Heavy Cross di The Corpse Bride (/viewuser.php?uid=16423)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
-Bianca, per favore,
smettila con
questa storia. Non cederò mai. Devo ripetertelo? Sono il tuo
professore; non sarò mai il tuo amante.
La ragazzina sbuffò.
Sedici anni, capelli rosso fuoco freschi di cotonatura, un trucco
nero pesantissimo sfumato dal giorno prima.
Aveva una scollatura
così profonda, e una minigonna così corta, e
degli stivali così
alti, che non si poteva fare a meno di guardarla, a prescindere dagli
istinti sessuali che poteva o non poteva provocare.
'Provocare':
ecco cosa faceva.
Non chiedeva solo sesso. Chiedeva anche l'altrui
disapprovazione. E chiedeva che le parlassero alle spalle,
sicuramente. In fin dei conti, per come la vedeva Emanuele, quello
che chiedeva era semplicemente attenzione.
-Professore, lei non
può sapere per certo che non cederà mai. Chi lo
sa cosa potrebbe
passarle per la testa domani, o il mese prossimo, o l'anno
prossimo?
-Lo so io, cosa mi passerà per la testa: la mia
fidanzata, il mio lavoro, i compiti da correggere, le cene fuori coi
miei amici. Il mio cane, al massimo. Ma non il sesso con te. Non mi
induci in tentazione, Bianca, mettitelo in testa.
-Ma davvero? -
lei sorrise malignamente, alzò un sopracciglio,
accavallò le gambe
e si stese bene sullo schienale; si comportava come una
spogliarellista trentenne. - Allora perché ha usato il
termine
'cedere'? È alle tentazioni che si 'cede', o sbaglio?
Altrimenti
avrebbe detto 'non mi piacerai mai'. È già
più vicino al concetto
del quale lei cercava di convincermi.
-Bianca...
-O di
convincere se stesso.
-Bianca.
-Ma non si preoccupi, ci
raccontiamo tante cose per non uscire dai nostri binari sicuri della
normalità. Per rimanere in metafora, deragliamo
insieme, professore – fece un sorriso di scherno, dando un
tono di
ridicolo alla sua stessa proposta. E poi pretendeva che la prendesse
sul serio, però.
Quella storia stava iniziando a diventare
ridicola. Da tre mesi a quella parte, da quando lui era arrivato in
quella scuola per insegnare l'italiano e la storia nel triennio di un
linguistico, la sua vita era stata arricchita di un nuovo pittoresco
elemento: una ragazzina di terza liceo che sembrava appena scesa da
un cubo e che però non scendeva mai sotto la media del nove;
e che,
per giunta, spergiurava di essersi perdutamente innamorata di lui.
Ma
il suo era un amore particolare: sembrava che, più che lui,
amasse
vederlo soffrire.
Lo portava ai limiti del suo sistema nervoso con
i suoi ragionamenti, con i suoi modi, con le sue contraddizioni. Era
intelligente, ma si comportava da completa stupida. Era la tipica
ragazza problematica che ogni liceo ha in dotazione, in
quantità che
vanno dall'unità singola a un massimo di cinque o sei
elementi. Chi
non la odiava, tra i suoi colleghi, l'aveva presa enormemente a
cuore: ma i loro atteggiamenti spaziavano soltanto tra due estremi,
ovvero, maltrattarla oppure coccolarla. Nessuna via di
mezzo.
Emanuele, quando se l'era trovata davanti le prime volte, e
quando aveva discusso coi suoi colleghi al riguardo
dell'atteggiamento da tenere con lei, aveva pensato chiaramente che,
al posto di Bianca, non gli sarebbe piaciuto suscitare del disprezzo,
ma non gli sarebbe piaciuto nemmeno suscitare pietà. E
quindi aveva
deciso di non provare nessuna delle due cose, con quella ragazza:
decise di trattarla come tutti gli altri, senza cercare perennemente
di coglierla in fallo – non ce n'era bisogno; lei non era di
certo
conciliante né ubbidiente – né di
giustificarla in ogni sua
stranezza – non aveva alcun diritto di arrivare alla terza
ora
sbadigliando e col vestito di traverso.
E questo l'aveva
conquistata.
Certo; unito al fatto che Emanuele aveva solo
ventinove anni, era giovane, si comportava da persona giovane ed era
senza dubbio un uomo piacente. Molte ragazze, nel liceo, si erano
invaghite di lui; ma solo lei si era spinta fino a una
dichiarazione.
E fino a seguirlo, e fino a chiedergli del sesso, e
fino a farsi sbattere fuori dalla classe per andare a parlare con lui
in sala insegnanti nella sua ora di ricevimento – un'ora che
da
tempo ormai non riusciva più a dedicare ai genitori.
Fortunatamente,
lei era stata abbastanza intelligente da tacere agli altri questa sua
particolare passione: avrebbe potuto costargli il lavoro, se avessero
sentito i dialoghi che intercorrevano tra loro due in quelle poche
ore.
-Professore, la smetta di correggere i compiti. Siamo soli io
e lei. Perché non vuole fare niente con me?
-Ma ti senti, Bianca?
Mi metti in imbarazzo. Proporsi è una cosa, sbatterla in
faccia a un
uomo è tutto un altro discorso.
-Beh, lei non se la prende, dovrò
pur fargliela avere in qualche modo.
-Ma io non la
voglio.
-Cazzate, tutti la
vogliono.
Sì, non c'era dubbio che con un atteggiamento del
genere per lei fosse facile collezionare compagni di letto. Ormai,
perfino gli insegnanti, persone adulte che avrebbero dovuto guardare
la cosa con occhio più oggettivo, bisbigliavano sui rapporti
sessuali precoci e ossessivi di quella ragazzina assurda in terza
A.
-Senti – tentò con calma, senza alzare gli occhi
dal foglio
che in realtà non stava leggendo – a sedici anni
forse sì, tutti
la vogliono. Tutti le vogliono tutte, stando a quanto ricordo. E
tutte li vogliono tutti, probabilmente, al giorno d'oggi. Ma quando
hai quasi trent'anni inizi a fare una cernita, sai cos'è una
cernita? - proseguì prima che lei, piccata, riuscisse ad
aprire la
bocca e a protestare che lo sapeva benissimo, e che lui lo sapeva che
lei lo sapeva – Ecco. Io ho fatto la mia cernita. Ho scelto
la mia
fidanzata.
-Come si chiama, la sua fantomatica
'fidanzata'?
-Camilla.
-Camilla! - sbuffò Bianca – Che nome
da fighetta noiosa.
-Ti pensavo un po' meno pregiudizievole.
Proprio tu ti fai un'idea di una persona, non dal suo aspetto, non
dal suo comportamento, non dalle sue amicizie, ma addirittura dal suo
nome...?
-Che c'è
di male? Dicono che il nome influenzi moltissimo il carattere di una
persona. E comunque a me non danno fastidio i giudizi degli altri su
di me, giudicare è normale e giusto, non mi arrabbio se lo
fanno a
me e non dovrebbero arrabbiarsi se lo faccio a loro... ma comunque,
che dicevo? Ah, sì, il nome. Il mio nome mi fa schifo, per
esempio.
Bianca è...
-Senti – la interruppe, con tono calmo – questa
è
la mia ora ricevimento. Non ho voglia di parlare di onomastica, se
non ti dispiace.
-Ma mi ascolti, almeno – protestò lei, con
un'espressione che si adattava di più ai suoi sedici anni
– senta.
Lei ha un vero nome. E un nome bello, anche: Emanuele. È
biblico,
no? E senta che bel suono gentile. E poi ha anche un significato:
“Dio è con noi”, l'ho cercato sul Dizionario
dei nomi
pensando proprio a lei. Non è bellissimo? Io sarei fiera di
portare
un nome come questo. Lei non lo è?
-Non ci ho mai pensato molto.
E poi, tutti mi chiamano solo Ema o Lele...
-Anche Camilla?
-Anche
Cami...
-Ecco, lo vede che è banale e scontata e superficiale?
Stia a sentire. Io mi chiamo Bianca. Come lei ben sa, sì, lo
so. Ma
Bianca non è un nome. Al posto di un nome, mi hanno dato un
aggettivo, se ne rende conto? 'Bianca' è una parete. Mi fa
pensare
ai muri di casa mia. Le pare? Tutto quello che hanno saputo pensare i
miei quando sono nata, è stato un aggettivo. E non era
neanche
'Rosa' o ' Celeste' o 'Azzurra' o 'Violetta' o 'Rossella'...
'Melissa' significa 'nera', sarebbe andato bene anche quello. No.
Hanno scelto il bianco, che è il colore più vuoto
e insignificante
di tutti. Quello che non dice niente.
Emanuele ponderò a lungo
prima di dirlo.
Conosceva il pericolo che correva, nel dirlo,
sapeva che non avrebbe probabilmente dovuto farlo, ma la
verità era
che voleva dirglielo. Voleva dimostrarle che non era vero nulla,
tutto ciò che lei pensava di se stessa.
-Il bianco è il colore
che racchiude in sé tutti gli altri come uno scrigno.
È la luce
assoluta. E ad essere precisi, è diverso da tutti gli altri
colori,
perché in realtà non lo è nemmeno, un
colore.
La guardò negli
occhi.
Si aspettava di trovarla spaesata, meravigliata, illuminata
sulla verità della sua vita. Un po' più fiduciosa
verso se stessa,
magari. Ma scoprì che la conosceva ancora troppo poco.
-Questo lo
sapevo, prof – sorrise maliziosa – è
solo che volevo farglielo
dire. L'ha detto in un modo così romantico. Mi ha fatta
sembrare
speciale.
-Sai bene
di esserlo.
-Oh, professore, grazie! Allora le piaccio, almeno un
po'.
-Non in quel senso. Sei molto diversa da tutti gli altri
studenti, questo sì. Ma non di certo in senso positivo.
Lei non
si scompose. Probabilmente era abituata a quel tipo di
commenti.
-Siete tutti un po' troppo legati a certi canoni. Solo
perché mi vesto un po' provocante e faccio un po' di casino
e sono
innamorata di un uomo un po' più grande. Lo fanno tutti,
prof,
sa?
-Sì, ma non a scuola. È il contesto che ti frega,
Bianca,
altrimenti credimi, saresti come tutti gli altri sedicenni.
Stavolta
era certo di colpirla; ma così non fu. Forse non le
importava
nemmeno dell'anticonformismo. Forse era così soltanto
perché
qualcosa dentro di lei le ordinava costantemente di dare di
matto.
-Allora lo vede che non sono tanto strana come dite tutti?
È solo che confondo un po' chi con cosa – fece
pensierosa,
guardando fuori dalla finestra.
Purtroppo, Bianca non 'confondeva
un po' chi con cosa'. Bianca spesso portava al limite della pazienza
i professori, non si presentava a scuola, faceva la stupida con i
ragazzi, addirittura una volta l'avevano trovata nel bagno dei maschi
e dalla fessura sotto la porta il bidello aveva visto le Converse di
lui, i tacchi a spillo di lei e le ginocchia sempre di lei, sistemati
in fila indiana. Più volte. E nonostante la sospensione.
Nessuno
sapeva cosa la spingesse a comportarsi così, tantomeno
Emanuele: lei
non parlava mai di se stessa. Parlava del suo presunto amore, dei
suoi compagni, dei suoi amici fuori da scuola, delle sue avventure a
sfondo sessuale, ma i suoi erano sempre e solo racconti; cronache,
diari di viaggio senza commento.
Molti professori avevano provato
ad estorcerle qualche informazione, probabilmente perché
pensavano
che vivesse nello scenario di 8 Mile
in una roulotte senza bagno assieme a una madre alcolizzata senza
nemmeno sapere il nome di suo padre; ma era bastata una breve
indagine per sapere che le cose non stavano così. La
famiglia era
normale, tranquilla, unita, e Bianca conduceva un tenore di vita
assolutamente nella norma. E così, la favoletta Dickensiana
dell'orfanella abbandonata da tutti era velocemente sfumata, per far
spazio a un enorme mare di dubbi.
E dato che sbrogliarli era
troppo difficile, era risultato enormemente più facile farla
sprofondare in un alternarsi schizofrenico di rimproveri e parole di
comprensione, senza mai cercare davvero di sbirciare un po'
più in
là nell'anima neonata di quella ragazzina.
Ma com'era possibile
parlare di anima, quando quella stessa ragazzina si presentava
dondolando le anche e chinandosi davanti al suo volto per mostrare il
seno dalla camicetta aperta?
Non che ne fosse attratto, ma era
tentato piuttosto di portarla dal bidello a farsi pulire via il
trucco col mocio per i pavimenti.
-Quindi – riprese Emanuele –
ora che abbiamo fatto queste interessanti considerazioni, mi concedi
una mezz'ora di lavoro, o vuoi proprio che mi riduca stasera a
mezzanotte a correggere le vostre schifezze?
-Si riduca a
mezzanotte – ghignò lei –
così stasera non avrà tempo per
Camillah! - lo
pronunciò battendo le ciglia e spalancando gli occhioni
già troppo
grandi.
-Ho sempre
tempo per Camilla – replicò tranquillo –
anche se fossero le due
di notte.
Bianca tacque. Quando il tempo passato tacendo divenne
troppo lungo, Emanuele alzò gli occhi su di lei: e vide che
piangeva. Non era una novità; Bianca piangeva spesso. Ma
questa
volta non capiva perché.
-Che cosa c'è? Ti ha fatto stare male?
Mi dispiace, ma è normale che io pensi alla mia ragazza...
-No,
no – scosse energicamente la testa, asciugandosi le guance
– non
è quello. Lei ha detto una cosa bellissima, sa? Non pensavo
che gli
uomini dicessero cose del genere. Pensavo fossero sempre pronti a
tradire, con chiunque e in qualsiasi momento.
-Bella idea ti sei
fatta di noi, eh...?
-Ma se ve ne vantate, anche!
-Ti ripeto
che a sedici anni...
-Le pare che io parli a caso? - l'interruppe
seccamente – Non parlo di sedicenni. Parlo di gente anche
più
grande di lei. E basta che io apra le gambe perché loro ci
sprofondino in mezzo, fidanzata o non fidanzata, moglie o non moglie.
Ma lei... lei ha detto
una cosa meravigliosa, straordinaria. Camilla è fortunata.
Vorrei
essere anch'io così fortunata.
-Vorresti
avere un ragazzo che ti sia fedele? - Emanuele sorrise; forse si
stavano avvicinando alla verità. Era stata una delusione
amorosa? -
Qualcuno si è comportato male con te?
-No – scosse la testa tra
le lacrime – io vorrei lei,
professore. Non un altro ragazzo fedele. Lei.
In
momenti come quello, le sue più solide certezze sulla
superficialità
dei sentimenti di Bianca crollavano come castelli di carte. Una
tale... devozione, non poteva essere solo un'illusione, o no?
O
forse semplicemente Bianca incanalava su di lui dei sentimenti molto
forti che però non sapeva come altrimenti chiamare? A sedici
anni è
sempre tutto enormemente confuso.
E poi pensò, anche a ventinove,
però. Anche dopo i ventinove, stando a quanto diceva Bianca,
la
gente era confusa, e chiamava amore il bisogno, e chiamava bisogno
l'abitudine.
E perché Bianca avrebbe dovuto essere più confusa
di quanto lo fossero tutti loro?
Come miliardi d'altre volte, non
le seppe rispondere. Spiazzato ancora una volta da una ragazzina di
sedici anni che gli riversava addosso la crudeltà dei
sentimenti
nella loro forma più sincera.
(Nda: scusatemi il titolo XD
è una canzone dei Gossip che mi piace molto e che per
atmosfera qui ci può stare - anche per tematiche, mi sa.
Sappiate che il rating si alzerà e che ci saranno delle
parti angst, e che in generale l'autrice ha scritto la storia di getto
prima di perderla e che quindi non è sicurissima di quello
che succederà - leggi: saranno i personaggi a deciderlo col
tempo - anche se un'idea di base c'è già.
Ditemi se vi è piaciuta *.* ci tengo >.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo
2
Questa volta erano state le sue stesse compagne di classe a
venire a lamentarsi. Purtroppo, quell'anno l'avevano scelto come
coordinatore della classe terza A, il che significava che qualunque
lamentela di professori e alunni o tra professori e alunni avrebbe
sempre e comunque dovuto passare attraverso di lui. Era un compito
ingrato e non avrebbe perdonato facilmente i suoi colleghi per averlo
incastrato a quel modo; solo perché era il più
giovane e aveva la
voce meno forte di tutti.
Ad ogni modo, tre ragazzine
scandalizzate si erano presentate alla sua ora di ricevimento, mentre
Bianca era confinata nell'ufficio della preside.
A quanto pare,
stavolta si era fatta trovare con la mano di Crivellaro sotto la
minigonna. E questo non aveva fatto una buona impressione alle sue
vicine di banco.
-Non è possibile, prof! - protestò Giulia, una
ragazza alta e seria, molto studiosa – Ogni volta bisogna
interrompere perché c'è questa non
voglio essere volgare
che fa la cretina coi ragazzi, o che si fa sgamare a fare non
voglio essere volgare
ai
ragazzi, o che si fa fare non voglio essere
volgare...
-E
ogni giorno, prof – intervenne Valeria, una ragazza dark che,
contrariamente alle aspettative, era tranquilla, seria e ligia alle
regole – io non lo so. Un conto è essere strani,
un altro conto è
essere fuori. Quella là è fuori come una grondaia.
-E poi basta
con queste minigonne e scollature! - fece una terza, esasperata
–
Non capisco perché noi veniamo rimproverate se per caso
mettiamo un
pinocchietto, e lei invece può arrivare qui vestita come
una...
vabè, ci siamo capiti.
Emanuele annuì. Le proteste erano serie,
e Bianca doveva piantarla. Certo; ci vedeva anche un sottile fondo
d'invidia, perché Bianca era sempre al centro
dell'attenzione e
soprattutto di quella dei ragazzi, ma c'era qualcosa che quelle tre
non avevano capito. Che anche lui era ben lontano dal capire, ma
forse qualcosina l'aveva afferrato.
-Ragazze, voi avete ragione –
incominciò con calma – ma cercate di guardare al
di là della
superficie. Certo, Bianca si prende sempre tutta l'attenzione; ma
pensate che sia una bella cosa? Non credo che vorreste ricevere lo
stesso tipo d'attenzione che riceve lei, no?
-Certo che no, io non
sono una troia – esclamò Giulia di getto, poi
borbottò: - Scusi.
È solo che volevo chiarire che non sono invidiosa di lei, si
figuri
se mi piacerebbe che tutti mi considerassero un buco!
-Io penso
non piaccia neanche a lei – intervenne Valeria, in un
tentativo di
essere conciliante – allora perché non la finisce
di fare la
stupida, visto che dà fastidio a tutti e non fa neanche un
gran bene
a se stessa?
-Prof, il fatto è che è imbarazzante averla in
classe...
Non faticava a crederci. Ma ci teneva a precisare una
cosa.
-Sì, però, ragazze, sbaglio o in presidenza ci
sono finiti
in due? C'era anche Mattia con lei quando li hanno trovati in
atteggiamenti intimi.
-Ma Mattia fa così con tutte – sbottò
Giulia – e almeno non si fa sgamare ogni volta, e poi lui
è
normale. Lei invece arriva qua vestita a quel modo perché
deve
sempre farsi vedere, e poi insomma, sembra quasi che lo faccia
apposta a farsi
trovare.
Questo non l'aveva mai considerato. Annotare, si disse
tra se e se.
-Prof, per favore, fate qualcosa, non si può andare
avanti così – supplicò Valeria
– io voglio soltanto fare
lezione. Non mi interessa quello che Bianca fa o non fa, ma lo faccia
fuori dall'aula, se proprio non vuole seguire! A qualcun altro
seguire la lezione può interessare!
-Avete pienamente ragione –
ammise – proveremo a farglielo capire.
-No, non dovete
'provare', 'provare' l'abbiamo già fatto tutti quanti
– protestò
Valeria – dovete proprio farglielo
capire,
in via definitiva. Bisogna minacciarla di espellerla.
-Grazie del
suggerimento, Valeria, ma siamo perfettamente in grado di gestire da
soli i nostri provvedimenti disciplinari – le sorrise
– non
preoccupatevi. Smetterà. E se non smetterà, credo
proprio che sarà
allontanata dalla scuola, quindi state tranquille; la situazione
migliorerà.
Le tre se ne andarono tra mormorii di
insoddisfazione, molto poco tranquille; ne avevano d'altronde motivo.
Lui stesso faticava a immaginare un universo dove Bianca se ne stava
seduta composta sul banco con gli occhi fissi sulla lavagna;
d'altronde, il fascino di un ribelle maledetto sta proprio nel suo
essere ribelle e maledetto. Quando cambia, perde anche quel fascino,
pensò.
Ci volle poco prima che Bianca si intrufolasse nell'aula
professori, dopo essere stata rilasciata dalla preside.
-Prooof –
esalò, alzando gli occhi al cielo – non la finiva
più. Ha detto
che se lo rifaccio mi sospende di nuovo e che se mi sospende di nuovo
mi bocciano.
-Niente che non potessi immaginare, Bianca.
-Ma
sì, ma sì, lo sapevo che me l'avrebbero detto
– sospirò –
anzi, mi sorprende che non mi abbiano ancora espulsa. È solo
che,
come immaginavo, i miei voti mi hanno salvato il culo anche
stavolta.
-Non per fare la predica, Bianca... anzi sì, lasciami
fare la predica, dato che stavolta ti sei comportata da bambina e lo
sai. Sei intelligente, Bianca. Lo so io, lo sai tu, lo sa la preside,
lo sanno tutti. Scrivi dei temi bellissimi, pieni di citazioni e
riferimenti letterari e cinematografici. Mi vuoi spiegare
perché fai
finta di essere un'abitante delle bidonville?
-Preferisco pensare
a una puttanella di Harlem, mi affascina di più
l'ambientazione
suburbana.
Emanuele si tolse gli occhiali e si massaggiò gli
occhi. A Bianca non sfuggì la disperazione del gesto.
-Cosa c'è?
Ho esagerato? Scusi, prof. Stavo solo scherzando.
-Ma no... -
mormorò – non è per le scemenze che
dici, di quelle metà le
ascolto e metà le rimuovo seduta stante. È che...
cazzo, sai dire
'ambientazione suburbana' senza cercare prima nel dizionario e poi ti
fai trovare con Crivellaro che ti fa un dito durante l'ora di
matematica. Ma perché
lo fai? Perché ci tieni così tanto a passare per
cretina?
-Ma io
non voglio passare per cretina, prof. Se volessi farlo, cercherei di
dare tutte le risposte sbagliate nei compiti e alle interrogazioni
farei scena muta, e di certo non direi 'ambientazione suburbana'
davanti a un testimone. Io sono fatta così, leggo i libri ma
faccio
anche sesso. È così strano secondo lei?
Perché era riuscito a
farsi dire da una ragazzina di sedici anni che era un bigotto anni
sessanta che ammetteva soltanto che le donne fossero o
troie o intelligenti?
Come riusciva a farsi incastrare ogni volta?
-No, non è strano,
Bianca; anzi, è piuttosto normale. L'unica cosa strana
è che tu a
scuola faccia delle cose che dovresti fare rigorosamente in camera
tua e rigorosamente in assenza di qualunque altra forma umana che non
sia il tuo partner. Possibilmente, senza cambiare partner ogni
giorno.
Lei si rabbuiò.
-Prof, lei pensa questo di me?
-Penso
cosa? Che cambi... ma no, era per dire, dai. Non fare così.
Ho detto
'ogni giorno' per dire 'spesso'. Non intendevo...
-Ma no, no,
prof. Non è quello; se non siamo a 'ogni giorno', in effetti
poco ci
manca. Ma non vorrei che lei pensasse che contino qualcosa per me; a
me piace solo lei. È solo che lei non mi vuole, e
dovrò pur farlo
con qualcuno.
-'Devi'? Perché, te l'ha ordinato il
dottore?
-Prof, non si comporti come la preside e tutti gli altri
– s'imbronciò Bianca; ed Emanuele si
ritrovò a pensare 'no, no' e
si stupì di dipendere dal giudizio di quella ragazzina,
perché
erano rimasti che era lei
a dipendere dal suo di
giudizio – insomma, continuano tutti a sgridarmi. Mai che si
facessero i cazzi loro, nel vero senso della parola. Mica stavo
facendo casino, tutto si è svolto nel perfetto silenzio; se
poi loro
sono sempre lì a controllare cosa faccio io, non so che
dirle, ma
nessuno dei due ha emesso il minimo suono. Come possono dire che
'stavo disturbando la lezione'? Che guardino da un'altra parte,
no?
-Bianca, non lo pensi nemmeno tu.
-Che palle.
Lei
accavallò le gambe, posò il gomito sul tavolo e
la testa sulla
mano; fissò lo sguardo fuori dalla finestra, sulla strada
trafficata
dove in quel momento il tram stava ripartendo dalla fermata.
-Guarda
che non puoi stare qui fino a fine giornata a guardare fuori dalla
finestra. Devi tornare in classe assieme a Crivellaro.
-Ha paura
che sospettino di lei? In effetti, non la metto mica tanto in una
bella posizione a venire sempre qui, vero?
-Bingo.
-E per di
più, questa è l'aula insegnanti. Rischiano di
scoprirci. Beh, ha
ragione, tornerò un'altra volta quando le acque si saranno
calmate.
Allora arrivederci, eh, prof? Grazie di avermi ascoltata. Si ricordi
che la amo.
Si alzò e si diresse saltellando verso la porta. Poi
all'improvviso, sull'uscio, si girò.
-Prof?
-Sì?
Bianca
fece un sorriso buffo; gli occhi le brillavano come quelli di una
bambina che confessava una marachella di cui andava enormemente
fiera.
-Niente, niente. È solo che volevo che ci guardassimo
prima che uscissi. Non riesco mai a salutarla per l'ultima
volta.
Emanuele non seppe cosa rispondere. Abbassò lo sguardo sui
compiti, scosse la testa, e fece un cenno di saluto.
Sapeva
perfettamente che Bianca era rimasta lì sull'uscio per un
minuto o
due, in attesa di una risposta, ma, anche se si sentiva quei due
occhi enormi puntati esattamente sulla fronte, non alzò mai
lo
sguardo dai fogli.
A ricreazione, vi fu una riunione di
professori inviperiti teoricamente atta a frenare gli impulsi
inarrestabili della Ferreri in terza A, ma che poi nella pratica si
trasformò soltanto in uno sfogo collettivo di un manipolo di
insegnanti sottopagati che non avevano alcuna intenzione di fare
anche gli assistenti sociali.
-Ormai è ingestibile – esordì
Sara, la collega di francese, scuotendo la testa – credo sia
il
caso di verificare se abbia dei genitori in casa a controllarla.
-Per
averli, ce li ha – intervenne Rossella, di matematica e
fisica –
ma non capisco se non se ne accorgano, non vogliano accorgersene, o
se ne infischino del tutto.
-Ha sicuramente un problema –
esclamò Mariolina, di filosofia – è
chiaro come il sole. È un
comportamento troppo estremo. Secondo me...
-No, Mariolina, non è
niente di tutto questo – sibilò sprezzante Monica,
che insegnava
tedesco – è soltanto il prodotto della sua
generazione. Sono
precoci, pensano di essere grandi ma non lo sono, cercano di
dimostrarlo con questi metodi che vedono alla televisione. Non
è
altro che il frutto di una cattiva educazione.
-Ci ha provato
anche con me – Giulio, di educazione fisica, cercò
di dirlo con un
sorriso – veniva a educazione fisica più svestita
che
vestita...
Lì Emanuele pensò 'ti piacerebbe', dato che
Giulio
era famoso tra le studentesse per aver più volte allungato
le mani e
fatto commenti; ma si trattenne dal dirlo in quella sede.
-Viene
più svestita che vestita dappertutto –
osservò Sonia, insegnante
di arte – è intelligente. Ha una mente pronta, sa
interiorizzare e
sviscerare la materia, sarebbe il sogno di qualunque docente. La
adorerei, se non fosse per questo.
-Forse anche un po' per questo
– intervenne Antonella, che insegnava inglese e con ogni
evidenza
amava Bianca – è un po' la Modigliani dei nostri
tempi.
-Se
fosse un genio e sapesse dipingere, forse lo sarebbe –
tagliò
corto il vecchio Leandro di scienze – ma io vedo solo una
stupidella che si comporta in un modo che sarebbe indecente anche
fuori da un istituto scolastico. I genitori sono stati informati?
Com'è possibile che non intervengano?
-Emanuele, tu cosa ne dici?
- lo incitò Antonella con un sorriso – Non hai
ancora parlato.
Cosa pensi che dovremmo fare?
-Io dico che non ne ho idea –
buttò lì. In fondo, era la pura e semplice
verità. - Davvero;
parlarci non funziona, minacciarla non funziona; espellerla
significherebbe soltanto scaricare il barile e ammettere la
sconfitta.
-La psicologa della scuola? - suggerì Sara –
Perché
non tentiamo?
-Già fatto – sospirò Rossella
– già tentato.
L'ho vista dopo averci parlato; non poteva ovviamente dirmi niente,
ma era visibilmente colpita.
-Chissà cosa deve averle raccontato
– borbottò Monica – non voglio neanche
immaginare cosa fa fuori
da qui, se già quando è qui arriva a certi
livelli.
-Ma se
arriva a certi livelli – insisteva la pacata Mariolina
– dobbiamo
chiederci cosa la spinge ad arrivare fin o lì. È
nostro compito di
insegnanti...
-No, non è nostro compito, è compito dei genitori
– sbottò Leandro, con la poca voce che gli
rimaneva – e allora,
adesso cos'è, che noi insegnanti dobbiamo insegnare, e
tenere a
bada, e capire, e consolare... ma insomma, ci pagano per mettergli in
testa delle nozioni, non per insegnargli l'educazione! Quello lo
devono fare i genitori!
-E devono anche capirlo loro stessi, dato
che sono abbastanza grandi – aggiunse Monica.
-Ha solo sedici
anni – tentò Antonella, conciliante –
è ancora piccola, è per
metà bambina.
-Mi sembra che si ritenga abbastanza grande da
avere una vita sessuale addirittura scandalosa.
Emanuele
dovette trattenersi dall'insinuare qualcosa che conteneva al suo
interno parole come 'invidia', 'in bianco' e 'repressione'.
-Forse
è proprio perché è piccola, che la
vive in modo così immaturo –
suggerì Sonia, lanciando a Monica uno dei suoi sguardi
penetranti.
-Questa faccenda va sottoposta alla preside –
ragionò Sara – noi non possiamo fare molto, oltre
che sgridarla,
metterle note e spedirla in presidenza. Se ne deve occupare qualcuno
con dei poteri.
-Ma 'occuparsene' in che modo? - si accalorò
Mariolina – Perché i provvedimenti disciplinari
dovrebbero
insegnare, far crescere, aiutare. Il metodo meramente punitivo mi
è
sempre sembrato controproducente.
-Ma la comprensione e la
giustificazione a oltranza mi sembrano altrettanto controproducenti
–
sottolineò Monica con vigore – quella ragazza,
più viene
giustificata, e più va oltre.
-Ma punirla servirà solo a
indispettirla...
-Ai miei tempi, mio padre le avrebbe mollato due
begli schiaffoni sul muso e fine del discorso! C'era la guerra, c'era
la fame, c'era tutto quello che volete, ma le ragazze erano
già
delle signore! Non
erano delle piccole... non fatemi essere volgare.
C'erano pareri
di tutti i tipi. Sara era una fervente cattolica ma era troppo
politicamente corretta per dire cosa realmente pensasse; Rossella,
inflessibile ma anche incorrruttibile, si esprimeva sempre in
direzione neutrale, Sonia voleva bene a Bianca senza volerlo
ammettere, mentre Emanuele faceva fatica a formulare un'opinione.
Giulio non era nemmeno da considerare. Monica, tutta
rigidità e
regole e correttezza, era una di quelle che davano agli alunni dei
deficienti per poi dire che 'deficiente' era voce del verbo deficere,
che significava 'mancanza', e che quindi non li aveva insultati,
scherziamo, non si
sarebbe mai permessa.
Leandro era un altro di quella risma, ma lui
aveva settant'anni e Monica aveva da poco superato la trentina, come
quasi tutti gli altri. Antonella aveva più o meno
l'età di Leandro
ma era fatta di tutta un'altra pasta; comprensiva, colta, umana.
Mariolina, intorno ai cinquanta, stava a metà tra le due
fazioni
d'età, ma lei aveva una laurea in psicologia e una in
filosofia:
chiaramente non poteva far altro che interessarsi al caso di Bianca,
considerandola però appunto più un 'caso' che una
ragazza la quale,
effettivamente, oltre ad avere un problema chiaramente lo costituiva,
anche, un problema.
-Io penso che la preside possa fare ben poco,
davanti a questo caso. È un essere umano come noi.
-Sì, ma
Giovanna ha un modo di fare davanti al quale anche Bianca fatica a
fare storie – replicò Rossella, che era
vicepreside – ha una
calma nei modi, un'imperturbabilità...
-E un'eleganza
– rincarò Leandro – una cosa che quella
ragazzina là, guardate,
proprio... dovrebbe imparare più di qualcosina da Giovanna.
-Ci
parla ogni volta – osservò Sara – ogni
volta la spediamo là, ed
ogni volta la preside esce dall'ufficio sospirando. Dobbiamo parlare
con i genitori.
-Ma se ogni volta che le diciamo di chiamarli, lei
non lo fa mai – si stizzì Monica – non
mi sorprenderei se fosse
lei a firmare le note sul libretto.
-D'altronde, non possiamo di
certo introdurci in casa sua – affermò
allegramente Rossella,
tentando di stemperare – bisognerà chiamare a
casa. Alla prossima
ci facciamo semplicemente dare il numero dalla segreteria.
-Ma
cerchiamo comunque di non farne una tragedia – insistette
Mariolina
– dobbiamo aiutarla, integrarla; non
renderla un paria.
-Il problema è che ci si rende già da sola
–
si sbilanciò Sara, sistemando alcuni compiti nella
ventiquattrore –
i suoi compagni non sembrano averla in grande simpatia.
-Questo
dovrebbe farvi pensare che probabilmente si sente molto sola.
-Ma
– Monica iniziava ad alterarsi – ci si è
messa da sola
in questa condizione.
-O forse no – intervenne Antonella, con la
sua voce gentile e il suo tono calmo – forse qualcuno l'ha
messa
nelle condizioni di comportarsi in questo modo.
-Esatto,
Antonella. È proprio quello che sostengo anch'io. Non
possiamo
essere semplicemente dei 'docenti', cari colleghi; non siamo in
un'università, siamo in un liceo, e per giunta privato.
Abbiamo
cento alunni in tutto e non siamo in grado di occuparci neanche di
questi? E i genitori perché li avrebbero affidati a noi
anziché a
una più fredda struttura pubblica?
-Ma questa rimane una scuola,
Mariolina. Mi ascolti bene. Una volta, se non avevi voglia di andare
a scuola, ti mandavano nei campi, o a casa a cucire. Ha sedici anni;
se non ha più voglia di venire qui, può anche
farne a meno.
-Ma
questi non sono discorsi da fare, Leandro, mi scusi –
Emanuele non
poté più trattenersi – hanno sedici
anni; hanno dei genitori che
li spingono in questa direzione, ed è giustissimo che li
incoraggino
a finire quantomeno il liceo. Siamo noi che dobbiamo far sì
che la
scuola sia un luogo di serenità e di incontro, oltre che di
insegnamento; una sedicenne non può certo fare ragionamenti
simili,
nel duemilaenove! Per quanto si comportino come dei piccoli adulti
immaturi, la realtà è che sono sempre
più dei bambini. A sedici
anni, adesso come adesso, le responsabilità non esistono;
indipendentemente da quanto succedeva quando li aveva lei, sedici
anni.
Forse non avrebbe dovuto dargli contro così apertamente, e
l'occhiataccia che gli arrivò dal vecchio collega glielo
confermò.
Mariolina gli mise una mano sul braccio, ma lo sostenne:
-Sono
d'accordo con Emanuele – asserì. - Ormai la figura
dell'insegnante
è diventata un misto tra quella del docente e quella dello
psicologo, e francamente parlando io sono contenta che sia
così; non
sarei felice di svolgere il mio lavoro semplicemente entrando qui,
ripetendo le pagine di un manuale e poi salutando tutti, ognuno per
la sua strada e ognuno con la sua vita. Abbiamo a che fare con delle
piccole persone, non possiamo dimenticarcene.
-Però – osservò
Sara – se vogliamo trattarli come delle persone, dobbiamo
essere a
volte anche severi. Una persona che, nel mondo, si comporta come fa
lei, riceve dei duri colpi dalla società circostante. Se sia
giusto
o no che li riceva non sta a noi deciderlo, ma è certo che
li
riceverà. In un certo senso bisogna essere severi per
proteggerla.
-You're got to be cruel to be kind,
dicono in Inghilterra – intervenne pacatamente Antonella, con
il
suo sorriso pacifico che risolveva qualsiasi questione – ci
toccherà insegnarle anche l'educazione, Leandro.
Antonella aveva
sempre dei modi così cortesi che, anche se stava lanciando
una
frecciatina, uno la riceveva sempre senza battere ciglio. Nessuno era
in grado di replicare a quella donna. Nemmeno lo scorbutico
Leandro.
Il suo intervento, come sempre accadeva, chiuse il
discorso e anche quella ricreazione finì.
A cena, quella
sera, Camilla continuava a guardarlo come se cercasse una risposta.
Tra una forchettata di pastasciutta e l'altra, Emanuele decise di
vuotare il sacco.
-Bianca – spiegò semplicemente, e Camilla si
limitò ad annuire. Si limitava ad annuire perché
non sapeva
dell'amore spassionato che Bianca proclamava nei suoi
confronti.
-Cos'ha combinato stavolta?
-Guarda... - sbuffò,
scosse la testa – mi imbarazza perfino dirtelo. Si
è fatta fare un
dito in aula dal ragazzino più stupido e puttaniere della
classe.
Con la Mantovani, poi...
-Quella di matematica e fisica?
-Proprio
quella giusta. La più fissata con il silenzio e l'attenzione
e le
regole.
-Anche la Lombardi però non scherza, vero?
-Monica?
No, quella è una rompicoglioni petulante e basta. E anche
abbastanza
stupida. Rossella, invece, è intelligente, ma dubito che
tolleri un
atteggiamento del genere. Ha mantenuto la calma in nostra presenza,
ma siamo tutti un po' turbati dal modo di fare di quella
ragazzina.
-Forse anche lei è turbata da qualcosa,
chissà?
-Appunto: chi lo sa? Sai, forse è solo figlia della sua
generazione. Esagerata, forse, forse concentra su di sé
tutta la
perversione di cui i ragazzini di oggi sono testimoni... ma forse
è
soltanto la dimostrazione che quelli nati prima di loro hanno
sbagliato tutto.
-E a loro, ovviamente, dà fastidio vederselo
sbattere in faccia.
-Già. Chi non si sente in colpa, pensa che ha
un problema. Chi ci si sente, invece, pensa che sia
un problema.
-E tu? Tu che ne pensi?
-Un misto tra i
due.
Camilla sorrise in modo strano, assottigliò gli occhi.
-La
via di mezzo è per i mediocri. E non è una
risposta. Cosa pensi che
la spinga a fare certe cose?
Emanuele abbassò gli occhi sul
piatto. Diede la prima risposta che gli veniva in mente.
-I sedici
anni – disse – e tutto quello che
quell'età si porta
dietro.
-Mh. Non sono d'accordo. Ma ne riparleremo, ok, amore?
Adesso mangia tranquillo e poi concentriamoci su noi due.
-Amore,
se non gli porto quei compiti domani mi squartano e mi danno in pasto
ai dobermann della casa a fianco...
-Poi ti aiuto io a
correggerli. Lo sai che sono più brava di te.
-Sì... tu sei
intelligente. E hai delle idee chiare. E in generale sei molto
più
forte e capace di me.
Camilla sorrise e gli fece una carezza sulla
guancia.
-No, sai... - proseguì Emanuele – a volte qualcuno
o
qualcosa mi ricorda che dovremmo ritenerci fortunati ad avere
qualcuno a fianco. Qualcuno che ci piace... non qualcuno che ci ama;
qualcuno che ci piace.
Lei
non gli lasciò finire la pastasciutta. Gli si sedette a
cavalcioni e
un paio d'ore dopo correggevano i compiti assieme, alla debole luce
verde di una lampadina comprata assieme all'Ikea tanto tempo
prima.
Quella notte si addormentò come un bambino,
perché la
felicità gli era dilagata dentro come una macchia d'acqua
che gli
rilassava le spalle, il viso, lo stomaco. Come fosse stata acqua la
assorbì e la mattina dopo fece il viaggio in treno col un
dolce
sorriso sul volto, il sorriso di chi in qualche modo aveva conosciuto
l'amore.
(Nda: ok, questa storia sta
abbastanza prendendo il via. Mi piace molto scriverla e sono contenta
che sia piaciuta anche a qualcun altro, aw X3 grazie per i commenti
dolcissimi di Dance of Death e Diletta, troppo carine ^-^; colgo
l'occasione per ringraziare Pnin che mi aveva recensito un altro
racconto e per informarla che il mio cervello è grande come
un acino d'uva e per lo più inutilizzato *qua ci sta faccina
che annuisce* e che ci sono autori moooolto più fighi di me
in giro, anche in EFP... sono lusingata dai complimenti ma sono
immeritatisssssimi .//.''.
E con ciò vi saluto; torno alla stesura del 4°
capitolo :) come sempre, fatemi sapere com'era, che ho bisogno di
tastare il polso dell'opinione pubblica è_é
è un pezzo che non scrivo nulla di originale... ;_;
Buon fine a tutti ^o^!
The Corpse Bride/Arianna) |
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo
3
-Ecco qui il risultato della vostra sconfinata passione per la
Divina Commedia –
esordì la mattina dopo – qualcuno li consegni, io
non voglio
tenerli in mano più dello stretto necessario, urgh.
Li mollò sul
tavolo e una ragazza fece per alzarsi, ma un suo compagno, al secolo
Federico Cappelletto, detto Cappellotto, intervenne con un
ghigno:
-Prof, li può consegnare la Ferreri?
'La Ferreri' in
quel momento stava guardando distrattamente fuori dalla finestra,
dondolando una penna tra l'indice e il medio. Quando sentì
il suo
nome, si voltò immediatamente.
-Perché, Federico? - domandò
paziente Emanuele – Cosa c'è che non va se le
consegna
Francesca?
-Eh, c'è che senza offesa, Fra, ma tu non hai né
le
minigonne né il culo della Ferreri.
-Signor Cappelletto, le
dispiace tenere un registro un pelo più formale quando si
trova in
classe e di fronte a un professore? Perché mi farebbe girare
un
pelino il cazzo se lei perpetrasse l'utilizzo di determinati
termini.
-Ma prof, lei ha appena...
-Sì, appunto. Facciamo
tutti fatica a
trattenerci. Io faccio lo sforzo e quindi lo fai anche tu, e che
cazzo; cos'è, hai più diritti di me?
Cappelletto sembrò
convinto al riguardo del registro, ma aveva ancora voglia di guardare
il fondoschiena di Bianca. Perciò ritentò.
-Allora: siccome il
sottocoda della signorina Ferreri mi risulta più gradito
rispetto a
quello della signorina Giraldi, sarebbe possibile...
-... scusami,
Federico...
-Eh.
-Ma il sottocoda...?
-Eh, è il culo! L'ho
imparato ieri sera a Passaparola,
hanno detto che il 'boccone del prete' è il 'sottocoda'.
È giusto,
prof!
-È giusto se parli di un pollo, non se parli di una
ragazza. Per cui, finché non sarai in grado di fare
formalmente
richiesta di una visione approfondita della parte in questione, la
signorina Ferreri rimarrà seduta al suo posto. Tra
parentesi, non
fare il pirla, Federico, non è educazione dire cose del
genere.
Non
fece in tempo a finire di dirlo che, voltandosi, notò la
signorina
Ferreri intenta a succhiare il tappo della penna con uno sguardo
decisamente equivocabile, facendo un occhiolino in direzione di
Federico Cappelletto, detto Cappellotto.
-Quando mi fai vedere
il tuo cappellotto? - la sentì mormorare nella direzione del
suo
compagno.
-Madamigella, se permette, sarei felice di proseguire
nella mia lezione senza che ulteriori proposte poco dignitose
aleggino nell'aria.
-Ok, allora possiamo andare in bagno,
prof?
-Bianca, non testare i limiti della mia pazienza. È una
quantità finita, te l'assicuro; se proprio insisti nel
volerlo
scoprire a spese tue, ottimo, poi però non piagnucolare 'lei
è
cattivo come tutti gli altri', ok?
-Ok, prof. Adesso sto
buona.
-Anch'io sto buono, prof, scusi. Glielo guardo dopo, il
sottocoda.
-Spero per te che Bianca non abbia una coda, Federico.
E adesso per favore andiamo avanti col canto quinto...
Era
difficile tenere testa a una classe. I pericoli erano molteplici:
innanzitutto, non si poteva piacere a tutti. Mai e poi mai. Anche
cercando di spiegare in modo vivace, di parlare come loro, di non
alzare mai la voce e di essere più permissivo sulla linea di
condotta, c'era sempre chi disprezzava il prof che faceva l'amicone,
e c'era sempre chi, dall'altro lato, cercava invece di
approfittarsene. Accontentare chi non voleva un amicone e tenere a
bada chi l'avrebbe voluto come un amico a tutti gli effetti era
decisamente difficile, anche senza contare la difficoltà in
sé di
spiegare un testo tanto arduo a una classe di sedicenni, mantenendo
il loro interesse, la loro attenzione e le loro simpatie, a livello
costante, senza mai sbagliare perché altrimenti sarebbe
caduto in
disgrazia.
Le cose erano due, quand'eri insegnante: o te ne
fregavi di piacergli e pensavi alla tua vita, e allora era certo che
gli saresti stato antipatico; oppure la prendevi a cuore e finivi col
cercare di compiacerli, cosa che Emanuele cercava costantemente e
disperatamente di evitare; e che, in ogni caso, non assicurava niente
a nessuno.
Ogni tanto si chiedeva chi gliel'avesse fatto
fare.
Gestirli singolarmente o a gruppetti non era difficile, ma
non si poteva riunire una ventina di sedicenni che per giunta erano
lì controvoglia e pretendere non solo che ascoltassero quasi
ininterrottamente per cinque ore, ma addirittura che si
interessassero alle materie. Non che facessero finta d'interessarsene
o che si limitassero a non fare rumore: no, che se ne
interessassero.
Li
capiva profondamente e proprio per questo, da giovane, aveva deciso
di fare l'insegnante; per interessarli davvero alla
materia. Ma poi aveva capito che non era questione di approccio, il
quale poteva anche piacere e guadagnargli un silenzio di un quarto
d'ora per simpatia: il punto era che a loro quella roba non andava
giù, e che, per quanto fossero affezionati a lui, non
riuscivano a
trattenersi dal pensare a tutt'altre cose.
Li capiva ed era
tentato di giustificarli; a che titolo dunque pretendeva piena
attenzione verso le sue parole? L'attenzione andava guadagnata e, se
lui forse ne era stato in grado, Dante Alighieri assolutamente no. Si
sentiva sempre in colpa quando li obbligava a mantenere il completo
silenzio durante la lettura di un testo noiosissimo; più
passava il
tempo, più si chiedeva perché avesse scelto di
fare l'insegnante,
cosa che idealmente, in effetti, andava contro a tutti questi
fondamentali principi.
E, certo, qualche volta aveva fantasticato
di portarsi in ufficio una bella diciottenne disinibita, ma,
purtroppo, nella dura realtà non aveva nemmeno un ufficio
dove
portarle, le belle diciottenni disinibite. E l'unica che fosse
veramente disposta a fare certe cose con lui aveva sedici anni, e,
per quanto fosse disinibita, di certo non si poteva definire'
bella'.
Forse un giorno sarebbe stata 'bella'; per ora era solo
carina e volgare. Sembrava un bel giardino di fiori lasciato incolto
per anni e anni e anni.
-Allora, prof, ieri ha dovuto correggere i
compiti fino a tardi?
-Eh già. Molto, molto tardi.
-Aah!
Allora il tempo per la Camilla l'ha trovato. È per me che
non ha mai
tempo, eh? Devo correggere, devo ricevere, devo parlare coi My Mini
Pony volanti qui fuori dalla finestra...
-Sai com'è, Camilla è
la mia fidanzata, tu sei una mia alunna rompiscatole...
-Dica pure
scassacazzo, sa, lo so che distruggo i coglioni. Non mi offendo
mica.
-Non ho paura di offenderti, Bianca, ma solo di sembrare
triviale. È una paura che dovresti avere anche tu.
-Mah, io so di
non essere triviale. Per questo mi permetto di comportarmi come se lo
fossi. In caso di necessità, so che potrei presentarmi
davanti alla
Regina Madre e farle fare una figura da bifolca.
-Vestita così,
non credo.
-Ma no, prof, non vestita così. Be', in effetti
sarebbe il top se andassi lì vestita così e le
tenessi un'orazione
in un perfetto inglese davanti alla quale perfino lei dovrebbe
ammettere che ha ancora molto da imparare.
-Bianca, non dico
molto, ma qualcosa ce l'hai anche tu da imparare da lei.
-Cosa?
-Un
po' di eleganza e sobrietà nel vestire, tanto per dirne una.
-Da
chi,
scusi? -
strabuzzò gli occhi – Dalla Regina Madre? Con quei
cappellini? Con
quei vestitini viola...? Ma, al di là di tutto... imparare a
vestirsi da un'inglese?!
Emanuele
scosse la testa e sospirò. A volte avrebbe preferito fare il
casalingo e guardare Incantesimo
e badare solo ai suoi, di bambini.
-Va bene, Bianca, hai vinto tu.
Hai ragione. Adesso però puoi tornare in classe?
-Bah, prof, non
non è che interessasse vincere. Volevo solo chiacchierare un
po' con
lei.
-Dì, ma non puoi chiacchierare coi tuoi compagni?
-Ah,
sa, con loro non chiacchiero molto. Sono più una tipa
d'azione, non
so se mi spiego.
-E le tue compagne?
-Non mi parlano. Ma vabbè.
Io ho una mia vita.
-Certo. E questa vita extrascolastica è così
soddisfacente che ti fa passare sopra al fatto che tutti ti
considerano una troia, al di là di come reagiscono alla
cosa?
-Prego...?
-Le ragazze ti odiano e i ragazzi ti usano, ma
tutti loro ti considerano una troia. Ti spiace se parlo chiaro?
Pensano che tu sia facile, Bianca, se questo termine ti è
più
congeniale.
Bianca alzò le spalle e levò gli occhi al
cielo.
-Sì, lo so – rispose, guardando il soffitto senza
scomporsi.
-E le cose che fai nel tempo libero ti fanno
dimenticare di avere una reputazione del genere?
-Sì, prof. Il
sesso tiene enormemente impegnati. È l'unica cosa che ti
impedisce
del tutto di pensare per un discreto periodo di tempo; oddio, poi
dipende da con chi lo fai, perché con certi mi metto a
pensare
all'ultimo articolo dell'Internazionale sul riscaldamento globale, ma
in generale è un buon passatempo, glielo garantisco.
-Sì,
Bianca, grazie della preziosa lezione di vita. Mi rivolgerò
a te
quando avrò dei dubbi su come gestire la mia vita sessuale.
-Scusi,
non volevo essere saccente. È che credo di aver fatto
più
esperienze di... più o meno tutti quelli che
conosco.
-Bianca.
-Sì?
Si tolse gli occhiali lentamente,
poi la guardò negli occhi.
-Perché mi dici queste cose?
Lei
tacque per un istante; poi si fece pensosa, poi lo guardò
con aria
perplessa.
-Sa che non lo so? A qualcuno devo pur dirle, credo.
Lei mi dà l'idea di uno che mi ascolterebbe.
-E se io non volessi
ascoltare tutte le tue porcherie?
-Oh – arrossì – allora me
lo dica subito, non volevo essere inopportuna. Pensi sempre che gli
altri siano sempre lì in attesa di sapere gli affari tuoi...
mi
scusi davvero. Giuro che non gliene parlo più.
-Ma no, Bianca,
parlamene quando vuoi. Vorrei solo che mi parlassi di cose
più
allegre.
-Allegre? Faccio sesso in continuazione, che c'è di
più gaio? E poi io
non sono mica una musona. Come Valeria, sempre lì con quelle
croci e
vestita di nero a disegnare le donnine sanguinanti.
-Nero o non nero, Valeria mi
sembra più felice di vivere, rispetto a te.
-Mbah.
Ci fu un momento di silenzio.
-Ma io non le
piaccio proprio?
-E daje...
-Ma ho due belle tette.
-Ok.
-E
Cappellotto ha detto che ho un bel culo.
-Perdonami, ma parliamo
appunto di Cappelletto...
-E non peserò più di cinquanta chili e
non sono né troppo alta né troppo bassa!
-Sono certo che sia
un'ottima cosa.
-Ah! È la faccia? Sono una di quelle che vanno
bene di fisico ma hanno una brutta faccia? A me la mia faccia sembra
normale.
-La tua faccia non ha nulla che non va.
-E
allora?
-Hai sedici anni.
-Uuuh! Ma allora è solo questo! Cioè
ho sedici anni ma se ne avessi diciotto un pensierino se lo farebbe!
Anzi... magari se lo fa già, il pensierino, ma siccome ho
solo
sedici anni è costretto a relegarlo al rango di pensierino!
Ho
capito, prof, ho capito. Be', senta, legalmente non fa niente di
male. Se non le va di farlo a scuola la capisco, non voglio metterla
nei guai, possiamo...
-Bianca, piantala.
-Ma potremmo...
-Anche
se parli ininterrottamente per sei ore, prima o poi sarai costretta
ad interromperti e a lasciarmi dire che non mi interessi, e che non
è
l'età il freno che ti separa da me.
-... ma allora c'è un freno,
no? Altrimenti lei andrebbe dritto a chiodo! Be', mi dica qual
è
questo freno, allora, e vediamo di fare in modo di toglierlo.
-Il
mio freno si chiama 'Camilla', e mi sembrava di avertelo
detto.
-Aaah, la fidanzata ufficiale... be', sì, è un
buon
motivo. Ma io non voglio mica che la lasci per me, figurarsi se un
uomo rinuncerebbe mai alla sua scelta solida e sicura. No, no. Mi
accontento di un po' di sesso e qualche coccola ogni tanto se ha
voglia di farmela. Sennò anche niente coccole, tanto sono
inutili.
-Sei più cinica di una zitellaccia gattara di
settantacinque anni.
-Ha! Cos'è questa discriminazione verso le
povere zitellacce, le povere gattare e le povere settantacinquenni?
Mia nonna ha più di settantacinque anni, vive da sola coi
gatti ed è
la signora più buona del mondo.
-E com'è che sua nipote è la
ragazza più problematica della scuola?
-Macché problematica,
siete voi che ve li fate, i problemi. Ah, a proposito di farsi i
problemi! Tenta di farmi cambiare discorso, eh? Dicevamo della
fidanzata. Ah, sì, ecco cosa dicevamo! Che a me va bene che
lei
rimanga con la sua amata Camilla e che la sposi e che abbiate tanti
bei bambini, e gne gne gne. Però per una volta, per una
soltanto...
me la dà questa soddisfazione?
-Ma cos'è, Bianca, devi mettere
il tuo timbro su ogni essere con le mutande pesanti che capita
davanti ai tuoi occhi?
-No, prof. Ma lei non potrebbe mai
innamorarsi di me, quindi le chiedo quello che forse le è
più
facile darmi.
-Non mi va.
-Ok.
Bianca balzò giù dalla
sedia e si avviò verso la porta.
-Arrivederci – si girò
sull'uscio e lo salutò con la mano, con aria tranquilla.
Ricambiò
e rimase fermo dov'era per qualche minuto, con la cocente sensazione
di trovarsi in un vicolo dal quale sarebbe stato molto arduo
venire fuori.
-Ancora Bianca, eh?
Camilla gli massaggiava
le tempie e aveva chinato la testa per guardarlo negli occhi.
-Ancora
Bianca - confermò. - Ormai inizio a pensare che sia un
trailer dell'inferno che mi
ha inviato Dio per avvertirmi di cosa mi aspetta.
-Mi dispiace,
amore. Vorrei tanto conoscerla, questa ragazzina.
-Perché, credi
di poter fare qualcosa per lei? Tutti vorrebbero essere il suo
salvatore o il suo giustiziere, ma lei non te lo permette in nessun
modo. È sfuggente. È incomprensibile, non
è niente che tu abbia
letto nella collana TEA di esperienze di vita vissuta.
-Non volevo fare la Torey Hayden dei poveri –
s'imbronciò Camilla – è solo che
mi hai incuriosita, nient'altro.
-Ha incuriosito più o meno
tutti. Penso che lei voglia
incuriosirci, ma che in realtà non voglia dirci
assolutamente
niente.
-Mi fa pensare che abbia un segreto che inizialmente
vorrebbe rivelare, ma poi, quando si arriva troppo in là,
scopre di
non volerlo rivelare davvero. Oppure, forse, non può.
-Non
esageriamo.
-Non voglio fare la Torey Hayden, lo ripeto. Ma
promettimi che scaverai più a fondo.
-Fosse per me, anzi, per me
e tutti i miei colleghi e tutti i miei alunni, vorremmo esserci
già
arrivati, al fondo. Vorremmo capire. Ma, più che altro,
ammetto che
vorremmo soltanto che smettesse. Non è molto nobile.
-Però è normale, amore. Non fartene
una colpa; abbiamo tutti così tante cose a cui pensare,
è normale
avere più voglia di semplificarci la vita che di
complicarcela.
Emanuele sospirò e l'abbracciò.
