Il ballo dei narcisi di Mary Black (/viewuser.php?uid=22074)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mnestic ***
Capitolo 2: *** Ascian ***
Capitolo 3: *** Wabi-sabi ***
Capitolo 4: *** Eccedentesiast ***
Capitolo 5: *** Metensomatosis ***
Capitolo 6: *** Longanimity ***
Capitolo 7: *** Ephialtes ***
Capitolo 8: *** Acrasia ***
Capitolo 9: *** Hävitä ***
Capitolo 1 *** Mnestic ***
Mnestic
pertinente alla memoria
Lo straniero dagli
occhi verdi ricorda perfettamente la
prima volta in cui l’ha vista – abbandonata sul prato, il vestito
bianco
schiuso come una corolla attorno alle gambe snelle, il grembo inondato
di
fiori, le dita graffiate.
Il suo nuovo amico, il vicino dalla mente acuta e i capelli ramati,
si
torce le mani al suo fianco. Quel fratello solitario che si ritrova ha
un’espressione ostile incisa nei lineamenti duri e macina disprezzo ad
ogni
sbuffo.
Irrilevanti.
Lo straniero li ignora – insolitamente silenzioso, insolitamente
calmo,
niente scoppi di risa, niente labbra che si stirano fino a dolere e
niente
denti che azzannano l’aria, solo quel mutismo contemplativo che non gli
è proprio.
Lei sospira. Un respiro svagato, un po’ tremulo. Le sue ciglia
dorate
sbattono piano, il sole le fa scintillare.
Le sue dita sottili si adoperano, ostinate, attorno ai fiori.
Scivolano,
impacciate, sgraziate, su una corona di petali sgualciti. Perdono il
filo e
ricominciano, instancabili – lui si chiede se lei non stia
semplicemente
cercando di ricordare, ricordare come si fa a intrecciare i fiori,
ricordare
come si fa a ritrovare la strada in una realtà fatta di riverberi
infiniti e fruscii
di narcisi bianchi.
Gli occhi verdi dello straniero osservano quei movimenti convulsi con
interesse. Ha inchiodati addosso due paia di sguardi identici – uno
gronda
preoccupazione e l’altro è acuminato di disprezzo, ma l’azzurro è lo
stesso.
Insignificante.
Lei geme, disperata. I narcisi giacciono squarciati tutt’intorno a lei,
le
corolle pallide divelte dallo stelo.
Di quella coroncina che tanto desidera non restano che brandelli –
e quei
gemiti metà singhiozzi metà sussurri che le sfuggono a intermittenza.
“Che cosa ne pensi?”
Albus parla all’improvviso, incapace di reggere la tensione un minuto
di più.
La testa di lei scatta impercettibilmente, e gli occhi dello straniero
brillano, spettrali.
“Che cosa ne pensa? Che cosa ne pensa?” l’indignazione
dell’altro
Silente, del Silente sbagliato, strappa un sorriso ricurvo di
disprezzo
a quelle labbra perfette, “Non è un oggetto, fratello. È nostra
sorella.”
“Aberforth, sai cosa volevo intendere.”
“No, che non lo so.”
Lo straniero ricorda cos’ha pensato, in quell’istante – attenzione,
pericolo.
Lei scuote la testa a scatti, i riccioli biondi saltano come molle
rotte –
ingranaggi impazziti sotto quella cascata di capelli, una bocca
innocente
incurvata all’insù un po’ per caso, il buio si addensa e i narcisi
prendono il
volo, ma nessuno li vede, nessuno può vederli danzare nel buio tranne
lei,
tranne lei.
Lo straniero la guarda, le dita che si inceppano e franano e si torcono
mentre
lei cerca di intrecciare i fiori.
“Non l’hai mai sopportata!”
“Sei ingiusto. Ho lasciato tutto per occuparmi di voi.”
“Ti aspetti anche un ringraziamento per aver fatto il tuo dovere?”
Lei dondola su se stessa, il viso rivolto verso i fiori trucidati sul
suo
grembo, i riccioli biondi incendiati di sole sono quasi dolorosi da
guardare.
Lo straniero dalla faccia allegra pensa che, però, niente sia
doloroso
quanto quello che le si agita sotto la fronte d’avorio, in quella
memoria fatta
di schegge rotte.
I suoi fratelli litigano, Aberforth ferisce con l’oltraggio e Albus si
scherma
con un’indifferenza glaciale che non riesce a dissimulare del tutto il
rimpianto, e le dita di lei si contraggono, sempre più convulsive,
sempre più
sgraziate – gli occhi verdi dello straniero scovano i lividi
sbiaditi sulle
nocche, i graffi irregolari sui palmi.
Lei strappa manciate di erba insieme a qualche corolla, lui la guarda
fare a
pezzi i narcisi con sempre più violenza, il volto da bambola soffuso di
riccioli.
Aberforth ringhia e Albus sibila, e nessuno dei due nota quelle dita
piene di
lividi che artigliano i petali e li torturano.
Pericolo.
Lo straniero le si avvicina, in uno scatto fluido.
Le voci dei Silente si spengono, fulminate, lui sorride appena ma non
si ferma
finché non si trova davanti a lei, col suo vestito macchiato e i suoi
fiori in
rovina e le iridi spente rivolte altrove.
Si piega sulle ginocchia, gli occhi verdi come un’aurora boreale persi
su di
lei.
“Mi sembra perfetta. Lo sei, vero, fiore mio?”
Albus si lascia sfuggire un sospiro d’atroce sollievo e Aberforth
ringhia –
li odia entrambi e l’odio non morirà mai, non nei suoi ricordi affilati
come
coltelli.
“Si chiama Ariana!”
“Ariana, che bel nome” nell’udire quel tono rabbioso, lo straniero si
distende
un sorriso abbacinante sul volto allegro, “Io mi chiamo Gellert.”
La bambina spezzata alza lo sguardo su di lui e sorride, di nuovo
pacifica.
Note
dell’Autrice
Sono davvero felice di tornare a scrivere, e con i miei personaggi
preferiti!
Questa storia presenterà le coppie Albus/Gellert e Gellert/Ariana. La
Grindeldore
è la mia OTP e ci tengo a precisare che in questa storia non rispetto
pienamente le mie idee su di loro, poiché i miei headcanon cambiano
quando nel
quadro si inserisce Ariana, in un ruolo diverso da quello di sorella di
Albus.
La storia è stata scritta seguendo i prompt della lista pumpWord
dell’iniziativa
del #Writober2021, organizzata dal sito Fanwriter.it. Ho scelto soltanto
i primi 9 prompt e,
visto che non intendo proseguire con gli altri, pubblicherò un paio di
volte a
settimana (il venerdì e il martedì), invece di tutti i giorni.
Spero che questa piccola minilong vi piaccia!
Lasciatemi un parere, se vi va.
Mary
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Capitolo 2 *** Ascian ***
Ascian
una
cosa o una persona senza ombra
Gellert si reca a
casa Silente tutti i pomeriggi.
Non pensava che sarebbe mai successo: trovare un’anima affine, un
compagno del
suo stesso genio, un alleato. Il Destino, beffardo, gli ha servito su
un piatto
d’argento quel ragazzo dai capelli ramati e gli occhi freddi che
condivide il
suo sogno di grandezza – trovare i Doni, rovesciare la propria
vita,
costruire un impero sulle rovine di una società guastata dal marciume.
Gli è impossibile separarsi da lui e dal loro progetto – poco
importano gli
sguardi che il suo compagno gli lancia quando crede di non essere
osservato,
poco importano i brividi che gli increspano la pelle ogni volta in cui
lo
sfiora, Gellert sfoggia il suo sorriso metà lascivia metà tortura e gli
passa
le dita lungo il collo solo per vederlo sussultare.
