Racconti da manuale

di fedegelmi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stessa scena, tre PDV diversi ***
Capitolo 2: *** Prima persona inattendibile ***
Capitolo 3: *** Il cliffhanger ***
Capitolo 4: *** Il finale a sorpresa ***
Capitolo 5: *** Scena collettiva e personaggio distonico ***
Capitolo 6: *** Show don't tell: personaggi e dialoghi ***



Capitolo 1
*** Stessa scena, tre PDV diversi ***


Quanto può cambiare la stessa scena se raccontata da tre punti di vista differenti?

Questa esercitazione dimostra che, sebbene ciò che viene raccontato sia lo stesso, il punto di vista di tre persone completamente diverse, sia come carattere che come status sociale, cambia il modo di narrare e il modo in cui il lettore si pone alla storia e ai personaggi stessi.

 

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1. LADRO IN ATTESA DI GIUDIZIO

Un sacchetto marrone non più grande del palmo della mia mano è appoggiato tra me e i due reali, a metà strada. Spicca sul tappeto bianco sotto le mie ginocchia, che attutisce il duro pavimento marmoreo, di un nero scuro come il fondo del mare.

«Sai perché sei qui» dice una voce fredda, quella della Regina. «Quel sacchetto è la prova del tuo crimine».

«Non ho rubato un granché» ribatto sotto il suo sguardo severo.

Vedo le sue narici fremere, come se il mio intervento non fosse stato gradito.

«Silenzio» esclama, e qualcosa mi suggerisce di fare come dice.

Conosco la sua fama , l'intero popolo ha avuto la prova di quanto sia malvagia e senza pietà.

La osservo voltarsi in direzione del consorte, più magnanimo rispetto a lei, ma dal polso debole; anche le prove di ciò sono riconosciute da tutto il popolo. Comunque, sarei pronto a scommettere che stanno confabulando tra loro per decidere la mia sorte, ma non posseggo nulla da puntare al gioco, se non la mia vita, e ho come l'impressione che mi verrà sottratta presto.

Guardo in direzione dei regnanti e, persino da questa distanza, lo sguardo della Regina mi mette i brividi; non mi scambierei col Re nemmeno per tutte le monete del mondo, soprattutto dopo aver notato il viso arrossato, forse, per lo sforzo di tenerle testa. Un'impresa troppo ardua per lui.

Faccio correre gli occhi sul resto della sala. È la prima volta che ne vedo una di questo genere, con enormi vetrate scure dalle quali s'insinua una fioca luce, che non basterebbe da sola per illuminare l'intera stanza; infatti, a tale scopo, decine di candele sono appese su ogni frammento di muro disponibile. Forse è dalle stesse vetrate che penetra il freddo che sento fin dentro le ossa, ma deduco che non abbiano bisogno di scaldare la sala considerando gli innumerevoli strati di tessuti indossati dai sovrani e dalle altre persone a corte.

Uno scricchiolio mi induce a sollevare la testa al soffitto, ma, per osservare gli ampi archi che mi ricordano la navata di una chiesa, quasi mi viene un crampo al collo.

Proprio mentre sto ponderando l'idea di alzarmi e farmi giustiziare sul posto per una presunta aggressione al Re e alla Regina, quest'ultima si volta e inizia a parlare.

«Il furto è un crimine grave nel nostro Regno» comincia lei; non mi stupirei se sentissero la sua voce squillante oltre lo spesso portone chiuso alle mie spalle. «Il Re è dell'idea che possa essere punito con un breve soggiorno nelle prigioni» un sorriso maligno le incurva le labbra. «Io non sono del tutto d'accordo».

Persino da dove mi trovo io, riesco a vedere la fronte imperlata di sudore del sovrano, che riflette la luce delle candele.

«Pertanto, la condanna è quella di un breve soggiorno nelle prigioni, senza cibo, né acqua, nella speranza che, saggiando sulla propria pelle la vera povertà, questo ladro possa redimersi e tornare sulla via dell'onestà» dichiara solenne, alzando il mento. «Ammesso che sopravviva» aggiunge, poi, abbassando di diversi toni la voce. Comunque, non abbastanza perché io non possa udirla.

 

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2. REGINA SPIETATA

Il sacchetto dentro cui ci sono le monete rubate, pochi spiccioli, è a un paio di metri dall'uomo inginocchiato, a debita distanza dal trono. «Sai perché sei qui. Quel sacchetto è la prova del tuo crimine».

«Non ho rubato un granché» dice lui, contrariato.

Arriccio il naso mentre lo guardo, con quei suoi abiti imbrattati almeno quanto i capelli, i piedi scalzi che hanno lasciato macchie sul tappeto di un bianco prima immacolato. Si capisce con un solo sguardo che è un poco di buono, non mi sarei aspettata nulla di meglio da uno come lui.

«Silenzio» esclamo, dopodiché mi volto alla mia destra, verso quello stolto di mio marito.

Nei suoi occhi lucidi noto subito la pietà che prova nei confronti del ladro.

Alzo gli occhi al cielo. «Dobbiamo giustiziarlo. Nel nostro Regno non serve gentaglia come lui. Abbiamo povera gente a sufficienza, che cerca di guadagnare in modo onesto».

Simulo un sorriso, ma non credo di apparire convincente, soprattutto a causa dell'atmosfera cupa della sala, con le sue vetrate nere.

«Non credete di esagerare, mia Regina?» ribatte il mio consorte, le guance arrossate. «Rubando quel sacchetto di monete, ha solo cercato di sopravvivere ancora per qualche giorno. Non può essere una sua colpa, non del tutto».

Assottiglio lo sguardo a tal punto che per alcuni secondi non vedo altro che i suoi occhi spaventati, oltre le mie ciglia.

«Vorreste insinuare che non sono in grado di gestire le finanze del Regno? Se dei poveri squattrinati decidono di iniziare a rubare non è di certo colpa mia, ma delle loro pessime decisioni» ribatto.

«Almeno non neghiamogli la possibilità di redimersi» insiste, patetico con la sua espressione implorante; spesso mi chiedo se non sia il caso di mandarlo al patibolo. «Giustiziarlo non servirebbe, a mio parere un breve soggiorno nelle prigioni potrebbe bastare».

Mantengo lo sguardo su di lui, ma non rispondo.

Al contrario, mi concentro sui miei pensieri.

Non potrei mai lasciar andare un ladro con una punizione tanto inconcludente: una volta scaduti i giorni della pena, tornerebbe a comportarsi nel medesimo modo. Anzi, magari inizierebbe a progettare un furto proprio alla Corona e non posso permetterlo. No, non è una soluzione abbastanza dura. Deve capire che non gli converrà tentare nemmeno il furto di una mela, mai più.

Mi volto, e nel viso dell'uomo inginocchiato leggo... indifferenza? Non sarà più così tra poco.