-Grazie.
Quando sono con quella ragazzina, perdo di vista anche la logica. Mi
spiazza. Pensi di capirlo, un sedicenne, di ricordarti com'era a
sedici anni, ma la verità è che noi eravamo
diversi da come sono
loro adesso.
-Piuttosto, stando a quanto ho capito, è lei
che
è diversa da chiunque. Da noi, e anche da loro. È
una
caratteristica dei ragazzi problematici; danno problemi. Non sentirti
mai incapace per colpa sua. Tu sei solo un insegnante.
-Non
solo... - mormorò – non solo. È in
corso una diatriba tra noi
colleghi, al riguardo. Siamo solo insegnanti? Siamo anche degli
amici? E magari un po' psicologi? Non so mai che posizione
prendere.
Lei si alzò, l'abbracciò, gli posò la
testa sul suo
seno e gli baciò i capelli bianchi. Avevano iniziato a
ingrigirsi a
sedici anni e, ora che ne aveva ventinove, la sua sembrava la testa
di un cinquantenne.
Bianca una volta gli aveva detto che quella
caratteristica era affascinante e speciale. Lui pensava semplicemente
che il fatto di essere un bell'uomo l'aveva salvato da una condanna a
vita.
-Cosa devo fare, io? - gemette, sfiduciato – Non ho
nemmeno l'età per essere suo padre. Potrei essere suo
fratello
maggiore. Non so nemmeno io come mi devo comportare con la gente, e
dovrei insegnarlo a lei...? Dove sono i suoi genitori, in tutto
questo? Perché fanno fare il lavoro duro a me...?
Camilla
gli accarezzò e baciò i capelli per un po'. Dopo
qualche minuto,
riprese la parola.
-Beh – suggerì – fai in modo di
incontrarli, questi genitori. No? Chiamali, chiedi loro un
appuntamento. Parlaci. E se vedi che è il caso, ripetigli
ciò che
hai detto a me.
-Cosa, che non so gestire una ragazzina di sedici
anni?
-No, che non possono mandarti il diavolo della Tazmania in
classe e pretendere che sia tu a crescerla al posto loro. Essere un
insegnante comprensivo è giusto, accollarsi la
responsabilità di una persona che sta diventando adulta nel
modo
sbagliato non è giusto per niente. Diglielo. Glielo dico io,
se vuoi
– aggiunse combattiva.
Il giorno dopo, chiese alla segreteria il
numero di telefono e si ripropose, non appena fosse stato fuori dalla
portata di Bianca, di chiamare a casa sua e fissare quel dannato
appuntamento.
(Nda: ecco, questo è
più o meno quanto accade in classe quando c'è
Bianca. Cioè quasi ogni giorno. E questo è anche
il dramma umano di un insegnante davanti a un caso quasi disperato XD e
in generale davanti a una terza liceo.
Sono contenta di come mi sta venendo Camilla, dolce ma forte proprio
come la volevo io. E sono anche fiera di come mi sta uscendo Bianca;
è proprio come me la figuravo nelle mie idee iniziali,
sapete, quei trip sulla storia che ti fai poco prima della stesura.
Ad ogni modo!
Grazie a tutti per le recensioni - CTA, cioè Kalos, l'ho
già ringraziata, ma non fa male ripetere - perché
più ne ricevo più ho voglia di continuare *O*.
Fatevi sentire, mi raccomando è_é.
Al prossimo capitolo ^_^!)
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Nel
comporre il numero dal telefono della segreteria il cuore gli aveva
battuto fortissimo. Non sapeva spiegarselo; forse perché
stava
parlando coi due misteriosi individui che avevano dato vita a Bianca
e che, non si capiva perché, ora non erano in grado di
tenerla a
bada.
-Pronto? - rispose una voce femminile alquanto
affannata.
-Pronto? Buongiorno, parlo con la famiglia
Ferreri?
-Sì. Con chi parlo?
-Salve, mi scusi, sono un
insegnante di Bianca, professor Vettorel.
-Mmh... ah, sì, di
italiano e storia, vero? - dopo aver detto questo, la sentì
mormorare – No, un attimo, sono al telefono... firmo tra un
minuto.
- Poi riprese a tono normale. - Mi scusi. Dicevamo?
-No, di nulla.
Comunque sì, sono il professore di italiano e storia. L'ho
chiamata
per fare una chiacchierata al riguardo di Bianca. Per caso ha tempo
in settimana...?
-Tempo... oddio, vedrò di fare il possibile. Ma
perché? Ha fatto qualcosa che non va?
-No, no, nulla – mentì –
è solo che vi abbiamo visti poco ai ricevimenti, lei e suo
marito, e
quindi mi farebbe piacere incontrarvi. Personalmente, nel mio ruolo,
ritengo molto importante l'instaurazione di un dialogo tra il docente
e la famiglia... e se lei è d'accordo sarei felice di
parlare un po'
con lei di sua figlia, per arrivare a conoscerla un po' meglio
entrambi.
Se l'era preparato, quel discorsetto. Calibrato in ogni
sillaba per non sbilanciarsi in alcun modo.
-Beh, un paio d'ore
dovrei riuscire a trovarle... di mattina? Mi scusi –
tornò a
mormorare – intanto fammi le fotocopie di questi fascicoli.
Fronte
retro. Sì. - Di nuovo, tornò alla loro
conversazione. - Di mattina,
mi scusi?
-Sì, ricevo di mattina. Mercoledì alle
undici.
-Mercoledì alle undici... sì, dovrei riuscire a
tornare
al lavoro nel pomeriggio. D'accordo, allora, mercoledì alle
undici
sono da lei.
-L'aula ricevimento è subito a destra del
portone.
-Sì, perfetto. Ma siamo sicuri che è tutto a
posto...?
-Certo, signora, a postissimo. È solo che è mia
politica personale parlare con i genitori quanto più spesso
possibile, perché trovo fondamentale tener presente quello
che è il
background domestico
dei nostri alunni individualmente.
-Certo. Certo. Guardi, mi scusi
ma devo salutarla, ho gente in ufficio e non posso proprio rimanere
al telefono...
-Ci mancherebbe, anzi, mi scusi lei del disturbo.
Buona giornata e arrivederla.
-A lei, arrivederci – fece la
signora, cortesemente, prima di riagganciare.
-Allora? -
esordì Camilla quando tornò a casa la sera, con
aria vittoriosa –
Abbiamo trovato il coraggio per affrontare questi mostri
leggendari?
-Lascia stare, va', che ero emozionato come al nostro
primo appuntamento. Fa strano parlare con due persone che ti eri
immaginato più o meno come la nonnina di Hansel e Gretel.
-Hai
parlato con entrambi?
-No, solo con la madre, in realtà. Pensa:
ha dato alla scuola il numero dell'ufficio, anziché quello
di
casa.
-Evidentemente la mattina lavora, come tutti i comuni
mortali.
-Ma se la scuola avesse bisogno di lei di pomeriggio? Può
capitare, sai. E comunque era tutta di fretta, continuava a parlare
coi suoi colleghi...
-Tu ti stai già lanciando a cento all'ora
verso uno stereotipo. Aspetta di parlarci, con questa persona; poi
tirerai le tue somme.
-A volte penso che dovresti farlo tu questo
lavoro, al posto mio.
-Ma no, è solo che io guardo il tutto con
occhio esterno mentre tu ci sei in mezzo fino al collo. Se il mio
lavoro dipendesse da gente come Bianca e Cappelletto, sarei
già
scappata a gambe levate.
-Sapessi quante volte sono tentato.
-Lo
so, amore. Ti vedo, quando torni con gli occhi rossi, o con la vena
sulla fronte che pulsa, o quando sospiri un po' troppo per essere
solo 'stanco'.
-Per fortuna ho te – chiuse gli occhi, si
aggrappò all'esile busto della sua fidanzata – per
fortuna, per
fortuna oltre a Bianca il Signore mi ha mandato anche te.
Camilla
non disse nulla, ma Emanuele sapeva che stava sorridendo. E poi gli
venne in mente che Camilla sorrideva sempre mentre lui, da qualche
mese a questa parte, non faceva che lamentarsi di quella manica di
bambinetti maleducati.
-Cami – mormorò – tutto bene tu, al
lavoro?
-Certo, tutto bene. Lo sai che noi impiegati della
pubblica amministrazione non facciamo niente tutto il giorno.
Lo
disse sorridendo, ed Emanuele sapeva che comunque lei non era tipo da
fare sarcasmo. Scherzava, al massimo, ma non si permetteva mai di
usare il sarcasmo.
-Scherzi a parte, come va con quella là...
come si chiamava... la Milanesi?
-Oh, quella. Be', si schivano i
colpi come si può – sorrise.
La Milanesi
era la responsabile del settore in cui Camilla lavorava come
dipendente; era famosa per essere dura, velenosa, esigente e spesso
sgarbata nel rivolgersi ai suoi sottoposti. Almeno, così
gliel'aveva
sempre presentata.
-Cos'ha combinato, stavolta, quella vipera?
-Ma
niente, è che ha un modo di rivolgersi a te.... di dare
ordini senza
chiedere mai 'per favore'... poi la senti parlare dei colleghi con un
tale scherno. Dubito che abbia qualcosa da ridire su di me, ma
è
talmente velenosa che mi chiedo sempre cosa stia dicendo alle mie
spalle con qualcun altro. Mi mette soggezione... hai presente Miranda
Priestly?
-Purtroppo sì. Grazie a te.
-Ecco. Solo più magra e più
nevrotica.
-Dio mio . Dovremmo mettere Bianca in ufficio con lei,
magari è la volta buona che qualcuno le dà una
regolata.
-Che
idea! Forse, così, si eliminerebbero l'una con l'altra e
avremmo
risolto tutti i nostri problemi.
Emanuele sorrise e si avvicinò a
Camilla, senza dirle, perché non ne aveva il coraggio, che
ogni
giorno si chiedeva cos'avesse fatto di tanto meraviglioso da
meritarsi lei.
E
che avrebbe sopportato tutte le Bianche e i Cappelletti del mondo,
pur di poter rimanere ancora a lungo al suo fianco.
Dovette
aspettare quasi una settimana prima di poter vedere la madre di
Bianca; Bianca la vide soltanto il giorno successivo alla telefonata,
ma poi rimase assente anche dopo il weekend. Era curioso sia di
conoscere la madre, sia di avere notizie sulla figlia; perfino sabato
sera non era riuscito a godersi la compagnia per l'eccitazione dovuta
al prossimo incontro.
Finalmente arrivò mercoledì, e alle undici
meno cinque aveva già preso il caffè, mangiato il
Kit Kat e
sistemato le carte nella ventiquattrore. Si appostò perfino
in
atrio, davanti all'entrata, per sincerarsi che la signora non
sbagliasse aula; era preparato ad aspettare almeno una decina di
minuti, ma la donna si presentò puntualissima, anzi, con
cinque
minuti di anticipo.
Era di statura medio-bassa, come Bianca,
magrissima, cosa che Bianca non era, e con un caschetto di capelli
biondi freschi di parrucchiere, all'opposto di quelli di Bianca.
Quando si tolse gli enormi occhiali da sole di Chanel notò
due
piccoli occhi azzurro ghiaccio puntati a intermittenza ora sugli
alunni, ora sul bidello, ora su di lui.
-Buongiorno, professore –
gli sorrise cordialmente – Sono in ritardo?
-Anzi, è in
anticipo, si accomodi.
-Oddio, l'ho disturbata? Mi scusi, forse
aveva da fare...
-Ma si figuri, è ricreazione. Prego, questa è
la sala insegnanti.
-Grazie.
Per ora sembrava normale, pensò
Emanuele. Anzi, era molto gentile. Anche se aveva uno sguardo e una
falcata che lo mettevano un po' in soggezione.
-Prego, si sieda
pure.
-Grazie.
Si sorrisero a vicenda. Fu Emanuele a riprendere
la parola, davanti alla sfumatura vagamente ansiosa che vide negli
occhi della donna.
-Innanzitutto, mi voglio presentare di persona:
Emanuele Vettorel, piacere di conoscerla.
-Piacere mio – replicò
con calore la signora, stringendogli lievemente la mano. Quella di
lei era fredda e sottilissima.
-Mi scusi se le ho rubato del
tempo, mi rendo conto che i genitori devono lavorare e che spesso
purtroppo non hanno la possibilità di intervenire in questi
incontri. Il fatto è che sono arrivato in questa scuola a
settembre
e ho bisogno di conoscere al meglio e quanto prima i ragazzi, e
naturalmente è necessaria la collaborazione del genitore al
fine
della massima resa scolastica dell'alunno.
-Certo – mormorò la
signora, riponendo la custodia degli occhiali nella borsa di Vuitton
con un gesto veloce.
-E quindi... - si sentiva un po' a disagio,
perché quella donne lo stava guardando un po' troppo
intensamente.
Stava giusto iniziando a sentire caldo, quando lei spalancò
gli
occhi ed esclamò:
-Ma... mi scusi, io ho l'impressione di averla
già vista. È possibile che ci siamo
già parlati?
-Non credo. Io
sono arrivato qui quest'anno, e appunto l'ho chiamata perché
non
l'avevo ancora vista.
-Capisco... mi scusi ancora. Mi dica,
professore. Bianca ha fatto qualcosa che non va?
Così però lo
metteva alle strette. 'No', sarebbe stato una bugia, e oltretutto ci
sarebbe stato da chiedersi perché mai l'aveva chiamata fin
lì. Ma
'sì' avrebbe messo decisamente nei guai Bianca,
perché, a quanto
pareva, sua madre pareva essere totalmente all'oscuro del
comportamento scandaloso che sua figlia teneva a scuola. Altrimenti
non avrebbe chiesto se qualcosa non andava; avrebbe chiesto per
favore di non espellerla ché loro, come famiglia, ce la
stavano
mettendo proprio tutta.
-Bianca è una ragazza molto intelligente
– esordì, cautamente – ha i voti
più alti della classe, e
oserei dire dell'intero istituto. Non è solo studiosa; ha
proprio
una bella testa.
-Ah, guardi, Bianca non è per niente
studiosa – replicò la signora con un sospiro
– è sempre in giro
con le sue amiche, il pomeriggio, poi rimane a dormire lì...
chissà
se studiano, queste ragazze. Secondo me, no. Infatti pensavo mi
avesse chiamata perché aveva avuto un calo di voti, o
qualcosa del
genere...
-No, niente di tutto questo – si affrettò a
precisare
Emanuele; ma poi pensò, che altro posso dirle, allora? Tua
figlia non va dalle amiche, va dagli amici, e non sono neanche
propriamente amici perché mi sembra che ad oggi li chiamino
'trombamici'; e quando dorme fuori non dorme dall'Anna e dalla
MariaElena, ma da uomini che ha potenzialmente conosciuto il giorno
stesso e dei quali il giorno dopo si è prontamente
dimenticata?
Era chiaro che la famiglia non sapeva assolutamente niente. Ma
dovevano pur essersene accorti, da qualche cosa. - Ecco, si tratta
della questione abbigliamento, in realtà. Vede, noi
colleghi...
-Mi
scusi? - la donna sbarrò gli occhi, stralunata –
Le abbiamo detto
milioni di volte di tenere un abbigliamento sobrio, in classe. Quando
abbiamo visto che iniziava a mettersi gonnelline o ad andare in giro
con la vita troppo bassa, l'abbiamo rimproverata molto. Mi sembrava
però che ultimamente fosse sempre uscita in jeans e
maglietta... no?
Il problema dovrebbe essere risolto.
-Ecco... - Emanuele iniziava
davvero a sudare. Dove si cambiava, Bianca? Quando? E, soprattutto,
perché? - ecco, il
problema è risolto, sì. Solo che avevamo notato
che appunto ha
avuto un periodo un po' così... e... ecco, volevo
domandarle, dato
che sono arrivato quest'anno, quando Bianca ha avuto questo
cambiamento...
-Oh. Beh, Bianca ha iniziato a fare un po' la
stupidina quando aveva dodici anni. Magliettine scollate, poi voleva
tenere i capelli lunghi e stava sempre lì a spazzolarseli,
poi le è
venuta la mania di truccarsi... sa, è l'età. Poi
ha sempre
continuato su questa strada, ma noi le abbiamo sempre detto: quando
esci la sera puoi metterti certe cose, con moderazione, ma a scuola e
a casa e da qualsiasi altra parte devi vestirti come si deve. E alla
fine ci ha dato ascolto – concluse con evidente soddisfazione.
-Un
po' tutte le ragazzine a quell'età iniziano ad avere certi
pensieri
– incominciò – sa, i ragazzi, i
coetanei, al liceo anche ragazzi
più grandi...
-Non me lo dica. Purtroppo lo so che lo fa per
attirare l'attenzione. È sempre scollacciata,
alle volte sembra proprio che non abbia pudore. - Colse una smorfia
sulle labbra sottilissime della donna. - Poi quei capelli rossi...
non le dico cosa mi sembra. Ma non vuole sentire storie.
Così
abbiamo stabilito che deve tener sempre la coda o la cipolla. Eh, mi
rendo conto che non è adatto a una ragazzina della sua
età,
specialmente tingersi i capelli... ma cosa vuole che faccia?
Dopotutto è una brava ragazzina, prende voti alti, frequenta
delle
ragazze a posto, non mi dà problemi... qualche capriccetto
bisogna
concederglielo, purtroppo.
-Come no – Emanuele prese tempo –
sono così giovani. Ma mi dica, si è ammalata,
Bianca? È da un po'
di giorni che non la vedo a scuola.
-Più o meno... una cosa del
genere. È molto stanca, dev'essere stressata, sa, i compiti,
le
verifiche, le interrogazioni...
-Certo. Capisco. Ha bisogno che le
comunichi i compiti per la settimana prossima?
-Sì, guardi, mi
farebbe un gran favore. Bianca è talmente pigra, fosse per
lei non
chiederebbe mai niente a nessuno, devo sempre ricordarglielo io...
poi chissà se lo fa sul serio...
-Bianca è brava. Non la
troviamo mai impreparata su nessuna materia.
-Oh, sì, lo so che è
brava. È sempre stata bravissima, anche se non dovrei dire
io queste
cose, dato che sono la sua mamma.
-Se mi dà un attimo vado a
prendere il registro e un foglio, e le ricopio i compiti per i
prossimi giorni.
-Lei è troppo gentile. Dirò a Bianca di darsi
una mossa, ché non è giusto che sia lei, con
quello che ha da
fare... quella pigrona.
Colse
un altro sguardo piuttosto seccato; disgustato, quasi. Ma non
poté
esserne certo perché doveva correre al piano di sopra a
recuperare
il registro della terza A.
Quando tornò, la signora lo guardava
con due occhi che brillavano.
-Mi sono ricordata chi è lei –
esordì con brio – l'ho vista sulla scrivania di
una mia
dipendente. Ha incorniciato una vostra foto e la tiene di fianco al
computer... lei è il fidanzato di Camilla, sbaglio?
Emanuele posò
il registro sul tavolo e si sedette di colpo, prima di collassare
dritto di faccia sulla borsetta di Vuitton.
-Non ci credo. Mi
prendi in giro.
-No, Cami – gemette, battendo ripetutamente la
fronte sul tavolo – era lei. Miranda Priestly in persona. Mi
ha
riconosciuto dalla foto
sulla tua scrivania.
-Non ci posso credere. Non ci voglio
credere. Noi lì che scherzavamo di metterle nella stessa
stanza...
-... e invece convivono ventiquattr'ore al giorno da
sedici anni nella stessa casa!
-E per di più Miranda non sa
assolutamente niente della reputazione di sua figlia.
-Non
parlarmene! Grazie al cielo Bianca è assente, altrimenti sai
cosa
sarebbe successo se si fossero incontrate?
-Non so cosa sarebbe
capace di farle, la Milanesi. Non posso crederci. Lei tutta composta
e perfetta che tratta tutti con superiorità... e non sa che
sua
figlia è... è...
-Il buco comune di Padova – concluse
tranquillamente Emanuele – perché questo
è, a conti fatti.
-Che
famiglia... - mormorò Camilla – che brutto. Anzi.
Che triste.
-Non
riesco a capirla – buttò lì Emanuele,
gettandosi sul divano con
le braccia incrociate dietro la nuca – non capisco se le vuol
bene
o se la disprezza.
-O forse sono tutte e due le cose.
-Com'è
possibile?
-Forse Bianca l'ha delusa.
Probabile. Bianca non era
di certo una ragazza semplice da gestire. Non dubitava che non
dovesse essere una passeggiata tirarla su, ma, d'altra parte, se la
sentiva di essere leale nei suoi confronti.
-Non credo. Bianca è
strana, ma non è cattiva. E poi, sua madre non sa nulla di
quello
che lei realmente fa; non avrebbe motivo di essere delusa da
niente.
-Non so. Forse dovresti vedere anche il
padre.
-Impossibile; ho già chiamato a colloquio la madre, lei
gli comunicherà tutto e non c'è motivo che io
convochi anche
lui.
-Non ti resta che indagare.
-È
quello che farò.
Il giorno dopo, stette bene attento ai
dialoghi dei suoi alunni. Captò diverse liti tra fidanzatini
che
erano stati divisi dalla procacità di Bianca,
“solo perché quella
troia la dà a tutti e io invece provo a tenermela almeno un
po'
stretta! Ma vaffanculo, stronzo di merda!”, diversi
pettegolezzi
sulle sue ultime presunte avventure, “dicono che sia andata
con uno
di cinquant'anni!
Sì sì, è vero, te lo giuro, me l'ha
detto la Silvia di quarta E
che l'ha vista una sua amica in giro in centro con uno che aveva
cinquant'anni”, e infine qualche informazione utile.
-La Ferreri
è di nuovo assente per un mese? Ma perché lei
può sempre fare
tutto quello che vuole?
-Ma che ne so, fatto sta che da quando è
iniziata la seconda è già successo due volte. Un
mese, sta a casa.
A ciucciare cazzi, secondo me.
-E con questa fa tre. Eh, ma tanto
a lei nessuno dice mai niente.
-”Malessere', scrivono sulle
giustificazioni. Per un mese di assenza. Se glielo porto io il
malessere, alla Mantovani, quella mi urla dietro talmente forte che
crepa i vetri delle finestre.
-Avrà fatto qualche pompino anche
al direttore, così può continuare a fare tutto
quello che
vuole.
Ovviamente non poteva chiedere delucidazioni agli alunni,
anche perché così non avrebbe fatto altro che
aumentare i
pettegolezzi su di lei, e questo non era bene.
Ma riunì a
ricreazione Sonia, Antonella e Mariolina, per venirne a capo una
volta per tutte.
-Io ce l'ho solo da quest'anno, Bianca – si
giustificò Antonella – faccio solo il triennio.
Sapevo che c'era
questa ragazzina un po' particolare, ma non mi sono mai
intromessa.
-Stesso vale per me – ammise Mariolina – non ho
mai potuto occuparmene personalmente; so però che la preside
ha
parlato con i genitori e che è a conoscenza del motivo di
queste
assenze. Giovanna però ci ha sempre detto di non
preoccuparcene, che
andava bene così.
-Io ce l'ho da quando è entrata nell'istituto,
ma nessuno mi ha mai detto nulla, e io non sono il tipo da farmi gli
affari degli altri – affermò la forte ed elegante
Sonia – a me
quella ragazza, e ve lo dico tra colleghi, sta a cuore. So che
è lo
stesso per voi. Ma non possiamo chiedere più di quanto ci
sia stato
detto. Non avete idea di quanto intensamente vorrei poter andare
più
a fondo, ma purtroppo non è possibile.
Questo fu quanto riuscì
ad ottenere.
Bianca tornò al termine di un mese e dieci giorni
d'assenza; quel giorno, quell'unico giorno di presenza, era l'unico
in cui Emanuele non aveva la terza A. Non la vide nemmeno per i
corridoi. Il giorno dopo era di nuovo assente, e Sonia gli
raccontò
che era rimasta zitta e immobile per tutte le cinque ore di lezione;
ogni tanto avevano dovuto riprenderla perché si era
addormentata.
Bianca tornò dopo ulteriori quattro giorni
d'assenza. Era preparata su tutte le materie, chiese addirittura di
farsi interrogare, era vispa e attiva come l'aveva ricordata e
passò
le ore di lezione mandando sms e giocando con la PSP. La
sgridò più
di una volta perché continuava a flirtare con il ragazzo
seduto
dietro, e non ci fu modo di farla stare tranquilla per tutta la
giornata.
Emanuele sapeva che, molto presto, gli sarebbe toccata
una nuova seduta in aula insegnanti.
Per la prima volta, non stava
nella pelle al pensiero di parlarle.
(Nda: ed eccoci qui. Veloce, eh
:D? Ma non ancora per molto, temo XD ho appena concluso con enorme
fatica il capitolo 5, del quale non sono soddisfatta, e sto tentando di
imbarcarmi nel capitolo 6. Vi avverto già che il capitolo 5
sarà lungo almeno il doppio di quelli che avete affrontato
finora, quindi preparatevi ;).
Grazie delle recensioni a CTA - lieta di aver sconfitto l'azione
repellente di Analisi XD - , Dance of Death - non preoccuparti, potrai
sbizzarrirti con il commento a questo capitolo, lol *-* - e Baby Birba,
che mi ha fatto sorridere perché si è messa a
leggere la fanfic a scuola su iPhone, la migliore XD vorrei dirti di
no! Non farlo! Segui le lezioni, non leggere la mia fanfic ;o;!, ma non
ci credo nemmeno io -.-, quindi... sei grande e vaccinata XD vai e
segui il tuo cuore XD!
E con ciò vi saluto e alla prossima! Fatemi sapere come sto
andando, mi raccomando é_è!)
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
N.B.: non so come appaia a voi, ma questo capitolo a me risulta con un testo molto piccolo. Non sono riuscita a modificarne la grandezza, per cui provate a premere contemporaneamente i tasti "Ctrl" e "+" e dovrebbe essere più visibile... se ci fossero problemi segnalatemelo, vedrò di darci sotto col codice e sistemare la cosa. ^^
L'occasione
non tardò a presentarsi. Dovette attendere appena il giorno
successivo al suo ritorno; non appena riuscì a farsi
sbattere fuori,
Bianca si presentò, puntuale, nell'ufficio di Emanuele.
Arrivò
saltellando ed esordì con un vispo “Buongiooorno
prof!”.
La
osservò mentre trotterellava fino alla sedia e vi si sedeva
con un
colpo secco, alzando le gambe al punto che, se avesse voluto, avrebbe
potuto sbirciare senza problemi di che colore aveva le mutande quella
mattina.
-Bianca, se fai così ti si vede tutto – la
ammmonì.
-Beh, non è mica un brutto spettacolo, gliel'assicuro.
Me lo dicono tutti. Vuole sincerarsene?
-Ci credo sulla
parola.
-Aah, prof, mi è così mancato! La posso
abbracciare
forte? Forte forte forte? Non mi ha mai lasciato abbracciarla, posso
per una volta? Posso? Eh?
-Non se ne parla neanche.
-Ah!
Fanculo. Non a lei, al destino funesto che ha frapposto la Camillah
tra me e lei. Ah, l'amore infelice dei miei sedici anni!
-Vuoi
stare ferma un minuto? Mi fai venire il mal di testa.
Bianca
continuava a dondolare le gambe, a gesticolare con una mano e con
l'altra a tormentarsi i capelli.
-Ferma? Nah, non ho voglia. Ah,
sono così felice di rivederla, sono emozionata come una
ragazzina al
primo appuntamento! Era da tanto che qualcuno non mi faceva battere
il cuore, prof.
Si alzò, saltellò fino alla finestra. Il suo
sguardo schizzò sulle macchine fuori, poi esaminò
per bene la
stanza, poi si posò di nuovo su Emanuele, a cui rivolse un
enorme
sorriso di cuore.
-Bianca, ho parlato con tua madre, un mese
fa.
-Cosa? - fece lei, che aveva posato le mani sulle superfici
dei due tavoli e ora dondolava le gambe nello spazio dell'intermezzo
– Mia mamma? Le ha detto di quella storia di Cappellotto? No,
vero?
Perché sono ancora qui viva e attiva che parlo con lei, e se
avesse
saputo di quel discorso di sicuro non sarei qui tutta intera.
-No,
non le ho detto niente, perché concordo con te sul fatto che
ti
ammazzerebbe. E non avrebbe neanche torto. - Bianca intanto dondolava
a velocità folle le gambe per aria. - Mi ascolti?
-Sì sì.
-Che
ho detto?
-Che rompo i coglioni. Prof, senta, senta, l'ha visto
l'ultimo di Woody Allen? Io l'ho trovato un agglomerato di
escamotages
che non tentano nemmeno di camuffarsi e di stereotipi che il nome
prestigioso non riesce a nascondere. E poi, ha capito quel vecchio
porco? L'avevo già captato in Manhattan
che
il suo sogno segreto neanche tanto segreto è quello di
portarsi a
letto una ragazzina profondamente affascinata dalla sua intelligenza
eclettica e dal suo umorismo sarcastico e un po' noir,
ma credo che questa volta abbia...
-No, Bianca, non l'ho
visto.
-Oh, dovrebbe! Mi chiedo perché per non abbia per
l'ennesima volta recitato nei panni di se stesso, o di quello che gli
piacerebbe essere se fosse un po' più accettabile dal punto
di vista
estetico. Per di più, cercare di spiegarmi la storia
attraverso il
protagonista che parla con la telecamera! Bel fallimento nel
presupposto dell'intento di comunicazione che è un po' la
base del
media cinematografico, non trova?
-Ti sei fatta buttare fuori
dalla classe?
-Bah, non ne potevo più! Io le avevo capite, le
disequazioni fratte. Quelli non ci arrivavano. Non avevo voglia di
rimanere lì ferma immobile per altri tre quarti d'ora
aspettando che
ce la facessero anche loro, che tanto, lo so, non le capiranno
mai.
-E quindi, come hai fatto a farti buttare fuori?
-Mi sono
fatta sgamare a con l'auricolare nelle orecchie che scuotevo la testa
a ritmo di Infinity
2008. Oh,
mi piace una vita quella canzone! E nonostante sia da discoteca ha
anche un bel testo, a modo suo. Ho voglia di andare in discoteca. Oh,
ho voglia di ballare! Prof, balliamo? Facciamo qualcosa
assieme?
-Bianca, cos'hai preso?
-Io? Io niente, prof. Pensa
che sia una drogata?
- chiese con un sorriso inquietante - Pensa che abbia le braccia
tutte piene di buchi o che abbia un francobollo sotto la lingua?
Vuole provare a controllarmi la lingua, prof?
Se la ritrovò a tre
centimetri dal naso. Venne preso dal panico.
-Bianca, ti
prego.
-Oook, ok – riprese a saltellare per la stanza, con le
braccia dietro la schiena – allora vuole controllarmi le
braccia?
Vuole vederle? - tornò di fronte a lui e fece per levarsi il
maglioncino. Poi scoppiò a ridere davanti al suo pallore
improvviso,
tirò giù il maglioncino, si chinò su
di lui e afferrò l'orlo
della sua manica sinistra – Controlliamo? Vuole vedere se mi
faccio? - sorrise ancora, si rialzò e gli fece l'occhiolino
– Beh,
rimarrà col dubbio. Così almeno mi
penserà un pochino. E com'è
andata con la Camilla, in questo mesetto di assenza mia?
Quand'è che
vi lasciate? No, scherzo, non glielo augurerei mai. Ma
quand'è che
viene a fare un giro con me?
-Bianca, fermati
un secondo.
Che cos'hai?
-Ma niente, prof! Sono solo una ragazzina un po'
vivace. Sa com'è, a quell'età, hanno gli ormoni a
mille. Eh, ma
vedrà che col tempo si darà una calmata...
sorrisino di scherno, e
poi: è come tutti gli altri, tutti ci diamo una calmata
prima o poi.
Eh, già. Siccome io non mi calmo gli dà fastidio
pensare che io
abbia più diritto di loro di comportarmi senza vincoli o
freni. Gli
dà fastidio vedere il modo in cui mi do il permesso di
esprimermi
con sincerità, semplicemente perché io sono
libera e loro non lo
sono. Susanna Kaysen diceva qualcosa del genere. L'ha letto, il libro
di Girl,
Interrupted?
È molto meglio rispetto al film. Più che altro,
il film è quasi
un'altra storia. La scrittura della Kaysen è così
cruda e asettica,
l'ho poi ritrovata in quel libro sulla sua patata che...
-Bianca.
Una cosa alla volta. Cosa stai cercando di dirmi?
-Mmh – si
morse le labbra, i suoi occhi grandi schizzarono qua e là,
nel
frattempo dondolava le gambe – eh. Boh. Niente. In
realtà nessuno
di noi lo fa mai, giusto? Non vogliamo mai dirci un granché.
Non
facciamo altro che riempire milioni di attimi vuoti con film e libri
e vernissages
e sesso. Non è così, che fanno le persone grandi?
Voilà, vede che
non sono poi così immatura? E neanche voi siete poi
così
complicati.
-Bianca.
-Su, basta chiamarmi per nome, mi sembra
di essere in classe, la prego. Comunque, tornando a Woody –
stavamo
parlando dello zio Woody, vero? - ha notato come ama i salotti, i
ricevimenti, le esternazioni di cultura postmoderna e in generale
l'ambiente borghese intellettualoide? E ha notato come ha preso in
giro quelle newyorchesi boho-chic, etno-finto-povero,
genio-e-sregolatezza, dedite all'arte e convertite
all'ambiguità
sessuale e filosofica e ideologica?
-Ti vuoi fermare un momento,
Bianca...?
-Mannò, perché? Chiacchieriamo! Mi dica qualcosa.
Se
non ci fossi io che parlo, il tempo non passerebbe più. Con
la Cami
come fa? Passa tutto questo tempo a dirle 'Camilla! Camilla!
Camilla!' ogni volta che la poverina cerca di fare un po' di
conversazione?
-Senti, non sono affari tuoi quello che io
e...
-Looo sooo, prof, looo sooo, stavo solo sdrammatizzando. È
che qui ci perdiamo in un gomitolo aggrovigliato di parole senza
senso quando in realtà io voglio fare sesso con lei e
continuiamo a
girare attorno a questa verità senza mai concludere nulla.
Non la
tento almeno un pochino? Almeno una sbirciatina alle tette? Tutti
cedono davanti alle tette, avanti. Sarà mica diverso,
lei?
-Non mi amavi proprio perché ero diverso...?
-Ma lei non
mi ama, quindi non me ne faccio proprio niente della sua
diversità a
stampo romantico vecchio stile.
-Davvero vorresti che ti
amassi?
-Disperatamente, anche se non sembra. Ma sarei curiosa di
sapere, se fossimo io e lei, in un motel fuori città,
lontani dove
non ci vedrebbe nessuno, se non sarebbe almeno un po' tentato di
farlo.
-Nemmeno se ci trovassimo in un universo parallelo.
-Sarei
capace di cercare il portale per Narnia in tutti gli armadi del
mondo, se lei mi promettesse che, una volta arrivati lì
dentro,
potrei finalmente averla per qualche secondo.
-Non ti farò mai
questa promessa.
-Io voglio esserne sicura.
-Prego...?
-Prenoti
un motel a nome suo, fuori città. Pago tutto io: stanza,
benzina,
pranzo e cena. Stiamo un pomeriggio assieme e se non avrà
mai,
nemmeno per una volta, la tentazione di accarezzarmi il seno
– si
portò una mano sulla curva dolce e piena del petto
– allora io mi
arrenderò. Prometto. Non verrò nemmeno
più qui a parlare con
lei.
-Non se ne parla.
-Allora continuerò a venire qui e a
chiederglielo e a riempirle le orecchie di parole senza senso.
-Fa'
pure, non ti ascolterò.
-Lo farò con uno diverso ogni giorno. E
la sera berrò ancora di più, lo sa che bevo
parecchio? No? Bene,
ora lo sa, bevo parecchio. Una bottiglia ogni uno o due giorni se ne
va, e non di Bacardi
Breezer,
ma di Keglevich
da
venticinque gradi: davvero lei vuole che io peggiori? Vuole che il
fegato mi esploda in mille pezzi? Vuole che rimanga incinta, prima o
poi? O magari che vada con qualcuno di pericoloso che mi
violenterà
e poi mi infilerà a pezzi nei bidoni della spazzatura?
-Sei
proprio stronza a minacciarmi.
-E a lei non costa nulla passare un
pomeriggio con me. Non le ho chiesto niente tranne la sua compagnia;
quello che fa dipende esclusivamente dalla sua volontà,
quindi, se
non le andrà di toccarmi, non lo farà e il
discorso sarà
chiuso.
-E poi mi lascerai in pace?
-Sicuro, la lascerò in
pace. Mi vedrà solo in classe e le parlerò solo
in occasione delle
interrogazioni. Guardando la classe e non i suoi occhi.
-Affare
fatto. Il più presto possibile, mi raccomando.
-Prenoti lei
quando le è più congeniale – rispose
Bianca allegramente – e
poi me lo comunichi, così effettuo il pagamento al motel. -
Sorrise.
- Spero anch'io che sia il più presto possibile.
-Non per i miei
stessi motivi, credo – mugugnò Emanuele.
-Oh, lo so. Questa è
la misura in cui lei vuole che io mi levi dalle palle –
scoppiò a
ridere – le farò cambiare idea. Altrimenti amen.
Il mare è pieno
di pesci, dicono! Arrivederci e buona giornata. E grazie. E le voglio
bene. E scusi. E scusi anche alla Camilla. E ora me ne vado,
sì,
arrivederci.
Emanuele uscì da quella conversazione sfinito, e
faticò non poco a trascinarsi attraverso le ultime tre ore
di
lezione. Poi passò un viaggio in treno terribile; era
infastidito da
tutto, operai puzzolenti, valige, ristrettezza di spazio, tutto.
Tornato a casa si preparò una camomilla e Camilla
arrivò poco dopo;
quando la vide, non riuscì a trattenersi e un paio di
lacrime
spuntarono da sotto le palpebre e presero a ballargli
sull'iride.
-Amore – esclamò Camilla, gettando la borsa per
terra – che succede? Tutto a posto?
-Sì – mormorò –
sì.
Un po' stanco.
-Che è successo? Ti hanno rimproverato al
lavoro?
-... sì – mentì, dopo una breve
esitazione – perché
secondo loro non ho organizzato per tempo un progetto di uscita
didattica.
-E piangi per questo?
-No, perché non ne posso più.
C'è troppa gente in una scuola e tu devi avere a che fare
con
ciascuno di loro. Voglio andarmene da lì. Appena finisce
l'anno
scolastico strappo il contratto e vado a fare qualcos'altro.
-Amore,
mi dispiace tanto. Vieni qui. Andiamo a farci un bel bagno caldo
assieme, su. Stasera ti preparo la parmigiana, sei contento? E poi se
vuoi andiamo al cinema. Ti va l'idea?
Guardò il caldo sorriso di
Camilla che lo teneva tra le braccia come fosse stato un bambino col
ginocchio sbucciato. Purtroppo, dopo averla guardata, gli venne
ancora più da piangere.
-No, dai... non fare così. Adesso ci
dormiamo su e passa tutto. Tra poco la settimana è finita,
forza,
cerchiamo di farcela... pensa che io ho Bianca senior, altro che una
sedicenne ribelle!
-Già...
Ma fu davvero consolatorio quel
breve dialogo prima del bagno assieme, perché gli
ricordò che, per
quanto Bianca tentasse di trascinarlo nel suo vortice di parole e
contraddizioni e sesso vuoto, c'era sempre Camilla ad aspettarlo a
casa, e lui avrebbe sempre resistito a qualsiasi tentazione, posto
che ve ne fosse una, perché non avrebbe mai potuto
dimenticare per
un attimo quanto l'amava.
Il giorno dopo comunicò brevemente
a Bianca che potevano tranquillamente incontrarsi l'indomani, e le
indicò nome e indirizzo dell'albergo.
-Fatti trovare in piazza
Insurrezione alle due – le disse con tono neutro –
io passo a
prenderti in macchina. E vedi di non parlarne agli altri.
-Non mi
tratti così.
-Tu mi hai minacciato, Bianca, non ti meriti di
essere trattata diversamente.
La lasciò in corridoio dove l'aveva
trovata, senza voltarsi a guardarla. Sapeva di averla ferita. Ma
sapeva anche di non essere più in grado di reggere la
situazione, e
decise per quella volta di pensare solo a se stesso.
-Eccomi
qua, prof! Ho fatto tutto. Partiamo!
Non rispose e la guardò
mentre richiudeva la portiera e si allacciava la cintura. Anche
Bianca tacque come lui, ma masticava una gomma dietro l'altra, e
continuava a dondolare le gambe e a tormentarsi le pellicine delle
mani.
Avrebbe voluto dirle di non farlo, di calmarsi per un
secondo, ma era ancora furioso con lei. Alla fine, però,
ricordò
che era soltanto una ragazzina di sedici anni con evidenti problemi,
e si arrese a rivolgerle la parola.
-Come stai? - le chiese, in un
borbottio.
-Non le rispondo se me lo chiede così.
La guardò.
Aveva lo sguardo puntato fuori dalla finestra; si morsicava le dita e
continuava ad accavallare e scavallare le gambe, incapace di trovare
requie.
-Basta mordere. Ti fai male.
Lei si voltò verso di lui
e lo guardò un attimo, con un'espressione strana. Sembrava
lo stesse
studiando. Le lanciò un'occhiata. Lei si girò e
riprese a mordersi
le dita.
-Basta! - stavolta le diede un colpetto sulla mano. Lei
lo guardò ancora, poi si girò ancora di
più verso il finestrino ed
Emanuele non fu più in grado di controllare cosa stesse
facendo.
Sentì solo che non stava mai ferma.
-Prof, andiamo in
Alabama.
-Cosa...?
-In Alabama. No, in Texas. No, a Las Vegas.
Oh, che sete.
Bianca tirò fuori dalla borsa una bottiglia.
Emanuele lanciò un'occhiata alla bottiglia e
realizzò, sgomento,
che si trattava di vodka liscia.
-Non se ne parla. Io non vado da
nessuna parte con una minorenne ubriaca, chiaro?
-Ma mi fa stare
meglio. Mi rilassa, prof. Sa quante volte a scuola arrivo con la
vodka secca nella bottiglietta? Tutti pensano che sia acqua, e invece
no, è vodka. Mi serve per stare tranquilla, altrimenti mi
agito.
-Quanto stupida sei?
-Se sapesse in quanti me lo
dicono.
-No, tu sei proprio stupida.
Ci trovi un gusto tutto particolare nell'autodistruzione, vero? Hanno
ragione quando dicono che vuoi soltanto il centro del palco. Tu vuoi
la nostra attenzione, sempre, costantemente. Negalo.
-Be', se
volessi la vostra attenzione mi porterei una bottiglia di Jack
Daniels con l'etichetta, ma ad ogni modo lei la pensi come
preferisce, non mi interessa molto. Mi basta che
finisca.
-Cosa?
-L'attesa. È snervante. Il dopo.
Deve arrivare. E io non sto facendo nulla ma dopo tra di noi
succederà qualcosa, e stiamo passando al rallentatore
attraverso il
tempo. Mi manda fuori di testa.
-Perché non lo
ammetti...?
-Cosa?
-Che ti fai dalla mattina alla sera. Tu
prendi qualcosa. Cos'è? Ecstasy? Cos'altro? Per comportarti
a questo
modo, qualche amfetamina la prendi di sicuro. Non sono un esperto,
dimmelo tu. Cosa prendi?
-Un caffè con due cucchiaini di
zucchero, grazie.
-Non farmi arrabbiare ancora di più,
Bianca.
-Lei è suscettibile. Mentre io, nonostante lei continui a
insinuare che sia una drogata, ancora non mi sono scomposta. E poi
sarebbe lei l'adulto e non io.
-Tu sei una mocciosa.
-E LEI LA
DEVE SMETTERE IMMEDIATAMENTE – strillò Bianca, da
un momento
all'altro – chiaro?! Io NON mi drogo. NON lo faccio. Ma LEI
continua a dire che LO FACCIO, e IO sto perdendo la PAZIENZA.
La
guardò. Aveva due enormi occhi rossi spalancati in modo
inquietante,
e ansimava.
-Va bene, Bianca. Non ti droghi.
-E non usi
CONDISCENDENZA – urlò lei, afferrandolo per un
braccio – ha
capito?! NON faccia l'adulto maturo e ragionevole con me! NON mi
faccia ARRABBIARE, è chiaro?! Altrimenti io... io...
-Molla il
braccio, per favore.
-NON MI DIA ORDINI!
-Per favore,
Bianca...
-Allora lei adesso LA SMETTE di fare insinuazioni su di
me e di trattarmi da appestata. La SMETTE, ha capito?! Ha capito?! O
vuole che mi arrabbi SUL SERIO?!
Rischiava davvero di finire
attraverso il guard rail, perciò decise di mantenere la
calma. Ora
era praticamente certo delle sue ipotesi, ma decise di assecondarla.
Sperava solo che l'effetto passasse prima che arrivassero al motel, e
che nel frattempo lei non li conducesse dritti dritti verso un
frontale.
-Ho capito, scusami. Sono saltato in fretta alla
conclusione sbagliata.
-Mi scusi – bisbigliò lei, con aria
angosciata – mi scusi lei. Io...
Non concluse. La sentì tirare
un bel respiro, poi scoppiò a piangere a scroscio.
-Mi dispiace
tanto, prof – singhiozzò – mi dispiace
tanto, mi perdona? Sono
stata maleducata, ho urlato. Mi dispiace tanto. Mi perdoni, prof. Io
la amo. Non voglio che pensi questo di me. Mi dispiace tanto! Prof,
mi dispiace...
-Ok, Bianca, ho capito. Non importa. Adesso non
scusarti più.
-Ma ho paura che nel momento in cui smetterò lei
inizierà a prendersela con me – gemette,
asciugandosi gli occhi –
ho paura che lei mi odi. Io non voglio che lei mi allontani.
Professore, non se ne vada più, rimanga con me, per favore.
-Adesso
non agitarti e asciugati il viso, ok? Sei più bella con un
sorriso
sulle labbra.
-No, sono brutta e lei mi odia, per questo non mi
vuole – riprese a singhiozzare disperatamente – non
ho mangiato
per un mese e mezzo per piacerle, e ho perso dieci chili e lei non se
n'è neanche accorto.
-Ma Bianca, hai il cappotto, come
potevo...
-Sì, ma a scuola sono quasi svestita, e lei non si
è
accorto che avevo meno tette e meno cosce!
-Ma perché non te le
guardo!
-E allora lo vede che non le interesso! - pianse, e
appoggiò la fronte sul cruscotto. Emanuele le
accarezzò i capelli
rossi, sciolti e un po' secchi per via della tinta.
-Ma non è la
fine del mondo. Io ho grande stima di te, Bianca, anche se ti
comporti da stupida ogni tanto.
-Lo so che secondo lei e tutti mi
comporto sempre
da stupida – si lamentò, e tirò su col
naso – e ho sentito una
volta quella di tedesco dire che non posso essere intelligente, al di
là dei voti, se mi comporto così.
-Ma non la pensiamo tutti come
lei. A sedici anni non puoi parlare a qualcuno di 'scelte' e
pretendere che faccia anche quelle giuste. Quando si parla
dell'emotività della persona, non si può essere
razionali;
intervengono moltissimi fattori, tra i quali sicuramente le
esperienze personali, e tu probabilmente hai avuto le tue e queste ti
hanno spinta, e tuttora ti spingono, a comportarti in un certo
modo.
-Allora andiamo a Las Vegas?
-... eh?
-Las Vegas.
Gioco d'azzardo. Decappottabili rosse sulla Route 66, capelli nel
vento, il nostro amore folle e selvaggio.
-Bianca...
-Ho letto
L'Eleganza del
Riccio,
prof, l'ho trovato terribilmente pretenzioso e ho sentito la voce
dell'autrice assordante come una campana. Quanto surrealismo, quanta
metafisica dei poveri, quanta tronfia saccenza. E quante seghe
mentali, soprattutto!
-Ti ricordi di cosa stavamo parlando?
-Sì,
di me, come sempre. Sono un po' stufa di sentir parlare di me, tutti
parlano sempre di me, che noia. Ci sono cose molto più
interessanti
nel mondo e una di queste è la narrativa contemporanea, e
lei
dovrebbe essere d'accordo con me, no? Quindi non concentriamoci sulla
mia stupidità e confrontiamoci da uomo a donna colti quali
siamo.
Cristo,
avrebbe voluto dire. Iniziava a preoccuparsi
dell'eventualità in cui
li avessero fermati e avessero trovato lei con delle pastiglie in
tasca. Poi avrebbe avuto un bel daffare a dimostrare che non era un
pedofilo, e a spiegarlo a Camilla.
Ma come si era fatto
incastrare...? Come?
-Prof,
è meglio se bevo. Davvero. Poi sto meglio e mi calmo.
Non poteva
farle notare che alcool e droga non erano una grande accoppiata.
Tentò di aggirare l'ostacolo.
-Non mi sembra una buona idea,
Bianca. Poi come giustifico al gestore del motel la mia permanenza
con una ragazzina di sedici anni ubriaca?
-Nel mezzo tra 'sedici
anni' e 'ubriaca' stava per dire 'vestita come una puttana',
vero?
-No...
-Sì, lo stava per dire. Ma lo so, cosa crede? Se
non ne fossi cosciente, sarei proprio stupida; mi rendo conto di
vestirmi diversamente dalle mie coetanee. Non lo faccio di certo con
ingenuità.
-E perché lo fai?
-Perché ho un bel corpo e
voglio che si veda.
-Che lo veda chi?
-Chiunque
fosse interessato a interagirvi. Uomini, donne, animali... poi io
valuto.
-Perché lo fai?
-Perché il sesso mi piace e piace
anche a chi lo fa con me. Perché lei fa sesso con Camilla?
Perché
le piace e piace anche a Camilla. No?
-Sì, ma io lo faccio solo
con Camilla. E lo faccio perché la conosco almeno un po', e
almeno
un po' mi piace.
-Solo un po'?
-No; 'molto' per entrambe le
cose. Ma quelli che ti porti a letto ti piacciono?
-Anche
'quelle'.
-Fantastico. Ti piacciono?
-Sì, mi piacciono. Sennò
non me li farei.
-Ma li conosci?
-Che importa, quando alla fine
quello che vogliamo è il sesso?
-Non puoi ragionare così.
-Amo
la velocità di questo dialogo.
-Io non so cosa fare con
te.
-Allora lasci fare a me.
-Tu mi stai...
-Sì. Lo so. La
faccio uscire da ogni grazia di Dio. Eh, ma io ci vivo, fuori da ogni
grazia di Dio. È una cosa continua. Non si ferma mai.
Rallenta e
basta, che è una cosa insopportabile!, ma non si ferma mai.
Dio. Per
questo le dico di lasciarmi bere quella vodka. Almeno mi
calmerei.
-Bevine un sorso e per favore poi stai calma un minuto.
Solo un minuto, te ne prego.
Lei annuì e bevve più o meno un
quarto della bottiglia.
-Ora va meglio – mormorò alla fine –
aah, che pace. Adoro quando va giù dritta nella gola e fa
effetto
immediato. Senti quel calore piacevolissimo nello stomaco e un'ondata
tiepida e vibrante che t'invade tutto il corpo. Che
meraviglia.
Emanuele si sentiva sempre più a terra. Più si
avvicinava a quella ragazzina, e più gli sembrava di
precipitare in
un posto buio e tortuoso, dal quale non riusciva a prendere aria.
Ma,
sorprendentemente, Bianca aveva detto una cosa vera: dopo la vodka si
calmò, e iniziò a parlare molto tranquillamente.
Vivace, com'era
sua consuetudine, ma non in modo psicotico.
-E quindi ho
incontrato questa ragazza, ma su Netlog sembrava molto più
carina.
Comunque non era male, e qualche bacio e qualche carezza ci sono
scappati. Mi piacciono, le ragazze. Sono così morbide e
dolci.
Accarezzarle è un piacere diverso dall'accarezzare un uomo,
che è
solido e alto e forte.
-E così sei bisessuale?
-Mah? Sort
of.
Forse solo curiosa. Però a questo punto direi che la
curiosità me
la sono tolta, quindi mi sa che sì, mi piacciono entrambe le
cose.
In generale mi piace fare sesso, comunque. Non so perché; mi
piace e
basta. Ne ho bisogno, altrimenti non carburo. E poi ti sfoga un
casino, come prendere a cazzotti un punching
ball.
-Non
è proprio così che bisognerebbe viverla...
-No, lo so. Ma a me
viene spontaneo così. Se m'innamoro ma la persona che amo
non
ricambia, per me è impossibile fare
l'amore.
Ora capisce perché faccio un casino di sesso?
-Solo perché io
non ti ricambio?
-In definitiva, no, non credo sia solo per
questo. Ma di sicuro, come direbbe Jess Crichton, se io fossi la
pasta al ragù, lei sarebbe sicuramente la pasta, o la carne.
-E
invece il pomodoro e la cipolla, cosa sono?
-Chissà – sospirò
– non ci penso poi così tanto. Mi viene. So che
c'è un motivo, ma
io non ho proprio idea di quale sia.
Ora sembrava tornata la
solita Bianca. Aveva smesso di agitarsi, parlava più
lentamente e
diceva cose sensate. Non cose belle,
ma sicuramente quello che diceva aveva un nesso logico. Forse la
vodka era davvero capace di frenare l'effetto dell'ecstasy.
Alla
reception,
dopo un'altra mezz'ora di chiacchiere delle quali Emanuele non
riuscì
a cogliere il filo conduttore, Bianca si comportò bene.
Emanuele
avrebbe voluto sprofondare di fronte allo sguardo indiscreto del
receptionist,
ma si consolò pensando che quell'ultimo sforzo avrebbe dato
i suoi
risultati.
Salirono in camera e posarono le borse. Bianca ricoprì
il letto con una coperta che aveva portato da casa,
“perché di
questi posti non c'è da fidarsi”,
spiegò. Era davvero convinta
che avrebbe ceduto, prima o poi.
-Allora, prof? - sorrise –
Adesso possiamo farlo e levarci il pensiero una volta per tutte?
-Se
la metti così, sono ancora più convinto che farlo
sarebbe la scelta
peggiore.
-Ooh, lo sa che per me non è 'levarmi un pensiero'; io
non voglio togliermi lei dalla testa. Adoro pensarla tutto il tempo.
Lei è un'ottima persona a cui pensare: bello, buono,
comprensivo,
onesto, colto... non avrei potuto scegliere un candidato
migliore.
Emanuele suo malgrado rise. Bianca s'illuminò.
-Ma
allora so anche farla ridere! Pensavo di essere in grado soltanto di
irritarla... e invece, pensa te! E magari mi vuole anche un po' di
bene...?
-Bianca, io... senti. Non è che ti voglia male. Sono in
un certo qual modo 'affezionato' a te, nel senso che mi preoccupo per
te, che vorrei che tu stessi meglio. Ma non credo che...
cioè...
-Ma
allora sì che mi vuole bene – esclamò
la ragazza, con gli occhi
luccicanti – quando ti prendi a cuore una persona,
è perché le
vuoi bene. Sono sicura, prof. Di poche cose sono sicura, ma di questa
al cento per cento.
Emanuele rise un'altra volta. Forse aveva
ragione lei. Forse un po' le voleva bene.
-Ecco, mi dà ragione!
Che figata, il prof mi vuole bene. Be', è già
qualcosa! Allora,
dato che mi vuole bene, mi abbraccia?
-Aspetta. Ora non...
-Ma
prof, un abbraccino piccolo – si lamentò
– piccolo e breve. Non
le sto chiedendo niente di erotico. Un abbraccio come quello che
dà
a... boh, ai suoi nipotini, a sua suocera, a un'amica. Una cosa
semplice e pulita.
-Mia suocera non l'abbraccerei nemmeno se ne
andasse della mia vita, per me ha lo stesso effetto che ha la
kryptonite su Clark Kent – mormorò –
comunque, vieni qui.
Bianca
sorrise felice e si avvicinò. Emanuele aprì le
braccia; lei gli
circondò la vita con le sue e appoggiò la testa
sul suo petto,
affondandola tra le pieghe della camicia tanto che non fu
più in
grado di vederla in viso. Con una mano le cinse la cascata di capelli
rossi e spettinati; l'altra mano gliel'appoggiò sulla
schiena e la
premette delicatamente contro di lui. Bianca sfregò il naso
sul suo
sterno; non l'aveva mai vista così tranquilla e non si era
mai reso
conto di quanto fosse esile, nonostante la curva morbida e piena del
seno appoggiata sul suo addome.
-Contenta? - sussurrò, in
direzione della testolina scarmigliata sotto il suo mento. Lei non
rispose. - Bianca?
Ancora non rispose, ma le sentì le spalle
tremare tra le sue braccia. Presto il tremito si trasformò
in
piccoli scatti. Bianca strinse i lembi della sua camicia, e, per
questa volta, decise che sarebbe stato giusto accarezzarle i
capelli.
Rimasero così per un po', per tutto il tempo che ci
volle a Bianca perché la sua schiena non fosse
più scossa dai
singhiozzi.
-Scusi – mormorò alla fine, staccandosi, rossa in
viso per l'imbarazzo – mi scusi. Non è
perché non fossi contenta.
Ero contentissima. È proprio perché ero
contentissima.
-Non devi
vergognarti. Preferisco che piangi perché sei felice,
piuttosto che
per la tristezza.
-Ma un po' c'era anche tristezza – precisò
lei – non per lei, prof. Ero felice, ma ero anche triste
perché,
prima di essere così felice, probabilmente mi sentivo molto
triste.
-Da quand'è che qualcuno non ti abbraccia, Bianca...?
Lei
lo guardò, spaesata; in capo a un paio di secondi, i suoi
grandi
occhi castani si riempirono di lacrime pesanti che sgorgarono
immediatamente giù dalle palpebre, rotolando veloci sulle
sue
guance.
