Il ballo dei narcisi

di Mary Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mnestic ***
Capitolo 2: *** Ascian ***
Capitolo 3: *** Wabi-sabi ***
Capitolo 4: *** Eccedentesiast ***
Capitolo 5: *** Metensomatosis ***
Capitolo 6: *** Longanimity ***
Capitolo 7: *** Ephialtes ***
Capitolo 8: *** Acrasia ***
Capitolo 9: *** Hävitä ***



Capitolo 1
*** Mnestic ***


Mnestic
pertinente alla memoria


Lo straniero dagli occhi verdi ricorda perfettamente la prima volta in cui l’ha vista – abbandonata sul prato, il vestito bianco schiuso come una corolla attorno alle gambe snelle, il grembo inondato di fiori, le dita graffiate.
Il suo nuovo amico, il vicino dalla mente acuta e i capelli ramati, si torce le mani al suo fianco. Quel fratello solitario che si ritrova ha un’espressione ostile incisa nei lineamenti duri e macina disprezzo ad ogni sbuffo.
Irrilevanti.
Lo straniero li ignora – insolitamente silenzioso, insolitamente calmo, niente scoppi di risa, niente labbra che si stirano fino a dolere e niente denti che azzannano l’aria, solo quel mutismo contemplativo che non gli è proprio.
Lei sospira. Un respiro svagato, un po’ tremulo. Le sue ciglia dorate sbattono piano, il sole le fa scintillare.
Le sue dita sottili si adoperano, ostinate, attorno ai fiori. Scivolano, impacciate, sgraziate, su una corona di petali sgualciti. Perdono il filo e ricominciano, instancabili – lui si chiede se lei non stia semplicemente cercando di ricordare, ricordare come si fa a intrecciare i fiori, ricordare come si fa a ritrovare la strada in una realtà fatta di riverberi infiniti e fruscii di narcisi bianchi.
Gli occhi verdi dello straniero osservano quei movimenti convulsi con interesse. Ha inchiodati addosso due paia di sguardi identici – uno gronda preoccupazione e l’altro è acuminato di disprezzo, ma l’azzurro è lo stesso.
Insignificante.

Lei geme, disperata. I narcisi giacciono squarciati tutt’intorno a lei, le corolle pallide divelte dallo stelo.
Di quella coroncina che tanto desidera non restano che brandelli – e quei gemiti metà singhiozzi metà sussurri che le sfuggono a intermittenza.
“Che cosa ne pensi?”
Albus parla all’improvviso, incapace di reggere la tensione un minuto di più.
La testa di lei scatta impercettibilmente, e gli occhi dello straniero brillano, spettrali.
“Che cosa ne pensa? Che cosa ne pensa?” l’indignazione dell’altro Silente, del Silente sbagliato, strappa un sorriso ricurvo di disprezzo a quelle labbra perfette, “Non è un oggetto, fratello. È nostra sorella.”
“Aberforth, sai cosa volevo intendere.”
No, che non lo so.”
Lo straniero ricorda cos’ha pensato, in quell’istante – attenzione, pericolo.
Lei scuote la testa a scatti, i riccioli biondi saltano come molle rotte – ingranaggi impazziti sotto quella cascata di capelli, una bocca innocente incurvata all’insù un po’ per caso, il buio si addensa e i narcisi prendono il volo, ma nessuno li vede, nessuno può vederli danzare nel buio tranne lei, tranne lei.
Lo straniero la guarda, le dita che si inceppano e franano e si torcono mentre lei cerca di intrecciare i fiori.
“Non l’hai mai sopportata!”
“Sei ingiusto. Ho lasciato tutto per occuparmi di voi.”
“Ti aspetti anche un ringraziamento per aver fatto il tuo dovere?”
Lei dondola su se stessa, il viso rivolto verso i fiori trucidati sul suo grembo, i riccioli biondi incendiati di sole sono quasi dolorosi da guardare.
Lo straniero dalla faccia allegra pensa che, però, niente sia doloroso quanto quello che le si agita sotto la fronte d’avorio, in quella memoria fatta di schegge rotte.
I suoi fratelli litigano, Aberforth ferisce con l’oltraggio e Albus si scherma con un’indifferenza glaciale che non riesce a dissimulare del tutto il rimpianto, e le dita di lei si contraggono, sempre più convulsive, sempre più sgraziate – gli occhi verdi dello straniero scovano i lividi sbiaditi sulle nocche, i graffi irregolari sui palmi.
Lei strappa manciate di erba insieme a qualche corolla, lui la guarda fare a pezzi i narcisi con sempre più violenza, il volto da bambola soffuso di riccioli.
Aberforth ringhia e Albus sibila, e nessuno dei due nota quelle dita piene di lividi che artigliano i petali e li torturano.
Pericolo.
Lo straniero le si avvicina, in uno scatto fluido.
Le voci dei Silente si spengono, fulminate, lui sorride appena ma non si ferma finché non si trova davanti a lei, col suo vestito macchiato e i suoi fiori in rovina e le iridi spente rivolte altrove.
Si piega sulle ginocchia, gli occhi verdi come un’aurora boreale persi su di lei.
“Mi sembra perfetta. Lo sei, vero, fiore mio?”
Albus si lascia sfuggire un sospiro d’atroce sollievo e Aberforth ringhia – li odia entrambi e l’odio non morirà mai, non nei suoi ricordi affilati come coltelli.
“Si chiama Ariana!”
“Ariana, che bel nome” nell’udire quel tono rabbioso, lo straniero si distende un sorriso abbacinante sul volto allegro, “Io mi chiamo Gellert.”
La bambina spezzata alza lo sguardo su di lui e sorride, di nuovo pacifica.

 

 

 

 

Note dell’Autrice
Sono davvero felice di tornare a scrivere, e con i miei personaggi preferiti!
Questa storia presenterà le coppie Albus/Gellert e Gellert/Ariana. La Grindeldore è la mia OTP e ci tengo a precisare che in questa storia non rispetto pienamente le mie idee su di loro, poiché i miei headcanon cambiano quando nel quadro si inserisce Ariana, in un ruolo diverso da quello di sorella di Albus.
La storia è stata scritta seguendo i prompt della lista pumpWord dell’iniziativa del #Writober2021, organizzata dal sito Fanwriter.it. Ho scelto soltanto i primi 9 prompt e, visto che non intendo proseguire con gli altri, pubblicherò un paio di volte a settimana (il venerdì e il martedì), invece di tutti i giorni.
Spero che questa piccola minilong vi piaccia!
Lasciatemi un parere, se vi va.