A Gellert è sempre piaciuto giocare, e Albus è la perfezione – ma
il Destino
ha offerto allo straniero dagli occhi verdi una coppa avvelenata, e il
tarlo ha
uno sguardo spento e mani magre piene di fiori.
Non ha più visto la ragazzina da quel giorno sfolgorante di sole.
Ogni pomeriggio si guarda attorno, un po’ per caso, un po’ perché non
riesce a farne
a meno. La porta della veranda che affaccia sul giardino sul retro è
sempre
schiusa, ma ogni giorno Albus lo conduce al piano di sopra senza mai
voltarsi,
così Gellert lo segue, sufficientemente ammaliato dalla sua voce
candida da
lasciarsi distrarre. È facilissimo lasciarsi incantare dal nuovo
vicino, dai
suoi occhi azzurrissimi, penetranti come un fuso dietro gli occhiali a
mezzaluna, come dalla sua intelligenza che è quasi altrettanto pungente
– lo
straniero ride fino a sfinirsi ogni volta in cui lui gli tiene testa,
ogni volta
in cui le loro idee gemelle collidono e si fondono (dove sei stato per
tutto
questo tempo dove dove mai più ti nasconderai da me).
Ogni tanto incontrano Aberforth lungo le scale, con i suoi capelli
rossi sempre
arruffati e l’aria di sfida, e Gellert sfoggia il suo sorriso più
ambiguo,
tutto fossette e commiserazione. Disprezza quel ragazzino perennemente
imbronciato,
ma adora già suo fratello quel tanto che basta per lasciar correre –
non sarebbe
stato così anche soltanto qualche mese prima, quando a Durmstrang la
sua
antipatia si pagava a caro prezzo.
La casa è silenziosa, chiusa in un’eterna penombra. Qualche lama di
luce macula
il pavimento, evidenzia la polvere che volteggia nell’aria. Sembra di
stare dentro
un mausoleo, tant’è tombale l’atmosfera che si respira lì dentro.
La bambina spezzata sembra non esistere neanche. Non un lamento, non un
gemito.
Ma lui sa che lei è lì, la bambina senza macchia dal volto
inespressivo,
niente ombre nei suoi occhi color dei fiordalisi, e resistere è
estenuante,
estenuante (come lo è sognarla ogni notte).
È un giorno come tanti quando
Gellert scende le scale col
consueto brio e nemmeno s’avvicina alla porta d’ingresso, ma si lascia
scivolare lungo il salone e più in là, oltre l’uscio schiuso della
veranda.
Albus freme, la sua voce articola un mormorio indistinto che suona come
una
protesta – le rimostranze gli muoiono sulle labbra quando lo
straniero dagli
occhi verdi si volta e si lascia sfuggire una risata impenitente, lo
sguardo
perso nel suo.
Gellert sorride ad Albus e oltrepassa la porta che dà sul retro.
Sbuca nel
giardino e la bambina spezzata è lì. Senza ombre nel sole del tramonto,
i
riccioli luminosi, narcisi in rovina tutt’intorno a lei.
Quando
scorge lo straniero
dalla voce di miele, Ariana s’illumina, ride – il suo volto
inespressivo è
acceso da una gioia selvaggia, e sembra quasi vera, sembra quasi viva.
“Ciao, Ariana” mormora Gellert, lasciandosi cadere seduto vicino a
lei,
“Volevo farti un saluto. Ti ricordi di me?”
Lei lo fissa per attimi interminabili.
Tutto s’immobilizza, il mondo stesso pare torcersi e paralizzarsi:
Aberforth ha
smesso di dare da mangiare alla sua capra per osservare la scena; Albus
sosta
sul limitare della porta come se avesse paura di incespicare in un
cumulo di
rovi, e il sorriso di Gellert è sempre più ampio, sempre più luminoso,
doloroso
da guardare come il sole che si riflette in uno specchio.
Ma poi Ariana annuisce, bella d’una bellezza svaporata, sbiadita,
niente ombre
nei suoi occhi azzurri – e Albus freme, perché lei sembra quasi lì
con loro,
e Aberforth ringhia, folle di delusione e gelosia e dolore, e Gellert
ride
della sua risata irrefrenabile e, con uno schiocco di dita, fa
sbocciare cento
narcisi bianchi attorno a lei.
Ariana è felice. Sorride e inizia a massacrare i fiori, Gellert resta a
guardarla finché il sole non tramonta dietro le siepi.
Note dell’Autrice
Eccomi qui, come promesso, col secondo capitolo! Intanto voglio
ringraziare
tutti i lettori per il sostegno, sono davvero felice che la storia vi
piaccia.
Qualche precisazione: è una storia estremamente introspettiva,
soprattutto i
primi tre capitoli girano soprattutto intorno alle caratterizzazioni
dei
personaggi. È una scelta voluta, ma anche un po’ obbligata,
considerando il Canon
(sostanzialmente, in quell’estate Albus e Gellert si limitano a parlare
e progettare,
non succede molto di attivo, o almeno io l’ho sempre immaginata così).
In questo
capitolo, ho voluto introdurre il rapporto tra Albus e Gellert, e
mettere le
basi del rapporto tra Gellert e Ariana (che, lo preciso qua visto che
nel testo
non l’ho mai specificato, ha 14 anni, secondo la mia idea).
Bene, spero che la storia vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate!
Mary
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Capitolo 3 *** Wabi-sabi ***
Wabi-sabi
la
scoperta della bellezza
nell’imperfezione
A ogni tramonto, Gellert insiste nel voler andare a trovare quella
sorella che
Albus non ama affatto – e lui cede, perché è affascinato dallo
straniero
dagli occhi verdi e dal suo modo di parlare che gli ricorda qualcosa di
esotico, di letale, come la musica di un incantatore di serpenti, e
perché ogni
volta in cui lo sfiora i brividi quasi gli stracciano l’anima.
Gellert siede vicino
a lei, che è altrove, che è rotta, imperfetta, e non le stacca
gli occhi
di dosso finché non è il buio della sera a tagliargli la vista.
Albus freme di
curiosità e perplessità – i sensi di colpa gli masticano le ossa,
ma lui li
riduce in silenzio senza esitare.
Così alla fine, un giorno, cede.
“Che cosa ci trovi
d’interessante in lei? Non è nemmeno qui con noi.”
Gellert la osserva – è innocente, vacua, ma i lividi sulla sua
pelle
dimostrano ch’è terrena.
Non sa dire che cosa ci sia d’affascinante in lei, ma guardarla
intrecciare
fiori e fallire ha qualcosa d’irresistibile.
“Proprio questo.”
Albus si sigilla una domanda velata di smania dietro le labbra,
Gellert se
ne accorge e si lascia sfuggire una risata fioca che fa vibrare
scompostamente
Ariana.
Aberforth si avvicina, inascoltato, livido in viso – lei era sua,
ma ora
che lo straniero se n’è appropriato per lei non esiste nient’altro,
nessun
altro.
“Non è uno dei vostri argomenti di conversazione difficile o uno dei
vostri
esperimenti” sbotta duramente, feroce nei suoi quindici anni di sdegno,
“Non è
un giocattolo, è una persona, è...”
È la mia sorellina, vorrebbe dire, ma le parole gli si sciolgono in
gola – sa
che suonerebbero come la supplica di un bambino.
Gellert solleva uno sguardo affilato verso di lui. È un’occhiata fredda
che non
conosce la pietà, Albus se ne ritrae con un sussulto.
“Magari, se fosse uno dei nostri esperimenti, avrebbe una
possibilità”
sibila, incomprensibile, la voce il solito sussurro dolce come miele
che la fa
ridere, “Ti suggerisco di non impicciarti di affari che semplicemente
non
capisci. E che non ti competono.”
