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Due sole parole avrebbero potuto
sottolineare in modo efficace il rapporto che s’era instaurato tra Chae Hyungwon e Im Changkyun: odio incondizionato.
L’ingresso di Changkyun non era certo stato tra i più concilianti: il programma
a eliminazione No.Mercydella Mnet, atto a scoprire talenti e creare un nuovo gruppo da
gettare letteralmente in pasto all’industria della musica Kpop, s’era preso la
briga di inserire il ragazzo a metà progetto, così, dal nulla. Una inattesa
notizia da dare ai colleghi già in gioco da mesi. L’equilibrio così venne
spezzato, e l’umore generale toccò soglie mai raggiunte prima, neppure nel
peggior contesto di gara. Chae Hyungwon era colui che aveva incassato peggio lo
smacco da parte dell’agenzia, ingoiando amaramente e giocando a guardia e ladri
con il proprio orgoglio e l’improvvisa mancata voglia di svolgere qualsiasi
attività inerente alle sfide. Avrebbe dovuto impegnarsi come e più degli altri
per farsi spazio e arrivare in finale, strappare dalle mani degli avversari uno
dei posti disponibili come artista e così sfondare nella carriera di idol che
tanto bramava stringere tra le dita. Gareggiare contro coloro con cui conviveva,
si allenava e si preparava ogni giorno da intere settimane era uno stimolo, un
confronto continuo, ma vedere il nuovo arrivato appropriarsi di camere e spazi
comuni… quello no.
No.
Hyungwon non l’avrebbe tollerato, e non si sarebbe certo fatto alcun problema a
dimostrarlo.
Im Changkyun, classe 1996, cantante rapper emergente introverso e ligio al
dovere, era costantemente concentrato sul proprio lavoro e su come tentare di
instaurare un rapporto qualsiasi con chi lo circondava; i capelli scuri a
incorniciare un volto pallido, insicuro, il fisico atletico di chi aveva imparato
a ballare allenandosi insistentemente, le movenze di chi avrebbe voluto sparire
sotto alle assi del pavimento della stanza. Il ragazzo aveva tentato a più
riprese di attaccare bottone con qualcuno – uno qualsiasi, chiunque,
indifferentemente – ma a poco erano valse le prove di socialità imposta… si
sentiva estremamente solo, ed era peggio ancora di ciò che aveva immaginato. Sapeva
a cosa sarebbe andato incontro accettando la proposta offerta, ma il
comportamento di Hyungwon era ingestibile persino rispetto a quello di tutti
gli altri messi assieme; quest’ultimo, tendenzialmente abituato a essere al
centro dell’attenzione e a dar sfoggia della propria bravura, famoso per l’aspetto
all’apparenza angelico, santo quanto le acque del fiume Stige, non mancava
d’ostentare l’ostilità che provava nei suoi confronti, rifiutandosi di mangiare
nella sua stessa stanza, di sostare più del dovuto nelle sale prove, e
soprattutto, di rivolgergli la parola.
Non un buongiorno usciva da quelle labbra piene, perennemente coperte da un
filo di trucco roseo e velenoso. Non un cenno di assenso da un capo
perfettamente ordinato in ogni singolo ciuffo castano. Niente. Non uno sguardo
si posava su Changkyun, gli occhi scuri toccavano tinte buie e inquietanti, eppure
brillavano durante l’allenamento, le prove di canto, brillavano spesso.
Questo Changkyun lo sapeva, perché non poteva fare a meno di soffermarsi a
osservare il soggetto di un astio grande tanto da superare ogni altro
sentimento positivo.
In una sola occasione Hyungwon aveva voltato lo sguardo sul compagno di lavoro,
quando quest’ultimo era caduto rovinosamente da uno dei tavoli disposti in sala
allenamento per l’esecuzione di una prova particolarmente ostica. L’unica cosa
a non aver fatto crack in quel momento era stato l’insieme di ossa
doloranti: la sedia sfasciata, il buonumore, l’orgoglio e la fiducia in sé che
Changkyun aveva ottenuto a fatica in quelle settimane s’erano incrinati, e con essi
la possibilità di partecipare al prossimo episodio di No.Mercy
come parte integrante dell’esibizione. Il ragazzo si alzò trattenendo a stento
le lacrime, il dolore al costato gli spezzava il fiato, e il ginocchio s’era
avventato sul metallo della struttura della sedia, rischiando di andare in
frantumi; avvolse il busto con il braccio, aggrappandosi all’anca con tutta la
forza che aveva, così da concentrarsi su altro che sul dolore generalizzato che
ormai lo teneva stretto in una morsa pulsante e sempre più forte. Col capo
chino a non mostrare debolezza scansò l’aiuto dei colleghi, anche di chi s’era
prodigato nell’issarlo offrendogli appoggio; raggiunse la porta cozzando e stridendo
denti e giunture, sperando in cuor suo di dribblare Hyungwon e il suo atteggiamento
indolore e offensivo. Fu stupito di sentire una presa salda, calda, ferma, a
strattonarlo.
Sibilò, ancor prima di rendersi conto che si trattasse di Hyungwon stesso.
Abbassò nuovamente la testa dopo aver osservato per interminabili secondi la
nuca scoperta, i capelli per la prima volta scompigliati, e un certo fremito
nervoso da parte dell’altro.
«Muoviti, devi farti controllare.»
Il “non ce n’è bisogno” non uscì nemmeno dalle labbra di Changkyun, troppo
impegnato a incespicare sui propri passi, inciampare nuovamente e aggrapparsi
alla camicia oversize a scacchi bianchi e neri che penzolava dai pantaloni di
Hyungwon.
«Veloce.»
Voce atona, come sempre.
Non fosse stato per un leggero tremolio avvertito sul finale.
«La… lascia stare… sono capace d-» un colpo di tosse interruppe le parole del
giovane, impegnato a riprendere fiato per la fatica immane data da un tracciato
tanto corto quanto duro da affrontare, «di camminare…» strattonò invano quel
lembo di tessuto che ancora stringeva convulsamente, sussurrando un “fermo”
poco convinto.
Hyungwon si voltò fulminandolo con lo sguardo, le iridi infuocate di rancore si
sciolsero un momento, raffreddandosi quel tanto da permettere un primo, lungo,
inaspettato contatto visivo tra i due. «Obbedisci, o ti lascio qui a rantolare a
terra. Potresti aver fratturato una costola, lasciati aiutare.» La breve pausa
separò la frase da un “cazzo” ben scandito poco dopo. Lui riprese a percorrere
a passo di marcia la distanza avanzata fino a raggiungere lo spogliatoio dello
stabile, fortunatamente vuoto.
«Ora ti siedi qui, e stai zitto.»
Nessun danno sembrava aver coinvolto il corpo e le articolazioni di Changkyun,
se non un numero non esiguo di ematomi, di cui uno particolarmente doloroso
all’altezza del fianco: il più duro a guarire, ma mai quanto l’orgoglio
spezzato dell’aver permesso a un incazzato e ormai non più insofferente
Hyungwon di avvicinarglisi. La ripresa fu rapida, l’esonero dalla sfida si
concluse una settimana dopo l’esibizione permettendo un adeguato riposo e il
reintegro al successivo allenamento. L’ingresso del ragazzo in sala prove venne
applaudito dai colleghi che lo accerchiarono e si assicurarono di poterlo
considerare nuovamente parte integrante attiva del gruppo.
Calore.
Affetto, una qualche lieve forma di affetto umano.
Attenzione interessata.
Le ultime settimane s’erano uniti ancor più nello stesso obiettivo, nella
passione per il proprio lavoro e nel rispetto e riconoscimento delle capacità
che sarebbero stati sicuramente in grado di dimostrare.
Hyungwon si fece avanti, premendo con il dito il fianco di Changkyun: un AHI
accompagnato da un sonoro sbuffo contrariato portò quest’ultimo a voltarsi,
ritrovandosi il volto dell’altro a una decina di centimetri. Pietrificato da
una vicinanza inattesa e mai palesata prima, lo sospinse via con eccessivo
vigore, sbilanciandosi all’indietro; venne recuperato prima di precipitare a
terra, per poi essere trascinato verso l’alto con poca difficoltà.
«Non ho intenzione di trascinarti di peso un’altra volta, sta’ attento.»
Il sorriso di sfida di Hyungwon donò un nuovo colore allo sguardo, un colore
che Changkyun avrebbe cercato più e più volte, tentando di non farsi notare.
L’allenamento era stato sfiancante, l’ultima sfida aveva messo a dura prova i
ragazzi: un altro dei compagni se n’era andato, e in pochi erano rimasti. Un
paio di esibizioni ancora, e tutto sarebbe finito.
Tutto anzi sarebbe cominciato.
E questo i partecipanti lo sapevano.
La tensione rendeva Hyungwon irrequieto, anche se non l’avrebbe mai dato a
vedere; stava ricercando in ogni modo un angolo di serenità che l’avrebbe
aiutato a passare l’ultima sessione del programma senza soccombere alla
frustrazione e alle paranoie. S’era appena preparato per la notte, e una tazza
di latte bollente con miele e una spolverata di cannella l’avrebbe aiutato a
recuperare un certo equilibrio d’umore, prima di andare a dormire. Era tardi,
il dormitorio non risuonava di rumorosi echi come durante le ore diurne, la
quiete data dal silenzio era rilassante: incredibile come tutto coincidesse in
maniera perfetta per riuscire a rendere la serata di Hyungwon il più piacevole
possibile. Camminava piano per il corridoio, la mug
fumante di ceramica azzurra era stretta tra le dita intorpidite dalla fatica,
le ciabatte scivolavano stancamente sul tappeto scuro che seguiva la linea
della pavimentazione ovattandone i suoni dei passi; il pigiama di un verde
pastello ricadeva mollemente sui muscoli nascosti dal tessuto largo, una comoda
alternativa al girare in vestaglia dove avrebbe potuto malauguratamente
incontrare ancora qualcuno. Raggiunta la sala comune, illuminata a malapena dai
lampioni che sfioravano le tapparelle chiuse malamente, entrò senza badare a
una presenza ormai familiare.
Changkyun era rannicchiato su una delle poltrone, la testa tra le mani e le
ginocchia strette al petto dai gomiti: tentò goffamente di cambiare posizione e
apparire il più naturale possibile, fallendo miseramente. La postura scomposta,
gli occhi lucidi nonostante la presenza di una luce flebile rendevano il quadro
relativamente chiaro agli occhi di Hyungwon.
Changkyun aveva un problema, e pareva essere qualcosa di estremamente
soffocante.
Il ragazzo sospirò, sapendo di star mandando a puttane la propria serata
“perfetta”, e poggiò la tazza sul tavolino di vetro in mezzo alla stanza,
accomodandosi al sofà accanto alla poltrona. Ogni singolo colore era smussato,
sfocato, mentre i suoni si disperdevano nell’aria con chiarezza cristallina.
L’ospite inatteso stava singhiozzando.
Hyungwon detestava le persone deboli che perdevano tempo a lasciarsi andare
alla propria emotività.
Le odiava visceralmente.
Avrebbe voluto alzarsi e risvegliare a suon di schiaffi quella passività
melensa che gli si era parata davanti.
Non lo sopportava.
Non l’aveva mai sopportato. Ma stava piangendo.
Gli avrebbe dedicato quindi un paio di parole di conforto, due o tre al massimo,
per poi recuperare il proprio latte bollente, la voglia di dormire e dirigersi
in camera, dove il letto e il piumone lo stavano attendendo con nostalgia. Nulla
di più.
Changkyun tentò di mascherare il volto come poteva, consapevole dello sguardo
indagatore di Hyungwon. Si sarebbe fatto risucchiare volentieri dalla poltrona,
dentro e giù, fino in fondo, piuttosto che farsi vedere in quello stato da
qualcuno. Da lui.
Uno dei pochi momenti in cui non aveva le telecamere puntate addosso era
rappresentato dalla notte, ed era l’unico lasso di tempo in cui poteva cercare
di dar voce alla propria ansia sfogando le ore di lavoro, i dolori ai muscoli e
l’afonia parziale data dall’aver esagerato con le corde vocali. Nel buio della
sera tarda nessuno l’avrebbe giudicato, perché nessuno poteva guardarlo, e
tutto sarebbe andato liscio, non fosse stato per l’arrivo dell’unica persona
che sentiva ancora distante rispetto alle altre.
