Insegnami a volare

di stefy_29
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


Si guardarono negli occhi, per un istante che sembrò interminabile.
Aveva visto tutto. O lo aveva solo immaginato?
Si diede un pizzicotto sul braccio, come fanno le persone nei film quando vogliono svegliarsi da un incubo.
Lui la fissava silenziosamente. Dalla faccia non trapelava nulla, né paura né rabbia, né sorpresa.
Stava lì, immobile, in attesa di una sua reazione.
E cosa avrebbe dovuto fare? Scappare?
Come avrebbe potuto muoversi, o anche solo distogliere lo sguardo da quegli occhi che la stavano incatenando a lui?
Si sentì sopraffatta da una ben conosciuta sensazione di nausea e da un’inaspettata eccitazione.
Aprì la bocca in maniera meccanica, inspirò profondamente con l’intento di dire qualcosa, ma non le uscì una sola parola.
Lui posò impercettibilmente gli occhi sulle labbra di lei, come se avesse già capito cosa stava per fare.
Non si sorprese del silenzio che ne seguì.
A passi lenti, ma decisi, lo vide avvicinarsi.
Cominciò a tremare senza rendersene conto, e quando ormai le fu davanti, chiuse gli occhi e si irrigidì.
“Non ti farò del male.” – disse lui dopo qualche secondo, così piano che credette di averlo solo immaginato.
“Guardami.” – continuò, in tono risoluto. “Per favore.” – aggiunse in tono supplichevole, come per tranquillizzarla.
Aprì gli occhi, tenendo lo sguardo basso. Le gambe di lui erano a soli pochi centimetri dalla sue.
Cominciò a scrutarlo dal basso verso l’alto, senza dire nulla. Quello strano ragazzo portava abiti scuri, difficile capire se fosse vestito elegante o se fosse in tenuta sportiva.
Era alto e, nostante gli abiti scuri, percepiva la sua costituzione massiccia.
Più alzava lo sguardo, più intravedeva dettagli, a cui prima non aveva fatto caso.
Il collo imponente lasciava spazio ad un viso squadrato, forte. Le mascelle erano ben salde tra loro, bocca e narici immobili, come se non stesse neppure respirando.
Si fermò qualche istante a osservargli le labbra: erano carnose, di un bel rosa vivo, se paragonate al viso pallido. Forse le luci dei lampioni non rendevano giustizia a quel volto, che sembrava privo di ogni imperfezione. Nessuna ruga, fossetta o pelo fuori posto.
Non sembrava reale.
Si domandò per un secondo, se avesse avuto la stessa fortuna. Se le luci dei lampioni avessero tolto anche al suo viso ogni difetto, rendendola così mostruosamente attraente.
Soffocò la domanda sul nascere, non appena gli occhi si posarono su quelli di lui. Erano scuri, come i capelli.
Prima che potesse leggervi dentro anche il minimo particolare, si fecero tutto d’un tratto duri e impenetrabili.
“Come ti chiami?” – le domandò impassibile.
Senza staccare gli occhi da lui, che adesso sembravano guardarla con passione e desiderio, come un predatore guarda la sua preda, rispose in un sussulto: “Sam…mi…mi chiamo Samantha. Tu chi sei?”
Aveva paura di chiedere troppo, paura di chiedere qualunque cosa, ma doveva sapere.
Doveva dare un senso a ciò a cui aveva appena assistito.
Nessuna risposta.
Lo vide avvicinarsi ancora più di quanto non le fosse già vicino. Il corpo fu sul punto di sciogliersi in un brivido di freddo, quando le labbra di lui le sfiorarono le orecchie.
“Il peggiore dei tuoi incubi.” – fu tutto ciò che sentì, prima di svenire a terra.

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Capitolo 2
*** 1 ***


Era una mattina come tante altre.
La sveglia aveva suonato alle 7:45, puntuale e fastidiosa come sempre, e, immancabilmente, l’aveva posticipata più volte di quante avrebbe dovuto.
