avessero bisogno l’una del calore dell’altra.
“E i miei amici? Non li rivedrò più! Non voglio lasciare Misty ed Edwin!” esclamò la bambina.
“Forse, se chiederai ai tuoi genitori di tornare a salutarli, te lo permetteranno capendo che qui hai anche avuto esperienze positive. Sono convinta che la Direttrice l’abbia detto loro, E nel caso venissero adottati, se abitano a Eltaria potresti sempre incontrarli, prima o poi. Ti farai nuovi amici quando andrai a scuola e avrai una bella vita.”
Kady uscì dal letto e si sedette tra le braccia di Demi, che la accolse con calore. Le accarezzò la schiena, il viso e i capelli, guardava le sue lacrime che ora cadevano copiose. La bimba piangeva per le scelte dei genitori e il dolore, continuo e insopportabile, che le avevano provocato e che lei nascondeva dietro tutti quei sorrisi, una sofferenza che l’avrebbe segnata per sempre, per la paura di allontanarsi dai propri amici e per quella del futuro. Non le asciugava, lasciava che la bagnassero fino ad arrivare ai vestiti. Nel sorriso di Kady c’era il sole, pensava intanto Demi, ma in quel momento il suo volto, arrossato dal pianto, sembrava un cielo pieno di nuvole che facevano cadere una pioggia violenta. Nel più profondo del suo sguardo, Demetria lesse anche una paura tanto forte da togliere a entrambe il respiro, quel terrore che doveva paralizzarla, lasciarla stordita e senza forze. La piccola singhiozzò in modo convulso mentre la ragazza continuava a coccolarla e a parlarle.
“Andrà tutto bene, tesoro, te lo prometto. So che hai paura, ma sarai felice, pregherò per questo.”
Le due rimasero in quella posizione, con la cantante che la accarezzava e le massaggiava la schiena per rilassarla, finché il respiro della piccola si fece regolare.
“Sto meglio. Miss Demi, grazie.”
“Mi fa piacere, cucciola! Ti va di tornare a giocare, adesso?”
“Prima voglio un altro abbraccio.”
Demetria eseguì, ma le fece anche il solletico alla pancia e ai fianchi fino a quando la bambina la supplicò di smettere, ridendo come una pazza.
“Okay, non lo farò più.”
“Bene. Voglio giocare!”
Dopo aver bevuto dell’acqua ed essersi sciacquata il viso la bambina si precipitò fuori, ritrovando la sua solita energia.
“Che hai fatto lì dentro, un miracolo?” chiese Eliza alla ragazza.
“Abbiamo solo parlato. Aveva bisogno di sfogarsi e di qualche rassicurazione.”
“Grazie, davvero.”
Quando tornarono nella stanza alcuni bambini, tra i quali Lydia, Misty ed Edwin vennero loro incontro.
“Vorremmo fare tutti dei puzzle” disse la bambina più grande.
“Tutti quanti, Lydia?”
“Sì, Mister Andrew, ci siamo messi d’accordo.”
“Potremmo dividervi in gruppi e ognuno ne farà uno.”
Il suggerimento di Demi piacque anche ai bambini. Poco dopo erano seduti per terra in gruppi da sei. Lydia, Misty, Edwin e Kady erano assieme ad altri due bambini e avevano davanti una scatola con circa un centinaio di pezzi di un puzzle con i personaggi di Pixie Club che si rincorrevano su un prato verde. Sopra di loro, il cielo era azzurro e limpidissimo. Gli altri ne avevano di diversi tipi: unicorni al galoppo su una prateria, per esempio, o i personaggi di Woodland Critters.
“Cosa sarebbe?” domandò Andrew quando lesse l’etichetta.
“Un altro cartone in voga qui” spiegò Eliza.
Narrava le avventure di un gruppetto di animali del bosco e analizzava anche, in profondità, la vita di ognuno. Si trattava di un gufetto, un coniglietto, un orsetto bruno e un lupacchiotto. Nessuno di loro aveva un nome, disse ai due una bambina che stava cominciando a comporre il puzzle.
Altri due gruppi avevano qualcosa di più semplice: una casa nel bosco.
La stanza si riempì di brusii dei piccoli che lavoravano, si scambiavano consigli su dove mettere questo o quell’altro pezzo, a volte bisticciavano ma alla fine facevano sempre pace. Andrew e Demi, però, sembravano un po’ estraniati da quella scena.
“A che state pensando?”
“Io al fatto che in questa settimana sono cresciuto. Ho imparato a credere di nuovo, e in maniera più forte, nella magia. Mia mamma mi diceva sempre, da bambino, quando ho iniziato a diventare più grande, di non smettere di crederci mai e che avevo il diritto, per esempio, di pensare che Babbo Natale o la Befana esistessero. Qui li festeggiate?”
 “Anche pixie, fate e folletti hanno iniziato a farlo, perché le tradizioni umane, o almeno alcune di esse, sono arrivate fino a loro” spiegò la donna.
“Che bella cosa!” esclamò Demi.
Andrew riprese:
“In questa settimana mi sono sentito felice come non lo ero da tempo. Non ho avuto particolari problemi a parte l’attacco di panico e a fidarmi di persone che, di primo acchito, avevo giudicato squilibrate. La prima impressione non è sempre quella che conta, e nel mondo da dove veniamo io e Demi troppo spesso si dimentica questa lezione, perciò ringrazio te, Eliza, ma dovrei farlo con tutti, per avermela insegnata di nuovo.”
La donna arrossì.
“Non c’è di che” mormorò.
“Sono d’accordo, in particolare sull’ultimo punto riguardo la magia e la lezione. Abbiamo anche imparato molte cose su questo mondo, pieno di valori semplici che troppe volte, nel nostro, si danno per scontati.”
Demi era sempre stata una persona alla quale piaceva dire:
“Ti voglio bene”,
a volte, oltre che dimostrarlo. Sentiva sua madre, Eddie e le sorelle circa ogni due settimane, li vedeva un po’ di meno ma in ogni caso facevano parte della sua vita.
Da quanto tempo non dico a mia mamma che le voglio bene? E a Dallas, Madison e Eddie? Loro lo sanno e forse non lo faccio per questo, perché penso che sia ovvio. E lo è, in parte. Ma dovrei dirlo loro, ogni tanto, perché è importante.
Ogni volta che sussurrava ad Andrew:
“Ti amo”
le si scaldava il cuore e sapeva che lo stesso valeva per lui. Allora perché non farlo sentire di più alla famiglia? In particolare Eliza, con la sua simpatia e il proprio affetto, gliel’aveva fatto capire. Glielo disse.
“Oh, tesoro!”
Gli occhi di entrambe si inumidirono e un caloroso abbraccio le unì. Nessuno era come quelli di sua madre, ma quando Eliza la stringeva, o le parlava, o le rimaneva vicina – e non solo fisicamente –, Demetria si sentiva coccolata un po’ come se Dianna fosse stata lì, e di sicuro accadeva perché anche Eliza era una mamma.
“Oltre a questo…” Demi indicò i bambini. “Ho conosciuto la loro forza, ma anche le loro paure e fragilità. Con Kady, in particolare, ma non solo. Vedo i loro sorrisi ma anche la loro paura, che sentiranno in modo diverso e a volte inconsapevole viste le età differenti, ma che secondo me provano tutti.”
“Concordo. Conosco adulti che sarebbero forti la metà di questi angeli. E io stesso non so se e come riuscirei ad affrontare un abbandono, se mi trovassi nella loro situazione.”
Demi fece un sorriso amaro.
“Già.”
“Anch’io ho imparato molto, ragazzi. Hope mi ha aiutata a sentirmi più viva, meno sola e meno vuota. E vedere tutto l’amore che la circonda mi ha resa felicissima. La vostra piccola mi ha insegnato che non si può mai sapere quali cose belle ti riserverà la vita.”
“Wow!” esclamarono insieme i fidanzati.
Era un gran complimento, soprattutto se rivolto a una bambina di quasi due anni la quale, senza rendersene conto, aveva aiutato una donna sulla quarantina.
A uno a uno, i vari gruppi vennero a dire che avevano finito e sorridevano felici quando gli adulti ammiravano le loro opere.
“Chi ha vinto?” chiese Misty.
“Tutti quanti! Sono puzzle bellissimi” disse Demi.
La sera prima, oltre al cibo per la festa, aveva comprato anche caramelle e cioccolatini per i piccoli, che aveva portato con sé. Per fortuna quel giorno faceva meno caldo del solito e, mettendoli nella sua borsa lontani dal sole, gli ultimi non si erano sciolti. Quando offrì un po’ di dolcetti a ciascuno, tenendone alcuni per sé, Eliza e il suo ragazzo, i bambini esplosero in gridolini di gioia.
“Cosa si dice a Miss Demi?” domandò Eliza.
“Grazie” risposero tutti e la abbracciarono a uno a uno.
“Prego, bambini, è stato un piacere.”
Vederli felici la commosse oltre ogni dire, avrebbe fatto qualsiasi cosa affinché un sorriso spuntasse sui loro volti.
“Che ne dite se andiamo fuori a giocare?” propose poco dopo la donna. “Gli altri bambini sono già usciti.”
Accettando il suggerimento di Eliza, i bimbi si misero in fila per due e si diressero in giardino. Lì, alcune volontarie passeggiavano tenendo tra le mani le lanterne con i neonati.
“Chissà perché immaginavo non potessero uscire” sussurrò Demi.
“È importante che prendano un po’ d’aria ogni giorno” spiegò l’altra.
Delle donne camminavano con le carrozzine per portare a spasso i bambini di pochi mesi e quelli un po’ più grandicelli erano o sul passeggino o, se sapevano camminare, lo facevano con qualcuno sempre accanto e ogni tanto si chinavano a toccare l’erba o la terra.
“Ayanna, non si fa” disse un volontario alla pixie, mentre Demi si avvicinava.
Era il primo uomo che vedeva lì.
“Posso aiutare?” domandò con gentilezza.
L’altro le sorrise.
“Grazie. Sto seguendo anche Harold e lei non fa che disobbedirmi. Potresti portarla a lavarsi le manine? Non vorrei che le mettesse in bocca e si prendesse qualcosa.”
“Nessun problema. Ciao Harold” trillò Demetria indicando il piccolo nel passeggino, che si guardava intorno con curiosità. Prese la bambina in braccio e sparì all’interno. Trovare un bagno non fu difficile, ma Ayanna si lamentava e scalciava. “So che vuoi uscire. Ci laveremo e poi torneremo a giocare, va bene?”
Una volta fuori, Demi si offrì di restare un po’ con la piccola e prese una pallina con la quale giocò con lei. Sedute per terra, sul prato, se la lanciavano facendola rotolare.
“Vuoi bere un po’ di tè?” chiedeva intanto Kady ad Andrew che, a poca distanza dalla fidanzata, le sorrideva.
“Certo.”
La bambina gli passò una tazzina e un cucchiaino. Andrew mescolò lo zucchero immaginario e bevve.
“Mmm, è buonissimo, grazie piccola!”
“Prego.”
Demi, che aveva osservato la scena, sorrise.
“Kady, vieni a giocare?”
Edwin la prese per mano e insieme scapparono da Misty e un’altra bambina. Era un gioco simile ad acchiapparella, che Andrew e Demetria avevano fatto tante volte da piccoli sia tra loro che a scuola, ma mentre fuggivano i bambini lanciavano incantesimi. Eliza spiegò che non avevano formule, si trattava infatti di fasci di luce, come potevano vedere, del colore del loro elemento.
“Che figata!” sussurrò Andrew all’orecchio della sua ragazza. “Vorrei saperlo fare anch’io.”
I fidanzati ed Eliza trascorsero le ore seguenti a rincorrere i bambini, giocare con loro a palla, saltare la corda con i più grandi e coccolare i piccoli. Guardarono Kady che si divertiva a fare su e giù per lo scivolo e spinsero Misty ed Edwin che erano seduti sull’altalena. Anche alcuni bimbi più piccoli vennero messi su quelle apposta per loro.
“Miss Demi, Mister Andrew, ci fate giocare a qualcosa?” chiesero a un certo punto Misty e Kady tenendosi per mano.
“E a cosa? Avete qualche idea?” domandò l’uomo, ma loro negarono.
I fidanzati ci pensarono un po’, finché si scambiarono uno sguardo d’intesa e Demi prese la parola.
“Volete sapere come fa la canzone della farfalla e poi divertirvi con me?”
“Sì, sì, sì!” trillarono.
Demi e il fidanzato si misero l’uno accanto all’altra e cantarono ancora insieme.
I'm a little butterfly
Spread my colorful wings
Even though I'm small and frail
I can do almost anything
[…]
Mentre cantavano quella brevissima canzone, i due aprivano le braccia facendo finta di volare come una farfalla e le bambine li imitavano.
“Sapete cos’è la farfalla prima di diventarlo?” chiese alla fine Andrew.
“Un bruco” rispose sicura Misty. “Ma non credo che è carino. La farfalla sarà più bella.”
“Sono d’accordo con te.” Demi ridacchiò. “E voi sareste due farfalle coloratissime.”
La fine della mattinata arrivò in un battibaleno, più in fretta di quanto l’avvocato e la cantante si sarebbero aspettati. Mentre riaccompagnavano dentro i bambini, furono colti da un improvviso malessere. Il battito del loro cuore rallentò e il respiro si fece pesante, qualche lacrima sfuggì al loro controllo e un senso di nausea invadeva loro lo stomaco, per salire in gola e fino alla bocca. Che stava succedendo? Non era detto che quello fosse il loro ultimo giorno all’orfanotrofio, magari il successivo sarebbero tornati, eppure si sentivano come se dovessero dare ai bambini una sorta di addio, o meglio un arrivederci, sperando che fosse davvero tale. L’avevano in un certo senso fatto con alcuni di loro, ma era stato più un saluto che altro e non avevano provato quella sensazione.
“Miss Demi, Mister Andrew, state piangendo?” chiese Kady.
Tutti i piccoli, di ogni età, erano ancora in corridoio con i volontari, ma alla domanda della bimba si zittirono all’istante, anche chi era troppo piccolo per comprendere.
Demi si schiarì più volte la voce, ma non riuscì a proferire parola. Ci provò, ma qualcosa la bloccava, una corda invisibile pareva stringerle la gola e il petto, così fu Andrew a farlo per primo rivolgendosi a tutti.
“Un po’, tesori, ma non è niente di grave. Siamo felici di stare qui con voi, solo che non sappiamo quanto ancora potremo rimanere a Eltaria.”
“Forse domani torneremo, ma potrebbe anche non capitare. E quindi, per sicurezza, preferiamo salutarvi adesso.”
Non volevano andare via senza farlo, o se ne sarebbero pentiti per il resto della vita.
“Già. Sappiamo che alcuni di voi non capiranno e che altri, invece, si rattristeranno, ma per noi questi giorni con voi sono stati bellissimi.”
Andrew tremò e si asciugò una lacrima, lasciando la parola a Demetria.
“Pieni di giochi, gioia, risate e qualche piccolo momento no. Vi porteremo sempre, e ripeto sempre nei nostri cuori, non vi dimenticheremo mai perché sarebbe impossibile. Ognuno di voi ci ha dato amore e trasmesso gioia. Non scordateci! E spero che anche chi è troppo piccolo per capire non lo faccia, che gli resti qualcosa di noi in qualche modo.”
Misty, Edwin, Lydia, Ayanna, Harold, Maisy, Lilith, Seth, Thior e molti altri iniziarono a singhiozzare. Anche se non tutti avevano compreso, perfino i più piccoli si erano resi conto che qualcosa non andava, che l’atmosfera non era più serena come poco prima. Gli occhi di Eliza e degli altri volontari si fecero lucidi, ma furono i suoi a colpire i fidanzati, perché stava piangendo. Nessuno aveva ancora pensato a quanto tempo mancasse alla loro partenza, se così si poteva definire, e farlo era troppo difficile, anzi, insopportabile per tutti e tre. Nel riflettere su ciò Eliza si tirò i capelli, staccandone alcune ciocche. Andrew e Demi, con uno sforzo immane, ricacciarono indietro le lacrime deglutendo più volte con la bocca impastata e abbracciarono ognuno dei bambini, perfino le lanterne con i neonati ancora in forma di piccole luci.
“Avrai una vita bellissima.”
“Coraggio.”
“Ti voglio bene!”
“Sei di una dolcezza infinita.”
“Non ti dimenticherò mai, te lo prometto.”
Queste erano alcune delle frasi che l’uno e l’altra ripetevano ma che, anche se simili, venivano dal più profondo dei loro cuori. Andrew aveva frequentato l’orfanotrofio meno di Demi, ma era dura anche per lui. Non sapere se li avrebbero più rivisti, sentiti ridere, aiutati in piccoli momenti di crisi, se avrebbero potuto o meno toccare le loro manine, accarezzare e baciare loro le guance morbide come velluto, prenderli in braccio e godersi quel profumo dolce che hanno solo i bambini era straziante. Credevano di starli un po’ abbandonando e non potevano sopportarlo.
“Bambini,” disse Julie, “altre volte è capitato che dei volontari andassero via. E noi cos’abbiamo sempre detto?”
“Che è un arrivederci e non un addio” dissero in coro.
Alcuni parlarono fra le lacrime.
“Esatto; è così anche in questo caso, ve lo assicuro.”
Kady si gettò di nuovo fra le braccia di Demi, che però ora la trovò più tranquilla.
“Non voglio che vai via, ma so che non puoi restare per sempre” mormorò la piccola. “E anch’io tra un po’ andrò nella mia nuova casa. Ma mi mancherai tantissimo. Ti voglio bene, sai?”
Demetria la riempì di baci e carezze sul viso e i capelli.
“Anch’io, piccola, anch’io. Andrà tutto bene, Kady, capito? Potrebbero esserci delle difficoltà, ma tu sarai forte.”
“Lo so.”
Si dissero arrivederci così, con quelle parole, un bacio, poche lacrime e altre coccole. Sciolsero con lentezza l’abbraccio sperando, almeno in parte, che non sarebbe mai arrivato un momento simile.
“Allora… ci vediamo” disse Jacqueline ai due fidanzati.
“Sì, presto spero” mormorò Andrew e tutti si auguravano che sarebbe stato il giorno dopo.
I due si trattennero fino a quando si ritrovarono fuori dal cancello dell’orfanotrofio. Nel momento in cui si chiuse con un colpo secco, i due scoppiarono in un pianto convulso che li costrinse a fermarsi e a sedersi per terra tanto tremavano. Le braccia compivano movimenti che parevano sfuggire al loro controllo.
“N-non pensavo che sarebbe stata così…” balbettò Demetria tra i singhiozzi.
“Così dura” concluse Andrew tenendosi la testa fra le mani a causa di un principio di emicrania.
Alla ragazza doleva lo stomaco, si piegò in avanti perché le veniva da vomitare, ma non uscì niente.
“Mi dispiace, ragazzi.” Eliza si schiarì la voce. “Ma forse resterete qui a lungo. Credo comunque che abbiate fatto bene a salutarli, non sapendo quanto tempo rimarrete qui.”
Demi restò in in piedi, poi si sedette ma con la schiena piegata, si sdraiò, ma era come se qualcuno le desse continue stilettate in quel punto, che le penetravano nella carne. Seguirono interminabili minuti di silenzio nei quali ognuno si immerse nei propri pensieri, dubbi e dolori per quell’arrivederci che aveva spezzato loro il cuore. La loro bocca era impastata da lacrime salate. A un certo punto si alzarono piano, si guardarono indietro per qualche secondo come per dire addio anche all’edificio e non soltanto ai piccoli e imprimersi ogni dettaglio nella memoria e ricominciarono a camminare a testa china.
 
 
 
CREDITS:
Demi Lovato, This Is Me
Demi Lovato, Warrior
Austin&Ally, Butterfly Song

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Capitolo 31
*** Scoprire il mondo come se stessi ***


CAPITOLO 31.