Hyungwon.
Tra tutti coloro con cui era riuscito a legare, proprio lui doveva presentarsi
quella sera?
Changkyun stirò le gambe cercando una posizione comoda, naturale, per poi
fermarsi a osservare le movenze dell’altro con finto disinteresse. Perché in realtà guardava ogni mossa del suo corpo con una certa attenzione.
Asciugò rapidamente il volto ancora umido con la manica della felpa grigia che
gli fasciava il corpo, per poi attendere.
Aspettava qualsiasi cosa.
Un insulto probabilmente, o una frase cinica: qualcosa, qualsiasi cosa.
«Vieni. E zitto.» Hyungwon stesso si alzò dal divano,
raccolse la tazza dal tavolino porgendogliela con aspettativa. «E soprattutto
bevi, aiuta a far passare il fastidio alla gola. Andiamo.» Se lo portò appresso
in direzione del corridoio, spalancando poi con noncuranza una delle due stanze
adibite a camera da letto. Attese in piedi che Changkyun bevesse il contenuto –
tutto – battendo ripetutamente a terra il piede con impazienza per poi
strappargli di mano il contenitore vuoto, abbandonandolo sul morbido tappeto; spinse
il collega in direzione del proprio letto, indicandogli di sedersi.
L’espressione interrogativa dell’altro fu più che eloquente, chiara anche nella
luce pallidissima che filtrava a fatica dalle minime aperture della finestra. Qui?
«Ma il mio letto è di là.»
«Lo so. Stenditi.»
La pressione delle dita sicure e frettolose di Hyungwon fece fremere Changkyun
come quando si fece male in sala prove, lo stesso tipo di sensazioni: il
formicolio improvviso alle mani, un lieve tremore dato da una invadente spinta
dallo sterno verso gola e stomaco, e in ultimo la totale immobilità. Il
fondoschiena poggiava ancora sul morbido piumone blu notte a coprire il
materasso del letto singolo di Hyungwon. Il ragazzo lo spintonò ancora una
volta con maggior forza, sfiorandogli il volto con il proprio per un attimo,
per poi assestarglisi accanto, sollevare la pesante coperta e avvolgere
entrambi nel calore di un posto letto troppo stretto per due.
«Ora dormi.»
Ma nessuno dei due ci riuscì davvero.
Cosa devo fare adesso… Il
capo chino penzolava stancamente incassato tra le spalle e il corpo esile di un
dodicenne incastrato in una scomoda sedia di plastica grigia, ambigua e neutra
come la copertura del cielo di quel giorno d’autunno inoltrato che Kihyun
avrebbe imparato a odiare con tutto se stesso; strattonò con cattiveria una
folta ciocca dei propri capelli castani, rigirandosela tra i polpastrelli con
fare esasperato.
Da quanto stava aspettando in quel maledetto corridoio, da solo?
L’odore di disinfettante misto ad aria ferma stava gravando sulla sua nausea
persistente, portandolo a maledirsi di aver mangiato un paio di ore prima: s’era
ripromesso di non rimettere il contenuto mal digerito dello stomaco
direttamente lì, sul pavimento di quell’ospedale di cui fino a un paio di ore
prima non conosceva altro se non l’ingresso ai padiglioni e il reparto pediatrico,
dove era solito recarsi per semplici controlli di routine.
Solitamente percorreva quei corridoi tutti uguali senza troppi pensieri,
concentrato su cose meno insormontabili, accompagnato dalla famiglia.
Famiglia. Lui e sua madre, e basta. Un nucleo tanto piccolo quanto
fondamentale, il centro del suo mondo, l’unica certezza.
Fino a che la signora Yoo non cedette allo stress e
all’abbandono di un marito che di affidabile non aveva avuto mai nulla.
La presa solida di una mano
sottile perse forza facendo cozzare il cellulare sul pavimento del salotto, un
sonoro toc a mostrare come probabilmente lo schermo dello smartphone s’era
incrinato a fine caduta. Minhyuk non poteva credere a ciò che aveva appena sentito
dal compagno di classe Kihyun, che l’aveva contattato poco prima pronunciando parole
terrorizzanti: aiutami, mia madre è ricoverata in ospedale, non so cosa fare…
Minhyuk, ti prego, aiutami… Il ragazzino deglutì un paio di volte, ma quel nodo stretto nella gola non
ne voleva sapere di sciogliersi. Perché era stata ricoverata? Poteva
immaginarlo, non era un adulto fatto e finito ma Kihyun gli aveva raccontato
tante cose, forse troppe per poco più di un decennio appena di vita vissuta: le
liti in casa tra i genitori, bicchieri scagliati sul pavimento o contro le mura
bianche di casa, le urla isteriche accompagnate da pianti irrefrenabili, e Kihyun
chiuso in camera a tapparsi inutilmente le orecchie nella speranza di zittire
quella vocina flebile che diceva perché a me, perché non va via… un
giorno quella voce disperata venne accolta da un cenno di magnanimità da parte
di una qualche entità superiore – una qualsiasi – esaudendo una supplica ormai
diventata muta.
E l’uomo sparì, trascinandosi dietro un paio di borsoni pieni di vestiti e
vuoti di dignità.
Il benessere emotivo di Kihyun scemò giorno dopo giorno: veder andarsene una
figura paterna inesistente e negativa fu uno dei motivi di maggior sollievo
solo nei primi giorni, quando chiamò al telefono Minhyuk per esprimere una consapevolezza
troppo grande per lui. Ho paura mamma non possa farcela, non smette di
piangere. Non dovrebbe essere felice? Perché non è felice? Rispondimi, perché
non lo è se lui se n’è andato via, che l’ha sempre trattata di merda…? Con queste ultime parole a rimbombare nella testa, ricordi di stralci di
conversazioni in loop raccolti negli ultimi due anni, Minhyuk nascose la chioma
chiara sotto al cappuccio della giacca verde per poi correre giù dalle scale e
salutare di fretta la madre, precipitarsi a recuperare la bicicletta e pedalare
fino a perdere il fiato. Incurante delle prime gocce di pioggia gelide sempre
più frenetiche a picchiettargli il capo e il volto, raggiunse il parcheggio del
Pronto Soccorso abbandonando il mezzo nel posto adibito, legandolo alla bene e
meglio e precipitandosi al piano inferiore dell’enorme struttura ospedaliera,
alta e austera, un color cotto ingrigito dal diluvio accompagnato da un
temporale che non avrebbe avuto pietà dei bronchi di Minhyuk. Dove cazzo si trova?
Si fermò dando tregua ai polmoni sfiancati, riparandosi sotto a una tettoia: il
suono del traffico era attutito dallo scrosciare prepotente sui tetti degli
innumerevoli padiglioni, tutti uguali e sparsi in un apparente caos a cui il
ragazzino non riusciva a dare ordine. Impossibile trovare a colpo d’occhio
quello giusto, non fosse stato per due infermieri in pausa che si erano offerti
gentilmente di accompagnarlo al primo snodo, dove si stagliavano chiare su un
cartellone le istruzioni per il raggiungimento del Centro di Salute Mentale.
Kihyun ringraziò il dottore di mezz’età che gli aveva dedicato il giusto tempo
e con cui aveva speso un buon quarto d’ora di conversazione quasi a senso unico.
La situazione era abbastanza chiara, sufficientemente comprensibile anche a un
semplice dodicenne: la madre aveva avuto un esaurimento causato da forte
stress, aveva ceduto dopo mesi di lotta interna con se stessa, si era lasciata
andare abbassando le barriere e lasciandosi travolgere da tutto il dolore che
un marito disgraziato, insapore e incapace di amare le aveva cucito addosso in
una convivenza forzata e tinta di rabbia e frustrazione.
Era caduta sotto al peso di un errore, innumerevoli errori, e Kihyun da solo
non era stato in grado di aiutarla a rialzarsi. Lui aveva paura, ne aveva sempre
avuta. Di suo padre, della situazione in cui viveva…
Di se stesso, e di ciò che non poteva fare.
Questo non lo aveva raccontato a Minhyuk, ma quest’ultimo era abbastanza sensibile
da esser riuscito a coglierlo negli innumerevoli messaggi, nelle nottate in videochat,
nelle lunghe chiamate con grida di sottofondo e vociare grondante esasperazione.
Avrebbe dovuto impegnarsi, si ripromise, impegnarsi ad aiutare una delle uniche
persone che contavano davvero per lui, e che in quel momento era stesa a letto,
sotto farmaci, quieta e avviluppata in un primo, ristoratore sonno senza sogni;
l’altra lo stava raggiungendo a grandi falcate, il giubbotto zuppo, il fiatone
a scuotere il petto umido sotto alla maglia fradicia di pioggia.
Non c’era mai stato bisogno di grandi parole tra i due ragazzini: si erano
sempre capiti al volo, grazie a un rapporto duraturo, una frequentazione assidua,
lo stesso istituto scolastico e innumerevoli merende in compagnia dopo la
scuola. Fin da piccoli Minhyuk e Kihyun avevano condiviso tanto, troppo, e ora
era giunto il momento per il secondo di responsabilizzarsi ancor di più; Minhyuk
sapeva che un onere simile non sarebbe stato facile da gestire per chi era poco
più che un bambino, occuparsi di una persona instabile e fragile non era
compito di un ragazzino, non avrebbe mai dovuto essere il suo compito. Avrebbe
fatto di tutto per aiutarlo, lo promise a se stesso nel momento in cui corse ad
abbracciare Kihyun, incurante dei vestiti pesanti d’acqua, dello sforzo, della
gola che bruciava come i polpacci, del disordine e dell’assenza di parole: si
sarebbe fatto carico di parte di quel dovere, lo avrebbe condiviso con lui
supportandolo in ogni modo.
Pianse, senza neppure accorgersene.
Pianse sulla spalla dell’altro, mescolando le lacrime con le gocce che
ricadevano dai capelli biondi.
Sentì i singhiozzi di Kihyun farsi più forti, rapidi.
Raccolse a coppa il volto dell’amico, avvicinò le labbra tremule alla sua
fronte e le posò sulla pelle pallida per lo sforzo e lo sconforto: il calore
che sentì contrastava con il freddo che percorreva ogni vertebra, se ne beò, lo
strinse ancor più a sé e sussurrò a fior di voce ciò che custodiva e che
premeva per uscire. Ce la faremo, te lo prometto. Tornerai a sorridere, un giorno, e sarò ancora
lì con te.
Essere un artista era sempre
stato il sogno di Kang Yeosang: da piccolo si dilettava a esibirsi con canti,
balli e filastrocche durante le feste e le rimpatriate in famiglia, convincendo
con entusiasmo i genitori a gettare una base per una futura carriera impegnativa
ma potenzialmente molto remunerativa. L’infanzia smise di essere tale però nel
momento in cui il suo nome e cognome comparvero nell’elenco di corsi di
recitazione, danza e canto, accostati al normale percorso scolastico statale.
Troppo piccolo per comprendere quanto pesante potesse essere un bagaglio
simile, ne avrebbe pagato le conseguenze in seguito, maledicendo le sue stesse
scelte.
Tutto bene? Quante volte se l’era sentito chiedere Yeosang nell’ultimo periodo?
Tante? Troppe.
Non in modo molesto, assolutamente no: i suoi colleghi si erano spesso mostrati
pacifici e poco insistenti nel cercare di sondare il suo stato d’animo, più buio
del color ebano con cui l’avevano costretto a tingersi i capelli per l’ultimo comeback. Non che gli dispiacesse, se avesse dovuto
elencare tutte le tonalità provate avrebbe riempito un quaderno intero,
sottolineando che la nuance attuale rispecchiasse maggiormente
l’umore che più gli si addiceva da qualche mese a questa parte.
Ciò che più gli dava fastidio, in realtà, era la mancanza di scelta.
Quello pesava più di ogni altra cosa.