-Non so... cioè... non è che me ne freghi
più di tanto.
Non li chiedo mai a nessuno, gli abbracci, non ho mai voluto che
nessuno mi abbracciasse... non capisco.
-Ci credo che non volevi,
se ogni volta ti metti a piangere – le sorrise,
cercò di essere
rassicurante. E si chiese se quel pomeriggio sarebbe bastato per
venirne a capo.
-È perché – tirò su col naso
– lei
abbraccia bene, prof. Per un attimo, attorno a me c'erano solo le sue
braccia e il suo petto e il suo profumo e il silenzio, e da quel
momento in poi tutto il resto del mondo è sparito. Capisce?
Non
esisteva più niente tranne l'uomo che amo e io avvolta dal
suo
corpo.
Protezione,
ecco cosa serviva a Bianca. E se la cercava così
disperatamente, era
perché probabilmente per qualche motivo le era mancata.
Sicuramente
non l'aveva trovata nelle persone che si portava a letto, e che
teneva comunque a distanza lei stessa.
Fu comunque sollevato di
constatare che non si gettava tra le braccia di sconosciuti
affidandosi a loro; ci passava soltanto del tempo cercando di
ammazzare in qualche modo un qualcosa che aveva dentro e che le
sussurrava all'orecchio cose che la tormentavano.
-Adesso però
calmati. Ti abbraccio ancora, se ti serve. Finché non ti
abitui, ok?
Però adesso stai tranquilla. Guarda; ti siedi qui sul letto,
ti
prendo un bicchiere d'acqua, se vuoi ti accendo la
televisione...
Bianca si sedette e lo seguì attentamente con lo
sguardo mentre riempiva d'acqua un bicchiere e cercava il
telecomando. Quando le elargì entrambe le cose, fece una
smorfia,
chinò il capo e ricominciò a piangere
silenziosamente.
-Ehi.
Cos'hai adesso? Stai male?
-No, no – scosse la testa, guardando
fisso le proprie ginocchia – è che prima lei era
incazzatissimo
con me e invece adesso mi tratta così bene. Sono contenta
che lei
non ce l'abbia più con me. Mi sento così
sollevata. Prima stavo
malissimo – riuscì a concludere, prima di
esplodere in singhiozzi
rumorosi.
-Non fare così – s'inginocchiò davanti
a lei e le
posò una mano sulla guancia – non ce l'ho con te.
All'inizio me la
prendo, ma poi ho come l'impressione che... be', io sono adulto. Non
tengo il muso a una ragazzina di sedici anni.
-Non sono una
ragazzina – protestò, con voce rotta –
sono almeno una ragazza,
e tra un pochino se aspetta diventerò una donna.
-Sarai
una donna quando ti comporterai da donna – le
carezzò lievemente
la guancia, per stemperare la sua affermazione – per adesso,
ti
stai comportando da adolescente contro il sistema.
-Ma io non ce
l'ho col sistema, prof, glielo giuro. Mi piace, il sistema. Se non
avessimo il sistema, sa che caos? Io non voglio andare contro a
nessuno, vorrei solo vivere come piace a me. Non so che farci se
è
il sistema ad avercela con me, per conto mio potremmo convivere
pacificamente ognuno per la sua strada. E invece poi arriva una
Valeria qualsiasi a dirmi che le dà fastidio come mi
comporto. Ma
saranno mai affari suoi, prof? Eh? Sia sincero!
Gli venne quasi da
ridere, perché, al di là dei temi, queste erano
proprio le
lamentele di alunni su altri alunni che normalmente un professore
doveva sorbirsi ogni quarto d'ora.
-Senti, Bianca. Dà fastidio
anche a me che tu, in un luogo pubblico, ti faccia trovare
inginocchiata sotto il banco con qualcuno.
-Ma questo non l'ho mai
fatto!
-Non tarderai, ne sono certo. Tu stai cercando il limite da
tutte le parti, prima o poi lo troverai. Ma in quel momento? Quando
l'avrai trovato, che farai?
-Prof – rispose lei, con tono
paziente – le assicuro che non cerco niente. Contrariamente a
quanto pensate tutti, non voglio né scandalizzarvi,
né disturbarvi,
né impedire il regolare svolgimento della lezione,
né tantomeno
autodistruggermi o cercare un fantomatico 'limite'. Non voglio niente
di estremo. Voglio solo vivere la mia vita in santa pace senza che
nessuno mi ripeta in continuazione che lo faccio nel modo sbagliato.
Forse sarà sbagliato per voi, per la vostra concezione della
vita e
dei rapporti, ma per me è favoloso. Adatto a me e alle mie
esigenze.
Perciò le chiedo, almeno a lei che sembra capirmi un
pochino: non
fate più supposizioni di questo tipo su di me, per favore.
Sembrava
seria, ed Emanuele si chiese se in fondo non fosse giusto che lei
facesse ciò che si sentiva di fare senza che tutti loro si
sentissero in dovere di contestare il suo modo di vivere.
Faticò
parecchio a ricordare che aveva sedici anni, che tutto in lei gridava
aiuto, e che, per quanto a lei sembrasse congeniale ai suoi bisogni,
la politica del concedersi a chiunque non le avrebbe portato grandi
vantaggi a lungo termine, e neanche a breve termine.
-Ne
riparleremo – concluse – ma sappi che non mi
convincerai. Vado a
lavarmi le mani, tu fai la brava.
-Ma dai, prof. Cioè, dia. Non
volevo darle del tu.
Emanuele scosse la testa e s'infilò in
bagno; si lavò anche il viso, giusto per schiarirsi le idee,
e,
mentre si sciacquava, sentì un tramestio provenire dalla
stanza
accanto. Il riflesso dello specchio gli permetteva di sbirciare dalla
fessura della porta: incredulo, osservò Bianca di spalle
aprire la
tasca posteriore dello zaino, estrarne qualcosa e, infine, portarsi
la mano alla bocca e piegare indietro la testa di scatto. Poi la
raddrizzò e rimise il qualcosa dentro lo zaino.
Si asciugò il
viso e le mani alla velocità del fulmine.
Si precipitò nella
camera da letto e, senza neanche lasciare che parlasse, la prese per
il polso e la girò bruscamente verso di lui.
-Cos'erano
quelle?!
-Prof – esclamò lei, con la tipica faccia di chi
viene
colto in fallo – niente. Di cosa parla?
-Parlo di quella cosa
che hai ingoiato. E non provare a dirmi che era una Tic Tac,
chiaro?
-Non è quello che pensa lei.
-No? Vorresti dirmi che
era una Moment per il mal di testa? Mh? O che erano le caramelle per
la gola?
-Per favore, non pensi subito male.
-Mi avevi giurato
che non ti drogavi. Pensavo fossi abbastanza adulta da dirmi la
verità, Bianca! Ti avevo creduta abbastanza cresciuta da
poter dire
come stavano le cose. Ti avrei aiutata,
porco demonio. Tutti ti avremmo aiutata. Se è questo che ti
tormenta, perché non ce l'hai detto? Tu non
vuoi
uscirne, vero?
-Non è quello – gli occhi di Bianca iniziarono a
riempirsi nuovamente di lacrime – io non... io non posso...
lei non
deve pensare che... prof, per favore, non mi chieda altro.
-Non
ho bisogno di chiederti niente. Mi sembra tutto piuttosto chiaro.
Quante altre ne hai? Quanta droga ti sei portata dietro per un
pomeriggio?
-Per
favore, prof, non...
-Fammi vedere.
-Prof, davvero, no, la
prego!
-Fammi vedere, Bianca – tentò di mantenere la
calma.
Allungò la mano verso lo zaino; lei lo afferrò
per prima e se lo
strinse al petto, terrorizzata. - Per favore –
ritentò, a denti
stretti – dammi quello zaino.
-Prof, no. La prego di credermi.
Non mi drogo. Non ho né mal di testa né mal di
gola, ok, ma non mi
drogo.
Sembrava sincera, però. Almeno il dubbio gliel'aveva
instillato.
Poi un'idea gli balenò nella mente.
-Ah –
azzardò – è la pillola
anticoncezionale? È questo? Be', non
c'era motivo di nascondersi. Non c'è niente di cui
vergognarsi.
-Sì
– mormorò lei, scura in viso –
è la pillola
anticoncezionale.
-Be', chiaro. Se non ne hai bisogno tu, chi
altri? Potevi dirmelo subito.
-Prof! - sbottò lei, ferita –
Questa era una cattiveria.
-Macché cattiveria; lo dici tu stessa,
che lo fai in continuazione. Di commenti come questo ne riceverai a
palate, nella vita.
-No! - esclamò Bianca; si alzò di scatto,
gli corse vicino, lo prese per una manica – Prof,
perché mi dice
queste cose? Pensavo che lei non mi giudicasse.
-E come potrei non
farmi un giudizio, Bianca? Pensi che io approvi quello che fai? No,
Bianca, non approvo affatto quello che fai. Se fossi mia
figlia...
No, piano. Questo era ciò che si era ripromesso di non
dire mai. Che gli era successo? Perché si stava trasformando
in
quegli professori bacchettoni e vecchio stile che dicevano agli
alunni indisciplinati che se fossero stati i loro genitori due begli
sculaccioni non glieli avrebbe levati nessuno?
-Non era questo che
volevo diventare – mormorò, passandosi una mano
sugli occhi –
non puoi fare così. Non mi puoi portare a questo.
-A cosa? - fece
lei, confusa.
-A questo,
Bianca! In una camera di un motel, con una ragazzina che potrebbe
essere davvero mia figlia, ubriaca e forse drogata, che fa di tutto
per portarmi a letto oppure, se non ci riesce, possibilmente portarmi
fuori di senno! Nel caso te lo stessi chiedendo, no, non era questo
che avevo in mente di fare, quando ho scelto di fare l'insegnante.
Avevo in mente tutt'altra cosa, credimi! E allora perché tu
devi
farmi impazzire? Cosa vuoi da me? Che cosa ti ho fatto, per
coinvolgere me fino a questo punto?!
-Prof – le tremava il
mento, e aveva un'espressione tanto indifesa che Emanuele non seppe
più se avesse ragione o torto, se fosse una vittima o una
carnefice,
se lo volesse uccidere o se l'amasse alla follia – niente.
Non mi
ha fatto niente. Io pensavo che lei potesse... che volesse... che...
pensavo di poterle far capire come io... prof, mi dispiace tanto. Non
volevo farla impazzire.
-Allora per favore, Bianca. Per favore.
Dammi quelle pastiglie. - Si premette la mano sulla fronte, per
impedire che esplodesse. - Bianca, se non vuoi farlo per te, ti prego
di farlo per me. Ti prego, finiscila con queste cose. Mi fa male
vederti così, lo capisci?
-Lei vuole soltanto liberarsi di questo
problema che vi costringe a indire riunioni straordinarie in sala
insegnanti, lo so! - proruppe Bianca, in lacrime – Vorreste
che la
smettessi così potreste continuare le vostre lezioni in
pace! Così
non dovreste più chiedervi cos'ha quella ragazzina vestita e
pettinata da puttana che si è innamorata di uno che potrebbe
essere
suo padre! Be', per sua informazione, lei non
potrebbe
essere mio padre! A meno che non mi abbia concepita in seconda media,
ecco!
-Stai sragionando. È l'ecstasy?
-NON È L'ECSTASY, PORCA
PUTTANA – gridò Bianca – non prendo
ecstasy, come cazzo glielo
devo dire?! Scusi, prof. Non ricordo neanche cosa le ho appena detto!
Lei non capisce! Non capisce perché non
sa!
Quando la smetterà di farsi un'idea di me in base ai suoi
personalissimi canoni da impiegato pubblico stipendio fisso fidanzata
ufficiale e cene con gli amici e cane?! Come si chiama il suo cane?
Io ne avevo uno, si chiamava Poppy. Perché avevo visto che
l'orsacchiotto di Poochie si chiamava Poppy, io non avevo un
orsacchiotto, ma un cane sì, e quello di Poochie si chiamava
Pallottola, ma non era un cane, sì, era un cane, non era un
orsacchiotto, scusi, mi sono sbagliata. Che sta succedendo? -
All'improvviso sembrò spaesata. - Prof? Cosa stavamo
dicendo?
Emanuele iniziava a sentire del vero panico. Stava
salendo? Quanto sarebbe durata? Come poteva fermarla?
-Ah, sì. A
letto con me. Ok, se non con le buone, con le cattive. Vediamo.
Si
alzò in piedi ed iniziò a togliersi il
maglioncino.
-Bianca...
Emanuele iniziava a sentirsi
male.
-Poochie lo leggevo quand'ero molto piccola. Ho iniziato a
leggere presto, credo che avessi due anni. Leggevo anche Cip
e Ciop,
ma non riuscivo a leggere il corsivo. Allora chiedevo a mia madre di
leggerlo, ma un giorno non aveva tempo, e così mi ha detto
di
leggerlo da sola, perché ero capace. In effetti, a forza di
leggerlo
assieme a lei ero diventata capace. E così l'ho letto da
sola e,
anche se ho faticato, ci sono riuscita. Capisce? Bisogna sempre
essere perseveranti.
Non aveva più il coraggio di replicare
niente. Non riuscì nemmeno ad alzarsi e a prenderla per le
spalle e
a imporle di rimettersi quel maglioncino.
-Un attimo, prof.
In
reggiseno, chinò la sottile schiena pallida verso lo zaino,
e
riprese la sua vodka. Diede qualche sorsata abbondante. Poi si
tirò
su.
-Adesso dovrebbe andar meglio. Meno male me ne sono resa
conto. Adesso... adesso si fermerà per un attimo. In teoria
dovrei
già essere ferma. Ma aiuterà. Vedrà.
Mi dia tempo.
-Bi...
Bianca – balbettò; le si fece vicino, le
posò le mani sulle
spalle – senti, io non ho mai preso niente. Non ho idea di
come
funzioni, perciò ti prego, finché sei lucida,
dimmi cosa devo
fare.
-Lei? - sembrò sorpresa – Nulla. Se mi concede un
paio di
minuti, dovrebbe passare. Ho fatto il possibile. Adesso passa. Nel
frattempo, però, per favore, prof. - Lo guardò
con aria seria. -
Siamo qui. Non c'è nessun altro. Non riesco a calmarmi, e
voglio
lei.
-Dio – iniziava ad aver voglia di piangere. Si sedette sul
letto di fianco a lei, sentendosi debole e disperato. –
Bianca,
basta. Basta. Per favore.
Per tutta risposta, lei si alzò in
piedi, gli si fece davanti, e, dopo avergli sollevato il mento con
l'indice, gli posò le mani sulle spalle e gli si sedette a
cavalcioni, assicurandosi di premere il bacino contro il
suo.
-Bianca, no. No. Adesso basta. NO – esclamò,
quando lei
gli si avvicinò e gli sfiorò il collo con le
labbra. - Basta.
Bianca. No. - Lei iniziò a baciarlo con delicatezza. Mentre
lui
tentava di scostarsi, gli accarezzò le braccia fino ad
arrivare alle
mani; gli sollevò le dita con le proprie e, lentamente, le
sollevò.
Emanuele ebbe un sussulto quando le ritrovò posate sul suo
seno. Ne
ebbe un altro quando, di fronte alla forma tonda e soda, e di fronte
alla sensualità della scena stessa, si accorse che il suo
corpo
aveva reagito alla provocazione di Bianca.
Ma lei ebbe la
sensibilità di non dire nulla; si limitò a
strusciare il bacino
contro la sua erezione.
Che crebbe. E lui non capiva perché.
Forse
era il contesto, ragionò concitatamente. Forse
perché le stupide
fantasie sulla storia con una studentessa prendevano vita, forse
perché loro due, il segreto, l'erotismo dei modi di Bianca,
l'avevano in qualche modo eccitato. O forse perché voleva
che lei la
smettesse di parlare.
Qualunque cosa fosse, aveva preso il
sopravvento. Non riusciva a reagire e Bianca procedeva con calma e
languore, costringendolo a rabbrividire aspettando la prossima mossa.
I baci sul collo si erano fatti profondi. La lingua di lei lo
percorreva impercettibilmente, e poi all'improvviso premeva contro i
suoi muscoli. Non l'allontanò quando lei spinse il seno con
forza
contro il suo petto. E sospirò per le sue dita che gli
premevano
sulla schiena.
E poi Bianca risalì il suo collo, gli succhiò il
lobo dell'orecchio, ne percorse il contorno con le labbra e la punta
della lingua. I suoi baci proseguirono lungo lo zigomo. Si fecero
sempre più lievi e distanziati, quando, alla fine, gli
arrivò
all'angolo della bocca. Si staccò. Con una lentezza
esasperante,
inclinò la testa, socchiuse le labbra carnose, le morse
voluttuosamente e le avvicinò a quelle di lui. Che
tremavano,
sopraffatte dal respiro bollente che gli usciva dal più
profondo
della gola.
Altri tre centimetri, pensava, e avrò fatto lo
sbaglio più grande della mia vita. Altri tre centimetri e
potrei
venirle addosso, vestito, con solo la forma morbida e bagnata che
emerge dalle sue mutandine premuta sulla cerniera dei miei jeans.
Ma
in quel momento, in un lampo, prima che le loro labbra umide e gonfie
si toccassero, Bianca lo guardò negli occhi. Per un solo
istante,
uno solo.
Le fu eternamente grato per averlo fatto.
Se non
l'avesse fatto, probabilmente le loro bocche si sarebbero lanciate
furiosamente una sull'altra, catturando le labbra dell'altro, quasi
cercando di strappargliele dal volto, e poi lui avrebbe afferrato la
schiena di Bianca e l'avrebbe trascinata giù sopra di lui, e
poi
l'avrebbe girata e sdraiata sui cuscini, le avrebbe sfilato con foga
le mutandine e si sarebbe slacciato i jeans, e l'avrebbe scopata
lì,
in quel momento esatto, senza neanche tentare di bagnarla
perché
sapeva che lei non aspettava altro che di sentirlo dentro il suo
corpo, fino a perdere la concezione dei sensi.
Ma lei in quel
momento lo guardò negli occhi, ed Emanuele si
sentì invadere da un
sudore freddo e da un malessere che non aveva mai sperimentato in
vita sua.
Era vero, non l'aveva toccata: ma era stato fermo
immobile, e non l'aveva allontanata. E nessuno avrebbe mai creduto
alla storia che una ragazzina di sedici anni l'aveva circuito,
sfinito, confuso psicologicamente. Di solito andava nel modo opposto.
Erano i pedofili a fare il lavaggio del cervello alle ragazzine, non
il contrario. E Bianca era abbastanza disturbata da rendere
plausibile l'eventualità che avesse cercato di confonderle
le idee
per poi portarsela a letto.
-Bianca – mormorò, spaventato –
spostati, ti prego. Ti supplico, spostati da lì.
Lei lo guardò,
seria e composta, e il suo sguardo non tradiva nessuna emozione. Si
limitò ad alzarsi e a sedersi di fianco a lui, a un metro di
distanza.
Emanuele rimase in silenzio, occhi sbarrati, testa tra
le mani, mentre il cuore gli batteva sempre più forte.
Bianca,
perfettamente calma, se ne stava seduta a gambe accavallate –
in
modo del tutto formale – e dondolava un polpaccio con
noncuranza.
Quando si voltò verso di lei, faticò a
parlare.
-Perché l'hai fatto?
Lei non si voltò nemmeno e il
suo tono fu perfettamente asettico, nel rispondergli.
-Non lo
rifarò.
-No – confermò, tirando un respiro profondo per
calmarsi – non lo rifarai, sicuro. Ma perché hai
voluto...
perché?
-Pensavo... non pensavo niente. Non penso la maggior
parte delle cose che faccio e dico, ma adesso ci ho pensato, e ho
capito che non lo rifarò. Non posso farlo.
-Non puoi...?
-No,
prof. Primo, perché lei non vuole. Secondo,
perché lei ama Camilla
e non me. Terzo, perché non è giusto portarla nel
posto dove sono
io. Non voglio farle del male. Vorrei proteggerla, se posso.
-Il
posto... cosa...?
-Questo posto. - Bianca allargò un braccio e
indicò la stanza. - Questo, e tutti gli altri posti dove lo
faccio.
Lei mi piace perché vive da un'altra parte. Scommetto in una
villetta a schiera in zona residenziale con un giardinetto sul retro
e una mansarda, col mutuo pagato a metà dai genitori suoi e
della
sua fidanzata, e scommetto che ha un bel letto soffice con cuscini
sparsi dappertutto e magari le lenzuola hanno la stampa del cielo o
degli Husky. - Bianca si voltò e gli sorrise. - E scommetto
che
Camilla ha comprato i vasetti per il sale e lo zucchero e il
caffè
decorati con i girasoli in rilievo, vero? E che ci sono dei fiori, e
tanti libri e tanti cd e tanti dvd.
Emanuele non seppe replicare.
Non perché il ritratto non fosse fedele, ma
perché era sconvolto da
tutto quello che era successo. Bianca quindi continuò.
-Io voglio
che lei continui a vivere lì, nella sua villetta a schiera
colorata
assieme a Camilla. E col cane, mi ricordo che ha un cane, anche se
non me ne parla mai. Ce l'ho anch'io, un cane. Scommetto che lei gli
vuole bene e che gli ha dato il nome di qualche personaggio
storico.
-Già – mormorò, pensando a Gengis. Quel
bastardino un
po' tonto, con la sua lingua fuori e i suoi tentativi di mordersi la
coda, lo faceva sorridere ogni volta al solo pensiero.
-Ecco. Io
voglio che lei continui a vivere lì, in quel posto felice e
tranquillo un po' fuori mano. Perciò ho deciso di smetterla
con
questa storia del sesso, perché la mette nei guai. E
perché starei
male se lei tradisse Camilla; lei la ama, ne sono sicura. Lei
è il
tipo d'uomo che ama qualcuno e lo ama per tutta la vita. Sarei la
ragazza più fortunata del mondo se scegliesse me, ma lei ha
già
scelto chi deve camminarle accanto fino alla fine. E non voglio
assolutamente rovinare una delle ultime storie d'amore del
ventunesimo secolo. Sarebbe un'offesa a lei, a Camilla e a quel che
rimane in me del romanticismo.
-Sì – Emanuele annuì, troppo
scombussolato per poter dire di più.
-Non sia infelice. Non è
successo nulla. Lei non mi ha toccata, prof, e io non dirò a
nessuno
che ci siamo visti fuori da scuola.
-Detto così, sembra davvero
che io ti abbia circuita e che tu cerchi di giustificarmi
perché ti
ho fatto il lavaggio del cervello – esalò
Emanuele. Bianca scosse
la testa.
-Io sono stata una gran stronza, prof, scusi il termine.
Non è colpa sua. Ho esagerato io.
Farsi proteggere e rassicurare
da una ragazzina di sedici anni. Dalla stessa
ragazzina che poco prima l'aveva portato in quel posto, come lo
chiamava lei stessa, da cui ora cercava di farlo fuggire.
-Senti
Bianca... non parliamo più. Stiamo calmi per un attimo. Ok?
-Ora
sono
calma – sbadigliò – fin troppo. Mi
è venuto anche un po' di
sonno. Le dispiace se dormo un pochino?
-No, dormi.
Bianca si
accoccolò poco più su e si avvolse con un lembo
della coperta. Le
ci vollero pochi minuti per rotolare in un sonno profondissimo, dal
quale non riemerse per parecchio tempo. Un'ora dopo, e dopo aver
letto metà del libro che teneva in borsa, Emanuele era quasi
tentato
di lasciare Bianca sul letto e andarsene, ma, seppur con
difficoltà,
cercò di tenere bene a mente che aveva sedici anni, che non
aveva la
macchina e che i suoi genitori non sapevano dove fosse.
Ma Bianca
non era una di quelle che mentre dormivano sembravano un angioletto.
Era abbandonata sul materasso con le palpebre pesantemente abbassate
e la bocca semiaperta, ma non dava un'impressione né di
calma né di
dolcezza. Sembrava che stesse ricaricando le batterie in attesa di
tornare all'attacco.
Emanuele
ne era spaventato. Aveva paura che da un momento all'altro
spalancasse gli occhi e si drizzasse in piedi, come in quel video del
gruppo di Jared Leto. Lui, dal canto suo, si sentiva sfinito: avrebbe
voluto capitombolare in un sonno di piombo come quello di Bianca, ma
niente, non ne era capace. Continuava a pensare a cosa sarebbe
successo se Camilla l'avesse saputo.
In un modo o nell'altro,
aveva tradito la sua fidanzata. Un'erezione gli toglieva ogni
possibile via di giustificazione; la sua immobilità di
fronte alle
provocazioni costituiva un'ulteriore condanna. Se, nonostante
l'erezione, l'avesse scacciata, forse avrebbe salvato almeno in parte
il suo onore. Ma, no, non l'aveva scacciata, non fin quando lei gli
aveva lanciato un'occhiata talmente penetrante che l'aveva
raggelato.
Bianca aveva condotto il gioco, non lui.
E
continuava a chiedersi perché l'avesse voluto trascinare in
un gioco
tanto crudele, perché proprio lui, tra tutti, dovesse
seguire la
folle corsa di quella ragazza verso un posto che nessuno di loro due
voleva raggiungere.
Ma Camilla. Con che faccia avrebbe guardato
Camilla, quella sera? Come gliel'avrebbe mai spiegato che stava per
cedere a una sedicenne? Come poteva farle capire che lo aveva portato
a un punto nel quale non era più stato capace di discernere
il
giusto dallo sbagliato, voleva solo far tacere Bianca e un milione di
voci contrastanti dentro di lui? Ogni volta che si poneva una di
queste domande un brivido freddo gli scendeva lungo la schiena.
Lui
non era un pedofilo, non lo era. Aveva dei princìpi,
per
l'amor del cielo. Era sempre stato in grado di tenere a bada degli
adolescenti, ma perché questa no? Sembrava quasi che lo
portasse
sotto ipnosi, giù per la tana del Bianconiglio.
Decise di
rimuovere tutto, di scacciarlo. Decise che quel giorno non era mai
esistito. Decise di fare come se nulla fosse successo, prima, e di
dimenticarlo per il resto dei suoi giorni. Se non era mai accaduto,
non poteva causare danni in futuro. Non poteva attanagliarli il petto
per il dolore di aver tradito Camilla. Non poteva riempirgli la testa
di dubbi saltellanti sulla sua integrità morale. Non poteva
toccarlo
in alcun modo.
Il pomeriggio a dicembre tramontava velocemente, e
dopo le cinque fuori dalla finestra il cielo era blu scuro e l'aria
si era raffreddata; le luci della sera si erano accese in strada e le
macchine si accodavano l'una all'altra nell'avvicinarsi all'ora di
punta. Qualche clacson iniziò a fendere l'aria, ma Bianca
continuava
a dormire. Dormiva così profondamente che Emanuele si
azzardò a
scendere dal tabacchino a comprarsi le sigarette e si fermò
anche in
cartoleria a comprare il giornale, dato che il libro era finito da un
pezzo. Quando tornò lei ancora dormiva. Si
svegliò solo quando,
dopo aver letto tutto il quotidiano compresi oroscopo e articoli
sportivi, lui la scosse per la terza volta. Riaprì gli occhi
con
fatica, quasi non dormisse da giorni.
-Buongiorno – la
salutò.
-Mh – fece lei – uuh, dimenticavo che ti fa venire
sonno. Mi scusi, ho dormito tanto?
-Qualche ora.
Sperò che il
sonno avesse anche rimosso i suoi ricordi degli avvenimenti
precedenti. Lei, comunque, non ne fece parola.
-Prof, andiamo via.
Sono molto stanca e credo di aver bisogno di una dormita
profonda.
Emanuele alzò un sopracciglio; poco prima sembrava
quasi in letargo. Ma non alzò obiezioni.
-Metti la coperta in
borsa; ti riaccompagno in centro. Da lì ce la fai ad
arrivare a
casa, vero?
-Sì, sì, dovrebbero passare autobus fino alle
nove.
-Andiamo allora.
Bianca frugò nel portafogli e gli porse
qualche banconota; Emanuele scosse la testa – allontanarla
con la
mano avrebbe potuto portare a sfiorarla, e lui non lo voleva
– e si
avviò verso la porta.
Pagarono in silenzio e in silenzio si
sedettero in automobile; lei si riaddormentò quasi
all'istante e lui
ascoltò il telegiornale via radio e qualche trasmissione di
politica, ovvero, qualcosa che non lo facesse pensare ai sentimenti e
a sé stesso – pericolo latente in caso di
trasmissione di qualche
canzone pop.
Svegliò Bianca con un “ehi”, e lei
aprì gli
occhi, se li strofinò con i pugni, sbadigliò e
poi afferrò lo
zaino.
-Arrivederci, prof – disse con voce impastata, aprendo la
portiera.
-Ciao, Bianca – rispose educatamente, poi ripartì
velocemente. Dallo specchietto notò che lei non si era
girata verso
di lui.
Notò anche un'andatura molto barcollante, uno sguardo un
po' perso nel vuoto, ma ormai non gli interessava più. Non
le
avrebbe mai più permesso di prendersi un solo secondo della
sua
attenzione.
Il giorno dopo, purtroppo, l'avrebbe vista.
Disgraziatamente, doveva tenere lezione nella sua classe quasi ogni
giorno della settimana, escluso il mercoledì. Si
consolò pensando
che, quantomeno, aveva soltanto la quinta ora; ovvero, ci sarebbe
rimasto assieme poco tempo, e comunque non avrebbe dovuto subire lo
shock di rivederla non appena tornato a scuola.
Mentre il treno
scorreva rumoroso sulle rotaie, e il signore in completo accanto a
lui sfogliava il giornale nell'aria impastata e sonnolenta delle
fredde mattine d'inverno, ricordò la sera prima.
Ricordò che,
appena giunto a casa, per assicurarsi di non pensare al pomeriggio
appena concluso si era versato un intero bicchiere di Anima Nera. E,
più tardi, Camilla era tornata a casa, e l'aveva trovato
disteso sul
divano con gli occhi socchiusi e la testa penzoloni dal bracciolo.
L'aveva guardata mentre spalancava gli occhi, gettava cappotto e
borsa su una sedia e gli si precipitava accanto; lei aveva lanciato
un'occhiata al bicchiere e alla bottiglia, poi un'occhiata a lui, poi
di nuovo al bicchiere, e lui le aveva mormorato “non
domandarmi”
e lei non aveva fatto domande.
Scoprì che non era possibile
dimenticare. Scoprì che qualunque cosa lei avesse fatto
–
chiederglielo, non chiederglielo, estorcerglielo, guardarlo con la
sua incantevole dolcezza – lui avrebbe sempre ricordato.
Anche se
gliel'avesse taciuto. Ogni volta che gli fosse balenato in testa, e
lui avesse bevuto per scacciarlo o pianto o battuto la testa contro
il muro, anche se lei non l'avesse mai scoperto, né
sospettato, lui
avrebbe saputo cos'aveva fatto, e la consapevolezza l'avrebbe
tormentato per tutta la vita.
Quanti anni ci volevano a
dimenticare davvero cosa si ha fatto alla persona che si ama...?
-Mi
scusi, devo scendere – fece il signore in completo.
-Certo,
prego – replicò educatamente Emanuele, alzandosi
per fare
spazio.
Era terribile quella forzata vicinanza con gli estranei
nel momento più intimo e sensibile della propria giornata.
La
mattina, Emanuele tollerava soltanto la presenza di Camilla: per come
la vedeva lui, la mattina, quando hai le palpebre pesanti, la lingua
incollata al palato, la testa dolorante per il riposo a cui sei
costretto a rinunciare, non bisognerebbe mai ritrovarsi gomito a
gomito con un estraneo che sfoglia il Mattino, o tenta di leggere un
libro abbandonandosi ogni tanto al sonno, o addenta svogliatamente la
brioche sorseggiando un cappuccino caldo comprato in stazione.
Specialmente in quelle mattine gelide e nebbiose d'inverno, quando
fuori era buio e dentro quella luce fastidiosa sembrava invitare i
passeggeri a svegliarsi e a fare qualcosa, ché la giornata
era già
iniziata.
E se uno non vuole, pensava Emanuele, se uno non vuole,
che la sua giornata abbia inizio...? E se uno volesse dormire per
sempre e dimenticarsi quello che ha fatto...?
-Avvisiamo i gentili
passeggeri che tra due minuti raggiungeremo la fermata Padova
Centrale.
Doveva alzarsi; adesso lo aspettavano un autobus – il
3, il 24, il 18, il 12, il 16, non aveva che da scegliere – e
cinque ore passate a cercare di conficcare a viva forza delle nozioni
nelle teste caotiche dei suoi studenti.
Caotiche, sì. Non aveva
mai pensato che fossero delle teste vuote; tutt'altro. Se fossero
state vuote davvero, non avrebbe fatto alcuna fatica a riempirle. Ma
dato che erano già quasi piene, tra relazioni, sport, hobby,
preoccupazioni, obblighi e divieti, Emanuele aveva sempre pensato che
fosse normale che rimanesse poco spazio per Torquato Tasso e Ludovico
Ariosto, che non avevano certo lo stesso appeal di
una partita
a Soul Calibur. Si stupiva anzi che altri colleghi
la
pensassero altrimenti.
Lui non si sentiva poi molto lontano dai
suoi studenti. Per quanto riguardava quelli di quinta, aveva appena
undici anni più di loro; avrebbe davvero potuto essere il
loro
fratello maggiore. E, nonostante alcuni tra i più piccoli
pensassero
che i professori non facessero altro oltre a correggere compiti e
prepararne altri a sorpresa, benché fosse costretto ad
ammettere che
per alcuni dei suoi colleghi la deduzione fosse piuttosto azzeccata,
beh, nel suo caso non era così. A lui piaceva andare in
discoteca,
provare cocktail di birra agli Irish Pub, fare sesso con la sua
ragazza, giocare con le varie consolle e, certo, anche leggere, ma
nel suo tempo libero non leggeva di certo Ludovico Ariosto. Nella sua
borsa c'erano volumi di John Fante e Chuck Pahlaniuk, e, come buona
parte dei suoi studenti, amava i film di Kubrick e di Tarantino. A
volte andava al cinese e comprava la cena take away e poi lui e
Camilla guardavano assieme un horror che faceva paura più a
lui che
a lei, e a volte prendevano un giorno di ferie dal lavoro e se ne
andavano assieme in giro per qualche città, o lontano, nei
colli, ad
esempio, a fine estate, rubando i fichi dagli alberi sul ciglio della
strada e sfrecciando in moto sulle vie strette e silenziose,
circondate da prati e fiori.
Ma quei pensieri felici svanirono
nello spazio di un attimo, quando gli tornò in mente il
pomeriggio
precedente. Aveva rotto tutto quanto. E non poteva incolpare Bianca,
no, non sarebbe stato giusto, perché la colpa era stata solo
sua.
Come sua mamma gli aveva detto migliaia di volte da piccolo: se ti
dicono di buttarti in canale, tu ti butti?, esclamava con stizza. E
lui diceva: no, mi butto solo se voglio io!, e quella volta si era
buttato, e l'aveva fatto solo e soltanto perché l'aveva
voluto.
Aveva rovinato tutto, per sempre. Non avrebbe più potuto
pensare a Camilla senza che qualche macchiolina nera sgocciolasse sul
quadro ad acquerello della loro vita assieme. E forse un giorno,
pensò nel panico, forse un giorno pur che non gli venisse in
mente
tutto quanto avrebbe smesso di pensare a lei, e tutto sarebbe finito
per sempre.
Non avrebbe potuto accusare altri che sé
stesso.
Senza volerle alcun male, senza volerla ferire, anzi,
preoccupandosi solo di amarla e rispettarla finché la morte
non li
avesse separati, era arrivato a separarsi da lei da solo. Senza
nemmeno averlo mai desiderato. Un giorno non avrebbe più
sorriso al
pensiero delle carezze delicate di Camilla e questo soltanto
perché
Bianca aveva fatto sì di fargli mettere il piede in fallo,
solo per
pochi attimi che non gli avevano dato assolutamente niente.
Se ci
fosse stato un modo per cancellare quel ricordo, l'avrebbe seguito
alla lettera. Droga, veleno, botte, ipnosi, scappare all'estero per
sempre. L'avrebbe fatto. Non importavano le conseguenze, ma voleva
tornare a prima. A quando lui non aveva nulla da rimproverarsi e
poteva guardare Camilla negli occhi e riusciva a parlare con Bianca
senza sentirsi crescere dentro un malessere terribile.
Camilla la
sera prima l'aveva accarezzato a lungo sulla fronte, baciato sul
viso, abbracciato forte mentre lui guardava il soffitto senza
parlare. Quando lui era tornato dal bagno dopo aver vomitato, si era
trovato sul tavolo una camomilla calda e un piatto di riso in bianco.
E poi lui aveva mangiato in silenzio, mentre Camilla lavava i piatti,
e quando aveva finito lei aveva lavato anche la tazza e il piatto
sporco d'olio e poi l'aveva accompagnato a letto, e si era sdraiata
assieme a lui senza accendere l'iMac per guardare un film. Lui si era
sistemato a pancia in su, con gli occhi serrati, immobile e teso. Lei
gli aveva spostato il braccio e aveva appoggiato la testa sul suo
petto e il piccolo pugno semichiuso sul suo addome, come facevano
ogni notte.
Si addormentò quasi subito, per via dell'alcool, e
quando si svegliò la mattina con Camilla tra le braccia, e
guardò i
suoi capelli scuri e lisci e i suoi occhi con le ciglia lunghe ancora
chiusi, le lacrime iniziarono a straripare dalle palpebre e gli
bruciavano nei bulbi come l'inferno.
Pianse a lungo,
silenziosamente, e per tutto quel tempo fu costretto a rimanere
immobile e a strozzare i singhiozzi, per non
svegliarla.
Indipendentemente da quanto gli ci sarebbe voluto per
guarire da quel dolore, avrebbe dovuto aspettare da solo.
(Nda:
lo so lo so lo so ;_; era lunghissimo, biscottino premio se siete
arrivati fin qui ç_ç. Tra l'altro, essendo questo
capitolo lungo
tre volte uno dei precedenti, penso capirete che questa volta non
sono riuscita a portarmi avanti con la stesura; dovrete attendere che
io scriva il capitolo 6 :). Nel frattempo il sostegno e il feedback
sono sempre i benvenuti ù_u.
Una
nota al proposito della madre di Bianca: posso capire che sia
antipatica, e che possa apparire lo stereotipo della mamma in
carriera sempre impegnata che non ha tempo per i figli. Da un lato
sicuramente è vero, ma, come succede nella vita reale,
dietro allo
stereotipo e agli atteggiamenti sgradevoli c'è sempre un
qualcosa
che spinge la persona a comportarsi in un certo modo. Tuttavia non
sempre nella vita reale è possibile scavare fino ad arrivare
a quel
qualcosa; in questa storia non ho interesse ad analizzare i suoi
problemi personali, se non in relazione con quelli della figlia.
Quindi, per chi mi chiedeva se l'avrei approfondita: posso solo dire
che la rivedremo e che sapremo qualcosa di più su di lei, ma
che
rimane comunque un personaggio secondario, quindi non
riceverà lo
stesso livello di introspezione che ho dedicato ad Emanuele e a
Bianca, ovvero i protagonisti. Dato che spesso, nel nostro
quotidiano, non arriviamo a conoscere i dettagli più
nascosti della
personalità di chi ci sta davanti, così
accadrà nella mia storia;
spesso ci si fa l'idea di una persona dalla sua apparenza e, non
avendo occasione di andare più in là nella
conoscenza, ci si tiene
questa idea e la si dà per corretta. Do per scontato, nelle
mie
storie, che non esistano personaggi solo buoni o solo cattivi, e
anzi, per me non ha significato l'essere 'buono' o 'cattivo',
esistono cause ed effetti ed ognuno ha vissuto i propri. Solo che non
posso dedicare un capitolo alla nostra Miranda Priestly XD
l'impostazione stessa della storia non lo concede, al massimo
conoscerete qualcosa del rapporto madre/figlia e in generale gli
avvenimenti accaduti in questa famiglia, ma non andrò
più in là
:).
In particolare mi rivolgo a Pnin: sono curiosa di sapere,
perché mi aiuterebbe molto, cosa non ti è
piaciuto della
caratterizzazione di questo personaggio; pensavo che saltasse di
più
all'occhio, per mancanza di approfondimento, magari Camilla, ma la
signora Milanesi non me l'aspettavo XD. Fammi sapere se ti va ;) mi
sarebbe sicuramente molto utile.
E con questo chiudo e vi
ringrazio tantissimo dei vostri commenti, siete davvero molto
gentili. Spero che la storia continui a mantenere un buon livello e
che non vi deluda :). Grazie ancora per il sostegno ^_^.)
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Bianca
quel giorno era assente.
Rimase assente quasi una settimana e la
classe era in fibrillazione, quando finalmente la preside si decise a
parlare direttamente con la famiglia. Poi convocò gli
insegnanti, ed
Emanuele perse ancora una volta la sua ora di ricevimento a causa di
Bianca.
Sedette sulla comoda poltrona di pelle di fronte a
Giovanna. Lei, tacchettando sulle sue décolletés
di Gucci, si
sedette dopo aver accomodato il soprabito sull'attaccapanni.
-Mi
scusi se la costringo a rinunciare alla sua ora –
esordì,
poggiando i gomiti sul tavolo e intrecciando le dita delle mani
–
purtroppo, questa faccenda sta iniziando ad assumere proporzioni
piuttosto notevoli.
-Già.
Bianca aveva parlato? Aveva rivelato
tutto ai suoi genitori? Stava per essere licenziato e
incarcerato?
-Mi è stato comunicato che Bianca rimarrà assente
ancora per un po' di tempo. Purtroppo non si tratterà di
qualche
giorno, mi hanno detto che rimarrà assente per un mese e
forse
più.
-D'accordo. Non c'è problema, Bianca è sempre
stata brava
nella mia materia; oltretutto il trimestre è appena
iniziato, e nel
mezzo ci sono le vacanze di Natale.
-So che è una delle nostre
studentesse migliori – osservò Giovanna,
riordinando alcuni
fascicoli sulla scrivania – sono certa che saprà
recuperare.
La
questione sembrava chiusa, per la preside. Ma Emanuele, nonostante
tutto, voleva saperne di più.
-Preside... - azzardò, guardando
le mani di lei e la fede di Bulgari sull'anulare sinistro –
una
sola cosa. Come posso giustificare ai compagni assenze tanto
prolungate e consecutive l'una all'altra?
-Oh beh – fece lei,
con la sua consueta calma – non devi giustificare proprio
nulla con
nessuno, Emanuele, tantomeno con dei ragazzini.
-Lei... lei sa il
perché?
-So qualcosa – fu la risposta, il cui tono aveva un che
di conclusivo – ma non abbastanza, e ritengo che voi
insegnanti
possiate continuare a svolgere il vostro lavoro con gli elementi che
già avete. Bianca ritornerà e intelligente
com'è sono certa che
manterrà la sua media al solito livello.
-Senza dubbio – fece
Emanuele, sollevato di non essere stato convocato per motivi ben
più
gravi – bene, terrò presente la sua assenza.
Farò in modo di
farle comunque avere il materiale.
-La ringrazio molto –
Giovanna sorrise e gli porse la mano – bene, la ringrazio del
suo
tempo, e mi scusi ancora. Arrivederci, Emanuele, buona giornata.
-A
lei – strinse la mano magra e fredda di Giovanna, fece un
sorriso
di circostanza ed uscì dall'ufficio.
-Mariolina,
buongiorno.
-Buongiorno, Emanuele – lo guardò, e il suo
sguardo
diceva tutto. Voleva venirne a capo anche lei.
-Non lo so –
rispose, sconsolato – non so nulla. Credo che anche la
preside
sappia ben poco.
Lei scosse la testa.
-Qualcosa dev'esserci.
Abbiamo il diritto di sapere se una nostra alunna è ammalata
o ha un
problema, oppure no? Come possiamo avvicinarci a lei nel modo giusto,
se non conosciamo il motivo di queste assenze?
Alzò le spalle,
strinse le labbra e sospirò. Mariolina lo guardò,
partecipe, ed
annuì.
-Speriamo sia tutto a posto – fece, preoccupata, poi gli
toccò una spalla – scappo, che ho la quarta C.
Buon lavoro,
Emanuele.
-Anche a te.
Durante la giornata incrociò Antonella,
che gli lanciò uno sguardo significativo. Trovò
anche Sonia per le
scale, ma lei non disse nulla; il suo sguardo penetrante poteva
significare miliardi di cose, ma raramente lei parlava degli affari
degli altri. Tuttavia, sapeva che doveva essere profondamente
preoccupata per Bianca.
Quanto a lui, era perplesso. Assenze molto
lunghe, e ricorrenti nel tempo. Eppure, ogni volta che tornava, era
vispa come l'ultima volta che l'aveva vista.
Quella sera,
nonostante avrebbe preferito dimenticarsi di quella ragazzina, ne
parlò con Camilla. Quel mistero gli permetteva di sviare la
mente da
quello che era successo il giorno prima, e, anche se a scuola gli era
parso di allontanarsene, era successo tutto in un tempo terribilmente
vicino. Meno di ventiquattr'ore, nei fatti.
-Non saprei cosa
pensare – era l'opinione di Camilla – dovresti
parlare coi
genitori, ma mi hai appena detto che hanno chiamato loro stessi, ed
evidentemente non vogliono sbottonarsi più di
così.
-Puoi
soltanto andare per ipotesi – ragionò Emanuele,
pensieroso – e
la mia ipotesi è che quella ragazzina si droghi. Una volta
mi ha
confessato che si porta a scuola la vodka per calmarsi, e un'altra
volta l'ho trovata che ingoiava delle pastiglie. A me ha detto che
era la pillola anticoncezionale, ma ci ho francamente creduto poco.
Spesso si esalta, inizia a parlare a raffica, a non stare mai ferma.
E, in generale, in classe è sempre su di giri.
-E la madre non
sa.
-Non sa, o finge di non sapere; chissà. Probabilmente la
madre la trascura e lei cerca le sue attenzioni.
-Oppure cerca di
distanziarsi dall'ambiente familiare tramite lo stordimento che le
dà
la droga.
-So solo che non ha un comportamento normale. Voglio
dire; è sempre faticoso tenerla tranquilla,
perché è una ragazzina
vivace, e purtroppo incanala la sua vivacità nelle, diciamo,
pubbliche relazioni. Ma ci sono momenti in cui sembra che non ragioni
su quello che dice. E diventa iperattiva. Poi la vedo con le
pastiglie in mano, e non me le vuole mostrare. Cosa dovrei
pensare?
-Nulla – Camilla scosse la testa – non dovresti
pensare nulla. Credo che questa sia la strada giusta.
-Ma allora
le assenze? - insistette Emanuele – Quelle, come le
giustifichi?
Non ne so molto di droga, ma un down dura qualche ora. Non un mese e
mezzo.
-Non lo so, Ema. Non saprei giustificarle nemmeno io.
Potrei solo pensare che la droga abbia avuto effetti distruttivi,
perché, in effetti, se guardi i tossicodipendenti puoi
vedere che
qualche cellula del cervello si è bruciata. Ma, in tal caso,
dovrebbe essere rovinata vita natural durante, quindi non
sussiste.
-Salute cagionevole?
-Non ne ho idea. Non conosco
Bianca. Sua madre, poi, è inafferrabile; in ufficio
è come al
solito. Forse non è successo nulla di particolare, magari
è
ammalata.
-Tanto mistero per una malattia...?
-Non sappiamo di
che malattia si tratta, in fondo. Magari è grave, magari
è un
tumore e lei deve passare periodi lunghi in ospedale.
-Non so. La
vedo troppo lanciata, quando torna, perché si tratti di un
tumore. E
poi, è una ragazza fondamentalmente allegra. È
anche vero che
piange facilmente, ma, di base, ha un carattere giocoso,
vivace.
-Magari vuole distanziarsene il più possibile.
-Vero
anche questo. Ma il fisico dovrebbe risentirne, almeno un po'. - Poi
ricordò un dettaglio. - In effetti, ultimamente era
dimagrita molto.
Mi ha detto di aver esagerato con la dieta.
Camilla lo fissò.
-Già
– mormorò Emanuele, come in trance –
pillole... dimagrita...
assenze lunghe... Cristo. E se fossi completamente fuori strada? E se
esagerasse con droga e alcool per dimenticare che ha una malattia
grave?
-Possibile. Molto probabile. Ma, Ema, perché non te ne
accerti di persona?
-Prego?
-Perché non vai a casa sua con la
scusa di portarle i compiti e non cerchi d'indagare un
po'?
-Perché...
In effetti, non aveva alcun motivo. Fissò
Camilla con aria sperduta. Lei scoppiò a ridere.
-Che faccia mi
fai? Su, non è difficile. Chiedi l'indirizzo alla
segretaria, dille
che vuoi avere un colloquio urgente con la famiglia e vai. Ricordati
di portarglieli davvero i compiti, però.
-E se i genitori non
volessero ricevermi?
-E tu non avvisarli. Presentati lì con la
faccia di tolla e fai un bel sorriso. Magari si arrabbieranno, ma
intanto sarai entrato in casa loro.
-Sei malefica. Ma amo questo
tuo essere malefica – asserì, poi
l'afferrò per un polso e se la
portò tra le braccia. Un ago invisibile gli punse il cuore e
gli
fece un male terribile, ma lui finse di non sentirlo e si
concentrò
sul profumo dei capelli di Camilla.
Dimenticherò,
dimenticherò,
si disse. Riavrò
quello che mi hai rubato. E avrò la vita felice per la quale
finora
ho combattuto.
-La ringrazio,
Annalisa. Buona giornata, arrivederci; e grazie ancora per il suo
prezioso aiuto.
Sfoderò un sorriso smagliante e se ne andò
agitando la mano. La segretaria era sopra i cinquanta, era bruttina
ed era sicuramente poco simpatica, per cui era raro che qualcuno,
specialmente un bell'uomo, fosse tanto mieloso con lei.
Emanuele
l'aveva fatto per arrivare a Bianca e sperava che Annalisa tenesse la
bocca chiusa con la preside; non proprio corretto, certo, ma, in un
mondo dove nessuno si preoccupava degli altri, iniziava a chiedersi
perché avrebbe dovuto continuare a farlo soltanto lui.
Ora che
aveva questa possibilità tra le mani, si sentiva
più tranquillo: la
lezione fu pacifica, specialmente perché Bianca non c'era e
la
classe non veniva costantemente agitata da litigi e atti osceni in
luogo pubblico. Sentì qualche commento sull'assenza
prolungata di
“quella troia slabbrata della Ferreri”, ma questo
fu quanto; per
una volta, poté tornare a casa quasi riposato, confrontando
la
giornata alla solita routine.
Bianca viveva in un quartiere di
Padova, nella prima periferia. Lo raggiunse facilmente con una
ventina di minuti di autobus; ebbe qualche difficoltà nel
trovare la
via, perché Google Maps non era sempre precisissimo e lui
non aveva
potuto stampare il percorso, ma con l'aiuto di qualche passante
riuscì ad arrivare al palazzo giallo chiaro in cui viveva
l'alunna
più chiacchierata dell'istituto. Fortunatamente, una signora
stava
uscendo con un barboncino al guinzaglio, e lo lasciò entrare
con un
sorriso. Emanuele rispose al sorriso, cercando di sembrare
disinvolto; salutò la signora, ringraziò e
salì le scale. Il
condominio contava quattro piani e Bianca viveva proprio all'ultimo;
fu quando arrivò col fiato corto sul pianerottolo che,
avvicinandosi
al campanello, iniziò a sentire delle voci concitate.
All'inizio
le sentì in lontananza, probabilmente perché la
scena si stava
svolgendo in qualche stanza lontana dall'ingresso; ma in capo a pochi
secondi si avvicinarono, ed Emanuele, sgomento, udì dei
tonfi e una
voce maschile che urlava bestemmie ed insulti.
-Tu devi fare
quello che ti diciamo noi, hai capito?! - udì distintamente.
Poi un
altro tonfo. Un urlo di Bianca. Un altro tonfo ancora. - Alzati!
Subito!
-Va' via!
Via! - strillò la voce tremante di Bianca - Stammi
lontano!
-Smettila di fare queste scene – sbraitò suo padre
–
bu-hu-hu, a piagnucolare e tremare per farmi sembrare un mostro!
Alzati!
-Vai VIA! -
gridò di nuovo lei, col terrore nella voce.
Emanuele sentì il
rumore di un altro colpo. Poi Bianca urlò ancora.
-Mamma, aiuto!
- la sentì urlare disperata, e poi tossì. -
Mollami! Mamma!
Si
udirono altri colpi, questa volta contro una parete. Bianca piangeva,
suo padre le diceva che era una testa di cazzo e la madre, ovunque
fosse, taceva.
Iniziò a sudare. Questo non era assolutamente
previsto. Assolutamente, no, non era previsto. Bianca era la cattiva
del suo cast, lei doveva essere condannata, non salvata. E adesso?
Cosa poteva fare?
-Vaffanculo, porco D*o – sentì bofonchiare, e
poi udì una porta che sbatteva. Ci fu qualche attimo di
silenzio,
poi una voce di donna che conosceva piuttosto bene intervenne
freddamente.
-E sappi che d'ora in poi ti sogni di uscire o che ti
diamo ancora la paghetta – proclamò.
Poi, uno scalpiccio
nervoso e infine il silenzio.
Rimase lì, di fronte al campanello,
indeciso sul da farsi. Se avesse suonato in quel momento, sarebbe
stato chiaro che aveva sentito tutto. Decise di aspettare qualche
minuto; tirò fuori il libro che aveva nella ventiquattrore
e, dopo
tre pagine e mezza, in cui sentì la televisione accendersi e
diffondere nell'aria voci di tronisti e pretendenti, decise che aveva
aspettato abbastanza. Prese un respiro profondo e suonò il
campanello.
Dei passi veloci si diressero verso la porta. Sentì
il rumore dello spioncino che veniva aperto. Subito dopo, due giri di
chiave, e il volto sorridente della signora Milanesi.
-Buongiorno,
professor... Vettorel, giusto?
-Buongiorno – tentò di sorridere
– spero di non disturbare.
-Ma no, certo che no, abbiamo appena
finito di pranzare. E poi io questo pomeriggio sono a casa. Ma prego,
si accomodi, non stia lì sulla porta – si
scostò per farlo
entrare, sempre sorridendo, e gli indicò il grande divano a
ferro di
cavallo. Bianca non c'era.
-Amore – chiamò, in direzione del
reparto notte – c'è il professore di Bianca.
-Sì – sentì
arrivare una voce piuttosto tranquilla da qualche camera più
in
là.
-Allora – la donna catturò subito la sua
attenzione – mi
dica. C'è qualche problema? Non doveva scomodarsi a venire
qui,
avrei potuto benissimo venire io.
-Non si preoccupi, non è un
problema. Dato che l'ho già disturbata poco tempo fa, questa
volta
vengo anche per conto degli altri professori.
-C'è qualche
problema...?
Ma perché quella donna era sempre convinta che sua
figlia causasse problemi...? D'accordo, era vero, ma perché
continuava ad accusarla, in continuazione?
-Nessun problema,
signora, sono venuta a portarle i compiti di questa settimana e a
portarle il programma per i prossimi giorni. Mi hanno avvertito che
sarà assente per un po' di tempo, quindi...
-Certo. La ringrazio,
lei è troppo gentile. Sarei venuta io stessa.
-Non si preoccupi,
davvero.
-No, davvero, posso sempre trovare il tempo, se si tratta
dell'istruzione di Bianca. La prossima volta non si faccia problemi a
chiamarmi.
Cosa stava cercando di fare? Dimostrargli che lei
poteva fare tutto: stare dietro a una casa, a una famiglia distrutta,
a un lavoro di responsabilità e anche agli impegni
scolastici di sua
figlia? Oppure voleva semplicemente che se ne stesse alla larga e che
li lasciasse litigare senza freni, in modo da non dover far finta che
tutto fosse a posto davanti a un estraneo quando in realtà
avevano
appena dato una perfetta dimostrazione di quanto due persone
potessero essere negate per il mestiere di genitore? Questo pensava
Emanuele; in realtà, però, disse tutt'altro.
-D'accordo, se lei
mi assicura che non le creo un disturbo, allora mi rivolgerò
a
lei.
-Non ci vado in quel posto – sentirono un urlo soffocato.
Poi l'inequivocabile rumore di un ceffone. - No! - Bianca
strillò di
nuovo. Udirono qualche colpo contro il muro, poi si sentì
mugugnare
qualcosa. Infine ci fu il silenzio.
-Se vuole consegnarmi il
materiale – la signora Milanesi gli sorrise affabilmente
– lo
farò avere a Bianca appena starà bene. Ma non si
preoccupi;
contiamo di mandarla a scuola domani stesso.
-Bene, allora. Be', è
stato un piacere rivederla – Emanuele le porse la mano; aveva
ragionato che sarebbe stato meno imbarazzante per entrambi se lui se
ne fosse andato.
Lei la strinse tranquilla; il suo volto non
tradiva alcuna gratitudine per il gesto. Era come se non li avesse
nemmeno sentiti.
-Arrivederci, professore. La ringrazio
infinitamente della sua preoccupazione.
-Si figuri, se non mi
preoccupo per i miei studenti migliori, per chi sennò?
Sorrisero
entrambi; Emanuele sperò che almeno questa frase le avrebbe
risparmiato qualche sberla.
Non intendeva però rinunciare ad
ascoltare la lite; camminò quindi fino alle scale e finse di
scenderle, rumorosamente. Si accertò di essere fuori dal
campo
visivo dello spioncino. Si sedette e rimase seduto finché
non
ricominciò a sentire qualche voce; evidentemente, la signora
Milanesi aveva già calcolato la possibilità che
lui si appostasse
fuori ad origliare.