«Il furto è un crimine grave nel nostro Regno. Il Re è dell'idea che possa essere punito con un breve soggiorno nelle prigioni» dico con un sorriso. «Io non sono del tutto d'accordo. Pertanto, la condanna è quella di un breve soggiorno nelle prigioni, senza cibo, né acqua, nella speranza che saggiando sulla propria pelle la vera povertà, questo ladro possa redimersi e tornare sulla via dell'onestà. Ammesso che sopravviva» aggiungo, infine, abbassando la voce affinché solo chi si trova nelle vicinanze possa udirmi. Sento il Re lasciarsi scappare un mugugno inorridito.

 

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3. RE MAGNANIMO

La Regina, lo sguardo spietato; il sacchetto, un misero pezzo di stoffa; il ladro, malridotto. Lei guarda quest'ultimo come fosse spazzatura, se non peggio, e io non posso far altro che attendere col cuore in gola, sperando che, almeno questa volta, qualcosa vada per il verso giusto.

«Sai perché sei qui. Quel sacchetto è la prova del tuo crimine». Sobbalzo nel sentire la voce della Regina.

«Non ho rubato un granché» ribatte il ladro, le sopracciglia corrugate.

Sento una stretta al cuore al solo guardare i suoi abiti malandati e i capelli arruffati, così in contrasto con la sala scura ma elegante, col tappeto che la attraversa bianco come latte appena munto. Vorrei urlare: "Qualcuno lo porti a fare un bagno, qualcuno lo aiuti!". Ma, ovviamente, non potrei mai azzardarmi a farlo, a meno che io non desideri essere giustiziato al suo posto.

Quando i miei occhi tornano a posarsi sulla Regina, lei sta richiamando il ladro al silenzio. Subito dopo, si volta verso di me e io non oso tornare a guardare lui, o il sacchetto.

«Dobbiamo giustiziarlo» dice, con un'espressione che mi fa intendere benissimo ciò che prova nei miei confronti: disgusto. «Nel nostro Regno non serve gentaglia come lui. Abbiamo povera gente a sufficienza, che cerca di guadagnare in modo onesto».

Ingoio un groppo di saliva, senza riuscire a tenere ferme le mani.

«Non credete di esagerare, mia Regina?» ribatto, sentendo le guance accaldarsi. «Rubando quel sacchetto di monete, ha solo cercato di sopravvivere ancora per qualche giorno. Non può essere una sua colpa, non del tutto».

Il suo sguardo si assottiglia e io sento di essere molto vicino all'alzarmi e scappare a gambe levate.

«Vorreste insinuare che non sono in grado di gestire le finanze del Regno? Se dei poveri squattrinati decidono di iniziare a rubare non è di certo colpa mia, ma delle loro pessime decisioni» ribatte senza scomporsi, ma i suoi occhi mi lanciano fiammate.

Nonostante il calore degli abiti che indosso, il freddo della sala sembra penetrarmi.

«Almeno non neghiamogli la possibilità di redimersi» insisto, evitando di rispondere. «Giustiziarlo non servirebbe, a mio parere un breve soggiorno nelle prigioni potrebbe bastare».

Nonostante non si volti, non risponde nemmeno, e io la conosco abbastanza bene da sapere che sta pensando alla soluzione che ritiene più giusta. Ciò che mi spaventa è il suo senso di giustizia, molto diverso dal mio.

Quando gira la testa, sento il cuore palpitarmi più forte.

Sta per dirlo.

«Il furto è un crimine grave nel nostro Regno» inizia, con una voce che mi mette terrore. «Il Re è dell'idea che possa essere punito con un breve soggiorno nelle prigioni. Io non sono del tutto d'accordo».

Sapevo che sperarci sarebbe stato vano, tuttavia ci avevo creduto.

Sento il sudore sulla fronte, una goccia mi passa lungo la tempia fino a disperdersi nell'ampio colletto.

«Pertanto, la condanna è quella di un breve soggiorno nelle prigioni, senza cibo, né acqua, nella speranza che saggiando sulla propria pelle la vera povertà, questo ladro possa redimersi e tornare sulla via dell'onestà. Ammesso che sopravviva» aggiunge, infine, abbassando la voce per farsi sentire solo dai presenti.

Atterrito per quella pena crudele, non riesco a trattenere un mugugno.

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Capitolo 2
*** Prima persona inattendibile ***


Vi è mai capitato di leggere una storia nella quale il protagonista, nonché colui che narra la vicenda, raccontasse i fatti in un modo talmente distorto che la sua visione non poteva essere veritiera? Ma, nonostante questo, voi non siete riusciti a non dargli corda, a continuare fino a concludere la lettura?

Ecco, la prima persona inattendibile è proprio questa. È colei che non solo racconta ciò che le accade dal suo punto di vista, ma lo fa in modo poco credibile, eppure talmente interessante da non poter passare oltre.

Non deve trattarsi necessariamente di unæ pazzæ, basta che abbia una visione distorta della realtà. Magari distorta dalla gelosia, come nel caso del protagonista di questo racconto.

 

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Il suono penetrante della sveglia mi fa sobbalzare, ma non mi giro per spegnerla: è dal suo lato, dovrei schiacciarla per raggiungere il pulsante. Eppure, quando lei non si muove, mi sento costretto a sporgermi.

Le mie orecchie tirano un sospiro di sollievo, ma è stato troppo semplice, non l'ho nemmeno sfiorata.

Socchiudo gli occhi solo per scoprire che lei non c'è; al suo posto, un bigliettino.

"Buongiorno amore, buon San Valentino. Sono uscita presto per una riunione urgente al lavoro. Ci sentiamo più tardi, ti amo."

Seduto sul materasso, noto che l'anta scorrevole dell'armadio è socchiusa. Il suo completo più bello, quello che la fascia come una seconda pelle, non c'è; se l'è messo. Sento agitarsi qualcosa nelle viscere.

Rimuginando, vado a prepararmi per andare in ufficio e un'ora dopo ne varco la soglia vetrata; concentrato sulla sua assenza e sul completo, mi rendo conto che non le ho scritto di essermi svegliato.

Approfitto della salita in ascensore per farlo, ma il messaggio fa una spunta sola. Lo osservo per qualche secondo, quasi non mi rendo conto che sono arrivato al mio piano.

Una voce mi induce ad alzare lo sguardo dal telefono. «Gianlu! Tra cinque minuti abbiamo una riunione».

«Ah, sì, ciao Marco» ribatto, ma la riunione è l'ultimo dei miei pensieri. «Arrivo subito, devo chiamare Elena».

Non sento la sua risposta e schiaccio il suo numero, tra i preferiti in rubrica.

"Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile".

Perché il suo cellulare non prende? L'ha spento per la riunione urgente? No, non lo fa mai.

La sua insolita assenza mattutina, il completo sexy, il telefono irraggiungibile. Che significa?

«Che hai?»

Non mi ero accorto che Marco è ancora qui.

«Niente, è Elena. Non mi risponde e non so dove sia finita».

«Mica dici sempre che è la donna della reperibilità?» domanda lui, e mi fa segno di avvicinarmi.

Lo raggiungo in pochi passi e ci avviamo insieme verso la sala riunioni. «Sì, di solito è così...».

«Aia! Qui gatta ci cova» esclama Marco, per poi ridere. «Su con la vita! Avrà il telefono scarico».