Il suo non era un lavoro, era una catena al collo, un prezioso, ingioiellato
collare a scorrimento fatto di metallo lucido e splendente: bello in apparenza,
di una sofferenza inumana proseguendo oltre. Più volte s’era chiesto se il
successo fosse valso davvero ogni singolo sacrificio: carenza di amici fidati,
impossibilità ad amare e dedicare il giusto tempo a una relazione stabile,
vivere sotto ai riflettori rinunciando al concetto stesso di privacy avevano
creato una gabbia stretta alla vita, su fino allo sterno rinchiudendo il cuore
e giù inchiodandolo al pavimento di quell’azienda che gli stava costantemente
col fiato sul collo.
Ti va di provare con me la nuova coreografia? Seonghwa aveva palesato la richiesta con una punta di
irrequietezza: parlare a Yeosang era diventato difficile, gli scatti d’ira che
spesso accompagnavano un semplice dialogo erano ormai all’ordine del giorno. Il
collega tentava di spronarlo, coinvolgerlo nelle attività il più possibile
accompagnando ogni singola interazione con il più sincero dei sorrisi.
Sincero, o qualcosa che si avvicinava, almeno.
Il volto femmineo di Yeosang scattò di lato, osservando con una certa
attenzione colui che lo aveva affiancato: il vinaccia brillante fresco fresco
di parrucchiere che ora contraddistingueva Seonghwa
forse stonava, l’aveva sempre preferito con una tinta più naturale, più sua, ma
anche se avesse espresso un concetto tanto semplice non sarebbe servito a
niente. Si faceva andare bene qualsiasi cosa, un’opinione lì dentro aveva un
valore prossimo allo zero. Sai, avrei bisogno di una mano a ripassare dalla quarta battuta, e pensavo
tu potessi darmi una mano.
Naturalmente Yeosang rispose sì, ma gli occhi sempre coperti da quelle iridi
artificiali di un azzurro innaturale non lasciavano trasparire alcuna
alterazione nelle emozioni: che Seonghwa stesse
parlando o meno con lui, il suo sguardo pareva sempre lo stesso, atipico e
fisso.
Sono preoccupato. Era un pensiero comune ormai, condiviso tra i vari compagni del gruppo. Sai se si fa seguire da qualcuno? Io penso abbia bisogno di uno psicologo.
Una curiosità espressa da più d’uno dei ragazzi che conoscevano Yeosang da
qualche anno, e l’avevano visto cambiare nel corso del tempo senza dare peso
inizialmente a certi aspetti. Un errore non da poco.
Yeosang si tratteneva in sala prove più degli altri, e tendenzialmente mangiava
solo: che fosse per carenza di attenzione, bisogno di migliorarsi e lavorare su
di sé tanto da non presentarsi nemmeno in sala pranzo, dubitavano. Era un
ottimo ballerino, aveva sempre dato il 110% in ogni performance ma mai s’era
trattenuto più del dovuto, se non prima di qualche spettacolo importante. Il
gruppo cominciò a valutare una interpretazione differente: lui non voleva
passare più del tempo strettamente necessario con loro, e questo venne accolto
come un dato di fatto, e non più una supposizione da sfatare.
Yeosang si svegliava all’alba, faceva colazione da solo, s’infilava in doccia
prima di chiunque altro, e mentre il mondo si stava svegliando, lui si era
nuovamente chiuso in camera a fare chissà cosa, lontano da sguardi indiscreti.
A ogni invito a uscire, le ultime risposte erano sempre le stesse: magari la
prossima volta, accompagnato da un sorriso spento.
Il dubbio si trasformò in certezza quando Seonghwa notò
la porta leggermente schiusa della stanza da letto – casuale? Yeosang era sempre
stato attento – dove solitamente quest’ultimo passava il tempo quando non era
impegnato con gli oneri giornalieri da idol; si fermò, sapeva che non era la
cosa giusta da fare, ma vedere quel volto luminoso e sorridente trasformarsi
piano in una cerea ombra di sé, lo stava spaventando.
C’era qualcosa che non andava, e doveva scoprire cosa fosse: sentiva di doverlo
fare, come ne dipendesse della salute dell’altro, e
non soltanto quella fisica.
Yeosang si sentiva particolarmente stanco quella sera, gli allenamenti erano
stati sfiancanti ed era certo di aver esagerato ancora una volta. Dopo la breve
sosta agli spogliatoi dello stabile aveva ricercato l’intimità della sua stanza,
una camera relativamente piccola rispetto alle altre, dai colori tenui e le
tinte pastello sostituiti da una apatica scala di grigi e dalle pareti bianche
e spoglie. Aveva eliminato peluches, regali, cornici,
fotografie della famiglia e dei compagni da ogni angolo e superficie, col solo
risultato di una asetticità al limite dell’alienante. Si sedette alla scrivania
posta oltre il letto estraendo da un cassetto chiuso a chiave un blocco note di
fogli bianchi, scribacchiato innumerevoli volte. Ipnotizzato scrisse, scrisse
ancora e di nuovo, consumando la punta della matita stretta tra le dita stanche.
Voglio andarmene, odio tutto
quanto.
Lasciatemi stare, non ce la faccio più. Non parlatemi, vi prego,
non parlatemi.
Voglio solo che mi lasciate stare.
Credevo di riuscire a sopportarlo, vivo solo per lavorare, per compiacere gli
altri, per seguire quello che tutti hanno da dire.
E io? La mia voce? Cosa ho da dire io?
Tanto non frega un cazzo a nessuno, figuriamoci: vi pare? Dai vostri piedistalli
di vite perfette, dai soldi, dal successo, siete soltanto capaci di far finta
di interessarvi, ma in realtà…
Che io ci sia o meno…
Non cambierebbe nulla, a nessuno.
Una volta, ditemi una sola volta in cui siete riusciti a capire ciò che sto provando…
forse Seonghwa, ecco, lui è l’unico che riesce più o
meno a farmi stare meno male.
Non bene, ma meno male.
Non so nemmeno cosa significhi stare bene… continuano a insistere a mandarmi a
parlare con qualcuno… non sono malato, cazzo, non ho bisogno di quei medici che
pensano di sapere cosa sia meglio per me. Ti imbottiscono di farmaci, vogliono
farti parlare, ti costringono a pensare a cose belle, a lavorare su te stesso.
Puttanate.
Cosa vorrebbero cambiare di me, ancora?
Non sono io, questi non sono i miei capelli, o i miei occhi, i miei sorrisi
sono per quelle telecamere di merda e basta.
Devo fare finta di farmi piacere questa vita solo perché sennò ci rimettereste
voi, andrebbe di mezzo la vostra reputazione:
“Toh, guardali, uno se n’è andato, si vede che non lavorano bene. Magari lo
trattano male, o sono stati stronzi con lui.”
Non è vero, lo so io, lo sapete pure voi, però questo schifo non riesco a
levarmelo di dosso…
E non posso dirvelo, altrimenti cambierebbe tutto.
Che merda…
Richiuse il
quaderno scaraventandolo contro la finestra chiusa, le tende tirate a
nascondere l’ora tarda e il buio di una Seoul silenziosa e atipica durante la
notte. I vetri vibrarono sonoramente scatenando una improvvisa emicrania al
ragazzo, costretto a reggersi il capo con le mani tremanti di chi non sapeva
cosa stesse accadendo. Le gambe iniziarono a farsi pesanti, e il formicolio
diffuso proseguiva rapido verso il centro del corpo. Aiuto… La gola si stava serrando, avvertiva distintamente una morsa fisica a
stringergli il collo mentre la vista si stava appannando. Aiutatemi… aiutatemi cazzo…! Provò ad alzarsi ma un capogiro lo colse costringendolo ad aggrapparsi alla
scrivania, respirando pesantemente e senza alcun risultato. Non era fiato corto
da sforzo, stava entrando in iperventilazione e la paura di sensazioni
sconosciute e orribili lo stava mandando fuori di testa. Si mosse verso la
porta, unica via d’uscita da un incubo vissuto da sveglio, pregando di
incontrare chiunque. Seonghwa. Chiunque nella sua strada. Seonghwa, ti prego… Miriadi di puntini volteggiavano sul suo campo visivo, rendendogli
difficile capire se stesse abbastanza bene da arrischiarsi a muoversi ancora, o
semplicemente lasciarsi abbandonare al panico e accasciarsi lì, solo, sul
pavimento.
Cedette, stanco di combattere contro se stesso.
Seonghwa si precipitò non appena vide Yeosang cadere
lentamente a terra, come avesse smesso di lottare: raccolse l’amico tra le
braccia, sventolandogli una mano sul volto cercando di fargli aria. Pensa. Cosa si fa adesso? Chiamò a gran voce il nome di tutti i colleghi, sperando almeno uno di loro
potesse svegliarsi per la confusione e raggiungerlo, aiutarlo. Slaccia i primi bottoni della camicia…
Lasciagli spazio per respirare, stendilo a terra.
Fagli sentire che ci sei, ma non scuoterlo. Ciò che sapeva delle crisi di panico l’aveva imparato leggendo su internet
a riguardo, non ricordava nemmeno in quale occasione, ma si ripeteva
mentalmente ciò che aveva colto sperando di essere utile in qualche modo.
Qualsiasi modo.
Lo accarezzò più volte, sussurrandogli di essergli accanto, di non aver paura.
Lo chiamò per nome, gli baciò la fronte e gli zigomi stringendo le loro dita in
modo protettivo, bisognoso. Soprattutto non doveva dimostrare di avere paura,
di essere terrorizzato dalla sofferenza dell’altro.
Perché sapeva.
Tutti sapevano che c’era qualcosa che non andava, che qualcosa in Yeosang s’era
rotto, ma questo pensiero scemò quando tutti i ragazzi li raggiunsero in
camera; l’ultimo briciolo di attenzione che Seonghwa
dedicò al mondo esterno servì a cogliere uno di loro chiamare il Pronto
Intervento.
Come stai oggi?
La tazza di tea fumante liberava nell’aria un aroma gradevole, e l’infuso alle
erbe e fiori dalle proprietà rilassanti era diventato un’abitudine gradita a Seonghwa, da quando aveva scoperto che poteva servire a
stendere i nervi, tranquillizzare. Si era informato su parecchie cose nei
giorni precedenti, quando Yeosang aveva deciso infine di cominciare un percorso
terapeutico da uno specialista. Dicono che questa combinazione di odori funzioni, sai? Vuoi un po’ di miele,
magari? Il cenno di assenso di Yeosang fu una piccola vittoria, il pallore sul
volto si era accentuato così come le occhiaie violacee sotto alle iridi
nocciola, naturali, distolte dal solito mascherarle con le lenti a contatto; il
ragazzo si massaggiò le tempie e respirò a pieni polmoni, prima di socchiudere
le palpebre e bere.
Caldo, liquido caldo a scendere in uno stomaco gelido e che accettava poco
cibo. Ieri San è caduto su Wooyoung, sono scivolati entrambi all’indietro e hanno
spaccato due sedie. Sono i soliti imbranati, dovevi vederli! Yeosang sorrise senza farlo davvero, gli occhi restavano impassibili e
concentrati su ciò che stava facendo come si stesse trattando di un compito
difficile: le spalle curve, le mani intrecciate a massaggiarsi nervose, una
disattenzione vaga parevano essere normale reazione iniziale alla cura
farmacologica, ma questo a Seonghwa non importava…
anche se lui non gli avesse dato più alcuna attenzione, gli avrebbe comunque
dedicato tutto il tempo che possedeva al di là della schedule di lavoro.
E lo stava facendo.
Il ragazzo raccolse le mani dell’altro, stringendole con delicatezza e
portandosele alle labbra: le carezzò per poi sfiorarle, una delicatezza
infinita, un gesto incerto.
Yeosang non strattonò, non scappò, lo guardava malinconico, mezzo addormentato,
e sorrise.
Stavolta era sincero, Seonghwa ne era certo, glielo
leggeva in quella luce tremula che aveva colto nel suo sguardo dopo tanti,
troppi giorni. Puoi sorridermi ancora una volta?
Felix?