 

SCOPRIRE IL MONDO COME SE STESSI

 
Tutti erano usciti da poco. Sky si immerse nella lettura di un libro di magia. Avrebbe ripreso il romanzo iniziato il giorno prima in un altro momento, adesso voleva cercare di imparare qualche incantesimo o scoprire di più sulla storia del suo mondo. Il primo capitolo era dedicato proprio a questo e, guardando le illustrazioni e leggendo, tornò con la mente indietro di secoli e secoli quando ancora le fate, allora sfere di luce, non erano accettate dagli umani.
Per fortuna non sono nata allora, o la cosa mi avrebbe fatta imbestialire.
Anche se, rifletté, adirarsi non sarebbe servito quasi a nulla, gli umani non l’avrebbero di certo ascoltata. Per fortuna quei periodi bui erano finiti e adesso tutte le creature vivevano in pace. Sospirò di sollievo al solo pensiero e accarezzò la fotografia di una piccola sfera luminosa, di sette o otto anni da quanto c’era scritto, che veniva cacciata con un bastone, per fortuna solo puntato contro e non a suon di botte, da un bambino umano della stessa età o pressappoco. La piccola, nella foto seguente, pareva allontanarsi piano, come se fosse stata abituata a quel genere di trattamento e non ne avesse più paura, altrimenti sarebbe scappata. Sky sarebbe rimasta toccata se si fosse trattato di una fata più grande, giovane o adulta, ma lo fu ancora di più vedendo che quella che subiva era una bimba.
Avrei potuto essere io.
Il libro diceva che le fate e i folletti venivano allontanati dagli umani anche con la violenza. Non si trattava solo di un volume di storia per bambini, come quelli della Penderghast, nei quali non si entrava nel dettaglio per non spaventarli, ma di uno per adulti.
Alle fate o ai folletti più coraggiosi, che si avventuravano nei villaggi umani per cercare di avere un confronto con essi, di parlare in modo amichevole per trovare un accordo e spiegarsi, questi ultimi riservavano un trattamento orribile. Si ricorda per esempio Sabra, una fata del vento vissuta circa nove secoli fa, che fu picchiata da un gruppo di uomini umani. Era ancora una sfera luminosa, come tutte le sue simili a quel tempo, e muovendo le mani per assalirla gli uomini non sentirono niente, ma lei si agitava ogni volta e soffriva. Le diedero così tanti schiaffi che non fu più in grado di contarli. In quel momento la sua magia non poté nulla contro di loro, perché la fata era terrorizzata e non fu in grado di usarla. Le sue compagne la trovarono nel bosco, psicologicamente devastata. Alcuni scritti tratti dal suo diario personale fanno capire che non superò mai del tutto il trauma.
Sky tremò e il libro le cadde di mano con un tonfo sordo. Dianna aveva subito le stesse cose, Demi l’aveva raccontato, e anche di peggio. Allora fatti del genere erano accaduti anche nel loro mondo, in passato. Ma perché adesso nessuno ne parlava? Sì, aveva sentito dire qualcosa su di lei, le fate anziane presso le quali aveva studiato l’avevano dipinta come una persona molto importante, ma in seguito erano passati a un altro argomento e Sabra era finita nel dimenticatoio. Era sicura che molte fate non si rammentassero più di lei e anche Sky, prima di leggere la sua storia, non se ne ricordava. Non era giusto: Sabra non avrebbe dovuto essere scordata, così come tanti altri. Per fortuna in quello e di sicuro in altri libri di magia la si menzionava ancora. Era sempre sbagliato dimenticare il passato o mettere da parte certi fatti come se non fossero mai accaduti, perché per quanto brutti formavano comunque parte della storia di un luogo. Ne avrebbe parlato anche con Kaleia mostrandole il libro. Magari non quel giorno, però. Il capitolo in questione trattava una tematica seria che come tale andava affrontata, ma c’erano le bambine e ci sarebbe stata la festa, non voleva rovinare l’umore a nessuno. I giorni precedenti erano già stati difficili per Andrew e Demi, meglio lasciare che si rilassassero. In ogni caso, si disse tornando al volume, Sabra aveva sfidato gli umani per dare più libertà alla sua gente.
Ma è stata picchiata e trattata male come tanti altri e nessuno dovrebbe passare una cosa simile, nemmeno per un gesto nobile e giusto come lottare per la libertà.
Ci stava ancora riflettendo quando suonò il campanello e Midnight, dal suo trespolo, gracchiò.
“Tranquillo, piccolo, è solo Noah, o almeno credo” lo rassicurò, mentre l’uccellino reclinava di nuovo la testa tornando a riposare.
A differenza del giorno prima Sky si limitò ad abbracciare il fidanzato, con poca enfasi perché lui le rivolse uno sguardo confuso.
“È successo qualcosa?” chiese con voce dolce.
“No, stavo solo leggendo questo libro e mi sono commossa. Mi ha fatta riflettere.” Glielo mostrò e gli parlò di quanto aveva appena scoperto, o meglio, ricordato. “Non sapevo fosse stata picchiata, queste cose allora non ci venivano dette.”
“Eravate piccoli, è normale.”
“Lo so, ma nessuno mi ha mai raccontato che le fate subivano un simile trattamento, solo che c’erano stati dei diverbi e alcuni problemi. Ho, anzi, tutte noi abbiamo il diritto di sapere cos’è successo davvero.”
“Eliza non ne sa molto, credo, ma non puoi fargliene una colpa. È umana e anch’io non conosco ancora benissimo il tuo mondo.”
“Già.”
“In ogni caso, non è detto che le altre fate non ne siano a conoscenza. Si trovano molte copie di questo libro all’emporio e tanti lo comprano. Quello che sto per dirti potrà sorprenderti, ma io sapevo dell’esistenza di questa ragazza. Ho un libro che parla della sua vita. In parte sarà romanzato, come capita sempre in questi casi anche perché non si sa se Sabra sia vera o si tratti di una leggenda, ma molti fatti secondo me sono plausibili. Se vuoi te lo posso regalare.”
Sky gli sorrise e lo abbracciò.
“Davvero?”
“Sì, amore mio!”
“Grazie! Leggenda o no, spero solo abbia avuto una vita felice.”
Se lo augurava anche per le altre creature dei secoli passati, ma sapeva che non in tutti i casi era stato così, purtroppo.
“Non ti anticipo niente. Ti porto tutto oggi pomeriggio. In ogni caso sono d’accordo con te, ma penso anche che il suo gesto, come quello di molte altre fate, sia stato nobile, anche perché da quel che so è stata la fata che si è spinta più in là nel villaggio umano di quanto abbia fatto per secoli qualsiasi altra.”
“Nobile sì, ma a che prezzo?” sussurrò Sky con voce rotta. “Solo da quando Demi ci ha parlato mi rendo conto del fatto che la violenza, sia fisica che psicologica, può essere devastante e che a subirla sia un maschio o una femmina non fa differenza, è comunque un trauma. E chissà, magari quegli umani avranno anche insultato Sabra.”
Noah le strinse le mani e lei respirò a fondo.
“Probabile. Purtroppo non c’è mai fine alla cattiveria. Il modo in cui ti preoccupi per una fata vissuta novecento anni fa è ammirevole. Non dopo molto il fatto raccontato nel libro, è avvenuto un cambiamento e gli umani hanno capito che stavano sbagliando, sia grazie a Sabra sia a tutte le proteste precedenti.”
Si era sviluppato pian piano e l’accettazione completa delle fate nella società era avvenuta, purtroppo, alcuni decenni dopo la morte di Sabra, ma il suo intervento era stato provvidenziale.
“Noi fate le dobbiamo tanto.”
“Sì, infatti. E mi spiace che per molto tempo la mia specie sia stata così ostile nei vostri confronti, solo perché pensava che avreste potuto farci del male e non vi abbia nemmeno ascoltate. Non ve lo meritavate.”
“Non è colpa tua.” La sua voce si era addolcita. “Non ti darei mai delle colpe che non hai, gli unici da criticare sono gli umani vissuti secoli fa.”
“L’importante è che alla fine abbiamo imparato dai nostri errori, ma è brutto che abbiate dovuto soffrire tanto.”
Sky sospirò.
“Chi lo sa, magari anche noi non ci comportavamo proprio bene con voi, la colpa non può stare solo da una parte. Forse la storia non lo dice, anche se non capisco per quale motivo.”
“Può essere, ma non lo sapremo mai. Ora ti andrebbe una passeggiata nel bosco per tirarti un po’ su il morale?”
La ragazza accettò.
Il sole splendeva e gli uccellini cinguettavano allegri, nel villaggio i pochi umani e le creature magiche passeggiavano e chiacchieravano. Ne riconobbero molti, salutarono qualche mamma con i propri bambini e le chiesero come stesse il marito, che in quel momento era al lavoro in città.
“Ora ti spiego come si fa questo incantesimo” disse un protettore, passando accanto a loro con la propria fata al fianco.
Una volta usciti la situazione fu più tranquilla, con meno gente in giro e più silenzio.
“Penso di essere cambiato in questi giorni grazie a loro” iniziò Noah a un certo punto. “Al tentato suicidio e all’autolesionismo non avevo mai pensato, e anche se ho avuto quello scatto Andrew mi ha fatto vedere le cose sotto un’altra prospettiva, cercando di aiutarmi a comprendere il suo dolore. Mi vergogno di aver reagito in quella maniera.”
Più parlava, più il suo tono si faceva grave e Sky lesse nelle ultime parole un profondo senso di colpa.
“Sono cose particolari per noi, amore mio. Non potevi sapere come avresti reagito all’inizio. Penso sia normale rimanere turbati da fatti del genere, soprattutto se non ci si ha mai avuto niente a che fare.”
“Già. Forse non devo sentirmi in colpa.”
“So che è difficile ma no, non dovresti. Lui ti ha perdonato e sarebbe giusto che lo facessi anche tu con te stesso. Non meriti di stare così male.”
Il ragazzo sospirò.
“Non è facile. Ma le tue parole sono sagge. Ci rifletterò.”
“Anch’io ho imparato un sacco e sono cresciuta grazie ai nostri ospiti. Oltre a tutte le cose che ci hanno raccontato, sono rimasta più colpita dalle bambine di quanto mi sarei mai aspettata. Adoro Lucy e Lune e ti giuro, se proverai anche solo a dirlo loro ti strapperò i capelli” lo minacciò, ridendo e puntandogli contro un dito.
“Uuuh, che paura!” scherzò Noah, lasciandole la mano.
Si allontanò da lei per gioco e la ragazza lo inseguì, ma poco dopo si strinsero di nuovo.
“Sul serio. Hope è stata…” Una silenziosa lacrima le corse giù per la guancia e Noah gliela asciugò con il pollice. “Hope è meravigliosa. All’inizio credevo di non sopportarla, che non mi fregasse niente di lei, ma ci siamo avvicinate. E Mackenzie si è rivolta a me per parlarmi di alcune cose e superare una sua paura anche se non mi conosceva quasi per nulla, cosa che mi ha colpita. Non è da tutti sfogare i propri timori con qualcuno che non si conosce. Forse non sono affatto male con i bambini.”
Noah sorrise.
“Questo significa che un giorno potremmo averne uno?”
Noah voleva dei figli, i due ne avevano parlato dopo alcuni mesi dall’inizio della loro relazione riflettendo sul futuro, e benché lei avesse detto spesso di non sopportare un granché i bimbi, lui era consapevole del fatto che anche quella fosse, in un certo senso, una corazza. Sky desiderava un figlio nel profondo del cuore anche se non si sentiva pronta, ma non aveva un buon istinto materno. Magari era solo nascosto come diceva Demi e in quei giorni era un po’ venuto alla luce. In più, e di questo aveva parlato solo al fidanzato, non riuscendo a capire se i suoi l’avessero abbandonata assieme a Kaleia o cosa fosse successo, temeva che non sarebbe stata una buona madre. E se avesse commesso i loro stessi errori? Non che pensasse di abbandonare i suoi bambini, ma se li avesse fatti soffrire, anche in altri modi? E se con il suo carattere a volte un po’ duro li avesse feriti pur non volendolo? E se non fosse riuscita a far sentire loro il suo amore nonostante li adorasse? C’erano troppi “e se” per poter scegliere ora, troppe insicurezze e paure. Erano proprio questi timori a bloccarla. Ma grazie alle due sorelline umane, forse, qualcosa in lei si stava smuovendo, pianissimo, e se era così la ragazza immaginava che ci sarebbe voluto tempo perché quelle brutte sensazioni la lasciassero più libera di pensare e decidere.
“Sì, Noah. Ma non adesso.”
Sky sorrise appena.
Se non avessero avuto idee simili a riguardo un giorno, tra loro, qualcosa si sarebbe rotto fino a spezzarsi del tutto, ne erano consapevoli.
“Questo per te è un argomento complicato, mi hai già parlato di ciò che temi se dovessi diventare madre. Ma anche se i tuoi avessero sbagliato, tu non lo farai mai così tanto.”
“E come… c-come lo sai?”
La ragazza gli lasciò la mano e strinse i pugni, cercando di non tremare ma senza successo. Chiuse gli occhi per non lasciar uscire le lacrime e deglutì a vuoto.
“Lo so. Lo so e basta” mormorò lui baciandole i capelli. “Ci penseremo quando saremo pronti, d’accordo? Lo vogliamo entrambi ma non adesso, dobbiamo ancora fare parecchia strada. Affronteremo la vita con coraggio come abbiamo sempre fatto, guarderemo in faccia le nostre paure e continueremo a lottare. Tu lo stai già facendo e da tanto, ne sono più che certo perché lo vedo ogni giorno.”
“Non voglio che quel che provo mi impedisca di fare ciò che desidero nel profondo.”
“Lo so. Hai mai pensato di parlarne con una psicologa? Ce ne sono alcune, qui a Eltaria.”
Sky rifletté: no, non le era venuto in mente di rivolgersi a una figura professionale per far fronte al suo passato e i propri problemi.
“Ho sempre pensato che sarei riuscita ad affrontarli da sola, ma forse è il caso di farci un pensierino.” E non solo per ciò che riguardava i figli, ma per stare meglio con se stessa. Demi ci era andata, Andrew e Mackenzie lo facevano ancora e sembravano beneficiarne. Anche se a volte le risultava ancora difficile farlo, negli anni aveva capito che non c’era nulla di male nel chiedere aiuto. “Ci penserò” concluse.
Disse a Noah che forse sarebbe andata a parlarle una volta per capire come si sarebbe trovata.
“Non voglio obbligarti, è solo un suggerimento. Forse potresti averne bisogno, ma non significa che tu non sia forte.”
“No, lo so, capisco il tuo punto di vista.”
“Per quanto riguarda il resto, ne parleremo meglio in futuro e, ripeto, affronteremo tutto insieme.”
Lei trasse un respiro profondo.
“Okay.”
Si augurarono solo di non aspettare troppo tempo e di capire quando sarebbe arrivato il momento giusto.
Procedettero in silenzio respirando il forte e inebriante aroma di resina dei pini, che si godettero chiudendo per un secondo gli occhi.
Una volta tornati a casa, si versarono un bicchiere di tè freddo alla pesca e lo bevvero sul divano. Mangiarono un’altra fetta di dolce. Fecero zapping per un po’, ma a quell’ora non c’era niente che li interessasse, perlopiù programmi di cucina, cartoni e qualche serie tv.
“Come fai a essere sempre così bella?”
Noah le parlò solleticandole l’orecchio e Sky fu percorsa da brividi lungo tutto il corpo.
“Non credo di esserlo un granché, ma ti ringrazio.”
“Per me lo sei. Hai dei capelli chiarissimi e particolari e due occhi azzurri come il cielo.” Le accarezzò con le punte delle dita la testa e il viso. “Ma soprattutto sei bella qui dentro.” Le poggiò una mano sul cuore. “So che te l’ho detto tante volte, però è la verità.”
“Anche tu.”
Si catturarono le labbra a vicenda e approfondirono il bacio, piano, per assaporarne ogni singolo momento. La fata gli accarezzò con delicatezza la schiena e Noah il collo e le passò una mano sotto il mento. Lei si lasciò andare a un lungo gemito di piacere e si avvinghiò ancor di più al fidanzato.
Midnight venne giù dal suo trespolo e prese a gracchiare, mentre Ranger volò silenzioso passando dalla finestra aperta. I due uccelli si guardarono per un momento. Il primo iniziò a cantare come impazzito e il secondo a stridere, coprendo il verso di Midnight finché questo non si fece più intenso.
“Ma che cavolo avete?” sbottò Sky staccandosi dal suo ragazzo.
I due scesero in picchiata poggiandosi ognuno sulle ginocchia del proprio padrone, Ranger si distese a pancia in su in modo da non ferire Noah con gli artigli.
“Ah, non eravate d’accordo che io e la mia fidanzata ci facessimo le coccole, eh?”
L’umano grattò la testa a tutti e due mentre Sky scoppiava in una sonora risata.
“Che birichini” aggiunse. “E se venissimo noi a rompervi le scatole mentre tentate di accoppiarvi o nidificare con la vostra compagna?”
Come se avessero capito, i due poggiarono il becco su una mano dei loro padroni fingendo di beccarli, ma non si mossero per non fare loro male.
In quel momento Lilia, svegliatasi per il baccano, saltò fuori dalla sua cuccia e corse verso di loro reclamando attenzioni. Ranger svolazzò sul davanzale per dare la possibilità alla cagnolina di salire sulle gambe di Noah e lei lo fece, ergendosi sulle zampe anteriori e leccandogli la faccia.
“Anch’io ti voglio bene, non servono tutti questi bacini, grazie” mormorò mentre cercava di farla distendere. Si pulì la faccia con un fazzoletto mentre Sky non faceva che ridere. “Se succederà a te ti prenderò in giro io, stanne certa” la canzonò il ragazzo e mormorò: “Farmi leccare è bello e schifoso al contempo, com’è possibile?”
“Scusa, è che eravate troppo divertenti!”
Agni entrò dalla finestra dopo essere andato a caccia, e si posò sulla gamba libera di Sky accanto a Midnight che ancora riposava. I due animaletti si scrutarono, ma il merlo non ebbe paura.
“Mi raccomando, fai il bravo e non sputare” disse la fata, decisa, riferendosi al fatto che i Pyrados riuscivano a buttar fuori piccole palle di fuoco.
Come se avesse compreso, Agni abbassò la testina e si lasciò fare le coccole.
“Come mai non sono con Mackenzie e Hope?”
“Le bambine sono in gita scolastica al Giardino e hanno pensato di lasciarli a casa in modo da godersela meglio senza dover badare a loro. Saggia decisione, a parer mio, anche se devo badare a quattro animali in questo momento e non a tre.”
Parlò con il sorriso sul volto e voce calma.
“Ci sono anch’io e ce la stiamo cavando bene. Grazie al cielo vanno tutti d’accordo, pur essendo di razze diverse.”
“Già, è una fortuna.”
Sky non sapeva se i falchi mangiassero i merli, ma era sicura che si nutrissero di scoiattoli, ratti, pipistrelli, piccole galline, pulcini e altri animali. Ranger, però, non si era mai avvicinato né a Bucky né a Midnight, non aveva mai fatto del male a nessuno degli animali della famiglia. Forse qualche istinto particolare gli aveva suggerito che non sarebbe stata una buona idea.
“Beh,” concluse Noah, “stamattina dovremo fare i babysitter di animali, se così si può dire e anche se non sono tutti cuccioli.”
“Voglio qualche rublo di luna per questo lavoro” ridacchiò la fidanzata.
 