Poi sentì di nuovo delle voci echeggiare dal
soggiorno.
-Devi sempre farci fare queste figure di merda?! -
stavolta era sua madre – Possibile che tu sia così
stupida?
-Lascia
perdere – abbaiò suo padre – quando una
è deficiente, cos'altro
puoi aspettarti? Testa di cazzo. Cristo; sparisci, perché se
mi
resti sotto gli occhi... - Emanuele, da fuori, avvertì il
gorgogliare crescente della rabbia tra i denti stretti di quell'uomo.
Sentì i piccoli passi leggeri di Bianca dirigersi da qualche
altra
parte. Poi, il rumore di un tavolino di cristallo che veniva preso a
pugni, la signora Milanesi che protestava, e il signor Ferreri che
replicava che era Bianca a portarlo a quel punto, e che se avesse
potuto ammazzarla l'avrebbe fatto seduta stante.
Si affrettò a
uscire da quel palazzo e quando fu fuori, nonostante il traffico e lo
smog, prese una grossa boccata d'aria, come se fosse stato in apnea
per troppo tempo.
Camilla ascoltò il suo racconto in
silenzio, e, quand'ebbe finito, abbassò gli occhi.
-Capisci,
io... non so se il padre fosse ubriaco, o cosa. Non sembrava. Ma
sembrava pazzo, dal modo in cui le parlava. Ho pensato per un attimo
che l'avrebbe uccisa davvero.
-L'hai visto in faccia?
-No, non
l'ho visto. Non ho visto nemmeno Bianca. Li ho sentiti litigare dalle
altre stanze, ma nemmeno lei sembrava molto in sé.
-Era
drogata...?
-No, sembrava più in stato di shock. Credo sia
normale, quando ti aggrediscono a quel modo.
-Secondo te succede
spesso....?
-Non lo so, dovrò chiederglielo. Anche se preferirei
evitare di parlarle, per la verità.
Camilla lo guardò,
interrogativa. Emanuele impallidì; aveva dimenticato che lei
non
sapeva.
-Sai... a volte preferirei non essere coinvolto fino a
questo punto. Vorrei essere come Leandro, fregarmene dei miei
studenti e farmi la mia vita incurante di quello che loro pensano di
me.
-Non ce la faresti mai. Sei troppo diverso da lui. Tu, per gli
altri, ti preoccupi; è il motivo per cui mi piaci
così tanto. Sei
una delle ultime persone buone rimaste al mondo.
-Non credo –
mormorò, cupo – forse, sono solo schiavo
dell'opinione altrui. E
non mi va di fare la parte del cattivo. Eccolo, il segreto della mia
presunta bontà.
-Non è vero. Nessuno ti biasimerebbe se tu
ignorassi quella ragazza. Anzi, probabilmente riceveresti
l'approvazione generale.
-Della gente sbagliata, però – sospirò
lui – di quella più sbagliata. Eppure, sono sempre
la maggioranza.
Gli stronzi, dico. Sono sempre in vantaggio numerico.
-Perché
essere buoni e comprensivi è più difficile che
essere ciechi e
pieni di pregiudizi.
-Dici? Eppure, alla resa dei conti, la
persona corretta con la coscienza pulita può camminare a
testa alta
e senza interrompersi. Lo stronzo, invece, deve prendersi tutte le
sue responsabilità di fronte al mondo.
-La cosa sarebbe
bilanciata se ci fosse mai, una resa dei conti. Invece non
c'è.
Quindi tutte le signore Milanesi e i Leandri di questo mondo
continueranno ad andare avanti senza preoccuparsi degli altri, mentre
quelli come te sono destinati a sentire il peso di tutti i fardelli
di cui si caricano.
-Spero proprio di no – mormorò, poi si
coprì gli occhi con una mano.
Se solo avesse potuto parlare. Se
solo avesse potuto parlarne con qualcuno.
-Ah, bentornata,
Ferreri – esclamò Cappelletto – dai,
vieni qui a sederti vicino
a me.
Emanuele stava per riprenderlo, ma non ce ne fu bisogno.
Lentamente, Bianca si diresse verso il suo banco, senza una parola.
Si sedette pesantemente. Voltò lo sguardo verso il cortile e
non
diede cenno di volersene staccare.
-Ohi... Bianca. Bianca! Cagami.
Ohi!
Ma lei non rispondeva. Muta e immobile, continuò a osservare
gli alberi spogli e il cielo grigio davanti a lei. Cappelletto si
voltò verso Emanuele.
-Prof, non le piaccio più – gemette,
sconsolato.
-Be', si potrebbe obiettare che i tuoi modi non sono
dei più galanti, Cappelletto.
-E perché? Le ho chiesto di
sedersi con me, mica di farmi... vabé, ci siamo capiti, prof.
-Si
vede che non le interessi, può capitare. Mettiti il cuore in
pace.
-Ecco – sospirò lui – usato e poi
abbandonato. Sempre
così.
-Ha usato anche te? - intervenne il suo compagno di banco –
Ferreri, cos'è, fai la collezione? Quando arrivi a venti ti
danno il
premio?
-Seeh, venti; nell'ultima settimana, forse – fece una
ragazza dall'altra parte della classe; lo disse a voce abbastanza
alta perché lo sentissero tutti. Molti risero. Alcuni
semplicemente
se ne fregavano.
Tra questi ultimi, comunque, c'era Bianca stessa.
Non si voltò e non si mosse di un millimetro;
continuò a fissare
fuori dalla finestra, ingobbita sul banco, con le braccia conserte
sul ventre. L'unico movimento che fece, per tutta l'ora, fu quello di
sbattere le ciglia.
Quel giorno l'ora era dedicata alla
spiegazione, ed Emanuele non poté guardarla con un po'
d'attenzione.
Fu solo quando suonò la campanella che si permise
un'occhiata veloce
al suo viso; sotto quel pagliaio di capelli rossi, gli
sembrò di
notare un'ombra sul suo occhio sinistro.
Non poté accertarsene;
poteva soltanto sperare che lei venisse a chiamarlo a ricreazione, ma
ci sperava poco. E infatti lei non venne. Quando passò per
il
controllo delle aule in terza A, la trovò dentro, sola, che
continuava a fissare il cortile, ora zeppo di studenti.
Si
avvicinò; prese la sedia davanti al suo banco e si sedette.
La
guardò meglio. Non si era sbagliato; sull'occhio aveva il
segno
piuttosto evidente di una botta, e le labbra erano un po' rotte.
-È
stato lui? - le chiese, con gentilezza. Lei annuì
impercettibilmente. - Te ne ha fatti degli altri? - Lei
annuì
ancora, ma si girò ancora di più verso la
finestra. Le toccò un
piccolo avambraccio. - Me li fai vedere, Bianca?
Lei si girò
verso di lui e afferrò un lembo della vasta scollatura.
Scoprì la
spalla e riuscì a mostrare metà braccio; c'erano
i segni blu e neri
di cinque dita che l'avevano afferrata con violenza. Emanuele,
atterrito, li sfiorò. Lei si ritrasse.
-Ti ho fatto male? -
chiese, preoccupato. Ma lei scosse la testa.
Poi gli diede la
schiena, e gli fece cenno di alzare il maglioncino. Dopo essersi
guardato attorno per un attimo, eseguì; notò
diverse botte sparse,
alcune lungo la colonna vertebrale.
-Ce ne sono altre?
Lei fece
un cenno d'assenso.
-Cosa ti ha fatto, Bianca...?
La sua
espressione si fece sofferente. Fu solo una sfumatura, ma Emanuele la
colse. E iniziò a soffrire anche lui.
-Andiamo da un'altra parte,
per favore. Voglio parlarti in privato. Senti; io ho ancora la quarta
ora, qui, e poi torno a casa. Tu nel frattempo firma un permesso
d'uscita falso e vieni fuori. Ti aspetto alla Feltrinelli a
mezzogiorno, ok?
Lei annuì ancora, ad occhi bassi, così piano
che le chiese di nuovo 'ok?' e lei annuì con un po'
più di
vigore.
-A dopo, allora. Cerca...
Lei lo guardò. Cerca di fare
cosa? Non c'era molto che potesse fare.
-Niente. Mi dispiace. Mi
dispiace davvero.
Si allontanò sentendo il suo sguardo penetrante
e stanco nella schiena.
A mezzogiorno, quando arrivò alla
Feltrinelli, Bianca era già lì. Si era seduta
sulla base di una
statua poco distante, con uno sguardo buio che non le aveva mai
visto.
-Già qui? - la chiamò, con un sorriso. Lei non
rispose;
fece per alzarsi, ma a metà fece una smorfia e si
portò una mano
sul fondo della schiena. - Ti fa male? - le chiese. Lei
annuì. -
Come hai fatto a farti male lì?
-Tirata per terra – mormorò
lei, con un soffio di voce talmente sottile che dovette chinarsi
vicino alla sua bocca per capire cosa stesse dicendo.
Emanuele si
rabbuiò. Con quanta forza doveva averla tirata per terra,
per
arrivare a farle prendere una tale botta all'osso sacro?
-Comunque
andiamo – concluse, mettendole una mano sulla schiena. Lei
non
reagì – dobbiamo arrivare fino alla stazione dei
treni. Poi ti
porto a casa in macchina.
Mandò un sms a Camilla in cui le
spiegava che doveva parlare con Bianca, perché era piena di
lividi,
e che preferiva rimanere solo con lei. Camilla rispose che non c'era
problema. Emanuele non si sentiva in colpa, perché sapeva
che non
sarebbe successo nulla. Non sarebbe potuto, con Bianca in quelle
condizioni, né lui ne aveva la benché minima
intenzione.
Bianca
tacque per tutto il tragitto. Fino alla stazione, in treno, fino a
casa sua. Rimase totalmente in silenzio e ad Emanuele andò
bene
così, perché non avrebbe davvero saputo cosa
dirle. Si limitò ad
aprire un libro e a leggerlo finché non dovettero scendere.
Era
strano vederla senza la sua consueta spinta vitale; non si guardava
attorno, non parlava, non cercava di catturare la sua attenzione. Se
ne stava ad occhi bassi con espressione cupa e sembrava che il solo
fatto di respirare e mantenersi in piedi le pesasse enormemente.
-Ti
piace la mia casa? - buttò lì, tanto per rompere
il silenzio.
Bianca annuì. - A te piace leggere, no? Guarda se trovi
qualche
libro che ti interessa, nel frattempo metto su da mangiare.
-Non
si disturbi per me, grazie.
-Come, no? È già l'una. Avrai
fame.
-Davvero, no.
-Hai deciso di perdere altri dieci
chili...?
-No. È solo che non ho fame. Non ho voglia, tutto
qui.
Emanuele la guardò.
-Grazie lo stesso – precisò lei,
poi si rivolse verso uno degli innumerevoli scaffali di casa sua.
Lui
e Camilla l'avevano progettata in modo che quasi tutte le pareti
della casa fossero ricoperte da scaffali pieni di volumi, dischi e
dvd. Entrambi aborrivano l'idea delle mensole coperte da
soprammobili; li ritenevano inutili e per di più fastidiosi,
perché
poi andavano spolverati e nessuno dei due ne aveva il tempo. Mentre
le librerie erano chiuse da sportelli scorrevoli e contenevano i loro
tesori più preziosi.
-Ti piacciono i manga? Ce n'è uno scaffale
pieno, in corridoio.
Stava per dire che “Camilla” ne aveva uno
scaffale pieno, ma si era trattenuto in tempo. I loro scaffali erano
l'uno di fronte all'altro: i manga di Camilla e i comics di Emanuele.
Gli Ultimates versus Versailles no Bara.
E, in camera
loro, avevano un mobiletto solo per le Action Figures.
-Non sono
un'appassionata – rispose fiaccamente Bianca – ma
in effetti
contavo di farmi una cultura al riguardo, prima o poi.
-Guarda
pure tutto quello che vuoi – l'assicurò
– non farti riguardi. Se
ti piace qualcosa, prendilo pure.
-Ok, grazie.
La lasciò
vagolare per la casa mentre metteva a bollire l'acqua per una
pastasciutta. Poi, mentre cercava il pomodoro, si accorse che Camilla
aveva lasciato in frigo del cibo già pronto, con un
biglietto che
diceva “Devi solo riscaldarlo! Un bacio!”.
Emanuele
sospirò.
Gettò l'acqua nel lavello e scaldò il risotto e
le
bistecche; ma non chiamò Bianca, perché voleva
godersi qualche
attimo di solitudine. Fu lei a tornare, cinque minuti dopo, mentre
apparecchiava la tavola, con in mano un libro di Kundera.
-Lei ha
una bellissima libreria – mormorò –
davvero. Da grande, vorrei
averne una uguale.
-Tu ce l'hai, la tua libreria?
-Sì, ce l'ho
una libreria, ma non ci sta più niente, e così
mia madre mi
costringe a mettere i libri negli scatoloni e a riporli in soffitta o
in garage.
-Mah – commentò Emanuele, con una smorfia. I libri
per lui erano sacri, e anche per Bianca, ne era certo. Il disprezzo
di sua madre per quanto era caro a sua figlia era
evidente.
-Preferisce che ci siano foto di quand'ero piccola e
pupazzi – continuò lei, inaspettatamente
– cose che a me non
interessano per niente. Ogni volta le dico di toglierli per fare
spazio ai libri, ma non c'è verso.
Si imponeva esattamente come
faceva in ufficio, pensò Emanuele. Non era difficile credere
che la
figlia smaniasse per la libertà; la madre non intendeva
concedergliene per nessun motivo e, per giunta, era ben determinata a
non lasciarla crescere, a partire dagli scaffali con i pelouches
in camera sua.
-Mi dispiace – riprese Emanuele – davvero.
Dev'essere dura vivere in quella famiglia.
Bianca alzò le
spalle.
-Ci si fa l'abitudine. Si fa l'abitudine a tutto –
spiegò, atona.
-Perché non me ne hai mai parlato? Avrei potuto
aiutarti.
-No, non avrebbe potuto.
-Beh, ci avrei
provato.
-Provare è inutile. Riuscirci invece è
impossibile.
-Non essere così pessimista. Se ne parlassimo agli
altri insegnanti, magari...
-No! - lo interruppe, agitata – No,
assolutamente. Non voglio che lo sappiano. Non voglio sguardi di
compassione, la prego di non farlo.
-Ma nessuno prova compassione.
Vedi, noi...
-E invece sì che la provate. A partire da lei.
Dubito molto che mi avrebbe parlato, se non avesse sentito quella
scena in casa mia. Dica la verità: lei ce l'ha a
morte con
me, per quello che è successo. Ma se mi ignorasse dopo aver
sentito
quello che ha sentito non potrebbe più vestire i panni della
giustizia, e a lei costerebbe troppo rinunciare al ruolo dell'eroe
buono.
Arrossì,
Il problema di Bianca era che era intelligente, e che capiva fin
troppo.
O forse che era sempre, costantemente pronta a vedere il
lato molliccio, miserabile, egoista – e quindi umano
– delle
cose.
-Io sono solo preoccupato per te – si difese Emanuele,
senza guardarla negli occhi.
-Certo, lo so. Sono tutti
preoccupati per me, quelli che non mi disprezzano. State lì
a
scrutare le mie espressioni aspettando che cambino ancora, sperando
che un giorno io vi riveli chissà quale segreto dietro il
mio
comportamento scandaloso. Se metteste in gabbia una cavietta e vi
raggruppaste attorno a lei per osservare le sue abitudini e farne
relazione, sarebbe esattamente la stessa cosa. Perché non vi
comprate un topolino e lasciate in pace me?
-Bianca,
cos'hai? Perché ti comporti così?
-Perché sono così seccata,
mi chiede? Perché non cerco di compiacerla?
Perché non sono allegra
e spigliata e innamorata come al solito? Perché lei mi
tratta come
un esperimento, professore; è come aggiungere una sostanza a
un
miscuglio nella provetta aspettando di vedere se esplode. Be', mi
tratti da essere umano, professore, e forse poi tornerò ad
essere
come le piace ricordarmi.
-Non volevo darti una simile
impressione.
-Certo che non voleva darmela, non è mica stupido.
Lei voleva darmi l'impressione di essere in pensiero per me
nonostante tutte le mie malefatte. Che eroe. Ma mi dispiace, conosco
troppi stronzi a questo mondo per credere che la gente sia davvero
mossa dalla bontà. Egoismo e gloria personale, ecco da cosa
siamo
mossi tutti quanti; e lei non fa eccezione, per quanto le piaccia
crederlo.
Emanuele abbassò lo sguardo, cupo. Sperò che
avesse
finito; ma non era così.
-Mi dispiace distruggere la colonna
sulla quale si reggeva la sua coscienza, ma lei non è
diverso dagli
altri. Non so perché mi ero illusa come una ragazzina, in
merito.
Che stronzate. Non c'è nessuno diverso dagli altri, neanche
uno,
neanche una persona in tutto il globo terracqueo.
Decise di
sorvolare sul fatto che lei era una ragazzina.
Provò a
cambiare discorso.
-Bianca, è perché tuo padre ti picchia, che
ti comporti così...?
Bianca trasalì. Si riprese, e poi lo fissò
con odio. -Certo,
mio padre mi picchia e io la do a tutti. Mi sembra una conseguenza
alquanto logica e naturale. - Assottigliò gli occhi. - Ma
come le
viene in mente? Dico, perché deve applicare su di me la sua
psicologia da quattro soldi? Sta cercando di capire qual è
il
bottone che hanno premuto quando ho iniziato a fare sesso? Non
è
questo, professore. Non cerchi di darci a tutti i costi un motivo. E
se anche ci fosse, io non glielo direi, perché non ho
intenzione di
lasciare che lei si lavi la coscienza a questo modo e che torni a
recitare la parte del paladino.
-Bianca, tu ti sbagli. Io mi
preoccupo davvero, per te.
-Balle, nessuno si preoccupa né per me
né per nessun altro. Ma è già meglio
rispetto alle mie abitudini,
sa? Di solito, quando metto in fila più di quattro parole, i
miei
iniziano a dirmi che il mio è solo un bla bla bla di
paroloni messi
a caso e che solo perché so fare i giri di parole non vuol
dire che
io abbia ragione.
-Perché lo fai?
-Cosa?
-Perché vai con
tutte quelle persone?
-Oh, santo Dio, prof! Insiste? Le è mai
capitato, non so, di mangiare un sacco di cioccolata? Semplicemente
perché le piace?
-Mi piace la cioccolata, ma non ne mangerei mai
una tavoletta al giorno. Perché fa male.
-Beh, il sesso non fa
male, quindi fine del discorso.
-Stai facendo la bambina.
-E
lei sta facendo l'impiccione.
Rimase spiazzato. Quella era una
nuova Bianca che non conosceva. Antipatica, scazzata e
delusa.
Dov'era finita quella ragazza sempre sorridente e
vivace?
-Lo fa spesso? - le chiese.
-Cosa?
-Alzare
le mani.
-Direi di sì.
-E ti capita spesso di avere tutti quei
lividi?
-Beh, sì.
-Perché non lo denunci?
-Perché –
sembrò esasperata – mio padre mi odierebbe, mia
madre mi
odierebbe, tutti i parenti mi odierebbero e mi farebbero passare
l'inferno.
-Mi sembra che tu l'inferno lo stia già passando.
-Per
qualche calcio ogni tanto? Si figuri. Poi passa.
-Ti ha presa a
calci?
-Sì, e anche a pugni. L'ultima volta, quando c'era lei, mi
ha sbattuto la testa contro il pavimento. Anche contro il muro; mi
aveva alzata per aria stringendomi per il collo.
C'erano ancora i
segni delle dita sul suo collo.
-Cos'altro ti ha fatto...?
-Ieri?
Nient'altro.
-E le volte prima?
-Mah. A volte mi ha presa a
bastonate in testa. Schiaffi. Cose così. Non ha un
repertorio molto
vario.
-Bianca, tu dovresti denunciarlo. Nessuno ti odierà. Tu
hai il diritto di vivere tranquilla.
-Mi hanno sempre detto che se
ne avessi parlato con qualcuno avrebbero certamente dato ragione a
mio padre, perché io ero cattiva e mi meritavo qualunque
cosa. In
fondo, non mi ha mai spezzato un braccio o fatto sanguinare.
-Ma
non ha importanza! Sono violenze su minore!
-Sono solo botte.
Tutti i bambini le prendono dai genitori, è una cosa
normale.
-Bianca, mia madre e mio padre non hanno mai alzato un
dito su di me. E neanche i genitori di Camilla. E neanche moltissimi
genitori che conosco.
-Be', perché voi siete due santarellini del
cazzo che non gliene danno motivo. Io li faccio arrabbiare, quindi
loro reagiscono.
-Ma non è modo di reagire!
-Sì, che lo è.
Me l'hanno sempre detto che anche gli altri genitori fanno
così.
Anche le mie amiche si prendono uno schiaffo quando fanno arrabbiare
i loro genitori.
-Ma Bianca, uno schiaffo è un altro discorso!
Non voglio dire che sia d'accordo, ma è tutta un'altra
storia.
-Senta – concluse, stanca di discutere – le cose
stanno a questo modo. Va bene? Per me è meglio
così, piuttosto che
denunciare mio padre, perdere la causa e subire le sue vendettine del
cazzo vita natural durante. Avessi una gamba rotta dalla mia parte,
forse avrei qualche speranza – anche se, come controparte,
avrei
l'odio sempiterno di tutta la mia famiglia. Ma ho solo qualche
livido. Non è abbastanza per cancellarlo dalla mia vita per
sempre,
e, per inciso, se se ne andasse rimarrei con mia madre da sola, e mi
creda, è qualcosa che non augurerei a nessuno.
Stava per dirle
“Bianca, scappa” ma non poteva. Aveva solo sedici
anni, e, ne
avesse avuti anche diciotto, non era niente che potesse fare in
quattro e quattr'otto.
-Lo vede? - lei alzò le spalle – Non
può
farci niente. La prossima volta mi dà retta, quando le dico
di non
fare il buon samaritano?
-No.
Bianca sembrò spiazzata.
-Cosa
vuol dire, no?
-Vuol dire no. Vuol dire che ti dimostrerò che al
mondo esistono ancora persone mosse semplicemente dall'affetto per
un'altra persona, e che di conseguenza s'incazzano se qualcuno le fa
del male. Niente gloria personale né coscienza, Bianca. La
coscienza
non si lava con così poco, non funziona a sostituzione. I
tuoi
peccati rimangono i tuoi peccati anche se fai cento buone azioni. Se
fosse così facile, andrei a dare un euro a un mendicante,
invece che
star dietro alla testa assurda di una ragazzina impossibile.
Lei
guardò fuori dalla finestra con aria malinconica.
-Che c'è? Non
mi credi?
Bianca abbassò il capo e chiuse gli occhi.
Sospirò.
-Siamo capaci di convincerci di così tante
assurdità,
pur di pensare che siamo almeno un po' importanti per qualcuno
–
mormorò, con un tono tanto malinconico che Emanuele si
sentì
stringere il cuore.
-Cosa devo fare, perché tu ci creda?
-Mi
porti indietro nel tempo. Mi riporti a quand'ero piccola,
così
piccola che non parlavo e non capivo quando mi parlavano. E mi porti
a vivere in un altro posto, con altra gente, gente che magari mi
vuole bene e riesce a donarmi quell'illusione fondamentale che al
mondo esista quella cosa chiamata amore. Non m'importa se non esiste
davvero. Ma vorrei avere avuto anch'io, come tanti altri, il diritto
di credere a questa favola.
Emanuele abbassò la testa sul piatto.
Sentire queste parole dalla bocca di una sedicenne era troppo per
quello a cui l'avevano preparato alla SSIS.
No, non era questo che
si era immaginato.
-Cosa vuoi fare? - le chiese.
-Nel
senso?
-Tornare a casa, rimanere qui... devi vederti con
qualcuno?
-No, se non voglio.
-E lo vuoi?
-No.
-Cosa
vorresti?
-Vorrei essere capace di crederci come fa lei. Vorrei
avere la sua fiducia e, chiamiamola, la sua capacità di
illudersi,
perché lei sarà anche un illuso, ma vedo che
è felice, nel suo
mondo d'illusioni. Vorrei non aver capito troppo presto. Dopo,
magari. Quando tutto è comunque già finito.
-Mi hai detto che
non posso fare niente in questo senso.
-Lo so. Ma speravo che
insistesse. Che mi dicesse che si poteva, che ce l'avrebbe fatta.
Speravo mi rassicurasse dicendomi che tutto sarebbe andato bene,
perché lei era adulto e ne sapeva più di me,
speravo che lei
s'intestardisse e m'impedisse di continuare a blaterare che non
esiste il lieto fine.
-Ma Bianca – si esasperò – che cosa
vuoi, da me? Che creda alla tua versione, o che continui a credere
nella mia?
-Vorrei che non lo chiedesse a me – sospirò lei
–
vorrei che lo sapesse già e che fosse lei a dirmelo. Pensavo
che lei
avesse risposte e una morale incrollabile.
-Bianca...
Sentì
una strana angoscia salirgli al petto.
-Potrei dormire un po'?
Sono davvero stanca. Ah, e non si preoccupi, se non mi ha convinta.
Non ci speravo poi così tanto.
-Mettiti pure sul divano, vado a
prenderti una coperta.
Andò su a prenderle la coperta, e rovistò
a lungo nel guardaroba in solaio.
In realtà la coperta era dritta
davanti a lui. Fu lì che affondò il volto quando
dei singhiozzi
inspiegabili iniziarono a scuotergli la gola e a incendiargli gli
occhi con lacrime roventi.
(Nda:
ç_ç povero, povero Ema. Povero, povero.
Dunque! In risposta alle
vostre recensioni...
Pnin:
Il verbo scavallare esiste XD il programma non me lo segna errore,
comunque, anche non fosse esistito, ci stava bene e rendeva l'idea,
quindi sarebbe rimasto là comunque XD.
Quanto a Ema, però,
vorrei dire una cosa ''XD ragazzi, solo perché non si scopa
spensieratamente una sedicenne non significa che il suo sia
“buonismo
senza capo né coda”, significa che ha una morale e
un certo
rispetto della legge, nonché del suo ruolo d'insegnante.
Sarebbe da
condannare, se si comportasse altrimenti da come ha fatto. Vorrei
dire qualcosa in più al riguardo ma sarei costretta a fare
degli
spoiler, per cui per ora mi fermo qui; sicuramente
approfondirò il
discorso quando vi avrò fornito degli altri elementi per
valutare la
sua condotta, o magari alla fine della storia :).
Baby_Birba:
tranquilla, so che non hai recensito per una buona causa – la
tua
media scolastica XD – quindi sei perdonata XD. Non posso
dirti
molto al riguardo di Bianca, perché altrimenti i prossimi
capitoli
li scriverei per niente XD comunque che beva molto è vero,
lo
ammette lei stessa, sicuramente ha dei problemi di alcoolismo.
Terrò
presente – e anzi ti ringrazio di avermelo fatto notare
– la
questione dell'aspetto fisico dei personaggi, in effetti è
vero,
rispetto alle mie altre storie ne ho parlato ben poco.
Cercherò di
essere più esauriente su questo punto :) grazie ancora per
la
precisazione ^_^.
Infine, un grazie a CTA
(:* ci vediamo sabato ^.^!), Piaciuque
(purtroppo non posso fare spoiler XD lo saprai leggendo!) e Stregatta
(wow, sono
felice che Bianca
piaccia ^.^ pare che sia riuscita a renderla come volevo io, il tuo
commento mi fa un grande piacere ^_^!)
E con questo vi auguro una
buona settimana! As usual, fatemi sapere se c'è qualcosa che
non vi
torna o qualche errore... ci tengo a migliorare :)!
Al prossimo
capitolo ^_^!) |
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
-Fai
piano. Sta
dormendo.
Bianca dormiva da ore, ormai, quando Camilla non aveva
trovato altre commissioni da fare e si era rassegnata a tornare a
casa. Il problema era che Camilla non sapeva che la sua presenza
avrebbe potuto costituire serio motivo di disturbo per Bianca. Lei
pensava di poterla aiutare, e invece l'avrebbe soltanto
ferita.
Tuttavia, non poteva saltarsene fuori “ah, scusa, Cami,
mi ero dimenticato, è da quando ho la sua classe che
continua a
ripetermi che è innamorata di me e che cerca ogni sistema
possibile
per portarmi a letto”. Avrebbe decretato la fine della sua
esistenza felice. Tra le due, decise di sacrificare Bianca;
dopotutto, dati gli ultimi eventi, era improbabile che si mettesse a
pensare al suo fantomatico amore per lui, no?
Si ripeteva questo,
ma in realtà la guardava con ansia crescente.
-Me la immaginavo
proprio così – mormorò Camilla, come se
stesse osservando un
animale raro allo zoo dietro la sicurezza del vetro infrangibile
–
è... è invadente. Esteticamente, intendo.
Guardarla è come
prendersi uno schiaffo in faccia.
-E non la immagini quando parla
– mormorò Emanuele di rimando. Silenziosamente, si
avviarono verso
la loro camera.
-Che facciamo? - riprese Camilla – Dovrà
tornare a casa, prima o poi. I suoi sanno che è qui?
-No, non lo
sanno. Credo che non sappiano assolutamente nulla di quello che fa
questa ragazza.
-Forse è un bene. L'ammazzerebbero. Sai, è
così
strano averla qui.
-Sì. È strano che ci sia un'altra persona in
casa.
-Sì, ma proprio lei. Per me è
una leggenda che
prende vita.
-Capisco cosa intendi.
Bianca si svegliò un'ora
più tardi, in un momento in cui Camilla era in cucina a
preparare da
mangiare ed Emanuele stava leggendo distrattamente il giornale seduto
al tavolo. Se la ritrovarono sull'uscio della porta, con aria
frastornata, che li guardava tutti e due con una mano tra i capelli
cotonati.
-Scusate – mormorò – mi sono
addormentata. Forse è
meglio se torno a casa.
-Ti accompagno – Emanuele si alzò
immediatamente.
-No, no. Mi porti solo fino alla stazione, poi a
Padova prendo l'autobus.
-Be', ti posso accompagnare anche a
piedi, non è lontana. Ti prendo il cappotto.
-Grazie.
Cercò
di sbrigarsi, perché non era molto tranquillo a lasciare
quelle due
da sole. Fu così veloce che, quando tornò,
Camilla stava ancora
girando le melanzane sulla piastra e Bianca stava sbadigliando con
vigore.
-Andiamo?
Bianca annuì e Camilla si voltò verso di
loro, facendo un cenno di saluto. Le sorrise e sospinse delicatamente
Bianca, che si stava vestendo, finalmente fuori dalla porta di casa
sua.
Camminarono in silenzio per un po', mentre il respiro si
condensava.
-Ma di notte dormi? - le chiese ad un tratto,
curioso.
-Non molto – rispose lei – sono occupata in
giro.
-Ah. Be', certo. Hai preso la pillola?
-Eh...?
-La
pillola anticoncezionale. Quella volta l'hai presa di pomeriggio. Non
l'hai dimenticata?
-Ah. La pillola. Sono nella settimana di
sospensione.
-D'accordo, allora.
Rimasero in silenzio fino alla
stazione. Una volta arrivati, Emanuele comprò un pacchetto
di Fruit
Joy; gliene offrì una, ma lei rifiutò.
-Questo è il binario. Ti
faccio il biglietto alla macchinetta.
-Grazie.
Si allontanò,
fece stampare un biglietto regionale, glielo porse. Il treno era
già
arrivato.
-Ti conviene andare dentro, qui fuori fa freddo.
-Sì,
vado, vado.
Lo disse con un tono tale che si sentì in colpa. Ma
non disse nulla.
Bianca salì sul treno, lo salutò con la mano,
lo ringraziò e poi si allontanò senza voltarsi.
Non l'aveva
mai vista così inespressiva. Ma dovette farci l'abitudine,
perché,
da quel giorno, Bianca cambiò completamente.
In classe non apriva
bocca, né con i compagni né con gli insegnanti.
Essendo stati
informati della situazione da Emanuele, i suoi colleghi decisero di
lasciarla per ultima in tutti i giri d'interrogazione, nella speranza
che si riprendesse. Ma Bianca non dava cenni di ripresa.
-Sembra
quasi mutismo selettivo – osservò un giorno
Mariolina – ma la
realtà è che parla con chiunque, solo che lo fa
quando non può
fare altrimenti.
-Possibile che una cosa simile l'abbia segnata
così tanto? - intervenne Sonia, nervosa
perché non riusciva
a venirne a capo – Voglio dire, certo, è grave. Ma
al punto di non
parlare più e non muoversi dal suo banco per sei ore?
-E la
preside? - domandò Emanuele – Ancora si rifiuta di
dare
spiegazioni? Ma sa qualcosa, alla fine?
-Non ne ho idea –
mormorò Mariolina – non ne ho proprio idea. Da un
lato, se sa
qualcosa e non ce lo dice, significa che non è nulla di
grave.
Dall'altro, se in realtà non sa nulla, perché
continua a
comportarsi come se sapesse?
Bianca non tornò da lui in aula
ricevimento. E lui non avrebbe saputo come avvicinarsi a lei per
parlarle; era sempre inespressiva o cupa, sembrava che non volesse
nessuno attorno, che tutto le fosse diventato un peso. Nelle prove
scritte era sempre la prima della classe, ma Emanuele temeva che non
avrebbe aperto bocca in caso d'interrogazione.
Un giorno, dopo due
settimane di quella situazione, Emanuele entrò in terza A
durante la
ricreazione.
La trovò lì, muta e immobile, a fissare i suoi
compagni sotto di lei. Aveva l'espressione di chi aveva vissuto
cent'anni.
-Bianca? - la chiamò.
Lei si voltò verso di lui.
Nel suo sguardo, capì finalmente Emanuele, c'era odio.
Malsopportazione. Era lo sguardo di chi ce l'aveva col mondo per
qualche cosa e non ne poteva più di viverci in mezzo. Quello
sguardo, anche se proveniva da una bambina di sedici anni,
riuscì a
intimidirlo.
Ma se lei se ne fosse accorta ne avrebbe
approfittato, e così fece finta di nulla.
-Posso sedermi qui con
te?
-Prego.
Si sistemò sul banco davanti al suo. Avevano poco
tempo, per cui decise di non girarci attorno.
-Che cos'hai, da un
po' di tempo a questa parte?
-Scusi?
-Ma sì. Non parli con
nessuno, non esci nemmeno dalla classe... non mangi...
Non
blateri più che mi ami follemente, avrebbe voluto
aggiungere.
-Non lo so – rispose lei, inaspettatamente – mi
sento così. Forse ci avevo investito troppe energie... in
troppe
cose, e ora... sono tutte fallite. Va sempre così. Ma
è normale,
per me andrà sempre così. Basta abituarcisi.
-Non è detto che
andrà sempre così – protestò
Emanuele – andrà meglio,
sicuramente. Le cose non possono sempre andar male.
-Non ho
detto questo, infatti.
-E allora cos'hai detto?
-Ho detto che
io mi butterò a capofitto in milioni di progetti, ancora
molte
volte, prima di stancarmi. E poi succederà questo, di nuovo.
Ogni
volta.
-Succederà che cosa? Che non vadano in porto?
-Già. E
che io stia così. I miei non mi lasciano più
stare a
casa.
-Perché?
-Perché mio padre dice che sono solo viziata e
stupida, e che se mi vede a casa mi prende a calci in culo.
-No,
intendevo, perché dovresti stare a casa?
-Perché qui non ci
riesco a stare. Tra poco credo che non avrò nemmeno
più voglia di
parlarle.
-Ti do fastidio?
-No, no. È solo che... - scosse la
testa, come se lui non avesse potuto capire – beh, lasciamo
perdere.
-E se a me non andasse, di lasciar perdere?
Le
sorrise. Lei, stupita, lo guardò.
-Prof – incominciò, atona –
lei mi ha fatto capire molto chiaramente quali siano i suoi
sentimenti, se di sentimenti si può parlare, nei miei
confronti. Io
non voglio la sua pietà. Non voglio un assistente sociale.
Non
voglio nemmeno un amico, e, anche se lo volessi, di sicuro non lo
cercherei in lei. Le ho esplicitato in diverse occasioni che cosa io
desidero dalla sua parte, e lei, in tutte quelle occasioni, mi ha
ripetuto che non era possibile; il sunto di tutto ciò
è che per
quanto mi riguarda lei può tranquillamente lasciar perdere.
Io sto
bene così. Si dimentichi di me. Pensi a Camilla e al lavoro
e al
cane e a tutte le cose che la fanno sentire bene, e non perda tempo
con una sedicenne problematica che non le procura altro se non brutti
pensieri. Davvero, non la biasimerò. Farei la stessa cosa
anch'io,
al suo posto.
Emanuele si sentì enormemente dispiaciuto.
-E
chi si occuperà di te, allora? - le chiese.
-Senta... - sembrava
esasperata – come le ho già fatto presente, non ho
bisogno di
assistenti sociali. Non sono un cagnolino abbandonato in autostrada,
e lei deve scendere una volta per tutte dal cavallo bianco.
-Non
volevo darti quest'impressione...
-Ne abbiamo già discusso, delle
sue 'impressioni'. Ma vuole sapere qual è la mia, di impressione?
Ha presente La Piccola Principessa, dove l'indiano
dell'abbaino di fronte vede che è sola, povera e triste, e
le
riempie la camera di belle cose e poi la adotta come se fosse figlia
sua? Ecco; la mia impressione è che lei
voglia fare questo.
Bene: se lo scordi. Si scordi di poter fare il salvatore, si scordi
di potermi aiutare in qualche modo. Lei non ne è in grado.
Se mi
ricambiasse, forse cambierebbe qualcosa, ma così non
è, e quindi,
se non può fare questo, grazie lo stesso, ma si faccia gli
affari
suoi.
-Bianca, smettila di essere così maleducata –
insorse
Emanuele. Iniziava a stancarsi di quei modi.
-Ah sì? - fece lei,
con sfida – E perché? Lei sarebbe gentile con una
che la rifiuta e
poi pretende anche di essere la sua crocerossina?
-Ma rifiutare
cosa?! Bianca, hai sedici anni, sei ancora troppo
piccola per
parlare di rifiuto.
-Oh, ma dai – sbottò lei – beh, meno
male
c'è lei, dall'alto della sua saggezza, che mi spiega
cos'è l'amore.
La prego, io mi fermo qui; lo faccia anche lei, prima di costringermi
a dire cattiverie.
-Non costringere me a dirle –
replicò
a denti stretti Emanuele – e ti assicuro che ne avrei, nella
mia
cartucciera.
-Allora, onde evitare di dire cattiverie da entrambe
le parti, mi faccia l'enorme favore di alzarsi e lasciarmi stare.
Lo
guardò con odio. Lui restituì lo sguardo.
-Vedi di rivolgerti
con più educazione ai tuoi insegnanti.
Lei ghignò con sarcasmo.
-È a questo che siamo arrivati? Lei che mi fa la predica sui
miei modi? E magari se non sto zitta mi mette una nota? Ma lei non
voleva essere quello diverso, l'amicone di tutti?
-PIANTALA
– gridò, battendo una mano sul suo banco.
Lei lo fissò
imperturbabile.
Perché doveva ricordargli ogni volta quanto fosse
piccolo, stupido e fallito?
-La smetto se lei mi lascia stare. E
adesso per favore, va bene così?, per favore, mi lasci stare.
Lei
si girò di scatto e quell'enorme massa di capelli rossi le
coprì
interamente il viso.
Ma una goccia si schiantò sul banco con un
rumore quasi impercettibile, ed Emanuele si sentì
sprofondare. C'era
davanti a lui una ragazzina di sedici anni che gli raccontava di
essere stanca della vita, e lui le urlava contro perché gli
aveva
fatto notare che la trattava con condiscendenza.
Non avrebbe
voluto fare l'insegnante severo. Non avrebbe nemmeno voluto porsi
come un insegnante. Meno ancora, avrebbe mai voluto ferirla.
Ma
questo era ciò che alla fine aveva fatto.
E se l'era presa con
lei, solo perché non era stato in grado di corrispondere
alle sue
stesse aspettative su se stesso.
-Mi dispiace – mormorò – ho
sbagliato.
-No – la voce rotta di Bianca emerse flebile dalla
massa di capelli.
-Non volevo gridare. È solo che...
Come
poteva spiegarglielo?
-Lo so. Lo so, cazzo. È solo che...
-Lo
so.
Emanuele allungò una mano verso il suo banco. Soltanto una
mano, non si mosse da dov'era. Allungò una mano e la pose
sopra
quella piccola e fredda di Bianca. Con il pollice ne
accarezzò
lievemente il dorso e le goccioline trasparenti continuarono a cadere
sul banco, con un rumore quasi impercettibile.
*
-In
bianco. In
bianco, ti dico! Non mi è di sicuro simpatica, ma
è sempre stata la
mia alunna migliore.
Il vecchio Leandro era attonito. Scuoteva la
testa di fronte al foglio protocollo vuoto. Non l'aveva nemmeno
firmato.
-E cos'ha fatto tutto il tempo? - si stupì Sara.
-Ha
guardato fuori dalla finestra. Quando le ho chiesto perché
consegnasse in bianco, è tornata al suo posto in silenzio.
Cosa
volete che le dicessi?
-È successo anche a me – intervenne
Rossella – non credo proprio che non fosse capace di svolgere
il
compito. Nemmeno una riga?
-In effetti, in classe non muove un
dito – constatò Sara – da un lato,
è meglio, perché finalmente
si fa lezione in pace. Dall'altro, ho una studentessa che non parla,
non scrive, non interagisce. È come se non ci fosse.
-Credo che
dovremo aspettarcelo tutti, d'ora in avanti –
ragionò Emanuele –
non so, è come se si stesse... spegnendo.
-Sono preoccupata –
asserì Sonia, con forza – sono veramente in
pensiero.
-Non
riesco a capire – Mariolina si massaggiò la tempia
– che cos'ha?
Possibile che sia depressione?
-Ma così, da un momento all'altro?
Cosa può esserle capitato di così grave? -
protestò Sonia.
-Ricordati la faccenda del padre – le ricordò
Emanuele.
-Sì,
ma arrivare a
questi livelli?
-In effetti, però, un po' di tempo fa l'avevo già
vista così. Prima di quella lunga assenza. Un giorno. Poi
è tornata
ed era come prima. In realtà, quel giorno il suo umore
sembrava
piuttosto soggetto a sbalzi.
-E se fingesse...? - suggerì
Mariolina – Se tutta quella vivacità fosse solo
una maschera che
nasconde la tristezza? Se quella che vediamo adesso fosse la vera
Bianca...?
Tutti la guardarono, nessuno parlò. Velocemente il
discorso cambiò e virò sul lavoro, sugli
studenti, sulle
riunioni.
Questo dava l'idea che Mariolina avesse centrato il
bersaglio, e che nessuno di loro sapesse come affrontare questa nuova
verità.
Passò un'altra settimana e Bianca non cambiò
atteggiamento. Si avvicinavano le vacanze di Natale e gli studenti
stavano affrontando l'ultima sessione di verifiche; Bianca
riportò
una serie di 'inclassificabili'. Tentarono di farle capire che una
buona interrogazione avrebbe cancellato gli inspiegabili risultati
delle prove scritte, ma lei si rifiutava di parlare. A volte rimaneva
seduta al suo banco anche dopo l'orario scolastico.
Un giorno
Emanuele, che si era attardato per parlarle dopo l'ultima ora,
assistette ad una scena curiosa.
-Bianca – la chiamò
Cappelletto, mentre gli altri preparavano gli zaini e si avviavano
verso l'uscita – ehi, Bianca. Mi caghi?
Ma lei non si girava
nemmeno. Il ragazzo s'intestardì e si posizionò
sul banco davanti a
lei.
-E adesso? Mi dai retta?
Nulla. Bianca non intendeva
parlargli.
-Senti, dai, adesso basta fare la muta. Lo sai cosa
dicono tutti? Che vuoi sempre attirare l'attenzione. Lo sapevi?
Se lo sapesse o
meno, Cappelletto non ne ebbe mai la conferma. Lei taceva e nemmeno
lo guardava in faccia.
-Non fare la figa misteriosa. Non sei figa
e non sei misteriosa. Soprattutto non sei misteriosa, dato che te
l'hanno vista tutti.
Emanuele sarebbe intervenuto, se non fosse
stato così curioso di vedere il prosieguo di quella strana
conversazione univoca.
-Ma perché non mi parli? Ti ho fatto
qualcosa, io? Vabè, alla fine è vero che l'hai
data a tutti, non ha
senso che ti offendi. E poi, se mi avessi parlato prima non te
l'avrei detto.
Lei si voltò nella sua direzione, ma tenne lo
sguardo fisso sul banco.
-Cos'hai? Sei triste? Perché non parli?
Guarda che puoi dirmelo. Magari ci facciamo un giro. Ci divertiamo. E
poi ti passa.
Bianca aprì impercettibilmente la bocca, ma subito
la richiuse e deglutì. Gli occhi le si fecero lucidi.
Cappelletto
sembrò agitarsi.
-Cos'hai? È perché ti ho detto... ma dai, a me
sei simpatica lo stesso. Non importa! Dai, non fare... oh, porco ***.
Daaai! Bianca!
-Ma tu chi sei...? - mormorò lei, tanto piano che
Emanuele faticò per sentirla, nonostante l'aula semivuota.
-Come,
chi sono? Sono Cappelletto, sono. Detto Cappellotto. Non volevi
vederlo, il mio cappellotto?
-Ma chi sei? - insistette lei, tra le
lacrime. Lo disse con una vocina tanto indifesa che perfino
Cappelletto rimase spiazzato un momento, prima di riprendersi e dare
un'interpretazione.
-In che senso...? Vuoi dire... chi sono io per
chiederti di uscire? Beh, allora vaffanculo, Ferreri, io lo dicevo
per te. Cosa vuoi che me ne freghi di uscire con una
troia.
-Cappelletto – intervenne finalmente
Emanuele, con
voce ferma – fammi un piacere. Vai a casa e lascia stare
Bianca.
-Ma prof, questa qua è una stronza.
-Cappelletto, ci
arrivi o no? Bianca non sta bene. Lodevole l'intenzione di portarla
fuori, ma se lei non vuole ci sono modi migliori di reagire. Abbi un
contegno.
Cappelletto borbottò qualcosa, ma alla fine
mormorò
delle scuse in direzione di Bianca e raccolse lo zaino per poi
andarsene.
Emanuele si avvicinò a Bianca piangente. Stavolta le
si sedette accanto. Le posò una mano sulla spalla, poi,
vedendo che
non accennava a smettere, la circondò col braccio e la
strinse
vicino a sé.
-Cos'hai? - le chiese dolcemente.
-Non lo so –
singhiozzò – voglio andare a casa. Voglio stare a
letto. Non
voglio venire qui!
-Stare a letto a fare cosa?
-Voglio solo
dormire in pace.
In effetti, era accaduto diverse volte che si
addormentasse in classe, a volte per ore intere.
-Ma Bianca, dormi
continuamente. Non ti basta dormire la notte?
-Voglio stare in
pace – ripeté, tirando su col naso –
voglio andare a letto. Mi
porti a casa, per favore.
-Ma i tuoi vogliono che tu vada a casa.
Se ti trovano a casa a dormire, si arrabbiano.
-Ma io voglio
andare via – pianse lei, disperatamente, ed Emanuele non
seppe più
che pesci pigliare.
-Se ti porto a fare un giro, sei contenta?
-No
– si lamentò, asciugandosi le lacrime dalle guance
– mi porti a
casa. Per favore. Voglio andare a letto. Qui ho freddo.
-Beh,
potresti vestirti un po' di più, per esempio.
-Non posso –
bisbigliò, sfregandosi gli occhi e sbavando trucco nero
dappertutto.
-Che cos'hai, Bianca? - tagliò corto Emanuele –
Come posso aiutarti?
-Voglio andare a letto – piagnucolò, e poi
si nascose il viso tra le mani.
-Rimani pure a casa, stavolta.
Dubito le importi. Non so cosa fare, la porto da noi.
-Ma certo.
Le preparo il letto in mansarda.
Osservò Bianca al suo fianco che
dormiva, appoggiata alla sua spalla. Aveva dovuto sorreggerla in
autobus, andando verso la stazione. In treno si era addormentata
profondamente, mentre Emanuele sfogliava Fatherland senza
davvero riuscire a concentrarsi.
Quando arrivarono alla loro
fermata, faticò a svegliarla. Si alzò
svogliatamente e ci misero un
tempo lunghissimo ad arrivare fino a casa. Lì, Camilla li
accolse
cercando di nascondere la sua preoccupazione.
-Ho preparato un po'
di the caldo, se ne volete una tazza – esordì,
guardando prima
lui, poi Bianca, poi lui, poi Bianca.
-Io sì, grazie. Bianca?
Vuoi?
-No, grazie – mormorò lei, intimidita. Non
guardò
nemmeno in faccia Camilla.
-Ti abbiamo preparato il letto in
mansarda, se vuoi dormire. Vuoi che ti porti di sopra?
-Sì,
grazie – fece lei con sollievo.
-Dammi pure il cappotto. Ecco
qua – la aiutò a sfilarlo, lo appese
all'attaccapanni in entrata –
su, andiamo. Ti mostro anche dov'è il bagno.
Si avviarono su per
le scale, tappezzate di foto dalla loro adolescenza in poi. Bianca
non ne guardò neanche una. Continuò a fissare le
scale per due
rampe, finché non furono arrivati.
-Prego. Vuoi un pigiama, un
qualcosa?
-No – mormorò lei – grazie. Tolgo solo i
vestiti.
-Come vuoi. Il bagno l'hai visto. Se hai bisogno di
qualunque cosa, hai fame, sete, qualunque cosa, chiamaci pure. Solo,
avverti i tuoi genitori che non torni, ok?
-Ok – fu la flebile
risposta, poi lei iniziò a levarsi il maglione. Emanuele
uscì dalla
stanza e socchiuse la porta.
Giù in cucina l'aspettava una
Camilla sbalordita.
-Ma questa è la Bianca iperattiva che non sta
mai zitta? - esordì – Cioè,
è sempre lei... vestita a quel modo,
con quei capelli... ma... cosa le hanno fatto? Sembra un morto che
cammina. Hai visto com'è magra?
-Ci credo, non mangia mai. Non so
se a casa le diano da mangiare, ma io non l'ho mai vista comprarsi un
panino o portarsi un pacchetto di crackers.
-Ma cos'ha? È
depressa?
-Non lo so... non lo so davvero. Conosci i criteri
diagnostici?
-Non alla lettera, ma so che dormire così tanto è
un campanello d'allarme. Il fatto che non parli e non abbia voglia di
fare nulla, poi, avvalla questa teoria.
-Non credo – Emanuele
scosse la testa – la depressione, per quanto ne so, ha un
decorso
piuttosto lungo. Bianca è così da poche
settimane. Diventa così di
punto in bianco, ma di solito è allegra. Non credo sia
depressa.
Mariolina, però, suggeriva che la sua allegria sia solo una
maschera... che voglia nascondere la tristezza che in realtà
prova.
-Ma allora, perché non lo fa anche ora?
-Perché forse
non ce la fa più? Non lo so. Voglio dire, non è
successo tutto
consequenzialmente. Un momento è così, un momento
è colà...
-Forse
è solo adolescente, e vivendo in una famiglia problematica
il
risultato è questo.
Camilla, dopo quest'ultima considerazione che
lo lasciò senza ulteriori alternative, si alzò e
versò il the
bollente nelle tazze. Camilla amava il the; avevano una mensola
interamente occupata da vasetti di the in foglie, dei gusti
più
disparati. Quello di adesso era al finocchio e liquirizia. Si
mischiavano i gusti come in un cocktail, pensò Emanuele.
-Intendi
parlarci? - riprese Camilla all'improvviso. Emanuele diede un piccolo
sorso prudente.
-Non è che si possa parlarci molto. Mi fa
impazzire, mi ricorda che... che fallisco nel mio intento, nel mio
lavoro. E mi chiedo sempre se mi sento un fallito per colpa sua, che
fa di tutto per farmici sentire, o per colpa mia, perché non
riesco
ad essere ciò che vorrei. Ma alla fine sono codardo e
preferisco
sempre dare la colpa a lei.
Si rabbuiò. Camilla gli prese una
mano, come lui aveva fatto prima con Bianca a scuola.
-Non
accusarti così duramente. Lei ti mette alla prova, ti porta
al
limite... diciamocelo: non è una ragazzina normale.
È ovvio che ti
confonda.
Ma non era quello. Non era solo quello.
Lui aveva
tradito Camilla; ed era colpa di Bianca, che l'aveva provocato, o
colpa sua, che non aveva saputo trattenersi? E ancora: aveva
aggredito una ragazzina di sedici anni con evidenti problemi. Era
colpa di quella ragazzina, che dava fuori di matto al punto che non
la si poteva controllare, o era colpa sua, che non sapeva controllare
se stesso e per estensione neanche quella ragazzina?
Certo, lei lo
spingeva, ma perché lui non riusciva ad opporre resistenza?
Era una
colpa, o una debolezza? Era lei troppo forte, o lui troppo
fragile?
-Il punto è che non riesco ad aiutarla. Nonostante ce la
metta tutta... nonostante le offra il mio aiuto... lei rimane
lì,
con le sue lacrime e i suoi silenzi e le sue scopate. E io mi sento
inutile.
-Non dovresti basare la tua autostima su di lei.
Ricordati che ha sedici anni, è soggetta a sbalzi ormonali e
umorali, e per di più è evidente che la
situazione a casa non le fa
affatto bene. È emotiva, difficile, contorta... chi potrebbe
aiutarla? Per di più, mi sembra che lei non voglia essere
aiutata.
Mi sembra voglia che la lasciate sola.
-E solo perché lei lo
vuole, io dovrei acconsentire? Questo non è 'gettare la
spugna'? Non
posso fare una cosa del genere. Che uomo sarei, Camilla? Che
insegnante è uno che non dà tutto se stesso per i
suoi
studenti?
-Un buon insegnante, direi – replicò lei
tranquilla.
- Ascolta. Non devi fartene carico. Tu sei il loro insegnante, non
loro fratello. Se continui a prenderti responsabilità per
loro, è
chiaro che starai male, perché ti dai delle colpe che non
hai.
Primo: non sta a te occuparti della loro stabilità emotiva.
Secondo,
posto che tu voglia farlo, non hai alcuna colpa se non riesci a
rimettere a posto ciò che si è rotto. Non sta a
te, e in certi casi
non è possibile. Questo è uno di quei casi.
-Oggi mi ha detto di
scendere dal cavallo bianco – mormorò, passandosi
una mano sulla
fronte – capisci? È lei a sapere, a dirigere. Io
sono il sedicenne
e lei è la trentenne disillusa.
-Ehi, ehi – Camilla gli prese
il viso tra le mani – resetta tutti questi pensieri. Ti sta
facendo
del male, te ne rendi conto? Ti sta portando nel posto dov'è
lei.
-Un giorno me l'ha detto – mormorò ancora
– me l'ha
detto, che non voleva portarmi nel posto dov'era lei. È solo
che...
-... che vuoi sapere dov'è quel posto.
-Già.
Nonostante tutto, voglio ancora saperlo. E provare ad andarci, per
vedere se posso portarla via di lì.
Camilla sorrise
amaramente.
-E a me sta il compito di aspettare qui, guardandoti
deprimere ogni giorno di più per lei?
-No – Emanuele si
risvegliò – no. Non voglio... no. Assolutamente.
Abbiamo costruito
così tanto assieme; non voglio rovinarmi la vita per lei.
-Lo sai
che non puoi seguirla senza farti del male, vero?
Abbassò la
fronte. Sospirò.
-Lo so – rispose.
Continuarono a
sorseggiare i loro the bollenti, senza sentirne il sapore
perché ad
ogni sorso si scottavano la punta della lingua.
Si accorse di
Bianca quando andò al primo piano per prendere un libro
dallo
scaffale. Sentì dei singhiozzi sommessi provenire dal piano
superiore; percorse le scale fino alla mansarda e la trovò
che
piangeva infagottata sotto la trapunta.
-Cosa succede? - Si
precipitò accanto a lei. - Ehi. Perché piangi?
Piccoli
singhiozzi continuarono a scandire i secondi. Le accarezzò i
capelli
secchi e sfibrati.
-Bianca? - sussurrò – Perché piangi?
Dimmelo. Vediamo se si può rimediare.
-Noo – replicò lei,
girata dall'altra parte.
-Ma forse sì. Sono un po' più grande di
te per un motivo, no? E magari conosco un metodo che tu non
conosci.
Non ci fu risposta, solo altri singhiozzi. Le tirò
dolcemente una ciocca rossa.
-Avanti, dimmelo. Intanto dimmelo,
così almeno capisco.
Ci fu un po' d'esitazione, ma alla fine
riuscì a captare la parvenza di un discorso.
-P... perché...
io... lei ha Camilla... la casa... io... uh... e ogni volta... e
penso di farcela, e invece... e non posso dormire a casa... e lei
non... io volevo... ma lei non... - scoppiò a piangere di
nuovo.
-Camilla e la mia casa? Ti fanno stare male?
Lei annuì
con foga, stringendosi nelle coperte.
-Beh, ma sapevi fin
dall'inizio che ho una fidanzata e una casa. Non immaginavi che le
avresti viste, venendo qui?
-Sì, ma...
-E quanto a 'farcela',
farcela a fare cosa? Non mi sembra che tu avessi una missione da
compiere, o no? E anche se l'avessi, che importa se non ce la fai?
Sai quanta gente non ce la fa a fare cose semplicissime, eppure va
avanti lo stesso? Capita a tutti ogni giorno: provarci e non
riuscire. E allora che fai, ti inchiodi lì piangendo? Lascia
perdere
e prosegui, no?
-Uh...
-E quanto a dormire, be', puoi dormire
un po' ovunque, deve essere proprio a casa?
-Ma non...