Felix, ci sei? Che
domande, si disse il ragazzo sorridendo: certo, dove altro sarebbe
potuto essere in quel momento, con una pandemia in corso e un lockdown in piena
regola che aveva coinvolto tutto lo stato? Seoul era completamente blindata quell’autunno,
così come tutte le attività non inerenti ai beni e servizi di prima necessità,
e Felix lo era ugualmente. La scelta di restare in dormitorio invece di raggiungere
la propria famiglia non fu affatto obbligata, lui stesso decise di fermarsi in
azienda e continuare le proprie attività lavorative, nonostante l’assenza della
maggior parte dello staff. Con lui, i due fidati colleghi e compagni di fatiche
e soddisfazioni nel mondo della musica: Seo Changbin
e Hwang Hyunjin, uno l’opposto dell’altro, introverso e lesinato nel contatto
fisico ed emotivo il primo, espansivo, furbo e cinico il secondo.
Entrambi ottimi elementi, interessanti nelle loro diversità, eccellenti nel far
perdere la pazienza a Felix quando si trattava di gestire la routine quotidiana:
un aspetto non da sottovalutare di fronte a un isolamento imposto.
Buongiorno!
Felix saltò sul letto di Hyunjin, spalmandosi letteralmente sulle morbide
coperte: i capelli biondi dondolavano ovunque mentre il ragazzo tentava di
svegliare il collega che se ne stava bellamente appallottolato al di sotto di
cuscini e lenzuola, mugugnando qualcosa di incomprensibile in una lingua
sconosciuta ai comuni mortali. Felix si divertiva a mostrare entusiasmo fin dal
mattino, tentando di coinvolgere il più possibile chi lo circondava, vista la
situazione complessa in cui vivevano; non si era però mai posto il problema di
chiedere se questo fosse un atteggiamento gradito agli altri, cosa a cui non
dava granché peso. L’unico peso che gravava ora era il suo sui fianchi stretti
di Hyunjin, che ancora cercava di connettere giorno, ora, anno, secolo di
appartenenza.
Cosa non facile, visto che adorava dormire.
Il ragazzo scaraventò due dei cuscini variopinti con cui s’era protetto dall’assalto,
accompagnato da una sottilissima imprecazione sussurrata. Porca puttana, Felix! Lo schiocco sonoro di labbra giocose sulla fronte di Hyunjin rimbombò all’interno
di quella camera colorata, brillante, ariosa, in cui l’artista solitamente
lasciava volare l’ispirazione – per la musica – e la fantasia.
Per Felix.
Sono irrecuperabili, cazzo. Non tutte le mattine avevano l’oro in bocca.
Il motto di Changbin era un monito al risveglio, un consiglio nel pomeriggio,
una consapevolezza alla sera: perché aspettarsi grandi cose nel venire svegliati
da una scimmietta urlante e una prima donna isterica? Non che in precedenza ci
avesse fatto particolarmente caso, ma da quando erano chiusi all’interno dello
stabile senza la possibilità di uscire, con gli altri due come unica compagnia
costante e il solo utilizzo dei social per il resto del mondo, la cosa era più
evidente, a tratti patetica forse.
O forse gli dava fastidio non essere abbastanza spavaldo per poter entrare in
quel contesto di intimità che sembrava farsi più stretto tra Hyunjin e Felix da
cui si sentiva sempre e comunque escluso.
Felix corse ciabattando in giro, sgommando sulle prime due curve e raggiungendo
la cucina dove un irritato Changbin stava attendendo: due occhi scuri ridotti a
delle fessure – un “detesto tutto e tutti a quest’ora” tatuato sulle retine – lo
stavano squadrando. Un semplice cenno d’assenso alternato al caloroso
buongiorno di due iridi brillanti ed entusiaste rivelò qualcosa in Changbin
stesso.
Un pizzicore all’altezza del petto, sullo sterno, dentro e fuori.
Non ci fece poi caso, neppure quando accadde la seconda volta nell’osservare il
biondo attaccarsi alla macchinetta del caffè e mugugnare perché avrebbe dovuto
caricare l’acqua nel serbatoio e cercare tra i pensili della cucina le capsule
della sua bevanda preferita, aromatizzata al caramello. Changbin, stizzito, preparò
il tutto per lui sentendolo miagolare con assenso. Ruffiano. E si stupì di aver avvertito esplodere un calore violento come un mattone schiantatosi
sul suo volto senza troppe cerimonie. Non era da lui, no, la quarantena gli
stava dando alla testa.
Hyunjin raggiunse i due poco dopo, tirato a lustro, puntiglioso sul proprio
aspetto, laccato e sistemato come a una sfilata di moda. Changbin si soffermò a osservare il volto pulito, niveo, affascinante di
chi sapeva di piacere ed era certo di esercitare un certo fascino. Su tutti
forse, su Felix di sicuro, ma su di lui… Ni, più no che sì effettivamente.
Eppure Hyunjin era in grado di calamitare il biondo e portarlo a sé senza dover
chiedere.
Questo a Changbin provocava un certo velato fastidio. Stronzo. Decisamente velato.
Stasera giochiamo? Come avesse fatto Felix a
convincere Changbin a unirsi a lui e Hyunjin era un vero mistero: il ragazzo
non amava partecipare a certe attività ricreative – qualsiasi attività che non
fosse strettamente legata al lavoro, in realtà – ma i giorni scorrevano tutti uguali,
la situazione era arrivata a un triste stallo alla fine della seconda settimana
e le pareti delle sale dello stabile sembravano essersi inspiegabilmente ristrette.
Anche la quotidianità stava pesando con i suoi ritmi estesi, gli allenamenti
dilatati e alleggeriti, le interazioni ridotte: erano soltanto loro tre ormai,
gli altri a debita distanza. Mascherine chirurgiche, guanti usa e getta, odore
di disinfettante e asetticità erano entrati nelle narici e nel cervello, ricreando
una sorta di abitudine che sembrava non dover avere fine. Anche per questo il
gioco “obbligo o verità” sembrava in qualche modo una alternativa accettabile: acconsentì,
raggiunse i due in salotto per poi accomodarsi sul divano di pelle chiara a
debita distanza da Hyunjin, che se ne stava beatamente composto sulla poltrona
lì accanto, e da Felix, seduto sul morbido tappetone di pelo color porpora. Comincio io. Felix pareva inspiegabilmente poco energico
nonostante fosse stata una sua idea. Il gioco cominciò, qualche scambio, un paio
di battute, leggere provocazioni e un imbarazzo giusto accennato.
Però Felix continuava a sembrare distratto, distante.
E quelle occhiaie? Quando erano apparse a rovinare le bellissime lentiggini che
decoravano il suo volto? Bellissime?! Che stava blaterando? Changbin scosse il
capo, avrebbe dovuto distrarsi. La vicinanza obbligata lo stava destabilizzando.
Hyunjin si stava approcciando in modo differente al gioco invece, cercava di
scavare nei due colleghi impostando domande trabocchetto, partendo da lontano e
avvicinandosi a quelli che riteneva degli interessanti punti sensibili. Aveva qualcosa
in mente, e lo stato di agitazione di Changbin ne era la dimostrazione palese:
a cosa stava puntando? Lo sguardo furbo pareva essere sufficientemente
esplicativo. Felix, obbligo o verità?
Verità.
Sei mai stato innamorato di qualcuno? Più che una domanda, un pugno allo
stomaco: Hyunjin sapeva di aver superato la sottilissima soglia dall’essere un
amico fidato e un confidente indispensabile, a un bastardo. Lo sapeva sì, ma
voleva dare una svegliata a quei due.
Felix deglutì un paio di volte, il pomo d’Adamo ballava all’interno del
colletto alto del maglione color panna che stava indossando: si impegnò a non
voltarsi verso Changbin, ma gli venne naturale farlo.
Un grande errore.
Si sollevò nervosamente dal tappeto su cui si era seduto, allontanandosi da
loro e marciando per la stanza: non se ne stava fermo. Allora?
Sì, solo che non mi ha mai ricambiato. La sensazione che Changbin avvertì
addosso dopo quella risposta affermativa non seppe spiegarla nemmeno: si alzò,
i pugni stretti lungo i fianchi fasciati da quei pantaloni di tuta blu che
tanto amava, le palpebre a coprire in parte iridi contrariate. Offese, forse,
in qualche modo. Soltanto qualche secondo dopo si accorse della propria reazione.
Felix lo squadrò, le labbra schiuse in un’espressione interrogativa che subito
si direzionò nell’altro unico soggetto presente in quella stanza.
Hyunjin sorrise soddisfatto.
Il gioco era finito.
Sei uno stronzo, cazzo! Felix era allibito.
Non aveva dato gran peso alle parole di Hyunjin il giorno prima: ma perché non dici a Changbin ciò che provi?
Non credi sia arrivato il momento?
No, non sarebbe stato certo quello il momento giusto, davanti a uno stupido
gioco, in pieno isolamento, con l’umore a terra e i nervi scoperti. Come
avrebbe trovato il coraggio di esprimersi, in un contesto simile? Felix sapeva
benissimo che Changbin non era certo famoso per essere conciliante, emotivo e
smielato… avrebbe dovuto andare da lui e dirgli cosa, poi? Aprire il petto e
mostrare ciò che lo riempiva da anni non sarebbe stata certo una passeggiata,
anzi: Felix era tanto spontaneo, difficilmente era in grado di nascondere
qualcosa, tranne quello che più era importante. Questo aveva sempre giocato a
suo sfavore.
Hyunjin sapeva, certo che sapeva: l’amico si era dichiarato con un filo di voce
e le lentiggini spolverate di un rossore adorabile.
Proprio a lui, naturalmente.
All’unica persona che ne era cotta in modo irrecuperabile.
I tre si divisero subito dopo, senza guardarsi direttamente negli occhi.
Era accaduto qualcosa di sbagliato e ognuno s’era rintanato nell’angolo prediletto,
il posto che aveva sapore di nostalgia, di conforto e protezione.
Changbin prese a cazzotti a più riprese l’anta del grande armadio di camera
sua, un contrasto perfettamente bilanciato di bianchi, neri e sfumature
ordinate e gradevoli. Si diede dello stupido, non comprendendo minimamente cosa
stesse accadendo dentro di lui: la rivelazione di Felix lo stordì, infiammò il
suo stomaco e i suoi nervi. Voleva saperne di più, doveva conoscere quel nome:
il nome di chi era riuscito a intrappolarlo e oscurare il suo umore e il tipico
calore che emanava. Si bloccò considerando un’unica, ovvia soluzione. Hyunjin.
Certo, la faccenda ora aveva un altro sapore, un senso compiuto: il loro
giocare, rincorrersi, cercarsi, ridere, toccarsi… mai fu più amaro nominare il collega
che tanto stimava. Ora lo invidiava, per qualche oscuro motivo avrebbe dato molto
di sé per poter essere al posto suo.
Felix corse sfiancando i polmoni e salendo due rampe di scale prima di raggiungere
l’uscita d’emergenza che dava verso l’esterno. La copertura esterna dell’edificio,
fresca di ristrutturazione, dava il meglio di sé anche nel pieno della notte d’autunno
che strappava al ragazzo i primi brividi; si accasciò contro il muro, le gambe
stese sulla pavimentazione cementata e lo sguardo volto al cielo notturno
parzialmente coperto. Il tempo incerto non lo stava aiutando a riequilibrare un
umore nero – aveva intuito qualcosa già dagli atteggiamenti precedenti di Hyunjin,
ma arrivare a questo… no – e le prime lacrime scesero bollenti e rabbiose sul
volto pallido di chi aveva dormito male e s’era sentito tradito dal migliore
amico. Come avrebbe potuto presentarsi davanti a Changbin l’indomani e mantenere
un controllo stabile, senza lasciar trapelare niente? Aveva notato il modo in
cui l’aveva guardato, c’era qualcosa di male nell’occhiata che l’altro gli aveva
dedicato, e anche se non era riuscito a interpretarlo correttamente nei primi istanti,
era sicuro di aver detto qualcosa di sbagliato. Lui stesso si sentiva
sbagliato.
Hyunjin sbatté la porta della propria stanza, ancora in disordine dal mattino,
un caleidoscopio di colori e variopinta allegria che stonava apertamente con
uno stato d’animo ingannevole e perplesso. Credeva d’aver fatto la cosa giusta
spingendo Felix e Changbin uno contro l’altro, avrebbe dovuto funzionare in
qualche modo, eppure un meccanismo così semplice come dare degli hint ovvi sembrava essersi inceppato. Aveva sempre dato
credito ai sentimenti che Felix custodiva dentro di sé, non avrebbe potuto fare
altro: l’aveva ascoltato, supportato, fatto sfogare. Era la spalla su cui
piangere, l’amico da cercare in un momento di debolezza, il diario segreto
vivente che avrebbe volentieri registrato ogni singola sensazione senza mai giudicare.
