Cinnamon
honey milk
Enemies
to lovers
Due sole parole avrebbero potuto
sottolineare in modo efficace il rapporto che s’era instaurato tra Chae Hyungwon e Im Changkyun: odio incondizionato.
L’ingresso di Changkyun non era certo stato tra i più concilianti: il programma
a eliminazione No.Mercy della Mnet, atto a scoprire talenti e creare un nuovo gruppo da
gettare letteralmente in pasto all’industria della musica Kpop, s’era preso la
briga di inserire il ragazzo a metà progetto, così, dal nulla. Una inattesa
notizia da dare ai colleghi già in gioco da mesi. L’equilibrio così venne
spezzato, e l’umore generale toccò soglie mai raggiunte prima, neppure nel
peggior contesto di gara.
Chae Hyungwon era colui che aveva incassato peggio lo
smacco da parte dell’agenzia, ingoiando amaramente e giocando a guardia e ladri
con il proprio orgoglio e l’improvvisa mancata voglia di svolgere qualsiasi
attività inerente alle sfide. Avrebbe dovuto impegnarsi come e più degli altri
per farsi spazio e arrivare in finale, strappare dalle mani degli avversari uno
dei posti disponibili come artista e così sfondare nella carriera di idol che
tanto bramava stringere tra le dita. Gareggiare contro coloro con cui conviveva,
si allenava e si preparava ogni giorno da intere settimane era uno stimolo, un
confronto continuo, ma vedere il nuovo arrivato appropriarsi di camere e spazi
comuni… quello no.
No.
Hyungwon non l’avrebbe tollerato, e non si sarebbe certo fatto alcun problema a
dimostrarlo.
Im Changkyun, classe 1996, cantante rapper emergente introverso e ligio al
dovere, era costantemente concentrato sul proprio lavoro e su come tentare di
instaurare un rapporto qualsiasi con chi lo circondava; i capelli scuri a
incorniciare un volto pallido, insicuro, il fisico atletico di chi aveva imparato
a ballare allenandosi insistentemente, le movenze di chi avrebbe voluto sparire
sotto alle assi del pavimento della stanza. Il ragazzo aveva tentato a più
riprese di attaccare bottone con qualcuno – uno qualsiasi, chiunque,
indifferentemente – ma a poco erano valse le prove di socialità imposta… si
sentiva estremamente solo, ed era peggio ancora di ciò che aveva immaginato. Sapeva
a cosa sarebbe andato incontro accettando la proposta offerta, ma il
comportamento di Hyungwon era ingestibile persino rispetto a quello di tutti
gli altri messi assieme; quest’ultimo, tendenzialmente abituato a essere al
centro dell’attenzione e a dar sfoggia della propria bravura, famoso per l’aspetto
all’apparenza angelico, santo quanto le acque del fiume Stige, non mancava
d’ostentare l’ostilità che provava nei suoi confronti, rifiutandosi di mangiare
nella sua stessa stanza, di sostare più del dovuto nelle sale prove, e
soprattutto, di rivolgergli la parola.
Non un buongiorno usciva da quelle labbra piene, perennemente coperte da un
filo di trucco roseo e velenoso. Non un cenno di assenso da un capo
perfettamente ordinato in ogni singolo ciuffo castano. Niente. Non uno sguardo
si posava su Changkyun, gli occhi scuri toccavano tinte buie e inquietanti, eppure
brillavano durante l’allenamento, le prove di canto, brillavano spesso.
Questo Changkyun lo sapeva, perché non poteva fare a meno di soffermarsi a
osservare il soggetto di un astio grande tanto da superare ogni altro
sentimento positivo.
In una sola occasione Hyungwon aveva voltato lo sguardo sul compagno di lavoro,
quando quest’ultimo era caduto rovinosamente da uno dei tavoli disposti in sala
allenamento per l’esecuzione di una prova particolarmente ostica. L’unica cosa
a non aver fatto crack in quel momento era stato l’insieme di ossa
doloranti: la sedia sfasciata, il buonumore, l’orgoglio e la fiducia in sé che
Changkyun aveva ottenuto a fatica in quelle settimane s’erano incrinati, e con essi
la possibilità di partecipare al prossimo episodio di No.Mercy
come parte integrante dell’esibizione. Il ragazzo si alzò trattenendo a stento
le lacrime, il dolore al costato gli spezzava il fiato, e il ginocchio s’era
avventato sul metallo della struttura della sedia, rischiando di andare in
frantumi; avvolse il busto con il braccio, aggrappandosi all’anca con tutta la
forza che aveva, così da concentrarsi su altro che sul dolore generalizzato che
ormai lo teneva stretto in una morsa pulsante e sempre più forte. Col capo
chino a non mostrare debolezza scansò l’aiuto dei colleghi, anche di chi s’era
prodigato nell’issarlo offrendogli appoggio; raggiunse la porta cozzando e stridendo
denti e giunture, sperando in cuor suo di dribblare Hyungwon e il suo atteggiamento
indolore e offensivo. Fu stupito di sentire una presa salda, calda, ferma, a
strattonarlo.