-E
quanto a me che non ti ricambio: quanto scommettiamo che passa? Mi
dai retta che forse io ci sono passato prima di te?
-Non è
quello...
-No, lo so che non è quello. Non è questo a
ferirti
così tanto. È qualcos'altro al quale io non ho
accesso. Giusto?
Lei
annuì ancora.
-Pensi che si possa risolvere, questo
qualcosa?
Silenzio.
-Ehi? Pensi che possiamo farcela?
-Non
so – si limitò a mormorare lei, e poi si strinse
ancora di più
tra le coperte.
Continuò a piangere piano, ed Emanuele non seppe
cosa fare.
-Vuoi che rimanga? - chiese, titubante.
-Non serve –
bisbigliò lei – passerà. Non cambia
anche se lei rimane. Vada
tranquillo.
-Stai tranquilla – mormorò, dirigendosi verso al
porta. A quelle parole lei singhiozzò forte, e poi si
avvolse la
trapunta addosso quasi avesse voluto soffocarci dentro.
Emanuele
si sedette fuori dalla porta, e dopo un po' Camilla lo raggiunse. La
ascoltarono piangere per un'ora, assorti nel silenzio, tenendosi
forte per mano. Poi si allontanarono, e, quando tornarono un paio
d'ore dopo, lei stava ancora piangendo.
Nessuno dei due lo disse,
ma sapevano che non aveva mai smesso.
Si parlarono solo quando
arrivarono in cucina, quasi dovessero proteggersi dalla presenza di
Bianca.
-Sono preoccupata – mormorò Camilla, fissando il
tavolo
– non va bene. Non so cos'abbia, ma ha bisogno di aiuto.
-Non so
cosa dirti. Vago nel buio. Sembra che abbia perso ogni
speranza.
-Capisco perché non riesci a lasciarla
perdere.
-Sì?
-Ti stringe il cuore. Ed è difficile non amare
il personaggio drammatico, vero? Non ci riesco neanch'io, nonostante
odi il modo in cui ti coinvolge e ti fa soffrire.
-Non possiamo
dare la colpa a una sedicenne in queste condizioni.
-Ma allora è
sempre colpa di noi adulti? - insorse Camilla –
Possibile che
dobbiamo lasciare che ci facciano impazzire, senza poter puntare il
dito contro nessuno?
-Ora mi capisci.
-Sì – mormorò
Camilla, abbassando gli occhi – ora ti capisco.
Quando gli
parve che avesse finito di piangere, Emanuele le disse di vestirsi,
ché l'avrebbe riportata a casa. Lei obbedì
silenziosamente, e,
sempre silenziosamente, salì in macchina. A Camilla aveva
dedicato
un debole “arrivederci, scusi il disturbo”, a cui
lei aveva
risposto con un sorriso.
Durante il viaggio tacque, non dormì, ma
non disse nulla; notò però che continuavano a
scenderle lacrime
dagli occhi, anche se non singhiozzava e il suo volto rimaneva
inespressivo. Sembrava impotente di fronte a qualcosa più
grande di
lei.
La guardò strascicare i piedi verso casa; aprì
svogliatamente il portone e scomparve dietro il vetro a specchio.
L'aveva salutato debolmente, come se fosse esausta e non aspettasse
altro che di riposarsi un po'.
La settimana seguente, quella
prima delle vacanze, fu difficilissima per tutti. Bianca piangeva
durante le lezioni, non parlava, si addormentava. Alla proposta di
convocare i genitori Emanuele reagì opponendosi fermamente,
ricordando l'episodio della violenza.
-Ma non possono non essere
informati della figlia che piange in continuazione –
protestò
Sonia – non è possibile che continuino a far finta
di niente di
fronte a un problema di questa portata.
-L'opinione del padre è
che lei sia una stupida viziata che fa scene –
sospirò Emanuele –
probabilmente sanno che succede, ma la mandano a scuola comunque.
-E
allora è nostro dovere informarli che non è il
caso!
-Sonia, non
possiamo fare molto – intervenne Mariolina – se i
genitori non
vogliono, non li possiamo di certo costringere.
-Ma saranno
costretti almeno a pensarci, se interveniamo noi.
-Adesso
ci sono le vacanze di Natale – tentò di mediare
Antonella –
magari quando tornerà starà meglio. A sedici anni
tutto il nostro
mondo può cambiare da un momento all'altro, per motivi che
magari a
noi appaiono futili. Ma a loro, chissà...
Annuirono tutti con
partecipazione. La partecipazione non esprimeva tanto l'accordo,
quanto il desiderio che Antonella avesse ragione. Che fosse l'età.
Che fosse, se non gestibile, quantomeno passeggero.
Le vacanze
arrivarono senza più occasioni per parlare con Bianca, ed Emanuele si chiese
che Natale avrebbe passato.
Quanto a lui, passò delle vacanze
da sogno: finalmente libero dai pensieri, riuscì a godersi
Camilla,
i suoi genitori e i suoi amici. Passò il Natale tra parenti,
con i
pro e i contro di tali ricorrenze, e finalmente passò
giornate
intere con la sua fidanzata tra il centro città, le case in
montagna
degli amici e la sua casa, dove finalmente poterono fare l'amore
senza il pensiero della sveglia alle sei e mezza il giorno dopo.
I
bagordi di Capodanno si svolsero nella baita di un amico a Vigo di
Cadore, all'insegna del buon vino e della buona compagnia.
Finalmente, dopo tanto tempo, Emanuele poté godersi un po'
di
spensieratezza, lontano da Bianca, dai compiti e dagli spostamenti in
treno. Non gli sembrava vero di passare del tempo con adulti, adulti
che gli piacevano, per di più. Non che si trovasse male con
i suoi
colleghi, ma i colleghi non si potevano scegliere, mentre gli amici
sì: passò dei giorni sereni discutendo di libri
letti, film visti,
prossime mostre, raccontando aneddoti sui suoi studenti senza
però
mai menzionare quella a cui era più legato, quella su cui
avrebbe
potuto raccontare aneddoti infiniti. Lo doveva a Camilla.
Passò con
lei giornate tanto belle che pensò che probabilmente gli era
stata
grata per non averla inserita nelle loro vacanze di Natale.
Eppure,
pensò molto a Bianca in quei giorni. Pensò a lei
che piangeva, al
padre che la picchiava, alla madre che la puniva. Si chiese se per
lei ci fossero state tavolate allegre con parenti idioti. Si chiese
se si fosse divertita a Capodanno, se l'avesse passato con amici,
oppure con gente interessata soltanto a ubriacarla e portarla a
letto. Il giorno dell'Epifania non poté fare a meno di
pensare a
lei, di pensare che avrebbe voluto portarle qualche torroncino e i
marshmallows.
Sapeva che anche Camilla pensava a lei, ma il loro
tacito accordo di non farla entrare in quei giorni felici rimase
solido fino al sette gennaio, giorno in cui entrambi ritornarono al
lavoro.
La notte del sei gennaio rimasero svegli a lungo, la dolce
chiusura di venti dolcissime giornate.
(Nda:
salve ^-^!
Stavolta ci ho messo un po' di più, vero ^^? Pardon, pardon
u_u.
CTA gli altri personaggi sono così
orribili che mi
commenti solo Camilla XD?
Piaciuque: lieta che tu abbia
gradito ;D spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto ^^
Yuki:
no, non sbagli XD c'è ancora tanta carne da mettere al
fuoco. Grazie
mille dei complimenti ^_^.
Dance of Death: oddio ma mi hai
recensito i due capitoli *_* *commozione* grazie ;.;! Mi fa piacere
di essere riuscita a rendere esattamente ciò che mi ero
riproposta e
che i personaggi siano almeno un po' coinvolgenti. Grazie dei
dolcissimi commenti ^_^!
Pnin: addirittura da attraverso
l'Atlantico, azz che invidia ._. spero che questo capitolo sia
riuscito a renderti un po' più simpatico Emanuele, dato che
ne
rappresenta sostanzialmente il dramma rispetto a Bia :) comunque
dalle scene Cami-Bia non aspettarti delle catfight, non vedremo mai
donne che si strappano i capelli nel fango per Ema XD questa proprio
mettetevela via XD!
Grazie a tutti per i vostri commenti, fav e
letture :*! Buon weekend ^___^!)
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
-Amore,
svegliati.
Sono già le otto... amore. Ehi.
Camilla lo svegliò con un bacio
sul collo. Si sentì accarezzare la fronte. Con fatica,
aprì gli
occhi.
-Uh...
-Su, è ora di alzarsi. Io sono già pronta. Ti
ho lasciato il caffè in cucina, fai presto prima che si
raffreddi,
ok? - Camilla lo baciò teneramente su una guancia. - Vado. A
stasera, amore.
-Nnngh...
Si stiracchiò, e, nel farlo, riuscì
ad accarezzare una mano di Camilla che si stava allontanando. A
fatica, uscì dal suo bozzolo caldo di coperte e si
avviò
rimbalzando pesantemente giù per le scale. Rabbrividendo,
raggiunse
la cucina, dove la tazzina di caffè tiepido non
riuscì a
rinfrancarlo del tutto. Una doccia calda risolse parzialmente il
problema, ma rimaneva il fatto che avrebbe dovuto affrontare quattro
ore di lezione con ben poche ore di sonno alle spalle. Purtroppo, non
poteva spiegare ai suoi studenti che anche gli insegnanti qualche
volta facevano sesso.
Giacca, camicia, jeans e ventiquattr'ore:
questa la sua corazza da combattimento. Qualche volta, in estate, si
presentava in polo, jeans e Converse, ma la direzione era piuttosto
severa su certe cose; preferivano un abbigliamento meno
informale.
Arraffò da uno scaffale Americana, che
aveva
comprato il mese prima e non aveva ancora letto, e si gettò
strizzando gli occhi nel freddo pungente di una mattina di gennaio.
Per fortuna, qualche timido raggio di sole gli regalò un po'
di
tiepida dolcezza.
Alle nove era già più piacevole fare il
pendolare; c'era la luce del giorno, c'era meno gente sui treni e
più
gente per le strade, in generale si sentiva più un
viaggiatore che
un prigioniero.
Quando arrivò a Padova sedette al piccolo bar di
fronte alla scuola, ordinò a Sofia un cappuccino con brioche
alla
crema, e se li gustò pacificamente mentre leggeva il
giornale. Poco
dopo fu raggiunto da Rossella ed ebbe modo di scambiare due
chiacchiere. Quando suonò la terza ora, ormai era ben
disposto nei
confronti del mondo: avrebbe salvato Bianca, la terza A e il pianeta
Terra, poteva farcela a fare qualunque cosa.
Salì le scale
fischiettando, e salutò allegramente tutti gli studenti che
incrociò. Nell'avvicinarsi alla terza A, gli parve di
sentire un
frastuono che non gli capitava di udire da molto tempo.
-Stronza!
Puttana! Troia! Sparisci dalla mia vista perché altrimenti
ti spacco
quella faccia di merda!
-Stai tranquilla...!
-NO! Io la ammazzo
questa sboldra del cazzo!
-Lasciala...! Guarda che ti mettono una
nota!
-NON ME NE FREGA UN CAZZO! Io la distruggo questa
baldracca!
Emanuele si sentì mancare, ed incrociò lo sguardo
di
Leandro che stava uscendo dalla classe di fianco. Boccheggiò
come un
pesce, senza riuscire a reagire, ma per fortuna il vecchio Leandro
aveva nervi saldi, quindi infilò la testa nella terza A e,
dopo un
decimo di secondo, vi entrò precipitosamente, ed Emanuele
udì la
sua voce rauca urlare:
-Ferma lì, signorina! Lasci la Ferreri.
Guardi che la faccio sospendere!
-Mi sospenda! Ma prima la mando
all'ospedale!
-State calmi! Per l'amor del cielo. Che Dio vi
fulmini tutti quanti! Andate al vostro posto.
Emanuele si
precipitò in suo aiuto; a passo di marcia si diresse verso
la terza
A, spalancò la porta e si guardò attorno.
La scena era da film:
Cappelletto e Crivellaro tenevano ferma per le braccia Monica Miotto,
che, con gli occhi iniettati di sangue e i pugni chiusi che
stringevano un paio di ciocche rosse, cercava con violenza inaudita
di lanciarsi verso Bianca.
La quale, seduta sul suo banco a gambe
accavallate, ghignava spudoratamente davanti a quella furia
omicida.
Emanuele, reduce da una notte quasi insonne, per un
attimo si chiese se stesse ancora sognando, o se il tempo fosse
tornato indietro quella notte, oppure se il mese scorso avesse avuto
una lunga, assurda allucinazione.
-Buongiorno, Leandro – esordì,
serio, guardandosi attorno – ragazzi, che cazzo state facendo?
-La
Ferreri si è fatta il moroso della Miotto –
spiegò Crivellaro –
abbiamo cercato di spiegare alla Miotto che tanto la Ferreri si
è
fatta tutti e tutti si sono fatti la Ferreri, quindi non conta... ma
non ci dà retta.
-È una sorta d'iniziazione – sorrise
amabilmente Bianca, osservando Monica che allungava cinque dita
armate di french nella sua direzione – Miottina, non te la
prendere, non era niente di personale.
-SE NON CHIUDI QUELLA FOGNA
TE LA CHIUDO IO!
-Ti spiace se preferisco farmela chiudere dal tuo
fidanzatino?
-Bianca! - la riprese – Ohi. Ma siamo tornati in
seconda media? Ragazze, per cortesia, se volete fare una catfight
fatela alla fine della sesta ora, quando non siete sotto la mia
responsabilità e se vi cavate un occhio sono solo cazzi
vostri.
-Figata! Combattimento tra passere!
-Emanuele, te la
cavi da solo?
-Sì, grazie, Leandro, vada pure. Ho affrontato
scenari peggiori.
-Va bene – borbottò l'uomo, poi lanciò
un'occhiata a Bianca – è appena tornata, e
già fa il
disastro...
Ma Bianca non sembrava affatto turbata. Continuava a
trattenere le risate guardando Monica dall'alto del suo banco,
dondolando la gamba fasciata appena da un paio di calze trasparenti e
da un paio di tronchetti neri, che coprivano ben poco.
Non aveva
idea di come fosse successo, ma Bianca era tornata.
-Ragazzi,
io capisco che la Divina Commedia non è
come leggere... beh,
cosa leggete, voi? Twilight? E voi ragazzi? Ma
certo, voi non
leggete. Beh, insomma, sono d'accordo che ci siano modi migliori per
passare il tempo. Ma io devo passare due ore qui. E devo farlo
spiegandovi questo canto. Perché non me lo lasciate fare?
Ci fu
un improvviso silenzio. Tutti si guardarono attorno, Monica
guardò
Bianca in cagnesco. E poi parlò.
-Prof – incominciò, nervosa –
lei ce l'ha una tipa? O una moglie?
-Sì, Monica, ho una
fidanzata.
-Ecco. Se uno arriva e si porta a letto la sua
fidanzata, lei non ha voglia di spaccargli la faccia?
Ci rifletté
un attimo.
-Sì – rispose infine – prima di
spaccargli la
faccia, oltretutto, faccio in modo che non potrà mai
più portarsi a
letto nessuno. Ma in quel letto erano in due, no? Quell'estraneo mi
manca di rispetto, ma la mia fidanzata ha tradito la mia fiducia. Per
cui, sicuramente me la prenderei con lei, prima che con l'altro.
-Sì,
ma la Ferreri ce l'ho qua, e intanto spacco la faccia a lei.
-Ma
perché, Bianca cosa ti ha fatto? È più
facile prendersela con lei,
anziché accettare che la persona di cui sei innamorata non
ti
ricambia? È comprensibile, ma è infantile.
È una di quelle cose
che impari più o meno nell'arco del triennio, se hai la
fortuna di
viverle finché sei giovane. Monica, guarda, ringrazia che
sia
successo adesso. Più tardi succede e peggio è,
credimi.
La
ragazzina tacque, più che altro spiazzata. Emanuele sapeva
che altri
insegnanti non si sarebbero di certo sprecati a dare consigli di
ordine sentimentale e ad ascoltare il problema dalla sua voce, e
sapeva che a tendere una mano avrebbe avuto indietro i suoi frutti.
Riprese a parlare.
-Sentite, lo so che a sedici anni ne succede
una ogni giorno; per la verità ne succede una ogni giorno
anche a
trenta, solo che sono più noiose. Chiariamoci: non
è che io ogni
tanto non pensi ai cazzi miei mentre vi spiego questa roba. Ma
possiamo sforzarci da tutte e due le parti? Cioè, cazzo, lo
so che
stai male, Monica, e lo so che tutti voi vorreste fare tutt'altro, ma
dobbiamo fare questo, e lo dobbiamo fare assieme. Fatemi un
favore.
Puntò lo sguardo su Bianca, che sorrideva, dondolava le
gambe accavallate e fissava qualcuno con aria maliziosa. Poi lei si
voltò e lo guardò, e quando si accorse della sua
espressione, si
affrettò a raddrizzarsi e puntare una mano sulla fronte, a
mo' di
saluto militare.
Ma si calmò.
Volarono ancora occhiatacce e
ghigni, e Bianca non fece che rotolarsi nel banco senza mai trovare
un attimo di requie, ma la lezione finì, e suonò
il primo
intervallo del nuovo trimestre.
-SEI UNA STRONZA! SEI UNA
PUTTANA! Lo sai da quant'è che stavamo assieme? Lo sai?!
-Abbastanza
perché lui si annoiasse – buttò
lì Bianca, noncurante.
Emanuele
era di turno per controllare i corridoi, e si era appostato
esattamente fuori dalla terza A. Era piuttosto interessato alla
faccenda, e, soprattutto, al cambiamento di Bianca.
-Lui era
innamorato di me! E poi sei arrivata tu e hai
rovinato
tutto!
-La frase che hai appena detto è semanticamente
interessante, sai? Analizziamola. Punto uno, per favore, qualcuno la
tenga ferma: hai usato l'imperfetto, lo sai?, quindi vuol dire che
secondo te non è più innamorato. Non vedo dunque
perché insistere
con questo tipo. Punto due: era innamorato? Sì? Allora
perché è
venuto a letto con me? Punto tre: come ha detto Vettorel, in quel
letto eravamo in due. Perché ti incazzi con me? Io cosa ti
dovevo?
Sono tua amica, me ne frega qualcosa di te? No. E a te frega qualcosa
di me? No. A lui, invece, avrebbe dovuto fregargliene qualcosa, di
te. Ma non glien'è fregato, nonostante steste assieme. Io mi
incazzerei di più con lui, poi vedi un po' tu.
-Io ti spacco il
culo a te.
-E allora non hai capito niente del mio discorso, vendo
perle ai porci. Mettiamola così allora: mi dispiace,
Miottina, di
essermi portata a letto il tuo morosetto. Mi dispiace soprattutto che
tu sia persa di uno che con ogni evidenza non ti corrisponde. Detto
ciò, l'imputata chiede il permesso di abbandonare l'aula.
-Tu non
vai da nessuna parte!
-Oh, sì che ci vado, figurati se perdo
dell'altro tempo. Ho voglia di un caffè. Vuoi anche tu? Te
lo offro,
in segno di pace.
-CREPA!
-Vaaabé.
Bianca abbandonò l'aula
saltellando. Emanuele la osservò mentre superava lo stipite;
non si
accorse di lui, quindi tirò dritto seguita da Cappelletto,
che la
tirò per una manica.
-Bianca – la fermò, e lei si girò
sorpresa – ohi, ferma. Stai mai ferma un minuto?
-Mai –
sorrise Bianca di rimando – cosa c'è, Cappellotto?
-Eh, cosa
c'è. Te lo chiedo io cosa c'è. Cosa ti
è successo?
-Prego?
-Ma
sì, dai, il mese scorso non mi guardavi neanche in faccia,
non
parlavi... e adesso sei... sei tornata.
-Eh, sì, sono
tornata, sei contento, Cappellotto? - gli tirò una guancia,
lui si
allontanò stizzito – Guardalo, che si vergogna.
Dì la verità,
senza di me che ti chiedo di mostrarmi il cappellotto non è
la
stessa cosa, eh?
-Mah. Si sta bene lo stesso.
-Non ci credo.
Quando mi mostrerai il cappellotto ti assicuro che sarà
indimenticabile, e che da quel giorno in avanti confronterai tutte le
altre a me per il resto della tua vita, anche quando sarai sposato e
crederai e fingerai di essere innamorato e i tuoi figli ti
domanderanno del tuo primo amore e ti verrò in mente io
prima di lei
e ci sarà una musichetta angosciante e tu...
-Eh?!
-Dai,
andiamo a prendere il caffè, Cappellotto – gli
passò un braccio
attorno alle spalle e lo fece saltellare con lei fino al piano di
sotto.
Emanuele incrociò lo sguardo di Sonia, che stava
accingendosi a imboccare le scale. Non riuscirono nemmeno a
boccheggiare. Scossero la testa, scrollarono le spalle e tornarono
ognuno alle proprie faccende, con una mano premuta sulla tempia per
evitare che la vena scoppiasse.
Quando più tardi Bianca tornò in
classe, senza Cappelletto, accadde l'inevitabile: Monica, che si era
appostata dietro la porta, l'afferrò per il collo e, urlando
a più
non posso, la riempì di schiaffi in viso e le
sbatté la testa
contro il muro.
Ne fu informato da Giulia, che, dall'alto del suo
metro e ottantasette, aveva preso Monica per le braccia, gliele aveva
storte dietro la schiena e l'aveva trascinata, a mo' di prigioniera,
al cospetto di Emanuele, responsabile del primo piano del
lunedì.
-Prof, ha assalito la Ferreri – spiegò
nervosamente –
credo che le abbia fatto male.
-Va bene, Giulia, puoi lasciarla
andare ora.
-No. Questa ragazzina ha bisogno di polso
–
decretò la ragazza, e le diede una scrollata. Emanuele
faticava a
mantenere la serietà, ma doveva.
-Va bene, senti, intanto portala
dalla preside e spiega cos'è successo. Io arrivo tra poco.
-Andiamo
– ordinò Giulia, e con un calcio sul tallone
spedì Monica in
direzione delle scale.
Emanuele si passò una mano sulla fronte,
poi si avventurò all'interno dell'aula.
-Bianca?
Bianca era
seduta per terra, e si stava massaggiando la testa.
-Ehi – le si
inginocchiò di fianco – tutto a posto?
Cos'è successo?
-Eh, mi
sa che si è incazzata, prof.
-Eh, ma te un pochetto te le cerchi,
Bianca, sì o no?
-Sì, prof – fece un sorriso buffo, con aria
colpevole. Non riuscì a non sorriderle di rimando.
-Ragazzi, cosa
le ha fatto? Di preciso? Bisogna riferire tutto alla preside.
-Le
ha fatto quello che si meritava – fece una ragazza dal fondo
dell'aula, e alcuni ridacchiarono.
-Non vi sto chiedendo cosa ne
pensate, ma cos'è successo. E con obiettività,
grazie.
-Praticamente l'ha presa per il collo, le ha urlato contro
che era una baldracca, le ha dato un bel po' di schiaffi sul muso e
poi tenendola per il collo l'ha sbattuta un po' di volte con la testa
contro il muro.
-Grazie, Valeria. Confermate tutti?
Confermarono,
e Bianca rimase lì, tranquilla, guardandosi attorno.
-Va bene,
ok. Porto un attimo Bianca giù dalla preside, che dobbiamo
risolvere
la cosa con Monica. Voi per favore, per favore, vi prego, state
calmi. Almeno voi, ve ne supplico.
-Ci penso io, prof – fece
Alberto Benetazzo, un metallaro alto un metro e ottanta ricoperto di
pelle e ferraglia. Si batté un pugno sul petto e
guardò Emanuele
con un'aria che voleva essere rassicurante.
-V... va bene,
Benetazzo. Ok. Ma niente borchie e catene, ok? Solo confronti verbali
e civili.
-Peace and love, prof. Nessuno toccherà nessuno con un
dito.
-PORCA PUTTANA, PROF – Giulia entrò in aula come
una
furia – ho incontrato Cappelletto per le scale –
ansimò – gli
ho raccontato di Bianca... cazzo, prof. Ha spaccato il naso alla
Miotto con un pugno!
In ufficio dalla preside si ritrovarono
in cinque.
La preside guardava tutti e tre con tanto d'occhi, e
non riusciva a trovare le parole per cominciare il discorso.
Bianca
si guardava attorno incantata, leggendo i titoli dei libri e
scorrendo con le dita le copertine dell'enciclopedia di fianco a
lei.
Monica si tamponava il naso rotto con un fazzoletto fradicio
di sangue, mentre aspettavano che arrivasse l'ambulanza.
Tra le
due, Cappelletto, intento a rosicchiarsi le unghie con passione
fervente, che faceva schizzare uno sguardo nervoso in tutti i lati
della stanza.
E, dietro i tre, Emanuele, che ogni venti secondi
tirava fuori il fazzoletto per nascondere le risate che gli venivano
spontanee dietro una penosa imitazione di starnuto.
-Preside, mi
dica cosa devo fare, che tra poco mi vengono a prendere –
biascicò
Monica, tra le lacrime.
-Sì – Giovanna si riprese – beh,
è
evidente che tu sarai punita. Hai aggredito la compagna e l'hai fatto
in modo molto violento. Sospensione, anche se mi dispiace. Dieci
giorni.
-Ripeterò l'anno? - Monica iniziò a piangere.
-Non ne
sono sicura, ma è molto probabile. Dobbiamo discuterne tra
insegnanti, non posso prendere questa decisione da sola. Certo
è che
questo gesto non sarà privo di conseguenze.
-Mia mamma mi ammazza
– piagnucolò Monica, sgocciolando sangue
– oddio, quando torno a
casa mi rompe anche il resto...
-Potevi pensarci prima di mettere
le mani addosso alla compagna. È un gesto molto grave e
voglio che
sia chiaro che l'istituto non tollera un comportamento tanto
disdicevole. Migliaia di anni di evoluzione per arrivare a prendere a
schiaffi la compagna? E per quale motivo, poi?
-Pare ci sia di
mezzo un ragazzo – s'intromise cautamente Emanuele.
-Non mi
sembra un buon motivo, e sappi, Monica, che non rendi onore al genere
femminile. Dovresti vergognarti.
Quella continuò a piangere, ma
Giovanna, impassibile, continuò a parlare.
-Inoltre, se almeno
fossi furba, avresti aspettato di essere fuori da scuola. Invece, a
quanto pare non sei nemmeno furba – osservò la
preside,
tranquillamente.
-Mi sembra di sentire un'ambulanza – fece
Emanuele, dolcemente – accompagno Monica fuori, torno
immediatamente.
Mise una mano sulla spalla tremante di Monica, che
si alzò e raccolse lo zaino. Mentre raggiungevano il
portone, la
ragazza riuscì a mormorare qualcosa.
-Guardi che io l'ho fatto
perché sono innamorata, di lui. A lei, invece, non gliene
importava
niente, l'ha fatto solo per fare un dispetto a me, per dimostrare a
me o a se stessa o a non so chi che può fregare il ragazzo a
qualcun
altro. È cattiva, prof –
affermò tra le lacrime, mentre
gli infermieri la caricavano sopra.
-Un compagno le ha dato un
pugno sul naso, penso piuttosto forte. Vi arrangiate voi in caso di
denuncia...?
-Sì, deciderà poi la famiglia se sporgere
denuncia,
intanto la visitiamo e sistemiamo il naso.
-D'accordo, allora
provvederà la scuola a fornirvi i dati necessari. Vi lascio
la
ragazza?
-Certo, la lasci pure a noi. Vieni su, adesso vediamo di
sistemare questo naso.
Monica lo salutò, con una certa
sofferenza, ed Emanuele non poté fare a meno di provare
compassione
per lei. Senza ragazzo, sospesa, bocciata e col naso rotto.
E per
di più non poteva darle tutti i torti sulla questione
Bianca. Che
bisogno c'era, in effetti, di andare con un ragazzo impegnato? Certo,
lui avrebbe anche potuto tenere l'uccello nei pantaloni, ma Bianca
non sembrava nemmeno un po' dispiaciuta per Monica; anzi, sembrava
che le sventolasse in faccia la sua conquista per ricordarle che lei
era stata clamorosamente sconfitta.
Era anche vero, però, pensò
avviandosi verso l'ufficio della preside, che Bianca non veniva
trattata molto bene dai compagni, e che probabilmente doveva covare
un certo astio nei loro confronti.
Certo, lei non si impegnava per
attirare le loro simpatie, ma in fondo non aveva mai fatto loro
niente di male. Aveva solo vissuto la sua vita.
Quando aprì la
porta, trovò una preside esasperata, una Bianca che si
guardava
attorno ammaliata, e un Cappelletto che scalciava sotto la
sedia.
-Tutto a posto, preside? - domandò cautamente.
-Sì,
più o meno. Il signor Cappelletto qui presente sembra aver
capito di
aver combinato un guaio piuttosto grosso.
Emanuele annuì.
-Sei
passibile di denuncia – lo informò – per
danni a terzi. Sei
minorenne e questo è un punto a tuo favore, ma se sei
sfortunato
questo pugno colpirà dritto la tua fedina penale.
-Però devo
ammettere che è stato un gesto romantico –
osservò la preside –
rischiare il riformatorio per la signorina Ferreri.
-Eh, adesso,
il riformatorio! - sbottò Cappelletto – Alla fine
è solo un naso.
E le assicuro che le ho fatto un favore, se si ricorda com'era il suo
naso prima.
Tutti i torti non li aveva.
-Sì,
Cappelletto, ma tu non puoi prendere a pugni tutti quelli che ti
fanno arrabbiare. La violenza non è il modo giusto per
risolvere i
problemi. E se adesso arrivasse qualcun altro che picchia te
perché
hai picchiato Monica?
-Mi spacca il naso, ma non ne esce tutto
intero neanche lui!
-Ma non è questo il punto! Il punto è che
non potete comportarvi così, come bambini delle elementari.
Non lo
tollero nel modo più assoluto. La violenza è
sbagliata,
sba-glia-ta. E sappi, Cappelletto, che credo dovremo espellerti da
scuola.
-Cosa...?
Il ragazzo sbarrò gli occhi, senza
fiato.
-Cosa ti aspettavi? Hai rotto il naso a una ragazza, è una
cosa gravissima. Non possiamo accettarti in quest'istituto.
-Ecco,
vaffanculo – borbottò lui. La preside
drizzò la schiena.
-Come
hai detto, prego?
-Ho detto 'vaffanculo', ma lo dicevo a me. Non a
lei.
-Beh, evita una simile terminologia in ogni caso. E adesso
per favore tornate in classe.
-Mi scusi, preside – intervenne
Emanuele – io farei controllare anche Bianca.
-Può andare a
farsi visitare nel pomeriggio, non mi sembra grave. E a proposito,
signorina Ferreri, la prossima volta mi faccia il favore di non
provocare la compagna.
-Ma io non l'ho provocata – si difese lei
– quando sono entrata in classe ha iniziato a urlarmi insulti
e a
minacciarmi. E poi mi ha picchiata. Io le ho solo detto che dovrebbe
prendersela col suo ragazzo che l'ha tradita e non con me,
perché
non siamo mai state amiche e non vedo perché dovrei avere
riguardi
per lei, e ho aggiunto che forse non ne vale la pena, per uno che la
tradisce e quindi forse non ricambia tanta devozione. Ho il diritto
di spiegare le mie ragioni anch'io, giusto?
-Beh, sì, è giusto,
ma, per favore, eviti comportamenti che possano turbare l'armonia
della classe... a monte.
-Preside – insorse Bianca, severa –
quanto faccio nel mio tempo libero non rientra nella giurisdizione
del corpo docenti. Il vostro compito è quello di giudicare
ed
eventualmente punire i le nostre azioni all'interno dell'ambito
scolastico; ma nel momento in cui agisco all'esterno di questo
contesto, sono libera di fare ciò che preferisco. Inoltre
non mi
sembra di aver contravvenuto ad alcuna regola comportamentale
dell'istituto, ragion per cui mi ritengo assolutamente innocente in
questa controversia.
Era partita bene, ma verso la fine aveva un
po' esagerato. La preside alzò un sopracciglio.
-Non siamo in
un'aula di tribunale – le fece notare – ad ogni
modo, vediamo di
stemperare sul nascere le discussioni. Se provocati, ignoriamo. E in
questo modo saremo sempre dalla parte della ragione.
-Sììì. E
l'ignoranza è colpa, e sorridi e il mondo ti
sorriderà, e non
andate in gita perché la classe è turbolenta e se
i vostri compagni
disturbano dovreste fare in modo di mantenere il silenzio e la
responsabilità è anche vostra e quando si cresce
si diventa
responsabili, questo è essere adulti, j'accuse,
nota,
sospensione, punizione...! Chi offre di
più?
-Bianca,
adesso basta – la riprese Emanuele – torniamo di
sopra e lasciamo
da parte tutta questa storia. - Si rivolse alla preside. - Credo sia
solo sconvolta. Aspetti un minuto. Ragazzi, aspettatemi qui fuori;
qui, davanti alla porta. Arrivo subito.
I due si alzarono e si
diressero stancamente verso l'uscita. Quando la maniglia
scattò,
Emanuele sedette alla scrivania della preside.
-Mi scusi se
prolungo questa discussione spiacevole, ma credo sia opportuno
informarla al riguardo di una questione.
-Mi dica.
-Bianca mi
ha confessato che a casa il padre usa violenza su di lei. Credo che
la faccenda le abbia ricordato le vicende domestiche... e, in fin dei
conti, è anche vero che questa volta non ha alcuna colpa.
-Lo so
– sospirò la preside – ma vorrei che
capisse che deve darsi una
calmata, in generale. Stare tranquilla, ferma, in silenzio.
È anche
nel suo interesse che le dico di non avere un comportamento tanto...
libero. La nostra libertà è molto, molto
limitata, purtroppo.
-Lo
so – fu il suo turno di sospirare – lo so bene.
Eppure non riesco
a prendermela più di tanto con questa ragazza. Il mese
scorso non
faceva che piangere.
-Lo so – mormorò la preside, di nuovo. -
Credimi, Emanuele, anch'io ho a cuore questa ragazzina. Ce li
prendiamo un po' tutti a cuore, no? Questi casi disperati a cui
vorremmo dare la speranza. Poi scopriamo che non è
possibile, e
finisce che ce la prendiamo con loro per la nostra frustrazione,
mentre loro continuano a chiederci silenziosamente di aiutarli... ma
a quel punto abbiamo solo voglia di allontanarli.
Emanuele
impallidì.
-Lei ha espresso esattamente i miei sentimenti in
questo momento.
Giovanna sorrise.
-Faccio questo lavoro da più
tempo di te. Per questo a volte ho la presunzione di volerti
insegnare qualcosa. - Sistemò alcuni documenti, con un paio
di toc
leggeri e decisi sul piano della scrivania. - Ora va' e vedi di
tenere tranquilli Lancillotto e Ginevra.
-Un Lancillotto alquanto
peculiare.
-E una Ginevra assai poco tradizionale.
Sorrisero
entrambi, ed Emanuele uscì dalla porta un po' sollevato. Non
sapeva
perché si sentisse così, dato che la preside gli
aveva appena
detto, sostanzialmente, che il loro destino era nella maggior parte
delle volte quello di fallire. Ma il fatto di non sentirsi
più solo,
in qualche modo, di non essere il solo a sentirsi cedere ogni giorno,
l'aiutò più di quanto non avrebbe mai immaginato.
E dire che non
aveva mai creduto al mal comune, mezzo gaudio.
Aveva sempre
pensato che avere problemi e incontrare un altro incasinato quanto te
fosse una delle cose più tristi e scoraggianti che potessero
capitare.
-Fatto, prof? Ho sentito tutto, sa. Stando a lei, sembra
che io venga da una famiglia disagiata che vive di cassa integrazione
e alcool e occasionali tirate di cocaina.
-Bianca, ora per favore
taci due minuti, ok?
-Ecco, me lo dicono sempre tutti. Anche
Cappellotto, oramai. Georgia Nicolson, che era una persona saggia,
diceva: chi me l'ha fatto fare di scazzarmi a imparare a parlare, se
tanto adesso tutti mi ripetono in continuazione di tacere?
-Impara
l'arte e mettila da parte, dice un detto.
-Comunque, per
ringraziare Cappellotto del suo atto cavalleresco, posso portarmelo
una mezz'oretta in bagno?
-Che non ti venga in mente nemmeno di
ripeterlo.
-Ma prof, il povero Cappellotto sta vivendo i suoi
ultimi attimi da uomo libero! Da domani sarà ricercato in
quarantotto stati, ormai girano i cartelli WANTED col suo cappellotto
stampato sopra...
-Bianca, come posso fare a tapparti la
bocca?
-Col cappellotto di Cappellotto. Mezz'ora, prof. Non di
più.
-Ehi – protestò Cappelletto – io duro
più di
mezz'ora.
-Fate quello che volete – Emanuele si allontanò
verso
la classe alzando le braccia al cielo. Bianca scoppiò a
ridere e,
assicuratasi Cappelletto a braccetto, si avviò felice e
contenta
verso l'aula della terza A assieme a lui.
Camilla, lunga
distesa sul divano, rideva così tanto che dovette portarle
un
bicchiere d'acqua.
-Io non ce la facevo più. Da un lato non
riuscivo più a trattenermi dal ridere, dall'altro mi veniva
da
piangere.
Emanuele si aprì una birra; finalmente era riuscito ad
infilarsi la sua tuta di felpa grigia e rivivere gli avvenimenti in
retrospettiva assieme a Camilla.
-Cioè, curati la scena: Bianca
che guardava le farfalline per aria, la preside con le mani nei
capelli e Cappelletto che diceva 'sì, ma gli faccio male
anch'io!'.
Ecco: era per cose come questa che ho scelto di
insegnare.
Proprio per cose come questa.
-E alla fine? Cosa faranno a
Cappelletto?
-Non so, parlano di espulsione, ma secondo me sia lui
che la Miotto se la caveranno con una sospensione. Alla fine, se i
genitori della Miotto prendono provvedimenti, credo che quelli
saranno più che sufficienti.
-E Bianca, come l'ha presa?
-Mah,
Bianca era tranquilla. Te l'ho detto, è tornata esattamente
com'era
prima. Ovvero, tutt'altro che tranquilla: per lo più parlava
a
vanvera e faceva proposte indecenti a chiunque fosse nel raggio di
cinque metri.
-Che le sia passata durante le vacanze?
-Può
essere. Magari ha passato un bel Natale, si è divertita con
gli
amici il Capodanno, boh. A quell'età passa in fretta.
-Pensi che
la storia con la Miotto le abbia ricordato il padre?
-Se anche
fosse, l'ha nascosto bene. Sembrava che la cosa la divertisse. Le
parlerò, promesso.
-Ok. Ma adesso vieni qui.
Camilla sorrise,
ed Emanuele le sorrise di rimando. Le si sedette accanto, e lei si
alzò e si accomodò a cavalcioni sopra di lui. Le
prese il viso tra
le mani e stava per baciarla, quando all'improvviso un ricordo lo
fulminò.
-Che c'è? - chiese lei, e lo guardò un po'
preoccupata.
Bianca che gli si strusciava contro, la sua erezione,
le labbra vicine.
No, non era successo, non era successo. Non era
successo niente. Doveva dimenticarselo.
-Niente – mormorò;
sorrise, e la baciò, ma lo fece senza trasporto. Il buio
dietro le
palpebre abbassate lo distraeva costantemente.
Il
giorno dopo aveva
un'ora con la terza A; di storia. Mantenere l'attenzione della classe
era ancora più difficile che nelle ore di lettere. Ma
puntava
sull'assenza di Monica, che probabilmente era sotto i ferri, e di
Cappelletto, che probabilmente stava passando un brutto quarto
d'ora.
Il problema era che Bianca era ancora lì; decise dunque di
usare il metodo più perfido che avesse a disposizione per
mantenere
la sua attenzione focalizzata sul Rinascimento.
-Bianca, devo
interrogarti. Bisogna recuperare i voti scritti dello scorso
trimestre.
Bianca sospirò, ma non obiettò. Per una buona
mezz'ora, Bianca aprì bocca solo per parlare di battaglie,
dinastie
e annessioni; la tranquillità della classe ne trasse grande
beneficio e, quando l'interrogazione finì – con il
massimo del
punteggio – la lasciò concentrarsi sulla sua PSP,
in modo da poter
continuare con le spiegazioni. Dopo un po', Bianca iniziò a
seguire
la lezione; durante i punti morti si mise a disegnare fiori prima sul
quaderno e poi sul banco, col risultato che alla fine dell'ora
toccò
chiamare il bidello e farsi dare straccio e detersivo.
L'insegnante
dell'ora successiva fu ben felice di trovare Bianca occupata con
quella faccenda; ma non passò molto tempo prima che Bianca
fosse
spedita fuori dalla classe, colpevole di aver riempito di fiorellini
anche i vetri della finestra con l'indelebile nero.
La trovò
seduta sulle poltrone in atrio intenta a stendersi lo smalto rosso
sulle unghie.
-Beh? - la chiamò, quando le fu davanti.
-Ah,
salve, prof. Mi hanno sbattuta fuori.
-Grande. Hai contato quante
volte è successo da quando l'anno è iniziato?
-Una, prof. L'anno
è appena iniziato.
-L'anno scolastico.
-Beh, sempre una, prof.
Siamo tornati a scuola ieri.
-Come amo ripetere, anzi ripeterti,
non testare i limiti della mia pazienza.
-Faccio più –
pigolò.
-E allora? Come stai?
-Come sto? Benissimo. Finalmente
sono uscita da quel mortorio. Il banco inizia a starmi stretto, sa,
prof?
-Eh, lo so eccome. Sembra che un po' tutto ti stia stretto.
Senti un attimo, come l'hai presa la storia di ieri?
-Cosa, che la
Miotto a momenti fa marmellata col mio cervello?
-Esatto.
-Mah,
non è che mi abbia fatto tutto 'sto male. È una
ragazzina, quanta
forza può avere?
-E la storia di tuo padre?
-Mio padre?
-Beh,
non vorrei che ti avesse ricordato quello che è successo
quella
volta.
-Prof, succede praticamente ogni giorno. Non mi spaventa un
soldino come la Miotto; ormai potrei combattere a mani nude contro
John Rambo e farlo pentire di essersi messo contro di me.
-Non è
quello, Bianca. Voglio dire; è brutto quando qualcuno si
sente in
diritto di metterci le mani addosso, indipendentemente da quanto male
ci fa. Vuoi dirmi che non sei stata segnata almeno un po' da quelle
cose?
-Non saprei. Può essere, ma ormai fa parte della mia
quotidianità. C'è un limite oltre al quale non
puoi più fare male
a qualcuno.
-Intendi, fisicamente?
-No, quelle purtroppo le
sento ancora – lei sorrise, ed Emanuele si rabbuiò
per via di quel
sorriso amaro, pieno di rassegnazione – io parlo delle ferite
emotive di cui parlava lei. Sì, può anche
dispiacermi che un tot di
persone si sentano in diritto di prendermi a schiaffi, ma se ci
stessi male ogni volta, addio. A un certo punto uno non ci fa
più
caso, stringe i denti e lascia perdere; tanto capiterà di
nuovo.
Inutile che me la prenda.
-E invece sei stupida, perché dovresti
arrabbiarti.
-Ma poi la preside mi butta fuori dalla scuola una
volta per tutte. Prof, nonostante ciò che pensate, non sono
idiota,
e conosco la mia posizione.
-Non parlavo della Miotto.
-La mia
risposta non varia di molto. Gliel'ho spiegato, cosa accadrebbe se
alzassi la testa. E poi non pensiamo a queste cose brutte, avanti! -
Bianca sembrò tornare la solita ragazzina allegra e
spensierata che
era stata fino a un mese prima. Fino a quel momento, gli era quasi
parso di parlarle da pari a pari. - Sa che questa sera io e i miei
amici facciamo la gara di chupiti? Chi ne beve di più, vince
un
premio.
-Sarebbe?
-La mia patata per una notte – sorrise
trionfante, ed Emanuele non seppe capire se scherzasse o meno.
-Cioè
il più alcolizzato di voi viene a letto con te?
-La più
alcolizzata sono indiscutibilmente io. Per questo mi hanno messo
fuori gara. Ma chi vince questa gara, cioè chi è
alcolizzato quasi
quanto me, mi può portare a letto.
-Bello. E se vince uno che
non ti piace?
-Mi piacciono tutti. Ognuno ha qualcosa di bello,
qualcosa che lo fa valere la pena di mostrargliela.
Emanuele
d'improvviso sorrise.
-Anche Cappelletto? - le chiese.
Bianca
lo guardò, sorpresa.
-Cappellotto? Perché mi parla di
Cappellotto?
-Perché sta passando dei guai abbastanza seri per
te. Invece che darla al più coglione della tua compagnia,
che se
tutto va bene ti sbocca sulle tette perché ha bevuto un
litro di
rhum e uno di pera, perché non vai a trovarlo e a sentire
come sta?
Non tutti avrebbero spaccato il naso alla Miotto per
difenderti.
-Forse non per difendermi, ma credo che più di
qualcuno avrebbe volentieri spaccato il naso alla Miotto. Anche il
suo ragazzo, glielo garantisco, solo che non ha mai avuto le palle
per dirglielo.
-Lascia stare il naso della Miotto. Cappelletto si
merita almeno una visita di cortesia, non trovi?
-Gliela dovrei
dare, secondo lei?
-Beh, non era proprio quello che intendevo, ma
se per te non ci esistono discriminanti, perché no?
-Cappellotto
– scandì Bianca, meditabonda – ma
sì, dai. Oggi pomeriggio vado
a dirgli grazie. È stato carino a spaccare il naso alla
Miotto.
-Per
te – precisò Emanuele.
-Per me o per qualsiasi altro,
chiunque spacchi il naso alla Miotto è degno della mia
riconoscenza.
E anche di quella unanime. Lo dica, avanti, lo sputi finalmente.
È
d'accordo con me, vero? Guardi che glielo leggo negli occhi –
lo
ammonì.
Emanuele ridacchiò sotto i baffi e scosse la
testa.
-Alle volte sei impossibile – asserì –
giuro, mi metti
in difficoltà. Altre mi fai stringere il cuore. Altre
ancora, la
maggior parte, sei la solita pagliaccia. Qualche volta sembra quasi
di parlare a una persona al mio livello, ma poi mi fai cambiare idea
un'altra volta.
-Anch'io mi vivo un po' così.
-Ce l'avevo a
morte con te – ammise – per... per quello che sai.
La verità è
che mi piaci, Bianca. Una parte di me stima una parte di te. Se tu
fossi più grande e se queste due parti di noi fossero
più grandi...
in quel caso forse avrei scelto te.
-Al posto di Camilla?
-Non
so se in questo caso l'avrei conosciuta. Ma so che vali, Bianca, solo
che non te ne sei ancora accorta.
Le diede un buffetto sulla
testa; le sorrise, lanciò un'ultima occhiata al suo faccino
confuso
e poi si allontanò, alzando una mano in segno di saluto.
Divertito,
uscì dal portone pensando alle guance di Bianca che
diventavano
rosse, alla faccia delle sue ambiguità e
promiscuità e sessualità
precoce.
Il giorno dopo non aveva la terza A, ma aveva l'ora
di ricevimento. Per la prima volta dopo tanto tempo, l'ammasso di
capelli rossi tornò a fare capolino sullo stipite.
-Prof, posso?
- fece Bianca, seminascosta dietro la posta; di lei vedeva solo gli
occhioni vivaci e le dita aggrappate all'uscio.
-Ma sì che puoi,
entra – sorrise.
Stavolta gli faceva piacere vederla. L'ultimo
dialogo tra loro era stato piuttosto adulto, e l'aveva vista
piuttosto cresciuta, anche se 'cresciuta' significava 'rassegnata e
disillusa'. Ma almeno aveva mantenuto la calma e formulato un
discorso di senso compiuto; si era preoccupato, il giorno prima,
quando aveva iniziato a infervorarsi dalla preside.
-Dimmi. Cosa
c'è stavolta?
Ma lo disse bonariamente. Lei infatti
sorrise.
-Beh, prof, ieri sono andata a trovare Cappellotto –
esordì, con l'aria di chi teneva sulla punta della lingua
una
notizia bomba, pronta a rotolare fuori.
-Ah, questa è una novità
interessante. Come si è svolto l'incontro?
-Ma niente, sono
andata a casa sua, mi ha aperto sua mamma, tra parentesi a momenti le
viene uno scompenso quando mi ha vista... il suo sguardo diceva
“ma
è per questa sgualdrina che hai messo in
gioco il tuo
futuro?! Ma sei davvero il figlio che io ho partorito?”.
Emanuele
rise. Bianca s'imbronciò.
-Non c'è niente da ridere, prof! Sarò
un po' quello che sono, ma non sono mica tutto questo schifo. Sotto
tutte queste tette batte un cuoricino tenero tenero, sa? Tra l'altro,
ho ricominciato a mangiare, ha visto che mi sono ricresciute?
-No,
Bianca.
-Non importa, l'hanno visto tutti gli altri, è lei che
non guarda bene – e non sa cosa si perde. Vabé.
Comunque entro,
vado in camera sua, con sua mamma che mi segue per le scale con
l'ascia in mano pronta a colpirmi alla prima mossa sbagliata, e lui
era lì, povero cristo, con gli occhi lucidi che cercava di
non
piangere. Hanno deciso di denunciarlo, sa? Sono proprio i genitori
della Miotto, non c'è che dire.
-Mi sembra normale che gli girino
un po' le palle se uno spacca il naso alla loro unica e preziosa
creatura.
-Sì, sono d'accordo, ma loro volevano dargli
l'ergastolo.
-Beh, l'ergastolo mi sembra un po'
eccessivo.
-Infatti non è vero, non vogliono dargli l'ergastolo.
Però è vero che vogliono spedirlo in riformatorio.
-Credo se la
caverà con una sanzione pecuniaria e qualcosa tipo servizio
civile.
È anche minorenne, magari non gli succederà
nemmeno questo.
-Non
so, però, povero Cappellotto, era proprio giù di
morale. E così mi
ha fatto pena e gli ho aperto i jeans, e insomma, alla fine l'ho
visto, questo famoso Cappellotto.
-Ok.
-Non è esattamente un
cappellotto. Niente di che, sa, prof.
-Sì, ok.
-No, davvero.
Era anche storto.
-Bianca, non mi interessa molto...
-Come no?
Pensavo che gli uomini stessero sempre a fare a gara a chi ce l'ha
più lungo.
-Sì, ma non mi metto in competizione con un
sedicenne, avanti.
-Ma con un trentenne sì?
-No, neanche con
un trentenne, quindi figurati con un sedicenne.
-Beh, io comparo
le mie tette con tutte quelle che vedo.
-A sedici anni è
normale.
-Oh-oh-oh, non facciamo gli adulti e consapevoli,
prof.
-Ho il doppio dei tuoi anni, non ho il diritto, ma il dovere
di fare l'adulto e consapevole.
-Laaa preeegooo! - si lamentò,
poi cambiò posizione. - E così, abbiamo aggiunto
anche Cappellotto
alla lista. Che figata.
-Cosa, Cappelletto?
-No, no.
Cappelletto non è stato una figata, gliel'assicuro. No,
dico, tutte
queste persone. Mi sento potente, per essermele fatte tutte. Non la
fa sentire... non so...
-Cosa...?
-Il fatto di piacere a così
tante persone. A lei non dà una sensazione di potere?
-A me no,
perché vivo la sessualità in modo diverso da te.
Ma da parte tua
non mi stupisce un ragionamento simile.
-Eh? Perché?
-Perché
ognuna di quelle persone è un piccolo, piccolissimo gradino
verso la
cima di quell'enorme piramide inespugnabile che è la tua
autostima.
-La mia... cosa? Non è questione di autostima. È
questione di potere.
-Cosa cambia? Ti fanno sentire
importante. O bella. O capace di rubare i ragazzi alle altre. Per
questo lo fai. Non sei capace di sentirti importante e bella da sola,
quindi chiedi agli altri di darti conferma. A costo di ferire
un'altra persona.
Bianca lo fissò.
-Prof – mormorò,
atterrita – non è molto lusinghiero quello che lei
mi sta
dicendo.
-Non è un'accusa, Bianca. Ti sto solo dicendo che sei
insicura, e che da tale ti comporti.
-No – sbuffò lei,
incrociando le braccia. Emanuele la guardò con eloquenza. -
No eh?
No.
-Va bene, no. Parliamo d'altro, vuoi?
-Come no.
Ma era
cambiata, in effetti. Tempo fa avrebbe squittito qualcosa come
“ma
certo prof, io con lei parlerei sempre e in qualunque momento, lo sa
che adoro parlare con lei, è sempre così
interessante”; in
qualche modo, la delusione sembrava averla fatta crescere.
-Allora
raccontami cos'è successo in queste vacanze di Natale.
-Durante
le vacanze? Perché me lo chiede?
-Perché l'ultima volta che ti
ho vista sembravi un morto che cammina, e invece adesso sei vivace
esattamente come ti ricordavo.
-Prof, da come parla sembra che io
sia morta veramente – lo guardò inorridita
– mettiamola così:
vado a periodi. Ok? Adesso è un periodo buono. Anzi,
buonissimo: il
peggio è passato, il meglio deve ancora venire ma siccome
non è
davvero il meglio diciamo che il meglio è
adesso.
-... ti
offendi se ti dico che non ho capito niente?
-Si figuri, no. L'ho
detto apposta, in modo che lei non ci capisse niente. Prof, si limiti
a prendere le cose così come vengono; alla fine,
è l'unica cosa
davvero sensata da fare, in qualsiasi situazione. Non trova?
-Trovo
– mormorò.
-Ho paura che peggiorerà – disse Bianca, a bassa
voce – e peggiorerà. Andrà male, lo so.
È per questo
che...
Parve esitare, e guardò per terra come alla ricerca di una
risposta.
-Che...?
Bianca scosse la testa, poi sembrò prendere
una risoluzione e la rialzò.
-Lasci stare. È già fin troppo
complicato.
-C'entra con tuo padre?
-Prof, davvero. Lasci
stare.
-D'accordo, lascio cadere anche questo discorso. Comunque
torna a trovare Cappelletto, anche se a letto non è un
granché.
-Di
nuovo? E perché?
Ormai l'ho testato.
-Bianca, sei scema o mangi sassi? Cappelletto
è innamorato di te.
D'un tratto Bianca sembrò illuminarsi. Anche
Emanuele s'illuminò. Era nato l'amore...?
-Oh, wow! - esultò la
ragazza – Questi sono centomila punti! Non capita mica tutti
i
giorni di far innamorare qualcuno, lo sa? Cento gradini per la mia
piramide!
Cos'aveva appena finito di pensare? Che era maturata,
cresciuta, adulta?
Centomila punti per il cuore del povero
Cappellotto.
E dopo essere stato messo alla gogna proprio a causa
del suo celebre glande, per di più.
-E
così si è
ripresa?
Camilla lo guardava con occhi spalancati. Ormai era
un'abitudine: ogni sera Emanuele, come se le raccontasse il riassunto
della puntata di una soap opera che si era persa, informava Camilla
sugli eventi riguardanti Bianca. Un po' come raccontare le favole
prima di andare a letto, solo che questi racconti di solito
costituivano il sottofondo delle loro cene.
-Pare di sì –
Emanuele si ficcò in bocca una forchettata di frittata
– solo che
è un po' cambiata. Un po' meno vivace. Credo che qualche
batosta
l'abbia un po' ridimensionata.
-Meno male. Spero che trovi un po'
di pace, quella ragazza. Comunque si comporti, sembra che qualcosa la
tormenti. No?
-Scusa...?
-Ma sì. L'abbiamo vista depressa e
l'abbiamo vista esagitata, ma poche volte l'abbiamo vista tranquilla.
Sembra che ci sia qualcosa che, costantemente, la scuote da cima a
fondo. Non so, sembra... che abbia perso il controllo su se
stessa.
Emanuele ci rifletté un attimo; non giunse ad alcuna
conclusione, ma prese nota mentalmente di quell'osservazione.
-Per
ora è calma – fu tutto ciò che
riuscì a dire, meditabondo, gli
occhi fissi sul vuoto e la forchetta e mezz'aria – ora
è calma.
Però... - Si guardarono negli occhi. Ma nessuno
riuscì a dire
nulla. - Non so. Ma ti ringrazio di avermici fatto pensare.
-Ormai
sta a cuore anche a me – ammise Camilla, tornando alla sua
frittata.
Quella sera riguardarono 300, che entrava nel
novero della sua top 5, ma non riuscì a concentrarvisi. Il
suo
pensiero continuava a tornare a Bianca, e a ciò che si
nascondeva
dietro di lei.
Il giorno seguente, aveva ricevimento. Non
sapeva cosa aspettarsi da Bianca, questa volta, ma quasi sperava che
venisse, perché non si era presentato nessun genitore.
Non fu
deluso: Bianca si presentò con un sorriso.
-Buongiorno –
esordì.
-Buongiorno – rispose, con un sorriso.
-Mi annoiavo
e così sono venuta qui.
-Cosa stavate facendo?
-Roba noiosa
che per di più avevo già capito. Inizia ad essere
un problema
ricorrente.
-Ma perché non riesci a stare in classe tranquilla a
farti i cazzi tuoi, invece che combinare casini e poi venire da
me?
-Ma no, prof. Guardi che ho solo detto alla Lombardi: io la
declinazione dell'aggettivo l'ho capita. Non ho voglia di aspettare
che la capiscano anche gli altri. Le alternative sono due; o mi
lascia uscire a prendere aria, con la promessa che non
combinerò
nessun tipo di casino, oppure rimango qui e trasformo la lezione in
un inferno. E lei ha detto che posso andare.
-Bianca, sei
diventata stronzetta, ultimamente.
-Beh, è stata la delusione
amorosa. Non sono più molto allegra da quando l'ho avuta.