Con una pacca sulla schiena, mi precede nella sala riunioni e io ci entro più distratto che mai, sempre più sospettoso: Elena mi sta tradendo? Magari con un suo collega, come quel Christian.

Ma no. Lei non mi tradirebbe, è una donna di tutto rispetto.

Non penso ad altro per altre due ore e quando la riunione finisce mi rendo conto di non aver sentito una parola di quanto hanno detto i miei colleghi.

«Allora? Elena si è fatta viva?» chiede Marco, con un plico di fogli in mano.

Non ho più guardato il telefono, che avevo messo in modalità "Non disturbare", quindi quando vedo due messaggi da lei li apro subito.

"Ciao amore, bene."

"Comunque, dopo il lavoro non venire a casa, aspettami in ufficio che ti raggiungo."

«Quindi?»

«Sì, è lei» ribatto, e aumento il passo per raggiungere la mia scrivania.

Avevamo deciso di festeggiare San Valentino a casa, perché non vuole che io torni? Perché vuole raggiungermi qui? A che ora, poi? Non l'ha detto.

Non mi godo la pausa pranzo e nemmeno le successive ore di lavoro, che spendo nel tormento di una convinzione: mi sta tradendo. A un'ora e mezza dalla fine del mio turno, però, non riesco più a stare tra quelle quattro mura, quasi del tutto spoglie di arredamento.

Rispondo ai messaggi di Elena con un "ok" e vado nell'ufficio del mio capo.

A scuola ero un asso a fingere un malore, perciò riesco a convincerlo a farmi uscire prima con un permesso e prendo la macchina per tornare difilato a casa.

Quando entro in casa, mi accoglie uno strano silenzio. So che Elena è qui perché ho dovuto fare solo un giro di chiave nella serratura, ma non colgo la sua presenza. Un risolino. Nella nostra camera da letto la luce è accesa e quando mi sporgo oltre l'uscio la vedo. Bellissima in un completino intimo che non le ho mai visto, sexy mentre si ammira soddisfatta. Solo così mi rendo conto che la mia non è più solo una convinzione, ma una certezza.

Entro nella stanza. «Mi stai tradendo».

Lei sobbalza mentre si gira. «Amore! Mi hai spaventata!»

«Mi stai tradendo» ripeto.

«Cosa? No!» esclama lei, gli occhi sgranati.

«No, dici? Allora come mi spieghi davvero la tua assenza di stamattina? O quella del completo che non metti mai per andare in ufficio? Oppure la ragione per cui eri irraggiungibile stamattina? Ah, poi il fatto di non farmi tornare a casa e quando arrivo senza dirtelo ti trovo con un completino sexy? È per lui che lo stai provando, no? O l'hai già sfoggiato? Sono mesi che non ne indossi uno per me! Non dovevamo festeggiare San Valentino tranquilli? Allora? Chi è? Christian?»

L'iniziale sorpresa sul suo viso si rilassa per sciogliersi in un sorriso.

«Christian? Amore, davvero pensi che potrei tradirti?»

Non rispondo, ma le restituisco uno sguardo che spero parli per me. "Su, spiegati", vorrei che le dicesse.

«Va bene. Stamattina sono uscita presto per portare in tintoria il completo che ti piace tanto, che volevo indossare stasera. Ero irraggiungibile perché ero andata nell'enoteca dall'altra parte della città per comprare una bottiglia del loro vino migliore, che si trovava sottoterra, nella cantina. Dopo il lavoro sono andata a ritirare il completo in tintoria, a comprare un completino intimo per te e poi... sei un idiota!»

Non ribatto e la osservo. Quindi davvero non mi sta tradendo?

«Sei un enorme idiota, e sai perché? Prima di tornare a casa sono passata in gioielleria per ritirare l'anello con cui volevo chiederti di sposarmi! Idiota!»

Sì, sono davvero un idiota.

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Capitolo 3
*** Il cliffhanger ***


Un conflitto, la tensione narrativa e poi... basta.

Non sai come andrà a finire, perché la narrazione viene interrotta. Ti restano domande senza risposta e la voglia di sapere come andrà a finire. Questo però non è un libro, ma un racconto, e la tua curiosità non verrà soddisfatta.

Quale potrebbe essere la fine della storia?

 

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Tap, tap, tap, tap.

Suola contro pavimento.

Era un gesto nervoso, il mio, mentre osservavo il quadrante illuminarsi a ogni piano raggiunto e poi superato, in un loop che sarebbe durato fino in cima.

Con un suono acuto, le porte dell'ascensore si aprirono, rivelando un pianerottolo dai toni chiari ed eleganti, minimal. La moquette era morbida sotto i tacchi e mi ci soffermai alcuni istanti, i pochi necessari per prendere il cellulare e controllare ancora una volta che il registro delle chiamate fosse vuoto.

Avvertii il nervosismo affiorare al solo pensiero, ma cercai di ignorarlo mentre procedevo a passi spediti verso l'ingresso del bastardo.

Poi, una serratura scattò nel silenzio dell'ultimo piano e fu proprio la sua porta ad aprirsi. Mi bloccai nel vedere un corpo snello indietreggiare dall'appartamento e mi girai con un sobbalzo.

Lo schiocco di un bacio. La porta si chiuse.

Sentii una fitta al cuore e strinsi i pugni.

Dovrei mandarlo a fanculo.

Gli occhi cominciarono a pizzicare; non avrei retto una scenata.

Percorsi i due metri che mi separavano dall'ascensore, raggiungendola insieme alla donna appena uscita dall'appartamento di Adam.

Il mio Adam.

Mi voltai verso di lei mentre premeva il pulsante con la freccia puntata in giù. Fu la voluminosa cascata di capelli mori ad attirare la mia attenzione, subito dopo il seno, abbondante e appena scoperto sotto una maglia attillata. Il mio opposto.

Riconobbi una somiglianza con Emily ruba-clienti e mi venne in mente di quella volta in cui l'avevo fatta piangere per uno schiaffo. Le avevo lasciato un bel segno, degno di foto, e a momenti mi denunciava, quella stronza.

Chissà se anche questa qui è una femminuccia, hanno lo stesso stile del cazzo.

Notando che la osservavo, la donna mi rivolse un sorriso di circostanza, un bellissimo sorriso dai denti perfetti, dopodiché entrò nella cabina illuminata.

Secondo me sì.

La seguii mentre recuperavo il cellulare.

«Piano tevva anche lei?»

Annuii fingendo di controllare le notifiche e la sentii premere un tasto sul quadrante, per poi recuperare a sua volta lo smartphone.

Osservai di sottecchi il modo in cui i vestiti le abbracciavano il corpo tonico e curato; potevo intuire la sua attività in palestra solo guardando i polpacci scoperti e la postura. Sembrava tenerci all'aspetto e subito mi ricordò me stessa fino a poco tempo prima.

Sei una escort?

La donna sorrise allo schermo del telefono e si spostò i capelli dietro all'orecchio. Un braccialetto rigido le scivolò lungo il braccio in uno scintillio dorato, un braccialetto che sembrava costoso.