“Lei mi compete, è mia sorella!”
Gellert sorride, morbido, condiscendente, e punta gli occhi, verdi come
foglie
di menta, sul suo unico amico.
Albus tentenna appena, ma alla fine cede – Gellert non deve nemmeno
chiedere, con lui.
“Smettila, Aberforth. Gellert non fa nulla di male.”
Suo fratello gli si rivolta contro come un cinghiale ferito.
“Non fai altro che difenderlo” gli ringhia contro, con rabbia, “Non ti
sembra
strano che non faccia che fissarla? È inquietante!”
“Non dire sciocchezze! E poi Ariana adora Gellert, ride sempre quando
lui viene
a trovarla...”
“Ah, ma certo! La verità è che gli permetteresti anche di sputarti in
faccia,
se lui solo te lo chiedesse, fratello.”
“Stai passando ogni limite, Aberforth.”
Il sorriso di Gellert è così ampio da fargli dolere le labbra, ma lui
non ha
occhi che per Ariana – i petali si torcono sotto le sue dita piene
di graffi,
le corone incomplete che ha intrecciato nel pomeriggio vengono fatte a
pezzi, e
nei suoi ricordi i narcisi prendono il volo, danzando nel buio.
Gellert pensa che lei sia semplicemente perfetta, pur rotta com’è, la
bambina
spezzata senza ombre e con gli occhi azzurri vuoti come specchi.
La ragazzina che maciulla i fiori e dondola su se stessa, mentre il
sole muore
dietro le siepi.
I suoi fratelli urlano, ormai senza ritegno, e le mani magre di Ariana,
quelle
mani magre piene di lividi, si sollevano, spaesate, prima di chiudersi
sulle
sue stesse tempie – Gellert vede le dita stritolare i riccioli,
scorge le
lacrime sul suo viso infranto, e la trova bella come un dipinto antico
squarciato dalla lama di un coltello.
Pericolo, pensa lo straniero, ma stavolta non la ferma.
Un lamento disperato le sfugge dalle labbra, Albus e Aberforth si
voltano di
scatto a fissarla ma è tardi, è troppo tardi. I narcisi schizzano in
aria,
vorticando nel cielo blu polvere della sera, e lei geme, tirandosi i
capelli e
dondolando freneticamente su se stessa.
Gli occhi verdi dello straniero sono sgranati in adorazione, ma lei è
troppo
lontana, è altrove, nel buio dove i fiori le hanno fatto male
la prima
volta, e ormai i suoi gemiti si sono trasformati in singhiozzi,
singhiozzi
striduli che si confondono col frastuono del legno che si spacca.
Alle sue spalle, l’olmo secolare stride, privato di un ramo, che crolla
a terra
in un baccano infernale che la fa solo piangere più forte.
I suoi fratelli sono paralizzati da quello scoppio di magia
incontrollata, ma
Gellert ride – sentirlo ridere la riporta indietro, via dal buio, e
quando Ariana
spalanca le palpebre e gli punta contro quei suoi occhi azzurri
disincarnati e
pieni di lacrime, i narcisi piombano a terra, inerti, insignificanti,
finalmente
morti.
“Sei speciale, vero, fiore mio?”
Note
dell’Autrice
Eccoci al terzo capitolo! Vi ringrazio tutte per il sostegno – a giorni
risponderò anche alle recensioni, promesso.
In questo capitolo – l’ultimo di transizione, poi si entra più nel
vivo! –
vediamo i rapporti tra Albus e Gellert farsi sempre più stretti, e
iniziamo a
intuire cosa sia davvero Ariana, i suoi traumi, l’interesse che suscita
nello
straniero dagli occhi verdi.
Spero che la storia continui a piacervi a intrigarvi! Ci vediamo
martedì.
Mary
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Capitolo 4 *** Eccedentesiast ***
Eccedentesiast
chi
nasconde il dolore dietro il
sorriso
Ogni tanto Gellert lascia cadere qualche domanda, ma Albus non ne parla
volentieri, il volto che si tramuta in pietra solo a sentire il suo
nome,
così lui non insiste – ma la curiosità brucia sotto pelle, lo tiene
sveglio
la notte mentre pensa a quel viso squisito totalmente inespressivo, ai
capelli
biondi come miele, a quelle gambe che spariscono sotto la gonna
cosparsa di
petali squarciati, e vuole sapere, deve sapere, che cosa ti è
successo
mio fiore divelto?
Gellert non è abituato a non cedere ai propri capricci, non è abituato
a non
avere ciò che vuole. Guarda Albus e vorrebbe scoperchiargli il cranio
per
strappargli l’unico pensiero, l’unico ricordo, l’unico segreto
che non
sembra disposto a cedergli.
Gellert usa persuasione, lusinghe, carezze – un repertorio
collaudato metà
lascivia metà tortura, tra uno scoppio di risa e un bacio sul collo
lasciato
cadere quasi per caso, nemmeno deve fingere, ama il modo in cui
il suo
compagno vibra sotto le sue dita, quel sorriso sfibrato che nasconde il
dolore.
Albus trema ma non cede, e il sorriso di Gellert è sempre un po’ più
acuminato.
È un’estate in rovina, che si snoda tra progetti di immortalità e la
comunione
con un’anima con cui Gellert spera di vivere per sempre – ma la
notte nei
suoi pensieri c’è la bambina spezzata col viso impassibile e le dita
piene di
lividi, la bambina misteriosa che squarcia i narcisi bianchi, soltanto
narcisi
bianchi.
Gellert non sa resistere, così un giorno si avvicina ad Albus e chiude
il libro
che lui tiene tra le mani – il suo compagno trema e solleva gli
occhi
azzurri sul suo viso, Gellert pensa che detesta quegli occhiali (sono
una
finzione, una barriera, e lui deve avere tutto di Albus, tutto quanto),
così
glieli sfila di dosso senza esitazione.
“Voglio sapere che cos’è successo ad Ariana.”
Albus s’irrigidisce, esita. Il suo sguardo si allontana dallo straniero
dagli
occhi verdi e vaga per la stanza, ma non può fare a meno di precipitare
di
nuovo su di lui quando intuisce che sta indossando i suoi occhiali.
“Cosa stai facendo?”
“Mein Gott, Albus, sei praticamente cieco.”
“Gellert.”
“Cosa c’è?”
Il sorriso dello straniero è abbagliante, l’espressione severa di Albus
si
scioglie appena.
“Sii serio.”
“Pensavo avessimo bandito i discorsi seri” allude Gellert, come fosse
un caso,
ma i suoi occhi verdi come un’aurora boreale lo inchiodano, “Altrimenti
mi
diresti ciò che voglio sapere.”
Albus tace, sconfitto
– ha il suo sorriso nascondi-dolore sul volto, ma sembra più che
stia
piangendo.
A Gellert fanno male le labbra dal piacere lacerante che prova nel
vederlo
cedere, a lui, come ogni volta – come sempre.
“Come posso pensare di condividere con te il mio grande
progetto, se non
ti fidi di me nemmeno abbastanza da raccontarmi qualcosa di così
importante?”
Albus sospira – non vuole cedere, non vuole disseppellire tutto
quel
marciume, il dolore si nasconde dietro un sorriso, sua madre gliel’ha
insegnato
quando a cinque anni si è scorticato un ginocchio giocando sulla riva
del fiume
e lui non l’ha mai dimenticato.
Gellert soffoca l’impazienza affondandosi i denti nelle labbra –
lo
sguardo di Albus precipita sulla sua bocca – e gli afferra le mani.
La pelle di Albus è
liscia, fredda – ha sempre le mani fredde. Albus sorride, incerto –
per
nascondere il dolore?
“Come posso pensare
di affidarti la mia vita, se non credi in me?”