Mary

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Capitolo 2
*** Ascian ***



Ascian

una cosa o una persona senza ombra


Gellert si reca a casa Silente tutti i pomeriggi.
Non pensava che sarebbe mai successo: trovare un’anima affine, un compagno del suo stesso genio, un alleato. Il Destino, beffardo, gli ha servito su un piatto d’argento quel ragazzo dai capelli ramati e gli occhi freddi che condivide il suo sogno di grandezza – trovare i Doni, rovesciare la propria vita, costruire un impero sulle rovine di una società guastata dal marciume.
Gli è impossibile separarsi da lui e dal loro progetto – poco importano gli sguardi che il suo compagno gli lancia quando crede di non essere osservato, poco importano i brividi che gli increspano la pelle ogni volta in cui lo sfiora, Gellert sfoggia il suo sorriso metà lascivia metà tortura e gli passa le dita lungo il collo solo per vederlo sussultare.
A Gellert è sempre piaciuto giocare, e Albus è la perfezione – ma il Destino ha offerto allo straniero dagli occhi verdi una coppa avvelenata, e il tarlo ha uno sguardo spento e mani magre piene di fiori.
Non ha più visto la ragazzina da quel giorno sfolgorante di sole.
Ogni pomeriggio si guarda attorno, un po’ per caso, un po’ perché non riesce a farne a meno. La porta della veranda che affaccia sul giardino sul retro è sempre schiusa, ma ogni giorno Albus lo conduce al piano di sopra senza mai voltarsi, così Gellert lo segue, sufficientemente ammaliato dalla sua voce candida da lasciarsi distrarre. È facilissimo lasciarsi incantare dal nuovo vicino, dai suoi occhi azzurrissimi, penetranti come un fuso dietro gli occhiali a mezzaluna, come dalla sua intelligenza che è quasi altrettanto pungente – lo straniero ride fino a sfinirsi ogni volta in cui lui gli tiene testa, ogni volta in cui le loro idee gemelle collidono e si fondono (dove sei stato per tutto questo tempo dove dove mai più ti nasconderai da me).
Ogni tanto incontrano Aberforth lungo le scale, con i suoi capelli rossi sempre arruffati e l’aria di sfida, e Gellert sfoggia il suo sorriso più ambiguo, tutto fossette e commiserazione. Disprezza quel ragazzino perennemente imbronciato, ma adora già suo fratello quel tanto che basta per lasciar correre – non sarebbe stato così anche soltanto qualche mese prima, quando a Durmstrang la sua antipatia si pagava a caro prezzo.
La casa è silenziosa, chiusa in un’eterna penombra. Qualche lama di luce macula il pavimento, evidenzia la polvere che volteggia nell’aria. Sembra di stare dentro un mausoleo, tant’è tombale l’atmosfera che si respira lì dentro.
La bambina spezzata sembra non esistere neanche. Non un lamento, non un gemito.
Ma lui sa che lei è lì, la bambina senza macchia dal volto inespressivo, niente ombre nei suoi occhi color dei fiordalisi, e resistere è estenuante, estenuante (come lo è sognarla ogni notte).

È un giorno come tanti quando Gellert scende le scale col consueto brio e nemmeno s’avvicina alla porta d’ingresso, ma si lascia scivolare lungo il salone e più in là, oltre l’uscio schiuso della veranda. Albus freme, la sua voce articola un mormorio indistinto che suona come una protesta – le rimostranze gli muoiono sulle labbra quando lo straniero dagli occhi verdi si volta e si lascia sfuggire una risata impenitente, lo sguardo perso nel suo.
Gellert sorride ad Albus e oltrepassa la porta che dà sul retro. Sbuca nel giardino e la bambina spezzata è lì. Senza ombre nel sole del tramonto, i riccioli luminosi, narcisi in rovina tutt’intorno a lei.

Quando scorge lo straniero dalla voce di miele, Ariana s’illumina, ride – il suo volto inespressivo è acceso da una gioia selvaggia, e sembra quasi vera, sembra quasi viva.
“Ciao, Ariana” mormora Gellert, lasciandosi cadere seduto vicino a lei, “Volevo farti un saluto. Ti ricordi di me?”
Lei lo fissa per attimi interminabili.
Tutto s’immobilizza, il mondo stesso pare torcersi e paralizzarsi: Aberforth ha smesso di dare da mangiare alla sua capra per osservare la scena; Albus sosta sul limitare della porta come se avesse paura di incespicare in un cumulo di rovi, e il sorriso di Gellert è sempre più ampio, sempre più luminoso, doloroso da guardare come il sole che si riflette in uno specchio.
Ma poi Ariana annuisce, bella d’una bellezza svaporata, sbiadita, niente ombre nei suoi occhi azzurri – e Albus freme, perché lei sembra quasi lì con loro, e Aberforth ringhia, folle di delusione e gelosia e dolore, e Gellert ride della sua risata irrefrenabile e, con uno schiocco di dita, fa sbocciare cento narcisi bianchi attorno a lei.
Ariana è felice. Sorride e inizia a massacrare i fiori, Gellert resta a guardarla finché il sole non tramonta dietro le siepi.



Note dell’Autrice
Eccomi qui, come promesso, col secondo capitolo! Intanto voglio ringraziare tutti i lettori per il sostegno, sono davvero felice che la storia vi piaccia.
Qualche precisazione: è una storia estremamente introspettiva, soprattutto i primi tre capitoli girano soprattutto intorno alle caratterizzazioni dei personaggi. È una scelta voluta, ma anche un po’ obbligata, considerando il Canon (sostanzialmente, in quell’estate Albus e Gellert si limitano a parlare e progettare, non succede molto di attivo, o almeno io l’ho sempre immaginata così). In questo capitolo, ho voluto introdurre il rapporto tra Albus e Gellert, e mettere le basi del rapporto tra Gellert e Ariana (che, lo preciso qua visto che nel testo non l’ho mai specificato, ha 14 anni, secondo la mia idea).
Bene, spero che la storia vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate!

Mary

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Capitolo 3
*** Wabi-sabi ***


Wabi-sabi

la scoperta della bellezza nell’imperfezione


A ogni tramonto, Gellert insiste nel voler andare a trovare quella sorella che Albus non ama affatto – e lui cede, perché è affascinato dallo straniero dagli occhi verdi e dal suo modo di parlare che gli ricorda qualcosa di esotico, di letale, come la musica di un incantatore di serpenti, e perché ogni volta in cui lo sfiora i brividi quasi gli stracciano l’anima.

Gellert siede vicino a lei, che è altrove, che è rotta, imperfetta, e non le stacca gli occhi di dosso finché non è il buio della sera a tagliargli la vista.

Albus freme di curiosità e perplessità – i sensi di colpa gli masticano le ossa, ma lui li riduce in silenzio senza esitare.
Così alla fine, un giorno, cede.