Roba da escort.

Riabbassai il capo fingendo di scrivere un messaggio, mentre lei portava il cellulare alla guancia.

«Per l'appuntamento ok, lo confermo. E...» una pausa «...mi manchi già».

Corrugai le sopracciglia.

Dev'essere una escort.

Intercettai un altro sorriso, ma non uno di quelli che fai quando capisci di aver ottenuto un cliente abituale; era uno di quei sorrisi che facevo anch'io quando mi ero convinta a dire ad Adam quello che provavo, nonostante tutto.

Forse è una specie di fidanzata?

Un suono acuto riempì la cabina.

Poi, uno scossone.

Persi l'equilibrio e dovetti aggrapparmi a un corrimano laterale per non cadere.

Subito dopo, sentii un tonfo e qualcosa sbatté contro i miei piedi.

La donna era caduta a terra, un'espressione terrorizzata dipinta in volto. «Si è bloccata?»

«Credo...»

«Oddio si è bloccata» mormorò tastando il pavimento, come se stesse cercando qualcosa. «Cazzo, si è bloccata».

Ristabilito l'equilibrio, osservai il quadrante e premetti il campanello giallo. «Tranquilla, adesso riparte».

«Tvanquilla un cazzo».

La guardai senza sapere cosa dire, un po' spiazzata da quella risposta.

Dopo alcuni secondi, la donna prese un profondo respiro, il fiato corto. «Scusi, sono claustvofobica. Potvebbe pavlare con me? Ho bisogno di distvavmi».

Annuii e mi sedetti a terra. «Come si chiama?»

«Kelly». Deglutì. «Posso davti del tu...?»

«Grace, sì».

«Ah, Gvace. Anche mia mamma...». Chiuse gli occhi per alcuni istanti. «Che lavovo fai?»

«Ero una...».

No, non posso dirle che ero una escort se lei è chi penso. No.

«Sto cercando di avviare un business, ma l'uomo con cui dovevo discuterne non mi sta più rispondendo. Stav... sto andando da lui».

Kelly sorrise, mentre si portava una mano sul petto. «Oh, mi dispiace. Spevo andvà meglio».

«Tu invece? Hai un uomo che ti consideri?»

«Oh, non dal tuo stesso punto di vista, ma sto uscendo con qualcuno. Si chiama Adam». Le nocche della mano le si sbiancarono attorno al cellulare.

Strinsi i denti per evitare che il nodo alla gola si sciogliesse, liberando lacrime indesiderate. «Ma che bello». Non dovetti sembrare amichevole, anzi, forse suonai addirittura ironica, ma Kelly non parve notare nulla. «Da quanto uscite insieme?»

«Da... un paio di settimane, niente di che».

Un paio di settimane. Cazzo, da quando gli ho detto che cominciava a piacermi. Cazzo, bastardo.

«...mi ha povtata in un locale molto cavino...»

Perché lei sì e io no? Cos'ho che non va? Sono sempre stata una cazzo di ruota di scorta da buttare appena l'altro trova qualcuno di meglio, fanculo.

Ricordai gli stronzi che al liceo mi avevano sempre chiesto di scopare, ma mai un appuntamento. Ricordai come non era cambiato nulla anche dopo il liceo, nessuno che volesse impegnarsi, con me. E pensare che dopo il sesso io chiedevo spesso di rivederci, di uscire qualche volta per conoscerci meglio. La risposta si riduceva sempre a un "scusa, non sto cercando una relazione in questo momento". Poi, poco tempo dopo, li ritrovavo mano nella mano con altre ragazze, fidanzati. Questo rifiuto non aveva mai avuto senso per me e non lo aveva neanche adesso.

Alzai la testa al soffitto, come se potesse bastare a ricacciare le lacrime che avevano raggiunto gli occhi, mentre le parole di Kelly restavano un sottofondo nel tumulto dei miei pensieri.

Perché con lei ha deciso di uscire seriamente e con me no? Perché succede ancora?

Un palmo sudato mi toccò la gamba. «Mevda, mi viene da...». Kelly si portò una mano alla bocca.

«Vomitare?»

Odio vedere la gente vomitare.

Lei mosse la testa in fretta, annuendo.

«Ok, dovrei avere un sacchetto, aspetta».

Recuperai la borsa, quasi tentata di tirargliela in testa.

Scommetto che non ha mai avuto un vero problema in vita sua, forse è per questo che lo stronzo la preferisce. Facile così. Con quella cazzo di r moscia, poi...

Riportai lo sguardo in alto mentre frugavo tra gli oggetti sparsi, sentendo il fruscio del sacchetto senza riuscire a tastarne la consistenza morbida e ruvida al tempo stesso.

Poi, m'imbattei in una cosa sottile e dura, di certo non il sacchetto, ma ne fui talmente attratta che strinsi le dita attorno a essa e la estrassi dalla borsa.

Una penna.

Io sono una ruota di scorta, lei la prima scelta. Non è giusto.

Non ricordavo di avere una penna.

Cliccai sul meccanismo a scatto, facendo fuoriuscire la punta.

Se lei non fosse spuntata dal nulla, io sarei stata l'unica scelta. Se avessi iniziato a impormi tanto tempo fa...

Guardai Kelly, con la mano ancora premuta sulla bocca e gli occhi chiusi, stretti.

Osservandole la gola, riuscii vedere i groppi di saliva che continuava a deglutire.

Sono stanca di essere una ruota di scorta.

Strinsi la penna e sentii il dolore delle unghie conficcate nel palmo.

Ci metto solo un secondo...

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Capitolo 4
*** Il finale a sorpresa ***


Conflitto, tensione narrativa, disvelamento conclusivo e... finale a sorpresa.

Non è altro che un colpo di scena, ma, quando viene messo dulcis in fundo, tutti i nodi vengono al pettine. Nessuna domanda in sospeso, nessun dubbio; è finita.

Ma, anche se autoconclusivo, si può escludere un finale aperto? A volte una storia non ha mai una fine, è solo apparente.

 

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Urla.

Luci.

Silenzio.

Buio.

Ci misi qualche istante a mettere a fuoco quello che mi circondava e fu con un sospiro che riconobbi il soffitto della camera.

Un altro incubo.

Passai un braccio sulla fronte, cercando di assorbire il sudore con la manica del pigiama e, con le gambe, scalciai le coperte in fondo al letto.

Il freddo di fine stagione mi rassicurava sempre nelle notti come quella.

Richiusi gli occhi e tastai alla mia sinistra.

Non c'è.

Il suo lato era vuoto e il piumone disegnava un triangolo, dal quale doveva essere uscito di soppiatto, per non svegliarmi.

Sorrisi per la sua premura e guardai l'orologio: le due del mattino.

Il ventisei marzo. Un anno.

Sospirai ancora una volta prima di tirarmi a sedere.

Ebbi un brivido quando le piante dei piedi toccarono il pavimento gelido e mi affrettai a cercare a tentoni le ciabatte imbottite prima di alzarmi. Il mio corpo stava già sbollendo e a breve avrei avuto di che lamentarmi, se non mi fossi decisa a indossare almeno una vestaglia.