Gli occhi di Gellert sono sgranati e verdissimi e commoventi. Albus
trema, trema, trema, ma il suo volto resta impassibile come
quello della
sorella che non ama affatto.
“Io credo in te, Gellert, tu sei...”
Irresistibile.
“Dimostramelo.”
“Gellert...”
“Albus.”
Lo straniero quasi non sa dire d’averlo deciso, quando allontana con
uno scatto
le dita dalle sue. Un lampo di dolore attraversa lo sguardo di Albus,
sostituito dalla confusione, quando quelle mani pallide gli si chiudono
contro
le guance.
La bocca di Gellert gli si schianta addosso, divora quel sorriso
cortese che
gli hanno insegnato a incidersi sul viso quando qualcosa fa male,
e
Albus ha a malapena il tempo di sussultare prima di trovarsi a
stringerlo a sua
volta.
Gellert si separa da lui col respiro corto – guarda la sua bocca
arrossata e
sa d’averlo baciato perché lo voleva, ma sa anche che per la bambina
spezzata e
il suo mistero niente sarebbe un prezzo troppo alto, niente di niente,
ed è un
pensiero che lo fa impazzire.
Albus sorride di un sorriso pulito, limpido – niente ombre, niente urla.
Lo straniero pensa che lo preferisce quando è meno radioso, quando la finzione
gli sporca il viso – perché lui la riconosce, lui la scova, lui lo sa
che
sorride per nascondere il dolore, e lui ama essere l’unico in
grado di
capirlo.
“Te lo racconterò” concede Albus, sfiorandogli la tempia con la
punta delle
dita.
Gellert crolla il capo contro il suo polso e respira il suo odore, ad
occhi
chiusi – nei suoi ricordi, la bambina spezzata sorride, trucidando
i
narcisi.
Note
dell’Autrice
Eccomi di nuovo
qui! Intanto ringrazio tutti voi che
state seguendo la mia storia, mi rendete felice.
In questo capitolo, tutto dedicato alla Grindeldore, si delinea meglio
il
rapporto tra Albus e Gellert, fitto di ombre e dubbi come loro: Gellert
ha
baciato Albus perché lo voleva, ma anche perché sa di esercitare meglio
il suo
ascendente su di lui così, e vuole sapere cos’è successo ad Ariana ad
ogni
costo. Ve lo dirò, ma dovrete pazientare!
Ah, “Mein Gott” in tedesco è “Mio Dio”.
A venerdì!
Mary
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Capitolo 5 *** Metensomatosis ***
Metensomatosis
la
migrazione di un’anima da un corpo a
un altro
È un’estate in rovina
e lo straniero dagli occhi verdi impara che bisogna stare attenti, a
ciò che si
desidera.
Albus gli ha svelato ogni cosa – il segreto della bambina
perduta, tutto
quell’orrendo marciume, il ballo dei narcisi.
Gellert non riesce
più a guardarla con gli stessi occhi, quando la osserva fare a pezzi i
fiori
nel giardino sul retro, così innocente eppure, al tempo stesso, così
rotta.
Gellert si affonda le mezze lune delle unghie nei palmi, affilando
sorrisi
mentre Albus parla di un Destino da soggiogare e di artefatti da
trovare –
ma nei suoi pensieri impazziti la rabbia si agita, si gonfia, e non
soccomberle
è difficile come lo è trattenersi dal baciare il collo bianco di lei e
le mani
fredde di lui.
Lo straniero è sempre più irrequieto, ipotesi e possibilità germogliano
nei suoi occhi verdi come le aurore del cielo del nord, e
l’insoddisfazione lo
rende schivo, impaziente, nevrotico. Scoppia in risate
inopportune,
schiavo dei suoi stessi balzi d’umore – “Sei lunatico”, mormora
Albus,
sempre più spesso, e lui gli strappa la preoccupazione dal volto con un
bacio,
ogni volta, sempre più spesso.
Gellert è incapace di accettare che il mondo non sia come lo
desidera,
quindi ha imparato a farlo a pezzi e a plasmarlo a sua immagine e
somiglianza.
È una notte fredda di
un agosto insolitamente inclemente, quando lo straniero dagli occhi
verdi scala
per la prima volta il fianco della casa del suo unico amico.
La pendola nel
salotto di sua zia ha suonato da poco la mezzanotte, quando ha lasciato
il
tepore rassicurante del villino per inoltrarsi nella pioggia battente.
Un lampo
illumina il cielo con ferocia, quando arriva a bussare alla finestra di
Albus è
bagnato fin dentro le ossa, appollaiato sul cornicione in precario
equilibrio con
un sorriso estatico dipinto in faccia.
“Gellert, ma cosa diavolo...”
Albus gli apre, sconcertato, e Gellert piomba nella sua stanza da letto
scrollandosi i capelli fradici d’acqua piovana.
“Volevo vederti.”
“È mezzanotte passata, ed è anche pericoloso darsi alle arrampicate
notturne! E
comunque stavo rispondendo alla tua lettera, se avessi avuto un minimo
di
pazienza, avresti-”
“La pazienza non fa per me, Albus.”
Qualcosa nel tono dello straniero riduce al silenzio l’altro, che lo
fissa da
dietro gli occhiali a mezzaluna con uno sguardo acuto, penetrante –
e
l’azzurro è proprio lo stesso di lei.
Gellert
vacilla nei propri
propositi. Vuole parlargli, deve farlo, ha un’idea che salverà
il mondo,
che salverà loro due, che salverà lei, ma esita, esita appena –
esita
perché non capisce, è tutto distorto, è tutto imperfetto, la bambina
con le
sembianze di un demone che lo tiene sveglio la notte, la bambina la cui
mente
rotta in due gli pare un affronto insopportabile e un ostacolo
insormontabile,
e Albus con quell’intelligenza che lui ama e quella sensibilità di cui
lui ha
un bisogno disperato, Albus che non può fare a meno di desiderare
nonostante
abbia il corpo sbagliato.
Gellert rimpiange che le anime non possano migrare in corpi diversi
da
quelli in cui sono state imprigionate alla nascita, ma è solo un
secondo, prima
che le sue mani si chiudano sui fianchi del suo unico amico e le sue
labbra gli
strappino un respiro ansante.
Albus non cerca nemmeno di resistere – non vuole – e si
ritrova a
stringerlo tra le braccia con un desiderio febbrile che lo strema. I
vestiti di
entrambi si accasciano per terra, sgualciti, lo straniero dagli occhi
verdi sa
di pioggia e immortalità e promesse impossibili, e Albus trema appena
sotto
l’impeto di tutto quel bisogno che è metà estasi e metà disperazione,
metà
piacere e metà dolore – come l’espressione indecifrabile che coglie
sul suo
viso attraverso i riccioli biondi, mentre muore sotto di lui, le unghie
conficcate tra le sue scapole e la sua bocca a due centimetri dalla
propria.
Quando tutto finisce, Gellert resta steso al suo fianco, insolitamente
silenzioso e insolitamente serio – niente risate, niente sbalzi
d’umore. Il suo
sguardo acuminato è perso oltre i vetri sfigurati dalla pioggia, e
Albus ha
l’impressione che basterebbe una parola sbagliata per rovinare tutto
quanto –
così resta in silenzio.
Gellert tace, apparentemente calmo, i pensieri vibranti di elettricità –
nella sua mente si accumulano colpe e palpiti indesiderati, fastidio,
lancinante piacere, con Albus è stato tutto corrotto e tutto giusto,
una
sinfonia assordante sporca di perfezione, ma il suo corpo, Mein Gott,
il suo
corpo così maledettamente sbagliato (perché non puoi essere una
donna
perché non puoi essere tua sorella) lo fa impazzire (perché non posso
strapparti
l’anima e portarla altrove), e anche sapere che lei dorme i suoi incubi
a sole
due porte di distanza lo fa impazzire (se non posso far migrare le
anime perché
non posso avervi entrambi).