Tenne gli occhi chiusi ancora un istante, librandosi nel ricordo di quei sogni beati, di cui perdeva memoria secondo dopo secondo.
Giunse poi la consapevolezza della giornata che era appena iniziata e che non l’avrebbe aspettata a lungo.
Di colpo, la dolcezza di quel momento tutto suo fece posto all’amarezza della quotidianità. A quel susseguirsi di meccanici movimenti che il suo corpo compieva ogni giorno, ormai stanco di domandarsi il perché.
Odio la mia vita - pensò, alzando gli occhi al cielo.
In un ritardo cosmico, uscì dal letto bruscamente, rischiando di scivolare a terra. Aprì il cassetto dell’intimo, imprecando contro se stessa per non averlo ancora riordinato. Recuperò alla cieca un paio di mutandine nere, un reggiseno in pizzo color carne e un paio di calzini grigi. Corse spedita in bagno, sperando di ingannare le lancette dell’orologio. Lo specchio appeso sopra il lavandino era coperto da un asciugamano.
Quando l’ho messo lì? - si chiese per un attimo sorpresa, per poi abbandonare quel pensiero velocemente, così come era arrivato. Con una mano si spazzolava i capelli, lavandosi i denti con l’altra, più in fretta che poteva. Era decisamente in ritardo.
Si infilò il primo paio di vestiti comodi, riposti alla rinfusa sulla sedia in camera. Jeans, sneakers e un maglioncino a collo alto di colore beige.
Quella casa era un buco, ospitava a malapena una persona da quanto era stretta e angusta. Restava buia per la maggior parte della giornata e questo comportava non poca umidità.
Avrebbe anche potuto prendere fuoco e non le sarebbe importato di nulla.
Tranne che per la sedia. Adorava quella sedia. Era un regalo della madre di qualche anno prima. Ricordava molto la poltrona di Luigi XV: legno di noce, braccioli a ricciolo, gambe arcuate, seduta e schienale imbottiti e ricoperti da motivi floreali. Era maestosa nella sua semplicità. Ciò che più le piaceva era quel profumo di antico, di buono, che solo le cose vecchie portano con sé, anche quando il tempo le spinge a deperire. Come il profumo di un buon libro.
Chiuse il bottone dei jeans, cercando di ricordare dove avesse lasciato la cintura. Quei pantaloni erano diventati sempre più larghi negli ultimi mesi. Quand’era l’ultima volta che aveva fatto un pasto decente?
Samantha Hansen era nata e cresciuta a Cody, Wyoming, la famosa città di Buffalo Bill, abitata da poco più di ottomila anime. Figlia unica di Erik e Grace Hansen, era cresciuta circondata da un autentico spirito country, in quella che si poteva definire la capitale mondiale del Rodeo, o almeno cosi amavano chiamarla gli abitanti di Cody.
Non si era mai sentita adeguata all’ambiente in cui era cresciuta. Quel mondo le stava stretto addosso, al punto da toglierle spesso il respiro. Lo considerava casa, per certi versi, ma non era bastato a renderla felice.
Terminata la Cody High School, vinse quattro borse di studio, contesa tra le più prestigiose università, che avevano visto in lei un potenziale da esplorare. Lei, d’altro canto, aveva le idee ben chiare per il suo futuro: Berkeley, California. Il più lontano possibile dal suo passato e più vicino quel tanto che bastava a realizzare i suoi sogni.
A Berkeley ha sede una delle più importanti università del paese, le cui trentadue biblioteche coprono un’area di ben 50.000 m2. L’idea di avere a disposizione tutti quei libri, le aveva sempre messo l’acquolina in bocca.
Era la tipica ragazza che, incontrandola per strada, poteva passare inosservata ad una prima occhiata. Altezza media, occhi verdi, capelli castano scuro, addolciti dai riflessi color tramonto, visibili solo alla luce del sole. Né lisci e né ricci, raccolti ordinariamente in uno chignon spettinato.