“Che cosa ci trovi d’interessante in lei? Non è nemmeno qui con noi.”
Gellert la osserva – è innocente, vacua, ma i lividi sulla sua pelle dimostrano ch’è terrena.
Non sa dire che cosa ci sia d’affascinante in lei, ma guardarla intrecciare fiori e fallire ha qualcosa d’irresistibile.
“Proprio questo.”
Albus si sigilla una domanda velata di smania dietro le labbra, Gellert se ne accorge e si lascia sfuggire una risata fioca che fa vibrare scompostamente Ariana.
Aberforth si avvicina, inascoltato, livido in viso ­– lei era sua, ma ora che lo straniero se n’è appropriato per lei non esiste nient’altro, nessun altro.
“Non è uno dei vostri argomenti di conversazione difficile o uno dei vostri esperimenti” sbotta duramente, feroce nei suoi quindici anni di sdegno, “Non è un giocattolo, è una persona, è...”
È la mia sorellina, vorrebbe dire, ma le parole gli si sciolgono in gola – sa che suonerebbero come la supplica di un bambino.
Gellert solleva uno sguardo affilato verso di lui. È un’occhiata fredda che non conosce la pietà, Albus se ne ritrae con un sussulto.
“Magari, se fosse uno dei nostri esperimenti, avrebbe una possibilità” sibila, incomprensibile, la voce il solito sussurro dolce come miele che la fa ridere, “Ti suggerisco di non impicciarti di affari che semplicemente non capisci. E che non ti competono.”
“Lei mi compete, è mia sorella!”
Gellert sorride, morbido, condiscendente, e punta gli occhi, verdi come foglie di menta, sul suo unico amico.
Albus tentenna appena, ma alla fine cede – Gellert non deve nemmeno chiedere, con lui.
“Smettila, Aberforth. Gellert non fa nulla di male.”
Suo fratello gli si rivolta contro come un cinghiale ferito.
“Non fai altro che difenderlo” gli ringhia contro, con rabbia, “Non ti sembra strano che non faccia che fissarla? È inquietante!”
“Non dire sciocchezze! E poi Ariana adora Gellert, ride sempre quando lui viene a trovarla...”
“Ah, ma certo! La verità è che gli permetteresti anche di sputarti in faccia, se lui solo te lo chiedesse, fratello.”
“Stai passando ogni limite, Aberforth.”
Il sorriso di Gellert è così ampio da fargli dolere le labbra, ma lui non ha occhi che per Ariana – i petali si torcono sotto le sue dita piene di graffi, le corone incomplete che ha intrecciato nel pomeriggio vengono fatte a pezzi, e nei suoi ricordi i narcisi prendono il volo, danzando nel buio.
Gellert pensa che lei sia semplicemente perfetta, pur rotta com’è, la bambina spezzata senza ombre e con gli occhi azzurri vuoti come specchi.
La ragazzina che maciulla i fiori e dondola su se stessa, mentre il sole muore dietro le siepi.
I suoi fratelli urlano, ormai senza ritegno, e le mani magre di Ariana, quelle mani magre piene di lividi, si sollevano, spaesate, prima di chiudersi sulle sue stesse tempie – Gellert vede le dita stritolare i riccioli, scorge le lacrime sul suo viso infranto, e la trova bella come un dipinto antico squarciato dalla lama di un coltello.
Pericolo, pensa lo straniero, ma stavolta non la ferma.
Un lamento disperato le sfugge dalle labbra, Albus e Aberforth si voltano di scatto a fissarla ma è tardi, è troppo tardi. I narcisi schizzano in aria, vorticando nel cielo blu polvere della sera, e lei geme, tirandosi i capelli e dondolando freneticamente su se stessa.
Gli occhi verdi dello straniero sono sgranati in adorazione, ma lei è troppo lontana, è altrove, nel buio dove i fiori le hanno fatto male la prima volta, e ormai i suoi gemiti si sono trasformati in singhiozzi, singhiozzi striduli che si confondono col frastuono del legno che si spacca.
Alle sue spalle, l’olmo secolare stride, privato di un ramo, che crolla a terra in un baccano infernale che la fa solo piangere più forte.
I suoi fratelli sono paralizzati da quello scoppio di magia incontrollata, ma Gellert ride – sentirlo ridere la riporta indietro, via dal buio, e quando Ariana spalanca le palpebre e gli punta contro quei suoi occhi azzurri disincarnati e pieni di lacrime, i narcisi piombano a terra, inerti, insignificanti, finalmente morti.
“Sei speciale, vero, fiore mio?”

 

 

 

 

Note dell’Autrice
Eccoci al terzo capitolo! Vi ringrazio tutte per il sostegno – a giorni risponderò anche alle recensioni, promesso.
In questo capitolo – l’ultimo di transizione, poi si entra più nel vivo! – vediamo i rapporti tra Albus e Gellert farsi sempre più stretti, e iniziamo a intuire cosa sia davvero Ariana, i suoi traumi, l’interesse che suscita nello straniero dagli occhi verdi.
Spero che la storia continui a piacervi a intrigarvi! Ci vediamo martedì.

Mary

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Capitolo 4
*** Eccedentesiast ***


Eccedentesiast

chi nasconde il dolore dietro il sorriso


Ogni tanto Gellert lascia cadere qualche domanda, ma Albus non ne parla volentieri, il volto che si tramuta in pietra solo a sentire il suo nome, così lui non insiste – ma la curiosità brucia sotto pelle, lo tiene sveglio la notte mentre pensa a quel viso squisito totalmente inespressivo, ai capelli biondi come miele, a quelle gambe che spariscono sotto la gonna cosparsa di petali squarciati, e vuole sapere, deve sapere, che cosa ti è successo mio fiore divelto?
Gellert non è abituato a non cedere ai propri capricci, non è abituato a non avere ciò che vuole. Guarda Albus e vorrebbe scoperchiargli il cranio per strappargli l’unico pensiero, l’unico ricordo, l’unico segreto che non sembra disposto a cedergli.
Gellert usa persuasione, lusinghe, carezze – un repertorio collaudato metà lascivia metà tortura, tra uno scoppio di risa e un bacio sul collo lasciato cadere quasi per caso, nemmeno deve fingere, ama il modo in cui il suo compagno vibra sotto le sue dita, quel sorriso sfibrato che nasconde il dolore.
Albus trema ma non cede, e il sorriso di Gellert è sempre un po’ più acuminato.
È un’estate in rovina, che si snoda tra progetti di immortalità e la comunione con un’anima con cui Gellert spera di vivere per sempre – ma la notte nei suoi pensieri c’è la bambina spezzata col viso impassibile e le dita piene di lividi, la bambina misteriosa che squarcia i narcisi bianchi, soltanto narcisi bianchi.

Gellert non sa resistere, così un giorno si avvicina ad Albus e chiude il libro che lui tiene tra le mani – il suo compagno trema e solleva gli occhi azzurri sul suo viso, Gellert pensa che detesta quegli occhiali (sono una finzione, una barriera, e lui deve avere tutto di Albus, tutto quanto), così glieli sfila di dosso senza esitazione.
“Voglio sapere che cos’è successo ad Ariana.”
Albus s’irrigidisce, esita. Il suo sguardo si allontana dallo straniero dagli occhi verdi e vaga per la stanza, ma non può fare a meno di precipitare di nuovo su di lui quando intuisce che sta indossando i suoi occhiali.
“Cosa stai facendo?”
Mein Gott, Albus, sei praticamente cieco.”
“Gellert.”
“Cosa c’è?”
Il sorriso dello straniero è abbagliante, l’espressione severa di Albus si scioglie appena.
“Sii serio.”
“Pensavo avessimo bandito i discorsi seri” allude Gellert, come fosse un caso, ma i suoi occhi verdi come un’aurora boreale lo inchiodano, “Altrimenti mi diresti ciò che voglio sapere.”

Albus tace, sconfitto – ha il suo sorriso nascondi-dolore sul volto, ma sembra più che stia piangendo.
A Gellert fanno male le labbra dal piacere lacerante che prova nel vederlo cedere, a lui, come ogni volta – come sempre.
“Come posso pensare di condividere con te il mio grande progetto, se non ti fidi di me nemmeno abbastanza da raccontarmi qualcosa di così importante?”
Albus sospira – non vuole cedere, non vuole disseppellire tutto quel marciume, il dolore si nasconde dietro un sorriso, sua madre gliel’ha insegnato quando a cinque anni si è scorticato un ginocchio giocando sulla riva del fiume e lui non l’ha mai dimenticato.
Gellert soffoca l’impazienza affondandosi i denti nelle labbra – lo sguardo di Albus precipita sulla sua bocca – e gli afferra le mani.

La pelle di Albus è liscia, fredda – ha sempre le mani fredde. Albus sorride, incerto ­– per nascondere il dolore?