Gellert serra le palpebre, mordendosi le labbra – il profumo di Albus
saccheggia le sue ritrosie, la rabbia soffia e il desiderio ride ride
ride.
“Non hai mai paura di lei?” sbotta, per spezzare quel silenzio carico
di
lascivia.
Albus esita appena, stupefatto.
“È mia sorella, Gellert.”
“Albus.”
“Mi fa pena. Una pena che mi spezza il cuore in due.”
Gellert si sente torcere lo stomaco nell’udire la sua voce fragile –
non
vuole vederlo soffrire, non vuole che lui sia triste, Albus ha il corpo
sbagliato ma la sua mente è la perfezione assoluta, e lo straniero
pensa che, forse,
può perdonare, forse può dimenticare, le anime non migrano ma non hanno
nemmeno
un sesso.
“Aggiustiamola.”
Gli occhi di Albus sono velati di lacrime, il suo corpo semi nudo è un
richiamo
irresistibile e una ferita infetta cosparsa di sale.
“Che cosa significa?”
“La Bacchetta di Sambuco può ogni cosa. Possiamo curarla.”
E, se non si potesse aggiustare quell’anima spaccata, il suo corpo
potresti
prenderlo tu – ma questo non lo dice.
“Gellert, no...”
“No, amore mio” esala lo straniero, affondando le dita tra i
suoi
capelli ramati, “Noi possiamo ogni cosa. Lasciami compiere il
miracolo.”
Albus ha uno sguardo incerto e pensieri increduli che arpeggiano un
preludio di
delusione, ma Gellert assale la sua bocca e tutte quelle crepe nemmeno
le nota.
Note dell’Autrice
Eccoci
qui, miei cari lettori, con uno
dei capitoli di cui sono più soddisfatta in assoluto.
Qui Gellert è proprio il mio Gellert, come lo immagino (ad
eccezione dei
sensi di colpa per l’essere attratto da un uomo, che sono in
abbinamento alla
Gellert/Ariana e non rispecchiano i miei soliti headcanon). Mi dà una
soddisfazione
particolare averne scritto, e spero che questo capitolo piaccia anche a
voi.
Dal prossimo tornerà anche Ariana e sì, prima o poi anche a voi verrà
svelato
il mistero della bambina perduta, “il ballo dei narcisi”.
Fatemi sapere la vostra opinione!
Mary
|
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Capitolo 6 *** Longanimity ***
Longanimity
pazienza
o tolleranza di fronte alle
avversità
Albus non gli crede, non crede che ciò che ha proposto sia possibile,
ma a
Gellert non importa, ha imparato ad essere tollerante – il mondo si
spezza
sempre sotto la sua volontà, e stavolta non sarà diverso, lui si
spezzerà sotto la sua volontà.
Gellert siede in giardino, fissando la bambina dalle mani magre che
trucida i
fiori. I suoi fratelli stanno litigando nel salone, le voci arrivano
attutite
dalla porta lasciata schiusa, ma lei sembra tranquilla. Ogni volta che
alza lo
sguardo velato sullo straniero dagli occhi verdi, si scioglie in un
sorriso
luminosissimo.
Le si avvicina appena, allunga una mano per sfiorarle i capelli – lei
pare
quasi non accorgersene, le dita piene di lividi che, instancabili,
cercano di
intrecciare corone di narcisi e falliscono.
“Era solo una maledetta bambina, e tu hai il coraggio di dare la colpa
a lei?”
“Non intendevo niente del genere, Aberforth, come sempre sembri
fraintendere
ogni mia parola. È una predisposizione alla stupidità, la tua, o lo fai
di
proposito, solo per indispettirmi?”
“Mi disgusti.”
Il sopracciglio dorato di Gellert si inarca appena. I movimenti della
ragazzina
si fanno più convulsi, nevrotici come un tic.
“Era solo una maledetta bambina...”
Gellert le sfiora i
capelli, seguendo il profilo sfuggente di una tempia – lei trema
appena,
come suo fratello ogni volta in cui lui gli affonda i denti nella gola,
e
Gellert si martoria un labbro al pensiero di quanto il mondo sia un
posto
atroce, un posto atroce che deve essere ricondotto sulla retta via, ma
ci
penserà lui, ci penseranno loro, sarà una rivoluzione grandiosa.
Ariana si lascia
sfuggire un sospiro evanescente, mentre ascolta le voci dei suoi
famigliari
alzarsi sempre di più. I narcisi iniziano a vibrare attorno a lei, come
se
fossero attraversati da una febbrile smania di alzarsi in volo e
danzare –
come quand’era una bambina di sette anni che giocava nel boschetto di
betulle a
pochi passi da casa, come quand’era una bambina di sette anni che amava
intrecciare corone di fiori, di narcisi bianchi, soltanto narcisi
bianchi.
“Sei un essere ripugnante! Tu e quello straniero dalla faccia
arrogante che
porti sempre in casa nostra.”
“Smettila immediatamente, Aberforth. Gellert non ti ha mai mancato di
rispetto
e non vedo proprio perché tu debba rivol-”
“Credi che non vi
senta, la notte? Credi che non sappia che dorme nel tuo letto?”
“Tu non sai proprio niente, tu non capisci niente.”
“Io invece penso di capire fin troppo.”
Le urla della lite ormai sono così forti che si sentono fino in strada,
Ariana
inizia a dondolare su se stessa, gemendo piano. Gellert la fissa,
diviso tra il
desiderio di correre in casa per ridurre in silenzio quel miserabile
ragazzino
e la consapevolezza di dover restare insieme a lei – perché Albus
sa
difendersi, mentre lei invece no, non quella bambina innocente che
faceva
volare le corolle che spezzava per errore, non quella bambina che
rideva forte
(troppo forte) attirando disgrazie.
Lei trema sempre di più, lo straniero sente la rabbia crepitare appena
sotto
pelle, così le afferra il mento e solleva quel suo volto inespressivo
verso di
sé. È la prima volta che le è così vicino, è la prima volta che la
tocca, il
suo sguardo assente lo fa rabbrividire – un affronto insopportabile
e un
ostacolo insormontabile –, la sente respirare contro la propria
bocca e i
brividi gli straziano la nuca.
“Sei solo un ragazzino ingrato!”
“E tu un vigliacco, e anche un illuso!”
Ariana geme, è un suono pietoso a metà tra un singhiozzo e un sussurro –
ma
lei non parla, non parla più da quando quei ragazzini Babbani sono
arrivati
nella radura e le hanno chiesto che cosa stesse facendo, come mai i
fiori
danzassero nel cielo tutt’intorno a lei e perché ridesse così forte, e
lei (ha
solo sette anni è una bambina non sente il pericolo) ha risposto “Lo so
fare da
sempre, è il mio retaggio”, così orgogliosa di poter usare
correttamente una di
quelle parole difficili che suo fratello Albus si diverte sempre a
insegnarle,
ma non lo sa, che saranno le ultime parole che dirà, non lo sa che è la
risposta sbagliata, lei sta ancora ridendo quando il primo calcio le
strappa un
gemito e i narcisi crollano a terra, inerti.
Gellert si china di più su di lei e le accarezza il viso – i fiori
squarciati che li circondano vibrano, lei ha gli occhi sgranati,
enormi, folli,
ma lo straniero non perde la speranza, le avversità si aggirano si
demoliscono si smembrano, e lui non sa portare pazienza ma sa
essere
tollerante.
“Ti piacerebbe sentire una storia, Ariana?”
Lei non risponde – non può – ma la bocca non le trema più.