Aveva passato gli anni alla UC Berkeley principalmente in biblioteca, divorando un libro dopo l’altro. Le piacevano in particolare i saggi storici, ma si dilettava in qualunque lettura. Tra i tanti college a disposizione all’interno dell’università, si era specializzata in Giornalismo, decisa a coltivare la sua vera passione. Sin da bambina infatti sognava di poter scrivere e pubblicare un romanzo tutto suo.
Non era mai stata brava a socializzare, a stare in mezzo alla gente, e non perché non le piacessero le persone. Era così e basta, lo aveva sempre saputo. Le veniva più semplice scrivere, le parole scritte assumevano un’altra forma, diventavano impermeabili, non mutavano, non venivano confuse o dimenticate. Erano lì, ferme e allo stesso tempo sempre in movimento. Si potevano dire un sacco di cose senza parlare. Si poteva vivere una quantità infinita di avventure e trovarsi in mille posti contemporaneamente, solo leggendo poche pagine. Molti dei suoi compagni d’università trascorrevano le giornate organizzando feste colossali, riprendendosi dalle sbornie, percorrendo la Telegraph Avenue in cerca dei migliori capi alla moda.
Quando non era rintanata in una delle biblioteche, Samantha era invece solita sedersi ai piedi dello Strawberry Creek, un piccolo corso d’acqua che divide in due il campus. Nessuno ci andava mai e lei non riusciva a capirne il perché. Era uno dei posti che più preferiva: quella pace, quel silenzio, rotto solo dal fruscio dell’acqua e dal canto degli uccelli. Alberi e distese di verde. Era il luogo perfetto per scrivere. Sapeva che nessuno l’avrebbe mai disturbata in quel suo piccolo rifugio.
Lì era libera di pensare.
Un pensiero la colse prima di prendere le chiavi e uscire di casa. Che giorno è oggi? - si domandò, retoricamente. Sapeva bene che giorno era e non voleva concedersi il tempo di aprire quel cassetto. Scacciò via il pensiero e si diresse in strada.
Ad aspettarla come ogni mattina c’era Blaide, la sua compagna di vita. Era una bicicletta vecchio stampo, di quelle con i sedili grandi e il cestello in vimini. Aveva usato gli ultimi risparmi per comprarla, ma non se n’era mai pentita. Avevano tentato di rubargliela più di una volta in effetti, ma in qualche modo il fato l’aveva sempre ricondotta a lei. Come fossero legate dal filo rosso del destino, quello di cui parlano le leggende popolari giapponesi. Si era troppo affezionata a quell’ammasso di ferraglia arrugginito, che le ricordava il mondo semplice in cui era cresciuta, da non volersene separare neanche sotto il diluvio universale.
Pedalava veloce, tra le strade affollate di Berkeley, tra persone che, molto probabilmente, si erano messe in strada molto di prima di lei, sfidando le leggi del tempo per arrivare a lavoro in orario.
Dopo l’università, aveva trovato lavoro come commessa presso la Mr. Mopp’s Children’s Books, una storica libreria collegata al Mr. Mopp’s Toy Shop, situato proprio a fianco del negozio. Non era esattamente quello che sperava, vendere libri per bambini poteva per certi versi risultare noioso. Eppure, oltre a darle da vivere, quella libreria aveva risvegliato qualcosa in lei. Sapeva di essere stata una bambina fortunata. I suoi genitori avevano capito fin da subito che, alle bambole, preferiva di gran lunga i libri, e avevano assecondato questa sua passione. Ricordava con dolcezza la madre che, stringendola tra le braccia, le leggeva delle storie per farla addormentare. Non tutti i bambini avevano avuto questa fortuna. E si sentiva in certo senso responsabile di dover offrire la stessa opportunità a questa nuova generazione, troppo presa dai cellulari, per lasciar spazio all’immaginazione.