La recuperai dalla sedia su cui l'avevo appoggiata la sera prima e me la misi sulle spalle, mentre il calore continuava a uscire a vampate da ogni poro.

Uscii dalla camera a piccoli passi, passando per il bagno, le cui luci erano spente, fino allo studio.

«Matteo?» Dischiusi la porta, ma la stanza era vuota.

Arrivando alle scale, notai un chiarore provenire dal piano inferiore, così mi accinsi a scendere in salotto.

Lo vidi di spalle, sul divano.

«Amore» sussurrai, per evitare di spaventarlo.

«Ehi, che ci fai sveglia?» Si girò verso di me e notai che i suoi occhi verdi, che tanto amavo, erano arrossati. Aveva pianto.

«Un incubo».

Mi seguì con lo sguardo finché mi sedetti di fianco a lui, che aveva sulle gambe un album di fotografie.

«Che fai?»

Matteo sorrise e appoggiò una mano sulla mia coscia. «Ricordo le cose belle».

«Mi piace ricordare le cose belle. Lo facciamo insieme?»

Lui annuì, dopodiché spostò di qualche centimetro il raccoglitore, per far sì che potessi vedere meglio.

«Stavo guardando questa» disse, sfiorando con l'indice una foto in fondo alla seconda pagina.

Il cuore mi si scaldò. «Il pomeriggio al lago».

«Ci hanno fatto un bel regalo, vero?» Matteo alzò il mento e fissò il soffitto, come a volersi figurare quella giornata.

«Già».

Mi venne da ridere ricordando quel giorno, perché avremmo dovuto vedere una casa in montagna, ma, tra una strada sbagliata e la spia della riserva, ci eravamo fermati a un benzinaio in riva al lago e non ci eravamo mossi di lì fino a sera. Se le bambine non fossero scese dalla macchina, attratte dall'acqua, io e Matteo non ci saremmo nemmeno accorti della magia di quel posto.

«Che paura quando le ho viste correre via». La risata di Mattero era interrotta dai singhiozzi.

Una lacrima mi rigò la guancia, superando le pieghe del sorriso. «Che faccia avevi fatto».

Mi sembrava di averla davanti, quell'espressione di spavento misto a stupore, perché nessuna delle due si era mai allontanata senza permesso. Quando le avevamo raggiunte a riva, non eravamo riusciti a trovare il coraggio di sgridarle, rapiti dalla meraviglia del lago.

Osservai di nuovo la foto che aveva indicato Matteo, scattata poco prima del tramonto. «E guarda come si mangiavano di gusto i panini che avevamo comprato lì al benzinaio».

«Non erano nemmeno così buoni». Matteo scosse la testa, divertito.

Vallo a dire a loro.

Sentii un groppo in gola e chiusi gli occhi.

«Aspetta». Lo bloccai con una mano prima che potesse andare oltre. «Voglio vedere...» Sfogliai a ritroso le pagine, finché trovai quello che cercavo.

Appoggiai le dita su una fotografia delle bambine da piccole, sedute nella vasca da bagno con i visini tutti concentrati nello scoppiare le bolle di sapone.

Io ero inginocchiata lì accanto e stavo lavando loro i capelli. Ridevo perché Matteo si era ostinato a voler apparire nello scatto senza dover impostare il timer e, infatti, parte della sua testa si intravedeva, sfocata e distorta, nell'angolo in basso a sinistra.

Mi piaceva quella foto perché, per quanto semplice in apparenza, racchiudeva uno dei momenti più felici della nostra piccola famiglia.

«Sono sempre state delle piccole pesti, vero?» La voce rotta di Matteo mi riportò bruscamente alla realtà.

Stava guardando una fotografia vicino a quella della vasca, dove le bambine si stavano litigando l'incarto di un regalo di Natale. L'avevamo scattata per fargliela vedere una volta grandi e prenderle in giro perché a tutte e due piaceva di più scartare i regali, che riceverli.

«Facevano sempre un gran casino ogni volta, spargevano la carta ovunque!»

Entrambi scoppiammo a ridere, umidi di lacrime e coi cuori doloranti, perché ero certa che anche per lui fosse così. Anzi. Forse, per lui, era anche peggio.

Quando ci calmammo, il silenzio parve ancora più assordante di qualsiasi risata.

Chissà quanti altri momenti come quelli avremmo potuto vivere, se solo...

Sentii di nuovo gli occhi pizzicare. «Pensavo che... non ricordo l'ultima volta che abbiamo ripulito la sala per via dei regali».

Matteo aprì bocca come per rispondere, ma parve cambiare idea, perché non disse nulla.

Mi resi subito conto di star superando un limite, ma non provai alcun senso di colpa, offuscata dalle fitte che mi stringevano il cuore. «Questi ricordi, anche se sono stupidi, spariranno. Come loro».

Ancora una volta, lui non rispose e il calore della rabbia mi scaldò il petto, come una scintilla pronta scatenare un incendio.

«Quante volte l'abbiamo letto per strada? "Non distrarti. Quando guidi, guida e basta". Chissà quante altre persone hanno ignorato il consiglio». Lasciai che le guance mi si bagnassero di nuove lacrime. «Scommetto che sono tante, però forse non a tutte è andata male».

Matteo aveva abbassato lo sguardo e nascosto la testa tra le mani. «Erano legate nel modo sbagliato».

Arricciai le labbra nel tentativo di non lasciarmi provocare, sebbene tutto il dolore sotterrato in quei mesi premesse per liberarsi. «Non lo erano».

«E allora perché sono balzate via?!» urlò e, alzandosi, scaraventò l'album contro il muro.

Fu come rivivere il momento dell'impatto, pochi attimi fermi nel tempo. Provai di nuovo terrore, poi tutto scomparve e rimase ira.

«Perché non hai saputo restare concentrato nemmeno con la vita delle tue figlie tra le mani!» La gola mi bruciò per lo sforzo e gridai, in un tentativo di soffocare i tormenti del cuore.

Lo osservai fare un respiro affannoso dietro l'altro, gli occhi sbarrati per lo stupore, puntati su di me, finché, con un lamento, si sedette, ricominciando a piangere. «È stato un secondo».

Con le tempie ancora pulsanti, ma di nuovo calma, fissai lo sguardo sul raccoglitore aperto sul pavimento, con le pagine di foto ripiegate su loro stesse. «Ed è bastato».

Il salotto si riempì dei suoi gemiti, carichi di disperazione, mentre io soffrivo in silenzio.

«Mi dispiace...» mormorò Matteo, le mani tra i capelli.

Il suo corpo si scuoteva a ogni singhiozzo e, tra un singulto e l'altro, mi pareva quasi che si facesse sempre più diafano, come se le cellule si stessero disgregando.

«Mi dispiace».

L'ennesimo tremolio.

Intravidi la pianta dietro di lui.

«Ah... certo» sussurrai, sentendomi improvvisamente sola.