 
 
Mackenzie non aveva domandato a nessuno cosa fosse il Giardino, perché non l’aveva ritenuto necessario. Si aspettava un semplice giardino ben curato, con fiori e piante, un tavolo su cui mangiare d’estate e un dondolo, come quello che aveva a casa. O avrebbe anche potuto trattarsi di un parco, un po’ particolare vista la presenza di animali e non di giostrine. Ma durante il tragitto Harmony le spiegò che il nome di questo luogo si scriveva con la lettera maiuscola, e già allora la bambina si domandò cos’avesse di speciale quel giardino per essere addirittura un nome proprio come se si trattasse di un villaggio, un paese o una città.
Mentre gli altri bambini continuavano a chiacchierare, lei fu colpita dallo scorrere dell’acqua in lontananza. Si trattava forse di una cascata? Il terreno lì a Eltaria non era pianeggiante, c’erano salite e discese essendo quello un bosco e vedeva le montagne più in là. Ma non sapeva se ci potesse essere una cascata in collina e, giudicò dal rumore mentre si avvicinavano, non era poi così forte come aveva creduto all’inizio. No, infatti, era solo un fiume, grazie al cielo abbondante d’acqua.
“Eccoci al Giardino.”
È questo, Mister Baxter? gli chiese Mackenzie. È sicuro?
Domande stupide, ma non poteva crederci. Quello era soltanto un grande prato del quale non riusciva a vedere la fine, con un lungo fiume e un ponte di legno e corda sopra di esso.
Gli altri bambini, tranne Mahel e Harmony, scoppiarono a ridere e Mackenzie abbassò lo sguardo.
Perché mi prendono in giro? Ho sbagliato, però io non vivo in questo regno, lo conosco ancora poco. Come mai non lo capiscono? pensò.
“¡Niños!” li richiamò Carlos. “Mackenzie non conosce Eltaria e non è mai stata qui, non ridete, por favor. Dobbiamo essere gentili e spiegarle ciò che ancora non sa, non prenderla in giro per questo, perché è una cosa sbagliata.”
“Scusa, Mac” risposero in coro.
Lei sorrise e ringraziò l’insegnante.
L’offesa le aveva fatto un po’ male, ma si disse che, come per lei era ancora strano trovarsi lì e scoprire tante cose nuove, per i suoi compagni doveva risultare particolare che lei non sapesse ciò che per loro era ovvio, quindi in un certo senso erano pari.
Voglio godermi questa gita e basta.
Il pensiero la aiutò a dimenticare in fretta l’accaduto per proseguire la lenta camminata con un sorriso più convinto.
“Allora,” cominciò Mister Baxter, “adesso visiteremo il Giardino. Se avete domande alzate la mano e chiedete come in classe, e non parlate sopra gli altri. Vi consiglio anche di mettervi il cappellino: presto farà più caldo ed è meglio che ci proteggiamo tutti dal sole. Ricordate di prendere appunti, ma anche di divertirvi, questa è più una visita rilassante che una lezione. Tutto chiaro?”
“Chiarissimo, Mister Baxter” replicarono i piccoli e Mackenzie annuì.
“Ho una domanda.”
“Di già? Dimmi pure, Evan.”
“Pensa che Miss Spellman ci farà scrivere qualcosa riguardo questa gita?”
Non avevano ancora iniziato a fare i temi, erano troppo piccoli, spiegò Mahel a Mac, ma spesso l’insegnante dettava loro qualcosa o dava ai bimbi un argomento semplice sul quale scrivere alcune frasi.
Il maestro rise e, poco dopo, Carlos e Kaleia si unirono a lui.
“Non preoccuparti, le ho parlato e ha detto che ne discuterete soltanto.”
“Ah, bene!”
“Dobbiamo ancora cominciare la gita e già ti preoccupi di questo?” chiese un altro bambino a Evan, che rispose che per lui saperlo in anticipo era importante. Non gli piaceva scrivere quelle frasi che definì stupide ed era meglio prepararsi psicologicamente in anticipo.
“Prima vedremo le piante e faremo qualche approfondimento, mentre i bambini dell’asilo le guarderanno soltanto, più tardi” riprese Mister Ramirez.
“Perché?”
Era stata una bambina a parlare, con i capelli simili a quelli di Sky.
L’uomo sospirò.
Mackenzie si chiese se sarebbero mai riusciti a terminare l’introduzione e a cominciare il giro senza che qualcuno facesse una domanda ogni due secondi?
“Perché, Jessica, sono troppo piccoli e si annoierebbero. Quando impareremo qualcosa sugli animali ci uniremo a loro.”
Camminarono nell’immenso prato e, mentre i suoi compagni parlavano, Mackenzie si godeva lo scricchiolio dell’erba sotto i piedi. Non era né alta né bassa, tagliata in modo perfetto, e doveva essere stata sistemata da poco perché nell’aria si respirava un buonissimo odore, quello che lei percepiva anche a casa quando la mamma la tagliava in giardino. Non riusciva a spiegarsi il motivo, ma se qualcuno le avesse chiesto di dire a cosa lo associava, avrebbe risposto senza esitazione che era un misto di terra e foglie a volte bagnate, tutti odori che si mescolavano e si fondevano in uno solo, alcuni forti, altri più deboli. E avrebbe anche scritto:
Sa di libertà.
Ogni volta che lo sentiva dalla finestra le veniva voglia di uscire e mettersi a saltare, oppure fare una corsa con le braccia abbandonate lungo i fianchi, lasciando che il vento le muovesse a suo piacimento e di aprire la bocca per provare a urlare, rendersi conto per la milionesima volta che non poteva, ma non starci male e capire che in quell’istante di gioia andava bene anche così.
La voce di Kaleia la riportò al presente: gli insegnanti dovevano averle dato la parola affinché spiegasse qualcosa.
“Qualcuno sa come si chiamano questi frutti?” chiese indicandoli. Erano rossi, di media grandezza e appesi a una bassa pianta vicino a dei cespugli. Mackenzie, che li aveva già visti, alzò la mano. “Sì?”
Non so il nome, ma li mangiano i Pyrados.
“Esatto. Si chiamano fiamirtilli, assomigliano a dei peperoncini come potete vedere e sono piccantissimi, anche se ai draghi non sembra importare e li mangiano come fossero caramelle.”
“E dove crescono?” domandò Mahel.
“Solo accanto ai cespugli, su questo tipo di pianta e ci sono tutto l’anno, altrimenti i Pyrados non riuscirebbero a nutrirsi. Per crescere hanno bisogno di un terreno fertile. Se è secco fanno fatica, vengono fuori lo stesso, ma la loro qualità sarà più bassa e il sapore peggiore.”
Tutti i bambini la ascoltavano. Molti prendevano appunti in velocità, senza mai staccare la penna dal foglio, altri scrivevano solo alcune parole, ma non ce n’era uno che fosse rimasto con le mani in mano.
“Guardate, una margherita!” esclamò Harmony.
Era più grande di quel fiore, ma ci somigliava in tutto e per tutto, quindi poteva essere.
“No, no lo es” rispose Mister Ramirez.
Poco più avanti c’erano altri fiori di quel genere, riempivano una porzione abbondante di prato.
“So io cosa sono.” Mahel alzò la mano, sicura di sé, e ottenuto il permesso di parlare proseguì: “Fiordoro, li abbiamo visti ieri a lezione.”
“Esatto” confermò il maestro di pozioni. “Come vedete è facile confonderlo, non siete i primi né sarete gli ultimi a farlo. Avvicinatevi.”
I bambini obbedirono e, uno alla volta, accovacciandosi accanto a quei meravigliosi fiori, notarono che i petali sembravano proprio d’oro e se non fosse stato per la consistenza avrebbero pensato che fossero fatti di quel materiale, nonostante l’insegnante avesse già detto loro che non era così. Ad alcuni non interessarono un granché, ad altri come Mackenzie e le due compagne piacquero ancor più del giorno precedente. Le tre bambine avrebbero adorato raccoglierne uno, ma si dissero che sarebbe appassito e che non era giusto toglierlo dalla terra nella quale stava tanto bene. Mac si ricordò che, non molto tempo prima, aveva visto a scuola a Los Angeles una bambina che faceva una coroncina con le margherite. Aveva tolto la testa, se così si poteva chiamare, a ognuna e l’aveva infilata nel gambo di una margherita che aveva lasciato intatta, fino a chiudere la corona. Per quanto alla fine fosse diventata bella, a Mac era venuto da piangere. Il colore dei petali sarebbe sbiadito pian piano, e tutti quei fiori erano ormai morti. No, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Era meglio vedere ogni fiore nel luogo in cui si trovava.
“A che pensi?” le chiese Kaleia avvicinandosi. “Ti senti bene?”
Sì, mi dicevo solo che sono bellissimi. “È vero, li adoro anch’io.”
Ma la bimba fu sincera e le parlò di tutto ciò su cui stava riflettendo.
“Il tuo è un ragionamento che faremmo io e le altre fate della natura. Sei sensibile anche se così piccola, sono fiera di te.”
Si sorrisero con calore e si strinsero la mano.
Grazie.
Fu un complimento che la aiutò a sentirsi una bambina più brava di quanto già pensava di essere.
“Coraggio, andiamo avanti!” li incitò Mister Baxter. “C’è ancora molto da vedere.”
Si avvicinarono al fiume, pieno di centinaia di piante acquatiche con fiori bianchi e grandi.
“A differenza delle ninfee, questa pianta acquatica ha radici che arrivano in profondità per resistere alla corrente del fiume mentre le prime crescono solo in acqua stagnante e, come loro, si ancorano al fondale. Le piante che state vedendo si chiamano germogli di fata.”
“Che bel nome!” esclamò qualcuno.
“Poetico” disse Harmony.
“Forse non riuscirete a vederlo bene,” proseguì Carlos, “ma dentro i loro petali c’è una luce debolissima.”
Si chinarono sul ponte facendo attenzione a non scivolare, e osservarono. Mackenzie la vide appena così come Harmony, Mahel invece no.
“Si tratta di polline, è questo che rende il fiore luminoso” continuò Kaleia. “Il germoglio di fata cresce solo ed esclusivamente nei fiumi e la cosa interessante è che secoli fa c’era la credenza secondo cui fossero questi fiori a ospitare folletti e fatine neonati, non le lanterne, e che la loro luce fosse appunto una di queste creature. Lo si pensava anche a causa della loro forma: quando aprono i petali, i loro fiori a volte vengono per così dire assaliti dagli Slimius, che ci saltano sopra e li rovinano. Si credeva appunto che fossero perfetti come culla per i bambini. Ma si è scoperto subito che la luce non era prodotta da loro.”
“Oh!”
“Ringraziamo la fata della natura Kaleia per questo dettaglio così interessante, che personalmente non ricordavo” ammise Mister Baxter.
“Me l’hanno raccontato le anziane” disse la fata.
“Y ahora,” proseguì Carlos, “raggiungiamo gli altri e andiamo a conoscere gli animali.”
 
 
 
Quando vide la sorella, Hope si staccò dalla fila più o meno ordinata dei suoi compagni e corse a stringerla, poi allargò le braccia.
“Mac Mac, tanti animali!”
La più grande le diede un bacio.
“Ciao Hope, io sono Mahel!” si presentò la bambina e allungò una mano che la più piccola strinse dopo un attimo di esitazione.
“Io mi chiamo Harmony, siamo compagne di Mackenzie. Ci siamo già viste, ma non presentate” spiegò l’altra.
La bimba sorrise a entrambe.
“Hope” disse.
Non aveva fatto amicizia all’asilo, in parte perché era ancora troppo piccina per capire cosa volesse dire avere un amico che non fosse un giocattolo, e in parte in quanto si divertiva benissimo anche da sola.
Intanto, Christopher e Kaleia si erano riuniti e abbracciati, non andando oltre vista la presenza di tutti quei bambini.
“Per il momento il Giardino piace a Mackenzie” considerò la ragazza.
“Sì, e Hope lo apprezza. Ne sono felice, è un posto che anche noi adoriamo, perciò il fatto che loro siano qui è importantissimo per me, perché condivido con quelle due bambine qualcos’altro del nostro mondo.”
“Concordo su tutto, Chris.”
Le due insegnanti dell’asilo portarono i bambini a vedere le piante, facendo toccare loro quelle a portata di mano e dicendo i loro nomi, poi tornarono.
“Ti sono piaciute?” chiese Mahel a Hope.
“Sì, tanto belle.”
Non sapeva come dirlo, ma le erano piaciute le foglie, verdi e morbide, che aveva toccato.
“Pensavamo di fare una piccola pausa” fece sapere l’insegnante più anziana. “Siamo qui da poco più di mezz’ora e può non sembrare molto, ma i bambini sono stanchi.”
Non avevano fatto altro che camminare, sentire nomi di animali e provare ad accarezzarli con scarso successo, li avevano rincorsi anche se le maestre avrebbero preferito di no, e adesso avevano bisogno di un po’ di riposo e di qualche distrazione. Carlos e Alan avrebbero voluto continuare il giro tutti insieme, stavolta, e dispiaceva loro aspettare, ma capivano che bimbi di età diverse avevano differenti esigenze che andavano rispettate. Concordarono quindi un breve momento di libertà.
I bambini si sedettero sul prato, tirarono fuori le merende dagli zaini e mangiarono con gusto e continuarono a chiacchierare. I più piccoli strappavano i fili d’erba, cosa che faceva soffrire Kaleia non tanto fisicamente quanto nell’animo e per questo, lottando contro la tristezza e la voglia di piangere, cercava di far capire loro che era sbagliato, ma data l’età non era facile.
“Potete accarezzare i fiori o le foglie, è più bello e a loro farà piacere perché sentiranno il vostro tocco. Li renderete felici, come voi quando la mamma vi prende in braccio” continuò, cercando di fare un esempio comprensibile.
Alcuni bambini, come Hope, la ascoltarono e sorrisero.
 
 
 
Sono felicissima qui, sapete?
Harmony e Mahel lessero la frase di Mackenzie.
“Speriamo che tu non te ne vada più” confessò la prima.
Purtroppo dovrò, anche se non so quando. In parte ho voglia di tornare al mio mondo: là ci sono i miei nonni, i miei animali domestici e la mia migliore amica. Ma mi aspettano anche le cose brutte.
“Cose brutte?” le fece eco Harmony. “Ce ne vuoi parlare?”
Mackenzie si alzò e si allontanò un po’ dagli altri, in modo che non sentissero i probabili commenti delle compagne.
Con i miei genitori avevo una vita felice, anche se non avevamo molti soldi, poi sono successe delle cose e io e Hope siamo state date in adozione.
Mahel avrebbe voluto sapere cos’era accaduto, ma Mackenzie scosse la testa e Harmony capì.
“Forse non se la sente di parlarne” suggerì.
Infatti, scusate. Alzò lo sguardo che, senza accorgersene, aveva puntato verso terra. Mi fido di voi e vi voglio bene, ma sono cose bruttissime e, dato che qui sono felice, non voglio rattristarmi.
“Va bene, non preoccuparti. Scusa se ho chiesto.”
Tranquilla. Comunque non è solo questo.
Raccontò che a scuola c’erano stati tre bambini, James, Brianna e Yvan, che avevano preso in giro lei ed Elizabeth per alcuni mesi, offeso Mackenzie a causa del colore della sua pelle, scritto loro bigliettini con parole cattive e non permesso loro di giocare con nessuno, né di sedersi al loro tavolo a mensa.
Harmony e Mahel rimasero senza fiato: come potevano esistere bimbi tanto cattivi? Da quando avevano iniziato la scuola, almeno a loro, non erano mai capitate cose del genere, dissero a Mac.
“E gli altri compagni?” domandò la pixie del fuoco.
Seguivano quei tre che li avevano un po’ costretti a farlo, soprattutto James. Giorni fa ho raccontato tutto alla mamma e ora le maestre sistemeranno ogni cosa, ma ho ancora paura. Il giorno prima che arrivavo qui quei tre bambini si sono scusati scrivendomi delle lettere dopo che la Direttrice ha parlato loro, James se n’è andato e una bambina, Katie, è molto gentile con noi. Si era arrabbiata spesso quando gli altri ci prendevano in giro. Tremò. Sono contenta che qui non mi sia capitato, siete tutti gentili!
La mamma di James aveva deciso di fargli cambiare scuola, chissà perché visto che la Direttrice non aveva affatto incoraggiato questa decisione, e le insegnanti – dopo aver fatto una riunione con le famiglie di Mackenzie ed Elizabeth – avrebbero parlato del bullismo in classe e spiegato le sue conseguenze anche grazie alla visione di alcuni video, come le avevano detto i genitori. Mackenzie sperava che, in questo modo, i bulli avrebbero capito e gli altri imparato qualcosa.
“Ci dispiace tanto, Mac” mormorò Harmony prendendole la mano.
La compagna le sorrise.
Grazie, ma adesso va meglio. Per ora sono solo contenta di stare qui con voi e basta.
 
 
 