Allora perché quel ruolo gli calzava così stretto? Perché avrebbe volentieri
ceduto se stesso per vestire i panni di Changbin, l’unico
che era in grado di illuminare l’esistenza stessa di Felix.
Avrebbe sopportato di più una situazione simile se non fossero stati costantemente
bloccati lì dentro, assieme, senza poter scappare. Per la prima volta, l’isolamento
pesò tanto da schiacciargli il petto e spaccarlo in due.
Capitolo 5 *** One more time and I'll kill you ***
One
more time and I’llkill you
Mature
Cazzo… Il
non avere il controllo su se stesso lo stava portando a un’inutile quanto
pressante esasperazione: le mani tremavano, non era in grado di fermarle
nemmeno impegnandosi, così si arrese e si pulì col dorso dolorante il sangue
che fuoriusciva dal labbro spaccato.
Sputò sul pavimento in un gesto di stizza, mascherando il malessere con un’aria
torva e uno sguardo pronto ad uccidere.
A ucciderlo. Azzardati a cercarlo ancora una volta, e giuro che ti ammazzo.
Lee Minhyuk non era certo famoso per il carattere equilibrato e l’empatia:
solitamente vagava per le strade grigie di periferia, un po’ per cancellare i
brutti pensieri e un po’ per sfogare la frustrazione che si portava dentro sulle
sigarette e sugli edifici tutti uguali di quella parte affollata della città.
Camminare solo sotto a un cielo tardo autunnale atipico, grigio, quasi lo
specchio di quell’asfalto rovinato che veniva calpestato fin troppe volte,
restava uno dei pochi modi che aveva per staccare la spina dalla vita che si
trascinava dentro e sotto le scarpe.
Anche quella volta aveva litigato con sua madre, maledetto suo padre e mandato
a fare in culo la casa che lo stava soffocando. La pressione da parte dei
genitori – trovati un lavoro, sei solo un approfittatore, ti conviene
portare soldi a casa prima di finire fuori di qui a calci in culo – si
faceva ogni volta più schiacciante, fino a rendere l’inadeguatezza con cui si
era rivestito un’arma capace di ferirlo e farlo esplodere.
Quando si sentiva scoppiare raccattava la propria roba in un borsone da
palestra, correva giù per le scale di un appartamento cupo nonostante le
finestre luminose, si precipitava in strada e prendeva sempre la stessa
identica direzione.
Quella della casa di Kihyun.
Driiiin, drin drin. Il suono del campanello aveva scosso il silenzio del salone di casa Yoo. Kihyun si scosse dal torpore in cui aveva trovato un
minimo di conforto dopo quella serata decisamente andata storta, si alzò malfermo
sulle gambe rese molli da un pericolo che ormai era uscito dalla porta dell’appartamentino,
tentò in qualche modo di risistemarsi i corti capelli scuri che sapeva essere
in disordine e infilò il maglione azzurro all’interno dei pantaloni blu ancora
sbottonati e stropicciati. Sospirò affranto, e dipinse sul volto pallido il
miglior sorriso possibile, ignorando il dolore allo zigomo sinistro: sapeva già
chi fosse, senza aver bisogno di controllare dallo spioncino della porta. L’ipocrisia
sul suo viso svanì lasciando spazio al più caro dei sorrisi.
Il più grato.
Aveva bisogno di Minhyuk più di ogni altra cosa in quel momento.
Minhyuk non sapeva nascondere nulla di sé: la mancata accettazione di ogni cosa
che fosse andata contro ciò in cui credeva lo irritava in una maniera tale da
portarlo a esternare ciò che lo stava distruggendo, anche solo con un semplice
sguardo. Il colore cupo dei suoi occhi si accese di ira nel momento in cui li
posò sulla figura di Kihyun, stretto in vestiti troppo larghi per poter constatare
di che costituzione fosse, o cosa fosse rimasto della sua figura dopo tanti,
troppi mesi di quelle che Minhyuk avrebbe definito vere e proprie sevizie. Ancora… Il ragazzo lasciò cadere sulle piastrelle dell’ingresso il bagaglio leggero
che s’era portato appresso, coprendo la distanza che lo separava dall’amico con
poche, decise falcate. Sapeva di essere impulsivo, glielo leggeva dentro,
eppure Kihyun non fiatò quando venne catturato dalla morsa di quelle dita affusolate
e da due profondi pozzi neri su cui sentiva sarebbe precipitato. Ancora! Sì, avrebbe voluto rispondere Kihyun, dal basso di una statura non importante
che lo faceva sembrare molto più giovane dei suoi ventisette anni.
Sì, l’avrebbe urlato forse, ma in quel momento non aveva abbastanza forza per
poterlo fare, la gola ancora dolorante per le suppliche.
Sì. Poteva sussurrarlo? Chissà, non ne avrebbe avuto il coraggio. Sì, mi ha picchiato ancora.
Minhyuk trattenne il fiato giusto il tempo di evitare di rovesciare il
mobiletto porta televisore che stava affiancando. L’avrebbe volentieri caricato
di peso e scaraventato contro il muro, elettrodomestico compreso.
Oltretutto un pezzo particolarmente costoso, constatò. Nuovo di zecca, un
acquisto recente. È così che ti chiede scusa, dopo averti messo le mani addosso?!
Evitò di esprimere il proprio commento velenoso, per poi strattonare Kihyun e
stringerlo a sé con possessività, una possessività genuina, profonda, un sentimento
che avrebbe volentieri sbattuto in faccia a quella testa di cazzo dell’attuale
fidanzato dell’amico – che tra l’altro non aveva mai sopportato. Ti fa male? Non aprì la bocca per pronunciarle quelle parole, bastavano
le sue braccia avvolte a quelle spalle ricurve e alla schiena piegata in un
sussurro di pietà.
Lo accompagnò sul divano, non più vecchio di tre o quattro mesi, un sofà di
pelle chiara perfettamente intonato al resto dell’arredo di classe di un’abitazione
di periferia; dall’esterno non sembrava affatto, ma il bastardo sapeva farsi perdonare
a modo suo, certo. Ti ha toccato ancora, cazzo…
Senza troppe cerimonie Minhyuk sovrastò l’amico dopo averlo fatto sedere,
sospingendolo verso lo schienale e inginocchiandovisi di fronte, alzando lentamente
tutto quel caldo tessuto che ricopriva la pelle pallida.
Arrossata, graffiata, un ematoma si stava formando sul fianco. Ti ha picchiato.
Ha osato metterti ancora le mani addosso. Kihyun non disse nulla, non si nascose.
Pianse in silenzio, riusciva a fare soltanto questo sentendosi una vera nullità
alla mercè di un ragazzo violento e iper possessivo.
Non guardarmi… Glielo avrebbe detto, se ne avesse avuto la forza.
Viveva passivamente Kihyun, coccolato dalla paura, accarezzato da dita troppo aggressive,
amato da chi non era in grado di farlo se non coi i soldi e la mancanza di un
minimo di umanità.
Scappa, se lo ripeteva così spesso da averne la nausea, ma dove sarebbe potuto
andare? Non poteva tornare dai suoi, non avrebbe mai voluto coinvolgerli in
tutto questo. Anzi, sorrideva durante le chiamate e si proclamava felice.
Certo, in una gabbia.
Felice, mentre una piccola parte di sé veniva strappata ogni singolo giorno, e
lui rimpiccioliva sempre di più sotto a quel tocco pesante come il muro che aveva
sollevato tra sé e chiunque facesse parte della sua sfera affettiva. L’unico
capace di abbattere quella difesa perfetta era stato Minhyuk, incapace di
credere alle lacrime ricacciate indietro, ai lievi tremori di quelle labbra, alle
occhiaie che decoravano un viso stanco e pallido. Minhyuk scavava senza
chiedere, scavava con lo sguardo e trovava da solo risposte che Kihyun stesso
non avrebbe mai dato, troppo stanco per tentare di combattere, incapace di
venirne fuori.
Scappa, glielo aveva detto più di una volta, ma non l’aveva fatto.
Scappa, fallo.
Peccato che lui viveva ancora lì, era la sua casa, il
suo angolo di mondo dove esistere, respirare, tentare di vivere.
Va’ via, adesso.
Quelle tre parole pronunciate da Minhyuk uscirono naturali, accompagnate da una
alzata di spalle; si spostò dal salone alla camera da letto, appallottolando in
un angolo del borsone i propri averi e recuperando la prima biancheria dall’armadio
a muro di quella stanza perfettamente tirata a lucido. Kihyun sgranò gli occhi,
immobile sull’uscio, mentre l’altro raccattava vestiti pesanti lanciandoli sul
letto. Lo vide scavare sull’ultimo ripiano alla ricerca della valigia che aveva
adocchiato a un paio di metri di distanza, strappandola dal suo posto e
riempiendola a sua volta. Stava facendo un po’ tutto alla rinfusa, senza un
senso logico.
Aspetta, avrebbe voluto dirgli. Eppure non lo fermò
nemmeno quando sentì la zip scorrere. Prendi il portafogli, le medicine, il cellulare, che cazzo ne so. Ce ne
andiamo.
E Kihyun capì che stava facendo sul serio. Minhyuk stava raccogliendo l’attuale
vita del ragazzo in un paio di bagagli soltanto cercando malamente di farci
stare più cose possibile. L’amico si avvicinò, barcollò poggiandosi al comò
accanto alla porta prima di riprendere l’equilibrio: il colpo che aveva
ricevuto alla schiena urlava sulle vertebre e verso le gambe. Sapeva che quel
maledetto mostro che lo stringeva in pugno con un sorriso e uno stipendio considerevole
sarebbe potuto tornare da un momento all’altro, aveva promesso di venire a
trovarlo dopo lavoro e restare con lui per la notte.
A torturarlo ancora una volta, come altre. Molte altre.
Strattonò il braccio di Minhyuk che stava correndo in direzione del bagno per
recuperare i suoi effetti personali, fermandolo giusto il tempo per notare la determinazione
con cui stava organizzando una fuga in piena regola. Forse voleva ringraziarlo,
forse doveva, ma la realtà era un’altra. Aveva una paura fottuta, e il
campanello suonò palesando quella stessa paura portandolo ad annaspare e
accasciarsi sul pavimento lindo di un bagno che aveva visto sangue e
disperazione.
Buonasera bellezza, mi spiace, ma Kihyun stasera è impegnato con me.
Lo sguardo di Minhyuk si spostò su quell’uomo di bell’aspetto, curato,
sorridente, un Adone dal sangue orientale che avrebbe fatto invidia a un
modello. Lo squadrò dal basso all’alto constatando che lo superasse di una
quindicina di centimetri buoni. Bene ma non benissimo, però si può fare. Minhyuk, per quanto strampalato
e dal carattere non certo docile, detestava due cose: le teste di cazzo e la
violenza. Quel personaggio incarnava il suo doppio odio in un solo colpo. Una
fortuna. La sfortuna era che pesava come minimo un terzo più di lui, in muscoli
naturalmente.
E Minhyuk non era certo famoso per il proprio fisico.
Inspirò costruendosi la miglior faccia da stronzo che potesse dipingersi in
volto e temporeggiò occupando l’uscio con la propria figura, sperando Kihyun
non stesse assistendo a quello che si sarebbe trasformato in uno spettacolo non
proprio appetibile. Testa di cazzo, ti farò capire quello che si prova.
Assestò un colpo rapido al fianco, caricando il braccio con quanta forza
possedeva, con scarsi risultati.
Il primo colpo allo stomaco lo avvertì con una nitidezza tale da levargli il
fiato, ma rimase in piedi, fermo in posizione: non avrebbe arretrato di un solo
centimetro ma allo stesso tempo non riusciva a riflettere con granché lucidità,
il dolore gli stava già offuscando i pensieri. Era distratto, ma non stupido,
quindi riprese l’ospite indesiderato con un paio di battute di pessimo gusto
sugli omoni palestrati, stupidi e senza spina dorsale.