Matteo alzò il viso e mi guardò dritto negli occhi. «Avrei voluto morire solo io».

Sentii il cuore dolermi e portai una mano al petto.

«Mi... dispiace...». Come fosse stato la fiamma di una candela, un vento che non percepii parve spegnerlo, facendolo scomparire nel buio della notte.

Freddo.

Un brivido mi scosse e infilai le braccia nelle maniche della vestaglia, stringendola con un abbraccio attorno a me. Chiusi gli occhi e finsi che le dita che mi stringevano i fianchi fossero quelle di Matteo il giorno del nostro matrimonio, quando le bambine si trovavano tra noi nella sicurezza del mio ventre.

Desiderai che il tempo tornasse indietro per rivivere tutto da capo: il parto, i primi tempi da neo-genitori, la luna di miele, la nostra vita insieme.

Ora, ero sola.

Delle tre persone che mi rendevano felice, nessuna era rimasta e la casa era troppo grande, troppo vuota per me.

Sentii il bisogno impellente di piangere ancora, ma non avevo più lacrime.

Portai le gambe sul divano e mi rannicchiai, la testa appoggiata laddove era sparito Matteo. Mi sembrò di sentire il suo calore sulla guancia e me ne beai anche se, forse, era solo frutto della mia immaginazione.

Socchiusi le palpebre, mi bruciava tutto; non avevo nemmeno sonno, ma avevo esaurito ogni energia.

Non voglio più svegliarmi.

Bam!

Spalancai gli occhi, il cuore che batteva all'impazzata.

Cos'è stato?

Guardai verso il muro; l'album non c'era più.

«Certo, lui non è mai stato qui...».

Bam!

Mi tirai a sedere con uno scatto e mi guardai attorno. Non c'era nessuno, come mi aspettavo: il rumore era più lontano, come se venisse da...

Vidi con la coda dell'occhio una luce e strizzai gli occhi verso le scale, semi illuminate dal lampadario al piano superiore.

Poi, dei passi.

C'è qualcuno in casa.

Tap-tap, tap-tap.

Due persone.

Oddio, oddio, che faccio?

Non c'era niente che potessi usare per difendermi, nulla che potesse proteggermi.

Perché a me? Perché non mi lasciano in pace?

Ancora una volta, ebbi l'impulso di piangere e, di nuovo, non riuscii a soddisfarlo.

Indietreggiai, il battito che pulsava talmente forte nelle orecchie da farmi male, ma sbattei contro qualcosa e caddi sul pavimento. Mi lasciai scappare un'esclamazione.

Merda.

«Hai sentito?» sussurrò una voce, la cui ombra spuntò subito dopo in cima alla rampa, fermandosi lì.

Seguirono alcuni istanti di silenzio, durante i quali rimasi immobile.

«Magari sono i loro fantasmi» ribatté un'altra voce.

«Ma smettila con 'sta storia».

«Lo sapevo che non dovevamo venire in questa casa».

Approfittando di quel battibecco, tentai di rimettermi in piedi, ma non riuscii. Mi sentivo stanca.

«Mica sono morti qui, quindi non ha senso che ci sono i loro fantasmi».

«Beh, li hai sentiti anche tu i rumori, quindi...».

Con uno sforzo, mi trascinai verso la parete puntando le mani e mi ci appoggiai ansimando.

«Quindi cosa? È notte, ci sono un sacco di rumori di notte».

«Allora perché non scendi?»

«M'hai messo ansia con 'sta roba dei fantasmi».

«Ah! Vedi che allora ci credi?»

«Come no! Adesso scendo».

Tentai un'altra volta di alzarmi, invano. Mi mancavano le forze, come se non avessi più il controllo del mio corpo, e avvertii la paura scoppiarmi dentro.

Di nuovo questa sensazione.

L'avevo già provata, ma, mentre sentivo i passi percorrere le scale, non riuscivo a ricordare quando fosse successo.

«Accendi la luce giù per favore».

Il salotto si illuminò.

Luci.

Urla.

Buio.

Silenzio.

Tutto si ripeté come un déjà-vu e, come la prima volta, la morte.

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Capitolo 5
*** Scena collettiva e personaggio distonico ***


Le scene sature di personaggi non sono semplici. Lo dicono tutti i rumori ignorati, gli odori che sanno di nulla, le azioni descritte insieme come se si potessero aggruppare in un'unica movenza. Bisogna dosare, zoommare.

Poi c'è quel personaggio che sembra in tutto e per tutto un cliché, almeno fino a quando rivela il suo lato più intimo, che riesce a renderlo persino unico.

Non è facile, ma si può fare.

 

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«Non sono mai stata in un posto così...» mi avvicinai a Simone e abbassai ancora di più la voce «così silenzioso».

Lui ridacchiò. «Mi incuriosiva».

Sorrisi e presi il menù solo per rendermi conto che non capivo il contenuto di almeno la metà dei piatti, o almeno, non riuscivo a immaginarne i sapori.

«Ma hai visto quanto costano le cose?» esclamai, puntando il dito su un primo da ventotto euro.

«Fregatene, non usciamo quasi mai. Tu scegli senza guardare il prezzo».

Lo osservai leggere quel cartoncino ruvido con un'espressione serena e mi sentii in colpa. Avrei dovuto dirglielo subito o magari non dirgli nulla sin dall'inizio e fare tutto da sola. Tornai a dare un'occhiata alle portate, sospirando: anche se avessi scelto in modo differente, quel senso di colpa sarebbe stato presente. La sincerità è difficile da gestire.

Che situazione del cavolo.

Un tintinnio di bicchieri mi indusse a voltarmi.

Sul lato destro della sala c'erano tre coppie agghindate con abiti di classe che si mimetizzavano alla perfezione con l'atmosfera del ristorante, e una di queste stava brindando a chissà quale buona notizia; tutti loro davano l'impressione di essere clienti abituali.

Se lo sono davvero, alla faccia.

Al tavolo di fianco al nostro, sulla sinistra, c'era un'altra coppia che, al contrario, era più come noi: vestiti eleganti ma non ricercati, aspetto curato ma non abbastanza da nascondere la stanchezza. La donna, che avrà avuto una trentina d'anni, non sembrava felice mentre ascoltava il marito parlare: continuava a ruotare la fede sul dito e, a mano a mano, la sua espressione si faceva sempre più cupa. Avrei voluto origliare qualcosa, ma sentivo solo un borbottio.

«Hai scelto?» La voce di Simone mi riscosse.

«Mmh, sì». Indicai sul menù il piatto che avevo scelto affidandomi quasi totalmente al caso. «Prendo questa... guancia di vitello? Non lo so, si mangia pure la guancia del vitello?»

Simone scrutò la mia scelta con un sorriso divertito. «A quanto pare. Ok, dai, allora chiamo il cameriere». Nel dirlo, sollevò un braccio.

In pochi secondi si avvicinò a noi un uomo per prendere le ordinazioni, rivolgendosi prima a me. Non potei fare a meno di pensare che pareva intrappolato in un corsetto a giudicare dalla postura fin troppo impostata.