La libreria era piuttosto grande, considerando che era destinata ad una piccola fetta di lettori. Si distribuiva in due piani, scaffali e scaffali di libri, da quelli consigliabili alle future mamme su come gestire il proprio bimbo appena nato, ai romanzi rosa per adolescenti. Le grandi vetrate, che raggiungevano il soffitto, donavano al locale una luce particolare. Riempivano di colore l’intero negozio, rendendo lo spazio un luogo confortevole dove potersi sentire a casa. Aveva visto spesso entrare uomini e donne, pur senza figli a cui regalare uno di quei preziosi manuali di avventure, solo perché attirati dalla luce e dai colori vivaci sugli scaffali.
“Buongiorno, Sam. Come al solito hai spaccato l’ora.” – sentì lei, entrando in negozio dalla porta principale.
“Buongiorno, Jeff. Il traffico stamattina era indescrivibile.” – rispose, rivolgendogli un sorriso d’intesa.

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Capitolo 3
*** 2 ***


Jeff Miller era il proprietario della libreria, un uomo di mezz’età, basso, paffutello, l’espressione segnata dal tempo. Da qualche mese si era lasciato crescere la barba, brizzolata e ispida come i capelli. Aveva perso la moglie circa una ventina d’anni prima, e, malgrado il sogno mancato di diventare padre, non si era più voluto risposare. Aveva trovato nella Mr. Mopp’s Children’s Books la possibilità di essere di nuovo sereno, anche fosse stato solo per un momento, grazie al sorriso di tutti quei bambini, che varcavano la sogna del negozio. Renderli felici riempiva quel vuoto che il tempo non era riuscito a colmare.
Fin dall’inizio della sua “carriera” lavorativa, – ormai erano due anni che lavorava in libreria – Samantha aveva considerato Jeff una figura paterna e una spalla su cui poter contare. Non si poteva certo dire che erano migliori amici, ma sapeva che, nel profondo, Jeff la considerava come una figlia, e che ogni qualvolta avesse avuto bisogno di una mano con l’affitto o con le bollette, sarebbe stato pronto ad aiutarla, anticipandole una parte dello stipendio. Non ricordava neanche più quante volte fosse successo, ormai.
“È passato Ben, poco prima che arrivassi.” – esordì Jeff, ignorando la scusa poco credibile al ritardo cronico di Samantha.
“Ho paura che quel ragazzo stia mettendo troppe radici qui, se capisci cosa intendo...” – continuò lui, facendole l’occhiolino.
Non aveva tempo di pensare anche a questo. Alzò gli occhi al cielo, senza pronunciare alcuna risposta, sperando che almeno per quella giornata non sarebbe più tornato a cercarla.
Conosceva Ben Davis dai tempi del college, aveva frequentato il corso di Chimica e alloggiava a sud del campus proprio nel dormitorio vicino al suo. L’aveva notata camminare sempre con qualche libro in mano e, divertito da quel raro esemplare di specie umana che lui chiamava “l’Essere nerd”, l’aveva praticamente costretta a diventare sua amica.
Non era stato facile, per lei, farlo entrare nella sua vita, dopo essersi ripromessa, molti anni prima, di lasciarvi fuori le persone, ma era impossibile non affezionarsi a Ben. Non lo avrebbe mai ammesso, ma gli voleva davvero molto bene. Solo che il più delle volte doveva armarsi di tanta pazienza, perché la sua presenza poteva risultare estremamente soffocante.
La giornata passò in fretta, alternandosi tra momenti di calma e un via vai di gente continuo. La libreria teneva aperta sette giorni su sette, dal lunedì al venerdì dalle 10:30 am alle 06:30 pm, sabato e domenica dalle 09:30 am alle 05:30 pm. Jeff credeva che la curiosità e l’immaginazione di grandi e piccini non dovesse essere arrestata da un inutile giorno di chiusura del negozio, dedicato al riposo. “Mi riposerò quando sarò morto.” -  ripeteva sempre – “E poi che altro ho da fare a casa?”