Lo
straniero le parla con
quella voce dolce, e Ariana lo ascolta, incantata.
Lui descrive un mondo perfetto in cui nessuno le farà mai più male,
dove i
narcisi non smetteranno mai di volare – Gellert sogna un paradiso
estinto in
cui tutto è possibile, persino riportarla in vita, persino respirarle
sulla
gola.
Le parla finché non cala la sera, sordi alla lite che si sta consumando
nel
salone, e lei non maciulla i fiori e non guarda niente che non sia lui,
le dita
martoriate che riposano – magari i lividi guariranno, pensa lui,
allontanandosi appena da lei quando sente una porta sbattere in
lontananza.
Albus sosta sulla soglia, lo sguardo velato e l’espressione impassibile
che
allo straniero ricorda lei, e lo ascolta parlare per qualche minuto –
non c’è
niente di strano, Gellert ha una voce meravigliosa e lei sembra felice,
con le
mani magre che riposano sulla gonna sporca del verde dell’erba, non
sono
nemmeno vicini, ma sente comunque l’inquietudine bucargli lo
stomaco.
Albus si chiede quanto lei capisca, ma non ha il cuore di fermare
Gellert e le
bugie al miele che le offre – è impossibile, vorrebbe urlare,
invece si
avvicina e affonda le dita nei capelli di lui in una carezza piena di
dispiacere.
“Ama sentirti parlare.”
Gellert solleva lo sguardo, rivolgendogli un sorriso luminosissimo,
prima di
saltare in piedi e seguirlo al piano di sopra – i narcisi vibrano
appena,
abbandonati, ma tutte quelle crepe nessuno le nota.
Note dell’Autrice
Buonasera,
cari lettori!
Torno con questo nuovo capitolo, in cui c’è l’ennesima lite, con
risvolti
diversi. Il senso di riproporre scene simili è far intuire al meglio la
prigionia
di Albus, e come Gellert la sovverta. Finalmente vi ho raccontato anche
cos’è
successo ad Ariana, anche se penso che ormai fosse intuibile.
Ah, spero si capisca, ma preferisco specificarlo lo stesso: Albus NON
ha visto
Gellert toccare Ariana, ma solo parlarle, ma è comunque inquieto senza
sapersi
spiegare perché.
Lasciatemi un parere, se vi va.
Mary
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Capitolo 7 *** Ephialtes ***
Ephialtes
incubo
L’estate passa lentamente, giorno dopo giorno, sempre uguale.
Ogni pomeriggio lui e
Albus si sfiniscono nel delineare progetti di immortalità e
rivoluzione,
Gellert sogna campi di battaglia lordi di sangue e una pace infinita,
Albus una
pietra che gli cavi dal cuore quel fardello che lo fa sprofondare.
Ad ogni tramonto, lo
straniero guarda quella bambina spezzata massacrare i fiori e le parla,
fino a
farsi dolere la gola – e ogni notte, sempre di più, si consuma tra
le
braccia di quel fratello che non la ama affatto, ma la sua fame non si
placa
nemmeno un po’.
Sono le tre di una notte vibrante di incubi, quando Gellert si solleva
di
scatto dal groviglio di lenzuola in cui giacciono entrambi – nella
penombra
della stanza il corpo bianco di Albus è un sudario che gli ricorda i
suoi
peccati (sbagliato è il corpo sbagliato), ma lui chiude gli occhi, pur
di non
vedere (non posso rinunciare a te non posso perderti è sbagliato ma non
posso chissà
se è questo il senso dell’amore).
Si alza, infilandosi qualcosa addosso senza nemmeno badarci – è l’odore
di lui
quello che gli pizzica il naso, non può fare a meno di sorridere, un
sorriso
amaro come veleno, stringendo la stoffa della camicia del suo unico
amico tra
le dita.
“Dove vai?”
La voce di Albus è impastata, è assonnato, le sue ciglia ramate
sfarfallano.
Gellert si china su di lui e gli sigilla le palpebre con un bacio.
“Ho solo sete, meine liebe. Continua a dormire i tuoi sogni
incantati,
torno subito.”
Albus sorride, prima di ricadere sui guanciali, pacifico – il
dolore nel
guardarlo è quasi insopportabile (perché non posso strapparti l’anima e
portarla altrove), lo straniero lo sfiora un’ultima volta e si dilegua
nel
corridoio.
Nel bagno la luce è fioca. Beve l’acqua direttamente dal rubinetto,
evitando di incrociare il proprio sguardo nello specchio – ci
troverebbe solo
incubi, niente risate, solo urla, niente sogni.
Ha la gola riarsa, i suoi stessi pensieri, impazziti, lo
disturbano, sono
peggio di una tortura. I suoi occhi cadono sempre più spesso
sulla porta
della stanza di lei, a pochi passi di distanza.
È solo un maledetto
incubo, quello in cui è precipitato – Albus, Ariana, l’anima giusta
nel
corpo sbagliato, lei che è perduta, soltanto perduta.
Gellert sa di doversi fermare (ma non lo fa), spegne la
luce e
scivola nel corridoio denso di ombre, silenzioso come un gatto. I
cardini
nemmeno cigolano, in quella casa vecchia in cui tutto produce schiocchi
e
fruscii, quando schiude l’uscio e si infila nella camera della
ragazzina.
Lei dorme, riversa nel letto in una camiciola d’un azzurro spento. Sta
sognando, il suo viso pallido è contratto in un’espressione tesa,
sofferente –
le sue labbra articolano, fioche, quei gemiti metà singhiozzi metà
sussurri.
Non dorme
bene, ma lo
straniero non se ne stupisce. Lei non parla più e non sogna più –
solo
gemiti, solo incubi.
Sa che sta sbagliando (Albus è di là che ti aspetta torna da
lui fermati
fermati fermati), ma le si avvicina ugualmente. Si siede sulla
sponda del
letto ed esita appena, ma alla fine cala una mano su di lei e le sfiora
una
spalla, scuotendola delicatamente.
Ariana si sveglia, rabbrividendo appena. I suoi occhi azzurri sono,
come sempre,
altrove; vagano per la stanza per qualche secondo, prima di orientarsi
su di
lui.
Lui le accarezza appena il viso, lei si lascia toccare come se neanche
se ne
accorgesse – ma lui sa che non è così.
“Stavi facendo un incubo, vero, mio fiore divelto?”
Lei sbatte appena le palpebre, muovendo la testa sul cuscino per
inseguire
quelle dita che la sfiorano pianissimo, sul mento, lungo il profilo
della gola –
lo straniero sa che potrebbe fare qualsiasi cosa (lei non parla mai lei
non
griderà non dirà una parola non si lascerà sfuggire nemmeno un urlo),
ma la
repulsione e il dolore gli frustrano le mani (sei rotta bambina mia
un’anima spaccata
in un corpo bellissimo).
Le sue dita accarezzano appena la camicia da notte di seta, avverte
il
rilievo delle costole sotto la stoffa. Il respiro di lei si affanna,
lui ha le
labbra così secche che gli fanno male anche solo nello schiuderle per
sospirare.
Lo straniero la sfiora con gesti misurati d’equilibri infranti – la
pelle
delle sue gambe è freddissima, la tensione di quel momento morboso lo
sta
facendo impazzire (chissà di che colore porti le mutandine mio fiore in
rovina), non lo farà, sa che non lo farà (per te Albus per te e la tua
anima
giusta nel corpo sbagliato), ma vederla contorcersi sul letto gli fa
desiderare
di non aver mai lasciato la Germania (lei non c’è lei è rotta e basta e
sarebbe
un gesto mostruoso sarebbe mostruoso ma bellissimo).
Gellert solleva di scatto le mani dalle sue cosce bianche e si ritrae.