“Come posso pensare di affidarti la mia vita, se non credi in me?”
Gli occhi di Gellert sono sgranati e verdissimi e commoventi. Albus trema, trema, trema, ma il suo volto resta impassibile come quello della sorella che non ama affatto.
“Io credo in te, Gellert, tu sei...”

Irresistibile.
“Dimostramelo.”
“Gellert...”
“Albus.”
Lo straniero quasi non sa dire d’averlo deciso, quando allontana con uno scatto le dita dalle sue. Un lampo di dolore attraversa lo sguardo di Albus, sostituito dalla confusione, quando quelle mani pallide gli si chiudono contro le guance.
La bocca di Gellert gli si schianta addosso, divora quel sorriso cortese che gli hanno insegnato a incidersi sul viso quando qualcosa fa male, e Albus ha a malapena il tempo di sussultare prima di trovarsi a stringerlo a sua volta.
Gellert si separa da lui col respiro corto – guarda la sua bocca arrossata e sa d’averlo baciato perché lo voleva, ma sa anche che per la bambina spezzata e il suo mistero niente sarebbe un prezzo troppo alto, niente di niente, ed è un pensiero che lo fa impazzire.
Albus sorride di un sorriso pulito, limpido – niente ombre, niente urla.
Lo straniero pensa che lo preferisce quando è meno radioso, quando la finzione gli sporca il viso – perché lui la riconosce, lui la scova, lui lo sa che sorride per nascondere il dolore, e lui ama essere l’unico in grado di capirlo.
“Te lo racconterò” concede Albus, sfiorandogli la tempia con la punta delle dita.
Gellert crolla il capo contro il suo polso e respira il suo odore, ad occhi chiusi – nei suoi ricordi, la bambina spezzata sorride, trucidando i narcisi.

 

 

 

 

Note dell’Autrice
Eccomi di nuovo qui! Intanto ringrazio tutti voi che state seguendo la mia storia, mi rendete felice.
In questo capitolo, tutto dedicato alla Grindeldore, si delinea meglio il rapporto tra Albus e Gellert, fitto di ombre e dubbi come loro: Gellert ha baciato Albus perché lo voleva, ma anche perché sa di esercitare meglio il suo ascendente su di lui così, e vuole sapere cos’è successo ad Ariana ad ogni costo. Ve lo dirò, ma dovrete pazientare!
Ah, “Mein Gott” in tedesco è “Mio Dio”.
A venerdì!

Mary

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Metensomatosis ***


Metensomatosis

la migrazione di un’anima da un corpo a un altro


È un’estate in rovina e lo straniero dagli occhi verdi impara che bisogna stare attenti, a ciò che si desidera.
Albus gli ha svelato ogni cosa – il segreto della bambina perduta, tutto quell’orrendo marciume, il ballo dei narcisi.

Gellert non riesce più a guardarla con gli stessi occhi, quando la osserva fare a pezzi i fiori nel giardino sul retro, così innocente eppure, al tempo stesso, così rotta. Gellert si affonda le mezze lune delle unghie nei palmi, affilando sorrisi mentre Albus parla di un Destino da soggiogare e di artefatti da trovare – ma nei suoi pensieri impazziti la rabbia si agita, si gonfia, e non soccomberle è difficile come lo è trattenersi dal baciare il collo bianco di lei e le mani fredde di lui.
Lo straniero è sempre più irrequieto, ipotesi e possibilità germogliano nei suoi occhi verdi come le aurore del cielo del nord, e l’insoddisfazione lo rende schivo, impaziente, nevrotico. Scoppia in risate inopportune, schiavo dei suoi stessi balzi d’umore – “Sei lunatico”, mormora Albus, sempre più spesso, e lui gli strappa la preoccupazione dal volto con un bacio, ogni volta, sempre più spesso.
Gellert è incapace di accettare che il mondo non sia come lo desidera, quindi ha imparato a farlo a pezzi e a plasmarlo a sua immagine e somiglianza.

 

È una notte fredda di un agosto insolitamente inclemente, quando lo straniero dagli occhi verdi scala per la prima volta il fianco della casa del suo unico amico.
La pendola nel salotto di sua zia ha suonato da poco la mezzanotte, quando ha lasciato il tepore rassicurante del villino per inoltrarsi nella pioggia battente. Un lampo illumina il cielo con ferocia, quando arriva a bussare alla finestra di Albus è bagnato fin dentro le ossa, appollaiato sul cornicione in precario equilibrio con un sorriso estatico dipinto in faccia.
“Gellert, ma cosa diavolo...”
Albus gli apre, sconcertato, e Gellert piomba nella sua stanza da letto scrollandosi i capelli fradici d’acqua piovana.
“Volevo vederti.”
“È mezzanotte passata, ed è anche pericoloso darsi alle arrampicate notturne! E comunque stavo rispondendo alla tua lettera, se avessi avuto un minimo di pazienza, avresti-”
“La pazienza non fa per me, Albus.”
Qualcosa nel tono dello straniero riduce al silenzio l’altro, che lo fissa da dietro gli occhiali a mezzaluna con uno sguardo acuto, penetrante ­– e l’azzurro è proprio lo stesso di lei.

Gellert vacilla nei propri propositi. Vuole parlargli, deve farlo, ha un’idea che salverà il mondo, che salverà loro due, che salverà lei, ma esita, esita appena – esita perché non capisce, è tutto distorto, è tutto imperfetto, la bambina con le sembianze di un demone che lo tiene sveglio la notte, la bambina la cui mente rotta in due gli pare un affronto insopportabile e un ostacolo insormontabile, e Albus con quell’intelligenza che lui ama e quella sensibilità di cui lui ha un bisogno disperato, Albus che non può fare a meno di desiderare nonostante abbia il corpo sbagliato.
Gellert rimpiange che le anime non possano migrare in corpi diversi da quelli in cui sono state imprigionate alla nascita, ma è solo un secondo, prima che le sue mani si chiudano sui fianchi del suo unico amico e le sue labbra gli strappino un respiro ansante.
Albus non cerca nemmeno di resistere – non vuole ­– e si ritrova a stringerlo tra le braccia con un desiderio febbrile che lo strema. I vestiti di entrambi si accasciano per terra, sgualciti, lo straniero dagli occhi verdi sa di pioggia e immortalità e promesse impossibili, e Albus trema appena sotto l’impeto di tutto quel bisogno che è metà estasi e metà disperazione, metà piacere e metà dolore – come l’espressione indecifrabile che coglie sul suo viso attraverso i riccioli biondi, mentre muore sotto di lui, le unghie conficcate tra le sue scapole e la sua bocca a due centimetri dalla propria.
Quando tutto finisce, Gellert resta steso al suo fianco, insolitamente silenzioso e insolitamente serio – niente risate, niente sbalzi d’umore. Il suo sguardo acuminato è perso oltre i vetri sfigurati dalla pioggia, e Albus ha l’impressione che basterebbe una parola sbagliata per rovinare tutto quanto – così resta in silenzio.
Gellert tace, apparentemente calmo, i pensieri vibranti di elettricità – nella sua mente si accumulano colpe e palpiti indesiderati, fastidio, lancinante piacere, con Albus è stato tutto corrotto e tutto giusto, una sinfonia assordante sporca di perfezione, ma il suo corpo, Mein Gott, il suo corpo così maledettamente sbagliato (perché non puoi essere una donna perché non puoi essere tua sorella) lo fa impazzire (perché non posso strapparti l’anima e portarla altrove), e anche sapere che lei dorme i suoi incubi a sole due porte di distanza lo fa impazzire (se non posso far migrare le anime perché non posso avervi entrambi).
Gellert serra le palpebre, mordendosi le labbra – il profumo di Albus saccheggia le sue ritrosie, la rabbia soffia e il desiderio ride ride ride.
“Non hai mai paura di lei?” sbotta, per spezzare quel silenzio carico di lascivia.
Albus esita appena, stupefatto.
“È mia sorella, Gellert.”
“Albus.”
“Mi fa pena. Una pena che mi spezza il cuore in due.”
Gellert si sente torcere lo stomaco nell’udire la sua voce fragile – non vuole vederlo soffrire, non vuole che lui sia triste, Albus ha il corpo sbagliato ma la sua mente è la perfezione assoluta, e lo straniero pensa che, forse, può perdonare, forse può dimenticare, le anime non migrano ma non hanno nemmeno un sesso.
“Aggiustiamola.”
Gli occhi di Albus sono velati di lacrime, il suo corpo semi nudo è un richiamo irresistibile e una ferita infetta cosparsa di sale.
“Che cosa significa?”
“La Bacchetta di Sambuco può ogni cosa. Possiamo curarla.”
E, se non si potesse aggiustare quell’anima spaccata, il suo corpo potresti prenderlo tu – ma questo non lo dice.
“Gellert, no...”
No, amore mio” esala lo straniero, affondando le dita tra i suoi capelli ramati, “Noi possiamo ogni cosa. Lasciami compiere il miracolo.”
Albus ha uno sguardo incerto e pensieri increduli che arpeggiano un preludio di delusione, ma Gellert assale la sua bocca e tutte quelle crepe nemmeno le nota.