Una volta in piedi, i piccoli ripresero a camminare, mischiati: quasi tutti i bimbi delle elementari ne tenevano per mano uno dell’asilo. Mackenzie fu felicissima di accompagnare Hope, la quale a ogni passo sorrideva e si guardava intorno con curiosità. Sugli alberi, gli uccellini cinguettavano allegri come per salutarli e spesso alcuni di loro volavano, in velocità ma al contempo con grazia, per procacciarsi il cibo. Avendo conosciuto Midnight, Mackenzie riconobbe alcuni merli sia dal colore che dal verso e anche diverse rondini perché ne ricordava il garrito.
Fu proprio mentre passeggiavano, bisbigliando per non spaventare gli animali, che li videro. A pochi metri da loro c’erano dieci conigli, alcuni bianchi e altri marroni, che mangiavano l’erba.
“Che carini!” esclamò Harmony con una vocina acuta.
Sentendo rumori vicino a loro, gli animaletti sollevarono i musi e annusarono l’aria. Guardarono il gruppo, ma non si allontanarono.
“Ricordate,” proseguì Alan Baxter, “i conigli devono mangiare soltanto erba, foglie o, se sono domestici, verdure crude pulite, a temperatura ambiente e che non siano guaste.”
“Hanno bisogno di masticare a lungo” si intromise Carlos “perché i loro denti, a differenza dei nostri, crescono per tutta la vita, e la masticazione li aiuta a limarli. Anche le unghie continuano a crescere. L’erba e le piante che trovano nei prati o nei campi sono un ottimo cibo per loro: rinforzano le ossa perché piene di calcio e sali minerali e sono ricche di fibre che aiutano il movimento intestinale. Al contrario non hanno molti grassi o carboidrati, perciò servono a prevenire l’obesità o l’attacco da parte di batteri cattivi.”
Quelle spiegazioni annoiavano i bambini più piccoli che pestavano i piedi o si lamentavano. Per loro tali parole non volevano dire nulla, ma per i più grandi potevano essere interessanti, quindi gli insegnanti cercavano di fare una via di mezzo ed essere concisi.
“Toccarli?” chiese una dei bambini più piccoli, esprimendo quello che in realtà era il desiderio di tutti.
Gli adulti sorrisero.
“Sì,” disse una delle maestre, “ma fate piano e avvicinatevi uno alla volta, o li spaventerete.”
A mano a mano i piccoli si fecero avanti a passi lenti, alcuni però dopo un po’ si stancarono e presero una piccola rincorsa. I coniglietti si allontanarono battendo una zampa, per segnalare un pericolo come spiegò Mister Ramirez, ma poco dopo tornarono loro vicino capendo che non volevano far del male a nessuno del piccolo gruppo. Mackenzie e Hope aspettarono pazienti il proprio turno, mentre ascoltavano i commenti estasiati degli altri bimbi.
“Noi, noi” disse la più piccola.
La maggiore la guidò con calma, frenandola quando provò a correre, e si accucciò mentre la sorellina la imitava. Le due misero una mano a terra e la mossero appena, per attirare i conigli con il movimento e il rumore dell’erba. Dopo un po’, un coniglietto bianco annusò la manina di Hope e uno marrone quella di Mackenzie. Con il cuore a mille e un sorriso enorme, le bambine fecero correre i palmi sule loro orecchie lunghe e morbidissime, poi sul pelo che assomigliava a una nuvola tanto era soffice. I coniglietti arricciarono il naso, chissà perché, e gli altri si fecero più vicini al resto dei bambini che, seppur emozionati, cercarono di accarezzarli mantenendo la calma. Mackenzie insegnò a Hope come grattare gli animaletti sulla testolina o dietro le orecchie, gesto che gradirono moltissimo sollevandola e leccandole. La più piccola rise di cuore. Poco dopo, forse stanchi di quella folla attorno a loro, i coniglietti corsero via, ma prima di sparire del tutto si girarono verso di loro e spiccarono un salto.
Perché non sono scappati quando ci siamo avvicinati? Sono animali domestici? E se sì, dove sono i loro padroni?
Mac mostrò il foglio a Kaleia che rispose per tutti.
“Non sono conigli domestici. Il Giardino è una parte del bosco e loro vivono qui, come animali selvatici, allo stesso modo in cui lo fanno le lepri. Ma come quasi tutti sapete nel nostro mondo gli animali del bosco, di qualsiasi bestia si tratti, non temono le persone, ne hanno paura solo se queste ultime cercano di ferirli.”
Mackenzie rimase attonita. Sulla Terra, gli animali del bosco scappavano sempre dagli umani o, la maggior parte delle volte, non si facevano nemmeno vedere, e di certo i genitori non glieli avrebbero fatti toccare per paura che si sarebbe presa qualche grave malattia, ma lì era tutto diverso. Stava accarezzando, ormai da giorni, animaletti magici che sul suo pianeta non esistevano e altri che, per quanto l’avesse desiderato, non sarebbe mai riuscita nemmeno a sfiorare. Stava imparando tanto a Eltaria, aveva delle compagne fantastiche e si augurò che, una volta sveglia, avrebbe ricordato tutto, come faceva ogni tanto quando si svegliava dopo un particolare sogno. Di solito, purtroppo, accadeva con gli incubi, ma quella volta sarebbe stato diverso, lo dimostrava già il fatto che stava vivendo un sogno bellissimo.
Si spostarono in un'altra parte del prato, molto più in là, risalendo una piccola collinetta sopra alla quale si trovavano cinque femmine di cervo, tutte con il pelo bruno rossastro che brucavano l'erba ma, quando sentirono delle voci, alzarono lo sguardo verso il gruppo con curiosità. Erano giganti, o almeno apparivano così ai bambini e facevano una certa impressione, vista l’altezza, pur essendo senza corna. Ma per il resto erano animali maestosi.
"Questi sono cervi." Kaleia lo chiarì nel caso qualcuno non lo sapesse. "Hanno il pelo del colore che vedete solo in primavera ed estate, mentre d'inverno diventa grigio."
"Cevvi" disse un compagno di Hope, convinto.
"No, cevi" rispose quest'ultima e i loro commenti fecero sorridere gli insegnanti e la fata.
"Imparerete presto" riprese questa. "Forse non tutti lo sapete, ma solo i maschi hanno le corna.”
"Si chiamano palchi" intervenne Mahel.
"Esatto, e sai dirmi altro a riguardo?"
"Possono arrivare a pesare anche quindici chili e cadono in inverno, poi quando si riformano provocano dolore, o almeno così mi ha sempre detto la mamma."
"E ha ragione. Qui non ci sono cuccioli, ma nascono tra maggio e giugno."
I bambini rimasero in silenzio ad ascoltare i cervi che riprendevano a mangiare, ma gli animali sembravano infastiditi dalla loro presenza perché continuavano a sollevare la testa dal pasto, per cui gli insegnanti presero la saggia decisione di allontanarsi. I bambini rimasero delusi: sarebbe piaciuto a tutti accarezzarli.
Ritornarono al fiume e trovarono, sulla sponda, alcune rocce liscissime, o almeno Mackenzie e le due compagne credevano fossero tali.
“Questi sono Slimius, anche se li avrete scambiati per sassi.” Una maestra dell’asilo li indicò. “Si sono appiattiti per proteggersi da qualche predatore, forse un Nesper.”
Nesper? chiese Mackenzie. Che cos’è?
Non aveva mai udito quella parola, nemmeno nella saga se ben ricordava.
“Un gatto selvatico con le ali da pipistrello, gli occhi verdi e il pelo bianco e nero” le spiegò Harmony. “Sa subito di chi fidarsi e, quando gioca, si nasconde e diventa letteralmente invisibile.”
Per quanto l’ultima parte di spiegazione fosse interessante, a Mackenzie la sola idea di un gatto volante, per di più con ali del genere, faceva accapponare la pelle.
Non sono sicura che vorrei incontrare una creatura come quella, anche se è buona pensò.
Dal fiume uscì un animale con il pelo folto e marrone, che fece un verso strano e si avvicinò a Kaleia battendole una zampa sulla scarpa. Mackenzie non seppe definire quel suono, era un misto tra uno squittio e quello che sentiva quando, a casa, schiacciava i giocattoli della sorellina, per la maggior parte animali, che facevano rumore.
“Tarka, ciao!” esclamò la fata abbassandosi per accarezzarla. “Questa è una lontra, bambini, è mia amica, la conosco perché vengo spesso qui al Giardino e ci siamo incontrate tante volte, vero piccola?”
Questa sembrò risponderle e Kaleia le fece il solletico. Tarka si rialzò e mangiò il pesce che aveva catturato e appoggiato a terra.
“Potete accarezzarla, ma uno alla volta.”
Quando fu il turno di Mackenzie e Hope, queste si chinarono piano e le sfiorarono la pancia e la schiena. Erano bagnate e la sensazione dell’acqua sul pelo a Mac fece un po’ schifo, ma questo era comunque soffice e liscio. Prima d’allora non aveva mai sentito parlare della lontra. A differenza del dorso la pancia di Tarka era grigia e la lontra aveva le zampe corte.
“Tra le zampe ha una membrana che la aiuta a tuffarsi, tutte ne possiedono una” spiegò Kaleia. “Le lontre mangiano soprattutto pesci, ma anche granchi, gamberetti o rane a seconda della specie e del luogo in cui si trovano. Il pelo è impermeabile e questo le aiuta a nuotare.”
Tarka era alta una trentina di centimetri, la stessa misura della sua coda, e corpo compreso superava il metro di lunghezza.
Mackenzie le accarezzò le orecchie, forse la parte più carina del suo fisico slanciato, arrotondate e piccole. Sfiorò i baffi.
“Si chiamano vibrisse, come quelle del gatto” spiegò ancora la fata. “Servono a trovare le prede.”
L’unica cosa che spaventava un po’ la bambina erano gli artigli della lontra. Le zampe avevano cinque dita ed erano palmate, ma quelle unghie non promettevano nulla di buono. Kaleia si affrettò a rassicurare tutti: era docile e, se loro non le avessero fatto del male, lei non avrebbe attaccato. Si lasciava toccare, emetteva il suo verso, li leccava e strusciava il musetto contro le manine dei bambini. Poco dopo ne arrivò una seconda uguale a lei.
“Tex, ciao. Questo è il suo compagno.”
Lui si erse sulle zampe posteriori, un tipico comportamento delle lontre disse Christopher che mettono in atto quando, fermandosi, osservano l’ambiente circostante. Dopo un po’ di esitazione si fece accarezzare ma non quanto Tarka, preferendo starsene sulle sue. Infine la coppia se ne andò, non prima di aver salutato.
“Possiamo accarezzare i cuccioli? Ne hanno, vero?” domandò Evan.
“Prima di tutto le lontre fanno il nido in terra, in luoghi riparati da esondazioni o possibili predatori. E sì, Tarka ha partorito poco più di un mese fa. Ma i piccoli non lasceranno la tana prima del terzo ed è meglio non disturbarli in questo periodo. Lei non vi conosce, io ho visto i cuccioli e li ho accarezzati, ma solo perché sono amica di Tarka da tempo. Vi assicuro che sono morbidissimi e hanno aperto da poco gli occhi.”
E come si chiamano? Hai dato loro dei nomi?
“Sì Mac. I maschi sono Sawyer e Cooper.”
“Fanno rima” considerò Jessica.
“Esatto, mentre la femminuccia è Splash.”
I bambini risero, quel nome ricordava un tuffo nell’acqua ed erano sicuri che le calzasse a pennello.
Dopo un altro giro nel quale accarezzarono jackalope soffici come lana, videro un Pyrados adulto. Nulla in confronto al cucciolo di Hope, grande abbastanza da stare su una spalla, questo era un vero drago imponente. Non gigantesco come Mackenzie pensava, ma di sicuro un po’ più alto e lungo degli unicorni che aveva visto nel film e di quelli che la mamma, in un momento di calma, le aveva descritto parlandole della cavalcata. E a differenza di quella sorta di cavalli, il drago era grosso più del doppio. Le sue scaglie rilucevano al sole e la criniera sfolgorava in tutta la sua bellezza. Alzò l’enorme testa ed emise un lieve ruggito, nulla in confronto a quanto i bambini si sarebbero aspettati e segno che era tranquillo.
I più piccoli si fecero più vicini ai grandi che li accompagnavano, alcuni di essi corsero anche dagli insegnanti volendo essere presi in braccio e cominciando a piangere e a tremare. Hope, dopo qualche lamento, rimase accanto alla sorella.
“Non preoccupatevi, bambini, non succede niente” li rassicuravano gli adulti. “È tranquillo, vi sta solo salutando.”
Qualcuno zampettò accanto a lui parandoglisi davanti: un cucciolo, grande poco più di quello di Hope.
Crescono in fretta, Mister Baxter? chiese Mackenzie. Voglio dire, se diventano così grandi e da cuccioli sono tanto piccoli… insomma, mi riesce difficile credere che diventino lunghi e grossi come lui.
“Ottima domanda, potrà essere utile a tutti. Dipende: seguono la crescita dei poteri dei padroni, quindi diventano o no più grandi in base a quanto essi imparano e si rafforzano. Vale anche per Arylu e Slimius. Questi due draghi però vivono in natura, anche se sono tranquilli vicino a noi.”
Il piccolo, incuriosito, si avvicinò ai bambini sotto lo sguardo vigile della mamma che seguiva tutti i suoi movimenti e controllava al contempo le mosse di quel gruppo. Tutti i piccoli accarezzarono il draghetto.
“Come Agni” disse Hope.
La sorella le strinse piano la mano. Sì, gli somigliava.
Dopo la sua generosa dose di coccole, il cucciolo fece un volteggio sopra tutti loro e infine tornò dalla mamma che lo prese in bocca facendolo sparire. Ai bambini mancò il fiato.
Jessica inorridì.
“L’ha… l’ha mangiato!”
“Ma perché? È la sua mamma!” gridò Harmony.
Quale madre farebbe mai una cosa del genere? Era questo che si chiedevano tutti i piccoli.
“Non preoccupatevi, sta bene. L’ha solo preso in bocca per trasportarlo da qualche altra parte. Vedete? Va via” spiegò Mister Ramirez e tutti tirarono un sospiro di sollievo.
Mackenzie si rilassò e si ricordò di aver visto una cosa del genere in un documentario sui coccodrilli, da cui aveva imparato che la mamma trasporta i piccoli mettendoseli in bocca e, cosa sorprendente – o almeno lo era stata per lei – adattando la forza del morso a ogni cucciolo.
Dopo aver guardato alcuni scoiattoli che facevano su e giù dagli alberi come schegge, Mac si augurò di rivedere presto Bucky e, Dio lo volesse, di conoscere la sua intera famiglia.
Era già l’una e la gita ebbe fine.
“Allora bambini, vi è piaciuta?” domandò Kaleia.
“Sì, bellissima!” risposero i più grandi in coro, mentre quelli dell’asilo dissero solo “Sì”.
I genitori o i nonni vennero a prendere i bimbi all’uscita del Giardino, mentre Kaleia e Christopher si avvicinarono a Hope e Mackenzie.
“Andiamo?” chiese il ragazzo, che non aveva quasi mai parlato per tutta la mattina. “La mamma vi aspetta a casa.”
Hope gli afferrò la mano, mentre Mackenzie andò con Kaleia.
“Non hai detto molto, amore. Tutto bene?”
“Benissimo.” Le sorrise. “Mi sono solo goduto la natura in silenzio, che le vocine dei bimbi hanno reso ancora più bella. E poi era troppo interessante ascoltarti mentre facevi la maestrina. Eri bravissima, credo che il tuo sia un dono e non sto scherzando.”
“Tu dici?”
“Sì, sei andata alla grande!”
Mackenzie confermò e aggiunse che sarebbe stata ben felice di averla come insegnante.
“Oh, beh… grazie.”
“Ehi, ragazzi! Ci siamo anche noi!” chiamò una voce alle loro spalle.
I quattro si voltarono e si trovarono davanti Sky e Noah, sorridenti, che si tenevano a braccetto.
“Ciao, amico. Che ci fate qui?”
“Abbiamo pensato di venire a riaccompagnarvi a casa, così le bambine avrebbero potuto raccontarci subito com’è andata la gita. Cucineremo una pasta per pranzo, per cui prepararla adesso o tra qualche minuto non cambia.”
Le piccole abbracciarono i due, felici di rivederli, in particolare Mackenzie lo fu nel sapere che Sky era venuta apposta per loro.
Grazie scrisse, e in quella parola mise il cuore.
“Figurati, piccola. Allora, raccontateci tutto.”
Il tragitto verso casa fu pieno delle loro chiacchiere entusiaste.
 
 
 
NOTE:
1. io ed Emmastory ci siamo informate per parlare degli animali selvatici. Abbiamo preso le informazioni sulla lontra da www.wwf.it, sul cervo da www.parcodolomitifriulane.it e sull’alimentazione del coniglio da www.orsamaggiorevet.it. Non siamo riuscite, però, a trovare il nome del verso della lontra. Un video ci ha aiutate a capire com’era e abbiamo provato a descriverlo mettendoci nei panni di una bambina di sei anni.
2. ¡Niños! = Bambini!

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Capitolo 32
*** Momenti felici ***


CAPITOLO 32.

 

MOMENTI FELICI

 
A pranzo, nove persone raccontarono la loro giornata. Demi e Andrew sorrisero nel constatare che alla fine avevano avuto ragione: le loro bambine si erano divertite. Mackenzie disse anche di aver accennato alla sua adozione e parlato alle compagne del bullismo che aveva subito a scuola.
“È bello che tu abbia trovato due persone alle quali confidare tante cose.”
Hai ragione, mamma. Sono fantastiche.
Andrew chiese a Eliza quando avrebbero iniziato a preparare per la festa. Il cibo non necessitava di cottura, ma c’erano tante altre cose da fare.
“Ho invitato tutti alle otto e mezza. Sì, è un po’ tardi, ma ho pensato che in questo modo avremmo potuto goderci le prossime ore del pomeriggio e, verso le sei o poco più, sistemare.”
Gli altri approvarono quella sorta di piano. Demi si offrì di lavare i piatti e non accettò il no che la donna disse subito, quindi dopo aver insistito un altro po’ quest’ultima dovette arrendersi. A lavoro finito, la ragazza andò a riposare come tutti gli altri, trovando il fidanzato e le figlie già addormentati. Si sdraiò vicino ad Andrew facendo piano per non svegliarlo e gli sfiorò la mano, si girò su un fianco e chiuse gli occhi, non prima di aver sussurrato una preghiera.
“Per favore, Signore, se puoi fa’ che Kady e gli altri bambini dell’orfanotrofio stiano bene, trovino una famiglia e abbiano una vita felice. Se la meritano.”
Non aveva nessun ricordo materiale di loro, ma non li avrebbe mai dimenticati. Ognuno di quei piccoli aveva un posto speciale nel suo cuore. Voleva bene a tutti allo stesso modo, anche se Kady era quella che le sarebbe rimasta più impressa. Le sfuggì un singhiozzo nel ripensare a lei, ma per fortuna nessuno la udì. Andò in bagno a lavarsi la faccia e bevve qualche sorso, si rimise a letto e restò a fissare il soffitto.
 
 
 
Dopo aver fatto merenda con il dolce, che finirono, e un bicchiere di succo di frutta di gusti diversi a seconda della preferenza, tutti uscirono.
Chris e Kaleia, che erano tornati a casa per riposare, arrivarono accompagnati da Cosmo e Willow. Poco dopo li raggiunsero anche gli Hall con Sunny e Flame.
Le bambine si divertirono ad accarezzare gli animali, inseguirli e giocare con loro, mentre Agni e Flame si rincorrevano nel cielo.
“Ti invidio” confessò Lucy a Mackenzie.
Per cosa?
“Oggi sei andata al giardino, io invece a scuola a imparare, certo, ma anche ad annoiarmi. Stasera però c’è la festa e la mamma ha detto a me e a Lune che domani rimarremo a casa.”
Chissà, forse anche mamma Demi avrebbe fatto stare lì lei e Hope visto che sarebbero andate a letto tardi, ma la bambina non se la sentì di chiederglielo, almeno per il momento.
“Cosmo, no” lo richiamò Kaleia, dato che si era attaccato ai pantaloni di Hope e glieli stava mordendo.
Il cagnolino si staccò e, girando su se stesso, fece cadere a terra fiocchi di neve.
“Ma che… Fa nevicare?” chiese Andrew.
Ne aveva viste tante nei giorni precedenti, si stava in parte abituando a quel mondo magico e alle sue stranezze, a cose che la ragione umana non avrebbe saputo spiegare dato che non includeva la magia, ma questo non se lo sarebbe mai aspettato.
“I suoi poteri sono legati al ghiaccio e gli Arylu li utilizzano quando sono emozionati o felici” spiegò Christopher mentre Lilia, vicino a Cosmo, zampettava e creava piccolissimi turbini di vento.
Alcuni fiocchi finirono nel naso del cane che li aveva prodotti facendolo starnutire e tutti risero a quella scena, divertiti e inteneriti al contempo. La poca neve caduta si sciolse subito a causa del sole che, grazie al cielo, quel pomeriggio non era caldissimo, ma per i quattro umani fu comunque spettacolare vederla quand’era quasi estate.
Intanto, Lucy accarezzava Willow assieme a Mackenzie e la gatta, dopo essersi girata sulla pancia, prese la mano della seconda fra le zampe, tirò fuori gli artigli e se la portò alla bocca per morderla, tutto sempre in modo giocoso e senza farle male. Lune prese a coccolare Lilia e Cosmo tornò scodinzolando dai padroni, mentre i draghetti si riposavano sul prato antistante la casa.
Poco dopo arrivò anche Rover, che prese a giocare con i suoi simili e giunse Red con la famiglia.
 
 
 
C’erano un po’ troppi animali, per cui Demi andò dentro a farsi un caffè per prendersi una pausa da tutti quei versi e dalla confusione alla quale non era abituata, benché felice che le figlie si stessero divertendo sempre di più.
Quando tornò fuori, Willow si strusciò sulle sue gambe miagolando con insistenza e la ragazza si sedette. Un secondo dopo, la gatta le era già saltata in braccio. Demetria aspettò che trovasse una posizione comoda e, solo quando si acquattò iniziando a fare le fusa, prese ad accarezzarla.
“Ma come sei bella” sussurrò, rilassandosi e passandole una mano sulla schiena e dietro le orecchie.
Quando le grattò la testa, Willow la alzò e le leccò la mano per poi sfiorarla con il naso umido facendola sorridere.
In quel momento alla ragazza venne in mente di conoscere una canzone con la parola willow, come nome comune però. Era di un cantante, ma lei l’aveva sentita per la prima volta guardando Hunger Games, in una scena tristissima. Cercando di dimenticare quanto avesse sofferto vedendola, si concentrò su quella ninnananna. Alla gatta avrebbe potuto far piacere ascoltarla. Batman e Danny amavano sentirla mentre cantava qualsiasi canzone.
Deep in the meadow, under the willow
A bed of grass, a soft green pillow
Lay down your head, and close your sleepy eyes
And when again they open, the sun will rise
 
Here it’s safe, here it’s warm
Here the daisies guard you from every harm
Here your dreams are sweet and tomorrow brings them true
Here is the place where I love you
Come se avesse capito che in quel testo c’era il suo nome, Willow aumentò le fusa. Demi non cantò la seconda strofa, si fermò dove il brano si era interrotto nel film.
Lo udirono solo gli adulti, gli unici a essere ancora in silenzio, e ne rimasero incantati.
“Non è mia, se è questo che state pensando. Magari sapessi scrivere parole tanto semplici ed efficaci.”
“In ogni caso l’ho trovata fantastica, Demi, come tutte le altre che ci hai cantato.”
“Grazie, Kaleia.”
La ragazza la tradusse e Willow, intanto, si era già addormentata.
“Visto che parliamo di ninnenanne, vorrei chiedere una cosa a te e a Isla.”
“Certo, Kia. Se possiamo esserti d’aiuto, volentieri” le rispose la fata e le due si sedettero più vicine alla cantante.
“Voi siete mamme, io sono incinta solo da qualche mese e non ne so niente. Isla, i calcetti del bambino saranno dolorosi?”
La fata sorrise.
“Non direi, un po’ fastidiosi forse, ma proverai una sensazione così strana e bella quando li sentirai che non ci farai caso. Più il piccolo crescerà, meno spazio avrà per muoversi e più i movimenti diventeranno forti, ma non preoccuparti per questo.”
Kaleia tirò un sospiro di sollievo.
“Grazie al cielo! Temevo sul serio avrebbe fatto male. Sembro sciocca, vero?”
Demi le strinse la mano.
“No, non devi pensarlo neanche per un momento! È normale avere delle domande quando si resta incinta per la prima volta, secondo me, e non ti devi vergognare di porle.”
Isla annuì.
“Altre cose che ti preoccupano, cara?”
Le due fate si guardarono per qualche momento, sorridente la più grande, l’altra serissima.
“Il parto” mormorò. “So già che sarà doloroso. Mia mamma mi dice che, quando terrò in mano il mio bambino, dimenticherò tutto, ma a me terrorizza il prima. E se il dolore fosse troppo forte? E se non riuscissi a darlo alla luce da sola? E se ci fossero delle complicazioni?”
La fata non aveva idea di quali potrebbero essere state, ma Demi le intuì. A Eltaria non si conosceva molto la medicina a quanto aveva capito, sarebbe potuto accadere di tutto. Se Kia avesse avuto un’emorragia o bisogno di un parto cesareo, che cos’avrebbero fatto le ninfe? Sarebbero state in grado di aiutarla? E se sì, come? Con delle erbe, magari? Stava solo ipotizzando, sapeva poco o niente dei rimedi naturali.
“Amelie ti starà sempre vicina, ne sono sicura.” Isla prese a confortare Kaleia distraendo Demetria dai suoi pensieri. “E poi non è detto che ci saranno problemi. Se accadrà, in qualche modo le ninfe li risolveranno.” O almeno così sperava, non voleva pensare al peggio. “I miei due parti sono andati benissimo, non ci sono state difficoltà di alcun tipo e io e le mie figlie non eravamo in pericolo di vita.”
“Isla ha ragione” riprese Demi, cercando di mettere da parte quelle previsioni funeste. “Devi vivere con serenità la tua gravidanza: se tu sarai tranquilla, si sentirà meglio anche il tuo bambino e quando giungerà il momento lo affronterai un passo alla volta con le ninfe, la tua famiglia e soprattutto Christopher al tuo fianco.”
“Grazie mille a entrambe. Demi, qualche consiglio sulla maternità?”
“Hope era già grandicella quando l’ho adottata, ma per esperienza personale ti consiglio di dormire il più possibile quando il bambino riposerà, perché per i primi mesi piangerà e si sveglierà per mangiare di frequente e potresti non passare delle notti proprio tranquille. Non è sempre così, però, perché ci sono bambini che dormono per sei o più ore di fila. Quando comincerà a mettere i denti, verso i sei mesi, potrebbe salirgli un po’ di febbre e avere le gengive gonfie e arrossate. La febbre passerà nel giro di un giorno, o almeno di solito è così, e per le gengive ti consiglio di bagnare il ciuccio o passargli un panno, sempre imbevuto d’acqua, in bocca, per dargli sollievo. Non so se ci sono da voi, ma nel nostro mondo esistono anche dei giocattoli da mordere e degli anelli da dentizione che si tengono in frigo e, quando messi in bocca al bambino, gliela rinfrescano.”
“Mi informerò, ti ringrazio.”
“Ah, non preoccuparti se, per esempio, a otto o nove mesi non gattonerà o a un anno esatto non camminerà, ogni bambino ha i suoi tempi. Alcuni saltano il gattonamento o iniziano verso gli undici mesi per poi camminare per esempio a tredici, per cui stai tranquilla. Lo stesso vale per la parola: certi bimbi cominciano più tardi di altri, ma verso i due anni dovrebbe essere in grado di dire diversi vocaboli. Dovrai stimolarlo, ripetergli alcune parole, fargli annusare la frutta e dirgli, ad esempio, “Questa si chiama mela” con molta lentezza e più volte.”
“Wow, quante cose da sapere! Ma sono sicura mi serviranno.”
Isla sorrise.
“Il mestiere di mamma non è facile” commentò.
“No, affatto” riprese Demetria. “Ma penso che io e te siamo d’accordo su una cosa, Isla: è il più bello del mondo. E tu, Kaleia, sarai una madre fantastica, lo so.”
Il viso di Demetria si illuminò di una luce che Kaleia non aveva mai visto prima, il sorriso genuino sul suo volto le bagnò il viso di calde lacrime.
“Grazie. Non vedo l’ora di esserlo anch’io.”
 