Sam lavorava a tempo pieno nei giorni feriali, spesso senza neanche fare pausa per mangiare un boccone, e ogni volta che poteva lo aiutava nel weekend. Sebbene Jeff insistesse ripetutamente che avrebbe dovuto pensare ad uscire, divertirsi e ad avere una vita sociale, piuttosto che stare chiusa in libreria ad aiutare un povero vecchio - come era solito auto definirsi - lei trovava di gran lunga più piacevole e confortante la sua compagnia a quella del resto della città.
Era venerdì, un grigio e freddo venerdì di febbraio. Le temperature in quel mese non scendevano mai sotto zero, ma l’inverno era la stagione più piovosa e umida dell’anno e il freddo percepito penetrava nelle ossa.
Erano circa le sette passate, quando prese sciarpa e cappotto e raggiunse Blaide. Il cielo si era fatto ormai scuro e non aveva nessuna voglia di rincasare subito. Le venivano i brividi al pensiero di tornare in quel piccolo buco freddo, trovato per un colpo di fortuna - se così si può dire - su un annuncio pubblicitario. Per quanto poco, l’alloggio del campus - una stanza di 7 m2, con bagno in comune in corridoio - era una reggia in confronto. Non aveva avuto alternative. Finiti gli studi, aveva sperato di essere indirizzata dai tutor dell’università in qualche editoria o giornale, ma non era riuscita a scrivere nulla di completo. Nulla che potesse farle da trampolino di lancio. E quindi gli insegnanti, un po’ delusi, se n’erano lavati le mani.
In quegli anni aveva iniziato molti scritti, ogni minimo dettaglio inciso nella mente, eppure qualcosa l’aveva frenata dal portare a termine anche una semplice poesia.
Come se qualcosa l’avesse bloccata per una ragione.
E così si era ritrovata con una laurea in mano, ma senza lavoro e senza casa. Il padre aveva insistito perché tornasse a casa e lo aiutasse con il ranch e gli animali. L’aveva rassicurata che nessuno l’avrebbe giudicata, se le cose non avevano funzionato a Berkeley.  “Non temere tesoro. Troverai sempre braccia aperte ad aspettarti.” – le diceva al telefono.
Avrebbe voluto renderlo felice e ammettere a se stessa che forse era proprio quello il suo destino: vivere la vita di una ragazza di campagna. Questo pensiero però non era stato sufficiente a farla tornare.
 “Non è ancora arrivato il momento di arrendersi!” - si ripeteva ogni giorno. L’aveva fatto una volta, e non era più disposta a farlo. A malincuore, fu costretta a chiedere una mano ad Erik per poter anticipare i soldi dell’affitto alla signora Williams, la proprietaria dell’appartamento, e, con un po’ di riluttanza, alla fine il padre acconsentì. Da allora, si sentivano di rado, entrambi consapevoli che niente sarebbe stato mai come un tempo.
Prese il telefono dalla tasca del cappotto e trovò almeno dieci chiamate di Ben. Scuotendo la testa in segno di disapprovazione, lo richiamò. Non voleva che, per la preoccupazione, le piombasse a casa all’improvviso.
“Ciao Ben.” - lo salutò, apatica.
“Ma dove diavolo sei stata?” - proruppe lui, in tono adirato. “Ti avrò chiamata tipo venti volte!”
“Veramente erano dieci.” - precisò Sam, alzando gli occhi al cielo.
“Perché non mi hai richiamato? Sono anche passato in negozio. Jeff non te l’ha detto?”
“Si, me l’ha detto. È che…ero piena di lavoro oggi. Non ho avuto un momento libero e ho potuto richiamarti solo adesso.” – mentì, sperando di risultare credibile.
Ci furono dei secondi di silenzio, in cui forse Ben pensò se crederle o meno.
“Potevi almeno scrivermi un messaggio, mi hai fatto preoccupare. Comunque…vieni da me questa sera? Potremmo fare un giro e bere qualcosa.” - ormai la rabbia aveva ceduto il posto al suo immancabile buonumore.
“Mmm…sai che non sono molto da queste cose Ben. E poi stasera sono veramente stanca. Credo che farò una doccia e mi butterò a letto.”