 

 

Note dell’Autrice
Eccoci qui, miei cari lettori, con uno dei capitoli di cui sono più soddisfatta in assoluto.
Qui Gellert è proprio il mio Gellert, come lo immagino (ad eccezione dei sensi di colpa per l’essere attratto da un uomo, che sono in abbinamento alla Gellert/Ariana e non rispecchiano i miei soliti headcanon). Mi dà una soddisfazione particolare averne scritto, e spero che questo capitolo piaccia anche a voi.
Dal prossimo tornerà anche Ariana e sì, prima o poi anche a voi verrà svelato il mistero della bambina perduta, “il ballo dei narcisi”.
Fatemi sapere la vostra opinione!

Mary

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Capitolo 6
*** Longanimity ***


Longanimity

pazienza o tolleranza di fronte alle avversità


Albus non gli crede, non crede che ciò che ha proposto sia possibile, ma a Gellert non importa, ha imparato ad essere tollerante – il mondo si spezza sempre sotto la sua volontà, e stavolta non sarà diverso, lui si spezzerà sotto la sua volontà.
Gellert siede in giardino, fissando la bambina dalle mani magre che trucida i fiori. I suoi fratelli stanno litigando nel salone, le voci arrivano attutite dalla porta lasciata schiusa, ma lei sembra tranquilla. Ogni volta che alza lo sguardo velato sullo straniero dagli occhi verdi, si scioglie in un sorriso luminosissimo.
Le si avvicina appena, allunga una mano per sfiorarle i capelli – lei pare quasi non accorgersene, le dita piene di lividi che, instancabili, cercano di intrecciare corone di narcisi e falliscono.
“Era solo una maledetta bambina, e tu hai il coraggio di dare la colpa a lei?”
“Non intendevo niente del genere, Aberforth, come sempre sembri fraintendere ogni mia parola. È una predisposizione alla stupidità, la tua, o lo fai di proposito, solo per indispettirmi?”
“Mi disgusti.”
Il sopracciglio dorato di Gellert si inarca appena. I movimenti della ragazzina si fanno più convulsi, nevrotici come un tic.
“Era solo una maledetta bambina...”
Gellert le sfiora i capelli, seguendo il profilo sfuggente di una tempia – lei trema appena, come suo fratello ogni volta in cui lui gli affonda i denti nella gola, e Gellert si martoria un labbro al pensiero di quanto il mondo sia un posto atroce, un posto atroce che deve essere ricondotto sulla retta via, ma ci penserà lui, ci penseranno loro, sarà una rivoluzione grandiosa.
Ariana si lascia sfuggire un sospiro evanescente, mentre ascolta le voci dei suoi famigliari alzarsi sempre di più. I narcisi iniziano a vibrare attorno a lei, come se fossero attraversati da una febbrile smania di alzarsi in volo e danzare – come quand’era una bambina di sette anni che giocava nel boschetto di betulle a pochi passi da casa, come quand’era una bambina di sette anni che amava intrecciare corone di fiori, di narcisi bianchi, soltanto narcisi bianchi.
“Sei un essere ripugnante! Tu e quello straniero dalla faccia arrogante che porti sempre in casa nostra.”
“Smettila immediatamente, Aberforth. Gellert non ti ha mai mancato di rispetto e non vedo proprio perché tu debba rivol-”
“Credi che non vi senta, la notte? Credi che non sappia che dorme nel tuo letto?”
“Tu non sai proprio niente, tu non capisci niente.”
“Io invece penso di capire fin troppo.”
Le urla della lite ormai sono così forti che si sentono fino in strada, Ariana inizia a dondolare su se stessa, gemendo piano. Gellert la fissa, diviso tra il desiderio di correre in casa per ridurre in silenzio quel miserabile ragazzino e la consapevolezza di dover restare insieme a lei – perché Albus sa difendersi, mentre lei invece no, non quella bambina innocente che faceva volare le corolle che spezzava per errore, non quella bambina che rideva forte (troppo forte) attirando disgrazie.
Lei trema sempre di più, lo straniero sente la rabbia crepitare appena sotto pelle, così le afferra il mento e solleva quel suo volto inespressivo verso di sé. È la prima volta che le è così vicino, è la prima volta che la tocca, il suo sguardo assente lo fa rabbrividire – un affronto insopportabile e un ostacolo insormontabile –, la sente respirare contro la propria bocca e i brividi gli straziano la nuca.
“Sei solo un ragazzino ingrato!”
“E tu un vigliacco, e anche un illuso!”
Ariana geme, è un suono pietoso a metà tra un singhiozzo e un sussurro – ma lei non parla, non parla più da quando quei ragazzini Babbani sono arrivati nella radura e le hanno chiesto che cosa stesse facendo, come mai i fiori danzassero nel cielo tutt’intorno a lei e perché ridesse così forte, e lei (ha solo sette anni è una bambina non sente il pericolo) ha risposto “Lo so fare da sempre, è il mio retaggio”, così orgogliosa di poter usare correttamente una di quelle parole difficili che suo fratello Albus si diverte sempre a insegnarle, ma non lo sa, che saranno le ultime parole che dirà, non lo sa che è la risposta sbagliata, lei sta ancora ridendo quando il primo calcio le strappa un gemito e i narcisi crollano a terra, inerti.
Gellert si china di più su di lei e le accarezza il viso – i fiori squarciati che li circondano vibrano, lei ha gli occhi sgranati, enormi, folli, ma lo straniero non perde la speranza, le avversità si aggirano si demoliscono si smembrano, e lui non sa portare pazienza ma sa essere tollerante.
“Ti piacerebbe sentire una storia, Ariana?”
Lei non risponde – non può – ma la bocca non le trema più.