 
 
Mentre le donne continuavano a chiacchierare scambiandosi consigli ed esperienze e alla loro conversazione si unì anche Eliza e gli uomini parlavano più nello specifico dei loro lavori e di quello che amavano fare nel tempo libero, le bambine e gli animali non smettevano un attimo di giocare.
Mackenzie sedeva sull’erba con le gambe distese e teneva in braccio Valiant, accarezzandolo e muovendo le dita affinché lui la seguisse con le zampe. Lucy, accanto a lei, coccolava Midnight che le era volato in braccio da poco e Lune accarezzava Lilia. Hope, a poca distanza, era circondata dai due draghetti e gli altri tre cuccioli di Red, ognuno dei quali richiedeva attenzioni e coccole e voleva divertirsi. La mordicchiavano e le facevano piccoli, finti assalti. Christopher la raggiunse, si chinò alla sua altezza.
“Ti piacciono?” le chiese con un gran sorriso.
“Li voio tutti” rispose Hope battendo le manine.
Il ragazzo le diede un bacio, raccomandò ai cuccioli di non farle male e tornò al suo posto.
Poco dopo i piccoli, Cosmo compreso, presero a correre, anche quelli che si stavano facendo coccolare e le bambine li inseguirono, in un continuo movimento di zampe e piedi. Le bimbe si gettarono sull’erba, tanto per giocare e scoppiarono a ridere di cuore. Era liberatorio divertirsi e fare cose anche stupide senza pensare a niente. Cosmo riprese a far fioccare la neve ovunque andasse, anche addosso alle piccole che, gridando di gioia, la prendevano a manciate e se la lanciavano e Lilia faceva sentire il suo vento ogni volta che passava loro accanto.
“Venite, bimbe, vi mostro una cosa” disse a un tratto Kaleia richiamando a sé anche i due Arylu e lasciando gli altri animali a giocare.
Cosmo le si fece vicino.
Kaleia, che era andata in casa a prendere un sacchetto di crocchette, ne avvicinò una al muso del cagnolino e alzò il braccio.
“Seduto.”
Lui obbedì.
“Bravo, Cosmo” si complimentò e gli diede il suo premio.
Bravissima! Come ci sei riuscita?
Mackenzie sbarrò gli occhi. Sarebbe mai stata in grado di insegnare a Lilia una cosa del genere?
“Da quando è entrato nella mia vita, ormai quattro mesi fa, mi sono appassionata di psicologia canina e ho letto dei libri sul modo in cui educare gli Arylu.”
Le spiegò un altro comando, le passò una crocchetta e la bambina corse come le aveva detto. Lilia che, come ogni cane, aveva l’istinto di seguire ciò che si muove, andò da lei. Se avesse potuto parlare, Mac avrebbe dovuto semplicemente dire:
“Vieni”,
ma per fortuna c’era un’alternativa. Ricevuto il suo premio, la cagnolina si avvicinò a Cosmo e mangiarono insieme.
Me ne fai vedere un altro, per favore?
Adulti e bambine rimanevano in silenzio a osservare quella sorta di lezione.
“Magari può farlo la tua mamma, visto che avete un cane ne saprà qualcosa, no?”
Demi si alzò, dato che Willow si era da poco spostata su una sedia libera lì vicino.
“In effetti sì, ho studiato anch’io dog training e psicologia del cane nel tempo.”
I presenti non capirono le parole in inglese, ma immaginarono fossero qualcosa di simile a ciò che aveva detto Kaleia.
La ragazza prese una crocchetta dal sacchetto e si avvicinò a Lilia, che fece sedere. Con quel piccolo premio disegnò una L sotto il suo naso. Lei non capì cosa fare. Leccò e mordicchiò la mano della cantante che però si ritrasse.
Che fai, mamma? Dagliela pregò Mac.
“No. Voglio che si distenda a terra, non che si comporti così.”
Ma Lilia era ancora piccola, era più che normale che non capisse o non imparasse subito i comandi. Demi continuò a provare e riprovare, beccandosi anche qualche morso alla mano che le fece male, ma dopo una trentina di tentativi la cagnetta si sdraiò a terra e ottenne ciò che tanto bramava.
“Forse adesso ha capito” disse Kaleia. “Cosmo invece fa fatica con questo, che però è complicato per tutti gli animali in generale.”
"Cosmo? La zampa." Chiese, per poi scivolare nel silenzio.
Gli portò il cibo sempre davanti al naso e aspettò. L'Arylu leccò e mordicchiò più volte ma lei non glielo diede, almeno non finché lui non alzò la zampa. Quando lo fece colpì il pugno chiuso della sua padrona che lo premiò. Mackenzie provò con Lilia ma questa non ne volle proprio sapere, allora la piccola su suggerimento della fata le sollevò la zampa e la lasciò mangiare in modo che la cagnolina associasse quel movimento al premio.
“Pensa,” le disse, “ci vuole solo un secondo perché i cani facciano quest’associazione.”
Tutti fecero i complimenti a Mac, alla fata e a Demi, affascinati dalla loro bravura. Kia se ne intendeva un po’, ma era la prima volta che Mackenzie imparava cose del genere.
“Le ho insegnato solo un comando, non è un granché” rifletté Demetria, che come sempre tendeva a sminuirsi.
Odiava con tutte le sue forze quel lato di sé, da anni ci lavorava per migliorare, ma si era resa conto che non poteva farci molto. Costituiva una parte del suo carattere, punto.
Si accorse in ritardo di aver pronunciato due parole in inglese senza cantarle. Che questo volesse dire qualcosa sul sogno di Mackenzie? Che si stesse svegliando? Smise di respirare e quando dopo diversi secondi ricominciò, le parve di stare per annegare, di trovarsi in un mare in tempesta che voleva sovrastarla con le sue onde alte metri e metri e risucchiarla negli abissi. Non voleva andare via da Eltaria, non poteva. Non adesso. Nessuno di loro sarebbe mai stato pronto a lasciarla, ne era certa, anche se prima o poi avrebbero dovuto farlo. Ma sperò che fosse il più tardi possibile. Aspettò uno, due, cinque minuti ascoltando a malapena le chiacchiere degli altri e i versi degli animali. Non accadde niente e Mackenzie era tranquillissima, non scriveva in modo concitato né si leggevano sul suo volto espressioni particolari.
Bene, staremo ancora qui!
Demi tirò un lunghissimo sospiro di sollievo e le parve che ci fosse di nuovo aria.
“Bucky!” gridò Hope, che finalmente era riuscita a dirlo. Gli corse incontro. Con lui c’erano Darlene e i loro sei piccoli. “Mac Mac, Lucy, Lune. Cuccioli” le avvisò e le amiche e la sorella si affrettarono a raggiungerla.
Andrew e Demi sorrisero, orgogliosi che la loro piccola fosse stata in grado di pronunciare la parola cuccioli, non così facile per la sua età.
I piccoli erano quattro marroni e con una striscia bianca sulla schiena, come il padre e due sembravano argentati, ma in realtà erano un po’ più chiari della madre che aveva il pelo grigio. Mackenzie ne prese uno in mano. Era un po’ più grande di essa anche a causa della lunga coda, ma ci stava.
“Darlene ha partorito a inizio primavera.” Christopher le sfiorò il pelo. “Ora i cuccioli sono abbastanza grandi da uscire dalla tana, come avete visto, e iniziano ad arrampicarsi.”
Non resistendo più Demi ne prese uno in mano e questi squittì. La ragazza lo accarezzò con gesti delicati dalla testa alla coda mentre lui la guardava con i suoi occhioni dolci.
“Grazie, adoro le tue coccole, fammene ancora” pareva supplicare.
“Andrew, dimmi, non è tenerissimo?”
L’uomo lo accarezzò immergendo le dita nel suo pelo soffice.
“Pazzesco, stiamo davvero toccando uno scoiattolo. Non ci posso credere.”
Il piccolo era simile al padre e Demetria chiese a Kaleia se si trattasse di un maschietto o di una femminuccia.
“Il primo. Si chiama Rodney e abbiamo trovato il nome solo a lui. Tra i piccoli di Red e questi, cercare il nome giusto per ognuno non è facile e poi stiamo ancora provando a capire che carattere hanno per associarne uno, non vogliamo darlo così a caso. Loro due, invece,” e indicò i piccoli più chiari, “sono femmine.”
Con tanti cuccioli, Mackenzie e Hope non sapevano più chi coccolare. Avrebbero voluto farlo con tutti insieme allo stesso tempo, ma non era possibile, per cui per il momento si concentrarono solo su quelli di Bucky che non facevano che leccarle e mordicchiarle. Alcuni provavano anche ad arrampicarsi sulle loro gambe e, arrivati in cima, cadevano, ma non si facevano mai male.
 
 
 
Nel frattempo Demi, Eliza, Isla, Sky e Kaleia sparirono dentro casa dove gonfiarono e appesero palloncini a porte, finestre e sedie. Christopher e Noah vennero ad aiutarle e, grazie a una scala in legno, arrivarono ad alcuni rami degli alberi e ne appesero anche lì. Fu un lavoro lungo che non risparmiò nessuno da un forte mal di testa che però passò in fretta, e quando guardarono la loro opera e videro tutti quei colori – rosso, bianco, verde, blu e giallo – riempire l’ambiente, sorrisero. Alle bambine e agli invitati sarebbe piaciuto da morire.
Gli uomini, Oberon compreso, le aiutarono anche ad appendere delle bandierine colorate alla porta di casa, alle quali i piccoli di Bucky si attaccarono per dondolarsi rischiando di strappare tutto. Tutti risero di cuore vedendoli ed Eliza li fece scendere.
“Guardate come sono felici le nostre figlie” constatò Oberon con espressione sognante.
La moglie e i fidanzati annuirono.
“Lucy e Lune sono più contente da quando hanno conosciuto Mackenzie e Hope” continuò l’uomo, cosa che ai genitori fece un piacere immenso.
“Per le nostre vale lo stesso” constatò Andrew.
“Vorrei che la loro vita fosse sempre così” mormorò Demi al suo ragazzo, “hanno già sofferto troppo. Ma so che non potranno essere sempre contente, e che una volta tornati alla realtà ricominceranno i problemi. Non che qui non ne abbiamo avuti, ma si ripresenteranno quelli che avevamo prima.”
“Se fosse possibile vorresti davvero restare a Eltaria, Demi? Lasciare tutto?”
Lei scosse la testa.
“No, non sto dicendo questo. Ho solo paura di tornare a casa, credo, di vivere di nuovo la vita vera. E anche se non lo dice, sono sicura che Mackenzie prova le stesse cose.”
Si strinsero le mani.
“Sei gelida!”
“Quando temo qualcosa mi si raffreddano le mani, lo sai” sussurrò lei, la voce che le tremava.
Non siete sole. Insieme siamo ancora più forti.”
Si misero in disparte e si avvicinarono pian piano, unendosi in un bacio profondo e passionale che infiammò ancor di più i loro cuori del calore dell’amore.
 
 
 
Poco dopo tutti, animali compresi, entrarono in casa. Gli amici a quattro zampe e Midnight si sparpagliarono sul tappeto e sopra il divano, giocando o rilassandosi, gli adulti si sedettero al tavolo della cucina e le bambine a quello del salotto dove Lucy, qualche giorno prima, aveva fatto i compiti. Lì presero un grande quaderno e disegnarono, un po’ a testa, un castello. Mackenzie, la più brava delle quattro, cancellò e ridisegnò alcuni punti e rifinì qualche dettaglio, poi tutte andarono dagli adulti.
“Che bel castello!” esclamò Sky.
“Ti piace? L’abbiamo disegnato insieme” rispose Lucy.
“Ah, allora è anche per questo che è fatto così bene.”
Le bambine, orgogliose dei complimenti della fata, sorrisero e la ringraziarono.
Enorme e colorato aveva due torri, una per lato, che svettavano fino al cielo, un portone decorato e un fossato. Ma il dettaglio che tutti trovarono simpaticissimo fu che anziché i coccodrilli, esso aveva dentro Tarka e Tex, le lontre viste alla gita. In fondo erano state quattro bambine a fare il disegno e avrebbero potuto spaventarsi anche solo nel sentir parlare di quelle belve feroci. Davanti al castello due elfi stavano di guardia. Indossavano una divisa verde come la natura che il bosco di Eltaria rappresentava, o perlomeno questo aveva pensato Mackenzie, che lo spiegò.
“E chi ci vive?” domandò Noah. “Un re, una principessa, o un’intera famiglia reale?”
Nessuna di loro ci aveva pensato, così ammisero che non ne avevano idea.
“So io chi.”
“Dove vai?”
Christopher fu subito accanto a Kaleia non appena la vide alzarsi.
“A casa a prendere una cosa per le bambine. Vieni con me? Possiamo lasciare qui gli animali.”
I due fecero in fretta e tornarono con in mano una bambolina a testa. Quella della ragazza rappresentava una fata e il protettore, invece, teneva un folletto vestito da cavaliere, addirittura con in mano uno scudo che sopra aveva disegnato un quadrifoglio. Le misero davanti al disegno del castello, ancora disteso sul tavolo, per usarlo come scenografia.
“Facciamo finta che siano a un ballo” disse Kia.
In effetti la ragazza indossava un vestito da sera giallo, con delle paillette sul davanti e frange attorno ai polsi. Il cavaliere era in armatura, ma non importava. Le piccole finsero che anche lui fosse elegante, benché non avessero idea di come dovessero essere vestiti i cavalieri, né in che epoca fosse ambientata quella scena. Ma i dettagli non interessavano a nessuno, trattandosi di un gioco.
Per le piccole fu più facile immaginare un’orchestra che suonava archi e fiati, mentre dame e cavalieri danzavano leggiadri. Risultò più complicato per gli adulti, che però concentrarono la loro attenzione sulle due bambole che si muovevano da sole. Non c’erano né una mano né un filo a guidarle, bensì polvere di fata, la solita sparsa nell’aria.
“Mi devo ancora abituare del tutto a vederla fluttuare.”
“Lo capiamo, Andrew. Io sono umana, ma ho sempre vissuto in questo mondo, quindi non è stato un problema, ma per chi arriva da fuori è diverso.”
Con l’aiuto di Eliza le bambine attaccarono con lo scotch il disegno al frigorifero, dopodiché Lucy propose di fare un giro in piazza. Mancava ancora tempo all’arrivo degli invitati, avrebbero potuto concedersi un’altra oretta prima di iniziare a preparare tutto, ragionarono gli adulti.
Dopo aver cambiato le piccole, dato che si erano bagnate i vestiti con la neve e li avevano sporcati gettandosi nell’erba, le due coppie si ritrovarono davanti a casa di Eliza assieme agli altri.
Mentre attraversavano il villaggio Andrew, Demi e Mackenzie si resero conto che tutti li salutavano e sorridevano loro. E in quel momento si sentirono parte di qualcosa di più grande della propria famiglia a Los Angeles o di quella che avevano costruito lì con i loro amici, capirono che tutti li consideravano membri della comunità di Eltaria. I due fidanzati si strinsero la mano, tremando per l’emozione, mentre Mackenzie sentì il suo cuoricino scaldarsi. Osservando il cielo limpido, ringraziarono in silenzio tutti gli abitanti di quel luogo per aver cambiato idea su di loro e quelli che, invece, li avevano accolti in casa propria dando a ognuno, nel tempo, tutto il loro affetto facendoli anche ambientare, e infine le altre persone che avevano conosciuto, alcune delle quali si trovavano nel loro gruppo in quel momento.
C’erano solo tre bancarelle.
“Iniziano a preparare per Notteterna” disse Kaleia. La cantante, il suo ragazzo e la figlia le lanciarono uno sguardo interrogativo. “Si tratta di una festa, che va dall’inizio della stagione in arrivo per cinque notti di fila, per celebrare l’estate che comincia. Ci sono cibo, giochi, musica e una sfilata di moda.”
“Interessantissimo, vorremmo essere qui per vederlo.”
Demi parlò a nome di tutti e quattro, credendo che anche gli altri avessero la sua stessa opinione.
“C’è già qualcosa alle bancarelle, se volete. Mancano diversi giorni al 21 giugno, ma alcuni si preparano prima per dare la possibilità ai passanti di godere già in piccola parte del festival. Venite!”
La fata li guidò verso la prima, dietro la quale stava un elfo con i capelli neri e lunghi e un’espressione sorridente.
“Ciao, Duilin.”
“Ciao, Christopher, come posso aiutarti?”
“Abbiamo alcuni amici con noi che vorrebbero vedere cosa vendi.”
“I famosi umani esaminati dalle Anziane, tutto il bosco parla di voi. Anche se siete qui da giorni, lasciate che vi dia il mio personale benvenuto in questo regno.”
Sorrise con calore e tutti gli adulti capirono che era sincero, non lessero nulla di maligno nelle sue parole. Aveva una voce melodiosa, come l’acqua cristallina di un lago. Quando cantava doveva essere bravissimo.
“Il piacere è tutto mio, Duilin.”
Demi strinse la mano che lui le porgeva, dubitando solo un momento perché non l’aveva visto allungarla e aveva temuto che tra gli elfi si usasse comportarsi in modo diverso in occasioni del genere.
Anche Andrew e Mackenzie si presentarono e l’elfo sorrise ancor di più alla piccola, salutò Hope muovendo la mano e quest’ultima ricambiò.
“Ecco qui.” Appesi ad alcune sedie vicino al banco teneva diversi palloncini, uguali a quelli che Demetria aveva gonfiato assieme alle altre. “Sono magici. Prova, cara, scoppiane uno.”
Lo passò a Mackenzie. Sopra c’era il disegno di un affascinante arcobaleno. La piccola obbedì e della polvere magica si sparse tutto attorno, in parte le finì anche addosso, ma non era come quella che vedeva sempre nell’aria, bensì dei sette colori dell’arcobaleno.
Wow!
“Bello, vero? Ora è il tuo turno.”
Da quello di Hope schizzò fuori polvere d’argento e il disegno sopra raffigurava un moto d’aria stilizzato.
“Bello!” trillò la piccola.
“Quindi questa roba che esce ricorda la figura?” chiese Demetria.
“Esatto, hai capito benissimo. I bambini si divertono un sacco con questi” rispose l’elfo.
“Sì, lo vedo.”
Le bambine stavano ancora ridendo e giocando con la polvere che avevano su mani e vestiti, mentre Lucy e Lune provavano a loro volta.
La seconda e la terza bancarella erano tenute da due gnomi uguali in tutto e per tutto, sia nel fisico capelli scuri tagliati corti, occhi color miele, stessi altezza e lineamenti del viso, ma si somigliavano anche nel modo di muoversi.
“Sono gemelli” spiegò Noah.
“Cavolo, non ne avevo mai incontrati nella mia vita prima d’ora!” esclamò Andrew, che rimase letteralmente a bocca aperta.
Incredibile che al mondo potessero esistere due persone tanto simili.
“Ciao, Boris” continuò Noah stringendogli la mano.
Dopo le presentazioni, lo gnomo offrì a ognuno un pasticcino al cioccolato, alla crema o alla marmellata a seconda dei gusti. Aveva anche qualche torta, cioccolatini di varie forme e tipi, alcuni ad Arylu, altri a Pyrados o Slimius ma anche ad altri, diversi animali del bosco e pastine. Il caldo pomeriggio aveva lasciato il posto, ormai da un po’, a una serata in cui spirava un vento fresco, per cui non c’era pericolo che i prodotti si sciogliessero o rovinassero.
“Buono” fece sapere Hope, con la bocca sporca di cioccolato.
“Sono felice che ti piaccia, piccola. Ne do volentieri un altro a tutti, prendete pure. Faccio io alcuni di questi dolci, altri invece li compro.”
La sua voce era profonda, ma non per questo sgradevole, anzi.
Anche gli altri apprezzarono e, dopo aver ringraziato, si diressero da Roderick. Faceva giochi a premi: chi vinceva ne otteneva uno. Ma doveva ancora organizzarsi e sul suo banco c’erano solo alcuni peluche.
“Se volete potete prenderne uno a testa. Ve lo do gratis” disse alle bambine.
Nessuno aveva fatto pagare loro nulla quella sera, nonostante le insistenze delle due coppie di genitori.
“Grazie, anche da parte delle mie amiche. Sei gentile” rispose Lucy.
“Sì, grazie infinite” rispose Lune, che aveva imparato solo da poco quell’ultima parola.
Orgogliosa di lei e del fato che tentasse sempre di più di parlare Isla sorrise, pregando che un giorno anche Mackenzie ci sarebbe riuscita.
Hope scelse uno Slimius, Lucy un cerbiatto, Mackenzie una lepre e Lune una marmotta, tutti con pelo o piume soffici come neve.
Demi rifletté sul giorno in cui aveva vissuto una situazione del genere nella vita reale, quando Andrew le aveva regalato il delfino con il quale dormiva nelle notti in cui lui non era con lei.
“Ne volete anche voi?”
Roderick indicò gli adulti. Non avevano pensato di prendersi un giocattolo, ma poteva essere carino, e chi aveva detto che i peluche piacevano solo ai bimbi? Andrew e Demetria scelsero due lontre, Isla e Oberon un paio di marmotte, Christopher e Kaleia due caprioli, Sky e Noah due api ed Eliza una falena.
“Mi sembra di tornare bambina!” esultò Sky.
Quando rientrarono le bambine ripresero a giocare, fuori casa, con Cosmo, Lilia e Midnight e i peluche. Gli altri animali si allontanarono, non prima di aver salutato tutti con squittii o zampate sulle ginocchia. Kaleia raccomandò loro di tornare presto: li voleva tutti alla festa e fu sicura che, in qualche modo, le volpi e gli scoiattoli avessero capito. I due Pyrados andarono a caccia. Gli adulti appoggiarono sul tavolo una tovaglia a fiori, piatti e bicchieri di plastica ancora impilati e il cibo in appositi contenitori coperti con dei tovaglioli e le bibite al centro. Misero a punto molti altri dettagli e, quando tutto fu pronto, guardarono entusiasti il loro lavoro. Con grande sorpresa dei due fidanzati umani, Eliza aveva collegato una radio a una presa di corrente esterna alla casa in modo che anche la musica, oltre alle conversazioni e alle risate, allietasse quella serata.
“C’è una stazione in cui fanno solo walzer, walzer lenti, mazzurche, polche e tanghi” spiegò. “E anche se non tutti sapranno ballarli non importa. Fate ciò che riuscite e non vergognatevi. Divertiamoci!” trillò facendo sorridere tutti.
“Non credevamo aveste una radio, qui” considerò Andrew, “ma siamo felici che la musica faccia parte anche del vostro mondo.”
Dopo una cena frugale, nella quale mangiarono poco per poi servirsi al buffet, tutti si sedettero sul divano ad aspettare per festeggiare in compagnia.
 