Sibilò, ancor prima di rendersi conto che si trattasse di Hyungwon stesso.
Abbassò nuovamente la testa dopo aver osservato per interminabili secondi la
nuca scoperta, i capelli per la prima volta scompigliati, e un certo fremito
nervoso da parte dell’altro.
«Muoviti, devi farti controllare.»
Il “non ce n’è bisogno” non uscì nemmeno dalle labbra di Changkyun, troppo
impegnato a incespicare sui propri passi, inciampare nuovamente e aggrapparsi
alla camicia oversize a scacchi bianchi e neri che penzolava dai pantaloni di
Hyungwon.
«Veloce.»
Voce atona, come sempre.
Non fosse stato per un leggero tremolio avvertito sul finale.
«La… lascia stare… sono capace d-» un colpo di tosse interruppe le parole del
giovane, impegnato a riprendere fiato per la fatica immane data da un tracciato
tanto corto quanto duro da affrontare, «di camminare…» strattonò invano quel
lembo di tessuto che ancora stringeva convulsamente, sussurrando un “fermo”
poco convinto.
Hyungwon si voltò fulminandolo con lo sguardo, le iridi infuocate di rancore si
sciolsero un momento, raffreddandosi quel tanto da permettere un primo, lungo,
inaspettato contatto visivo tra i due. «Obbedisci, o ti lascio qui a rantolare a
terra. Potresti aver fratturato una costola, lasciati aiutare.» La breve pausa
separò la frase da un “cazzo” ben scandito poco dopo. Lui riprese a percorrere
a passo di marcia la distanza avanzata fino a raggiungere lo spogliatoio dello
stabile, fortunatamente vuoto.
«Ora ti siedi qui, e stai zitto.»
Nessun danno sembrava aver coinvolto il corpo e le articolazioni di Changkyun,
se non un numero non esiguo di ematomi, di cui uno particolarmente doloroso
all’altezza del fianco: il più duro a guarire, ma mai quanto l’orgoglio
spezzato dell’aver permesso a un incazzato e ormai non più insofferente
Hyungwon di avvicinarglisi. La ripresa fu rapida, l’esonero dalla sfida si
concluse una settimana dopo l’esibizione permettendo un adeguato riposo e il
reintegro al successivo allenamento. L’ingresso del ragazzo in sala prove venne
applaudito dai colleghi che lo accerchiarono e si assicurarono di poterlo
considerare nuovamente parte integrante attiva del gruppo.
Calore.
Affetto, una qualche lieve forma di affetto umano.
Attenzione interessata.
Le ultime settimane s’erano uniti ancor più nello stesso obiettivo, nella
passione per il proprio lavoro e nel rispetto e riconoscimento delle capacità
che sarebbero stati sicuramente in grado di dimostrare.
Hyungwon si fece avanti, premendo con il dito il fianco di Changkyun: un AHI
accompagnato da un sonoro sbuffo contrariato portò quest’ultimo a voltarsi,
ritrovandosi il volto dell’altro a una decina di centimetri. Pietrificato da
una vicinanza inattesa e mai palesata prima, lo sospinse via con eccessivo
vigore, sbilanciandosi all’indietro; venne recuperato prima di precipitare a
terra, per poi essere trascinato verso l’alto con poca difficoltà.
«Non ho intenzione di trascinarti di peso un’altra volta, sta’ attento.»
Il sorriso di sfida di Hyungwon donò un nuovo colore allo sguardo, un colore
che Changkyun avrebbe cercato più e più volte, tentando di non farsi notare.
L’allenamento era stato sfiancante, l’ultima sfida aveva messo a dura prova i
ragazzi: un altro dei compagni se n’era andato, e in pochi erano rimasti. Un
paio di esibizioni ancora, e tutto sarebbe finito.
Tutto anzi sarebbe cominciato.
E questo i partecipanti lo sapevano.
La tensione rendeva Hyungwon irrequieto, anche se non l’avrebbe mai dato a
vedere; stava ricercando in ogni modo un angolo di serenità che l’avrebbe
aiutato a passare l’ultima sessione del programma senza soccombere alla
frustrazione e alle paranoie. S’era appena preparato per la notte, e una tazza
di latte bollente con miele e una spolverata di cannella l’avrebbe aiutato a
recuperare un certo equilibrio d’umore, prima di andare a dormire. Era tardi,
il dormitorio non risuonava di rumorosi echi come durante le ore diurne, la
quiete data dal silenzio era rilassante: incredibile come tutto coincidesse in
maniera perfetta per riuscire a rendere la serata di Hyungwon il più piacevole
possibile. Camminava piano per il corridoio, la mug
fumante di ceramica azzurra era stretta tra le dita intorpidite dalla fatica,
le ciabatte scivolavano stancamente sul tappeto scuro che seguiva la linea
della pavimentazione ovattandone i suoni dei passi; il pigiama di un verde
pastello ricadeva mollemente sui muscoli nascosti dal tessuto largo, una comoda
alternativa al girare in vestaglia dove avrebbe potuto malauguratamente
incontrare ancora qualcuno. Raggiunta la sala comune, illuminata a malapena dai
lampioni che sfioravano le tapparelle chiuse malamente, entrò senza badare a
una presenza ormai familiare.