È
cosparso di brividi e palpiti indesiderati, il respiro di lei così
affannato lo
convince quasi a tornare indietro, non riesce nemmeno a guardarla.
Si copre il volto, non lo stupisce affatto sentire i polsi tremare. È
tutto sbagliato.
Lei si lascia sfuggire uno di quei gemiti da incubo che lo
straniero
ricorderà finché vive, e così si volta a guardarla. Lo sta osservando,
e forse
sono le ombre, forse è la sua immaginazione, ma c’è una consapevolezza
sconosciuta in quegli occhi vacui.
Gellert sa di sbagliare (ma non si ferma) quando precipita con
le labbra
contro quella bocca schiusa, quando le strappa quel bacio goffo,
surreale, impossibile
– e lei geme contro i suoi denti e vibra d’una melodia che non ha
niente a che
fare con i narcisi che danzavano nel cielo e le risa stridenti e le
grida di
quel giorno in cui tutto s’è interrotto, Gellert le posa un bacio sul
collo e i
fiori sbocciano, strangolati nel buio.
Lo straniero si solleva da quel letto prima di smarrire qualsiasi
controllo
e si allontana da lei, quasi collassa contro lo stipite della porta.
Si volta a guardarla solo un’ultima volta.
“Tuo fratello manca di fede. Gli dimostrerò che tutto è possibile. Che tu
sei possibile, mio fiore spezzato.”
Note dell’Autrice
Ed
eccoci a quello che è forse il mio
capitolo preferito di tutta la storia! Spero piaccia anche a voi.
Mi è uscito morbosetto, potevo esagerare di più, ma sarei andata contro
la mia
idea del personaggio. A questo proposito, volevo specificare che quando
scrivo
che a Gellert “la repulsione e il dolore frustano le mani”, intendo che
non
prova repulsione per lei, ma per la sua situazione e perché andare
oltre sarebbe,
a tutti gli effetti, un approfittarsene, un abuso.
“Meine liebe” dovrebbe significare “Amore mio”, secondo la mia
scarsissima
conoscenza del tedesco.
Fatemi sapere se vi è piaciuto!
Mary
|
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Capitolo 8 *** Acrasia ***
Acrasia
mancanza
di autocontrollo
Ogni giorno che passa, Gellert si deve murare vivo tra le lenzuola per
impedirsi di andare da lei – ogni notte, sfinisce Albus di baci e
morsi e
spinte feroci, finché non crollano entrambi stremati, e lui
s’addormenta senza
forze in un sonno denso di incubi che s’interrompe sempre poco prima
dell’alba.
La bambina spezzata è
un’ossessione che gli sta divorando il senno, la sua frustrazione si
attorciglia come una serpe sempre più furiosa. Vorrebbe andare via e
trascinare
Albus con sé, hanno una ricerca, hanno una missione, il
maledetto mondo
non si rivoluzionerà da solo, ma il suo unico amico esita – “Non li
posso
abbandonare”, mormora, e Gellert non lo deride solo perché lo ama
troppo,
troppo, ha perso la testa per lui (dimenticando persino quel suo corpo
sbagliato),
ma sa anche che non possono restare nascosti in quel villaggio inglese
per
sempre.
Così un pomeriggio lo straniero dagli occhi verdi si lascia vincere
dai
suoi stessi pensieri imbizzarriti e perde il controllo.
“Non possiamo continuare così, Albus. Dobbiamo trovare i Doni.”
L’altro sospira, torcendo il polso in un gesto convulso – vorrebbe
toccarlo
(ma non lo fa) e questo indispone Gellert ancora di più.
“Ho dei doveri qui,
lo sai anche tu... Aberforth deve finire la scuola, e non posso
lasciarla da
sola...”
“Se ci sbrighiamo a
trovare i Doni, Ariana potrà badare a se stessa.”
Lo sguardo di Albus si fa gelido, i suoi occhi azzurri sono inclementi
e
irriconoscibili – lo straniero se ne sente quasi attratto.
“Ancora con questa storia, Gellert?”
“Perché non mi vuoi
credere, Albus? È la Bacchetta di Sambuco, può fare qualunque cosa!”
Il suo unico amico sbotta in un verso di sdegno, di acuto disprezzo,
scuotendo
i capelli ramati, l’espressione fredda così diversa da quelle adoranti
che gli
si scavano in viso ogni notte – ogni notte, quando lo implora di
non
fermarsi e Gellert deve farsi male per non immaginare il volto di lei
sciogliersi come cera tra le sue mani.
“Non questa! Sei un sognatore.”
“Lo dici come fosse un insulto.”
“Gellert...”
Albus scuote il capo, in un misto di tristezza e rassegnazione,
sollevandosi
dal letto e dirigendosi alla finestra – solo per allontanarsi da lui.
Lo straniero non lascia perdere, non può – non sa dire nemmeno lui
se
insista per disperazione o per necessità, sa solo che non riesce a
controllarsi,
e che il suo unico amico non creda in lui è un dolore insopportabile,
un
tradimento troppo grande per poterlo perdonare.
“Possiamo salvarla! Sarà la prima d’un milione di vite rimesse insieme,
sarà
l’emblema della nostra vittoria, la rivoluzione, il miracolo! Sarà-”
“Non voglio ascoltarti.”
Gellert si zittisce, quando Albus gli sputa addosso quelle parole piene
di
sofferenza. Non vuole farlo soffrire, non vuole che lui sia triste –
ma poi
pensa alla bambina che infesta i suoi incubi e non riesce a tacere,
anche se
farà male a se stesso e a lui (e forse anche a lei).
“Perché non mi lasci semplicemente tentare?”
Gellert prova a ricondurlo alla ragione, raccogliendo il suo volto tra
le mani
e costringendolo a guardarlo. I suoi occhi azzurri sono freddi (ma
velati di
lacrime) e una morsa gli torce lo stomaco.
Albus si scosta da quella presa delicata e gli volta le spalle, il
profilo
rivolto al panorama oltre la finestra.
“La Bacchetta non la aggiusterà mai, Gellert.”
“Albus...”
“Ti prego, smettila di parlarne. Smettila di farmi male.”
Quando
Gellert lo
stringe tra le braccia, Albus vi si lascia cadere senza una parola.
Lo straniero ha preso
una decisione – ha scelto
l’anima giusta nel corpo sbagliato, ha bandito la bambina spezzata e i
suoi
fiori in rovina dai propri pensieri, per sempre, per sempre, e non
importa
affatto che la sogni ogni notte e che la sente gemere (quei gemiti metà
singhiozzi metà sussurri) in ogni angolo della casa, il controllo si
perde ma
si può anche addomesticare.
Al tramonto, non
siede più in giardino a raccontarle di
un mondo perfetto che non si realizzerà mai (quel futuro è perduto
ce n’è un
altro da scrivere e Albus sarà insieme a lui), non la guarda più
stracciare
i fiori. Sa che lei è lì, la porta che dà sul retro è sempre schiusa,
ma non si
volta più a cercare i suoi riccioli dorati con lo sguardo.
Le mani magre di
Ariana, di nuovo bianche come
porcellana, tornano lentamente a riempirsi di lividi, mentre i
pomeriggi
passano e lo straniero finge che lei nemmeno esista. Lui non torna mai
e la
ragazzina ricomincia a intrecciare corone di fiori, ma non ci riesce e
si fa male,
ancora e ancora e ancora. Smette di mangiare, piange ogni volta
che
Aberforth cerca di convincerla a inghiottire anche un solo boccone –
Albus
finge di non vedere o forse di non capire, e Gellert deve serrare le
mani fino
a conficcarsi le unghie nei palmi per costringersi a non tornare
indietro (non
può e non lo farà).
I narcisi vibrano sempre più spesso, quelle crepe tutti le notano
ma
nessuno le aggiusta.