Le dispiaceva dovergli mentire così, ma aveva scelto proprio la giornata sbagliata per desiderare la sua compagnia.
“Dai, Sam! Non ti far pregare. É venerdì sera! Dovremmo uscire, bere e ridere come ai vecchi tempi.”
“Un’altra volta magari, ok? Adesso scappo a casa o andrà a finire che mi becco un bel raffreddore a restare fuori così, al freddo.” - tagliò corto lei - “Ci sentiamo domani. Buonanotte Ben. Ti voglio bene.”
Non gli diede neanche il tempo di rispondere, e riattaccò. Sapeva che l’indomani l’avrebbe riempita di domande e avrebbe desiderato più attenzioni di quante ne avesse ricevute quel giorno. Si sarebbe inventata qualcosa per farsi perdonare.
I pensieri cominciarono a ronzarle in testa. Li aveva deliberatamente tenuti nascosti per tutto il giorno, cercando di distrarsi più che poteva con il lavoro, ma adesso sembravano venire a galla prepotentemente.
Salì sulla bicicletta e iniziò a pedalare, senza una meta precisa.
Le macchine erano un susseguirsi di luci e rumori, e il freddo le pungeva il viso, man mano che pedalava più velocemente. Gli occhi cominciarono a riempirsi di lacrime e le apparve davanti un volto, una scena che conosceva a memoria. Imboccò la prima strada a sinistra, lontana dal caos della città. Chiuse gli occhi e pedalò più forte, senza preoccuparsi di dove stesse andando.
“Non è stata colpa mia!” – urlò, all’improvviso.
Le parole squarciarono il silenzio che la circondava, taglienti al punto da farla rinsavire. Aprì gli occhi e frenò di colpo, giusto in tempo per non finire addosso ad un bidone dell’immondizia.
Era finita in vicolo cieco. Le lacrime scendevano a dirotto, senza controllo, rigandole il volto.
Era troppo tardi. Il passato l’aveva raggiunta ancora una volta.
D’un tratto un rumore catturò la sua attenzione. Proveniva da un punto indefinito di quella stradina, che aveva appena imboccato. Si guardò attorno, cercando di capire da dove venisse.
Il vicolo era stretto e buio. Prese consapevolezza, ritrovando bruscamente la lucidità, che non aveva idea di dove si trovasse o che ore fossero. Quanto si era allontanata dalla via principale?
Prima che potesse darsi una risposta, gli occhi si posarono su una sagoma, vestita di nero. Si trovava a circa cinquanta metri da lei, in fondo al vicolo.
Rimase immobile, cercando di captare qualche altro rumore. Intorno a sé, solo il silenzio.
Possibile che me lo stia solo immaginato?
Dopo qualche secondo, le pupille si abituarono alla poca luce dei lampioni e riuscì a scorgerlo meglio.
Era davvero una persona! A guardarlo bene sembrava un ragazzo. Alto, piuttosto alto, - quanto? Forse un metro e ottanta.
Capelli scuri, corti. La stava fissando a sua volta.
Samantha distolse lo sguardo da lui un istante, catturata da un’altra sagoma che gli giaceva ai piedi.
Ma quello è un uomo! Che ci fa a terra? E se stesse male? Oddio, devo fare qualcosa. Cosa?
La paura si impadronì dei suoi pensieri. E se…e se fosse morto?
Proprio ai piedi del misterioso ragazzo, giaceva infatti un uomo robusto, di mezz’età, vestito con abiti sporchi e trasandati. Non si muoveva.
Con gli occhi spalancati e cedendo alla paura, tornò a guardare il giovane di fronte a lei e notò che aveva una scia di rosso all’angolo della bocca. Era…sangue? No, non poteva essere. Non c’era sangue sull’asfalto.
Il suo corpo cominciò a tremare compulsivamente. Avrebbe voluto urlare, ma le mancava il fiato. E chi l’avrebbe sentita da laggiù?
Riusciva a distinguere il battito cardiaco galoppare, sotto la pelle.