Changkyun era rannicchiato su una delle poltrone, la testa tra le mani e le
ginocchia strette al petto dai gomiti: tentò goffamente di cambiare posizione e
apparire il più naturale possibile, fallendo miseramente. La postura scomposta,
gli occhi lucidi nonostante la presenza di una luce flebile rendevano il quadro
relativamente chiaro agli occhi di Hyungwon.
Changkyun aveva un problema, e pareva essere qualcosa di estremamente
soffocante.
Il ragazzo sospirò, sapendo di star mandando a puttane la propria serata
“perfetta”, e poggiò la tazza sul tavolino di vetro in mezzo alla stanza,
accomodandosi al sofà accanto alla poltrona. Ogni singolo colore era smussato,
sfocato, mentre i suoni si disperdevano nell’aria con chiarezza cristallina.
L’ospite inatteso stava singhiozzando.
Hyungwon detestava le persone deboli che perdevano tempo a lasciarsi andare
alla propria emotività.
Le odiava visceralmente.
Avrebbe voluto alzarsi e risvegliare a suon di schiaffi quella passività
melensa che gli si era parata davanti.
Non lo sopportava.
Non l’aveva mai sopportato.
Ma stava piangendo.
Gli avrebbe dedicato quindi un paio di parole di conforto, due o tre al massimo,
per poi recuperare il proprio latte bollente, la voglia di dormire e dirigersi
in camera, dove il letto e il piumone lo stavano attendendo con nostalgia. Nulla
di più.
Changkyun tentò di mascherare il volto come poteva, consapevole dello sguardo
indagatore di Hyungwon. Si sarebbe fatto risucchiare volentieri dalla poltrona,
dentro e giù, fino in fondo, piuttosto che farsi vedere in quello stato da
qualcuno.
Da lui.
Uno dei pochi momenti in cui non aveva le telecamere puntate addosso era
rappresentato dalla notte, ed era l’unico lasso di tempo in cui poteva cercare
di dar voce alla propria ansia sfogando le ore di lavoro, i dolori ai muscoli e
l’afonia parziale data dall’aver esagerato con le corde vocali. Nel buio della
sera tarda nessuno l’avrebbe giudicato, perché nessuno poteva guardarlo, e
tutto sarebbe andato liscio, non fosse stato per l’arrivo dell’unica persona
che sentiva ancora distante rispetto alle altre.
Hyungwon.
Tra tutti coloro con cui era riuscito a legare, proprio lui doveva presentarsi
quella sera?
Changkyun stirò le gambe cercando una posizione comoda, naturale, per poi
fermarsi a osservare le movenze dell’altro con finto disinteresse.
Perché in realtà guardava ogni mossa del suo corpo con una certa attenzione.
Asciugò rapidamente il volto ancora umido con la manica della felpa grigia che
gli fasciava il corpo, per poi attendere.
Aspettava qualsiasi cosa.
Un insulto probabilmente, o una frase cinica: qualcosa, qualsiasi cosa.
«Vieni. E zitto.» Hyungwon stesso si alzò dal divano,
raccolse la tazza dal tavolino porgendogliela con aspettativa. «E soprattutto
bevi, aiuta a far passare il fastidio alla gola. Andiamo.» Se lo portò appresso
in direzione del corridoio, spalancando poi con noncuranza una delle due stanze
adibite a camera da letto. Attese in piedi che Changkyun bevesse il contenuto –
tutto – battendo ripetutamente a terra il piede con impazienza per poi
strappargli di mano il contenitore vuoto, abbandonandolo sul morbido tappeto; spinse
il collega in direzione del proprio letto, indicandogli di sedersi.
L’espressione interrogativa dell’altro fu più che eloquente, chiara anche nella
luce pallidissima che filtrava a fatica dalle minime aperture della finestra.
Qui?
«Ma il mio letto è di là.»
«Lo so. Stenditi.»
La pressione delle dita sicure e frettolose di Hyungwon fece fremere Changkyun
come quando si fece male in sala prove, lo stesso tipo di sensazioni: il
formicolio improvviso alle mani, un lieve tremore dato da una invadente spinta
dallo sterno verso gola e stomaco, e in ultimo la totale immobilità. Il
fondoschiena poggiava ancora sul morbido piumone blu notte a coprire il
materasso del letto singolo di Hyungwon. Il ragazzo lo spintonò ancora una
volta con maggior forza, sfiorandogli il volto con il proprio per un attimo,
per poi assestarglisi accanto, sollevare la pesante coperta e avvolgere
entrambi nel calore di un posto letto troppo stretto per due.
«Ora dormi.»
Ma nessuno dei due ci riuscì davvero.