Note dell’Autrice
E siamo quasi alla fine di questa piccola long, venerdì posterò il
finale.
Spero che vi stia piacendo. Fatemi sapere!
Mary
|
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Capitolo 9 *** Hävitä ***
Hävitä
scomparire,
svanire, perdersi
Ariana abita in un mondo tetro dove il tempo non ha significato.
La sua vita è un
susseguirsi di momenti luminosi di sole (la sua voce niente fiori
spezzati
niente dita nere di lividi) e attimi dove il buio si addensa e i
narcisi si
sollevano crudeli per ballare nel cielo (il volto di sua madre
inerte sul
pavimento le grida dei suoi fratelli la risata dello straniero dagli
occhi
verde menta).
I suoi ricordi non sono lineari, a volte le sembra ieri il giorno in
cui tutto
s’è interrotto e a volte non ci pensa per settimane, per mesi interi.
Ricorda
ossessivamente la notte in cui Gellert è entrato nella sua stanza –
le sue
dita sulla pelle delle cosce, l’affanno del proprio respiro, quel misto
disperato di paura e desiderio, confusione, e poi la sua bocca sulla
propria e il
suo sapore e il calore di quelle labbra salate come lacrime, le sue
parole
impossibili (Ariana non capisce sempre ma quella volta sì quella volta
ha
capito e ha provato felicità, felicità e speranza).
Lo straniero, però, non parla più.
Non la guarda e ride tra le braccia di Albus, mentre Ariana abbandona i
fiori
sul pavimento e rifiuta di mangiare. Non ci sono più storie d’un mondo
perfetto, sogni che popolano il buio – la sua voce di miele è
annegata tra
risa stridenti, e le tenebre crepitano sempre più forte.
L’ha abbandonata – i
fiori frusciano e le crepe iniziano a sembrare baratri.
Ariana strappa i
narcisi con sempre più ferocia.
Di corone ne ha avuto abbastanza per una vita (distrutta) intera.
È una mattina tetra quando Ariana, spaesata, fragile, senza lividi, lo
cerca.
Gellert è sceso dalle scale per dirigersi in cucina, la sua voce
allegra è
ancora intenta ad articolare qualcosa ad Albus, che è rimasto in
camera, lei lo
sente e si solleva dal prato in cui giace come fosse già morta.
Si incontrano nel salone in penombra. Lo straniero si paralizza,
davanti a
quello sguardo azzurro così intenso, così consapevole (come la
notte in cui
l’ha baciata la notte in cui avrebbe voluto dissacrarla e invece è
scappato
come il codardo che non è mai stato), e non può fare a meno di
rabbrividire.
Lei trema, sente le lacrime pungerle gli occhi anche se non capisce
perché (ha
sette anni e non ha avuto neanche il tempo di piangere ancora rideva
quando
l’hanno fatta a pezzi) e così tende quelle mani magre verso di lui.
Lo straniero raccoglie quella supplica e bacia quelle dita senza lividi
– sa
che se uno dei suoi fratelli dovesse vederli scoppierebbe un disastro,
sa che
Albus non lo perdonerebbe mai, ma lei ha quell’aria persa, come se
fosse sul
punto di svanire, di dissolversi, scomparsa come il blu di quegli
ematomi che
non la adornano più, e senza lividi è ancora terrena oppure no?
Gli occhi di Gellert piangono un futuro che non si realizzerà mai,
mentre le
sfiora appena la gola.
“Se avessi potuto salvarti, forse noi...”
Ariana si lascia
sfuggire uno di quei gemiti metà singhiozzi metà sussurri (perché
capisce) e
strattona il braccio dello straniero per attirarlo più vicino. Lui non
oppone
resistenza, le sue mani si chiudono su quel viso magro e le sue labbra
le
sporcano la bocca (Ariana è felice anche se piange mentre respira
il suo
respiro). Tutto sembra precipitare, e non importano le anime (giuste
sbagliate non importa più), non importano i corpi (giusti
sbagliati non
importa più), non importa il sangue (fratelli legami una
verginità da
stracciare), tutto crolla e sparisce e si disintegra in quel bacio
famelico.
Gellert la sta ancora baciando quando Aberforth varca la porta del
salone.
Tutto si congela per
un istante infinitesimale – poi lo straniero la lascia andare come
se si
fosse scottato, lei piange ma le sue dita impacciate cercano di
trattenerlo per
la stoffa della camicia (è la camicia di suo fratello Albus) e
Aberforth grida
sfoderando la bacchetta.
Ariana singhiozza forte mentre loro due si battono a duello. Lo
straniero
ride di disprezzo e suo fratello è troppo furioso per articolare anche
una sola
parola, Albus si precipita giù dalle scale e resta attonito a fissare
la scena,
poi sfodera la bacchetta a sua volta.
Ariana piange, mentre nei suoi ricordi i narcisi ballano sfrenati (i
Babbani
l’hanno presa a calci fino a farle sputare sangue lei urlava e loro
ridevano e
calpestavano i suoi fiori le sue corone perfette e lei piangeva perché
i fiori
erano innocenti i fiori non avevano fatto niente di male), dondola
su se
stessa, cercando di ignorare le urla – ma lo straniero sta torturando
il suo Aberforth
e tutto svanisce e niente sarà mai più come prima.
Albus supplica, Gellert col sorriso rosso per un labbro spaccato lo
spinge via (avresti
dovuto educarlo tu stesso amore mio guarda cosa mi stai costringendo a
fare) e
Ariana piange disperata, ma tutte quelle crepe nessuno le nota.
Lei sa che è soltanto
colpa sua (per quel bacio per quella notte per quei racconti di
mondi
ideali) e geme i suoi sussurri incompresi. Vorrebbe chiamare i
loro nomi,
ma non può, non può – i Babbani l’hanno fatta a pezzi perché
giocava coi
fiori e lei ha perso la voce ha perso il senno ha perso tutto, anima
rotta in
un corpo bellissimo incapace di farsi ascoltare.
Ariana si strappa i
riccioli mentre sente la pazzia schizzarle fuori dalla testa, le orbite
doloranti come se ci avessero conficcato dei chiodi – ma nessuno la
sente,
nessuno la vede, a nessuno importa.
Le urla di Aberforth sono assordanti, raccapriccianti, la
bacchetta
giace inerme tra le dita di Albus mentre le suppliche gli cadono dalle
labbra
come le lacrime dal viso, Gellert ride della sua risata irrefrenabile
ma non
smette, e si scrolla di dosso il suo unico amico quando questi gli si
aggrappa
alla camicia (è la sua camicia ha addosso la sua camicia ha tutto
il suo
amore ma lo sta facendo a pezzi ugualmente).
Ariana non ci pensa più e scatta in avanti – non possono
sentirla ma
possono vederla e lei li fermerà li fermerà a qualunque costo perché li
ama
tutti li ama tutti pazzamente – ma la magia dentro di lei è
impazzita ed
esplode, e nello stesso istante Albus solleva la bacchetta per fermare
quello
scempio, e non la vede, semplicemente non la vede (è accecato dalle
lacrime
meine liebe che cosa stai facendo), e in un istante è tutto
finito.
Aberforth non grida più, Gellert non ride, Albus non piange – e la
bambina
spezzata giace sul marmo bianco del pavimento, interrotta per sempre.
La porta che si
chiude dietro i capelli biondi di Gellert fa male soltanto un po’.
Note
dell’Autrice
Ed eccoci alla fine
di questa storia. L’ultimo capitolo l’ho
voluto scrivere dando voce ad Ariana e utilizzando il suo punto di
vista.
Spero vi sia piaciuta. Grazie a tutti quelli che sono rimasti con me in
questa
piccola avventura.
Mary
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