Alzò lo sguardo verso gli occhi di lui. Si guardarono per un istante che sembrò interminabile.
Lo vide avvicinarsi a passo lento verso di lei.
“Il peggiore dei tuoi incubi.” fu tutto ciò che le rimase impresso. Poi, cadde nel nulla.

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Capitolo 4
*** 3 ***


Aprì gli occhi lentamente. Le girava la testa, sentiva lo stomaco sottosopra e avrebbe giurato di essere in procinto di vomitare da un momento all’altro. Richiuse gli occhi. Perché aveva freddo?
Non ricordava nulla. Le sembrava di aver dormito per ore e male.
“Come ti senti?” - le giunse alle orecchie una voce maschile, familiare.
Cos’è questo profumo?
“Riesci a sentirmi?” - incalzò la voce, non ricevendo risposta.
Sembra vaniglia.
“Perché profumi di gelato?” – gli rispose lei, senza pensare a cosa gli stesse chiedendo.
Dopo un istante di silenzio, lo sentì scoppiare in una risata fragorosa.
Si sforzò di riaprire gli occhi e mettere a fuoco il volto di quello sconosciuto, che si stava facendo beffe di lei.
Le era accanto, ma non riusciva a vederlo bene, c’era troppo buio.
“Chi sei? Ci conosciamo?” - gli chiese, con voce tremolante.
Lui la guardò con aria scettica.
“Davvero non ricordi di essere svenuta?”
Samantha si prese un momento per riflettere. Distolse lo sguardo e cercò di ricordare.
Aveva salutato Jeff, sì.
Si era messa il cappotto e aveva preso Blaide per tornare a casa.
No, aspetta…non voleva tornare a casa.
E poi Ben. Ben che la rimproverava per non averlo richiamato.
Quel volto, mentre pedalava. Ricordava l’angoscia, il dolore. Ricordava di aver urlato e ricordava le lacrime.
Il bidone dell’immondizia. Ci sono andata addosso? È per questo che sono svenuta?
Un momento…ora ricordava.
Il ragazzo scuro nell’ombra, un uomo a terra immobile. Ricordava…il sangue.
Si alzò di scatto, appoggiandosi al muro.
Dov’è Blaide?
“Stammi lontano!” - urlò, mettendosi le mani nei capelli. “Cosa mi hai fatto?”
“Sam, non ti ho fatto assolutamente nulla.” - le rispose, alzandosi con tutta la calma del mondo.
“Come diavolo fai a sapere il mio nome?!”
“Me lo hai detto tu, Sam, poco prima di svenire.”
“Il peggiore dei tuoi incubi.”
Ora ricordava tutto.
“Smettila di ripetere come mi chiamo! E poi io sono Samantha. Ti ho visto. Ho visto tutto. Che ne hai fatto di quell’uomo?”
“Ti sbagli. C’ero solo io.” rispose risoluto, guardandola intensamente.
Poi aggiunse - “Senti. Se avessi voluto farti del male, non saresti qui a parlare con me, no?”
La sua voce era calma, aveva un non so che di armonioso, di dolce. C’era qualcosa in lui che le sembrava così familiare. Dove ti ho già visto?
Non gli rispose.
Fece un respiro profondo e si guardò intorno in cerca della bici. Voleva solo tornare a casa.
Scorse Blaide accanto al bidone dell’immondizia.
“Puoi spostarti? Devo recuperare la bici e mi stai bloccando il passaggio.” - si rese conto di averglielo domandato in maniera villana, ma non voleva rimanere con lui un secondo di più.
Il ragazzo si spostò quel tanto che bastava.
Passandogli accanto, Sam fu scossa da brividi e da una strana carica di adrenalina.
Sentì di nuovo quel profumo inconfondibile.
Stava afferrando la bicicletta, quando lo sentì parlarle alle spalle.
“Non dovresti andartene in giro di notte tutta sola, Sam.”
Si voltò decisa a fulminarlo con lo sguardo, ma il misterioso ragazzo era già scomparso.

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