 
 
 
CREDITS:
Sting, Deep In The Meadow
 
 
 
NOTA:
Emmastory ha fornito tutte le informazioni di dog training. Anni fa se n’è appassionata guardando It’s Me Or The Dog, un programma televisivo in cui un’istruttrice dava utilissimi consigli. Si chiama Victoria Stilwell, è britannica e ha scritto dei libri sull’argomento. Collabora anche con i gruppi di soccorso e adozione di tutto il mondo e sostiene il Wisconsin Puppy Mill Project, per incrementare la consapevolezza della crudeltà nascosta dietro gli allevamenti di cani a solo scopo di lucro. Ha fatto anche da volontaria per la ASPCA, un acronimo che sta per American Society for The Prevention of Cruelty to Animals, o Associazione Americana per La Prevenzione della Crudeltà sugli Animali. In più ha un blog e offre dei corsi per persone che vogliono fare il suo stesso lavoro o anche solo condividere la filosofia della donna, priva di forza e coercizione.

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Capitolo 33
*** Festa ***


CAPITOLO 33.

 

FESTA

 
Marisa fu la prima ad arrivare. Si spostarono tutti fuori, sotto il gazebo, e la ragazza si avvicinò a Demi.
“Ciao.”
La salutò in un bisbiglio e sollevò un po’ la gonna blu che portava, troppo lunga per lei dato che le arrivava poco oltre i piedi.
“Ciao, Marisa. Come va?”
“Bene, grazie. E tu come stai?”
“Ho passato un bellissimo pomeriggio.”
“Mi fa piacere.”
Tra le due cadde un pesante silenzio: non si conoscevano molto e, dopo la loro discussione su Willow, era difficile per entrambe trovare un argomento di conversazione. La cantante si sfregò una mano sui pantaloni corti e arrossì, mentre la strega si schiariva la voce.
“Demetria, volevo dirti che so che non hai una buonissima opinione di me per quanto riguarda la gatta e il modo in cui mi sono comportata. Come ti spiegavo avrei dovuto capire meglio, ho sbagliato e mi sono data tante volte la colpa delle sue sofferenze, e…”
“No, aspetta.” In uno slancio di qualcosa di simile all’affetto, ma che non riuscì a identificare, Demetria le prese la mano frenando quel fiume di parole. “Non ce l’ho con te, non più. È vero, tutta la situazione mi è sembrata particolare e sì, forse avresti potuto fare di più, ma alla fine hai agito come potevi in base a quello che notavi. E non è colpa tua, ma di… beh, lo sai.”
Non riusciva neanche a dire quel nome, Zaria, che tra l’altro trovava bruttissimo, cattivo un po’ come lei o, meglio, come la strega che Demi si era figurata sentendo la storia di Willow. Chi fa del male agli animali non può essere una persona gentile, pensava.
“Sì, lo so benissimo e mi vergogno al posto suo per quello che ha fatto.”
La voce le si spezzò e la stretta di Demi aumentò. La ragazza prese ad accarezzarle il viso con l’altra mano e la strega non si sottrasse a quel contatto.
“Ascolta, non voglio più parlare male di tua madre. Ha sbagliato, ma so che nonostante il vostro rapporto difficile le vuoi bene e non è mia intenzione ferirti con parole cattive su una donna che sì, ha commesso a mio avviso errori enormi, ma che neanche conosco.”
“Non preoccuparti, se le merita, ma grazie.”
Marisa le sorrise e rilassò i muscoli.
“Tu sei una persona dolcissima e gentile, le mie figlie con te si trovano bene e voglio che non ci siano dissapori tra me e te. Non desidero che tu pensi che sia ancora così, perché ti assicuro che è tutto il contrario.”
“Allora ogni cosa è sistemata?”
Marisa si asciugò sulla gonna una mano sudata.
“Ma certo.”
Si diedero il cinque e la strega ritrovò il sorriso e l’allegria. Si avvicinò a Kaleia.
“Demetria, tua figlia disegna bene. Non era un castello perfetto, ma anche se si trattava di uno schizzo si vede che ci ha messo impegno per renderlo il più realistico possibile.”
“Grazie, Sky. Ogni tanto la psicologa mi mostra i disegni che fa quando è da lei: la sua vecchia casa, i genitori, una pistola” spiegò, mesta.
“Tutti segni del trauma, immagino.”
“Esatto. Il che è positivo perché significa che riesce a buttar fuori quello che prova, ma vorrei anche che si sbizzarrisse con qualcosa di più felice, che fosse più spesso serena.”
“Questo è il desiderio di tutte le mamme” intervenne Isla.
“E non solo” disse Oberon.
“Inoltre, viste le cose brutte che ha passato, è normale che tu la pensi in questo modo. Le hai mai chiesto se le piacerebbe disegnare, che ne so, il vostro cane o il gatto?”
“No, Eliza. Dovrei provare a spronarla? Ci ho pensato, ma non vorrei mai forzarla a fare qualcosa che non si sente.”
“Potremmo spiegarle che deve farlo solo se vuole.” Andrew si unì alla conversazione. “In questo modo, se a casa vorrà disegnare , proverà a farlo seguendo uno dei nostri suggerimenti e si troverà bene, potrebbe sentirsi meglio e magari parlare anche di questo con Catherine.”
Era una possibilità alla quale né lui né la ragazza avevano mai pensato e affatto una cattiva idea, anzi. Forse il disegno avrebbe potuto aiutarla, almeno un po’, più di quanto facevano le parole che scriveva per sfogarsi. Del resto aveva solo sei anni.
“Grazie, ragazzi. Gliene parleremo sicuramente e faremo presente questo suggerimento anche alla psicologa per sapere che ne pensa” asserì la cantante.
Le bambine, rimaste fuori dal gazebo a giocare con gli animali, anche con quelli che intanto erano tornati, corsero dentro come quattro piccoli tornado.
“Mamma, mamma!” esclamarono Lucy, Hope e Lune.
“Calmatevi, che c’è?” chiese Isla, ma fu Mackenzie a rispondere.
Ci sono Carlos e Aster. Quando arriveranno Mahel, Harmony e i loro genitori? Io voglio vederle.
Mentre Eliza andava incontro agli ospiti, Demi scompigliò i capelli della figlia.
“Sono le otto e mezza, saranno qui a momenti.”
“Hola a todos.” Carlos fece il suo ingresso utilizzando il solito spagnolo. “Come state?”
Dopo i saluti, Mackenzie gli si avvicinò.
Devo chiamarti Mister Ramirez o Carlos? Sei ancora il mio maestro anche se siamo a questa festa, giusto?
La mamma le aveva sempre insegnato a non mancare di rispetto a nessuno e non voleva farlo con un insegnante.
L’uomo rise piano.
“Tranquilla, Mac, per stasera chiamami soltanto Carlos e potranno fare così anche Mahel e Harmony.”
La bambina lo abbracciò e lui ricambiò con affetto.
Poco dopo si precipitò fuori a salutare le sue amichette e i loro genitori, che andarono subito a presentarsi ad Andrew e Demi. Le figlie erano la loro copia sputata. La prima cosa che la cantante notò dei genitori di Harmony fu che erano davvero alti per gli standard umani, arrivavano di sicuro al metro e novanta. Non che nel mondo da dove veniva lei non ci fosse gente di quell’altezza, ma di certo non era così frequente vederne. La donna le strinse la mano con un gesto delicato.
“Harmony parla ogni giorno di Mackenzie, sai? Da quando l’ha conosciuta è diventata importantissima per lei” le disse la donna.
“Ne sono felice. Anche mia figlia mi racconta ogni giorno quello che succede a scuola e ciò che fa con le compagne.”
Il padre di Mahel, un folletto del vento dalla voce grave, affermò:
“Mia figlia in questi giorni chiede di continuo:
“Sapete che cos’hanno fatto Mackenzie e Harmony?”
O dice:
“Vorrei essere come Mackenzie perché lei disegna benissimo ed è brava.”
Quindi non vedevamo l’ora di conoscerla.”
Andrew li ringraziò.
Intanto, Aster si stava avvicinando al buffet e prese un tramezzino. Gli altri la imitarono e, a uno a uno, si riempirono un piatto di panini, tartine, salatini o un bicchiere di patatine o arachidi salate, per poi accomodarsi sulle sedie disposte lì vicino. Le bambine ora rimanevano in silenzio, con la bocca troppo piena di cibo per parlare, in parte affamate e in parte golose di tutte quelle leccornie. Demi aveva spezzato un tramezzino al prosciutto e funghi e una tartina al tonno a Hope, per darle altro cibo che invece la piccola non aveva problemi a mangiare così com’era.
“La frutta è buona, ma questo è meglio” asserì Aster.
“Ogni tanto allora ce ne faremo dare , se ti piace, mi amor.”
“Da chi?”
“Da Christopher, per esempio. O da Eliza.”
La ninfa sorrise.
“Che c’è, Red?” Christopher si abbassò per accarezzarlo, capì e, tolto del prosciutto dal suo panino, glielo gettò a terra. “Ecco qui.”
Questi lo divorò, poi fu il turno di Anya e dei piccoli. Anche Bucky si fece avanti e Kaleia gli diede alcune arachidi che distribuì alla sua famiglia, ricevendo squittii felici in risposta. Midnight becchettava le briciole che cadevano a terra e ringraziava tutti con il suo canto melodioso. Ranger, invece, non aveva fame, a quanto pareva aveva già cenato e Willow ottenne del tonno in scatola da Eliza. Nessuno di quegli animali mangiava cibi del genere in natura, ma essendo in parte addomesticati a volte i padroni concedevano loro alcune chicche, senza mai esagerare.
“Vogliono festeggiare anche loro, eh?” commentò Andrew.
“Giustamente, li abbiamo invitati” rispose Sky.
Le conversazioni ripresero, e il folto gruppo rimase unito. Kaleia, nel frattempo, si avvicinò per riempirsi il piatto per la seconda volta. Quando Christopher la guardò, lei affermò:
“È colpa del bambino, in un certo senso. Mangio per due.”
Demi rise.
“Tranquilla, Kia, basta non esagerare. E comunque anch’io non riesco a resistere ai buffet, anzi, se dopo segue un pranzo o una cena devo stare attenta a non mangiare troppo al rinfresco.”
“Cantiamo qualcosa, che dici?” propose Andrew alla fidanzata. “Una io e una tu.”
Lei annuì, si alzarono e, non appena lo fecero sapere agli altri, tutti smisero di parlare e mangiare.
“Io vorrei cantare una canzone di Ed Sheeran. La dedico alla mia ragazza, alla nostra coppia, ma anche a tutti gli innamorati qui presenti.”
Demi arrossì e seguì un applauso, poi cadde un silenzio totale. Anche gli animali, rimasti dentro il gazebo, puntarono come gli altri i loro sguardi sull’uomo.
Andrew trasse un respiro profondo.
I found a love for me
Darling just dive right in
And follow my lead
Well I found a girl beautiful and sweet
I never knew you were the someone waiting for me
'Cause we were just kids when we fell in love
Not knowing what it was
I will not give you up this time
But darling, just kiss me slow, your heart is all I own
And in your eyes you're holding mine
 
Baby, I'm dancing in the dark with you between my arms
Barefoot on the grass, listening to our favorite song
When you said you looked a mess, I whispered underneath my breath
But you heard it, darling, you look perfect tonight
 
Well I found a woman, stronger than anyone I know
She shares my dreams, I hope that someday I'll share her home
I found a love, to carry more than just my secrets
To carry love, to carry children of our own
[…]
La voce di Andrew scaldò il cuore di ognuno e l’applauso che ne seguì dopo la traduzione che ne diede durò per qualche minuto.
“Bravo!” esclamava qualcuno, mentre gli uomini fischiavano.
“Come sei romantico” commentò Aster.
Demi lo prese da parte e lo baciò con lentezza, approfondendo quel contatto al massimo per goderselo a pieno, mentre le loro anime e i loro cuori si univano più di quanto avessero già fatto. Quella canzone era speciale per lui e Demetria, l’uomo lo sapeva e per questo l’aveva scelta. Gliel’aveva cantata poco tempo addietro: durante un weekend trascorso da soli al lago Tahoe, avevano fatto per la prima volta l’amore, un momento magico per entrambi che però avevano deciso di non ripetere fino al giorno in cui, non sapevano ancora quando, si sarebbero uniti in matrimonio.
“Sai che ti amo più della mia stessa vita, vero, amore mio?”
La voce di Demi, più dolce del solito, tremò nel porre quella domanda non perché avesse paura della risposta, dato che già la conosceva, ma a causa dell’emozione. Anche le sue mani non riuscivano a star ferme.
“Lo so, piccola, ti amo anche io più di me stesso e lo farò per sempre.”
Le accarezzò una guancia in un gesto lento e delicato e lei gli si strinse ancora di più addosso, sfiorandogli il collo con le punte delle dita. Entrambi rabbrividirono di piacere e per poco non si lasciarono sfuggire un gemito. Decisero di tornare dal loro gruppo di amici e conoscenti.
“Visto che il mio ragazzo mi ha fatto un regalo del genere, dedico la seguente canzone a lui e, anche in questo caso, a tutte le coppie che si trovano qui. Preciso che non è mia, ma di Taylor Swift.”
La ragazza si godette fino in fondo lo scroscio di applausi, persino più forte di quello riservato ad Andrew, perché molti dei presenti sapevano già che era brava e non vedevano l’ora di risentirla.
Demi ascoltò per qualche secondo i grilli riempire il bosco con il loro canto e respirò a pieni polmoni.
I say remember this moment
In the back of my mind
The time we stood with our shaking hands
The crowds in stands went wild
We were the kings and the queens
And they read of our names
The night you danced like you knew our lives
Would never be the same
You held your head like a hero
On a history book page
It was the end of a decade
But the start of an age
 
Long live the walls we crashed through
All the kingdom lights shined just for me and you
I was screaming, "long live all the magic we made"
And bring on all the pretenders
One day we will be remembered
 
I said remember this feeling
I passed the pictures around
Of all the years that we stood there on the sidelines
Wishing for right now
We are the kings and the queens
You traded your baseball cap for a crown
When they gave us our trophies
And we held them up for our town
And the cynics were outraged
Screaming, "this is absurd"
'Cause for a moment a band of thieves in ripped up jeans got to rule the world
[…]
Dopo un secondo applauso e tantissimi complimenti, la ragazza tornò al suo posto. Eliza allora accese la radio e le note di un walzer lento riempirono l’aria. Gli uomini presero le loro compagne sottobraccio e le portarono fuori dal gazebo, dove c’era più spazio, e iniziarono a ballare. Demi e Andrew erano i più bravi, soprattutto perché lei si muoveva benissimo, altri invece faticarono e, a parte seguire il ritmo, fecero passi a caso. Tuttavia, come aveva detto Eliza, non importò a nessuno.
“Ti spiace se vado a chiederle di ballare?” domandò Andrew alla fidanzata. “Non ha nessuno.”
“No, figurati.”
Anzi, trovò gentile da parte del suo ragazzo preoccuparsi per Eliza, che dopo un po’ di indecisione accettò.
Le coppie poterono baciarsi senza problemi. Le bambine erano entrate per giocare all’inizio dei balli e gli animali si erano sparpagliati lì intorno.
 