«Sì, vorrei...». Presi il foglio per cercare il piatto che avevo scelto e lo indicai. «Quest...».

Un urlo mi investì in pieno le orecchie e sussultai. Era il pianto di un bambino.

Una delle coppie più vicine a noi si voltò in nostra direzione, forse per individuare la fonte del rumore, quindi tornai a guardare i coniugi in lite e notai solo in quel momento il passeggino parcheggiato al loro fianco.

Ecco, ci mancava un neonato per suggellare la serata.

«Cinzia, sei a posto?» domandò Simone, poggiandomi una mano sul braccio.

Mi guardava con un'espressione stranita, ma sembrava intenerito.

Mi rivolsi al cameriere in attesa. «Sì, sì, a posto grazie».

Tornando a fissare lo sguardo sul passeggino, ascoltai l'ordine del mio ragazzo, che prese un taco di farro ripieno di ingredienti che davano l'impressione di cozzare tra loro.

Quando l'uomo e il sommelier - che avevo a malapena notato avvicinarsi - si furono allontanati, Simone fece cenno con la testa verso la carrozzina. «Ti ha fatto pensare a nostro figlio?»

Sorrisi.

Sì, ma non come immagini tu.

«Io continuo a pensarci da quando me l'hai detto, non riesco a smettere» esclamò lui, gli occhi lucidi di emozione.

Mi sentii sprofondare, mentre il pianto del bambino si faceva sempre più acuto.

«Pensavo quasi di tenere il test, o di fargli almeno una foto ricordo, alla fine è il primo. È importante, no? Tu che ne pensi?»

Annuii, ma il mio cervello cominciava ad andare alla deriva, distratto dalle lamentele del neonato e dal discorso che mi ero preparata, ma che non sapevo quando introdurre.

«Dovremmo anche comprare una macchina fotografica decente, voglio fare un album come i miei hanno fatto con me. Non mi piace l'idea di lasciare tutto sul cellulare, è triste».

Continuai ad annuire, sovrastata dal suo inguaribile entusiasmo, ma la testa mi pareva scoppiare per il rumore, o forse per gli ormoni, non lo capivo.

Speravo che qualcuno facesse qualcosa almeno per il bambino, che lo facesse smettere di piangere o che uscisse dalla sala con lui.

Se non lo fa qualcuno, lo faccio io.

Voltandomi appena, vidi due coppie intente a conversare, in apparenza ignare del rumore che risaltava nella sala altrimenti tranquilla, come se ci fosse lo stesso mormorio piacevole di prima.

«Non vedo l'ora di dirlo ai nostri genitori. Scommetto che mia mamma ha già fatto almeno una di quelle sue coperte di lana. Sperava che succedesse presto».

Mi sentii sprofondare.

Devo riuscire a dirglielo. Ma quel bambino...

Osservai un gruppetto di quattro persone sulla sinistra che parlava fitto fitto e notai che ogni tanto, a turno, qualcuno indicava o faceva cenni verso i coniugi in lite, che non davano l'impressione di preoccuparsi di loro figlio.

Che razza di genitori.

Un urlo più acuto dei precedenti mi indusse ad aggrottare le sopracciglia e feci per chiamare il cameriere quando lo vidi raggiungere un altro tavolo. Un uomo sulla cinquantina gli domandò qualcosa, mentre indicava i due coniugi e il loro bambino con un'espressione contrariata.

Oh bene, qualcuno fa qualcosa.

Tuttavia, anziché avvicinarsi alla coppia, l'uomo uscì dalla sala.

Un altro urlo acuto.

Sentii quasi male alle orecchie.

Simone, invece, sembrava essere immune al rumore, come se la sua testa fosse su un altro pianeta, e forse lo era, perché non notava il mio fastidio.

«Poi tu sarai un'ottima madre, ti sono sempre piaciuti i bambini». Appoggiò una mano sulla mia e il pianto mi arrivò ancora più intenso. «All'asilo sei la preferita di tutti! Questo bambino non poteva capitare in mani migl...».

«Basta!» sbottai, sentendo le tempie scoppiare. «Noi non avremo questo bambino!» Simone fece per ribattere, ma scostai la mano da sotto la sua e non gli detti il tempo. «Io non voglio avere figli, non li ho mai voluti e non li vorrò neanche con te. Mi fa schifo l'idea di affrontare una gravidanza, mi fa impressione, e non potrei mai essere una buona madre. Sono egoista, voglio sempre la porzione più abbondante per me e non voglio rinunciare a nulla per crescere un bambino. Ho già preso appuntamento per abortire».

Quando ebbi finito, mi resi conto di stare ansimando, e che Simone non era il solo a guardarmi allibito.

I coniugi in lite si erano azzittiti, nel gruppetto da quattro persone un uomo era rimasto immobilizzato con l'indice puntato a mezz'aria e, quando tornai a incrociare gli occhi del mio ragazzo, mi accorsi che persino il pianto del bambino sembrava essersi calmato.

Nascosi il viso sotto le mani e sospirai; tutto il bel discorso che mi ero preparata non era servito a nulla, dopotutto.

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Capitolo 6
*** Show don't tell: personaggi e dialoghi ***


Lo show don't tell è un po' come il prezzemolo: deve essere ovunque, ma va dosato.

In questo caso, il dosaggio l'ho fatto per la combo personaggi e dialoghi; i primi per come si muovono nell'ambiente che li circonda, i secondi per il modo in cui porli all'interno della narrazione.

Come imparare a dosarli? Con tanta pazienza e altrettanta attenzione ai dettagli.

 

✂- - - - - - - -

 

Ok, candela accesa.

Appoggiai l'accendino accanto al vasetto di vetro e recuperai le due vaschette di poke, fresche di consegna, per posizionarle al posto dei piatti.

Incrociai le braccia al petto, osservando soddisfatto il risultato finale.

Dopo questa, una bella scopata me la merito.

Un suono acuto mi fece sobbalzare.

Di già?

Diedi una rapida occhiata all'orologio: era in anticipo di un quarto d'ora.

Alzai la cornetta del citofono. «Sì?»

«France', sono io».

Merda. «Sergio?»

«Sì. Apri per favore, è importante».

Schiacciai controvoglia il bottone e aprii la porta, aspettandolo sull'uscio.

Sentii i suoi passi concitati salire per le scale e in un attimo fu sul mio pianerottolo.

«Tu non sai cos'ho scoperto» esclamò Sergio, gli occhi spalancati.

«Proprio adesso me lo devi dire, Se'?» Strinsi la mano sulla porta, lasciandola socchiusa.

«Mi fai entrare?»

«Ma veramente sto aspettando una».

Sergio mi guardò come se non mi vedesse, spostando lo sguardo oltre le mie spalle. «Due secondi, dai». Mi appoggiò un palmo sulla spalla e fece una leggera pressione.

Sospirai, scostandomi per farlo passare. «Va bene. Ma due, eh».

«Uella! Ti sei dato da fare, strano» commentò una volta visto il tavolino apparecchiato davanti alla finestra. «Stai puntando a una difficile?»

Ridacchiai appena. «Abbastanza».