Il secondo colpo arrivò dritto in volto, e lo sentì il labbro spaccarsi, avvertì
il sangue fuoriuscire. L’aveva colpito, e aveva sorriso nel farlo. Bastardo.
Kihyun giaceva raggomitolato in un angolo, le mani tremanti a coprirsi
convulsamente le orecchie nel tentativo di estraniarsi da tutto ciò che stava
accadendo. La posizione scomoda accentuava il dolore intenso al corpo, ma non
gli importava.
Voleva sparire, andarsene via.
E per la prima volta, grazie al tentativo sgraziato e goffo di Minhyuk, era
convinto di quella sensazione così pressante da bruciargli nel petto e dentro
le vene, martellando all’interno della scatola cranica senza alcuna tregua. Minhyuk… Li sentiva chiaramente urlare nonostante le orecchie coperte. Minhyuk…! Si alzò terrorizzato all’idea di vedere il ragazzo ridotto in condizioni
pietose – come le sue, del resto – e trovò il coraggio di muovere le gambe
verso l’uscita.
L’ingresso era ormai vuoto. Cazzo, Minhyuk! L’orrore scorreva attraverso i nervi, si scaricava nel dolore pulsante alle
tempie. La paura lo stava ammazzando da dentro, ma corse comunque fuori,
sperando di non dover assistere a una scena che non sarebbe stato in grado di
sopportare. Incespicò sui suoi stessi passi prima di trovare i due, seguendo le
urla. Il parcheggio di fronte a casa sua era vuoto a quell’ora della notte,
soltanto le macchine dei condomini erano presenti. Nessuno in giro.
Il suo carnefice era poggiato contro il cofano della propria automobile,
sensibilmente sofferente: la mascella contratta manifestava dolore, fastidio, e
gli occhi ridotti a due fessure incontrarono le iridi terrorizzate di Kihyun
che si stava avvicinando incredulo. Stava sostenendosi un braccio con l’altro
sano, mormorando una serie di insulti rivolti a chi era stato in grado di
coglierlo di sorpresa tanto da ferirlo.
Era possibile, si disse Kihyun.
Era possibile colpirlo dunque, farlo soffrire.
Non provava nessuna emozione particolare, era assorto in quell’immagine
straordinaria agli occhi di chi aveva subìto tanto, troppo e per un tempo incalcolabile.
Si riscosse da una sorta di torpore paralizzante solo dopo essere stato avvolto
dalle braccia di Minhyuk, ancora sanguinante, pronto a difenderlo con gli
artigli spezzati ma sempre pericolosi. Ti spezzo anche l’altro, se ti vedo di nuovo. Sappi che mi troverai ad
aspettarti, testa di cazzo. Minhyuk strinse maggiormente a sé Kihyun, tremando per il freddo e l’adrenalina
che lo stava abbandonando: i muscoli dolevano, il labbro bruciava tremendamente,
la testa pulsava confusa. Il fiatone spezzò un paio di sillabe, ma il messaggio
risultò perfettamente chiaro: Azzardati a cercarlo ancora una volta, e giuro che ti ammazzo.
Kihyun si accoccolò al corpo caldo di Minhyuk, rigenerato da una doccia doverosa
e una imprecazione sonora nell’essere stato medicato alla bene e meglio dall’amico.
I bagagli giacevano ancora mezzi sfatti per casa, compreso quello misero dell’ospite
che si era impossessato del divano avvicinando a sé l’altro e una coperta in
pile. Senti, io resto qui qualche giorno, in caso torni quello stronzo. Dubito, ne
avrà per un po’, un qualche mesetto. Non so ancora come cazzo ho fatto, ma non
credo ti infastidirà più.
Non disse altro, anche perché sapeva benissimo che Kihyun stava celando malamente
l’immensa preoccupazione che stava vivendo in quel momento. Il torto era stato
fatto.
Sarebbe tornato.
Tornato ancora.
Tornato di nuovo.
Nonostante le parole di conforto di Minhyuk, non sarebbe riuscito a dormire
bene quella notte, e forse pure quelle a venire, ma avrebbe affrontato nuove
ansie con qualcuno disposto ad ascoltarlo. Minhyuk era strano, lo era sempre
stato: se ne andava e veniva spesso da casa sua senza un apparente motivo, ma
aveva promesso di fermarsi un po’ di più stavolta. Il perché non aveva
importanza, bastava non restare mai solo.
Perché più che la presenza fisica di quel mostro, era l’idea stessa di saperlo
lì fuori a spaventarlo maggiormente.
Minhyuk aprì gli occhi, la televisione trasmetteva un programma innocuo e
disinteressato a un orario assurdo, la notte inoltrata aveva annullato qualsiasi
azione sociale in quell’insolito lussuoso angolo di vita in una apatica periferia
anonima. Si girò verso l’amico profondamente addormentato, accucciato accanto a
lui.
Sembrava così indifeso.
Doveva averne passate tante, troppe, e lui purtroppo lo sapeva perché era stato
suo confidente nel bene e nel male – nel male, soprattutto nel male. Avrebbe dovuto
pensare a una probabile denuncia, forse un percorso terapeutico, magari
contattare un professionista sarebbe stato rinvigorente per Kihyun. Le cose da
fare erano tante, ci avrebbe pensato il giorno dopo a mente lucida. In quel
momento contava solamente vedere il petto di Kihyun muoversi a un ritmo lento e
confortante.
Avrebbe dato tutto per quel respiro rilassato. E perché no, per nuovi sorrisi,
per un caffè condiviso appena sveglio, per una cena in compagnia.
Chissà come avrebbe reagito Kihyun nel sentirsi proporre una convivenza provvisoria?
Hongjoong, Hongjoong! Potrestiaiutarmi? Joong, non è
che avresti un po’ di tempo per me?
Ehi, Hongjoong, senti, avrei bisogno di una mano!
Ci sei? Sai, riguardo a quella cosa di cui abbiamo parlato ieri… Aveva
portato pazienza, ne aveva sempre portata e più che a sufficienza, ma si era
rotto le palle. Il vociare incessante, le continue richieste, il suo essere
costantemente presente per chiunque e a qualunque costo lo stava portando
all’esaurimento: non era solo la questione della preparazione delle nuove
esibizioni che stava portando via un sacco di tempo e un impegno non
indifferente.
No.
Nemmeno le prove di canto estenuanti, o l’organizzazione del poco tempo libero
a disposizione nelle settimane che precedevano il nuovo programma di lavoro.
Neanche.
Erano proprio loro.
Kim Hongjoong si era palesemente rotto il cazzo di stare dietro a ogni singola
richiesta di ognuno, a partire dai propri colleghi. Aveva sempre avuto un buon
rapporto con loro – ottimo, anzi – ma ormai era giunto all’esasperazione. E basta!
L’indomani sarebbe stato il primo
giorno libero dopo parecchi di lavoro pressante, sfiancanti ore passate a portare
avanti al meglio il proprio dovere: la consapevolezza di una tale opportunità aveva
un sapore goloso e speziato di soddisfazione, distacco e distanziamento. Belle
parole, ne avrebbe fatto buon uso dopo una doccia calda e un più che meritato
riposo. Hongjoong era stranamente calmo rispetto all’euforia generale che stava
scuotendo gli animi dei colleghi: aveva i suoi riti e voleva portarli a termine
senza alcuna interferenza, ma sembrava un’impresa non da poco. Allora, siamo pronti?
Il ragazzo voltò lentamente il capo ricoperto da una zazzera rosso acceso
frutto dell’ultima scelta di stile, concessa con diffidenza ma una volta tanto
accolta dal manager senza troppe cerimonie; una vittoria facile, si disse,
rimescolando i ciuffi selvatici con le dita sottili. Siamo pronti per cosa?
Disse scandendo le sillabe, gli occhi rivolti a quell’insieme di ragazzi che
stavano facendo caciara al pari di un branco di
bambini incustoditi al parco giochi del quartiere. Come per cosa? La nostra serata,
non ricordi? Nostra… di chi, esattamente?
Sbiancò.
Gli zigomi si tinsero dello stesso colore del mobile della sala, del tappeto su
cui aveva poggiato i piedi avvolti nelle pantofole da camera e della felpa che
utilizzava per le serate come quella, le serate di relax: bianco candido. La
sua pelle faceva a gara con l’arredo per la mancanza di qualsiasi tonalità. Fu
in quel momento che sbottò in una reazione insolita, inaspettata.
Rise.
D’isteria.
Io non vado da nessuna parte. Mingi si voltò verso il collega che se ne stava ricurvo sulla poltrona del
salone comune, perfettamente mimetizzato con il mobile: lo vedeva sorridere, ma
di un ghigno poco rassicurante e una nota palese di sarcasmo. Il ragazzo si
focalizzò sulla sua posa, sulle iridi scure sconvolte e stanche: sapeva quanto
Hongjoong avesse lavorato nell’ultimo periodo, lo sapeva per certo perché era
sempre lì con lui. L’essere particolarmente affiatati e affiancati da anni di
convivenza, lavoro e divisione obbligata degli spazi, stava dando i suoi
frutti: non c’era bisogno di essere empatici per riuscire a cogliere simili
stati d’animo. Anche perché il chiaro mi avete rotto il cazzo di qualche
ora prima, ricevuto in sala prove con le braccia alzate in un gesto esasperato,
era stato più che eloquente.
Mingi si riscosse staccandosi dall’entusiasmo non certo contagioso dei
colleghi, mosse qualche passo in direzione dell’altro sedendoglisi accanto e si
accasciò sospirando: non sto granché bene. Hongjoong dovrà stare a casa a
controllare che non peggiori. Il vociare contrariato che si sollevò all’affermazione si trasformò in
brontolii sconvolti e concitati irritando ancor più l’umore già palesemente
nero di Hongjoong: si alzò spazientito, osservandoli uno per uno, le mani
chiuse a pugno poggiate sui fianchi. Un malessere improvviso poteva capitare,
soprattutto in un periodo così pressante e impegnativo: colpevolizzare Mingi
per l’assenza alla serata di karaoke organizzata non sarebbe stato maturo da
parte di nessuno.
Mingi non fingeva mai.
Mingi era sempre diretto, sincero.
Mingi non diceva bugie.
Chi si scusò, chi si profuse in una espressione rassegnata, ma nel complesso i
ragazzi se ne andarono senza fare troppe storie: d’altronde, con un collega che
affermava di stare male, non avrebbero potuto fare molto. Non c’è di che. Mingi abbandonò la stanza poco dopo, nel più assoluto
silenzio, senza mostrare alcun sintomo, ripensamento, dolore o condizioni di
difficoltà.
Silenzio.
Idilliaco, goduto, meraviglioso silenzio.
Hongjoong alzò il termostato della sala: anche se fuori il cielo era terso, il
freddo si faceva sentire già in quel lieve cambio stagione verso l’ultimo
trimestre dell’anno corrente. Si stiracchiò sorridendo soddisfatto, si
massaggiò la schiena sfregandosela con le mani, ora il mondo era suo.
E non poteva essere più felice di così.
I primi minuti passarono nella beatitudine più genuina: televisore spento,
nessuno che parlava, si intrometteva, disturbava, chiedeva… nulla di
nulla, niente lavoro, niente stress ossessivo, niente sbuffi.
Quasi un sogno.
Una mezz’ora dopo però, con più calore in corpo – i venticinque gradi
centigradi impostati si sentivano pienamente ormai – e un piccolo, piccolissimo
senso di curiosità, il ragazzo si spostò in direzione delle camere, chiedendosi
come potesse effettivamente stare Mingi: quest’ultimo aveva detto di non
sentirsi bene, per poi eclissarsi e non palesare più la sua presenza. Caffè lungo con zucchero di canna e latte caldo. Ricordava perfettamente
i suoi gusti, con lui faceva spesso colazione, e pure dopo pranzo dedicava
cinque o dieci minuti alla compagnia del collega mentre tutti gli altri s’erano
già dileguati; perché dunque non presentarsi anche a quell’ora con in dono la
bevanda preferita?
I capelli color argento splendevano
alla luce di una luna quasi piena che tingeva la coperta blu notte del cielo,
penetrando con quieto silenzio la barriera della finestra trasparente dalle
tende scostate. Una musica familiare diffusa in sottofondo dalla cassetta
bluetooth rendeva l’atmosfera godibile, intima, rilassata.