 
 
Ottenuto il permesso dei genitori, le sei piccole si buttarono sul tappeto e si lanciarono alcuni cuscini presi dal divano. Per fortuna non avevano cerniere, quindi non c’era pericolo che finissero loro negli occhi rischiando di rovinarli. Non si erano parlate un granché, ma ai bambini di quell’età a volte basta poco per conoscersi e trovarsi bene gli uni con gli altri.
I draghi e gli Arylu di Mackenzie, Hope, Lucy e Lune erano scappati in cucina, lontani da quelle piccole furie che lanciavano cuscini a destra e a manca, mentre le altre due bambine avevano lasciato i loro animali a casa.
“Avrei voluto farvi conoscere Vulcan.” Mahel riprese fiato. “Ma la mamma ha detto che non è carino presentarsi a casa di una persona con il tuo animale senza chiedere se puoi o no e lei si era dimenticata di domandarlo, perciò…”
“Idem” si limitò a mormorare Harmony.
“Li vedremo un’altra volta” le rassicurò Lune con la sua voce vellutata. “S-sono belli?”
Molto, io li ho visti entrambi a scuola scrisse Mackenzie.
“E tengono compagnia” assicurò Mahel.
“Già, come tutti i famigli” intervenne Harmony.
“Vulcan immagino sia un Pyrados, ma Kermit?” domandò Lucy, curiosa.
“Uno Slimius.”
La proprietaria sorrise, fiera di lui e di quella scelta.
“Non voglio offendere nessuno, ma posso chiederti come mai hai preso uno di quei cosi bavosi?”
“Il fatto è, Lucy, che mi sono sempre piaciuti quei rospetti e non ho visto l’ora di averne uno tutto mio.”
“Giochiamo?” domandò Hope, con la sua solita dolcezza.
“Sì, sì! Giochiamo, per favore?” le fece eco Lune.
Se le più grandi, ormai, avevano un’età in cui piaceva loro parlare per conoscersi oltre che giocare, le minori preferivano divertirsi.
“Va bene, facciamo in questo modo adesso.” Harmony si alzò e si schiarì la voce. “Ci divideremo in due squadre. Io, se non vi dispiace, starò con Mackenzie e Lune, e ci metteremo una squadra da una parte e l’altra da quella opposta del salotto. Ci lanceremo i cuscini e chi verrà colpito sarà eliminato. Vince chi riesce a far fuori per primo tutti i componenti dell’altra squadra. Non ci si colpisce in testa o sul viso.”
Le altre approvarono, anche Hope benché non fosse riuscita a capire l’intero discorso.
Le bambine si divisero in fretta. Fu Mackenzie la prima a colpire piano, mirò alle gambe della sorellina. Hope non barcollò appena.
“Brava, piccola!” esclamò Mahel alla sua compagna, lanciò un cuscino verso Harmony e questa finì a terra. “Sei eliminata.”
Le altre due bambine risero con lei e l’elfa, alzandosi con uno sbuffo, andò in cucina dove cagnolini e draghetti stavano correndo, svolazzando ed emettevano piccoli ruggiti o ringhi a seconda della specie. Si sedette al tavolo e guardò il gioco. Lune cercò di attaccare Mahel, ma questa si gettò in avanti e schivò il colpo. Fu il turno di Mac di non essere presa proprio dalla fata del vento, perché riuscì a scartare di lato. Dopo un po’, però, Lucy prese Mahel al fianco e la mandò fuori gioco perché questa si sbilanciò e scivolò.
“Ce l’avete con me” dichiarò, facendo finta di lamentarsi.
Quando ruzzolò a terra, tuttavia, scoppiò a ridere sentendosi una sciocca e con lei tutte le altre, anche quelle della sua squadra, vedendo che l’aveva presa bene. Mackenzie ricevette un colpo sulla schiena, non capì da chi. Essere colpite non faceva male a nessuna delle piccole, ma a volte le coglieva di sorpresa e sobbalzavano per lo spavento, soprattutto se le cuscinate arrivavano alle spalle. Alla fine furono Lune e Hope a rimanere ancora in gara. Nonostante la giovanissima età, erano state più forti di quanto le altre si sarebbero aspettate, avevano allargato le gambe per non cadere o schivato i colpi con più velocità delle compagne.
“Caspita, ci sanno fare” commentò Lucy.
Hope lanciò un cuscino verso Lune, questa provò ad andare indietro, ma colpì il divano con la gamba e non riuscì a fare un’altra mossa perché l’oggetto la prese sullo stomaco.
“Vinto, vinto!” La bambina batté le manine e corse ad abbracciare Lucy e Mahel. “Vinto!” ripeté, come se le altre non avessero capito.
“Bravissima, sei stata grande” si complimentarono le sue amiche, ma le maggiori decisero che la vittoria apparteneva a tutte e sei perché l’importante era stato divertirsi.
Tornarono fuori a mangiare e bere per riprendersi dalla fatica e raccontare ogni cosa ai genitori e si precipitarono di nuovo dentro con in braccio ognuna un cucciolo di Bucky e Darlene, mentre i due scoiattoli adulti le osservavano dalla finestra.
Sono troppo carini, vero? chiese Mackenzie, sentendo il cuore sciogliersi per la tenerezza.
“Dolcissimi, sì” concordò Mahel. “Spesso ho visto i cuccioli di scoiattolo, toccato qualche adulto ma un piccolo mai, è la prima volta e per questo oggi è un giorno importante.”
“Cosa facciamo adesso?” domandò Lune, impaziente di iniziare un’altra attività.
Decisero di guardare i cartoni.
 
 
 
Mentre gli animali correvano, si inseguivano e ogni tanto piluccavano dal buffet grazie alla generosità delle persone, i presenti alla festa non smettevano di ballare. Si fermarono solo per ascoltare le bambine parlare dei loro giochi, ma quando queste tornarono dentro ripresero. A Demi sarebbe piaciuto che tutte e sei passassero più tempo all’aria aperta, ma si rendeva anche conto che per delle bimbe della loro età doveva risultare noioso ascoltare walzer e altri balli del genere. Quando erano uscite avevano mosso qualche incerto passo, ma forse perché a loro non piaceva o perché il ritmo non le prendeva erano sparite di nuovo all’interno. Eliza, un po’ discosta dagli altri, le guardava da fuori facendo attenzione che non si ferissero o non rompessero nulla, ma anche i genitori si giravano spesso.
“Demi, perché non ci fai sentire qualcos’altro? Una tua canzone, magari. So che sei una cantante, mia figlia me l’ha detto” commentò la mamma di Mahel, versandosi dell’acqua.
“Sempre se non ti stanca” intervenne Sky. “Questa è una festa anche per te.”
“Non è un problema, lo faccio volentieri. Non mi sembra di lavorare, giuro. Se volete io posso cantare e voi ballare seguendo il ritmo” propose la ragazza.
Tutti accettarono. Andrew prese sottobraccio Eliza per fare coppia con qualcuno.
“Le bambine stanno vedendo la televisione, non dovrebbe succedere niente” spiegò la donna, ma tutti i genitori si voltarono verso la finestra.
Era vero, si trovavano sul divano e sembravano tranquille, anche se soprattutto con le più piccole non si poteva mai sapere.
“Possiamo fidarci a distrarci per qualche minuto?” chiese Isla dando voce alla domanda che si ponevano tutti, ma quando il marito la rassicurò si sentì più calma.
“In questi giorni ho cantato parecchio. Ovvio, le canzoni sarebbero più belle con la base sotto, ma farò del mio meglio” promise Demetria.
“Siamo sicuri che andrai benissimo, cara” disse Carlos.
Le coppie erano lì, in attesa di cominciare, e lei doveva ancora scegliere cosa far sentire.
Fantastico!
Eccola, quella era la canzone perfetta. Sì, visto il contesto non ne trovò una migliore. Non era la più bella che aveva cantato, ma le piaceva e sperò che anche gli altri la apprezzassero e soprattutto che riuscissero a ballarla in qualche modo.
When your soul finds the soul
It was waiting for
When someone walks into your heart
Through an open door
When your hand finds the hand
It was meant to hold
Don't let go
Someone comes into your world
Suddenly, your world has changed forever
 
No, there's no one else's eyes
That can see into me
No one else's arms can lift
Lift me up so high
Your love lifts me out of time
And you know my heart by heart
 
When you're one with the one
You were meant to find
Everything falls in place
All the stars align
When you're touched by the cloud
That has touched your soul
Don't let go
Someone comes into your life
It's like they've been in your life forever
[…]
La sua voce, delicata e grave all’inizio, si alzò durante il ritornello aumentando anche di potenza. Non capirono prima che lei traducesse, ma molti rabbrividirono nel sentire quella ragazza che cantava come un angelo che qualcuno, da lassù, pareva aver mandato apposta per loro. Le madri di Mahel e Harmony, con gli occhi lucidi, corsero ad abbracciarla, Kaleia scoppiò in singhiozzi forse anche a causa degli ormoni e tutti continuarono a complimentarsi come ormai era consuetudine.
“Grazie, ragazzi. Soprattutto perché voi apprezzate tanto che io lo faccia, quando invece io sono convinta di poter sempre migliorare e, a volte, penso di non impegnarmi quanto dovrei.” Demi bevve qualche sorso d’acqua. “Non so quanto ancora io e la mia famiglia resteremo qui, ma volevo ringraziare tutti, anche quelli che ho conosciuto solo stasera, per i bei momenti o giorni che abbiamo trascorso assieme.”
Tossì più volte e i suoi occhi si riempirono di lacrime annebbiandole la vista, mentre la gola le si seccò all’improvviso.
“Sì, un grazie è anche poco” proseguì Andrew con un filo di voce. “Non dimenticheremo mai quest’esperienza e, chissà, forse un giorno torneremo.”
“Cosa vi costringe ad andarvene?” domandò la mamma di Mahel.
I due spiegarono ogni cosa a partire dalla sera del martedì in cui si erano addormentati a casa fino al sogno di Mackenzie che ancora stavano vivendo. Chi non ne era a conoscenza fu sconvolto.
“Accidenti, è una cosa incredibile!” esclamò Oberon.
“Non immagini quanto lo sia stato per noi. In ogni caso io, Demi e le bambine stiamo vivendo tutto questo come se fosse comunque reale.”
“Quindi non sapete quando vi sveglierete” commentò Aster.
“Esatto. Ma speriamo sia il più tardi possibile” disse Demetria.
Dopo qualche minuto di silenzio, Andrew parlò ancora e cercò di cambiare argomento.
“Notteterna è molto famosa, qui?”
“Sì, ci vengono un sacco di persone” asserì Marisa. “Tutti amano questo festival e lo aspettano con trepidazione. Da voi c’è una cosa del genere?”
“Ci sono fiere nei paesi o nelle città, di tante cose diverse” spiegò Demi. “Una volta io e Andrew siamo andati a quella del cioccolato nel centro di Los Angeles.”
Raccontò che la città in cui abitavano aveva un clima mite anche d’inverno, benché ogni tanto facesse più freddo e nevicasse ed era proprio in quelle occasioni che qualche fiera del cioccolato veniva organizzata all’aperto, altrimenti ce n’erano ma al chiuso. A tredici anni ci era andata con il suo migliore amico e le rispettive famiglie.
“E com’è stato? Racconta” la incalzò Noah, curiosissimo come gli altri.
Lei sorrise.
“C’erano solo quattro o cinque centimetri di neve, ma era suggestivo camminare sulle strade ancora bianche mentre questa continuava a scendere. Abbiamo visto alcune bancarelle che vendevano cioccolato di tutti i tipi: al latte, fondente, alle nocciole, ma anche al peperoncino, all’arancia e al caffè. Io ho provato un po’ di tutto, ma quella al peperoncino è stata orribile, così come l’altra all’arancia. Mai più!”
Tutti risero.
“Ma per il resto non è stata affatto male” continuò il suo ragazzo. “Siamo tornati a casa con una borsa a testa di cioccolato e cioccolatini e ne avevano una anche le nostre sorelle. L’unica pecca era il prezzo: tutto troppo caro. Per il resto, la fiera è stata ben organizzata e non c’era troppa gente.”
“Noah!” trillò Sky battendo le mani. “So dove dobbiamo andare quest’anno. Ci sarà qualcosa di simile a Eltaria, no?”
L’umano scoppiò a ridere.
“Credo di sì, amore. Mi informerò.”
“Porti anche me?” piagnucolò Kaleia all’orecchio di Christopher. “Il bambino ne ha già voglia.”
Lui la baciò su una guancia.
“Se c’è, di sicuro.”
“Anch’io voglio andarci!” asserì Aster.
“Per te questo e altro, querida.”
 
 
 
“Ho iniziato a leggere un romanzo, in questi giorni” fece sapere Sky.
Tu, un romanzo? Ma stai bene?”
La maggiore diede alla sorella un colpetto scherzoso sul braccio e, offesa, si difese:
“Ehi! Guarda che anche se apprezzo i libri di magia più di tutti, non disdegno la narrativa. I romanzi d’amore, se ben scritti, possono essere gradevoli da leggere.”
“Concordo” disse Demi. “A me piacciono, anche se da un po’ mi sto avvicinando al fantasy e devo ancora capire se lo apprezzo o meno.”
Le tre ragazze parlarono dei loro libri preferiti, delle trame, degli stili di scrittura, di ciò che apprezzavano o meno in un romanzo.
“Mi piacciono i libri nei quali tematiche delicate vengono trattate con attenzione e tatto, cosa che purtroppo spesso non succede.”
Soprattutto nelle fanfiction pensò la cantante dopo aver pronunciato quelle parole, ma non lo disse perché altrimenti, ne era sicura, sarebbero arrivate a parlare di nuovo della saga, mentre lei voleva continuare a considerare tutti i suoi personaggi come persone reali.
In fondo nel sogno poteva toccarle, parlarci, sentire il loro profumo, come avrebbe fatto nel mondo reale e temeva che Sky e Kaleia si sarebbero offese se avesse parlato di loro come di due fate di una saga.
“Vero, in alcuni libri se ne parla in maniera superficiale, o scherzandoci su” disse Kaleia.
“O dando addirittura informazioni errate, che è la cosa che odio di più” aggiunse Sky.
“Già, e che ne dite dei cliché? Intendo, tutte quelle idee trite e ritrite?”
Comprendendo, le due fate fecero una faccia schifata.
“Sono belli se usati bene, se si riesce a trasformarli prendendo un’idea già vista e aggiungendo qualcosa di originale, ma bisogna farlo con attenzione” disse Sky e le due furono d’accordo.
“Esatto; e, almeno sulla terra, questo spesso non avviene.”
 
 
 
Era ormai mezzanotte e le bambine iniziavano a essere stanche. Hope e Lune, abituate ad andare a letto ancora prima delle sorelle, cominciavano a sbadigliare, ma resistevano al sonno per rimanere più tempo possibile con le compagne.
“Torniamo fuori?” Harmony abbassò lo sguardo. “Tra un po’ sarà ora di andare a casa, immagino.”
Mackenzie aveva raccontato la storia del sogno a tutte loro e adesso ognuna delle sei temeva che sarebbe potuto finire da un momento all’altro.
“Che… che dobbiamo fare?”
Incerta, Lucy non sapeva se abbracciare Hope e Mackenzie e dire loro addio o aspettare. Se quella notte Mac si fosse svegliata, il giorno dopo non si sarebbero viste e non avrebbero avuto la possibilità di salutarsi, pentendosi per sempre di non essersi mosse prima. O magari le bambine sarebbero rimaste lì ancora diversi giorni, o settimane, o mesi, chi lo sapeva? Come reagire, allora? Tutte avevano gli occhietti pieni di lacrime, anche Hope che aveva capito solo in parte, ma nessuna muoveva un muscolo.
Mackenzie fece sobbalzare tutte quando si alzò. In quel momento, come se sentissero che arrivava qualcosa di importante, gli animali che erano fuori grattarono o lanciarono richiami per entrare. Poco dopo il salotto era pieno di Arylu, una gatta, scoiattoli, volpi, Pyrados e uccelli che si misero tutti intorno alle bambine le quali ora, in piedi, guardavano la loro compagna in attesa. Che Mac avesse sentito che si stava svegliando? Che quelli fossero i loro ultimi momenti insieme? Ma perché non scriveva niente? Forse non poteva, se il sogno stava finendo. Ma proprio quando Lucy si avvicinò per abbracciarla tracciò, con mani tremanti, scritte sul suo block notes.
La bambina prese le mani delle compagne dopo aver poggiato il quadernino sul divano, dove le più grandi lessero ad alta voce:
Facciamoci una promessa. Promettiamo che niente e nessuno ci separerà mai, nemmeno il mio risveglio o il fatto che, quando sarò nel mio mondo, avremo vite diverse. Promettiamo di non dimenticarci e che un giorno ci ritroveremo.
Le mani delle sei bambine si strinsero di più, mentre i loro cuoricini battevano forte come non avevano mai fatto nella loro vita. Non riuscivano nemmeno a capire cosa stavano provando, era un misto di gioia per quella promessa e per il loro legame, tristezza per ciò che, prima o poi, sarebbe accaduto e anche ansia perché non sapevano quando sarebbe successo. Tremavano loro gambe e braccia, tanto che faticavano a stare ferme.
“Sì, sì, sì, promettiamocelo!” esclamò Lucy, quella che si lasciava prendere dall’eccitazione più di tutte.
“Vicine o lontane, rimarremo sempre insieme” proseguì Harmony in tono solenne.
“E anche se alcune di noi si conoscono poco, saremo comunque amiche e ci vorremo sempre bene” concluse Mahel.
A volte i bambini considerano amici altri bimbi che conoscono da pochi minuti o da qualche ora, come nel loro caso. Dovevano ancora capire che quando si cresce le cose sono diverse.
“Promesso.”
Hope e Lune lo urlarono insieme. Tutte le piccole si spostarono per formare un cerchio, non lasciandosi mai le mani. Quella era una promessa importante. Si trattava di un giuramento di sei bambine, di sei amiche, con gli occhi e il cuore pieni di sogni e un sorriso radioso sul volto e che nulla, nemmeno i dolori passati, presenti e futuri, neanche la vita con le sue batoste e delusioni sarebbe mai stata in grado di rompere.
 
 
 
CREDITS:
Ed Sheeran, Perfect
Taylor Swift, Long Live
Demi Lovato, Heart By Heart
 
 
 
 
 
 
 
NOTA:
la fiera del cioccolato è inventata. Ho letto di alcuni eventi a Los Angeles ma non ho trovato alcun dettaglio che spiegasse com’erano organizzati, c’erano solo le date e il luogo, quindi abbiamo inventato qualcosa di plausibile.

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Capitolo 34
*** Un sogno che non s'infrange ***


Here we are now
Everything's about to change
We face tomorrow
As we say goodbye to yesterday
A chapter ending
But the story's only just begun
A page is turning for everyone
 
So, I’m moving on, letting go
Holding onto tomorrow
Oh, I’ve always got the memories
While I’m finding out who I’m gonna be
We might be apart
But I hope you always know
You’ll be with me
Wherever I go
Wherever I go
[…]
It's time to show the world
We’ve got something to say
A song to sing out loud
We’ll never fade away
I know I’ll miss you
But we’ll meet again someday
We’ll never fade away
(Miley Cyrus ft. Emily Osment, Wherever I Go)
 
 
 

CAPITOLO 34.