Lo straniero le parla con quella voce dolce, e Ariana lo ascolta, incantata.
Lui descrive un mondo perfetto in cui nessuno le farà mai più male, dove i narcisi non smetteranno mai di volare – Gellert sogna un paradiso estinto in cui tutto è possibile, persino riportarla in vita, persino respirarle sulla gola.
Le parla finché non cala la sera, sordi alla lite che si sta consumando nel salone, e lei non maciulla i fiori e non guarda niente che non sia lui, le dita martoriate che riposano – magari i lividi guariranno, pensa lui, allontanandosi appena da lei quando sente una porta sbattere in lontananza.
Albus sosta sulla soglia, lo sguardo velato e l’espressione impassibile che allo straniero ricorda lei, e lo ascolta parlare per qualche minuto – non c’è niente di strano, Gellert ha una voce meravigliosa e lei sembra felice, con le mani magre che riposano sulla gonna sporca del verde dell’erba, non sono nemmeno vicini, ma sente comunque l’inquietudine bucargli lo stomaco.
Albus si chiede quanto lei capisca, ma non ha il cuore di fermare Gellert e le bugie al miele che le offre – è impossibile, vorrebbe urlare, invece si avvicina e affonda le dita nei capelli di lui in una carezza piena di dispiacere.
“Ama sentirti parlare.”
Gellert solleva lo sguardo, rivolgendogli un sorriso luminosissimo, prima di saltare in piedi e seguirlo al piano di sopra – i narcisi vibrano appena, abbandonati, ma tutte quelle crepe nessuno le nota.

 

 
 

Note dell’Autrice
Buonasera, cari lettori!
Torno con questo nuovo capitolo, in cui c’è l’ennesima lite, con risvolti diversi. Il senso di riproporre scene simili è far intuire al meglio la prigionia di Albus, e come Gellert la sovverta. Finalmente vi ho raccontato anche cos’è successo ad Ariana, anche se penso che ormai fosse intuibile.
Ah, spero si capisca, ma preferisco specificarlo lo stesso: Albus NON ha visto Gellert toccare Ariana, ma solo parlarle, ma è comunque inquieto senza sapersi spiegare perché.
Lasciatemi un parere, se vi va.

Mary

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Capitolo 7
*** Ephialtes ***


Ephialtes
incubo


L’estate passa lentamente, giorno dopo giorno, sempre uguale.
Ogni pomeriggio lui e Albus si sfiniscono nel delineare progetti di immortalità e rivoluzione, Gellert sogna campi di battaglia lordi di sangue e una pace infinita, Albus una pietra che gli cavi dal cuore quel fardello che lo fa sprofondare.
Ad ogni tramonto, lo straniero guarda quella bambina spezzata massacrare i fiori e le parla, fino a farsi dolere la gola – e ogni notte, sempre di più, si consuma tra le braccia di quel fratello che non la ama affatto, ma la sua fame non si placa nemmeno un po’.
Sono le tre di una notte vibrante di incubi, quando Gellert si solleva di scatto dal groviglio di lenzuola in cui giacciono entrambi – nella penombra della stanza il corpo bianco di Albus è un sudario che gli ricorda i suoi peccati (sbagliato è il corpo sbagliato), ma lui chiude gli occhi, pur di non vedere (non posso rinunciare a te non posso perderti è sbagliato ma non posso chissà se è questo il senso dell’amore).
Si alza, infilandosi qualcosa addosso senza nemmeno badarci – è l’odore di lui quello che gli pizzica il naso, non può fare a meno di sorridere, un sorriso amaro come veleno, stringendo la stoffa della camicia del suo unico amico tra le dita.
“Dove vai?”
La voce di Albus è impastata, è assonnato, le sue ciglia ramate sfarfallano. Gellert si china su di lui e gli sigilla le palpebre con un bacio.
“Ho solo sete, meine liebe. Continua a dormire i tuoi sogni incantati, torno subito.”
Albus sorride, prima di ricadere sui guanciali, pacifico – il dolore nel guardarlo è quasi insopportabile (perché non posso strapparti l’anima e portarla altrove), lo straniero lo sfiora un’ultima volta e si dilegua nel corridoio.
Nel bagno la luce è fioca. Beve l’acqua direttamente dal rubinetto, evitando di incrociare il proprio sguardo nello specchio – ci troverebbe solo incubi, niente risate, solo urla, niente sogni.
Ha la gola riarsa, i suoi stessi pensieri, impazziti, lo disturbano, sono peggio di una tortura. I suoi occhi cadono sempre più spesso sulla porta della stanza di lei, a pochi passi di distanza.
È solo un maledetto incubo, quello in cui è precipitato – Albus, Ariana, l’anima giusta nel corpo sbagliato, lei che è perduta, soltanto perduta.
Gellert sa di doversi fermare (ma non lo fa), spegne la luce e scivola nel corridoio denso di ombre, silenzioso come un gatto. I cardini nemmeno cigolano, in quella casa vecchia in cui tutto produce schiocchi e fruscii, quando schiude l’uscio e si infila nella camera della ragazzina.
Lei dorme, riversa nel letto in una camiciola d’un azzurro spento. Sta sognando, il suo viso pallido è contratto in un’espressione tesa, sofferente – le sue labbra articolano, fioche, quei gemiti metà singhiozzi metà sussurri.

Non dorme bene, ma lo straniero non se ne stupisce. Lei non parla più e non sogna più – solo gemiti, solo incubi.
Sa che sta sbagliando (Albus è di là che ti aspetta torna da lui fermati fermati fermati), ma le si avvicina ugualmente. Si siede sulla sponda del letto ed esita appena, ma alla fine cala una mano su di lei e le sfiora una spalla, scuotendola delicatamente.
Ariana si sveglia, rabbrividendo appena. I suoi occhi azzurri sono, come sempre, altrove; vagano per la stanza per qualche secondo, prima di orientarsi su di lui.
Lui le accarezza appena il viso, lei si lascia toccare come se neanche se ne accorgesse – ma lui sa che non è così.
“Stavi facendo un incubo, vero, mio fiore divelto?”
Lei sbatte appena le palpebre, muovendo la testa sul cuscino per inseguire quelle dita che la sfiorano pianissimo, sul mento, lungo il profilo della gola – lo straniero sa che potrebbe fare qualsiasi cosa (lei non parla mai lei non griderà non dirà una parola non si lascerà sfuggire nemmeno un urlo), ma la repulsione e il dolore gli frustrano le mani (sei rotta bambina mia un’anima spaccata in un corpo bellissimo).
Le sue dita accarezzano appena la camicia da notte di seta, avverte il rilievo delle costole sotto la stoffa. Il respiro di lei si affanna, lui ha le labbra così secche che gli fanno male anche solo nello schiuderle per sospirare.
Lo straniero la sfiora con gesti misurati d’equilibri infranti – la pelle delle sue gambe è freddissima, la tensione di quel momento morboso lo sta facendo impazzire (chissà di che colore porti le mutandine mio fiore in rovina), non lo farà, sa che non lo farà (per te Albus per te e la tua anima giusta nel corpo sbagliato), ma vederla contorcersi sul letto gli fa desiderare di non aver mai lasciato la Germania (lei non c’è lei è rotta e basta e sarebbe un gesto mostruoso sarebbe mostruoso ma bellissimo).
Gellert solleva di scatto le mani dalle sue cosce bianche e si ritrae. È cosparso di brividi e palpiti indesiderati, il respiro di lei così affannato lo convince quasi a tornare indietro, non riesce nemmeno a guardarla.
Si copre il volto, non lo stupisce affatto sentire i polsi tremare. È tutto sbagliato.
Lei si lascia sfuggire uno di quei gemiti da incubo che lo straniero ricorderà finché vive, e così si volta a guardarla. Lo sta osservando, e forse sono le ombre, forse è la sua immaginazione, ma c’è una consapevolezza sconosciuta in quegli occhi vacui.
Gellert sa di sbagliare (ma non si ferma) quando precipita con le labbra contro quella bocca schiusa, quando le strappa quel bacio goffo, surreale, impossibile – e lei geme contro i suoi denti e vibra d’una melodia che non ha niente a che fare con i narcisi che danzavano nel cielo e le risa stridenti e le grida di quel giorno in cui tutto s’è interrotto, Gellert le posa un bacio sul collo e i fiori sbocciano, strangolati nel buio.
Lo straniero si solleva da quel letto prima di smarrire qualsiasi controllo e si allontana da lei, quasi collassa contro lo stipite della porta.
Si volta a guardarla solo un’ultima volta.
“Tuo fratello manca di fede. Gli dimostrerò che tutto è possibile. Che tu sei possibile, mio fiore spezzato.”