Diedi un'altra occhiata all'orologio.

Ancora almeno dieci minuti.

C'è tempo.

«Va beh, quindi che c'è?»

Gli occhi di Sergio si sbarrarono di nuovo, come se quella breve conversazione gli avesse fatto dimenticare il motivo della visita. «Credo, anzi, lo so, che Marti mi tradisce».

Sbattei le palpebre ripetutamente prima di strizzarle.

«Marti? Ma va, figurati» esclamai, sentendo il calore aumentare lungo tutto il corpo.

«Ti dico che è così». Portò una mano ai capelli chiari e li strinse.

«Ma perché lo pensi?»

Sergio sospirò e scosse la testa. «Sai che Marti è quasi psicopatica con le date, no?» Annuii. «Ecco, l'altro giorno si è dimenticata del nostro anniversario».

Il mio cuore accelerò di battiti e presi un profondo respiro. «Va beh, dai, dopo cinque anni ci sta che si dimentica».

Lui rise appena, amareggiato. «Certo! Si ricorda pure quando alle sue amiche arrivano le loro cose».

In effetti.

«Ma sì, avrà avuto la testa da qualche altra parte».

«Certo, dallo stronzo con cui mi tradisce». Sergio si rabbuiò, corrucciando le sopracciglia. «Che poi, quel giorno si era pure organizzata per vedere una sua "amica"» mimò le virgolette con le dita «e quell'"amica" la sta vedendo più spesso di me, ultimamente». Cominciò a solcare avanti e indietro il ristretto ingresso del mio appartamento. «Sono un coglione perché non l'ho notato prima, ma è da quando abbiamo avuto il nostro momento di crisi che si vede con 'sta qua. Prima quasi non se la cagava».

Mi grattai la nuca e la mia gamba cominciò a muoversi senza che riuscissi a farla smettere. «Le sarà stata vicino in quel momento lì».

«Ti dico che non c'entra nulla quella lì. Si vede con uno, lo so». Si fermò di nuovo di fronte a me e fissò lo sguardo nel mio. «Devi venire con me, adesso».

«Cosa?»

«Dobbiamo seguirla».

«Seguirla?»

«Mi ha detto che esce a cena con quella». Scosse la testa. «Non ci credo».

«Non possiamo seguirla».

«Voglio fregarla».

Il polso mi vibrò. Un messaggio.

"Sono un attimo in ritardo. Non trovo le altre chiavi e Sergio è uscito."

Abbassai subito il braccio e guardai Sergio trattenendo il fiato.

«Allora? Andiamo?»

Trassi un sospiro di sollievo.

Non ha visto.

«Non posso, ti ho detto che aspetto una».

«E dille di non venire» esclamò lui, allargando le braccia.

«Non scopo da un secolo, abbi pietà».

«Ma se ne hai vista un'altra al mio schifoso anniversario».

Socchiusi le labbra, il cuore palpitante. «Non... mi ha lasciato in bianco».

«E chi se ne frega! Puoi aspettare un'altra sera, no? Io ho bisogno di sapere». Sergio sbuffò e si allontanò di qualche passo, le mani tra i capelli.

Il polso vibrò di nuovo.

"Comunque, ho una sorpresa per te sotto ai vestiti. Dieci minuti e arrivo."

Fu come se mi si offuscasse la vista, mentre tornavo a qualche mese prima, all'intimo nero e oro. Mi sembrò di toccare la sua pelle, di percorrere con le dita quelle curve, lasciando brividi al mio passaggio.

Sentii il sangue defluire verso il basso, l'eccitazione palpitante in ogni parte del mio corpo.

«Se becco quel pezzo di merda...».

D'un tratto non ci fu più lei. Non ebbi difficoltà ad immaginarmi un pugno a un palmo dal mio naso prima che mi colpisse in pieno, portando con sé sangue e dolore.

«Cazzo!»

Sergio si girò verso di me, le sopracciglia corrugate. «Cosa?»

Se. Non me la caverei con un cazzotto solo, mi porterebbe via l'ambulanza. Sono un amico di merda.

«No, niente. Dicevo, che cazzone che è quello».

«E allora vieni con me e becchiamoli». Lui mi si avvicinò, gli occhi iniettati di folle gelosia, i pugni stretti davanti a sé. «Gli do una lezione che non si scorda più e se non lo ammazzo è solo perché non ci vado in prigione per un pezzo di merda».

«Ok, senti, se lo prendi a pugni non vai prigione, ma ti becchi una multa che non te la scordi più nemmeno te» dissi, portando le mani avanti. Ormai mancava poco, troppo poco. «Parla con Marti di 'sta cosa e vedi che ti dice».

«Certo, perché mi verrebbe a dire che c'ha l'amante secondo te».

«Ma dai, è assurdo che ti tradisce. È Marti!»

La tua Marti.

Arricciai il naso.

«Sì, ma non è più lei. Non si è mai dimenticata di nulla». Le sue spalle sembrarono afflosciarsi.

Per la prima volta da quando era entrato, lo vidi abbassare la guardia. Sentii la testa farsi pesante.

«Ma gliene hai parlato?»

Sospirò. «No».

«Non hai detto nulla dell'anniversario?»

«No».

«E a lei non è più venuto in mente?»

«No».

«E allora parlane con lei! Ci sarà per forza un motivo». E fa' che ne inventi uno buono.

«E che mi dici della sua famosa "amica"?» Ancora una volta, mimò le virgolette con le dita.

«Te l'ho detto! Le sarà stata vicina quando eravate in crisi».

Sergio sembrò riflettere, lo sguardo perso dietro di me.

Il citofono suonò.

Merda.

Appoggiai una mano tremante sulla sua spalla. «Ok, senti, per stasera vai a casa e rilassati. Gioca a COD e fatti una birra». Lui annuì. «Domani ne parli con Marti e la risolvete. Se no torni da me e la risolviamo a modo nostro».

Strinsi un pugno, dopodiché alzai la cornetta del citofono.

«Sì?»

«Consegna speciale per Francesco Ferraris».

Sentii la faccia andare a fuoco e deglutii. Che fosse per l'eccitazione o i sensi di colpa, non volli pensarci.

Le aprii il portone e schiusi la porta.

«Mi prometti che vai a casa a fare quello che ti ho detto?» chiesi a Sergio, cercando di sembrare il più convincente possibile.

Aspettò qualche secondo, poi sospirò. «Va bene. Lo prometto».

«Grazie». Sorrisi, il cuore palpitante. «Ora vai, che arriva quella che aspetto».

Lo spinsi con delicatezza verso il pianerottolo e lo incitai a scendere le scale con un gesto delle mani.

Sentii a malapena la sua voce mormorare un "grazie".

Aspettai di non vederlo più e, in quel momento, l'ascensore si aprì; Martina ne uscì con un vestito che lasciava davvero poco all'immaginazione, il cappotto che già le scivolava lungo le spalle.

La invitai a entrare, stringendole i fianchi quando si avvicinò per baciarmi.

Sergio era già lontano anni luce dai miei pensieri.

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