 

UN SOGNO CHE NON S’INFRANGE

 
Quando gli adulti entrarono trovarono le bambine ancora in cerchio, con gli animali attorno a loro. Smisero subito di parlare, felici nel notare i sorrisi angelici che illuminavano i loro volti.
“Mamma!” esclamò Hope, ma non si mosse.
“Ciao, che state facendo?”
La ragazza lo chiese piano, temendo di interrompere un momento magico.
“Una promessa di amicizia importantissima” rispose Mahel.
La cantante sorrise e si ricordò di quando aveva fatto una cosa del genere con Selena, da bambina.
Le piccole sciolsero il cerchio e, mentre gli animali si sparpagliavano per la casa, gli adulti pensarono a cosa fare. Era tardi e sarebbero dovuti andare a letto soprattutto per le piccole, ma nessuno di loro aveva sonno. Eliza propose di bere un tè tutti assieme, così allungarono il tavolo della sala da pranzo e molti si sedettero lì, ma non c’era abbastanza posto e alcuni si misero in cucina.
“Andrew, ¿estás bien?”
A Carlos sembrava strano, assente, quando per tutta la serata aveva chiacchierato con lui e gli altri senza difficoltà.
L’uomo trasse un profondo respiro.
“Credo di sì.”
Si sentiva intontito, assonnato, ma desiderava anche chiudere e riaprire subito gli occhi. La testa ragionava e pensava al rallentatore e doveva sforzarsi per restare concentrato.
Demi provava le stesse sensazioni.
“A che pensi?” le domandò Aster.
Loro due erano in cucina con le figlie di lei e pochi altri, mentre Andrew si trovava in salotto.
“Non lo so, a niente” bofonchiò. “Sono solo un po’ confusa, ma non capisco perché.”
La ninfa le poggiò una mano sulla spalla, poi le prese la sua.
“Riesci a dormire? Forse sei solo stanca.”
Demi sorrise.
“Grazie per la preoccupazione, Aster, ma qui sto dormendo meglio che a casa mia.”
Tutti bevvero il tè in un silenzio quasi assoluto, ma a un certo punto Mackenzie mise giù la sua tazza e si strofinò gli occhi. Anche Hope, che beveva piano dalla sua tazzina di plastica, fece lo stesso.
“Piccole, tutto bene?” domandò loro Sky, ma nessuna delle due rispose.
Come i genitori, anche loro non stavano bene e da quando si erano sedute a tavola girava loro la testa. Che stava succedendo?
“Forse sono tristi” suggerì Kaleia. “Bambine, che c’è?”
Ancora niente.
Gli adulti iniziavano a preoccuparsi. Perché non rispondevano? Stavano forse per svenire? Chi era in salotto entrò in cucina.
“Mac, parlaci, dicci qualcosa!” insistette Lucy alzando il tono di parecchie ottave.
Non… non so cosa c’è, ma non mi sento bene riuscì a scrivere infine con la mano che le tremava e Hope, capendo, annuì.
Non era mai capitato loro di sentirsi così da quando erano arrivate.
“So io cos‘è.” Eliza si avvicinò alle piccole, alzando la voce e appoggiando loro le mani sulle spalle. “Nulla di grave, non preoccupatevi. Andrew, Demi e le figlie si sentono strani perché l’illusione del sogno si sta sgretolando davanti a loro. In pratica,” proseguì cercando parole più semplici in modo che anche le bambine potessero capire, “i sogni e la realtà non possono scontrarsi per troppo tempo, e a quanto pare il loro è scaduto.”
Le ultime parole rischiarono di morirle in gola mentre grosse lacrime cominciavano già a rotolarle giù per le guance.
Seguì qualche attimo di silenzio che parve durare una vita intera. Nessuno parlava né reagiva. Non poteva essere. Insomma, erano rimasti lì una settimana, non potevano già andarsene, non era giusto. Gli abitanti di Eltaria pensarono che c’erano ancora tantissime cose che avrebbero voluto mostrare loro o fare insieme. Eliza rifletté sul fatto che i piccoli dell’orfanotrofio avevano ancora bisogno di Andrew e Demi e che lei stessa necessitava di quei quattro umani, perché si era affezionata a loro e non voleva perderli. Come avrebbe fatto senza l’allegria di Hope e Mackenzie, la dolcezza di Demi e la tranquillità di Andrew? La vita non sarebbe più stata la stessa senza di loro, si disse Sky.
“Non ve ne andate!” implorò mettendosi in ginocchio, una cosa che non credeva avrebbe mai fatto. “Vi prego, la casa sarà vuota senza di voi.”
Voleva bene a tutti, si considerava un po’ una zia per quelle piccole umane e un’amica soprattutto di Demi.
“Non dipende da noi, purtroppo” intervenne Andrew con voce strozzata. “Resteremmo qui ancora, ma se Mackenzie si sta svegliando non possiamo farci molto.”
Non riuscì nemmeno a guardare Sky per non piangere più di quanto già stava facendo.
Nel frattempo Mac chiudeva forte gli occhi fino a farsi male, ma questi si spalancavano sempre e sentiva, sì, sapeva che presto quel meraviglioso sogno sarebbe terminato. Si sforzò affinché non fosse così, ma più gli occhi le si aprivano più il momento si avvicinava e la testa le vorticava come impazzita mentre il cuore faceva le capriole, poi batteva troppo piano e, di nuovo, veloce. A volte vedeva tutto nero, poi ogni cosa tornava normale ed era colta da terribili e brevissime emicranie. Nemmeno lei voleva andare, come nessuno della sua famiglia. Quel mondo e i suoi abitanti li avevano fatti crescere, cambiati, aiutati a diventare persone migliori ed erano rimasti lì dannatamente poco. Pareva una vita, ma si trattava solo di nove giorni.
Non sono molti pensò la piccola stringendo le mani a pugno e scoppiando a piangere, lasciando che le lacrime le inzuppassero gli abiti.
E sarebbero stati sempre troppo pochi, ai suoi occhi come a quelli degli altri.
Hope, imitandola e sentendosi male a sua volta, si mise a urlare con le mani prima sugli occhi, poi sulle tempie.
Eliza corse ad abbracciarla.
“Piccola, va tutto bene. Tutto bene, capito? Ci rivedremo ancora, forse, un giorno.”
Continuò a sussurrarle parole dolci mentre Harmony, Mahel, Lucy e Lune abbracciavano la loro amica.
“Non andare via, Mac, per favore!”
“Resta.”
“Devi proprio farlo così presto?”
Queste erano le domande e le suppliche che le rivolgevano, alle quali la bambina poteva rispondere solo con abbracci più stretti e qualche carezza. Non dipendeva da lei, non più.
Vi voglio bene e magari tornerò, chi lo sa? Ricordate la nostra promessa scrisse tremando, la calligrafia appena leggibile, mentre rischiava di bagnare il foglio con le lacrime.
Le faceva male il petto, poche volte aveva sentito una sofferenza tanto continua e straziante, faceva di tutto per respirare in modo regolare, ma non ci riusciva, andava sempre in iperventilazione.
“Amiche per sempre?” chiesero le altre, tutte insieme.
Amiche per sempre.
“Avete delle figlie stupende, non dimenticatelo” stava dicendo Andrew a Isla e Oberon, che gli diede una pacca sulla spalla.
“Concordo. E grazie ancora per i romanzi, Isla.”
Corse a prenderli, e intanto Hope e Mackenzie andarono a recuperare Agni e Lilia, oltre al libro da colorare della prima e a quello che la seconda aveva letto a scuola. Andrew, la fidanzata e le figlie raccolsero anche i loro peluche.
Gli uomini erano i più composti. Si salutavano con parole gentili e pacche su schiena e spalle, a volte piangevano, ma per la maggior parte del tempo rimanevano relativamente tranquilli per far coraggio alle donne, anche se non temevano di lasciarsi andare alle emozioni. In fondo anche loro in quei giorni si erano avvicinati, in particolare Andrew, Noah e Christopher.
“Tutto a posto tra noi?” gli domandò il fidanzato di Sky.
Temeva che ce l’avesse ancora per i suoi commenti indelicati e non voleva vederlo andar via sapendo che la questione non era risolta.
“Va tutto bene, davvero. Non preoccuparti.”
Marisa e Demi si salutarono in modo un po’ più sbrigativo, non essendosi conosciute in profondità. Fu il turno di Kaleia.
“Non so come farò senza di te” singhiozzò la fata tra le braccia dell’umana.
Questa le poggiò una mano sul ventre.
“Ce la farai per questo piccolino che hai qui dentro” la incoraggiò. “E ricorda che sei meravigliosa.”
“E tu una persona speciale.”
Avrebbero voluto dire altro, ma non riuscendo più a parlare si strinsero in un lungo abbraccio pieno di calore.
“Grazie ancora di tutto, Eliza. Non solo per Hope, ma anche per la tua gentilezza e per ogni cosa. Sei importante per me” la salutò Demi.
“Oh, piccola! E tu sei come una figlia.”
A quelle parole, Demetria singhiozzò più forte di quanto avesse fatto in quella serata, non riuscendo più a fermarsi.
Il rapporto tra loro due era molto profondo, ma non si sarebbe mai aspettata un commento così bello.
Non appena smise di tremare e di urlare da quanto piangeva, salutò Carlos e Aster e li ringraziò di tutto.
“È stato un piacere conoscerti e ospitarti nella grotta con le mie sorelle” le disse la ninfa.
“Grazie per averci aiutati a ritrovare la nostra piccola” rispose Demi e poco dopo Andrew venne a dirle la stessa cosa.
“Ho fatto quello che potevo e che era giusto. Vi auguro buona fortuna.”
Mackenzie, Hope e le altre quattro bambine erano avvinghiate le une alle altre. Speravano che restando strette niente e nessuno avrebbe potuto dividerle. Ma le due sorelle seguitavano a strofinarsi gli occhi, ad aprirli e chiuderli e il cuore ormai scoppiava e la testa doleva loro come se tanti martelli continuassero a batterci contro.
Nonostante la tristezza e il dolore tutti erano sicuri di una cosa: non si trattava di un addio, ma di un arrivederci. Era ciò che dava loro speranza.
Lilia e Agni, percependo la mestizia delle loro padroncine e degli altri presenti, fecero versi strani per indicare che erano tristi e così anche gli altri animali. In particolare, il miagolio di Willow straziò il cuore di tutti. La gatta piangeva e si strusciava sulle gambe di Andrew, Demi e le bambine come per chiedere loro di non abbandonarla, il suo pianto assomigliava a quello di un bambino.
“Willow, cucciola, non fare così!” la pregò Demi, alla quale si stringeva il cuore nell’udirla miagolare in quel modo, ma lei non smise e anzi, camminò per la sala seguitando a esprimere il suo dolore.
Quando i Lovato si ritrovarono tutti vicini, le bambine con in braccio i cuccioli e gli adulti con uno zaino a testa pieno di vestiti, peluche o libri, cioè parecchie fra le cose che avevano comprato, un silenzio tombale cadde sulla casa. Nessuno era in grado di dire addio, né tantomeno arrivederci. Era meglio salutarsi così come avevano fatto.
Una nebbia leggera avvolse i quattro umani, rendendo loro difficile identificare chi o cosa avessero intorno. Non udivano più alcuna voce, né nessun rumore. Provarono a parlare, ma le loro bocche rimasero chiuse. Poi tutto si fece nero.
 
 
 
Quando aprirono gli occhi, quella mattina, i quattro si ritrovarono assieme in un letto.
“Dove siamo?” biascicò Demi.
Si alzò a fatica come il fidanzato.
Le bambine, seppur a occhi aperti, rimasero in silenzio finché Hope constatò:
“Casa.”
Lo disse con poco entusiasmo e un velo di tristezza nella voce.
Tutti si guardarono intorno quando Demetria aprì le imposte. Il sole era sorto da poco su Los Angeles e davanti a loro c’erano il giardino, con tutte le diverse piante che a Demetria piaceva coltivare, e la solita strada trafficata più in là. La camera in cui riposavano era la sua, la stessa nella quale si erano addormentati la sera precedente. Sul comodino del suo lato di letto, la cantante notò il cellulare. Sbloccò la tastiera e lesse a voce alta:
Capitolo XII. Cuore maturo.”
Poco sopra si potevano leggere il nome dell’autrice, Emmastory, e ancora più su la trama della terza parte della saga oltre al titolo: Luce e ombra: Il Giardino segreto di Eltaria. Facendo uno più uno si resero quindi conto che era tutto vero. Non si trovavano più a Eltaria, nel sogno, nella realtà che si erano costruiti, ma nella vita vera. In un angolo, Demi lesse anche giorno e ora. Era mercoledì 22 novembre. Si erano addormentati la notte prima.
Sapete, ho fatto un sogno strano scrisse Mackenzie.
Raccontò per filo e per segno quanto accaduto dal momento in cui si erano addormentati.
“Sì, me lo ricordo anch’io” proseguì Demi, parlando più nello specifico dell’orfanotrofio e di Kady.
“E anch’io.”
Andrew diede altri dettagli, per esempio la passeggiata sull’unicorno.
“Io! Io!”
Infine intervenne Hope, che seppur piccola rammentava i giochi a casa e all’asilo, la gita e molto altro che cercò di spiegare nonostante conoscesse ancora poche parole.
Non posso credere che siamo tornati! Mi sarebbe piaciuto stare ancora lì.
Mac sospirò.
“Già, sembra trascorso poco tempo, una manciata di minuti, forse” asserì il padre.
Non pensavo che nei sogni potesse passare più di una settimana.
“Credo non ci sia un limite, tesoro” disse la sua mamma.
Ma ora? Come avrebbero fatto a continuare le loro vite come prima dopo aver conosciuto Eliza, Kaleia, Sky, Christopher, Noah e tutti gli altri personaggi della saga? Di sicuro non sarebbe stato possibile andare avanti come se non fosse mai successo, perché – e se lo ripeterono ancora una volta – per loro era stato tutto reale, un po’ come andare in vacanza in un altro Paese e tornare a casa, con quel senso di nostalgia per il luogo appena visitato e le esperienze fatte. Gli occhi di tutti si riempirono di lacrime e i quattro piansero piano. Il petto e le membra si fecero loro pesanti, come se avessero fatto un lungo viaggio per tornare a casa e fossero stanchissimi, ma sapevano che provavano quelle sensazioni fisiche anche a causa della tristezza che, tuttavia, era meno forte di quanto si sarebbero aspettati.
“Mamma, giochi.”
Hope indicò sopra le coperte. Lì c’erano due peluche, uno di un Arylu e l’altro di un Pyrados.
Ma sono Lilia e Agni!
Mackenzie si affrettò a prendere in braccio la sua e Hope fece lo stesso con il draghetto. Erano proprio loro, dal colore del pelo a quello degli occhi, e avevano un’espressione tanto ben fatta da sembrare veri.
A poca distanza, sopra una poltroncina su cui Demetria appoggiava i vestiti, la ragazza trovò gli zaini suo e di Andrew con gli abiti e tutti i libri che la ragazza e le piccole si erano portate via, oltre ai peluche che aveva regalato loro lo gnomo.
In quel momento Danny spalancò la porta, rimasta socchiusa, con l’aiuto di testa e zampe e miagolò con insistenza, mentre Batman abbaiò. Le bambine, lasciati i giocattoli sul materasso, corsero ad accarezzarli e i due animaletti fecero loro le feste come se non le vedessero da giorni, le leccarono, saltarono loro addosso, si sdraiarono mostrando la pancia e Danny tirò fuori gli artigli per portarsi le manine delle padroncine alla bocca, pur senza fare loro male.
Come Willow.
Lei era adulta e il suo gattino aveva pochi mesi, ma che importava? Nel ripensare alla gatta nera la bocca le si riempì di un saporaccio schifoso, come a volte le capitava prima di un pianto imminente. Batman e Danny furono lì per confortarla battendole ognuno una zampa sul ginocchio e corsero dagli adulti per ricevere un’altra razione di coccole.
“Sì, sì, ci siete mancati, piccoli” assicurò loro Andrew.
“Vi vogliamo bene!” esclamò Demi.
Immaginando che ormai avessero fame e che visto l’orario della sveglia fosse ora di colazione per tutti, andò in cucina seguita dalla famiglia intera, animali compresi, versò a cane e gatto crocchette e croccantini, cambiò loro l’acqua e, con l’aiuto del fidanzato, preparò il primo pasto della giornata: latte e cereali per lei, Hope e Mackenzie e caffè e biscotti per Andrew.
“Non riesco a capire.” La cantante si prese la testa fra le mani. “So che Mackenzie ha sognato, ma è stato troppo reale e… siamo sicuri che si sia trattato solo di un sogno? Se fosse così, ci saremmo svegliati come sempre; invece abbiamo trovato i peluche degli animali delle bambine e tutti quei libri oltre al resto.”
Cercò su Google il nome dell’autore che aveva scritto quelli che aveva preso all’emporio: non esisteva. C’erano romanzi con titoli simili, ma le trame erano differenti da quelle scritte nei suoi. Mise a parte la famiglia di quei dettagli.
Allora, forse, non dobbiamo più pensare se è vero o no.
Lette quelle poche parole, gli adulti concentrarono la loro attenzione su Mackenzie.
“Che vuoi dire?” domandarono mentre lei e Hope andavano a prendere le cartelle e ci infilavano dentro ognuna il proprio pupazzetto.
Che è più bello rimanere sospesi tra sogno e realtà.
 
 
 
 
NOTE:
1. Eliza sa del loro ritorno al mondo reale perché è consapevole del fatto che la realtà e i sogni non possono scontrarsi per troppo tempo. Fa capire loro che non può durare per sempre. Anche Andrew e Demi se n’erano resi conto e forse Mac ha fatto i medesimi pensieri, ma hanno tutti cercato di non dare ascolto alla loro testa finché, grazie alle parole di Eliza e a quello che è successo dopo, hanno dovuto guardare in faccia alle cose.
L’addio è stato duro per tutti quanti, ma una volta tornati alla realtà Demetria e i suoi non sono molto tristi perché la consapevolezza di essere sospesi tra l’uno e l’altro universo li consola. I pupazzi e i libri sono tornati indietro con loro e non appartengono al mondo umano, il che significa che forse la magia esiste. Nei loro cuori i quattro conservano la speranza di tornare a Eltaria in un sogno futuro.
2. Per quanto riguarda la data citata in questo capitolo, così come per il giorno del battesimo di Mackenzie e Hope, avevo scelto dei giorni a caso tempo fa, senza guardare il calendario per rifarmi ai giorni reali. Non è mai accaduto in Cuore di mamma, perché volevo avere la libertà di scegliere il giorno della settimana che preferivo per far succedere ogni cosa. Mi comporto così in tante storie, questa compresa.
 
 
 
FINE.

 
 

RINGRAZIAMENTI

 
Come recita una citazione di Ernest Hemingway:
Non ci vuole niente a scrivere. Tutto ciò che devi fare è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare.
Per chi ama la scrittura essa resta sempre qualcosa di bellissimo, con cui esprimere emozioni più o meno nascoste, affrontare tematiche che stanno a cuore, e che fa bene e male allo stesso tempo.
Arrivare alla fine di un romanzo, o di una fanfiction, o di qualsiasi altro tipo di storia – soprattutto se lunga – lascia sempre nello scrittore un senso di spossatezza fisica e mentale, felicità e soddisfazione misto a malinconia e nostalgia per quei personaggi dai quali deve separarsi. Un mix di emozioni e sensazioni che si completano a vicenda. Tuttavia, io ed Emmastory riteniamo anche che con i protagonisti, i personaggi secondari e le comparse lo scrittore abbia intrapreso un viaggio che, certo, è giunto alla sua conclusione, ma che la vita di chi anima le pagine del suo libro non sia affatto finita, anzi, da lì in poi continuerà in base al finale del romanzo stesso. Un’esistenza che forse chi scrive racconterà in un altro libro, o magari no, lasciando a chi legge libera immaginazione.
 
Abbiamo creato noi Tra sogno e realtà, ma altri hanno contribuito alla sua realizzazione aiutandoci e offrendoci consigli, o ci hanno rese felici con una recensione. Per questo, alcuni ringraziamenti sono doverosi.
 
In primo luogo, ringraziamo di tutto cuore JustBigin45 che ha accettato di fare, per quanto possibile non essendo una figura professionale, una valutazione critica della storia. È anche grazie a lei e ai consigli che ci ha fornito se siamo riuscite a migliorare l’opera ancora di più.
 
Grazie ai miei genitori che, benché non abbiano letto la fanfiction, mi hanno dato alcune informazioni per trattare in modo più preciso tematiche come per esempio la gravidanza che conoscevano meglio di me. Inoltre, è stato grazie a mio padre se io ed Emmastory abbiamo deciso di far leggere il libro (lasciatemi chiamarlo così) a un’altra persona prima di pubblicarlo su EFP. Mi ha infatti detto che sarebbe stato utile per scovare errori, incongruenze e altri problemi che altrimenti, forse, non avremmo notato del tutto nemmeno con varie revisioni. E aveva ragione.
 
Ringrazio il mio gatto Furia e quelli di Emma che, con la loro presenza, ci ispirano mentre scriviamo e ci tengono compagnia, dandoci sempre tutto il loro affetto. Un grazie anche a Red, il mio nuovo gattino arrivato a luglio 2020, mentre questa storia era in revisione, e che mi è stato accanto durante tutto il procedimento. Ci tengo anche a salutare Stella, morta in circostanze tragiche il 16 settembre dello stesso anno, e che mi manca da morire. Grazie, piccola, per tutto l’amore che mi hai dato. Non ti dimenticherò mai!
 
Io ed Emmastory ringraziamo tutti voi, lettori: sia chi ha letto questa storia al di fuori di EFP (oltre a JustBigin45 altri amici), sia gli utenti del sito, che abbiano recensito o siano rimasti silenti. Il vostro sostegno è stato prezioso, non lo scorderemo.
 
Infine un ringraziamento speciale ai nostri personaggi, sia celebrità che originali che, pagina dopo pagina, hanno affrontato assieme a noi con forza, coraggio, ma anche con le loro debolezze, tutte queste avventure assieme a noi. Loro ci hanno insegnato tanto e, scrivendone, anche noi abbiamo imparato qualcosa da ciascuno.

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