-Anche
con me sei più distaccata.
-Perché, ora le dispiace? - sogghignò
– Non sono mica così inelegante da essere gentile
con un uomo che
mi ha rifiutata.*
-Al contrario, sei molto più inelegante ad
essere scortese. Testa alta, Bianca, altrimenti io capirò
che ti ho
ferita.
-Mi sta suggerendo di fingere?
-Beh, mi sembrava che
questo fosse il tuo intento, no?
-No. Non voglio dimostrarle
niente. È che con lei non riesco più a essere
come prima. Vuole
sentire una citazione che casca a pennello?
-Sentiamola.
-Dunque
– si schiarì la voce – è in
inglese, eh? Non ho una gran
pronuncia, ma dovrebbe essere comprensibile. Senta qua. Do
you
know what hurts the most about a broken heart?
La guardò.
-Lo
sa? - insistette lei.
-No, non lo so. Dimmelo.
-Not
remembering how you felt before. Try and keep that feeling because,
if it goes... you'll never get it back.
-Ovvero, ogni lasciata
è persa?
-Non sia scontato, prof. No, dice che quando tutto va
bene è facile essere sorridenti, perché hai il
cuore pieno di
gioia. Ma quando te lo spaccano in ventimila pezzettini, impossibili
da ricomporre, poi ti dimentichi com'era prima. Ti sembra quasi di
aver sempre sofferto, no? E più passa il tempo, meno riesci
a
ricordarti com'era essere felici.
-La tua era solo una cotta.
-Non
era solo una cotta. Anzi; non è solo una
cotta, perché, per
quanto io mi ostini a dimenticarla, non ne sono proprio capace. Ma a
parte questo, il fatto è che dopo non riesci più
ad essere
fiducioso nel futuro come lo eri prima. Ti aspetti altre ferite. E
finisce che, se anche tornano gli attimi di gioia, tu non riesci a
goderteli e a volte nemmeno a riconoscerli, perché vedi
segnali
della catastrofe da tutte le parti. Così stai sempre
lì in guardia,
troppo occupato a parare i colpi per riuscire a vivere il presente
con serenità.
-Senti, questo significa che ricomincerai a
piangere tutto il giorno e ci toccherà mandarti a casa
perché vuoi
chiuderti in un letto e non vedere più nessuno?
Lei scosse la
testa.
-No, prof. Non credo proprio. Credo di starlo superando,
sto sempre meglio. Ma non credo sia giusto stare meglio. Io credo che
se mi sento meglio non sia perché l'ho davvero superata, ma
perché... come posso spiegarglielo...
-Provaci soltanto.
-Io
provo a spiegarglielo senza dirglielo, ma non è tutto 'sto
facile.
-Allora non me lo puoi spiegare.
-Ho idea di no, prof –
sorrise tristemente.
-Quindi tu sei convinta che la tua per me non
fosse... non sia solo una cotta?
-Perché me lo
chiede?
-Perché vorrei vederci chiaro anch'io.
-D'accordo. Sì,
ne sono convinta, prof. Non lo so, mettiamola così: lei cosa
prova
per Camilla?
-Per Camilla? Beh, ho sempre voglia di vederla. Mi
attrae fisicamente, nel senso che mi scatena delle reazioni. La stimo
profondamente. Con lei sto meglio che con chiunque altro. Non potrei
sopravviverle. Più o meno credo sia questo.
-Benissimo.
Mettiamola così: se lo prova lei che ha trent'anni
è amore, ma se
lo provo io, che ne ho sedici, è una cotta passeggera?
-Tu
conoscerai ancora molte persone.
-Anche lei.
-Sì, ma io ormai
quelle che dovevo conoscere le ho conosciute.
-Anch'io.
-Ma se
devi ancora entrare all'università.
-Senta, prof, potenzialmente
uno può anche non finire mai di conoscere persone. Dipende
solo se
lo vuole.
-E con ciò?
-E con ciò, se lei ha già scelto e io
ho già scelto, dov'è la differenza tra noi due?
-Tu hai tredici
anni meno di me, tutti pieni di gente che potrebbe starti vicino per
più o meno tempo. Devi ancora vivere.
-Ma lei pensa di avere
cent'anni? Anche lei ha una vita intera davanti, una vita in cui le
capiterà di incontrare moltissime altre persone, dopo
Camilla. Ma a
lei cosa interessa, se Camilla continuerà a piacerle
più di tutti?
Io l'ho incontrata prima, la persona che giudico adatta a me, lei
magari l'avrà incontrata dopo, ma rimane che tutti e due
l'abbiamo
incontrata, e chiunque ci capiterà di conoscere non
reggerà il
confronto, a sedici anni come a trenta come a cinquanta.
-Con la
differenza che tu non sei in grado di provare certi
sentimenti
forti, maturi, che resistano anche alle avversità del mondo
degli
adulti.
-Ah, mi sta dicendo che, dato che non abbiamo un mutuo da
pagare assieme, dato che non litighiamo per chi porta giù
l'immondizia, dato che non dobbiamo stringere la cinghia ed accusarci
a vicenda per chi ha prosciugato il Bancomat questo mese, allora non
so cos'è l'amore, perché non conosco il
compromesso e il
sacrificio? È questo, che mi sta dicendo?
-Precisamente. È
facile, quando sei studente e hai zero preoccupazioni, dare il
massimo a un'altra persona. Ma provaci quando hai il bucato da fare e
sei appena tornato esausto dal lavoro, prova a fare l'amore quando
sai che il giorno dopo devi alzarti alle sei per tornare in un posto
dove magari c'è un nido di vipere che ti rovinano la
giornata quando
deve ancora iniziare. L'amore duraturo richiede sforzi. E
pazienza.
-In pratica, con l'amore duraturo, tutto si spegne e
devi prosciugare le tue ultime energie e per fare qualcosa che
comunque non hai le forze di fare. Questo per me non è
amore;
somiglia di più a un castigo.
-Ma lo vedi che non hai capito?
L'amore è quando, nonostante tutte queste cose, cos'avevamo
detto
prima? Hai sempre voglia di vedere quella persona, ti attrae
fisicamente, la stimi profondamente, con lei stai meglio che con
chiunque altro e non potresti sopravviverle. Non è che si
spegne. È
che resiste, il che è tutta un'altra
cosa.
-Capisco –
fece Bianca, delusa – va bene. Be', allora non ho speranze,
giusto?
Sono troppo piccola. Per me va bene un cretino come Cappellotto, uno
che a momenti inciampa sui suoi stessi piedi, uno che capisce solo le
parole “pompino” e “infilarlo”
e “tettone”.
-Ci sono
sicuramente altri sedicenni al tuo livello.
-O forse io non sono
al livello dei sedicenni, solo che lei non me lo vuole
riconoscere.
-Bianca, in realtà non esiste un
“livello”.
Esiste il grado in cui una persona sviluppa una sua cultura e una
capacità di elaborare ciò che le viene inculcato.
Ma ti manca
l'esperienza, Bianca, ci sono molte cose che devi ancora capire, e
questo fattore può cambiarlo solo il tempo.
-Lei è convinto che
io non abbia vissuto nulla, solo perché ho sedici anni.
-Hai
vissuto molto, invece, Bianca. Solo, non hai vissuto le esperienze
giuste, quelle positive, o anche quelle negative che però ti
insegnano qualcosa; e anche ponendo che tu ne abbia vissute,
sicuramente non sono state abbastanza. Questo è.
-Mi sta dando
dell'immatura?
-Sei un'adolescente, Bianca, e te lo devi mettere
in testa. Non lo sarai per sempre, perché non provi un po' a
godertelo? Io pagherei, per avere ancora la tua età.
-Si vede che
non ricorda com'era – osservò, amaramente.
-Me lo ricordo
eccome. Provavo emozioni tanto intense che pensavo mi avrebbero
ucciso. Poi cresci e vai avanti sempre di più con la
filosofia del
lasciar perdere, del tenere a distanza per prevenire, dell'essere
educati e corretti e irreprensibili e falsi. Arrivi
a
reprimerti così tanto che, sì, soffri di meno, ma
sei diventato
insensibile. Mille cose che a sedici anni ti avrebbero steso per
terra ora ti sembrano cazzate, in confronto ad altre cose che hai
vissuto crescendo. E ti rendi conto che sei più forte, ma
poi pensi
che forse sei solo così debole che ti corazzi contro tutto,
anche
contro le semplici emozioni.
-Questa è una confessione a cuore
aperto?
-Te lo sto solo spiegando. Non ho bisogno di confessare
nulla; io ho già passivamente accettato.
-Bella merda, glielo
posso dire? Scusi il termine.
-Già, bella merda. Non è così
eccitante stare con un trentenne, dai retta a me. Siamo appena usciti
dalle prime delusioni forti, siamo a terra più di qualunque
altro.
Non ti farei del bene. Ti farei stare peggio.
-Mentre a Camilla
lei fa un effetto benefico...?
Emanuele sorrise.
-Camilla è
come me – rispose – lei sa perché a
volte torno a casa
stravolto, perché a volte non ho voglia di chiacchierare,
perché
non sono sempre pronto a sbatterla sul letto e dedicare tutta la
notte a noi due. Sa che se potessi sarei diverso, e sa come sono
quando non ho il lavoro a cui badare. Tu, invece, di me hai visto
solo la facciata che sono costretto a portare qui a scuola. Tu non
potresti mai capirmi.
Bianca alzò un sopracciglio.
-Beh, a
voler essere precisi, l'ho conosciuta un po' più a fondo, in
qualche
occasione.
-Ah sì? Mi hai fatto tu la limonata quando avevo lo
scagotto, Bianca? Mi hai mai tenuto la fronte mentre vomitavo dopo
una serata alcolica? Mi sopporteresti la mattina presto, quando
potrei mangiare una persona viva?
-... no. Ma potrei esserne
capace.
-Forse, ma non capiresti mai perché non sono come te. E
alla lunga, diventeresti come me. Non è il caso che una
sedicenne si
comporti come una trentenne.
-Non starò mai con Cappellotto.
-Ma
lo spero bene.
Bianca lo guardò negli occhi, scrutandolo come se
volesse dirgli qualcosa. Era capace di essere indecifrabile, quella
ragazza.
-Non ho proprio speranze? - gli chiese alla
fine.
-Mettiamola così. Qualcun altro, eccetto me, ha speranze,
con te?
-No.
-Ecco. Stesso provo io per Camilla. Come la
mettiamo?
-La mettiamo che Bianca se la mette via.
-Cosa dovrei
fare, secondo te? Lasciare la donna che amo per mettermi con una
donna che non amo, che per di più è una
ragazzina, e in quanto tale
mi farebbe finire dritto al fresco?
-No, non dovrebbe. Ma sarebbe
bello se lei lo volesse.
Emanuele non rispose, le fece un sorriso
di circostanza. Bianca si alzò.
-Be', ci ho riprovato. Ma mi sa
che è ora di andare, prof.
-Monica avrà le mani nei
capelli.
-Già. Allora ci si vede, prof. Grazie della
chiacchierata.
-Ma dai. Ciao, ci vediamo.
-Arrivederci.
Emanuele
era stato colpito da tanta posatezza. Forse Bianca, pensava, era
cambiata, forse si era data una calmata dopo la delusione amorosa.
Si
era consolato con quel tipo di pensieri fino a che, il giorno dopo,
non l'aveva trovata davanti al portone della scuola, intenta a
baciare appassionatamente un tipo più grande di lei.
Solitamente la
gente la teneva a distanza, soprattutto i ragazzi carini,
perché
girava voce che Bianca avesse contratto l'AIDS a forza di andare con
chiunque. Questo tizio in questione aveva capelli ossigenati e
piastrati, occhiali a specchio, jeans con vita bassa che scoprivano
dei boxer fuxia, cintura rosa e un paio di scarpe con sopra
più
colori dell'arcobaleno.
-Buongiorno – le disse, passandole
accanto. Lei aprì un occhio; lo vide e si staccò
dal tamarro in
fuxia.
-Buongiorno, prof! Ha visto? Ho trovato un nuovo
amico!
-'Giorno – fece il suo nuovo amico con un sorriso,
alzando con due dita la visiera del cappellino.
-Buongiorno,
Trolese – replicò educatamente Emanuele.
Bianca gli rivolse un
sorriso allegro, poi si lanciò di nuovo in un
attorcigliamento di
lingue con Trolese, che la palpava tranquillamente in presenza di un
pubblico scandalizzato.
-Attento, che ti passa la sifilide –
gridò infatti qualcuno.
Quelle storie su Bianca, sulle malattie
veneree, avevano iniziato a girare da un po' di giorni. Erano nate
con una battuta, che Emanuele si era limitato a riprendere, ma si
erano espanse a macchia d'olio, e ormai Bianca era stata decretata
ufficialmente affetta dall'HIV.
Ormai, solo i peggiori si
degnavano di andare con lei. I ragazzi a posto, e quelli popolari, la
evitavano come la peste. Quasi tutti si guardavano bene dal parlarle,
spaventati all'idea che la sua reputazione li contagiasse, come un
virus invisibile.
Ma Bianca non se ne curava. Quel giorno fu
incontrollabile. Continuava a disturbare i compagni, tentando di
parlarci, ma perfino quelli che si era portata a letto si rifiutavano
di rivolgerle la parola.
-Crivellaro! Ma insomma! - esclamò lei a
un certo punto, come se non fossero stati nel bel mezzo di una
lezione – Dopo tutto quello che c'è stato tra noi,
ti rifiuti di
parlarmi?
-Dai, per favore, lasciami stare. Hai interrotto la
lezione – replicò Crivellaro senza guardarla; il
che aveva
dell'incredibile, perché Crivellaro era uno dei maggiori
elementi di
disturbo della terza A.
-Guarda che non te le faccio più toccare
– Bianca sorrise maliziosa, si abbassò la
scollatura e si
accarezzò un seno. Tutti gli uomini della classe, Crivellaro
compreso, trasalirono, ma nessuno di loro parlò; fu Giulia a
intervenire.
-Senti, Bianca – disse il suo nome come
se
fosse stato un insulto – l'hai finita di rompere i coglioni?
Perché
non fai a meno di venire a scuola, dato che fai tutto
fuorché
studiare?
-Mmmh – replicò Bianca, reclinando il capo
– guarda
quanti esemplari ci sono in quest'istituto. È un'occasione
irrinunciabile di ampliare le proprie conoscenze.
-No, a scuola si
viene per studiare, non per mostrare le tette!
-Su, non fare così.
È vero, Dio con me è stato generoso e mi ha dato
le tette, mentre a
te no, ma non è il caso di arrabbiarsi a questo modo.
-No, il
fatto è che Dio a te ti ha fatta troia e a me mi ha fatta
normale, e
sinceramente non ho che da ringraziarlo per questo!
-Troia solo
perché pretendo che Crivellaro, dopo che ha fatto i suoi
comodi, mi
rivolga la parola?
-Ma parlagli a ricreazione! Lasciaci far
lezione!
-Il tuo ragionamento non fa una piega, ma non mi va. Non
so perché. Non mi va. Non ho la minima intenzione di far
proseguire
questa lezione. Non mi va di ascoltarla. Non mi va di stare con voi.
Voglio che Crivellaro mi parli. Finché Crivellaro non mi
parla, io
non la smetto. Sì, questa è una minaccia. E no,
non la finisco,
continuerò a parlare finché non mi parla anche
lui. Avanti
Crivellaro, questa è una sfida. Fuori le pistole. Gatti di
polvere
che rotolano. Insegne di vecchie taverne. Strade semideserte e gatti
neri che rizzano il pelo. Qualche cactus...
-Bianca – Emanuele
intervenne – ehi. Fermati.
Lei si voltò nella sua
direzione.
-Oh, professore! Mi scusi se l'ho interrotta. Non
volevo certo danneggiare lei, mi scuso profondamente per il mio
comportamento. Ma non riesco a scusare Crivellaro per il suo
abominevole voltafaccia. Finché Crivellaro non mi
parlerà, io
impedirò in ogni modo che la lezione segua il suo normale
svolgimento. Ricordi il piano dell'offerta formativa o
incorrerà in
una spiacevole autogestione; il che poterà a ulteriori
consigli
degli insegnanti. Perché la classe è troppo
vivace con alcuni
elementi di disturbo che spiccano tra gli altri. Impediscono ai
docenti di proseguire normalmente con la spiegazione. Vanno isolati
oppure integrati, ma non siamo ben certi di come svolgere un
programma d'integrazione per gli studenti con evidenti
problematiche.
-Bianca – la interruppe – cosa stai
dicendo?
-Sto facendo un excursus delle cose che ripetete più
spesso. A volte sapete essere noiosi. Non fate altro che...
-Bianca,
adesso stai zitta – decretò.
-Ci provo, prof. Ci provo,
ci provo, ma ho così tanta voglia di parlare, di dire un
casino di
cose, di fare cose, di comunicare con i miei
coetanei. Ho una
gran voglia di uscire da qui, posso? Posso? Così non
disturbo più
nessuno e mi lancio in attività che io ritengo
più interessanti.
Col massimo rispetto per la sua eloquenza. Posso uscire, prof?
Allora? Me lo permette per favore?
-Per favore, la faccia uscire –
lo supplicò un ragazzo – non ne posso
più di sentirla
blaterare.
-Solo alle elementari i bambini non riescono a stare
seduti tranquilli sui banchi – brontolò una
ragazza.
-Bianca,
per favore vai dalla preside e aspettami lì. Ti raggiungo al
cambio
dell'ora.
-Yes! - esclamò Bianca, poi uscì dalla classe
galoppando. In corridoio, la vide fare una ruota. La
controllò
mentre saltava i gradini due a due, poi uscì dal suo campo
visivo.
Sembrava stesse andando davvero dalla preside.
Fece una gran
fatica a proseguire la lezione, ma in qualche modo arrivò
alla fine
dell'ora.
Si precipitò nell'ufficio della preside, trovò
Bianca
intenta a mangiarsi le unghie con grande concentrazione, mentre la
preside scriveva su qualche registro.
-Buongiorno, Emanuele – lo
accolse placidamente – eccola qui. Abbiamo fatto due
chiacchiere.
-Ottimo – commentò – allora ci siamo
calmati?
-Circa – fu la risposta di Bianca, che sorrideva con
l'aria di chi ne stava progettando una di nuova.
-Avanti, ti
accompagno in aula. Adesso c'è Rossella, vedi di stare
calma.
-Sissì.
Bianca lo seguì, saltellando e lanciandosi in
ardimentose giravolte, su per le scale e nel corridoio. Non le chiese
né disse nulla, la portò solo in aula.
Sentì che l'accolsero con
qualche insulto, ma decise di lasciare che se la sbrigasse da
sola.
Tempo dieci minuti, e vide, dalla quarta A, che Bianca era
stata spedita fuori in corridoio. Passò fuori tutta l'ora;
la sesta
ora, invece, sentì diverse grida provenire dalla sua classe,
e udì
distintamente il nome 'Bianca'.
Il giorno dopo si svolse allo
stesso modo. Fu portata dalla preside, sgridata, punita, sbattuta in
corridoio, ma Bianca non dava segno di volersi calmare. Dalle altre
classi, attraverso le porte a vetri, la guardò mentre
approcciava
altri studenti che si trovavano ad andare in bagno o in segreteria,
poi la vide mentre chiacchierava col bidello, senza mai stare fissa
in una posizione, poi la osservò, sbigottito, mentre
comunicava a
versi con qualcuno in quinta B, attenta a non farsi vedere dalla
prof. Poco dopo, un ragazzo di quella classe – che non era
Trolese
– la raggiunse con un sorriso, la portò vicino
alle scale, la
sbatté contro un muro ed iniziò a metterle le
mani sotto i
vestiti.
Emanuele uscì dalla classe con una scusa. Avvicinatosi
senza far rumore, notò che il tizio aveva una mano sotto la
gonna di
Bianca, e che lei ansimava, e che il tipo stava slacciandosi i
pantaloni e tirando giù le mutandine di lei. A quel punto si
avvicinò, facendo più rumore possibile.
-Ehi – esclamò –
Chi c'è là dietro?
Finse di non averli visti bene, perché, se
li avesse colti nel fatto, avrebbe dovuto farli sospendere tutti e
due, e non voleva mettere nei guai Bianca, nonostante tutto.
Aspettò
il tempo necessario perché si ricomponessero; li
ritrovò rossi e
col fiato corto, ma vestiti.
-Cosa stavate facendo? - domandò,
severo.
-Niente – rispose prontamente il tizio – stavo
andando
in bagno, ho trovato Bianca e abbiamo fatto due parole.
-Non vi ho
sentiti parlare.
-Parlavamo piano... di cose nostre.
-Vai in
bagno e fai quello che devi fare. E tu, Bianca, cosa stai facendo qui
fuori?
-Mi ci hanno buttata – sorrise lei, furba – non
è
colpa mia.
-Ti ci hanno buttata perché stessi da sola, Bianca.
È
lo scopo di una punizione: che tu stia isolata. Quindi isolati, per
cortesia, prima che parli con l'insegnante della tua ora.
-Oki.
Emanuele
aspettò che il tizio si fosse allontanato; poi si
avvicinò a
Bianca.
-Pensavo fossi cambiata – le sussurrò, arrabbiato
–
che fossi diventata adulta, non che fossi regredita.
-E chi ha
voglia di essere adulti, se è come dice lei? -
replicò Bianca
allegramente, attaccandosi alla ringhiera e dondolandosi sulla rampa
di scale, con una gamba alzata a novanta gradi.
-Non per questo
devi comportarti da bambina di sette anni – la riprese.
-A sette
anni non le facevo queste cose, prof.
-Quindi sai che ti ho parato
il culo. Bene. Sappi che è l'ultima volta. Mi hai deluso
parecchio,
Bianca.
Lei sorrise e si allontanò strascicando i piedi.
Quasi
se lo sentiva, ma il giorno dopo passò alla stessa maniera.
Grida,
Bianca per i corridoi, gente che la insultava. Ragazze che la
accerchiavano perché era stata coi loro fidanzatini. Ragazzi
che la
evitavano quando lei cercava di approcciarli. I peggiori stupidi
della scuola che si appartavano con lei da qualche parte.
I giorni
che seguirono la trovò sempre sul portone della scuola, alle
otto di
mattina, avvinghiata a qualche cretino. Ogni suo momento libero era
dedicato al sesso e ai suoi derivati. Una ricreazione, davanti a
tutti, baciò una ragazza dichiaratamente lesbica, e il bacio
fu
tanto duraturo che qualcuno iniziò a filmarlo. Quel filmato
iniziò
a girare, e, assieme ad esso, le voci che Bianca recitasse nei film
porno. Bianca fu fotografata ed Emanuele trovò facilmente in
internet dei fotomontaggi del suo volto con il corpo nudo di qualche
attrice del settore. Bianca le aveva stampate e attaccate con lo
scotch al suo banco.
Quanto agli insegnanti, avevano le mani nei
capelli. Nessuno era più in grado di tenerla in classe per
più di
un quarto d'ora, a parte Antonella ed Emanuele. Fu richiamata spesso
per il suo abbigliamento, ma questo non fece che peggiorare. I suoi
capelli erano sempre più rossi, così come il
rossetto e lo smalto;
iniziò a portare sempre i tacchi alti, e le scollature a
volte erano
così profonde che si vedeva una porzione di reggiseno.
Un giorno,
addirittura, più di qualcuno giurò di averle
intravisto un
capezzolo.
Emanuele durante le sue lezioni lasciava che facesse
qualunque cosa le andasse di fare; tutti fingevano di non vedere la
PSP, ormai tutti la ignoravano quando iniziava a lanciare occhiate in
giro. A volte chiamava la gente, la invitava a parlare, ma nessuno le
rispondeva. Lei allora lasciava perdere e iniziava a fare a pezzi la
gomma da cancellare, per poi ricomporla in svariate forme. Durante le
lezioni dipinse qualche acquerello. Infestò con un terribile
odore
di acetone tutta l'aula, perché si faceva lo smalto nelle
ore di
spiegazione. Il rumore del suo iPod era spesso fastidioso. Qualche
insegnante provò a darle degli esercizi extra da fare
durante la
lezione, e lei li fece, ma era piuttosto veloce e spesso si era
daccapo.
-Ohi, Rossetti – si rivolgeva ai compagni, reggendosi
la testa con la mano e mostrando bene il seno in angolazione
– ti
va di replicare l'altra notte? Adesso, in bagno?
Lo mormorava, ma
lo mormorava forte.
Rossetti guardò la lavagna con
determinazione, lei gli lanciò una penna, gliene
lanciò due,
qualcuno gliene lanciò una in faccia.
-Ahia – disse con una
smorfia, e poi iniziò a lanciare matite a caso. - Guerra
delle
matite! - esclamò, ma nessuno le diede retta, se non per
lanciarle
severe occhiatacce.
I professori facevano finta che non avesse
parlato, e così iniziarono a fare tutti. Ogni tanto parlava
da
sola.
-Sono tutti antipatici – diceva a un pettirosso sul
davanzale, sorridendo – vedi? Non mi danno retta. Come dici?
No,
no, non gli ho fatto niente, io. Gli ho solo dato quello che
volevano. Beh, sì, ad alcune ho tolto
quello che volevano, ma
la gente non lo fa in continuazione?
-Sssh – facevano i
compagni, in coro, infastiditi.
-Vedi? Mi trattano così. Beato te
che sei così carino. Tutti ti vogliono bene. Tutti ti
vorrebbero in
casa loro. Però poi ti mettono in gabbia, non so chi sta
meglio tra
me e te. Dicono che l'uccellino a cui venga aperta la gabbia non voli
via per paura del grande mondo. La paura. Hai...
-STAI ZITTA –
urlavano, e lei sospirava e stava zitta.
Non per molto, però.
Faceva ai professori domande su domande, inerenti al programma, ma
domande in continuazione. Finivano di risponderle, e lei chiedeva
ancora. Proseguire era impossibile. Richiamarla all'attenzione
portava ad assaggiare un'arma a doppio taglio.
Il lunedì, quando
tornarono a scuola, Bianca arrivò accompagnata da un
quarantenne. Lo
salutò con un bacio appassionato, esattamente di fronte
all'entrata.
Lui la salutò con una pacca sul sedere.
Tutti mormoravano
talmente forte che gli insegnanti si precipitarono fuori, a vedere
cosa fosse successo; e videro solo Bianca, con un enorme succhiotto
viola sul collo, che si sistemava i capelli e si avviava verso il
portone, senza neanche lo zaino o un quaderno.
-Guarda col
compagno – le dissero quando lei, richiamata all'ordine,
protestava
di non avere i libri, ma i compagni non volevano.
-Ma guarda che
maleducati – commentò lei, parlando a nessuno in
particolare –
solo perché io ho una vita e loro no. Io ieri sono andata a
letto
alle cinque, mi sono fatta una nottata che se la sognano, ho bevuto
perfino il Dom Pérignon... quanta disdicevole invidia
c'è nel
mondo.
I colleghi, a ogni cambio dell'ora, riportavano notizie di
questo genere.
Un giorno la vide in un parcheggio poco lontano
dalla scuola; all'inizio aveva visto solo un ragazzo fermo sul sedile
della guida, e poi aveva visto la testa di Bianca emergere dal
cruscotto, e la sua mano esile che si asciugava la bocca. Lei si
limitò a salutarlo con la mano.
Attese che arrivasse il
mercoledì, e, quando arrivò, la
afferrò per un braccio e la
trascinò per il corridoio, staccandola dal tizio contro il
quale si
stava strusciando.
-Cosa c'è, prof? - biascicò lei; notò
che
teneva in mano una bottiglietta. Ricordò quello che gli
aveva
raccontato tempo prima. Probabilmente era vodka.
-Quanto male
intendi farti ancora, prima di piantarla una volta per tutte? -
sibilò tra i denti – Adesso andiamo nell'ufficio
della preside.
Intendo parlarti seriamente.
-Ah, voilà! - replicò
allegramente lei, ma lo seguì docilmente.
Arrivati in ufficio,
diede precisi ordini alla segretaria; non voleva essere disturbato.
Adagiò Bianca sul sedile e, per una volta, decise di
mettersi
dall'altra parte della cattedra.
-Mi dica, prof – fece lei;
aveva gli occhi semichiusi e la testa che ciondolava.
-Sei
ubriaca?
-Ah, è molto probabile, prof. Ma mi sento così
tranquilla. Era da un po' che non mi sentivo così.
-Che cos'hai,
Bianca? Cosa ti è successo?
-Cosa mi è successo?
-Mi prendi
in giro? Stai tornando esattamente come prima.
-Mais oui?
-Oui,
Bianca, senza dubbio. Dammi quella bottiglia. Come ti viene in mente
di ubriacarti a scuola?!
-Ma se non bevo mi agito, e se mi agito
tutti se la prendono con me; così bevo e me ne sto
tranquilla,
no?
-Cos'è che ti agita? Cos'hai?
Perché non me lo vuoi
dire?
-Le ho scritto una poesia, prof! A momenti la dimentico.
Tenga.
Bianca gli porse un foglio a righe strappato da un
quaderno. A penna blu era tracciata una poesia quasi
illeggibile.
-Galoppare sulla polvere di stelle... arcobaleni...
fate... cavalli morti...? Cos'hai scritto qui? Budella?
-Già
– proclamò fiera.
-Non riesco a leggere nulla.
-Avevo la
vista un po' appannata. Mi sa che non si legge tanto bene, eh?
-Cosa
stai cercando di dirmi?
-Nulla. Non cerco di dirle nulla. Credo di
invidiarla molto. Lei e Camilla.
-E per questo vai con chiunque ti
capiti?
-Oh, no, prof. No. È perché altrimenti il tempo
mi
divora. Se non lo divoro io, sarà lui a mangiare me. Poi
c'è
l'ottovolante. I cavalli, appunto. Galoppo, e la polvere di stelle,
sa. Ma poi muoiono. Come le ho detto nella poesia.
-Bianca –
Emanuele scandì molto lentamente le parole successive
– quello che
stai dicendo non ha senso.
-Mi sento un po' confusa – fece lei –
sarà l'alcool.
-Aspetto qui finché non ti è passata. Ti porto
un caffè. Te lo faccio bere col sale, se non ci sono altre
soluzioni. Ma tu mi parlerai seriamente, come hai fatto qualche
settimana fa.
-Non mi passa subito. Dovrei dormirci sopra.
-Sei
in grado di rispondere alle mie domande?
-Suppose so.
-Perché
non riesci a startene calma due minuti?
-Sono nata così, prof.
Con una peculiare tendenza all'esuberanza.
-Ma un mese fa stavi
calma. Fin troppo calma. Continuavi a piangere.
-Be', capita a
tutti un momento di sconforto.
-Fai la cretina per non pensare a
quello che succede in casa tua?
-Ma si figuri, prof.
-E
allora?
-Insomma, ho mal di testa – protestò –
voglio solo
starmene in pace. Non ho più disturbato, proprio come mi
avevate
chiesto. Non le ho neanche più proposto di stare con me,
invece che
con Camilla, perché il vostro è un Autentico
Grande Amore. Ho
ubbidito a tutti quanti. Che c'è ancora? Mi lasci tornare in
classe.
-Non finché non avrò una parvenza di dialogo
serio con
te.
-Non ne ho voglia – sbuffò; dopo averlo detto
scattò in
piedi, si voltò e si avviò verso la porta.
Emanuele si alzò
velocemente.
-Tu rimani qui – decretò.
-Sarebbe delizioso,
ma ho un'ora di filosofia che mi aspetta. La prego di scusarmi. In
presenza del re tutti i cortigiani stanno in piedi e si levano il
cappello.
-Ferma – le ordinò, e, dato che si affrettava,
l'afferrò per un braccio e le tirò su la manica
quasi fino al
gomito.
Fu nel fare questo che avvertì una superficie soffice
fare attrito contro la manica.
Guardò il braccio di
Bianca.
Assicurato con lo scotch medico, sul suo polso c'era un
grosso cerotto bianco, che la copriva esattamente in corrispondenza
delle vene.
-Bianca – mormorò, senza fiato –
Bianca...
-Ora
mi lascia andare?
-Bianca – mormorò ancora, mentre le mani
iniziavano a tremargli – che cosa... che cos'hai fatto...?
*
Questa è una
citazione che non ho potuto esimermi dal fare :°D dubito
riuscirete
a coglierla, ma chissà, forse qualche appassionato... *-*
(Nda:
scusate i lunghi tempi d'attesa... è stato un capitolo molto
difficile da scrivere, e, per dirla tutta, non ne sono soddisfatta,
ma le cose sono due: o lo scrivi come viene o non lo scrivi,
altrimenti lo perdi e basta. Mi rimetto al vostro parere :O.
Siccome
ora sono un po' ammalata, non ho proprio le forze per rispondere
singolarmente alle vostre recensioni T___T ma sappiate che le leggo
tutte attentamente e che mi fanno un enorme piacere, per cui vi
ringrazio tutte di cuore per le vostre parole gentili. Sono una
grande fonte di sostegno per me :).
Noto che qualcuno di voi,
nelle sue elucubrazioni XD, sta dirigendosi più o meno sulla
giusta
strada per quanto riguarda Bianca. Non intendo farvi spoiler,
però
credo di poter dire tranquillamente, specie alla fine di questo
capitolo, che, sì, dei problemi ci sono. Penso che entro il
capitolo
10 la storia sarà conclusa, per cui i chiarimenti non
tarderanno ad
arrivare.
Con ciò chiudo e torno alle mie copertine e
all'aspirina ç_ç'' spero di guarire presto,
così scrivo
qualcos'altro XO!
Al prossimo capitolo e grazie ancora delle
recensioni :*!)
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Lei
continuava a
fissare la porta, tanto che non poteva vederla in viso.
Da una
parte, voleva pensare di essersi sbagliato. Voleva pensare che si
fosse ustionata con la piastra, o che il gatto l'avesse graffiata, o
qualche altra sciocchezza simile. Non era poi così
improbabile.
Quante possibilità c'erano che quel cerotto stesse
nascondendo ciò
che lui pensava?
Ma, sforzandosi di rimanere lucido, si rese conto
che non poteva essere nient'altro.
Un cerotto sulle vene del polso
non dava adito a molte interpretazioni.
-Bianca, voltati e
guardami – le ordinò, ma la sua voce non era poi
così ferma, e
lei rimase dov'era, rigida, con il braccio immobile nella mano di
Emanuele. - Bianca – la chiamò ancora –
guardami.
Stavolta
doveva essere stato più convincente, perché lei
si girò. Guardava
in basso, con aria vagamente colpevole.
-Cos'hai fatto...? - le
chiese di nuovo, anche se non era necessario.
-Credo lei sappia
cos'ho fatto – sospirò lei, quasi la stesse
seccando.
-Perché?
Sapeva di aver posto una domanda difficile,
e non s'irritò quando ricevette una risposta poco esauriente.
-Ah,
non mi ricordo. Mi sentivo triste, credo.
-Ti sentivi triste?
Tutte le volte che ti senti triste, tu...
-Ma no, no –
scosse la testa – mi sentivo particolarmente
triste.
-Capita
a tutti – Emanuele cercò di contenere il tremore
delle mani e
della voce – di sentirsi particolarmente
tristi, almeno una
volta l'anno. Ma non tentiamo tutti il suicidio.
-Ah-ha! Vorrebbe
dire che le mie motivazioni erano labili? Eh? Eh?
Nel parlare gli
venne sempre più vicino, spingendo la testa sulla sua
spalla. Lo
diceva ridendo.
-No – fece Emanuele, serio, spostandola –
voglio dire che erano fin troppo profonde. La gente non arriva a
questo solo perché è triste, lo fa
perché è disperata, di
solito.
-Non ero disperata – precisò Bianca –
ero... beh, sì,
anche disperata, mi sa, sennò non l'avrei fatto. Credo di
aver
pensato che non ce la facevo più. Ma non era solo questo,
perché
capita spesso di pensare di non farcela ma nel profondo sai
già che,
invece, in qualche modo ce la farai, giusto?
-Beh... sì,
giusto.
-Ecco. Solo che ho pensato una cosa, senta la mia teoria.
Ho pensato che, anche se per quella volta mi fosse passata, era
comunque inutile continuare, perché il mondo faceva schifo
in ogni
caso, avrebbe continuato a fare schifo anche se avessi continuato a
vivere. Così pensavo. Quanto pessimismo!
-Se non ho capito
male... l'hai fatto per sfiducia...?
-Bravissimo! - le si
illuminarono gli occhi – Ha detto proprio la parola giusta.
Sfiducia. Pensavo che anche se avessi superato quel periodo, poi
comunque sarebbe successo qualcos'altro. Se non ricordo male, pensavo
che le persone non mi piacessero, che nessuna fosse animata da amore
e buoni sentimenti, perché in fondo siamo tutti
egoisticamente e
schifosamente umani. E perciò ho ragionato: chi vuole vivere
in un
mondo in cui non c'è niente di vero, in tutto quello che ci
hanno
raccontato...?
Emanuele realizzò che doveva pensarlo
veramente.
In tanti sostenevano che il mondo facesse schifo e che
le persone fossero cattive, ma, se il livello di disgusto e sfiducia
avevano raggiunto quel livello, significava che Bianca lo sentiva
davvero. Nel profondo, da dove era molto difficile risalire.
Le
profondità sono luoghi attraenti, ma estremamente
pericolosi.
-Insomma, ho fatto due più due –
continuò Bianca –
potevo anche superare quella giornata, ma sarei andata ancora
incontro a un'infinità di giornate uguali a quella. Il mondo
e le
persone sono fatte così, lo sa anche lei. E allora ho
pensato: dato
che non mi piacciono, perché continuare ad affrontarle ogni
giorno,
se tanto so che non cambieranno mai?
-Vuoi dire che non era una
crisi, ma... una scelta?
-Precisamente – confermò
Bianca, sedendosi sulla scrivania e dondolando le gambe – una
scelta, proprio così. Le crisi sono quelle cose che superi,
e poi
tutto torna più o meno a posto; tu cambi, oppure
è quello che ti
circonda a cambiare, ma in qualche modo recuperi l'ottimismo. Il mio
era un caso diverso. Non era quella tristezza da ululati nel cuscino,
capelli strappati, una corsa verso la terrazza dell'ultimo piano...
è
solo che ho fatto due conti e ho capito che il mondo non era il posto
per me. Tutto qua.
-E tu eri ubriaca...? - fece
Emanuele.
-Ubriaca? No, no, non avevo bevuto. È stato un
ragionamento lucido.
-No, non intendo allora. Intendo
adesso. Poco fa sostenevi di aver bevuto troppo, ma
questi non
sono i discorsi che fa un'ubriaca. Tu sei perfettamente sobria,
altrimenti non potresti spiegare con tanta chiarezza i motivi per cui
hai cercato di toglierti la vita.
-Forse sono tanto chiara proprio
perché sono ubriaca. Mi sento sempre meglio, sa, quando bevo
un
goccetto – sorrise e gli porse la bottiglietta. Emanuele
declinò
scuotendo il capo.
-Intendi rifarlo? - le domandò.
-Cosa, bere
vodka? Beh, non vorrei deluderla, ma ho proprio paura che...
-No,
Bianca, non la vodka. Intendi provare ancora a...
Indicò il suo
polso con un cenno del capo.
-Macché, prof! - ridacchiò –
Mannò. Chissà cos'avevo per la testa. Poi si
è sistemato tutto, si
sistema sempre tutto, posso resistere. Ora mi sento molto in forma.
Mi sento piena di vita, posso affrontare tutti.
-Già, parliamone–
osservò Emanuele – piena di vita.
Sì, decisamente direi
che ne hai da vendere, di vitalità. Un po' troppa, non
trovi?, per
poterti definire serena.
-Come, scusi?
-La vodka, e quelle
pastiglie. Non penserai che abbia creduto alla storia della pillola
anticoncezionale, vero?
-E perché non dovrebbe?
-Perché, e
voglio parlarti chiaro, sembri perennemente fatta di ecstasy. Voglio
sottolineare che non è un'idea solo mia. La condividiamo in
tanti.
-Ah, questa mania di pararsi il culo con lo scudo
dell'opinione comune... non può dirmi che questa
è la sua idea,
punto e basta? Se lei ne è convinto mi è
sufficiente come
credenziale, mi creda.
Possibile che dovesse sempre farsi
sconfiggere verbalmente da una sedicenne tossicodipendente?
-Che
lo pensi io o che lo pensi un intero istituto, voglio comunque un
chiarimento da parte tua. Dimmi la verità. Prendi ecstasy, o
cocaina, o amfetamine di qualsiasi genere?
-Gliel'ho già detto
molte volte, prof. No. Non sono una drogata.
-E che mi dici
dell'alcool?
-Quello lo uso per darmi una calmata, non certo per
agitarmi ulteriormente.
-E cos'è che ti agita, allora, se non è
la vodka e neanche la droga?
-Santo Dio, LA PIANTI – gridò
Bianca, e nei suoi occhi furiosi rivide un istante di qualche tempo
prima; in automobile, quando lui aveva insinuato per la prima volta
che lei potesse essere tossicodipendente.
-Va bene, d'accordo.
Basta domande.
-BASTA CON LE DOMANDE! - strillò lei,
improvvisamente fuori di sé – BASTA! Lei deve
lasciarmi in pace!
Ha capito? MI LASCI STARE! La mia vita non la riguarda! Si preoccupi
della sua vita e di Camilla e del suo stupido cane e di qualsiasi
altra cosa sia più importante di me!
-Bianca, stai calma, per
favore – provò a prenderla per le spalle, ma lei
si scrollò con
rabbia.
-NON MI TOCCHI! - urlò, pulendosi le spalle con tanta
foga che sembrava si stesse schiaffeggiando – MI LASCI STARE!
SE
NON GLIENE FREGA NIENTE DI ME, SE NE VADA! NON VOGLIO AVERLA ATTORNO,
NON LA VOGLIO VEDERE!
-Per favore, siediti. Non urlare. Ti
sento.
-NO! - urlò lei, con forza.
Ansimò per un po',
guardandolo con rabbia, poi, all'improvviso, sembrò
ridestarsi.
Spalancò gli occhi, abbassò la testa, si
posò una mano sulla
fronte e si abbandonò sulla sedia.
Emanuele la guardò, in
attesa.
-Non posso andare avanti così – mormorò
lei, fissando
il pavimento ad occhi sbarrati. Afferrò disperatamente la
bottiglietta, la stappò e, prima che Emanuele potesse fare
qualsiasi
cosa, diede qualche lunga sorsata. - Mi scusi. Devo andare.
-A
fare cosa...?
-Devo andare. Davvero. Mi lasci andare – supplicò,
stringendo la bottiglietta come se fosse un'ancora di
salvezza.
-Bianca, cosa stai facendo a te stessa? - le chiese
disperato, mentre si allontanava.
-Mi lasci stare – lo implorò
lei, prossima alle lacrime – io stavo bene
prima di
parlarle. Dio – si diresse
frettolosamente verso la porta;
ma la voce rotta e le mani tremanti sembravano chiedere esattamente
il contrario delle sue parole.
Emanuele provò a rincorrerla, ma
le ginocchia per un istante gli cedettero. Si sentiva sfinito.
In
fondo, nonostante fosse lei a chiedergli di lasciarla andare, in
realtà era lui quello che voleva allontanarsi. Il
più distante
possibile, dove lei non avesse più il potere di toccargli il
cuore.
Quel
giorno andò a
casa prima. Si giustificò con un malessere improvviso e se
ne tornò
a casa; aveva voglia di vedere Camilla, le telenovele stupide del
dopopranzo, i suoi genitori, Gengis, le action figures, di leggere un
nuovo numero di Rat Man anche se ormai gli faceva
schifo.
Aveva voglia della sua vita.
Aveva un bisogno disperato
della sua vita, aveva bisogno di parlare con qualcuno che volesse
viverla, e che non gli ripetesse in continuazione che il mondo era un
cumulo schifoso di vipere in agguato, perché stava iniziando
a
crederci.
Voleva qualcuno che gli dicesse 'andrà tutto bene'.
Una
parte di lui voleva che qualcuno lo dicesse anche a Bianca, ma non
aveva voglia di pensare a lei. Non era riuscito a convincerla di
niente. Era lei che convinceva lui delle sue idee,
lei che
continuava a ripetergli, finché non gliel'aveva inculcato,
che era
impossibile continuare a vivere.
In fondo era riuscita nel suo
intento.
L'aveva fatto scendere dal cavallo bianco.
-Ema? -
fece Camilla, sorpresa; probabilmente aveva visto il suo cappotto
gettato disordinatamente sul divano. - Sei qui? - fece, entrando in
cucina.
Era lì, certo. Aveva frugato tra gli intrugli di Camilla
finché non aveva trovato una tisana rilassante, ma non
doveva aver
funzionato, perché continuava a stringere i denti e non era
capace
di rilasciarli.
-Cosa
fai qui? Non
sei a scuola, a quest'ora?
-Teoricamente sì – rispose,
sorseggiando la terza tisana.
-Cos'è successo? Stai
male?
-Abbastanza. Sì, sto parecchio male.
-C'entra
Bianca...?
-Certo, c'entra Bianca. E chi sennò? Io non andrò
avanti ancora a lungo se quella ragazzina continua a... Cristo. Non
ce la faccio più.
-Calmati – fece Camilla, sicura, facendoglisi
vicino – non pensarci. Ok? Svuota la testa.
-È quello che
cerco di fare da un'ora – si lamentò –
niente, non ce la faccio.
Devo starle lontano. Altrimenti perdo la testa. Io non ce la faccio
più, Camilla, davvero, non ce la faccio più.
-Ok, ho capito.
Invece ce la farai. Bianca la pianterà di riversare su di te
i suoi
problemi e tu ce la farai.
-Ma chi la aiuterà, se non io?! -
esclamò, disperato – Chi si occuperà di
quella
ragazza?
-Ema...
-Bianca ha tentato il suicidio. Ha cercato di
tagliarsi le vene. Lo capisci, io cercavo di aiutarla, e invece lei
durante le vacanze si è tagliata le vene. Come cazzo bisogna
stare
per cercare di morire a Natale?
Camilla
impallidì;
abbassò gli occhi. Emanuele si sentì sprofondare,
perché stavolta
non sapeva nemmeno lei cosa dire, cosa fare per sistemare tutto.
-Ha
sedici anni – proseguì, stravolto –
anch'io a sedici anni
pensavo 'la faccio finita', ma poi non lo facevo davvero. A sedici
anni ha vissuto così poco, ma già ha voglia di
morire. Com'è
possibile? Cosa le hanno fatto, per farle decidere che aveva visto
tutto, e che non le piaceva per niente...?
Si nascose il viso tra
le mani. Si sentiva senza speranze anche lui.
Bianca era
contagiosa. Quand'era allegra, gli veniva da sorridere, quand'era
triste, gli veniva da piangere. E ora che scopriva che aveva voluto
morire, non riusciva a guardare al futuro nemmeno lui.
-Dove
abita? - chiese improvvisamente Camilla.
-Eh? Perché...?
-Dimmi
dove abita – fece lei, marziale. Quel tono lo
stupì.
-Altichiero
– mormorò, incerto. Lei annuì. -
Perché?
-Dammi l'indirizzo
preciso, se ce l'hai. Vado a parlarci.
-A parlarci?
Emanuele si
drizzò all'improvviso, sbalordito. Camilla annuì
di nuovo, e si
riallacciò le scarpe.
-Sì, ci voglio parlare. Mi dispiace per
questa ragazzina. Ma, vuoi la verità? Il fatto è
che non ce la
faccio più a vederti così. Se te la prendi per
qualche colpo basso
dei colleghi, beh, ci sta, è normale. Se i ragazzini ti
rendono la
vita impossibile e non ti lasciano far lezione, è normale
anche
quello; io ho i contribuenti e tu gli studenti, e so che entrambi
sanno essere insopportabili. Ma non è giusto... - gli occhi
di
Camilla si inumidirono – non è giusto che lei
rovini la cosa più
bella che ho. Io voglio vederti sorridente, non distrutto a causa
sua. Ha dei problemi? Ne parleremo, l'aiuteremo, farò
qualcosa. Ma
io voglio indietro quello che ho costruito con te. Non posso
permetterle di rubarmelo.
Si asciugò una lacrima, e a quel punto
Emanuele si alzò e si precipitò di fronte a lei.
L'abbracciò e le
baciò la fronte.
-Amore mio, perdonami – bisbigliò –
è
anche colpa mia. Non è giusto che sia tu a farne le spese.
Ti
prometto che sarò più forte, che non mi
farò influenzare da
lei.
-E se invece lo farai? - singhiozzò lei – Io
voglio... io
voglio almeno andare da lei e dirle la mia. Voglio dirle che non deve
avere l'esclusiva sui tuoi cambiamenti d'umore, che... non deve
essere più importante di me.
-Ma non è...
-Ma lei – lo
interruppe Camilla, tirando su col naso – lei riesce a
toccarti
dove io non posso. Lei è capace di farti disperare, ma io
non sono
capace di farti sorridere. E... e io voglio... voglio che la
smetta!
Camilla scoppiò in un pianto a dirotto, che Emanuele
cercò di calmare stringendola al petto e accarezzandole i
capelli.
Respirò profondamente.
No, pensò. Non gliel'avrebbe permesso.
Lui e Camilla erano felici, erano sempre stati felici. E avrebbero
continuato a esserlo.
E se salire sul cavallo bianco fosse servito
semplicemente a difendere quel poco che avevano, una casa e dei libri
e un cane mezzo stupido, avrebbe impugnato la spada e combattuto
anche contro una ragazzina.
Non le avrebbe permesso di
distruggerli.
Fu
Bianca stessa ad
aprirgli la porta, quando suonò al campanello di casa sua.
-Ma
buongiorno, prof! - esclamò felice quando lo vide
– Entri, la
prego. Che bella sorpresa!
L'accoglienza calorosa quasi gli fece
dimenticare il motivo per cui era lì. Ma poi
ripensò alle lacrime
di Camilla, e alle sue, di lacrime, quando lei l'aveva portato dove
lui non voleva arrivare, e si impose di tenere bene a mente che
quella ragazzina non era innocente per nulla. Era, a ben vedere, la
causa di tutti i suoi recenti malesseri.
-Sei sola? - si limitò a
chiederle. Lei gli indirizzò un finto sguardo torvo e
arricciò le
labbra a cuore.
-Prof, insomma. Ho anche altro da fare nella vita
che fornicare.
-Del tipo? - non riuscì a trattenersi dal
chiederle.
-Ah, sto scrivendo un libro di poesie. Stavolta a
computer, così poi riesco a rileggerle anch'io. Una
è quella che le
avevo dato, anche se non riesco a ricordare cos'avessi scritto. E poi
sto pulendo camera mia, ho disposto tutti i libri sugli scaffali in
classificazione Dewey. Ho fatto anche le etichette
come in
biblioteca. Poi mi sono fatta le unghie per bene, così non
me le
mangio più; sa, me le rosico in continuazione, è
più forte di me.
Mi mordo anche sempre le labbra, vede? - le indicò,
sporgendole –
Sono screpolate e un po' rotte. Dovrei mettermi il burrocacao, ma
è
così fastidioso, poi quando uno ti bacia ed è
pieno di robaccia
cremosa è fastidioso da morire, lo so perché una
volta uno mi ha
baciata dopo essersi messo il Labello, quello per uomini, ovviamente,
perché per voi uomini è una vergogna se vi...
-Ehi, stoppa un
attimo – intervenne, con calma. Aveva deciso di prendere in
mano la
situazione, una volta per tutte, senza disperarsi con Camilla o
infuriarsi con Bianca. – Senti. Credo che tu ti sia un po'
persa
nel discorso.
-Credo anch'io – Bianca sorrise, ed era un sorriso
bellissimo; sapeva fare dei sorrisi buffi, di cuore, che le
illuminavano il viso. Era impossibile resistere al suo sorriso. Ma
non lo rivolgeva mai ai compagni di classe; soltanto a lui, e solo
qualche rara volta.
-Ti ho disturbato, venendo qui? - le chiese,
mentre lei gli sfilava il cappotto.
-Si figuri – replicò
allegramente, galoppando fino all'attaccapanni – non sapevo
cosa
fare. Più tardi vado in palestra e poi mi vedo con una tipa,
ma ho
giusto quest'oretta che proprio non sapevo come riempire, ed
è una
strana coincidenza che lei capiti qui proprio adesso; vogliamo
utilizzarla come Dio comanda, quest'oretta libera prima che vada in
palestra?
Lo disse sorridendo; Emanuele non ci fece caso.
-Volevo
parlarti – esordì – se la cosa non ti
manda in bestia.
Bianca
salì sulla cyclette e iniziò a pedalare con foga.
Sollevò le
sopracciglia, per invitarlo a parlare; iniziò a mordersi
l'interno
della bocca.
-Non puoi stare ferma un secondo e venire qui?
-Le
spiace? Mi sento veramente piena di energie –
replicò gioiosamente
– lo vede? Mi sono ripresa. E scriverò questo
libro, è un
giuramento con me stessa. M'impegnerò in tutto. E quest'anno
uscirò
con la media del dieci, vedrà se non ce la faccio. E poi
andrò in
Erasmus all'estero. E lì conoscerò una sbrega di
gente
interessante, intellettuale, un po' indie e un po' fattona, che cita
Kierkegaard e Schopenhauer e ha un Mac Book nonostante il look
finto-povero, e tornerò qui e gliela farò vedere
a tutti, e quando
il libro sarà pubblicato sarò famosa ed elegante
e vestita tutta
firmata perché dopo il diploma a pieni voti
troverò un lavoro
straordinario.
Più parlava, e più velocizzava le
pedalate. Sembrava davvero instancabile. Ancora, il sospetto che da
qualche parte ci fossero delle pastiglie o della polvere Bianca
sfiorò il pensiero di Emanuele.
-Non sembri la stessa persona che
neanche un mese fa ha tentato...
-Ancora con questa storia,
bastaaa – sorrise Bianca – è venuto qua
per chiedermi altri
dettagli? Vuole vedere la cicatrice?
-Ti supplico di no, sono
emofobico. Svengo, se vedo sangue. Non scherzo.
-Anche Benetazzo e
i suoi amici metallari dicono sempre di essere emofobici.* Tra tutti,
poi, non me lo facevo impressionabile, Benetazzo. Sa che uno dei suoi
cantanti preferiti ha ammazzato a coltellate un tizio di un altro
gruppo? E i membri del gruppo di questo poveretto hanno fotografato
il cadavere e l'hanno schiaffato in copertina del nuovo album? Sa che
gira anche voce che denti e pezzi di cervello di quel povero
Cristo...
-Bianca, torniamo a bomba per favore?
-Ah, sì,
volentieri, prof. Anche a me ha dato un pochino allo stomaco questa
storia. E non volevo neanche menzionarle Ozzy Osbourne, che ha
mangiato...
-Bianca.
-Scusi. Comunque, mi hanno dato i
punti in ospedale, di sangue non ce n'è neanche una goccia.
Vuole
vedere?
-Sembra che ci tenga più tu di me, al fatto che io veda
questa cicatrice.
-Sì, ci tengo, anche se non so perché.
Guardi.
Bianca balzò giù dalla cyclette e in due falcate
fu da
lui. Gli si parò davanti ed entrambi concentrarono la loro
attenzione sul grosso cerotto, che lei alzava delicatamente stando
attenda a non staccare del tutto lo scotch.
-In realtà potrei
anche toglierlo – lo informò – ma la
cicatrice fa un po'
impressione, e ho paura che si riapra.
-Bianca, ti prego, se
continui con questi discorsi finisco per terra. Non sto
scherzando.
Ma rischiò di finire per terra anche quando la vide.
I punti erano stati tolti, ma erano parecchi. La ferita era larga un
centimetro e lunga circa cinque. Pensando alla lama che andava
così
in profondità, Emanuele ebbe un capogiro e
afferrò la spalla di
Bianca.
-Prof! - esclamò lei, sorpresa – Mi finisce a
terra
veramente? Su, si sieda sul divano, che le porto un bicchiere
d'acqua. Ma guarda te, grande e grosso com'è... - sorrise
ancora,
poi sparì in cucina.
Tornò con il bicchiere pieno, ed Emanuele
lo bevve avidamente. Rimase seduto.
-Fammi un favore, coprila –
mormorò – è un po' troppo per me.
-Sa che ho sempre un
formicolio alla mano? Pensi che potevo paralizzarmela.
-Non sapevi
di incorrere in questo rischio?
-Beh, non pensavo che avrei dovuto
farci fronte, non so se mi spiego – rise, ma, vedendo che
Emanuele
non rideva, sospirò. - Su, su, un po' allegria. Sono ancora
qui a
rompere le palle, no? E allora è tutto a posto –
sorrise, e gli
sembrò davvero rassicurante. In fondo, sembrava piuttosto
vivace,
anche se spesso lo era fin troppo. Tutto sommato era positivo.
-Ti
vedrò ancora in... certi stati?
-No, no, prof. Farò quanto in
mio potere affinché non accada. Le prometto che non la
farò
preoccupare.
-Dov'è la mia garanzia?
-Mmmh... beh. Le spiego;
durante le vacanze, mi sembrava tipo tutto vuoto, nel senso che mi
chiedevo come avrei fatto ad arrivare all'ora successiva,
perché mi
sentivo come se non ci fosse niente che valesse la pena di essere
vissuto. Sa, la delusione amorosa. Ma adesso mi sento molto meglio!
Ho tantissime cose da fare e libri da pubblicare, e medie da tenere
alte, e gente da conoscere, e corsi a cui iscrivermi – avevo
in
mente degustazione, grafologia e yoga – e adesso il tempo mi
sembra
perfino poco per tutte le cose che voglio fare, se
ne rende
conto? Infatti ho comprato una bella agendina Moleskine per tenere
gli appuntamenti, non per annotarmi pensieri profondi ispirati dal
mondo circostante come fanno certi atteggiati pseudo poeti,
perché
io le poesie le scrivo sul computer, tanto poi le stampano sul
computer, e insomma vede? Ho così tante cose da fare che non
riesco
neanche ad elencargliele! Sono soddisfatta, e imparerò a
fare un
casino di cose, ed è sempre giusto imparare cose nuove, vero?