 

 

 

Note dell’Autrice
Ed eccoci a quello che è forse il mio capitolo preferito di tutta la storia! Spero piaccia anche a voi.
Mi è uscito morbosetto, potevo esagerare di più, ma sarei andata contro la mia idea del personaggio. A questo proposito, volevo specificare che quando scrivo che a Gellert “la repulsione e il dolore frustano le mani”, intendo che non prova repulsione per lei, ma per la sua situazione e perché andare oltre sarebbe, a tutti gli effetti, un approfittarsene, un abuso.
“Meine liebe” dovrebbe significare “Amore mio”, secondo la mia scarsissima conoscenza del tedesco.
Fatemi sapere se vi è piaciuto!

Mary

 

 

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Capitolo 8
*** Acrasia ***


Acrasia

mancanza di autocontrollo


Ogni giorno che passa, Gellert si deve murare vivo tra le lenzuola per impedirsi di andare da lei – ogni notte, sfinisce Albus di baci e morsi e spinte feroci, finché non crollano entrambi stremati, e lui s’addormenta senza forze in un sonno denso di incubi che s’interrompe sempre poco prima dell’alba.

La bambina spezzata è un’ossessione che gli sta divorando il senno, la sua frustrazione si attorciglia come una serpe sempre più furiosa. Vorrebbe andare via e trascinare Albus con sé, hanno una ricerca, hanno una missione, il maledetto mondo non si rivoluzionerà da solo, ma il suo unico amico esita – “Non li posso abbandonare”, mormora, e Gellert non lo deride solo perché lo ama troppo, troppo, ha perso la testa per lui (dimenticando persino quel suo corpo sbagliato), ma sa anche che non possono restare nascosti in quel villaggio inglese per sempre.
Così un pomeriggio lo straniero dagli occhi verdi si lascia vincere dai suoi stessi pensieri imbizzarriti e perde il controllo.
“Non possiamo continuare così, Albus. Dobbiamo trovare i Doni.”
L’altro sospira, torcendo il polso in un gesto convulso – vorrebbe toccarlo (ma non lo fa) e questo indispone Gellert ancora di più.

“Ho dei doveri qui, lo sai anche tu... Aberforth deve finire la scuola, e non posso lasciarla da sola...”

“Se ci sbrighiamo a trovare i Doni, Ariana potrà badare a se stessa.”
Lo sguardo di Albus si fa gelido, i suoi occhi azzurri sono inclementi e irriconoscibili – lo straniero se ne sente quasi attratto.
“Ancora con questa storia, Gellert?”

“Perché non mi vuoi credere, Albus? È la Bacchetta di Sambuco, può fare qualunque cosa!”
Il suo unico amico sbotta in un verso di sdegno, di acuto disprezzo, scuotendo i capelli ramati, l’espressione fredda così diversa da quelle adoranti che gli si scavano in viso ogni notte – ogni notte, quando lo implora di non fermarsi e Gellert deve farsi male per non immaginare il volto di lei sciogliersi come cera tra le sue mani.
“Non questa! Sei un sognatore.”
“Lo dici come fosse un insulto.”
“Gellert...”
Albus scuote il capo, in un misto di tristezza e rassegnazione, sollevandosi dal letto e dirigendosi alla finestra – solo per allontanarsi da lui.
Lo straniero non lascia perdere, non può – non sa dire nemmeno lui se insista per disperazione o per necessità, sa solo che non riesce a controllarsi, e che il suo unico amico non creda in lui è un dolore insopportabile, un tradimento troppo grande per poterlo perdonare.
“Possiamo salvarla! Sarà la prima d’un milione di vite rimesse insieme, sarà l’emblema della nostra vittoria, la rivoluzione, il miracolo! Sarà-”
“Non voglio ascoltarti.”
Gellert si zittisce, quando Albus gli sputa addosso quelle parole piene di sofferenza. Non vuole farlo soffrire, non vuole che lui sia triste – ma poi pensa alla bambina che infesta i suoi incubi e non riesce a tacere, anche se farà male a se stesso e a lui (e forse anche a lei).
“Perché non mi lasci semplicemente tentare?”
Gellert prova a ricondurlo alla ragione, raccogliendo il suo volto tra le mani e costringendolo a guardarlo. I suoi occhi azzurri sono freddi (ma velati di lacrime) e una morsa gli torce lo stomaco.
Albus si scosta da quella presa delicata e gli volta le spalle, il profilo rivolto al panorama oltre la finestra.
“La Bacchetta non la aggiusterà mai, Gellert.”
“Albus...”
“Ti prego, smettila di parlarne. Smettila di farmi male.
Quando Gellert lo stringe tra le braccia, Albus vi si lascia cadere senza una parola.

 

Lo straniero ha preso una decisione – ha scelto l’anima giusta nel corpo sbagliato, ha bandito la bambina spezzata e i suoi fiori in rovina dai propri pensieri, per sempre, per sempre, e non importa affatto che la sogni ogni notte e che la sente gemere (quei gemiti metà singhiozzi metà sussurri) in ogni angolo della casa, il controllo si perde ma si può anche addomesticare.

Al tramonto, non siede più in giardino a raccontarle di un mondo perfetto che non si realizzerà mai (quel futuro è perduto ce n’è un altro da scrivere e Albus sarà insieme a lui), non la guarda più stracciare i fiori. Sa che lei è lì, la porta che dà sul retro è sempre schiusa, ma non si volta più a cercare i suoi riccioli dorati con lo sguardo.

Le mani magre di Ariana, di nuovo bianche come porcellana, tornano lentamente a riempirsi di lividi, mentre i pomeriggi passano e lo straniero finge che lei nemmeno esista. Lui non torna mai e la ragazzina ricomincia a intrecciare corone di fiori, ma non ci riesce e si fa male, ancora e ancora e ancora. Smette di mangiare, piange ogni volta che Aberforth cerca di convincerla a inghiottire anche un solo boccone – Albus finge di non vedere o forse di non capire, e Gellert deve serrare le mani fino a conficcarsi le unghie nei palmi per costringersi a non tornare indietro (non può e non lo farà).
I narcisi vibrano sempre più spesso, quelle crepe tutti le notano ma nessuno le aggiusta.