Mingi adorava rilassarsi così, detestava il silenzio assoluto: lo percepiva
come opprimente, snervante. Spesso infatti non
comprendeva le reazioni di Hongjoong, il suo tendere a isolarsi: il collega
doveva essere parecchio stressato se per ottenere un minimo di equilibrio aveva
bisogno di chiudersi, ma Mingi sapeva quante responsabilità gravassero su di
lui. Quando avvertì in salone la sua rabbia sfociare in una reazione isterica,
decise di intervenire e rinunciare alla compagnia degli altri, giusto per poter
regalare un po’ di pace a Hongjoong. Aveva agito d’istinto, senza nemmeno riflettere.
E per uno come lui, disabituato a mentire, era strano. Si ritrovò a pensare
quanto fosse stato soddisfatto nel vedere l’amico sollevato, rinfrancato, a
tratti incredulo.
E poco importava ritrovarsi ora solo, chiuso in quattro mura, a perdere il
proprio tempo libero a gironzolare distrattamente su internet, perdendosi tra
video scemi, tiktok deliranti e immagini su
Pinterest.
Di certo non si sarebbe aspettato di sentir bussare alla porta della camera.
Trasalì e rispose con assenso soltanto qualche secondo dopo.
Hongjoong si aspettava di trovare Mingi steso a letto
sotto le coperte, dormiente, affannato per qualche dolore difficile da gestire.
Sentendosi chiamare dall’altra parte della superficie di legno chiaro, entrò
stringendo con possessività due tazze di caffè tra le mani, uno estremamente
dolce, l’altro amaro, ristretto, un concentrato di stimolanti che forse non
avrebbe fatto proprio bene alla sua serata. Tanto poco importava, il giorno
dopo avrebbe potuto dormire fino a orari imbarazzanti, ragazzi permettendo. La
camicia bianca a cuori rossi che indossava come pigiama sembrava rilucere in
mezzo alla camera, mentre la figura di Mingi si mimetizzava quasi perfettamente
con l’ambiente oscurato dalla notte, non fosse stato per i capelli visibilmente
brillanti grazie alla luce riflessa dello schermo dello smartphone. Posso?
Che domande, gli aveva già permesso di entrare. Ti ho portato questo, pensavo potesse
aiutarti a stare meglio.
Mingi sollevò il busto puntando il peso sui gomiti e facendo scivolare parte
delle coperte scure dal corpo, rivelando la larga e comoda tenuta in pigiama.
Sorrise, premurandosi di abbassare il volume della musica e di accendere la
lampada accanto al letto.
Hongjoong gli si avvicinò porgendogli la tazza tiepida e rimanendo in piedi in
mezzo alla stanza, stupendosi ancora una volta di quante cose diverse potessero
starci dentro a una sola camera: vinili da collezione, libri e fumetti
occupavano la parte sinistra, riempiendo un mobile a muro, mentre dall’altro
lato il giradischi svettava sul resto e la scrivania mostrava ancora tracce di
lavoro lasciato sospeso – computer acceso, blocchi di fogli scribacchiati, il
programma di produzione di basi musicali abbandonato sullo schermo incustodito. Siediti, non stare lì in piedi. Peccato che la sedia era impegnata da un
notevole volume di vestiti di ogni genere abbandonati su di essa.
Mingi sorrise scoraggiato dallo stesso disordine che aveva creato, richiamando
l’attenzione dell’altro con un patpat amichevole sul materasso: un “accomodati” senza dirlo ad
alta voce. Hongjoong si sedette perdendosi in quell’ambiente privato, dove si
sentiva leggermente a disagio; non era tipico suo disturbare nelle camere altrui
a quell’ora, ma si trovava lì per un motivo più che valido.
Grazie per il caffè, ma sto
benissimo, perché? Tra tutte le risposte che
Hongjoong avrebbe potuto ricevere, quella proprio non se l’aspettava: aveva
preventivato di dover assicurarsi assunzioni eventuali di antidolorifici o simili,
e invece Mingi lo stava osservando incuriosito con quegli occhi per nulla stanchi,
il cellulare abbandonato sul cuscino e
un sorriso sornione dipinto in volto. Come perché? Gli occhi di Hongjoong si strinsero nel
confermare il dubbio appena insinuatosi.
Era una cazzata.
Mingi aveva detto una cazzata, e lui cretino, il primo ad averci creduto. Stava
per aggiungere qualcosa ma fu completamente spiazzato dalle poche parole che l’amico
gli dedicò con una tale naturalezza da spiazzarlo. L’ho fatto per te, così te ne sei
stato a casa tutto tranquillo. Ti conosco, non è quello che volevi?
Il ragazzo scoppiò a ridere dopo un paio di secondi ricchi di silenzio
assoluto, coprendosi gli occhi con il palmo. Che idiota, si disse. Avrebbe
dovuto dire grazie, di sicuro, eppure gli risultava particolarmente difficile
in quel momento: era bloccato lì sul letto, con gli occhi scuri di Mingi a
scrutarlo, la luce calda della lampada da comodino a definire dei buffi contorni
grotteschi sui loro volti. Si sentì improvvisamente scrutato, imbarazzato in
presenza di un collega, un amico, una persona che conosceva da anni… Che sensazione assurda… Venne strattonato verso la figura
più grande, uno scossone rapido che si concluse con l’impatto con la tela leggera
della maglia che copriva a malapena un corpo scolpito, robusto. Arrossì, una
delle poche volte in vita sua, Hongjoong arrossì in volto, felice di essere
nascosto dal tessuto.
Mingi stava stringendo a sé Hongjoong in modo protettivo, massaggiandogli la
schiena con le grandi mani: sfregò in modo quasi impacciato, non era abituato a
gesti impetuosi e spensierati come quello, non erano proprio da lui. Aveva agito
impulsivamente, come quando aveva affermato di stare male per permettere all’altro
di rimanere a casa a rilassarsi.
Senza pensare minimamente alle conseguenze.
Proprio come in quel momento.
Quando se ne accorse, sentì l’impulso di allontanarsi e sospingere Hongjoong
sulle spalle, lontano abbastanza, lontano almeno un metro. Giusto per rimarcare
i confini dello spazio vitale.
Però.
Però…
Non ce la faceva.
Quel calore che Hongjoong emanava era piacevole.
Non era il calore dell’abbraccio del dopo concerto, o quello della vittoria di
un premio annuale. Era differente.
Non era il calore di una pacca sulla spalla, o di un sorriso nello spronarsi a
vicenda.
Non era nemmeno il calore di uno sguardo palesemente preoccupato dopo una
stonatura in sala prove, o una caduta durante una esercitazione.
Era diverso.
Semplicemente, diverso.
Piacevole.
Tanto da volerne ancora, e strinse più forte.
Carezzò quei capelli così brillanti, così caldi, immergendoci i polpastrelli e
saggiandone la consistenza con le punte delle dita. Sentì l’irrigidimento di
Hongjoong venire meno, e seppe di aver ottenuto ciò che desiderava maggiormente
per lui: un po’ di sana, meritata, ragionevole quiete.
Quanto sapeva essere strano Mingi, si disse Hongjoong mentre
lasciava cadere mollemente le spalle tese, rilassando la cervicale indurita
dallo stress e cedendo con il busto su quello dell’altro. Strano sì, visto che
un attimo prima aveva mentito chiaramente per lui, e un attimo dopo lo stava…
accarezzando?
Coccolando?
Qualsiasi cosa gli stesse facendo, era particolarmente piacevole.
Nostalgico, familiare.
E Hongjoong pregò dentro di sé di non vederlo smettere tanto facilmente, perché
in quelle carezze tutto il male, il dolore, l’alienazione accumulati sembravano
essere svaniti nel nulla.
Mugolò poco prima di addormentarsi nel tepore di un petto tanto grande,
accogliente, mugolò sentendo una mano delicata dedicargli attenzioni che non
credeva neppure di volere.
Mingi si accorse di Hongjoong, era chiaro stesse dormendo ormai, eppure continuò
con movimento lento, circolare, cadenzato: lo aveva fatto per lui, si disse,
ritrovandosi a sorridere mentre quella maglia a cuori seguiva il ritmo di un
respiro rilassato.
Solo per lui. Certo.
Capitolo 7 *** I wrote Red Lights (for) with you ***
I
wroteRed Lights for
with you
PWP
Le riprese del video musicale del nuovo singolo di Hwang Hyunjin e Bang Chan si
erano concluse, dopo lunghe prove estenuanti, intense.
Particolarmente intense.
Tanto da stremare i due artisti, da portarli a una stanchezza fisica pari allo
svolgimento di una gara podistica: gli abiti di scena si appiccicavano alla
pelle, i segni delle catene, dei lacci e collari utilizzati durante il lavoro
svettavano sui polsi e sul collo di Chan, un particolare che Hyunjin non mancò
certo di notare. I capelli chiari del primo erano abbastanza corti da lasciare
scoperta la nuca, una fortuna e una maledizione per il secondo, che deglutì
ancor prima di riprendere fiato dall’immensa irritazione che gli provocava
vedere quella pelle chiara rovinata da tali rossori. Rovinata. Rosse pennellate su tela bianca, un impatto visivo non da
poco. Posò i polpastrelli sulla striscia rossastra, percorrendola per tutta la
lunghezza.
Il gemito che uscì dalla bocca di Chan lo interpretò come una risposta
stizzita, dolorante.
Si sbagliava.
Chan percepì chiaramente i brividi correre su tutta la spina dorsale prima di
scaricarsi a terra assieme a un lieve tremito. La nuca, uno dei tanti, stupidi
punti deboli che aveva era stata sfiorata, carezzata con poca delicatezza mista
a curiosità, da parte di Hyunjin. Fa male? Lo stupore dipinto negli occhi di Hyunjin pareva ingenuamente
veritiero.
Sì, rispose il biondo voltandosi nuovamente verso lo stand e gli sfondi per le
inquadrature – colori suggestivi, luci intriganti, atmosfere melliflue e
particolari – mentre i tecnici e lo staff stavano sistemando le attrezzature
utilizzate per la registrazione. Sì, ma non è stato quello a farmi sentire così,
cazzo. Sei stato tu. Con che faccia avrebbe potuto continuare a sostenere lo sguardo di colui
che era noto per una delle dualità più esplicite e riconosciute dell’industria
musicale sudcoreana? Non c’era alcun dubbio, farsi toccare da Hwang Hyunjin
dava sempre un effetto strano: le lunghe dita affusolate lo stavano sfiorando
di nuovo, stavolta più in basso, tra le scapole scorrendo sul tessuto scuro che
lo divideva dal desiderio di sentire quel calore non solo sul completo di
scena, ma anche sulla schiena, sull’epidermide, dentro le ossa. Aveva già
faticato a sufficienza durante l’esibizione davanti alle telecamere, l’effetto
del collega sapeva essere fulmineo, e sperava in cuor suo, non certo evidente.
Perché in verità stava bruciando al pensiero di non avere soltanto i
polpastrelli di Hyunjin addosso, ma ben altro.
Vieni.
I capelli mori di Hyunjin incorniciavano il volto perfetto e sorridente,
contornando uno sguardo brillante e carico di aspettative. Dove? Chan pareva confuso, sentiva correre addosso l’adrenalina per la
conclusione di un ottimo lavoro, complesso, un testo composto in due e
costruito da loro (per lui). Ammettere di aver pensato al collega
durante la stesura di quelle parole cariche di erotismo e di non detto lo
metteva in soggezione, mascherata alla bene e meglio con risate, battute e
umore leggero. Nel limite, ovvio.
Perché Hyunjin era il soggetto delle sue complete e più sincere attenzioni:
aveva dovuto ingoiare salivazione eccessiva e mordersi più volte la lingua per
non reagire durante la coreografia, non sempre perfetta ma perfezionabile, e
via una, due, cinque volte a ballare, sfiorarsi, stringersi e cercarsi davanti
alle telecamere. Essere attori nel ruolo di se stessi non era facile di fronte
al mondo, ci avevano lavorato tanto ottenendo risultati efficaci e
soddisfacenti, ma pregava non si fosse notata l’evidente erezione che spingeva
contro al tessuto nero lucido e che lo aveva portato a mordersi l’interno della
bocca in più di una occasione.