-E
non potevi fare tutte queste cose un mese fa, quando volevi farla
finita?
-Non m'interessavano – spiegò Bianca, quasi
dispiaciuta
di non poterlo accontentare – mi sembrava che tutto fosse
inutile e
stupido. Pensavo tipo: ma che me ne faccio del corso di yoga, se
tanto sto una merda e il mondo è una merda e non
cambierà per me?
Ma poi sa, dicono che dal fondo si può solo risalire, e sono
risalita, perché se guardi nell'abisso l'abisso
guarderà te, ma se
guardi un bel culo allora sarà un bel culo a guardare te, e
da lì
in poi inizia ad essere divertente! - Sorrise allegramente –
Capisce? Vede che me li godo, i sedici anni? Lei non può
più
guardarli, i bei culi, sennò la Camilla la manda a
spigolare.
Emanuele si rasserenò. Bianca sembrava ragionare. Quel
che diceva, per lo più, aveva un senso.
-D'accordo – fece
Emanuele – va bene. Mi ritengo soddisfatto.
-Eh; ma poi, alla
fine, perché era venuto?
-Perché mi stavi facendo un po' uscire
dal seminario – ammise – mi preoccupo, e poi ci sto
male. E se io
sto male, anche Camilla sta male. E così volevo sincerarmi
che non
sarebbero più successe cose spiacevoli... anche e
soprattutto nel
tuo interesse.
-Mh – Bianca sorrise – be', allora credo che
lei possa tranquillizzarsi, e tranquillizzare anche
Camilla.
-D'accordo – anche Emanuele sorrise – allora grazie
della chiacchierata.
-Oh, grazie a lei, almeno ho passato il tempo
in modo utile. Posso offrirle qualcos'altro prima che vada?
-No,
no, ti ringrazio, sicuramente Camilla ha preparato il the.
Sarà per
un'altra volta.
-Sarebbe magnifico – replicò gioiosamente
Bianca, andando a prendergli il cappotto. - Allora ci conto, eh? -
fece speranzosa, porgendoglielo – Un giorno la prendiamo una
cioccolata assieme, con la panna, in un bar carino del centro?
-Ti
renderebbe felice?
-Sì, molto. Sarebbe inusuale, per me, di
solito lo scenario delle mie malefatte è un campo, o un
argine, o
una zona industriale, o un sedile scomodo. Mentre il bar carino
è
molto più chic e romantico. E poi non potrei farle le mie
malefatte,
in un bar, così evito che lei si arrabbi con me.
-Bar carino sia
– decretò Emanuele, afferrando la maniglia
– beh, allora stammi
bene, Bianca. Se hai qualche problema, ricordati che c'è
l'aula
ricevimento, col sottoscritto dentro, pronto ad aiutarti.
-Ma
certo, prof! - gli regalò un altro dei suoi bellissimi
sorrisi, e
agitò la mano nel chiudere la porta. Anche Emanuele la
salutò con
un sorriso e un cenno della mano.
Arrivò a casa sorridente e
sereno, e Camilla tornò sorridente e serena com'era sempre
stata, e
quel pomeriggio lo dedicarono al the bollente, al Twister e a una
lunghissima sessione di coccole.
Come se fossero stati sedicenni
per un pomeriggio, la parte dolce e innocente dei sedici anni che
loro ricordavano di aver vissuto.
Per i tre giorni successivi,
Bianca continuò a comportarsi come al solito; con la
differenza che,
verso la quarta o quinta ora, per tre volte consecutive
portò dei
permessi di uscita. Probabilmente, pensò Emanuele, doveva
vedersi
con qualcuno, oppure era semplicemente stanca di stare a lezione. Per
fortuna, il giovedì e il sabato avevano educazione fisica,
materia
in cui Bianca eccelleva e che le diede occasione di sfogarsi un po'.
Furono giornate abbastanza tranquille. A ricreazione Bianca se ne
stava avvinghiata a qualcuno, durante le lezioni trafficava con
l'iPhone, scriveva furiosamente poesie, disegnava bellissime donne in
bianco e nero. Durante quelle ore si dedicò alla cura delle
unghie
rovinate, e ogni giorno le colorò in modo diverso (nere
coronate di
rosa, rosse con una stellina bianca, mezze viola e mezze blu). Lesse
una gran quantità di libri e si esercitò con
costanza nelle
posizioni yoga appena imparate. Emanuele si felicitò tra
sé e sé
che non si fosse data alla degustazione in ambito scolastico.
Passò
un weekend
sereno. Sabato sera, con Camilla e gli amici, andò a cena
fuori e
poi in discoteca, del tutto libero dai pensieri negativi.
Dormì
sereno, sentendosi fiducioso verso il mondo. Il fine settimana era
stato divertente, Camilla sorrideva, Bianca era tornata normale e
tutto andava finalmente nel verso giusto.
Domenica sera si
addormentò con l'abbandono di chi non aveva nulla di male da
aspettarsi dal futuro.
Il lunedì aveva la terza A, ed entrò
in classe tranquillo e sicuro, a grandi passi vittoriosi. Tra
l'altro, quel giorno Cappelletto sarebbe ritornato a scuola dopo la
sospensione, e, anche se la sua bocciatura era sicura, lui aveva
deciso di voler rimanere in quella scuola; il motivo, non si sapeva
bene.
Ma Emanuele ne ebbe un assaggio quando lo vide tirare la
manica di Bianca, che guardava inespressiva fuori dalla
finestra.
-Ohi. Mi dai retta sì o no? Ti vuoi girare? Ohi!
Ma
Bianca non si girava.
Emanuele sudò freddo. Aveva già visto una
scena simile.
-Guarda che ho spaccato il naso a una, per te. Sei
proprio stronza. Potresti almeno parlarmi.
-Non ho niente da dirti
– la sentì mormorare, sprecando appena un filo di
voce.
-Beh,
magari io ce l'ho, qualcosa da dirti, no? Mi ascolti?
-Lasciami
stare... - sbuffò, liberando la manica dalla presa del suo
compagno.
Il quale, attonito, si rivolse verso Emanuele, che li guardava
entrambi con la mascella a caduta libera.
-Ma vede com'è? Vede?
Poi sbaglio a pensare che dovevo spaccarglielo a lei, il naso, invece
che alla Miotto?
-Per favore, non voglio più sentir parlare di
nasi spaccati – Emanuele agitò le mani davanti a
sé, come a voler
scongiurare il pericolo – fatemi un favore. Oggi voglio fare
lezione in santa pace.
-Manterrò io l'ordine, prof! - promise
Benetazzo – In the name of true norwegian metal of
doom of steel
of the defender of the Lord!
-Cos'è che ha detto
PeneCazzo...?
-Boh, è convinto di essere un templare.
-Infernal
Hail! I AM THE CHOSEN ONE! - quando
Benetazzo, detto
PeneCazzo, alzò un pugno verso il cielo e si
batté drammaticamente
l'altro pugno sul petto, Emanuele ebbe la sensazione di non essere
esattamente in buone mani.
Ma in quel momento era più interessato
al silenzio di Bianca che alle manie di grandezza di Benetazzo. Non
sapeva come interpretarla. Cappelletto s'immusonì e decise
di non
parlarle; Emanuele scelse la tattica del far finta di niente.
Per
tutta l'ora, Bianca fu tranquilla. Non pianse, questa volta, non
diede segno di avere problemi che la tormentassero; semplicemente
stette in silenzio, ascoltò con aria seria e prese molti
appunti.
Emanuele le lanciò un'occhiata prima di uscire, ma lei stava
mettendo i libri in zaino e non se ne accorse. Decise di non farci
caso.
Martedì passò allo stesso modo; Bianca prese
appunti, non
badò a Cappelletto – Emanuele sospettava che non
l'avrebbe fatto
in ogni caso, di qualsiasi umore fosse – e sostanzialmente
non
disturbò la lezione.
Mercoledì non andò in aula ricevimento.
Nessuno si lamentò di lei in aula insegnanti.
Giovedì e venerdì
gli sembrò un po' più cupa; non prese appunti,
non parlò, si
limitò a guardare fuori dalla finestra e a scrivere frasi
apparentemente sconnesse tra loro sugli orli delle pagine.
Notò che,
durante le lunghe ore che passava a guardare il cortile della casa
accanto, non faceva assolutamente nulla.
Non aveva detto di avere
milioni di cose da fare?
Era preoccupato, ma non voleva
preoccupare Camilla, per cui si tenne i suoi pensieri per sé
e si
convinse che tutto era normale.
Ma il sabato gli dimostrò che non
era tutto normale. A educazione fisica, Bianca si rifiutò di
cambiarsi. Stando a quanto gli riportarono, era rimasta all'angolo
della palestra con la sua minigonna e i suoi stivali, fissando un
punto nel vuoto in mezzo al campo di pallavolo. Cappelletto, che
l'aveva fermato nel corridoio espressamente per riferirgli
l'accaduto, aveva tentato di convincerla a infilarsi la tuta,
ché
altrimenti si sarebbe presa una nota; ma lei sembrava non averlo
nemmeno registrato.
-Fa la cagona – si lamentò Cappelletto –
eppure tutti sanno che la dà a chiunque. Cos'ha quindi da
tirarsela...?
-Non credo che se la stia tirando – spiegò
Emanuele – forse è solo triste.
-Triste – ripeté sbuffando
il ragazzo – per cosa, poi? E comunque potrebbe anche
dirmelo. A
me, di lei, me ne frega qualcosa. Perché non mi parla?
Non poteva
dirgli la verità, ovvero in quale infima considerazione
Bianca lo
tenesse. Tentò la via diplomatica.
-Beh, avrà le sue cose a cui
pensare – affermò – non puoi non esserti
accorto che ha dei
problemi personali.
Cappelletto lo guardò, nervoso.
-Prof –
borbottò – non sono stupido. Ho visto che ha le
fasce sul polso.
Non l'ho neanche detto a nessuno.
-Ti piace proprio, Bianca,
eh?
Gli sorrise, tutto sommato intenerito. Cappelletto non godeva
della sua ammirazione, ma era sicuramente più simpatico in
versione
'innamorato'.
-Bah – fece il ragazzo, con una smorfia – beh,
comunque, le stavo dicendo. Non ha voluto mettersi 'sta tuta. Il prof
l'ha convinta con le buone, e così se l'è messa,
ma, oh, prof,
sembrava che dormisse in piedi. Continuava a guardare per terra. E
lei è brava, eh, a pallavolo? È sempre stata la
migliore. Eppure
mancava tutte le palle. È finita che il prof le ha detto di
uscire
dal campo. E così lei è uscita dal campo, ma
stava piangendo, solo
che stava in silenzio, me ne sono accorto giusto perché la
stavo
guardando. - Cappelletto arrossì; poi continuò. -
Cioè, la
guardavo... la stavano guardando tutti. Non solo io. E solo
perché
si era messa in mostra come al solito.
-Va bene, Cappelletto, l'ho
capito che ti piace, non infognarti con le tue stesse mani.
-Pensi
quello che vuole – sbottò l'altro, sempre
più rosso – comunque,
torniamo alle cose serie. È rimasta per metà
lezione in
spogliatoio, da sola, e quando l'ora è finita lei ci
è uscita con
gli occhi rossi. E gonfi. Il prof ha provato a parlarci, ma lei
è
andata via di fretta, non so cosa gli abbia detto, parlava talmente
piano che non ho capito un cazzo. E poi fino ad adesso ha continuato
a stare in silenzio e ogni tanto mi voltavo e vedevo che
singhiozzava, che si asciugava le lacrime.
D'accordo, questo era
troppo. Non aveva voglia di lasciar passare una settimana, o di
passare un weekend tormentato dai pensieri.
-Grazie, Cappelletto.
Senti, fammi un favore: quando Bianca piange, tu vieni da me e me lo
dici. Ok?
-Sì, prof, io glielo dico. Ma se mi ascoltasse, quella
testa da... vabè; se mi ascoltasse, dico, proverei ad
aiutarla
anch'io.
Come lo capiva. Ma, dato che era lui l'adulto, lui quello
che aveva il compito di rassicurare un sedicenne confuso, non glielo
disse.
-Non preoccuparti – gli disse invece – non
è compito
tuo. Il fatto che tu non riesca a salvare una persona, che tra
l'altro non vuole essere salvata, non significa che tu non ci tenga
più di chiunque altro.
-Eeh, adesso! Più di chiunque altro.
Piano. Mi interessa che stia bene, ma da qua a tenerci più
di
chiunque altro...
Ma era fiero di averglielo detto. Fiero di
aver detto a un altro le parole che avrebbe voluto che qualcuno
dicesse a lui.
-Bianca – la fermò, all'uscita, toccandole
una spalla. Lei si girò; aveva la stessa espressione
amareggiata che
le aveva visto un mese prima. - Bianca...?
-Sì, prof?
-Te lo
ricordi che volevi andare in un bar carino a bere la cioccolata con
panna?
-... sì.
-Ecco. Ti va di andarci?
-Non so. È ora di
pranzo.
-D'accordo, allora andiamo a pranzo. Dove preferisci
mangiare?
-Non ho tutta 'sta fame.
L'aveva già sentita, quella
frase. Con la stessa voce atona.
-Quindi una cioccolata va bene? -
ritentò.
-Sì – fece Bianca – d'accordo. Ma
perché?
-Voglio
parlarti.
-Oh. Ok.
Perché non aveva detto qualcosa come
'aaancoooraaaa?', o non aveva chiesto il motivo di un bisogno tanto
urgente di parlare?
-Stai bene, Bianca? - esordì, senza giri di
parole, mentre s'incamminavano.
-Scusi?
-Stai bene? Non mi
sembri in forma come mi avevi detto.
-Già. Ho ricevuto un'altra
delusione amorosa, credo.
-In che senso?
-Ho ricevuto un brutto
colpo. Ci sono rimasta molto male.
-A causa di chi?
-Quando
parlo d'amore, vuol dire che parlo di lei.
Nonostante tutto,
quella frase, contro la sua volontà, gli fece battere il
cuore.
Doveva ammetterlo: poche persone erano riuscite a
dimostrare tanta devozione nei suoi confronti.
-Cos'ho fatto,
questa volta, per deludere le tue aspettative?
-Pensi che non
avevo nemmeno aspettative da deludere. Ma mi ha ferita lo
stesso.
-Come?
-Mah, non so, tipo, io tento di suicidarmi, tra
l'altro per lei, e lei viene a casa mia; ma non per sentire come sto
o perché l'ho fatto, bensì per assicurarsi che io
non faccia più
tiri del genere, sennò lei si agita, povero bimbo, e se si
agita lei
si agita anche Camilla, povera piccina. Mi raccomando, veda di
mantenersi sempre perfettamente al centro del suo piccolo insulso
mondo, che importa se ho tentato di ammazzarmi, l'importante
è che
lei e la sua deliziosa fidanzatina stiate tranquilli,
no?
Nel
parlare si era agitata. Ora era arrabbiata.
-M... mi dispiace –
balbettò Emanuele – io... non volevo darti questa
impressione.
Io...
-Ancora con le sue impressioni, eh? E ancora con l'abuso del
pronome IO, IO, IO e ancora IO. Ma qua stiamo parlando di Bianca,
permette? C'è uno spazietto nella sua proposizione per il
nome
proprio di persona Bianca?
-Ce n'è sempre stato fin troppo
– sbottò Emanuele, seccato – mi sono
sempre preoccupato per te.
A volte non dormivo la notte, pensando a come stavi.
-Ma poi mi è
caduta sull'uccello, signora Longari.* Non ha pensato a me proprio
nel momento in cui avrebbe dovuto farlo. Di più: in quel
momento, ha
pensato a se stesso. Di più:
è venuto da me a dirmi di non
tentare il suicidio perché altrimenti avrei rovinato la
giornata
alla sua fidanzatina! Un vero esempio di sensibilità e savoir
faire, mh? Lei sì che si preoccupa per me. Uh.
Perfino
Cappelletto ha dimostrato un interesse più sincero verso la
mia
persona.
Sapeva che in quel momento avrebbe dovuto negare, dirle
che non era vero niente, dimostrarle in qualche modo che si stava
sbagliando. Sarebbe bastata anche una frase di circostanza, o un
'no', o un abbraccio; ma pur sapendolo rimase immobile e zitto.
La
realtà era che Bianca aveva centrato il bersaglio, che
Emanuele non
ce la faceva più a preoccuparsi di lei rovinando la propria
vita e
quella di Camilla, che non aveva più voglia di rincorrerla
nella sua
folle corsa verso una destinazione ignota quanto minacciosa.
Voleva
solo tenere al sicuro la sua famiglia e non saperne più
niente dei
suoi problemi.
-Avevo ragione, vero? - lo sfidò Bianca, con un
sorriso di scherno, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime
–
Tuttavia non posso darle torto, è giusto che lei pensi prima
di
tutto a se stesso. Ma vede, speravo comunque che lei me lo chiedesse.
Perché, Bianca, perché volevi morire?
Smaniavo dalla voglia
di dirglielo. Volevo dirle che tutti mi facevano schifo, ma lei no. E
che a un certo punto avevo capito che dovevo rinunciare a lei,
perché
lei non mi voleva, al che mi sono detta, ma cosa vivo a fare?
Perché
l'unica cosa per cui vivevo non si rendeva nemmeno conto di avermi
aggrappata alla caviglia, a penzoloni sul precipizio. È
stato
facile, vero? – assottigliò gli occhi carichi di
lacrime,
fissandolo intensamente – È stato facile scrollare
la gamba e
liberarsi di quel peso, no? Perché tanto lei non ha visto,
non si è
mai accorto di quello che c'era sotto di me. Diciamo le cose come
stanno: lei non vuole guardarlo, o sbaglio? Lei
soffre di
vertigini, lei ha paura delle altezze, lei è spaventato dai
baratri.
Bene, lasci che le dica una cosa: anch'io, porca
puttana,
avevo paura. Anch'io ero spaventata, e non sapevo
cosa mi
sarebbe successo, ed è per questo che non facevo che
chiederle
aiuto. E lei cos'ha fatto? È venuto a raccomandarmi di fare
la
brava, ché sennò Camilla non trovava il
fidanzatino gioioso e
sorridente pronto a portare giù la spazzatura al posto suo.
Beh,
grazie mille, complimenti. Mi scusi se protraggo a lungo il discorso,
ma, dato che sono ancora qui, ne approfitto per dirle ciò
che
speravo di seppellire assieme a me.
Emanuele ebbe un brivido.
Sentì l'aria di gennaio farsi ancora più gelida.
Perché era
stato davvero soltanto un caso se adesso Bianca non era sepolta tre
metri sotto terra, assieme alle parole che non gli aveva mai
detto.
Morire con quei pensieri, pensò Emanuele. A sedici anni.
Doveva sforzarsi moltissimo per provare a sentire,
con
l'anima, cosa potesse significare.
-Io - incominciò lentamente –
io non penso sia giusto rivolgere tutte le accuse su di me. Credo che
il problema sia un altro. Non sono stato io a
spingerti fino a
lì.
-No – replicò immediatamente Bianca, convinta
– non ho
mai detto questo. Mille altre cose mi spingevano da quella parte, ma
io guardavo verso di lei. E pensavo che se c'era lei allora volevo
rimanere dov'ero. Ho provato a parlarle. Ci ho provato, ad uscirne.
Sapevo che era assurdo aggrapparmi a un uomo che non mi amava, ma ci
ho provato lo stesso.
-Tu non mi hai mai amato – si esasperò
Emanuele – l'hai detto tu stessa: ti sei aggrappata
a me. Ti
sembravo a posto e hai deciso che io sarei stata la tua boa in mezzo
all'alto mare. Ma questo non è amore! È un grido
d'aiuto per essere
salvati. Ero il tuo pretesto per convincerti che volevi continuare a
vivere, e te la sei presa con me quando hai realizzato che oltre a un
pretesto non avevi nient'altro!
-Beh, la ringrazio! - gridò
Bianca in lacrime – Grazie mille! Quindi mi conferma che non
ho mai
avuto niente! Mai, non ho avuto niente! Che tutto quello su cui
facevo affidamento era il nulla più
assoluto!
-Hai sempre
saputo che non provavo nulla per te!
-Ma grazie, me lo ripeta! Già
che c'è, perché non prende anche un coltello e me
le taglia lei
stesso, le vene?
Fortunatamente si trovavano in una via poco
frequentata, ma non gli sembravano comunque discorsi da affrontare in
pieno centro città, tantomeno in un bar affollato.
-Prendiamo il
tredici – decretò Emanuele – parliamone
a casa tua. È più
vicina al centro della mia.
-E che c'è ancora da dirsi? Non le
pare abbastanza? - singhiozzò rabbiosa, asciugandosi le
lacrime.
-No, non è ancora abbastanza. Avanti.
Il tragitto
in autobus e a piedi passò nel silenzio più
assoluto, ed Emanuele
sperò che una mezz'ora di calma potesse smorzare la furia di
Bianca.
Ma quando arrivarono al suo appartamento lei girò le
chiavi nella toppa con una certa violenza, e fu così che
capì che
non le era passata. Forse era appena iniziata.
-Si sieda – gli
mormorò, ma teneva ancora il muso. Si sedette comunque. -
Vuole un
caffè?
-No.
-Mh. Io lo faccio per me.
-Lascia stare il
caffè, Bianca.
-Ho voglia di...
-Per favore; lascia stare
quel caffè e vieni qui.
Bianca obbedì e si abbandonò
stancamente su una poltrona. L'espressione del suo volto non era
delle più concilianti, ma Emanuele stavolta non intendeva
fermarsi.
-Dobbiamo parlare di questa storia – esordì.
Bianca
lo fissò con disprezzo.
-Perché, deve darmi qualche altra bella
notizia? - sibilò.
-No. Voglio convincerti una volta per tutte
che quello che cerchi in me non è un uomo.
-Oh, la prego –
sospirò – la prego, non Freud.
-Non volevo insinuare niente
di simile. Volevo soltanto dire che non hai mai ricevuto una
delusione d'amore, perché non sei mai stata innamorata di me.
-E
va bene, diamo per buona la sua versione. Cercavo soltanto aiuto.
Giusto? Però lei mi ha voltato le spalle. The End.
Ora tutta
la storia le sembra più nobile?
-Non è andata così.
-Oh,
sì invece che è andata così. Tentativo
di suicidio? Preoccupato
per Camilla? Chi se ne frega di Bianca, anyone?
-E tutte le
volte che ti ho ascoltata nella mia ora di ricevimento? Quando ti ho
seguito in quel maledetto motel? Quando ti ho portata a casa mia, o
sono venuto a casa tua a trovarti...?
Bianca esitò per un
attimo.
-Ma nel momento in cui avevo più bisogno di lei, lei non
c'è stato – gli ricordò.
-Se l'avessi saputo, ci sarei stato.
Tu avevi bisogno che io lasciassi Camilla e scappassi in Nuova
Zelanda con te per iniziare una nuova vita. Non l'ho fatto. Questa
è
stata tutta la mia colpa.
-Lei non mi ha neanche chiesto
perché.
-Me l'avevi detto, invece. Ne avevi le palle piene
di tutto. Questo era il motivo. Se invece c'è dell'altro, io
come
posso saperlo, se tu non me ne parli?
-E che cosa potevo dirle,
che avevo bisogno di lei per non aver più voglia di morire?
- iniziò
a piangere – Lei non avrebbe mai scelto me. Mai. Me l'ha
detto!
-Anche sapendolo, cosa potevo farci? Lasciare Bianca,
innamorarmi di te? Non lo posso fare!
-Ma allora vede – scoppiò
in singhiozzi – che è il suo amore quello che io
le sto chiedendo?
Lo vede che non dico bugie? Lo vede, adesso?!
Piangeva tanto
disperatamente che Emanuele andò ad abbracciarla. Le
accarezzò la
schiena più volte, ma quella continuava a sussultare sempre
più
forte. Presto si rese conto che Bianca stava avendo una crisi di
pianto; quando lei si artigliò il petto e gettò
la testa contro lo
schienale del divano, scossa dalle convulsioni, in preda ad urla
strazianti e ai tremori, iniziò a pensare che stesse avendo
un
attacco di panico.
Bianca
continuava a
gemere, così forte e disperatamente che Emanuele si chiese
da dove
potesse provenire un simile accumulo di tristezza. Per una ventina di
minuti, continuò a gridare, mentre le lacrime si affollavano
sui
suoi occhi e scendevano senza sosta. Divenne rossa, iniziò a
sudare,
spalancò gli occhi, terrorizzata.
-Su, basta piangere, basta –
la implorava Emanuele, ma lei non smetteva; sembrava non fosse
nemmeno in grado di smettere di urlare per rispondergli. Non aveva
mai visto qualcuno stravolgersi a quel modo. Era decisamente un
attacco di panico.
-Non piangere più, ci sono io. Va tutto bene –
le mormorò – è tutto a posto. Adesso ti
passa. Cerca di smettere
di piangere. Pensa a qualcosa di bello...
Ma quando le disse di
pensare a qualcosa di bello, riprese a piangere con una forza
incredibile per qualcuno che si era sgolato fino a pochi attimi
prima. Aveva gli occhi tanto gonfi che non riusciva a tenerli aperti;
il suo viso era rosso e sfigurato. Ansimava, nel tentativo di
respirare; sembrava le costasse uno sforzo immenso. Chiuse gli occhi
e si aggrappò a lui, probabilmente le girava la testa. Poi
si
artigliò le tempie e le premette forte, corrugando le
sopracciglia.
Dopo mezz'ora, non piangeva più, ma era sconvolta.
Non aveva quasi più voce per parlare.
-Mi dispiace – riuscì a
sussurrare – mi capita spesso. Di solito, quando inizia a
succedere, sto a casa da scuola.
-E stai così tutto il tempo...?
- esclamò Emanuele, sbalordito. Lei scosse la testa.
-No, solo
all'inizio. Poi mi sento così stanca che non ho nemmeno
voglia di
piangere. Le lacrime vengono, ma io chiudo gli occhi e cerco di
dormire...
-Era un attacco di panico...?
Lei annuì, con l'aria
di chi ci era già passato infinite volte.
-Il fatto è che ti
sembra di stare morendo. Che non smetterai mai di piangere a quel
modo. Non ce la fai a frenarti, senti solo una cosa orribile dentro
al petto che ti riempie di tristezza, e urli perché... urli
perché
sei triste. Pensi: dopo di questo, c'è solo la morte.
Morirò qui e
adesso, perché non ce la faccio. - Sospirò. - Ma
non muori mai.
Rimani lì, pensando che sta per accadere qualcosa di
terribile,
qualcosa che non puoi affrontare. Poi smetti. Finisce sempre.
-E
poi...?
-E poi non hai più la forza di stare in piedi, ti domandi
cosa ci stai a fare, in piedi, cosa devi fare di così
importante.
Perché tutto è inutile e senza significato. Ti
senti male perché
c'è un'ora intera davanti a te da affrontare. E poi giorni,
e
settimane, e tu odi essere viva, ma ci sei costretta. Di solito cerco
di dormire... per fortuna ho sempre sonno in questi periodi.
-È
per questo che a volte stai assente un mese...?
Lei annuì,
intrecciando le mani in grembo.
-Sì, è per questo. Non sono in
grado di capire cosa la gente mi dice, perché qualcosa mi fa
sprofondare dentro. Mi sento a terra, non mi
interessa più
nulla. Ho solo voglia di buttarmi sul pavimento e dormire. E sento
qualcosa nel petto che mi fa male e ogni volta penso che stavolta sto
abbandonando tutti, ma, anche quelle volte, non succede mai.
-E
passi così... tutto il mese...?
-Non me ne rendo molto conto. Non
riesco mai ad avere reazioni. Guardo le cose e penso. Ma quel che
penso mi fa male, quindi a volte penso la stessa frase tutto il
giorno. Mi concentro su quella. Chiudo gli occhi, mi infilo a letto,
chiudo le porte... tutto scompare. Il mondo, e i miei pensieri. So
che sembra noioso, ma così il tempo va avanti e non mi fa
male.
Emanuele si tolse gli occhiali e si massaggiò lentamente le
palpebre.
-Cos'è che ti porta a questo punto? - mormorò,
senza
smettere di premersi le dita sugli occhi.
-Una serie di cose...
tutto. Forse, niente di particolare. Non lo so. La mia famiglia non
mi ama. I miei coetanei di certo non mi amano. E lei, anche se lo
vorrei, allo stesso modo non mi ama. A volte mi sento molto sola. Mi
ricordo che lo sono, anche se bevo o vado con dei
tipi o
faccio delle cose.
-E il resto del tempo...?
-Il resto del
tempo, non so perché, mi basta. Forse me lo faccio bastare.
Forse
voglio pensare che basti, ma in realtà non è
così, e ciclicamente
me ne accorgo.
-Hai detto la parola giusta – notò Emanuele
–
ciclicamente. È proprio così.
Un attimo stai fin troppo
bene, quello dopo stai fin troppo male. Quello dopo sei di nuovo alle
stelle, e quello dopo ancora hai voglia di morire.
Bianca tacque,
guardando in basso.
-E così viene da pensare – continuò
–
che il tuo atteggiamento forzatamente allegro sia solo una maschera,
e che tu, in certi periodi, arrivi a drogarti per tirarti su di
morale. Ottenendo di sembrare semplicemente schizzata.
Tacque
ancora, voltandosi da un'altra parte.
-Cos'erano quelle pastiglie,
Bianca...?
Lei ebbe un piccolo tremito, ma non rispose.
-Perché
non vuoi essere aiutata?
-Lei non può aiutarti – disse una
vocina tremula.
-Non è detto. Perché non hai fiducia in
me?
-Perché lo so che lei non può.
-Chi te lo assicura?
-Lei
non può prendere per il bavero tutti quelli che mi fanno
stare male
e gridargli di piantarla, costringerli a volermi bene.
-Ma ti
posso aiutare a voler bene a te stessa.
-Sì – rise amaramente
lei, improvvisamente più vitale – certo, le solite
stronzate. Devi
fare qualcosa per te stessa. Devi raggiungere
qualche
soddisfazione personale. Devi imparare a Volerti
Bene. Devi
fare affidamento su di te e vivere indipendente dagli altri. Dica un
po', lei, che fa presto a parlare. Se Camilla l'abbandonasse, i suoi
genitori non la sopportassero, al lavoro tutti la evitassero e lei in
parte si odiasse profondamente perché pensa, e tutti cercano
in ogni
modo di convincerla di questo, di avere la colpa di una tale mole di
odio; se questi fossero i presupposti, lei si vorrebbe bene?
E
se così non fosse, com'è altamente probabile,
pensa che un'altra
persona potrebbe aiutarla a farlo in qualche modo? Lei pensa davvero
che si possa amare se stessi, quando il resto del mondo ci
odia?
-Sembrava non te ne importasse nulla.
-Beh, a volte non
me ne importa niente. O forse penso ad altro e quindi non ci faccio
caso. A volte riesco ad allontanare i pensieri, credo, non so come
succeda, ma per un po' lo dimentico. È solo che poi...
cambia. Mi
torna tutto in mente.
-E non puoi continuare a fare le cose che ti
distraggono?
-Sì, io posso continuare a farle, ma i pensieri
avanzano e io non riesco a fermarli. È come se avessi un
esercito di
voci che mi ripete che questo mondo non mi vuole, e che nemmeno io, a
ben pensarci, voglio questo mondo. Continuano a dirmelo. E io ho solo
una risposta.
-Se io ti avessi ricambiata, sarebbe cambiato
qualcosa...?
-Sì – rispose subito lei –
sì. Qualcosa di
positivo ci sarebbe stato. E qualcuno mi avrebbe amata.
-Sicura
che nessuno ti voglia bene?
-Cappelletto non conta.
-Io ti
voglio bene.
-Sì, ma da lei non mi basta.
-E i tuoi genitori?
Sei sicura che ti odino davvero?
Bianca, al solo sentirli
nominare, sembrò innervosirsi.
-Mia madre è fuori. È esaurita.
Prende il Valium, perché è fuori di testa. Spesso
dà di matto, mi
fissa con gli occhi spiritati, inizia a mordermi, prendermi a pugni,
urla che mi vuole ammazzare; che per colpa mia si è
ammalata, che
non sono altro che un problema. Niente di quello che faccio
è senza
conseguenze. Trova sempre un motivo per urlarmi dietro.
-E tuo
padre...?
-Mio padre, cosa?
-Com'è?
-Mio padre è normale,
di solito. È scherzoso, vivace, con le altre persone
è allegro e
cordiale. Ma picchia me e mia madre. - Bianca abbassò due
occhi
desolati, e le parole iniziarono ad uscire a fatica. - A volte sembra
che perda la ragione, e... che ci sia un mostro dentro di lui. Una
cosa incontrollabile che... lo spinge a colpirci finché non
ha più
fiato. Ha sempre un'espressione terribile.
Bianca aveva
un'espressione sempre più ferita. Le prese la mano.
-Ti ha mai
chiesto scusa...? - le chiese dolcemente.
-Mai – rispose piano
lei – Mai. Rimane rabbioso e pronto a scattare. Poi, magari,
il
giorno dopo è di nuovo tranquillo e in vena di scherzi, e...
si
arrabbia se io invece non gli voglio nemmeno rivolgere la parola.
-Tu
sei nel giusto.
-Ma mi fanno sentire come se fossi sbagliata. Mi
dicono e fanno di tutto, e poi, quando è passata a loro,
pretendono
che sia passata anche a me. Perché loro sono nel
giusto, sono
gli unici ad avere diritto di essere arrabbiati. Io devo solo
aspettare inginocchiata sui ceci il loro sacrosanto perdono.
Nei
suoi occhi spuntarono due grosse lacrime. Ma nel suo tono c'era
rancore.
-E invece – riprese, tirando su col naso – invece
io
non li perdono. Non li perdonerò mai. Non li
perdonerò mai per
quello che ha fatto mio padre, non perdonerò mai i silenzi
di mia
madre. Non li perdonerò mai per avermi
convinta per tutta la
vita di essere nient'altro che merda – Bianca si stava
agitando;
stringeva i pugni, tremava, ed Emanuele la cinse con un braccio e la
strinse forte – non li perdonerò per non avermi
mai fatto sentire
cos'era l'affetto che tutti i miei compagni di
classe danno
per scontati, non li perdonerò per avermi privato di
quell'appoggio
fondamentale che avrebbero dovuto essere; per avermi lasciata senza
basi, da sola contro tutto. Mai – alzò
la voce, che
tremava, ma iniziava a librarsi forte; Emanuele decise di lasciarla
sfogare una volta per tutte – mai dimenticherò il niente
che hanno fatto per me. Non intendo dimenticare tutte le volte che
mia madre mi ha detto che sono venuta al mondo solo per rovinarle la
vita. E soprattutto – Bianca ansimava; sembrava quasi fuori
di sé
dalla rabbia – non permetterò mai più a
quel figlio di puttana di
infilarmi una mano nelle mutande o di stendermi su un letto. Mai,
non lo farà mai più, non lo farà più!
- gridò, e infine
scoppiò a piangere incontrollatamente, ed Emanuele
impallidì, sentì
un'ondata di nausea scuoterlo da capo a piedi, ma limitò il
tremore
della mani e la strinse al suo petto più forte che poteva,
perché
si sentisse al sicuro, perché sembrava stesse per esplodere
e lui
doveva mantenerla tutta intera, in un posto dove potesse aggrapparsi
a qualcosa, fosse anche solo alla sua camicia.
-È stato tuo
padre...? - mormorò, accarezzandole i capelli - È
stato lui a fare
quello che hai detto?
-Sì – biascicò Bianca tra i singhiozzi,
artigliando i lembi della sua camicia. La strinse ancora più
forte.
-L'hai denunciato? - chiese dolcemente. Bianca continuava a
piangere, faticava a parlare.
-Io...
non posso,
per-perché... non mi crede nessuno, lui è amato
da tutti, perché
con... gli altri è-è gentile, e... non mi
credono, e mi odieranno,
e non mi resterà nessuno e a quel punto cosa farò
– riprese a
gemere come poco prima, e ad Emanuele non restò che
continuare ad
ascoltare quelle grida struggenti e stringersi al petto quella
testolina rossa che non gli era mai sembrata così piccola.
La
lasciò sfogare per un po' prima di parlarle. Sembrava che
avesse
molti anni di tristezza da buttare fuori.
-Quando l'ha fatto la
prima volta? - le chiese, sempre con molta dolcezza. Farle pressioni
sulla denuncia o incalzare con le domande sarebbe stato
controproducente. Infatti lei rispose.
-Avevo dodici anni –
bisbigliò – mi ha infilato la mano dentro i
pantaloni, e poi
dentro le mutande.
-E tu cos'hai fatto?
-Mi sono allontanata,
ma stava ridendo. Ho pensato che non facesse sul serio. E
così non
ho detto nulla.
-E tua madre, lo sa?
-Lei era lì, seduta di
fianco a lui sul divano.
Bianca continuava a deglutire, e il suo
sguardo schizzava da tutte le parti. Sembrava che avesse un peso nel
petto che le impediva di prendere ossigeno.
-Ha continuato a
farlo?
Lei annuì.
-Non spesso – mormorò – solo... a
volte. Non mi ha mai violentata. Ha solo fatto... delle cose. Che
potevano avere quel significato, come potevano non averlo. -
Assottigliò gli occhi. - È
stato furbo. Così non avrebbe mai potuto essere accusato di
niente.
-Cos'altro ti ha fatto?
-Mi toccava il seno, il sedere.
Ma lo faceva sempre ridendo. Se mi arrabbiavo, mi diceva che ero la
solita esagerata, che da quando ero cresciuta ero diventata
insopportabile e musona. Lui ama scherzare, lo fa sempre. Per questo,
io non posso dire che...
Scosse la testa; si coprì il viso con
gli occhi.
-Io non riesco a raccontarglielo, prof. Non ce la
faccio. Mi sembrano cose talmente sporche. Non voglio nemmeno tornare
a pensarci, perché rivedo la sua faccia
che ride, e rivedo
quei gesti, e... non voglio avere questi ricordi. Io voglio i ricordi
di un papà che mi prende per mano e mi porta a fare un giro
in
bicicletta... non un papà che non vedo mai, e quando lo vedo
mi
tratta come... - un piccolo singhiozzo uscì dalla sua
corazza di
mani – e non so nemmeno se è vero o se mi sto
inventando tutto
io.
-Riesci a dirmi qualcos'altro? Qualcos'altro, solo per capire
fino a che punto si è spinto.
-Mi vergogno da morire – mormorò,
emergendo dallo scudo che si era creata attorno al viso –
davvero,
mi sento sprofondare. E ho paura che lei non mi prenda sul serio e
rida di me. E mi vergogno, soprattutto, di avere un padre che fa cose
del genere.
-Non è tua responsabilità quello che fa
quell'individuo.
-Lo so, ma... alla fine sono io che mi vergogno.
Sono io che ho paura a parlare.
Abbassò uno sguardo sconfitto.
Emanuele si sentì montare dentro una tale furia che avrebbe
voluto
andare lì, da quell'uomo, al lavoro, sollevarlo per il
bavero e
scaraventarlo fuori dalla finestra, sperando che si sfracellasse la
testa dal settimo piano di qualche palazzo, e che morendo soffrisse il
più
possibile.
-Questo è il modo di fare subdolo di chi molesta le
bambine – affermò Emanuele – ti fa
pensare che sia normale, che
sia tutto uno scherzo. E intanto fa i suoi comodi. Se qualcuno ti
raccontasse che suo padre gli fa cose simili, penseresti che sta
scherzando...?
-Quando non ci sei dentro... e soprattutto quando
non si tratta della tua famiglia... è facile puntare il
dito. È un
molestatore, che vergogna, figlio di puttana. Ma quando si tratta di
tuo padre non è così immediato. Ti piacerebbe
continuare a credere
di avere un padre come tutti gli altri, e così... ridi anche
tu con
lui e ti domandi se anche i padri delle tue amiche facciano
così. -
Si intristì. - Solo che non ho amiche a cui chiederlo. Non
c'è
nessuno che mi rivolga la parola, ormai.
-Ci sono io – affermò
Emanuele – ci sono io. Se lo rifarà, devi dirmelo.
Capito? Devi
dirlo a me. Devi dirmi quello che è successo, Bianca,
perché
potrebbe essere importante.
-Una volta... - il visino pallido di
Bianca si oscurò, rovistando tra i ricordi – mi ha
preso i polsi.
Mi ha sbattuta sul letto. Ha iniziato ad aprirmi la cerniera dei
jeans... - Bianca cercò di prendere un respiro profondo, ma
stava
ansimando. Ad un tratto chiuse gli occhi. - Per favore, non mi chieda
altro.
-Prosegui.
-Prof, per favore...
-Prosegui. Quando mi
avrai detto tutto, sarà finita. Non ti chiederò
più niente.
-E
non è successo niente, è arrivata mia madre e mi
ha lasciata. Aveva
un'espressione orribile. Era rosso, agitato, aveva quello strano
ghigno. Perché mi ha aperto la cerniera dei pantaloni...? Se
non
voleva fare niente, che scherzo era mai quello...?
Stava
decisamente agitandosi. La sua voce oscillava tra acuti e improvvise
mancanze. Il suo sguardo ansioso era fisso nel vuoto.
-E una volta
mi ha afferrato il viso tra le mani, eravamo soli. Ha iniziato a
leccarmi la faccia. Sembrava un animale. Prof, la prego, basta. Non
ce la faccio più.
-C'è dell'altro?
-Sì, ma... - aveva
un'espressione sofferente che strappava il cuore, ma Emanuele la
esortò a continuare con un cenno del capo. - Mi tocca sempre
qua e
là, apparentemente per sbaglio, o solo per giocare. Forse
non ha
capito che non ho più otto anni e che certe parti del mio
corpo non
sono più accessibili, sono intime, ne sono gelosa. Forse
è soltanto
questo. Ma non può essere così cieco. Certi gesti
volgari con il
suo pene non possono essere un gioco per bambini. Perché mi
guardava
mentre lo faceva? Cos'era quell'espressione? Perché guardava
me,
attento a non farsi vedere, se tutto era soltanto un gioco? Che gioco
è, questo? Perché non riesce a essere come gli
altri papà...?
Le
lacrime tornarono a rotolare giù per le guance di Bianca, ma
stavolta non sembrava infuriata. Soltanto piena di tristezza
perché
avrebbe voluto due genitori come tutti gli altri, che l'amassero e la
proteggessero, ma in realtà era da loro che doveva
proteggersi, e
non era mai riuscita a farsi amare da nessuno.
Ora capiva. Capiva
perché avesse voluto morire.
Non c'era ragione al mondo per cui
avrebbe dovuto voler vivere.
*La battutona fotonica si riferisce agli emo, perché Benetazzo è metallaro °_°. Ci tengo a precisare che non è farina del mio sacco.
**Mi vergogno di averla scritta, ma purtroppo ho creato un personaggio pirla che invece la dice senza vergogna. Mike Bongiorno docet.
(Nda: Questo è un capitolo che ho
faticato molto a scrivere, non vi dico poi l'ultima parte.
Semplicemente l'ho odiata.
Se l'ho portata avanti fino alla fine è stato solo
perché credo fermamente nella denuncia sociale, anche se, e
me ne rendo conto, l'ho tagliata più corta possibile. Magari
un giorno la migliorerò, ma dubito fortemente che
riprenderò in mano quel pezzo, per cui, spero che vi sia
piaciuta come mi è riuscita - narrativamente parlando,
ovviamente.
Mi affretto a cambiare argomento e a rispondere alle vostre recensioni
^^ (grazie :*).
Baby Birba:
sono completamente d'accordo: innamorarsi di persone problematiche
è quanto mai deleterio -_- innamorarsi di Bianca, poi,
è pura follia. C'è anche da dire che Cappelletto
è quello che è XD perciò
più che d'amore parlerei di 'cotta', anche se è
piuttosto affezionato. Quanto al seguito, magari ne riparleremo nel
prossimo capitolo ^^ per ora mi limito a concludere la storia :) grazie
di avermelo chiesto però, mi fa piacere ^_^.
Piaciuque:
spero di non essermi spiegata male nello scorso capitolo :O ma, come
credo avrai capito, Bianca aveva tentato il suicidio. Infatti il
cerotto è sui polsi ;) una drogata avrebbe segni sugli
incavi delle braccia. Grazie dei complimenti X* e degli auguri XD!!
Yuki: Grazie
dei complimenti ^_^ ripetili pure quanto vuoi, non mi offendo mica *_*.
Comunque se hai un'idea esprimila, sono curiosa *_* c'è il
mio ragazzo che sta facendo tremila ipotesi una più assurda
dell'altra e ti giuro per me è il massimo sapere cosa ne
pensate XD dai pure voce ai tuoi sospetti *O*!
Kristh: wow,
grazie ^_^ mi spiace aver deluso le tue aspettative EmanuelexBianca....
XD neanche in questo capitolo credo avrai trovato ciò che
cercavi, ma spero continuerai a seguire questa storia lo stesso ^_^.
Dance of Death:
le tue recensioni sono fantastiche, davvero XD. Mi illuminano la
giornata XD. Grazie davvero, sul serio :* e, qualunque cosa tu voglia
dire sulla storia, dilla senza timori XD più scrivete e
più io sono contenta, giuro XD. Felice che tu abbia
riconosciuto la citazione ;D ho visto che hai anche letto la mia fic su
Cassie, grazie del commento anche lì :* sono
un'appassionatissima di quel telefilm e in particolare di Cassandra...
nel caso non si vedesse *_*;. Comunque mi rende felice sapere che gli
sbalzi di Bianca e la forza con cui trascina chi le è vicina
siano stati resi, ma non farti troppo trascinare da lei u_u non
è davvero un grande esempio a cui ispirarsi
°_°'. XD
Briareos:
sono curiosa di sapere in cosa questa storia è 'ingenua'
('fino alla morte' addirittura o_o') perché a me
è sempre sembrata piuttosto cruda, specie in quest'ultimo
capitolo... buh :/ se ne hai voglia fammi sapere. XD
Bueno, e con questo vi lascio è.é ci si vede al
prossimo capitolo, che è anche l'ultimo :O. Grazie ancora a
chi ha commentato *_*, favvato, seguito, letto. Ma di più a
quelli che hanno commentato u_u.
A presto!)
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
L'aveva lasciata a
casa, dopo aver bevuto assieme una tazza di the; aveva cercato di
parlarle d'altro, per distoglierla da quei pensieri nei quali l'aveva
costretta a immergersi, ma aveva l'impressione che in realtà
l'accompagnassero tutto il tempo.
Ne parlò a Camilla; doveva
farlo. La salutò abbracciandola teneramente, le disse di
sedersi, di
preparare un the – un altro the, non importava. Si riunirono
in
cucina davanti a due tazze con dentro gli infusi di frutti di bosco,
rinchiusi nei rispettivi cucchiaini, pronti a liberare i propri
sapori nell'acqua che stava bollendo.
A casa sua, quando c'era
Camilla, sentiva in continuazione il rumore dell'acqua che bolliva.
E
poi il fruscio delizioso dell'acqua che scrosciava nella tazza,
assorbendo gli aromi.
-Mi ha raccontato delle cose – spiegò,
conciliante – Bianca ha dei seri problemi a casa.
-Il padre che
la picchia – annuì Camilla – e la madre.
-Già. Sì, beh. Mi
ha detto dell'altro. Pare che la madre non sia completamente a posto
con la testa. Prende il valium.
-Lo immaginavo. È sempre
nevrotica. È sovraccarica di lavoro e quel municipio
è un covo di
vipere.
-Aggredisce spesso Bianca, con violenza, la copre di
accuse. Il padre le picchia entrambe.
Emanuele
abbassò gli occhi. Iniziò a giocherellare con il
centrotavola.
-C'è
dell'altro...? - chiese Camilla, che lo conosceva molto bene.
-Sì,
Camilla, c'è dell'altro – rispose, lentamente
– c'è dell'altro.
Ma faccio fatica a ripeterlo. Hai presente quelle cose che non
vorresti mai sentir dire a un tuo studente...?
-Purtroppo no –
mormorò lei, sorseggiando il suo the.
-Già. Naturale. In realtà
è perché pensi che non esistano davvero. Pensi
che non succeda a
una tua alunna che vive ad Altichiero con mamma e papà e
può
permettersi un iPod nuovo e una PSP.
-Che cos'è successo?
Camilla
sembrava solo molto stanca. Sembrava che ascoltasse la storia di
Bianca perché lui
ci teneva a raccontargliela, ma che in realtà avrebbe
preferito fare
tutt'altro.
-Il padre usa molestie sessuali su di lei –
mormorò
– e la confonde così tanto che le fa pensare di
essersi inventata
tutto.
Questa volta Camilla alzò gli occhi. Nonostante sembrasse
odiare Bianca e tutto ciò che la riguardava, questa volta
non poté
non interessarsi al discorso.
-Ha avuto una crisi di panico,
quando sono andato lì – raccontò
– mi ha detto che le capita
spesso. Che passa intere giornate a piangere, e che a volte non ha
nemmeno la forza di fare quello; sta a letto immobile senza pensare a
niente, in stato catatonico.
Lei lo guardò, in attesa di
ulteriori informazioni. Proseguì.
-Dice che per un certo periodo
riesce a dimenticare... ad accantonare. Che per un po' riesce a
distrarsi con altre cose. Ma che poi, a volte, le torna in mente
tutto ciò che c'è di negativo nella sua vita. E
in quei momenti io
incomincio a vederla piangere in classe, e chiedermi di andare a casa
a dormire.
Camilla aspettò che dicesse dell'altro, ma Emanuele
tacque e prese a fissare la fruttiera. Lei prese la parola.
-Succede
perché il padre la molesta...? - chiese, con voce roca.
-Succede
perché dice di non sentirsi amata. Dice che i genitori non
la
sopportano, che i coetanei la odiano, che tutto ciò che fa
è vuoto
e senza significato.
-Capisco – mormorò Camilla. Emanuele si
accigliò.
-Capisco?
- ripeté, adirato.
-Capisco perché voleva morire – precisò
Camilla – so che non si dovrebbe nemmeno pensarlo, ma... si
può
darle torto? Chi vorrebbe vivere una vita così?
-Alla sua età
potrebbe ancora rimediare. Cambiare tutto, andarsene da qui,
smetterla di farsi del male da sola. Può fare moltissime
cose.
-Non
finché ha sedici anni, abita coi genitori ed è
iscritta a quella
scuola – osservò la sua ragazza, razionale
– in questo momento,
è bloccata lì dov'è almeno per un
altro paio d'anni.
-Devono
sembrarle un tempo lunghissimo.
-Perché in effetti lo
sono.
Camilla aveva un tono così freddo e distaccato che Emanuele
si chiese se stesse davvero parlando con la sua fidanzata; quella
dolce, comprensiva, che si preoccupava per lui e per Bianca.
-Ce
l'hai con lei? - le chiese all'improvviso – Ce l'hai con lei
perché
occupa il mio tempo e una parte dei miei pensieri?
Lei abbassò
gli occhi.
-Camilla, è così?
-Non posso negarlo – ammise
lei, guardandosi le mani.
-Lo sai che ha sedici anni.
-Sì.
-E
lo sai che è l'alunna che mi sta più a cuore. Sta
a cuore a molti
altri, oltre a me. Siamo tutti preoccupati per lei.
-Lo so. Ma
oggi era il nostro anniversario. Non dico che non avresti dovuto
andare a trovare Bianca, o che avresti dovuto chiedere un permesso e
venire a prendermi al lavoro, con un mazzo di rose, per portarmi via
in un posto speciale dove saremmo stati soli io e te lontani dal
mondo. Mi bastava un bacio questa mattina, e
“auguri”. Stasera,
magari, un brindisi alla nostra.
Emanuele impallidì. Fece per
aprir bocca, ma Camilla continuò.
-Dispiace anche a me per quella
ragazzina. Davvero. Mi dispiace. Ma in questo momento non riesco a
far altro che pensare alla nostra storia che viene logorata poco alla
volta da questa bambina e dai suoi problemi.
-Non sta logorando la
nostra storia. Tra di noi va tutto bene. Abbiamo forse mai litigato?
Ho avuto delle mancanze nei tuoi confronti?
-No – fece
stancamente Camilla – non dico questo. Dico che pensi a lei
molto
più di quanto pensi a me. Ti sei innamorato di quella
ragazzina...?
-Cristo, Camilla, no
– sbottò indignato, scattando in piedi –
stai per caso
scherzando? Non sono come quel pedofilo di suo padre. Non sono
innamorato di una bambina che potrebbe essere mia figlia.
-No, non
potrebbe. Al massimo potresti essere suo fratello.
-Ma di cosa mi
stai accusando?! Mi credi capace di una cosa simile? E tu saresti
quella che mi ama...?
-Lo vedi? Ora stiamo litigando. E tutto a
causa di Bianca.
-Camilla, mi ci hai intrappolato tu, in questo
giochetto!
-No, ti ci ha intrappolato lei. È questo che tu non
hai capito. Lei ha intuito che tu la seguirai ovunque, e quindi ti
porta dove vuole. Hai delle prove, che suo padre l'abbia
molestata...?
Emanuele spalancò gli occhi.
-Camilla, stai
scherzando?
Mi meraviglio che tu, come donna, faccia un'insinuazione del
genere.
-Sono solo molto stanca. - Sugli occhi di Camilla
spuntarono due grosse lacrime brillanti. - Sono stanca di questa
storia. E ora sto anche facendo la parte della cattiva. Tutto quello
che voglio è che quella ragazza stia lontana da te e la
smetta di
tormentarti, vorrei solo la vita tranquilla che avevo prima, e
invece... invece finisco col recitare il ruolo della strega. Eppure
–
si asciugò le lacrime, ma ne nacquero di nuove sugli angoli
dei suoi
occhi – eppure ho sempre cercato di capirci qualcosa. Di dare
una
mano. Di starti vicino senza lamentarmi. E ora guarda, guarda
cos'è successo.
Emanuele si alzò e si avvicinò a lei;
l'abbracciò, dispiaciuto.
-Non volevo dire che sei cattiva –
sussurrò – non lo penso. Ero solo agitato.
-Sono agitata
anch'io – gemette Camilla – ho paura. Ho paura che
rovini la vita
che abbiamo creato assieme, che tu dedichi a lei le tue giornate e i
tuoi pensieri, e ti faccia trascinare da tutta quella tristezza. Io
rivoglio il mio fidanzato. Rivoglio la mia felicità,
rivoglio anche
la tua – iniziò a singhiozzare, con la stessa
spontaneità di una
bambina sperduta. L'abbracciò ancora più forte.
Due donne
durante quel pomeriggio aveva abbracciato piangendo. Entrambe lo
tiravano dalla propria parte, chiedendogli di rinunciare all'altra,
sostenendo che fosse l'unico modo per porre finalmente fine alle loro
sofferenze.
Non voleva abbandonare nessuna delle due, ma sapeva
che, un giorno o l'altro, si sarebbe trovato di fronte a una scelta,
e che tutto il tempo in cui avrebbe temporeggiato sarebbe stato
costellato di liti, lacrime e abbracci colmi di struggente
disperazione.
Comunque, per quel weekend decise di fare un
reset mentale. Bevve un caffè doppio, si
rinfrancò con una fetta
del dolce che Camilla aveva preparato per l'occasione e decise che,
per liberarsi da una corda troppo stretta, era necessario dare uno
strattone altrettanto forte.
-Ok; mettiti il cappotto – disse ad
un tratto a Camilla.
-Il cappotto? Perché?
-Perché noi
usciamo.
-E dove andiamo?
-A Parigi – sbottò, senza sapere
bene nemmeno lui cosa stesse dicendo.
-A Parigi? - fece Camilla,
sbalordita – Ma... a Parigi?! Perché?
-Perché è la città
degli innamorati, dicono. Be', lo è anche Venezia, ma
Venezia
possiamo vederla quando vogliamo. Parigi no.
-Ma... ma come
facciamo? Non abbiamo i biglietti.
-Tu non preoccuparti.
-Ma
Ema, sono le quattro del pomeriggio, ormai.
-E quindi? - Le
sorrise, accattivante. - Non ti piacerebbe che ti portassi a cena a
Parigi, e passeggiare con me lungo la Senna dopo aver gustato les
champignons
e il Dom
Pérignon
in un delizioso ristorantino del centro, e farci una foto sulla
terrazza che dà sulla Tour
Eiffel?
-Sei
impazzito – mormorò Camilla, ma i suoi occhi erano
luccicanti e
sulle sue labbra iniziava ad incresparsi un luminoso sorriso.
-No
– precisò lui – ero
impazzito,
ma
chérie,
ma adesso ho recuperato la
raison,
e ho voglia di festeggiare l'anniversario assieme a toi.
Allargò
il suo sorriso. Camilla fece lo stesso.
-Alors?
- la incitò.
-Mais
oui!
- fu la gioiosa risposta, Camilla si gettò tra le sue
braccia e si
precipitarono in macchina con direzione Marco Polo.
Passò un
dolcissimo weekend.
Durante il viaggio d'andata in macchina,
Camilla telefonò all'aeroporto, riuscirono a scovare due
posti in un
last minute e sfrecciarono lungo la A4 ridendo come due ragazzini.
Al
Marco Polo acquistarono i biglietti d'andata e quelli di ritorno, e,
nell'attesa, collegarono il portatile alla connessione via chiavetta;
in un'ora, tempo che arrivasse l'aereo, avevano già scelto e
prenotato il loro hotel. Camilla era raggiante.
-Non avrei mai
pensato che avresti fatto una cosa del genere – trillava,
eccitata
– pensavo che... cioè...