Note dell’Autrice
E siamo quasi alla fine di questa piccola long, venerdì posterò il finale.
Spero che vi stia piacendo. Fatemi sapere!

Mary

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Capitolo 9
*** Hävitä ***


Hävitä

scomparire, svanire, perdersi


Ariana abita in un mondo tetro dove il tempo non ha significato.

La sua vita è un susseguirsi di momenti luminosi di sole (la sua voce niente fiori spezzati niente dita nere di lividi) e attimi dove il buio si addensa e i narcisi si sollevano crudeli per ballare nel cielo (il volto di sua madre inerte sul pavimento le grida dei suoi fratelli la risata dello straniero dagli occhi verde menta).
I suoi ricordi non sono lineari, a volte le sembra ieri il giorno in cui tutto s’è interrotto e a volte non ci pensa per settimane, per mesi interi. Ricorda ossessivamente la notte in cui Gellert è entrato nella sua stanza – le sue dita sulla pelle delle cosce, l’affanno del proprio respiro, quel misto disperato di paura e desiderio, confusione, e poi la sua bocca sulla propria e il suo sapore e il calore di quelle labbra salate come lacrime, le sue parole impossibili (Ariana non capisce sempre ma quella volta sì quella volta ha capito e ha provato felicità, felicità e speranza).
Lo straniero, però, non parla più.
Non la guarda e ride tra le braccia di Albus, mentre Ariana abbandona i fiori sul pavimento e rifiuta di mangiare. Non ci sono più storie d’un mondo perfetto, sogni che popolano il buio – la sua voce di miele è annegata tra risa stridenti, e le tenebre crepitano sempre più forte.

L’ha abbandonata – i fiori frusciano e le crepe iniziano a sembrare baratri.

Ariana strappa i narcisi con sempre più ferocia.
Di corone ne ha avuto abbastanza per una vita (distrutta) intera.

È una mattina tetra quando Ariana, spaesata, fragile, senza lividi, lo cerca.
Gellert è sceso dalle scale per dirigersi in cucina, la sua voce allegra è ancora intenta ad articolare qualcosa ad Albus, che è rimasto in camera, lei lo sente e si solleva dal prato in cui giace come fosse già morta.
Si incontrano nel salone in penombra. Lo straniero si paralizza, davanti a quello sguardo azzurro così intenso, così consapevole (come la notte in cui l’ha baciata la notte in cui avrebbe voluto dissacrarla e invece è scappato come il codardo che non è mai stato), e non può fare a meno di rabbrividire.
Lei trema, sente le lacrime pungerle gli occhi anche se non capisce perché (ha sette anni e non ha avuto neanche il tempo di piangere ancora rideva quando l’hanno fatta a pezzi) e così tende quelle mani magre verso di lui.
Lo straniero raccoglie quella supplica e bacia quelle dita senza lividi – sa che se uno dei suoi fratelli dovesse vederli scoppierebbe un disastro, sa che Albus non lo perdonerebbe mai, ma lei ha quell’aria persa, come se fosse sul punto di svanire, di dissolversi, scomparsa come il blu di quegli ematomi che non la adornano più, e senza lividi è ancora terrena oppure no?
Gli occhi di Gellert piangono un futuro che non si realizzerà mai, mentre le sfiora appena la gola.
“Se avessi potuto salvarti, forse noi...”

Ariana si lascia sfuggire uno di quei gemiti metà singhiozzi metà sussurri (perché capisce) e strattona il braccio dello straniero per attirarlo più vicino. Lui non oppone resistenza, le sue mani si chiudono su quel viso magro e le sue labbra le sporcano la bocca (Ariana è felice anche se piange mentre respira il suo respiro). Tutto sembra precipitare, e non importano le anime (giuste sbagliate non importa più), non importano i corpi (giusti sbagliati non importa più), non importa il sangue (fratelli legami una verginità da stracciare), tutto crolla e sparisce e si disintegra in quel bacio famelico.
Gellert la sta ancora baciando quando Aberforth varca la porta del salone.

 

Tutto si congela per un istante infinitesimale – poi lo straniero la lascia andare come se si fosse scottato, lei piange ma le sue dita impacciate cercano di trattenerlo per la stoffa della camicia (è la camicia di suo fratello Albus) e Aberforth grida sfoderando la bacchetta.
Ariana singhiozza forte mentre loro due si battono a duello. Lo straniero ride di disprezzo e suo fratello è troppo furioso per articolare anche una sola parola, Albus si precipita giù dalle scale e resta attonito a fissare la scena, poi sfodera la bacchetta a sua volta.
Ariana piange, mentre nei suoi ricordi i narcisi ballano sfrenati (i Babbani l’hanno presa a calci fino a farle sputare sangue lei urlava e loro ridevano e calpestavano i suoi fiori le sue corone perfette e lei piangeva perché i fiori erano innocenti i fiori non avevano fatto niente di male), dondola su se stessa, cercando di ignorare le urla – ma lo straniero sta torturando il suo Aberforth e tutto svanisce e niente sarà mai più come prima.
Albus supplica, Gellert col sorriso rosso per un labbro spaccato lo spinge via (avresti dovuto educarlo tu stesso amore mio guarda cosa mi stai costringendo a fare) e Ariana piange disperata, ma tutte quelle crepe nessuno le nota.

Lei sa che è soltanto colpa sua (per quel bacio per quella notte per quei racconti di mondi ideali) e geme i suoi sussurri incompresi. Vorrebbe chiamare i loro nomi, ma non può, non può – i Babbani l’hanno fatta a pezzi perché giocava coi fiori e lei ha perso la voce ha perso il senno ha perso tutto, anima rotta in un corpo bellissimo incapace di farsi ascoltare.

Ariana si strappa i riccioli mentre sente la pazzia schizzarle fuori dalla testa, le orbite doloranti come se ci avessero conficcato dei chiodi – ma nessuno la sente, nessuno la vede, a nessuno importa.
Le urla di Aberforth sono assordanti, raccapriccianti, la bacchetta giace inerme tra le dita di Albus mentre le suppliche gli cadono dalle labbra come le lacrime dal viso, Gellert ride della sua risata irrefrenabile ma non smette, e si scrolla di dosso il suo unico amico quando questi gli si aggrappa alla camicia (è la sua camicia ha addosso la sua camicia ha tutto il suo amore ma lo sta facendo a pezzi ugualmente).
Ariana non ci pensa più e scatta in avanti – non possono sentirla ma possono vederla e lei li fermerà li fermerà a qualunque costo perché li ama tutti li ama tutti pazzamente – ma la magia dentro di lei è impazzita ed esplode, e nello stesso istante Albus solleva la bacchetta per fermare quello scempio, e non la vede, semplicemente non la vede (è accecato dalle lacrime meine liebe che cosa stai facendo), e in un istante è tutto finito.
Aberforth non grida più, Gellert non ride, Albus non piange – e la bambina spezzata giace sul marmo bianco del pavimento, interrotta per sempre.

La porta che si chiude dietro i capelli biondi di Gellert fa male soltanto un po’.

 

 

 

Note dell’Autrice
Ed eccoci alla fine di questa storia. L’ultimo capitolo l’ho voluto scrivere dando voce ad Ariana e utilizzando il suo punto di vista.
Spero vi sia piaciuta. Grazie a tutti quelli che sono rimasti con me in questa piccola avventura.

Mary

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