Hyunjin incatenato che lo guardava sorridendo malato…
Hyunjin che lo sfiorava…
Hyunjin che lo afferrava per il collo, stringendolo possessivamente tra le
falangi come volesse soffocarlo. O mangiarlo.
Hyunjin…
Hyunjin.
Chan sospirò dipingendosi un’espressione credibile e disinteressata in volto:
doveva fingere di nuovo, faceva parte del suo lavoro, d’altronde. Una volta di
più che sarebbe mai stato per lui?
Le cose cambiarono quando il collega lo prese per mano zigzagando tra gli
ultimi operai impegnati a smontare il set e relativi oggetti di scena. Ma dove…?
Il lungo corridoio sotterraneo che portava all’uscita di emergenza era spoglio,
contornato da pareti uguali e pallide, non certo il posto migliore dove
fermarsi a parlare. Solitamente gremito di personale, a progetto concluso
pareva spettrale. I due ragazzi si erano lasciati alle spalle la scalinata che
li aveva portati al seminterrato: davanti a loro una pavimentazione grigia che
procedeva dritta e una fila di lampadine a segnare il percorso dedicato agli
addetti ai lavori. Chan si sentì strattonare all’indietro e contro la parete. Cos-? Sbatté la testa al muro imprecando mentalmente e non riuscendo a
comprendere cosa stesse succedendo, fino a che non ritrovò il volto di Hyunjin
a un paio di centimetri dal suo. Serrò le palpebre, scappando dalla convinzione
di potersi specchiare in quelle iridi umide che lo stavano squadrando e captando
ogni singola sensazione scritta sul volto contratto. Il respiro ardeva, gli
bruciava addosso mentre tentava inutilmente di tenersi in equilibrio e non
avvicinare il proprio corpo al suo, un contatto diretto a cui non voleva
sottrarsi davvero, ma per cui stava lottando contro se
stesso. Il tessuto frusciò contro il ginocchio del moro, insinuatosi tra le
cosce di Chan, portandolo a mugolare contrariato: strinse il labbro con gli
incisivi, mascherando un ansimo traditore. Spalancò gli occhi nel momento in cui
avvertì uno sbuffo ironico proveniente da chi gli stava di fronte.
Errore.
La mente in tilt.
Hyunjin muoveva con lentezza ipnotizzante le labbra nel sussurrare poche,
semplici parole. Credi non mi sia accorto di cosa tu stessi facendo? O cosa
volessi? Sospinse la gamba più in alto, fermandosi all’altezza del
rigonfiamento doloroso di Chan che stentava a mantenere la posizione eretta. Non
hai fatto altro che eccitarti durante le riprese, o sbaglio?
Avere un carattere intraprendente e una sfacciataggine da pochi era un
vantaggio allettante in situazioni simili: Hyunjin non era mai stato estraneo
al fascino del loro leader, era stato complesso e affascinante allo stesso
tempo scrivere il testo di una canzone tale, un contenuto spinto, intrigante,
sfuggevole e ingannevole, ammaliante. Scriverlo accanto a Bang Chan era stato
parecchio difficoltoso, nulla comunque in confronto al lavoro sulla
coreografia. Il momento in cui Hyunjin si sentì così debole fu però durante la
registrazione del video.
Bang Chan era straordinario in quell’abito nero, vibrante, una forma estetica
suprema. I giochi di sguardi lo avevano tradito: per copione avrebbe dovuto
scrutarlo da capo a piedi godendo di ogni singola vista, inclinazione del
corpo, contrazione del muscolo.
Non ebbe certo bisogno di fingere.
La decisione di portarsi appresso le scariche di piacere che aveva incamerato e
somatizzato durante quelle ore di lavoro fu necessaria: cuore, mente e corpo
furono d’accordo per la prima volta. Cercalo. Prendilo. E così fece. Lascivo, decise che Chan sarebbe stato suo, in un modo o
nell’altro.
Perché aveva letto in lui reazioni esplicite, evidenti gestualità, mute
richieste che nulla avevano a che fare con il lavoro.
Sapeva di desiderare Chan, sapeva che Chan lo stava desiderando. Le pulsioni
gli si erano aggrappate addosso con artigli brucianti, arrampicandosi dai
talloni alle tempie, graffiando e lasciando solchi invisibili e
destabilizzanti. Chan… Hyunjin gettò la maschera da impassibile predatore mostrando uno stralcio
di debolezza quando la voce tremò sotto a quelle quattro lettere. Le pronunciò
ancora una volta azzerando la distanza che li separava, strappandosi gli
auricolari da dietro la nuca e facendo altrettanto al ragazzo che rimaneva
schiacciato tra sé e la superficie muraria di un posto non certo segreto, non
nascosto, tanto meno sicuro. Si premurò di lasciarli scivolare in tasca con una
certa attenzione, concentrandosi sul volto di Chan, sulle sue iridi nascoste.
Voleva vederle.
Doveva.
Gli sfiorò il viso con le labbra, concentrandosi sullo zigomo sinistro, e gli
sussurrò di guardarlo, prima di toccarlo nuovamente. Doveva trovare le proprie
certezze attraverso le sue pupille, un assenso, un cenno sarebbe bastato: non trovò
risposta tra le parole, ma i gemiti furono più che sufficienti, così come i
fianchi che iniziarono a muoversi in direzione della sua coscia, creando una
frizione efficace e umida. Hyunjin percepiva chiaramente il gonfiore cercare pace
sul suo ginocchio, salendo sui pantaloni scuri ormai stropicciati da un
movimento dapprima scoordinato. Hyu-Hyunjin…! Quando sentì il suo nome
pronunciato tre, quattro volte e avvertì il tremito di quel corpo bloccato, si
avventò su una bocca implorante e cedevole.
Al diavolo chi sarebbe potuto passare lì da un momento all’altro…
Al diavolo le attenzioni a ogni interazione nelle ultime settimane…
Al diavolo tutto, tanto il loro mondo era fatto di scandali, smentite e nuovi
scandali. Di uno in più, non gliene sarebbe fregato minimamente.
Voleva averlo per sé, sentirlo venire, pronunciare il suo nome tante e tali
volte da perderne il conto.
Arpionò le braccia dell’altro, facendo cozzare il proprio inguine con il suo,
strappandogli un gemito a malapena soffocato da una volontà che stava cedendo
pezzo per pezzo, mostrando il lato più naturale di Bang Chan; Hyunjin non
resistette e si impossessò famelico di quelle labbra che lo stavano chiamando
di nuovo, saggiandone il sapore e volendone ancora e ancora. Baci liquidi,
accompagnati da rapidi respiri e carenti d’ossigeno si susseguirono violenti,
mentre i corpi strusciavano tra loro gridando contatto, calore, bisogno,
soddisfazione. Si fermarono per riprendere fiato, perdendosi in pupille
dilatate da una eccitazione fremente e altissima. Hyunjin l’avrebbe divorato.
I capelli biondi si attaccavano alla fronte madida di sudore, ma di questo a
Chan non fregava un cazzo: credeva sarebbe andato a fuoco, riducendosi in
cenere su quel pavimento calpestato da troppe suole fino a mezz’ora prima. La
testa pulsava, così come il basso ventre teso e pretenzioso d’attenzioni fin
troppo evidenti. Istintivamente si portò la mano sul cavallo dei pantaloni,
frizionandosi e muovendo a ritmo delle dita i propri fianchi. Gemette sulle
labbra bagnate di Hyunjin che continuava a cercarlo, lasciando tracce umide di
piccoli morsi sugli zigomi e sull’incavo del collo, mescolandosi con le deboli
striature delle costrizioni metalliche e di cuoio da cui era cominciato tutto. Hyunjin
lo sentiva tremare sotto di sé, tra i denti voraci, le mani e le cosce tese a
sostegno di entrambi.
Hyunjin Sarebbe venuto anche solo avvertendolo vicino all’orgasmo, stava
impazzendo. Scaricò il proprio peso poggiandosi al muro col braccio destro,
armeggiando con la propria cintura in modo quasi impacciato: Chan si fermò un
attimo, annaspando affannosamente e riprendendo ossigeno con respiri spezzati:
inarcò la schiena rivolgendo le iridi lucide al soffitto, pregando con tutto se stesso che nessuno fosse di passaggio. Hyunjin denudò
entrambi dei pantaloni e della biancheria, distogliendo gli occhi dall’altro
per la prima volta: il rossore altrimenti evidente era nascosto dallo strato di
fondotinta che rivelava le prime imperfezioni date dagli sfregamenti di pelle
contro pelle, di labbra che si cercavano e assaggiavano a vicenda senza
sufficiente soddisfazione.
Hyunjin coprì i gemiti di Bang Chan con i propri, mugolando quando avvolse
entrambe le erezioni con le lunghe dita. Sfregò spingendosi con i fianchi, frizionando
se stesso e l’altro con colpi irregolari e una
velocità instabile, spingendo la fronte sulla clavicola di chi gli stava di
fronte nello stesso identico stato.
Persi entrambi, senza alcuna connessione tra il cervello e il resto del corpo.
Soltanto i loro respiri a mischiarsi tra i denti stretti sulle labbra, e il
bisogno di raggiungere l’apice.
Ti p-prego… La voce rotta di Hyunjin penetrò direttamente nel cervello di Bang Chan,
mandando a puttane l’intero sistema nervoso: quest’ultimo si contrasse venendo
tra le dita, riempiendo di sperma la sua cappella e quella dell’altro prossimo
all’apice, ricurvo su di lui, respirando sul suo collo e gemendo nel suo
orecchio. Hyunjin lo raggiunse poco dopo, le ginocchia che tremavano e
faticavano a reggere il ritmo e il peso di ogni singola azione e pensiero; si
fermò ansante, il cuore tachicardico, il rimbombo sordo nelle orecchie di chi aveva
perso il controllo e la ragione. Jin… Bang Chan gli rivolse un sorriso, l’eyeliner sbavato da un lato, le
labbra arrossate, gonfie, tremule; i capelli arruffati ricadevano disordinati
ai lati del viso, incorniciando lo sguardo appannato pieno di quesiti. Domande
che avrebbe tenuto per sé. Aveva avuto soltanto l’energia di pronunciare il
nomignolo dell’altro. Hyunjin sorrise riprendendo fiato come poteva,
schiacciando l’altro con il peso del proprio corpo, l’eccitazione che scemava
grondando liquido denso sul pavimento; sorrise aggrappandosi alla camicia
sgualcita, sorrise ancora sulle labbra di lui sussurrando poche parole, la
stessa musica che avevano prodotto assieme:
I cannotbreathewithout you beingright by my side… I’ll die.
E Chan
concluse, avvolgendo le spalle del ragazzo con le braccia stanche, poggiando il
capo sul suo petto pronunciando la conclusione della prima strofa.
So, can you please come over closer, hold me tight rightnow.
Errore il
loro, quando avvertirono chiaramente dei passi percorrere il corridoio. Bang
Chan sgranò gli occhi, impossibilitato a dire qualsiasi cosa.
Congelato.
Bloccato.
Scattò a sinistra, due persone stavano parlando tra loro mentre stavano
scendendo le scale, ancora una manciata di secondi e sarebbero stati visibili a
figura intera, da lontano. I toni familiari rapirono la loro attenzione scuotendoli
all’interno della loro bolla, una bolla che aveva ancora l’odore di loro e
risuonava di gemiti trattenuti e desideri ancora troppo grandi per poter essere
affrontati. Hyunjin scoppiò le pareti di quel mondo ricreato, richiudendosi
alla buona i pantaloni e facendo altrettanto con quelli di Chan, ancora
paralizzato; lo strattonò e cominciò a correre, le dita intrecciate alle sue,
una nuova adrenalina a muovere i passi di entrambi sperando di non farsi
beccare. Si nascosero dietro la prima deviazione a destra, stremati.
Si guardarono, i petti si muovevano sostenuti mentre s’erano appiattiti contro
la parete: risero tappandosi la bocca con le dita, risero di nuovo mascherando
gli sbuffi alla buona e si guardarono, per la prima volta, con occhi
consapevoli.
Make you feelmy
love.
Blyth, ily.
For you, and for all STAYS here.
You make Stray Kids Stay.