-Pensavi che avrei lasciato tutto
com'era – sospirò Emanuele, e scosse
scherzosamente la testa –
quanta, quanta malafede in questa signorina. - Le scompigliò
i
capelli, lei rise e gli diede un colpetto leggero sulla mano. - Ehi,
io, se faccio un errore, vi pongo rimedio. Ho ben salde nelle mani le
redini del cavallo bianco, chérie.
-Avevo
paura che ne fossi sceso per sempre – ammise lei. Ma lo disse
con
quell'aria serena, pacifica di cui lui si era innamorato.
Aveva
solo bisogno di essere rassicurata, ma lui non se n'era mai accorto.
Non aveva dovuto fare poi molto per farle recuperare la
tranquillità,
come aveva potuto non pensarci? Certo, con quel weekend si era
giocato quasi mezzo stipendio, ma cosa valevano i soldi, quando il
sorriso era tornato sulle labbra di Camilla?
-Cami, in questo
periodo ho fatto troppo affidamento su di te. Siccome tu sei
comprensiva e disponibile e non mi fai pesare i tuoi problemi, allora
io ho focalizzato tutta la mia attenzione sui miei. E anche la
tua
attenzione. Non mi ero mai reso conto che la situazione ti pesasse
così tanto.
-Avrei dovuto dirtelo – confessò lei –
la colpa
è anche mia. Mi sono tenuta tutto dentro, cercando di fare
la
fidanzata perfetta, perché non volevo riempirti di lamentele
la sera
quando tu arrivavi a casa stanco dal lavoro. Cercavo di non essere la
solita moglie o fidanzata pedante che dimentica sempre che anche il
suo compagno ha dei grattacapi.
-Tu puoi parlarmi quando vuoi –
l'assicurò – altrimenti, cosa te l'ho dato a fare,
quell'anello
che hai al dito? Quell'anello è una promessa. E non
è solo la
promessa che il 18 aprile andremo in chiesa vestiti come due
bamboline a sorridere davanti agli obiettivi e baciare le guance ai
parenti. È la promessa di starti vicino qualunque cosa
accada, di
asciugare le tue lacrime, proteggerti dalle tue paure, dalle
ipocondrie... dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua
via...
Camilla sorrise.
-Dalle giustizie e dagli inganni del
tuo tempo – continuò, intonando con voce flebile
– dai
fallimenti che per tua natura normalmente attirerai...
-Ti
solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore
– cantò, a voce bassa – dalle
ossessioni, dalle tue manie...
- Lei si unì alla sua voce – Supererò
le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti
invecchiare...
E
guarirai
Da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed
io
Avrò cura di te.*
Non
conclusero con il ritornello, stavano abbracciati tanto stretti che
non sarebbero mai riusciti a parlare.
Quella canzone gli era
venuta in mente per caso, tra le tante che conosceva e a cui non
aveva mai prestato particolare attenzione. Da quel giorno, ogni volta
che la sentirono per radio o in qualche locale, si guardarono quel
sorriso appena accennato tipico di chi condivide un ricordo che
nessuno può afferrare o anche solo sfiorare.
Il ricordo di una
canzone di Battiato illuminata all'improvviso da un caldo raggio
d'amore, cantata in aeroporto tra il brusio di migliaia di persone
che si affannavano senza riuscire a toccare quel momento, svanendo
lentamente in un silenzio astratto.
Il ricordo dell'amore che
lasciava fuori tutto il resto.
-E dire che il momento
romantico era previsto per la passeggiata lungo la Senna –
gemette
Emanuele – e adesso come faccio? La proposta di matrimonio te
l'ho
anche già fatta, e ho esaurito gli assi nella manica.
Camilla
rise e afferrò un guscio di lumaca. Lei aveva lo stomaco
abbastanza
forte da mangiarle, Emanuele invece aveva optato per una zuppa di
cipolle. Insieme avevano ordinato la fonduta.
-Ce la tiriamo da
degustatori? - aveva proposto Emanuele.
-Ma non è un po' snob
intellettual-chic?
-Certo che lo è, ma ricorda che qui siamo in
territorio nemico. Loro sono in maggioranza, cerchiamo di
mimetizzarci. - Afferrò il suo bicchiere di vino d'annata. -
Vedi?
Faccio dondolare il vino nel bicchiere con aria scettica e gli occhi
socchiusi.
-Ricorda di annusarlo storcendo il naso.
-Mi infilo
una baguette sotto l'ascella?
-Parbleu,
non senza un completo a righe verticali.
-Avverto inoltre la
tragica mancanza di una tavolozza.
-E di un basco.
-E di un
bidet.
-Oh, non fare l'italiano, je
vous en prie.**
Ma
gli andava bene, in fondo, parlare di sciocchezze e ridere di Camilla
che trangugiava tranquillamente lumache come fossero state caramelle.
Gli andava bene, fintanto che poteva vederla allegra e sorridente,
felice assieme a lui, come lo erano sempre stati.
-Ti prometto che
non servirà più venire a Parigi per essere sereni
– asserì
all'improvviso, sorprendendo Camilla che fece cadere il pane nel
formaggio fuso, annegandolo nella fonduta.
-Cosa? - fece lei,
tentanto di recuperare la fetta di baguette perduta con la
forchettina.
-Sarà così ogni
giorno,
com'è sempre stato. Non avrò più
bisogno di portarti lontana da
Padova, per vederti felice. Lo sarai anche nella nostra casa, nella
nostra vita di tutti i giorni. Senza dover fuggire per un
weekend.
Lei sorrise.
-Ema, prima mi dicevi che non avevi più
assi nella manica per la passeggiata romantica lungo la Senna
–
incominciò – beh, volevo dirti una cosa. La Senna
è solo un
fiume, la torre Eiffel è solo una costruzione di ferro, e le
lumache
potrei cucinartele anch'io, se non ti venisse uno scompenso solo a
guardarle da lontano. Ma il fatto è che tu hai visto che ero
triste
e hai deciso di rimediare, costi quel che costi, e dal mio punto di
vista, ecco, questa è la mia cena francese e la foto davanti
alla
torre e la passeggiata romantica sul lungofiume. Io sono già
felice. Non ho bisogno che tu faccia altro.
Sorrisero entrambi.
Si
sentiva così sereno e appagato che pensò, al di
là di questo non
c'è nient'altro. Oltre a questa felicità non
potrò mai
andare.
Ebbero la loro passeggiata lungo la Senna, tenendosi
per mano; le luci della città, la notte blu chiara di stelle
e le
nuvolette soffici dei loro respiri crearono un'atmosfera tale che in
realtà parlarono molto poco. Si fermarono spessissimo ad
abbracciarsi, a lungo, stringendosi forte e dimenticando che erano a
Parigi, che erano nel mondo reale. Per quella sera avevano deciso di
essere altrove.
Il giorno dopo si svegliarono quasi all'ora di
pranzo; la sera prima avevano fatto l'amore fino a notte fonda.
Fecero la doccia assieme, infilarono i vestiti del giorno prima nello
zaino ed uscirono, silenziosi ma sorridenti, nel corridoio ricoperto
di moquette del piccolo albergo di Montmartre.
Nelle ore che gli
rimanevano, salirono sulla collina e passeggiarono tra i ritrattisti;
pranzarono con un panino che mangiarono passeggiando, poi presero la
metropolitana diretti verso l'aeroporto, con in mano un ritratto.
Un
ritratto solo, non due, che li ritraeva entrambi, due volti felici
nel sole tiepido e dorato della Francia.
*
-Credi
di riuscire ad affrontare la giornata? - gli chiese Camilla,
premurosa.
Sembrava che il weekend l'avesse tranquillizzata, che
si fosse convinta di essere ancora la priorità di Emanuele.
Ora che
si era rassicurata, sembrava più disposta ad affrontare
l'argomento
'Bianca'.
-Ci provo – fu la pacifica risposta – provarci
è
l'unica cosa che posso fare.
-Ti sono vicino.
-Anch'io sono
vicino a te.
Si salutarono con un bacio, ed Emanuele le accarezzò
una guancia. Lei sorrise e per un momento gli sembrò una
bambina,
più piccola ancora di Bianca.
Mentre s'incamminava verso la
stazione, si sentì come se avesse avuto lo scudo in una mano
e una
lancia nell'altra.
E sotto le gambe un solido e veloce cavallo
bianco.
Come si aspettava, Bianca era uguale a come l'aveva
lasciata sabato. Era strano rivederla, dopo quel fine settimana di
fuga. Gli era sembrato strano anche prendere il solito treno e
attraversare la solita città; era stato a Parigi solo per
ventiquattr'ore, ma si sentiva come se fosse stata Padova la
città
straniera.
-Buongiorno – esordì in classe; i suoi alunni lo
salutarono con calore.
-Prof, che aria allegra – commentò
Francesca. Sapeva che stava cercando di farlo chiacchierare per
rimandare la lezione, ma per quella volta poteva anche andargli
bene.
-Davvero? - replicò – Beh, ci hai visto giusto.
Oggi è
una bella giornata.
-Perché, prof? - fece Benetazzo, che, per
qualche oscuro motivo, gli si era affezionato.
-Ho passato un bel
weekend con la mia fidanzata – confessò
– e oggi sono
particolarmente felice.
-Woo, il prof ha una fidanzata! - esclamò
Francesca – Non lo sapevamo!
-Ebbene sì, con tanto di anello al
dito.
-Vi sposate?!
-Ad aprile. Siete tutti invitati –
sorrise, poi si accorse che Bianca aveva un'espressione tutt'altro
che rassicurante.
Forse avrebbe dovuto evitare quei discorsi, ma
non era riuscito a farne a meno; era poi così sbagliato
voler
gridare al mondo quanto si era felici, specialmente dopo che si
avevano passati momenti tanto bui?
-Congratulazioni, prof –
esclamò Giulia – raga, dobbiamo organizzarci per
fare il regalo al
prof.
-Ma no, non ce n'è bisogno.
-Come no – fece Benetazzo
– una bella spada medievale intarsiata. Qualsiasi salotto
dovrebbe
averne una.
-Sì, vabè, PeneCazzo, e dopo? Una cotta di maglia
al
posto del completo?
-Sarebbe veramente il massimo – mormorò
incantato Benetazzo, con gli occhi luccicanti.
-Ragazzi, davvero,
non vi preoccupate...
-Ma no, prof, guardi che non diamo mica
retta a PeneCazzo – intervenne Crivellaro – oh, ho
l'idea!
Regaliamo al prof una bella festa d'addio al celibato!
Spogliarelliste, alcool, follia...
-Crivellaro!
- lo riprese Giulia – Non approfittare del matrimonio del
prof per
imbucarti a un locale di strip, testa di cazzo.
-Allora non ho
altre idee, mi arrendo.
-Una batteria di pentole in acciaio
Inox1810? - fece dubbiosa Valeria – I novelli sposi vogliono
sempre
cose di questo genere. Cose per la casa.
-Non siamo mica tutti
così noiosi – protestò Emanuele
– e se invece io vi dicessi che
voglio l'Action Figure di Re Leonida...?
-GLIELA REGALEREI IO –
gridò Benetazzo – SPARTANI! Qual è il
vostro mestiere?! - Al che
tutti i maschi della classe urlarono in coro “A-HU! A-HU!
A-HU!”,
e fu lì che Emanuele decise di chiudere il discorso.
Durante
tutto quel tempo, Bianca era rimasta muta e immobile, guardando fuori
dalla finestra con aria assente.
Bianca passò così tutta la
settimana, ed Emanuele cercò di non farci caso.
Mercoledì non venne
da lui. Passava le ore di lezione prendendo svogliatamente appunti,
e, arrivati verso la fine della settimana, smise di fare anche
quello. Guardava il banco e basta. Ogni tanto apriva e chiudeva la
bocca, come se volesse mormorare qualcosa.
Sabato osservò una
scena piuttosto tenera a ricreazione, ma osservò soltanto,
attento a
non farsi vedere.
-Cos'è che hai? - continuava a ripeterle
Cappelletto, con aria preoccupata – Perché stai
così? Sei triste
per qualcosa?
Bianca lo lasciò parlare per un po', prima di
rispondere un fievole “lasciami stare”.
-No che non ti lascio
stare, se prima non mi dici cos'hai.
Lei lo guardò, con aria
spenta.
-Non capiresti – si limitò ad apostrofarlo, con
tono
lugubre.
-Beh, senti, non fare tanto la superiore. Magari invece
capisco.
Scosse la testa. Lui si accigliò.
-Ehi – la afferrò
per le spalle – senti, tu dimmelo. Anche se poi non posso
fare
niente, cosa ci perdi?
-Non voglio parlare a te degli affari
miei.
-Ma perché? - fece Cappelletto, sinceramente dispiaciuto.
A
quel punto, all'improvviso, Bianca iniziò a piangere.
-Ecco, vedi
che sei triste? Cos'hai? Cos'è successo?
-Lasciami stare –
singhiozzò, sottovoce.
-Ma non voglio lasciarti stare.
-Per
favore
– lo implorò lei, e lui, a malincuore, dovette
allontanarsi.
Bianca si accorse di Emanuele sulla porta, ma si
limitò ad incrociare le braccia sul banco e appoggiarvi la
testa,
abbandonandosi ai singhiozzi.
Gli metteva addosso un'enorme
tristezza, ma sapeva ormai di non poter fare niente.
Con
febbraio se ne andò anche Bianca.
I primi di marzo iniziarono le
sue assenze. Gli ultimi giorni in cui aveva frequentato erano passati
immersi nelle sue lacrime silenziose. Faceva male vederla,
perché
piangeva senza rumore; si limitava a guardare fuori dalla
finestra, o il banco, o un punto nel vuoto di fronte alla lavagna,
inespressiva; solo che le lacrime le rigavano il viso, costantemente,
lente, ma continue.
Emanuele non ebbe il coraggio di chiedere sue
notizie.
Non ebbe nemmeno il coraggio di pensarci.
Si limitò a
fare lezione con il solito brio, con la solita passione, e la sera
parlava a Camilla dei progressi dei suoi alunni peggiori, delle
soddisfazioni che stava avendo con loro, dell'affetto che gli
dimostravano.
Avevano recuperato la loro serenità, anche se
Emanuele aveva uno spillo appoggiato al cuore che, a ogni minimo
movimento, pungeva e spingeva sempre più nel profondo,
riaprendo
continuamente quella piccola ferita che gli aveva inflitto.
Dopo
una settimana di assenza da parte di Bianca, però,
Cappelletto e
Valeria si presentarono alla sua ora di ricevimento. Emanuele sapeva
già perché fossero venuti a cercarlo.
-Vorremmo parlare con lei
– esordì imbarazzata Valeria, tormentandosi i
guantini di
rete.
-Su Bianca – spiegò Cappelletto, con
più
decisione.
Sospirò e fece loro cenno di accomodarsi.
In quel
momento, in aula insegnanti era presente anche Sonia, che
lanciò
loro uno dei suoi sguardi penetranti. Una sola occhiata, veloce e
indecifrabile, e poi tornò ai suoi compiti da correggere.
-Ditemi,
ragazzi. Di cosa volevate parlare?
-Delle sue assenze – rispose
pronto Cappelletto – volevamo chiederle se lei ne sappia
qualcosa.
-Anche se lo sapessi, non sarei autorizzato a
comunicarvelo – fu tutto ciò che riuscì
a rispondere.
-Ascolti,
prof, a me non è di certo simpatica, ma il suo comportamento
mi è
sempre sembrato strano – intervenne Valeria, un po' nervosa
– non
è normale.
Tutti noi abbiamo periodi brutti e periodi belli, ma capitano una
volta l'anno, tutt'al più. Lei, invece... è
sempre estrema.
-Tutti
quanti la giudicano male perché si comporta da stupida
– riprese
concitato Cappelletto – e, ok, è vero, fa la
stupida. Però ha
fatto comodo a tutti che lei si comportasse così.
-Ma più che
altro, anche se spesso le darei una botta in testa perché fa
un
casino della Madonna, devo ammettere che sono un po' preoccupata.
Secondo me, sta male per qualche motivo. Ha reazioni troppo... come
posso dire...
-Estreme – ripeté Emanuele, che trovava
l'aggettivo perfettamente calzante. Valeria annuì.
-So che lei è
preoccupato come noi – insistette Cappelletto – e
gli altri non
si rendono conto.
-O non vogliono rendersi conto – rincarò
Valeria.
-Quindi, se non ci aiuta lei, non sappiamo da dove
iniziare.
-Beh – Emanuele ci ragionò un momento –
beh,
potreste iniziare voi stessi. Perché non andate a trovarla?
Sapete
dove abita?
-Ho il suo indirizzo – borbottò Valeria
– se sta
ancora ad Altichiero.
-Credo abiti ancora lì.
-Andiamo? -
propose Cappelletto, in direzione della sua compagna. Quella
tirò un
gran respiro, ma alla fine cedette.
-E andiamoci – decretò;
Cappelletto le sorrise.
-Ma allora non sei una strega malefica –
la punzecchiò – tutta croci e bare, e poi invece
sotto sotto sei
una tenerooona!
-Ma chi ha mai detto che sono malefica? Siete voi
che mi chiamate Morticia, manica di cretini. Dai, andiamo e lasciamo
stare il prof – sbuffò Valeria, afferrando
Cappelletto per la
manica. Mentre quello lo salutava con una mano, ad Emanuele
sfrecciò
in testa un pensiero.
-Ehi, voi due – li chiamò. Valeria si
fermò e si voltò a guardarlo; Cappelletto rimase
in attesa. - Sono
orgoglioso di voi. E adesso sparite – li cacciò
con un gesto della
mano, ma, un attimo prima di abbassare lo sguardo sulle sue cartelle,
notò che entrambi sorridevano.
Quando furono usciti, incontrò lo
sguardo di Sonia.
-Devo dirti la verità? Anch'io –
affermò
lei, poi ritornò ai suoi compiti senza più
voltarsi verso di
lui.
Fu il turno di Emanuele di sorridere.
I due tornarono
a scuola il giorno dopo carichi di notizie. Non appena lui
entrò in
classe presero a gesticolare e a parlargli in labiale; li
liquidò
con un uno scuotimento di testa, e i due furono irrequieti fino a
ricreazione.
Suonata la campanella, la strana coppia – lui con
la felpa Hydrogen e le Hogan, lei con la gonna che spazzava terra e
il corsetto – si precipitò al piano di sotto,
nell'aula
professori. Emanuele, nel vederli, si stupì che due
individui tanto
diversi si fossero presi a cuore la stessa persona.
-Allucinante,
prof – esordì Valeria, agitata – no, le
giuro, è preoccupante.
Bisogna fare qualcosa.
-E pensi che sua mamma non voleva neanche
che la vedessimo. Ma noi abbiamo rotto le palle. Sono un maestro
se si tratta di fracassare i coglioni, e ha visto? Stavolta
è
servito a qualcosa.
-D'accordo. Ok. Calmatevi. Cos'è
successo?
-Eh, praticamente...
-Allora, prof, in
pratica...
-Uno alla volta. Valeria.
-Perché Valeria?!
-Perché
non infila una bestemmia ogni due parole. Dimmi tutto,
Valeria.
-Allora – riprese, torcendosi le mani – siamo
arrivati lì. Sua mamma ci apre. Mi guarda tipo stramale, ma
vabé,
guardasse sua figlia come viene vestita a scuola. Ci chiede chi
siamo.
-E gli diciamo, siamo compagni di Bianca. E lei non è che
dice: oh, entrate, che gentili, siete venuti a trovarla. No. Ci
chiede di cos'abbiamo bisogno.
-Con quel sorrisino
falso come una moneta da trecento lire – sbottò
Valeria –
comunque, le abbiamo detto che eravamo venuti a trovarla, a vedere
come stava. E lei fa: è molto malata, non se la sente di
alzarsi dal
letto. Vabé, le diciamo, solo per farle un saluto. E lei:
sta molto
male, non vorrei che si stancasse troppo.
-E io le faccio, vabé,
signora, andiamo via subito, la salutiamo, le portiamo i compiti e
poi andiamo via. Vede, prof? Ci eravamo anche preparati la scusa.
-E
insomma, dai e dai, ci ha fatti entrare, continuando a ripeterci che
stava molto male, che aveva la febbre alta, che non riusciva ad
alzarsi dal letto né a parlare. Va bene, le dicevamo noi
ogni volta,
ok, nessun problema, tanto restiamo poco. E quella che insisteva,
Bianca sta male, sta molto male, è molto debilitata. Alla
fine siamo
entrati in camera sua; c'era la persiana abbassata, tutto buio, e lei
sotto la trapunta, che neanche la vedevi in faccia.
-Siamo andati
vicino al letto e lei era sdraiata di fianco e guardava nel vuoto,
con la bocca aperta, così – Cappelletto
l'imitò: occhi fissi
spalancati, bocca socchiusa, sguardo perso. - E non si è
accorta di
noi. Continuava a guardare chissà cosa.
-Io mi sono preoccupata,
così le sono andata davanti, le faccio: Bianca, sono io,
Valeria.
Stai bene? E lei non rispondeva, non mi ha neanche guardata. Allora
è
venuto anche Cappelletto, tra l'altro il romanticone le ha fatto una
carezza sulla guancia... - Valeria sorrise; l'altro arrossì
e le
diede una botta sul braccio. - Ahia. Comunque, prof, lei a quel punto
ha alzato gli occhi e ci ha visti, ma aveva una faccia...
-Sembrava
tristissima – intervenne Cappelletto – non so come
spiegarglielo.
Era completamente triste.
-Ci ha guardati, ha aperto la bocca...
poi ha chiuso gli occhi, le sono scese due lacrime dagli occhi e si
è
voltata dall'altra parte.
-E allora noi siamo andati dall'altra
parte, anche se sua mamma ha allungato un braccio come per fermarci.
Ma noi siamo stati più veloci. E così le abbiamo
parlato un po'; le
abbiamo detto che avevamo i compiti per lei, che lei la salutava,
prof, che l'altro ieri Tognon di quarta C ha dato fuoco ai capelli
della Miotto... ma niente.
-Noi parlavamo e lei ci guardava e
taceva. Sembrava che non capisse neanche una parola. Aveva una faccia
confusa, ci guardava con gli occhi spalancati e muoveva le labbra al
passo con le nostre, ha presente come fanno gli anziani quando
iniziano a non capire più cosa gli dici? Ecco.
-E dopo un po', a
discorso finito, ha parlato. Sempre guardandoci con quella
faccia.
-Sbalordita, incantata... non saprei come spiegarle.
-E
fa...
-Con voce roca, prof, come se non parlasse da giorni. Ha
mormorato: “il prof ti saluta...” e poi ha guardato
da un'altra
parte. Al che le faccio, no, il prof saluta te.
E sua mamma è arrivata d'un tratto e fa, scusate, ragazzi,
Bianca
non si sente bene, forse è il caso che si riposi un po'. E
lei non
ha battuto ciglio. Ha continuato a guardare per aria.
-Le giuro,
prof, mi sono spaventato. Nel senso che proprio ho preso
paura.
-Cioè, sua mamma non ha neanche avuto bisogno di spedirci
fuori, siamo proprio scappati via, senza quasi salutarla, le
facciamo, torna presto, e poi siamo andati via di fretta. E mentre
eravamo sulla soglia l'abbiamo sentita dalla camera che diceva
“torna
presto” e sua mamma che diceva, sssh, stai calma, dormi.
Emanuele
deglutì.
Valeria e Cappelletto lo guardavano in attesa di una
risposta:i loro occhi chiedevano di sentirsi dire una bugia
rassicurante.
-Probabilmente aveva la febbre molto alta –
stabilì Emanuele – in quei casi, non è
raro che uno non sia molto
presente.
-Può essere – mormorò Valeria,
sollevata da quella
spiegazione quanto mai pretestuosa.
L'altro non disse nulla, ma
s'incupì. Si allontanò senza dire nulla, e, dopo
qualche attimo di
silenzio imbarazzato, anche Valeria lo salutò ad occhi bassi
e se ne
andò.
Camilla ascoltò attentamente il suo resoconto, ma
anche lei non sapeva bene che dire di fronte a un racconto del
genere.
-Sono sempre più sicura che si tratti di depressione
–
ragionò – una depressione molto grave. Forse suo
padre le ha messo
le mani addosso un'altra volta.
-Mi aveva promesso che me
l'avrebbe detto – ribatté Emanuele – ma
forse non ci è
riuscita. Non le sono stato molto vicino, in effetti. È che
non
sapevo come aiutarla – si giustificò.
-Credo sia normale. Non è
facile stare accanto a una persona che periodicamente sprofonda in
una tristezza così annientante.
-Ho mandato due ragazzini a
parlarle, al posto mio – mormorò, deluso
– avrei dovuto andarci
io.
Ma subito cambiò discorso, perché non voleva
riprendere a
tormentare Camilla con i problemi di Bianca. E neanche a tormentare
se stesso.
-Ad ogni modo, per ora posso solo aspettare –
concluse – staremo a vedere. E tu, tesoro? Com'è
andata oggi?
-Ti
dirò, ora che mi ci fai pensare, la Milanesi ultimamente
sembra
molto affaticata. Ultimamente ci ha delegato diversi compiti dei
quali prima insisteva ad occuparsi personalmente, nonostante fosse
sufficiente la sua supervisione.
-Probabilmente sua figlia la sta
preoccupando molto.
-Sicuramente è così. Magari, in fondo, ci
tiene.
-O forse è troppo occupata a nascondere al mondo che nel
suo mondo perfetto ci sono diverse macchioline di sporcizia.
-Non
lo escludo. Quella donna vive sempre in alta tensione. Deve sempre
essere all'altezza, sempre fare tutto alla perfezione ed entro i
tempi, sempre essere inattaccabile. E se per caso ti azzardi a
contestarla, lei trova sempre la parola che tu hai detto in mezzo a
un discorso e te la contestualizza in modo da dimostrare che lei
ha ragione, e tu
invece hai torto. È sempre attenta ad ogni dettaglio,
perché non
vuole mai essere colta in fallo: vuole coglierci te. E in questo modo
diventa ogni giorno più nervosa. E odiata.
-Se accettasse di
essere umana e fallibile, forse vivrebbe un po' più
tranquillamente.
E anche la sua famiglia vivrebbe più tranquillamente.
-Il punto è
che lei, per come la vedo, ha fatto voto con se stessa di diventare
infallibile.
-Dev'essere uno shock per lei rendersi conto che sua
figlia, il suo prolungamento, il suo bambolotto, sta crescendo
diversamente da come lei l'aveva progettata. Fuori dal suo controllo,
e per di più così criticabile.
-Lo
credo anch'io. Bianca ti aveva detto che il marito la picchia? Credo
che in quella famiglia nessuno sia molto stabile emotivamente. Non
c'è da sorprendersi che la figlia sia cresciuta
così.
-Ma che
cos'ha la gente? - sbuffò Emanuele –
Perché non riescono a star
tranquilli? Perché non si comprano una Playstation con una
serie di
picchiaduro e non sfogano le loro frustrazioni lavorative?
Camilla
rise, e per quella sera decisero di sfogarsi con una sessione di
Tekken, per prevenire la possibilità di diventare dei
cinquantenni
frustrati o di mettersi a insultare Gengis perché quel mese
non
avevano avuto l'aumento.
Bianca rimase assente un'altra
settimana.
I commenti della classe erano ogni giorno più
velenosi, ma gli insegnanti avevano deciso di scoraggiare i
pettegolezzi. Rimproverarono ad alta voce tutti coloro che si
ritennero in dovere di criticare pubblicamente Bianca. Ma questo non
fece che inasprire le antipatie nei suoi confronti, e nessuno ne
poteva più di sentirsi chiedere perché la Ferreri
avesse sempre un
trattamento di favore.
-Ma insomma, fatevi gli affari vostri –
sbottò un giorno Emanuele – volete spiegarmi
perché perdete così
tanto tempo a chiedervi perché Bianca riceva un ipotetico
trattamento di favore, e non ne perdiate neanche un po' per pensare
che magari avete voi per primi delle mancanze scolastiche?
-Alle
mie mancanze ci penso separatamente – sibilò
Monica Miotto – ma
non capisco perché le mie,
di mancanze, non passano, mentre sulle sue
si chiude sempre un occhio in qualche modo.
-Ma è un problema
tuo, Monica? Ti riguarda in qualche modo?
-Sì che mi riguarda,
perché io penso sempre per me prima di tutto, ma pretendo di
essere
trattata come gli altri. O che gli altri vengano trattati come me, in
questo caso.
Il suo discorso in effetti aveva senso, ed Emanuele
non sapeva bene come replicare. Fortunatamente, Cappelletto decise di
intervenire proprio in quell'istante.
-Senti, Miotto – sbottò,
minaccioso – se non chiudi quella bocca ti avverto che ti
spacco il
naso un'altra volta.
-Lo sente, prof?! - strillò Monica – Vede?
Qua ci sono delle preferenze!
-Che
preferenze ci sono?! Non ti ho neanche toccata, cretina. Ma faccio
presto a toccarti se continui con i tuoi discorsi del cazzo.
-Uuuh!
- fece qualcuno dal fondo della classe; Cappelletto si
voltò, con
sguardo truce.
-Sia ben chiaro che io, la Miotto, non la toccherei
mai
in quel senso. Solo con un pugno o con le tenaglie –
precisò,
rabbioso.
-Lo sente, prof?!
-Ragazzi, veramente, piantatela
– Emanuele si stava seccando – e va bene,
dedichiamo quest'ora
alla discussione sul fatto che Bianca secondo voi viene trattata
meglio di tutti gli altri. Ci perdo volentieri un'ora di lezione. In
cambio, però, voglio sentire da voi argomentazioni sensate.
È chiaro? Voglio che mi facciate capire
come mai avete così a cuore questa faccenda delle assenze, e
in
quale modo queste assenze influiscano sulla vostra vita
scolastica.
La classe si zittì velocemente. Tutti lo guardarono,
ma nessuno aprì bocca.
-Allora? - insistette – Nessuno che mi
sappia spiegare quali danni irreparabili sono stati inflitti sulla
vostra persona dalle assenze di Bianca?
-Se io stessi assente per
tutti questi mesi, mi boccerebbero – grugnì
Valentina Tessari, dal
fondo della classe. Era una che passava metà della sua vita
sui
libri, e aveva sempre odiato Bianca perché a lei i buoni
risultati
uscivano senza sforzo.
-Forse ti boccerebbero perché hai cinque
materie sotto e il resto con un sei tirato, Valentina, non tanto per
le assenze – specificò Emanuele.
-E allora solo perché quella
è brava a scuola può stare a casa tutti i giorni
che
vuole?!
-Scusa, noi dovremmo bocciare una studentessa valida, che
per di più dopo le assenze recupera con le interrogazioni
tutto il
programma, che di solito si studia da sola, perché ogni
tanto si
ammala e ha problemi a venire a scuola? Ma che discorsi stai facendo,
Valentina? Ragazzi, che ragionamenti fate, voi, nella vostra
testa?
-Vede? - esclamò Monica, sbarrando gli occhi e puntando un
pugno sul banco – Fate le preferenze perché ha
voti alti!
-Non
siete altro che un branco di vipere! - si esasperò
Cappelletto,
scattando in piedi e fissando torvo Monica – Se una
è brava a
scuola e quando torna dalle assenze dimostra di sapere il programma,
che motivo c'è di bocciarla?! Questo
ti sta dicendo il prof, stronza pettegola del cazzo! -
guardò
Emanuele, nervosamente – Giusto...?
-Giusto – confermò
Emanuele – ma vediamo di mantenere un linguaggio decoroso.
-Il
mio linguaggio è
decoroso!
-Non parlava con te, serpe. Parlava con me.
-Non ti
permettere di chiamarmi “serpe”!
-Beh, sei
una serpe, e serpi siete tutte quante – diede uno sguardo
accusatorio in giro – beh, a parte Morticia, lei si salva.
Voi non
sapete niente,
però pretendete di parlare. Giudicate, e criticate, e
rompete sempre
le palle. Ma una vostra vita di cui occuparvi non ce l'avete mica...?
Dovete per
forza
parlare tutto il tempo di quella di Bianca?
-Non è colpa nostra
se lei si mette in mostra!
-Monica, Dio santo, come fa a mettersi
in mostra se è assente?! - intervenne finalmente Valeria,
sbuffando.
Valeria parlava spesso sbuffando e borbottando, ma stavolta
sbuffò
più forte del solito. - Per favore, facciamoci gli affari
nostri. È
vero che rompeva le palle quando c'era. Ma adesso che non
c'è, non
vedo il bisogno di stare qui a farle la festa alle spalle.
-Io le
direi le stesse cose esattamente in faccia!
-E allora digliele
quando torna, no? Invece che farci perdere ore di lezione per queste
stronzate.
-Non sono ore perse. È giusto
discutere di queste cose.
-Ma fammi il piacere. Tu ti sei vista
troppo Gossip
Girl.
-Bianca
non ha niente a che vedere con Serena Van Der...
-Ragazzi, non vi
ho lasciato un'ora di discussione per parlare di Serena Van Der
Woodsen.
-Non l'ho tirata fuori io – si inasprì Monica.
-Per
favore, piantiamola – borbottò Valeria, con un
sospiro, alzando
gli occhi al cielo.
-Avete qualcos'altro da dire? - invitò
Emanuele – Prego. Ormai l'ora è stata dedicata al
dibattito.
Proteste? Suggerimenti? Veleno gratuito-ops, scusate, mi è
sfuggita?
-Lei sta dalla sua parte come tutti gli altri –
sputò
Valentina – l'ha data anche a lei, per caso?
La classe ammutolì.
Perfino Monica guardò Valentina con stupore. Quella si
guardò
attorno, nervosa.
-Beh? Cosa c'è? Lo pensate tutti, no?
-Ma
solo tu puoi essere così cretina da dirlo –
mormorò nella sua
direzione Crivellaro, scuotendo la testa.
-Lo sai che potrei
prendere seri provvedimenti per questa insinuazione? - le fece
notare, con calma, Emanuele – Non puoi muovere simili accuse
a un
professore. È molto grave. Potrei denunciarti per
diffamazione, se
non fossi un po' più umano di molti colleghi e non prendessi
le tue
parole per ciò che sono, ovvero gli sfoghi di una ragazzina
di
sedici anni infuriata.
-Dica pure frustrata
e
imbecille
– borbottò Cappelletto, lanciandole
un'occhiataccia.
-Vi prego,
piantiamola – gemette Valeria, con aria estremamente seccata,
reggendosi la tempia con una mano – vi giuro, siete
deprimenti.
-Detto dalla regina dei depressi...! - sibilò
Valentina, ma Valeria si limitò a sospirare e a scivolare
sempre di
più verso il banco – E a proposito di depressi, lo
so benissimo
come fa a ottenere quel che vuole ogni volta. Buu-huu, lacrimucce di
coccodrillo. Poverina, quanto mi dispiace per lei,
buu-huu-huu.
Cappelletto si alzò e iniziò a marciare verso il
banco di Valentina, ma fu prontamente fermato dalla mano di Valeria,
che si sporse dal banco ad afferrare il lembo della sua felpa. Questa
sospirò ancora, guardando davanti a sé con aria
tremendamente
annoiata.
-Spero che il resto della classe serbi delle
argomentazioni più serie a sostegno delle proprie accuse
– riprese
Emanuele – ma prima che me le esponiate, lasciatemi dire una
cosa.
So che è molto facile fermarsi alle apparenze e puntare il
dito
contro qualcuno, e so anche che creare un capro espiatorio da
caricare di tutte le nostre frustrazioni è ancora
più semplice. Ma
la verità è che non sappiamo niente di quello che
provano gli
altri. Un vecchio proverbio indiano dice: prima di giudicare un uomo,
cammina per tre lune nei suoi mocassini.
Ci fu un attimo di
silenzio.
Poi Valentina fece schioccare la lingua con
sprezzo.
-Sono tre anni, non tre lune,
che ce l'ho in classe. Giunti a questo punto credo di avere il
diritto di giudicarla.
Emanuele si passò una mano sugli
occhi.
-Allora io ho diritto, dopo tre anni, a giudicarti una
vipera pettegola come la tua amichetta Miotto – insorse
Cappelletto, instancabile.
-Io me ne vado – fece Valeria,
alzandosi e incamminandosi verso la porta – prof, aspetto qua
fuori
in corridoio con l'iPod. Mi fa un chiamo quando riprendiamo con la
lezione?
-Aspetta – la chiamò Emanuele; lei si
fermò
sull'uscio. Tornò a rivolgersi alla classe. - Sinceramente,
mi
aspettavo qualcosa di più da voi –
incominciò, con un tono calmo
che li fece ammutolire. Continuò. - Quantomeno che aveste la
decenza
di zittirvi, dopo che vi è stato spiegato che non
c'è nessun
trattamento di favore. Sto ancora cercando di capire cosa vi sia
stato tolto, cos'è che vi rode così profondamente
il culo, ma
proprio non ci arrivo. - Scosse la testa. - Perdonatemi. Non riesco
a mettermi nei vostri panni.
Detto
ciò, chiuse la Divina
Commedia
e si abbandonò beatamente sulla sedia.
-Fate quello che volete,
per quest'ora – li esortò – tanto, la
lezione era comunque
andata persa.
Ma nessuno osò più aprire bocca. Valeria rimase
ferma sulla soglia fino alla fine dell'ora, tormentandosi i guantini
di pizzo, Cappelletto fissò rabbiosamente quel punto fuori
dalla
finestra su cui Bianca era solita posare lo sguardo, e il resto della
classe rimase solennemente in silenzio finché non
suonò la
campanella della sesta ora; ma anche in quel momento, fino a che
Emanuele non ebbe recuperato la ventiquattrore ed ebbe varcato la
porta con un noncurante “a domani”, non
volò una mosca in tutto
lo spazio dell'aula.
Mariolina, più tardi in corridoio, gli
chiese cos'avesse mai fatto per farle trovare la classe muta e
perfettamente immobile al temibile cambio della quinta ora.
Camilla
fu scandalizzata dal comportamento della classe, e prese apertamente
le difese di Bianca.
-Com'è possibile che non si siano accorte
dei suoi problemi? - fu il suo commento – C'erano anche loro,
quando lei piangeva.
-Ma per loro era buu-huu-huu. Questi sono i
livelli della terza A. E io che speravo di avergli insegnato
qualcosa; non la Divina
Commedia,
per carità... ma un po' di comprensione umana. E anche un
po' di
sana voglia di farsi gli affari propri.
-Non ho veramente parole –
mormorò Camilla, scuotendo la testa – che
ragazzini crudeli. Una
loro compagna è assente da due settimane, e loro non pensano
ad
altro che a sparlare di lei quando è assente.
-Per la verità,
non ci vanno leggeri nemmeno quando è presente –
le rammentò –
però è orribile da parte loro fare questi
paragoni. Se non fosse
evidente che ha dei problemi, potrei forse capirli. Ma è
talmente
lampante.
-Questo
succede quando uno non vuole vedere – osservò
Camilla – se si
togliessero le mani dagli occhi, sarebbero costretti a guardare, e a
prendere atto di quelle che sono le ragioni di Bianca. È
più
semplice coprirsi la visuale e sostenere pervicacemente le proprie
idee, per miopi che siano.
-Precisamente. So che come insegnante
dovrei mantenere la neutralità, ma non riesco a stare calmo
e
cercare di conciliare. Se mi fanno infuriare, io li tratto da
stupidi. Non dovrei, ma non riesco a fare altrimenti.
Camilla
sorrise e gli accarezzò dolcemente un braccio.
-Se servisse a
qualcosa, poi – continuò, imbronciato –
se trattarli da idioti
servisse a farli crescere, a farli rendere conto. Ma poi li guardo e
mi rendo conto che non è servito a niente, che ci ho solo
rimesso un
pezzo di fegato per avere come risultato un muro di ottusità
che si
alza di giorno in giorno. Capisci? Tu pensi di averlo abbattuto, poi
alzi gli occhi e vedi che è più alto di prima.
-Capisco molto
bene.
-Pensi di aver lasciato il segno, di aver significato
qualcosa. Di averli cambiati,
almeno un po', di aver indotto una piccola riflessione, almeno.
E invece nulla. E sai qual è la cosa peggiore? Non so
nemmeno
distinguere se sia io, il fallimento, o se lo siano loro.
-Il tuo
solito problema – commentò Camilla, seguendo
delicatamente il
contorno del suo viso con l'indice.
-Sì, è il mio solito
problema. Mi do la responsabilità delle mancanze degli
altri,
pensando che se io davvero valessi qualcosa, sarei riuscito nel mio
intento di migliorarli.
-Mi sembra di averla già sentita, questa
– sorrise lei.
-Lo so, è storia vecchia. E so che è sbagliato
definirmi in base alla misura in cui riesco a scalfire una parete di
pietra con una forchetta di plastica. Ma non riesco a farne a meno,
capisci. Forse idealizzo troppo il ruolo dell'insegnante. Magari ho
sbagliato mestiere.
-E che mestiere vorresti fare? - Camilla era
divertita.
-Non so. Forse lo psicologo della scuola – scherzò
–
o forse semplicemente il papà.
A quell'affermazione seguì un
silenzio stupito da parte di Camilla, che boccheggiò per
qualche
secondo fissandolo con uno sguardo spaesato.
-Ehi – ridacchiò,
dandole un pizzicotto su una guancia – Emanuele chiama base.
Sei
ancora tra noi?
-Io... - fece lei, confusa – cioè... io...
cioè... ma tu... cioè. Tu vorresti... davvero?
-E perché no?
Sì, direi che una graziosa piccola Camilla che trotta per la
casa
non mi dispiacerebbe.
Lei lo guardò, a bocca aperta. Emanuele
rise. Per un bel po', rimasero così; lei che alzava gli
occhi dal
piatto e lo guardava sbalordita, lui che incontrava il suo sguardo e
rideva.
Sì, pensò. Una piccola Camilla che zampettava
attorno al
tavolo non gli sarebbe dispiaciuta affatto.
Bianca non si
presentò per un'altra settimana di fila.
Emanuele sapeva cosa
stava succedendo: Bianca era immobile nel suo letto a piangere.
Sapeva che stava andando avanti da una ventina di giorni. Sapeva; e
nonostante questo, pensava disprezzandosi, cercava di allontanare
l'immagine di Bianca dalla sua mente, riempiendola con qualsiasi cosa
gli capitasse sottomano.
Tornando da scuola, il mercoledì, si era
fermato alla Feltrinelli ed era tornato a casa con una quindicina di
volumi.
-Così tanti? - si era stupita Camilla.
-Troppo pochi –
aveva replicato – insegno pur sempre Lettere; questi
dovrebbero
essere il minimo.
Non
amava mentirle, ma non voleva, a nessun costo, torturarla di nuovo
con la figura di quella ragazzina. Preferiva consumarsi dentro e
combattere ogni singolo istante coi suoi sensi di colpa, ma farlo
rigorosamente da
solo.
Aveva promesso a se stesso e a lei che non l'avrebbe mai più
coinvolta. Intendeva mantenere.
E fu così che Emanuele decise che
era tempo di farsi la tessera d'abbonamento al cinema, e, quella
settimana, ci andarono una sera sì e una no.
Nei giorni che
rimanevano, si organizzò come meglio poteva: un giorno
osservò che
era da tanto che non si vedevano con Simonetta e Nicola, e quindi li
invitarono a cena; un altro giorno accettò la proposta di un
happy
hour da parte degli amici del paese, che poi tirò avanti
fino a sera
tardi; il giorno rimanente era sabato, e il sabato poteva anche
prendere e andare via con Camilla in giornata.
Ma Camilla voleva
rimanere a casa.
-Come, a casa? - le chiese; ma si rese conto di
suonare piuttosto ansioso – Non ti va di fare una piccola
gita
assieme? Torniamo stasera. Una cosa tranquilla.
-È una bella
idea, amore, ma oggi sono un po' stanca. Stasera usciamo, e andiamo
dove vuoi, ma oggi posso rilassarmi un poco a casa mia? Solo per oggi
– promise, con il suo sorriso dolce.
Ma Emanuele era nervoso.
Quando non aveva nulla con cui occuparsi, i pensieri lo assalivano,
come un plotone di soldati che attaccasse un forte
medievale.
Pranzarono pigramente – si erano alzati piuttosto
tardi – e, dopo il caffè, Camilla prese un libro e
si sistemò
comodamente sul divano. Emanuele fece un po' di zapping, ma non
trovò
nulla d'interessante – doveva ricordarsi di andare a
informarsi sul
digitale terrestre.
Propose una sessione di shopping in centro, ma
Camilla rispose che per quel mese, per via del weekend a Parigi,
avevano già speso parecchio, quindi non era il caso.
-Un giretto?
- implorò Emanuele – Solo per uscire di casa.
Lei sollevò due
occhi molto sorpresi dal libro che stava leggendo.
-Ema –
incominciò, perplessa – è tutta la
settimana che siamo in
giro.
-Lo so – fece lui, incapace di replicare.
-Stasera
usciamo, te l'ho promesso. Non va nemmeno a me di stare chiusa in
casa. Andiamo anche a prendere lo spritz prima di cena, se vuoi. Ma
lasciami qualche oretta di pace, sii gentile.
Camilla sfoderò uno
dei suoi famosi sorrisi, ed Emanuele non poté rispondere
nulla. Si
rassegnò ad afferrare un libro e ci mise un'ora solo per
leggere una
decina di pagine. Continuava a perdere il filo, e a riaggrapparcisi
con forza non appena il suo pensiero premeva per raggiungere
Bianca.
Ad un certo punto, Camilla chiuse il libro e si voltò
verso di lui.
-Che cosa c'è? - chiese, pacata, ma decisa.
-Io?
Nulla – Emanuele fece una faccia sorpresa; ma mentire era una
cosa
che non gli riusciva molto bene, specie con la ragazza con cui
conviveva da ormai tre anni.
-Mi sembri irrequieto – osservò
quest'ultima – lo sei da tutta la settimana.
-Dici? -
temporeggiò; tornò ostentatamente al proprio
libro.
-Dico –
insistette lei – sembra che tu non riesca a stare fermo e in
silenzio due minuti.
-Ma va'.
-Allora mi sono
sbagliata?
-Amore, è tutto a posto. Davvero.
Camilla tacque
per qualche secondo; Emanuele continuò a fissare le pagine
del
libro, senza però leggere nemmeno una sillaba. Sentiva che
lei lo
stava guardando, e aveva la brutta sensazione di stare
arrossendo.
-Bianca è stata assente, questa settimana? - chiese
lei alla fine.
-Eh? - fece lui, guardandola con aria
sorpresa.
-Bianca è ancora assente, vero? Sei preoccupato per
lei? È per questo che non riesci a tranquillizzarti?
-Ma no –
esclamò, con fin troppa enfasi – non c'entra
niente. Sì, è
assente, ma non è per lei che... cioè...
-Allora ammetti di
essere un po' teso.
-Cami...
-È per lei...?
Abbassò la
testa, sconfitto.
-Credo di sì – ammise. - Cioè.
È per me,
più che per lei.
-In che senso? - chiese Camilla. Non sembrava
arrabbiata. Ma non sembrava nemmeno partecipe. Quella
neutralità un
po' lo spaventava.
-Nel senso che lei è a letto a piangere, e io
lo so. Ma benché io lo sappia cerco comunque di
dimenticarmelo.
Cerco di allontanarla dai miei pensieri, e questo non è
giusto. È
egoista.
-È per non pensare a lei che stiamo facendo questo tour
de force?
-Camilla,
ti prego, non fraintendere. Ti prego.
-Non c'è molto che io possa
fraintendere.
-Sì, ma... non fraintendere.
-Ema... - Camilla
sospirò, rassegnata. - Non so cosa pensare. Sembra che,
qualunque
cosa io faccia, quello che fa lei sia sempre più importante.
Il tuo
umore cambia in base al suo. E io non riesco nemmeno a far qualcosa
per riportarlo alla stabilità.
Emanuele ammutolì.
-Sai –
continuò Camilla – se lei non avesse sedici anni,
penserei che tu
te ne sia innamorato.
-No
– esclamò – no. Nel modo più
assoluto, no.
-Già.
È per questo che è triste. Non ne sei innamorato,
eppure riesce a
coinvolgerti più di quanto riesca a fare io. Devo dirti la
verità?
Mi sento molto triste. E insignificante.
Camilla non pianse, non
si arrabbiò, non lo guardò nemmeno. Si
limitò a mettere il segno
al libro che stava leggendo e ad avviarsi su per le scale, con
un'espressione amara che non le aveva mai visto.
Emanuele si sentì
sprofondare.
Che cosa doveva fare? Cosa doveva fare?
Preoccupandosi per Bianca, feriva Camilla. Preoccupandosi per
Camilla, doveva trascurare Bianca. Trascurare Bianca significava
ferire anche sé stesso. Ma anche ferire Camilla significava
ferire
sé stesso.
E d'altronde, cosa poteva fare? Andare da Bianca,
dirle: “esci da quella stramaledetta depressione, cazzo, mi
stai
rovinando la vita”? O andare da Camilla e dirle
“è mio pieno
diritto rovinare la mia esistenza e la tua perché quella
ragazzina
mi sta divorando anima e corpo”? E a se stesso, cosa poteva
dire?
Non era nemmeno in grado di reprimere quello che provava. Ma era poi
giusto, reprimersi? Sarebbe cambiato qualcosa, anche se avesse finto
indifferenza verso Bianca? Ed era davvero una colpa, se si ritrovava
a preoccuparsi così tanto per lei? Non l'aveva certo chiesto
lui;
fosse stato per lui, avrebbe continuato a vivere sereno nella sua
casa con la sua fidanzata e la sua vita tranquilla.
Fermo, si
disse a un certo punto. Qui siamo a un punto morto.
Aveva evitato
di affrontare il problema per tutta la settimana, e, quando l'aveva
affrontato, si era ritrovato davanti a un muro. Ma era tempo di porsi
una domanda: possibili soluzioni?
Poteva andare a parlare con
Bianca. Ma questo non avrebbe risolto molto. Tanto più che
non
sembrava fosse in grado di parlare con chicchessia.
Oppure poteva
parlare con Camilla, rassicurarla, farle un'altra sorpresa magari, ma
sapeva che non avrebbe funzionato. Le sorprese funzionano una volta
sola. Ed era certo che ormai lei non credesse più alle sue
promesse.
Ma poi un pensiero gli attraversò la mente.
Il
problema, in fin dei conti, non era suo.
Certo, era anche suo,
dato che sia Bianca che Camilla facevano il possibile perché
lui
avesse ben chiari i loro tormenti e se ne preoccupasse. Ma il vero
problema, in fin dei conti, era tra quelle due. Non suo.
Perché
doveva perderci lui
il sonno, solo perché Bianca non era in grado di accettare
che lui
amasse un'altra, e Camilla non era in grado di accettare che lui
avesse un legame profondo con un'altra persona?
A quel pensiero si
risentì parecchio contro le due, e improvvisamente si
sentì di
nuovo forte.
Salì le scale a passo di marcia e scovò Camilla
seduta sul letto, che leggeva il suo libro con aria profondamente
contrariata. Spalancò la porta e la guardò,
determinato.
-Vestiti
– le disse – per favore. Vorrei portarti in un
posto.
-Quale
posto? - chiese lei, con distacco. Non si fece scoraggiare.
-Ti
porto dalla fonte di tutti i tuoi malesseri.
-Cioè...?
-Ti
porto da Bianca – replicò tranquillamente, e,
quando lei aprì
bocca per protestare, riprese immediatamente. - Ti porto a vedere lo
stato in cui versa, e, se siamo fortunati, forse ci potrai anche
scambiare due parole. Purtroppo devi arrenderti davanti a un fatto:
non intendo smettere di preoccuparmi per lei. Finché lei si
rivolgerà a me, io continuerò a risponderle. Per
cui, se vuoi che
io smetta di pensare a una ragazzina di sedici anni che due mesi fa
ha tentato il suicidio e ora sta in un letto a piangere in stato
catatonico, dovrai andare lì personalmente e dirle di uscire
dalla
mia vita. Perché io non ce la butterò mai
fuori di mia volontà, mettitelo bene in testa.
Camilla lo guardò,
e nel frattempo iniziò a piangere in silenzio. Ma Emanuele
era
deciso a proseguire.
-Mi dispiace, Camilla. Mi dispiace davvero
per quello che sta succedendo. Ma tu stai comportandoti decisamente
da bambina, scusa la franchezza. Tu sei meravigliosa, e dolce, e
intelligente, e io ti amo da morire. Ma non puoi pretendere che tutte
le mie attenzioni siano per te, in un momento come questo. Sembra che
tu non voglia capire una cosa: io non
sto
pensando a lei come fa un innamorato. Sto pensando a lei come faresti
tu stessa se una tua nipotina di sedici anni si ammalasse di
depressione. Tu hai una cuginetta che ha più o meno la sua
età,
vero? Vittoria. Giusto?
Camilla annuì tra le lacrime.
-Ecco.
So che le vuoi molto bene. E so che se tentasse il suicidio ti
preoccuperesti molto, sbaglio? Se non la vedessi per quasi un mese, e
sapessi che in tutto quel tempo è chiusa in casa a pensare
che la
vita è una merda e che quindi non vuole più
viverla, tu non saresti
preoccupata? Cazzo, non ti tormenteresti giorno e notte...?
Annuì
ancora, singhiozzando ed asciugandosi il viso.
-Ecco. E allora
perché mi costringi a dover far finta di niente? Se una
persona a
cui tieni versasse in questo stato, non verrei mai da te a pestare i
piedi perché non sei perfettamente concentrata su di me e
sul nostro
rapporto. Penserei che passi un periodo di merda e che sei
preoccupata per quella persona. E allora perché tu non puoi
fare lo
stesso con me?!
Camilla scoppiò a piangere rumorosamente, ed
Emanuele le si avvicinò. Si sedette su una sponda del letto.
-Io
non ti ho mai trascurata per lei, in fondo –
continuò, a bassa
voce – non ho mai rifiutato di uscire, o di fare l'amore, o
ti ho
risposto male. Eppure tu te la prendevi con me, perché
spesso ero
triste. Avrei preferito che tu mi stessi vicino, anziché...
accusarmi.
L'aveva detto.
Quella sensazione che aveva sempre
avuto, ma che non era mai riuscito a distinguere chiaramente, ora era
uscita a parole senza che lui dovesse cercarla. Era venuta
così,
naturale.
Era la verità.
-Non volevo fare i capricci –
singhiozzò Camilla – io volevo... volevo essere
una brava
fidanzata, che non ti dà problemi. Però... tu mi
dici che devo
parlarti, quando qualcosa non va. E allora io ho parlato. Ma tu ti
sei arrabbiato. E allora vedi? Dovevo stare zitta –
singhiozzò
ancora più forte, nascondendo il viso tra le ginocchia. Le
accarezzò
dolcemente la schiena.
-Hai fatto bene a parlare – le sussurrò
– perché, se non avessi parlato, io non avrei
potuto dirti che ti
preoccupi inutilmente. Non ti sto dicendo che non esprimere le tue
sensazioni, né ti sto accusando per il fatto di provarle: se
ti sei
sentita messa da parte, probabilmente hai avuto le tue ragioni. Ma ci
tenevo a spiegarti quel è il mio atteggiamento nei confronti
di
Bianca, perché tu la stai mettendo sul tuo stesso piano,
mentre lei
non è affatto sul tuo stesso piano, e non lo sarà
mai. - Sospirò.
- Io non ti permetterei mai di ucciderti. Non cercherei di
dimenticarti solo perché lei me lo chiede. E se tu passassi
le
giornate a piangere, lo farei anch'io.
Camilla sembrò calmarsi.
Lo guardò, sperduta, in attesa che continuasse.
-Però, adesso a
trovarsi in difficoltà è lei –
spiegò – e quindi devo
dedicarle le mie attenzioni, il mio aiuto. Io le voglio bene,
Camilla. Mi spezza il cuore vedere come si è ridotta quella
ragazzina così giovane, dato che, per quanto tu lo odi, mi
ci sono
affezionato. Non puoi chiedermi di non essere in pensiero per lei,
perché mi ha detto delle cose che mi hanno paralizzato.
Cerca di
capirmi, ti prego. Cerca di starmi accanto. Perché se ti ho
scelto è
perché non ritenevo che nessuna ne fosse in grado... a parte
te.
Tacque. Posò lo sguardo da qualche parte sulla trapunta
colorata, come se le chiedesse cosa fosse più giusto fare.
Poi lo
spostò sulla finestra, e infine tornò negli occhi
di Emanuele.
-Io
– iniziò con voce roca – posso
accettarlo. Ma lo faccio
fidandomi ciecamente di te. È l'unico modo in cui riesco a
scendere
a patti con una cosa del genere.
-Tu puoi fidarti – esclamò –
qualsiasi cosa accada, tu devi sapere che io non me ne andrò
mai.
Non ti sei fidata di me, fino ad oggi?
-Sì – mormorò lei,
abbassando gli occhi.
-Ehi – la chiamò – ti sei sempre fidata
di me?
Ma lei non rispondeva.
-Camilla.
Lei sollevò il viso
e gli rivolse un'occhiata molto triste. Aprì la bocca, poi
la
richiuse. Poi sembrò ancora più triste.
-Non ti fidi...?
-N...
non è che non mi fidi – incominciò,
incerta – è che tu hai
sempre avuto decine di ragazze. In paese ti avevano anche
chiamato...
-Ok, tralasciamo come mi hanno chiamato.
L'avevano
rinominato il maiale del paese, per dirla in termini diplomatici. Una
fama che si era decisamente guadagnato.
-Perché ne conquistavi
una dietro l'altra. E non sono mai riuscita a capacitarmi che tu
avessi scelto proprio me. E solo
me.
-Ma, scusa, Camilla, perché avrei dovuto chiederti di
sposarmi, se avessi avuto ancora voglia di fare il coglione?
-Non
lo so. In tanti lo fanno perché a
trent'anni è ora di sistemarsi,
e poi magari tradiscono la loro compagna, o...
-Senti, ma è
questo che pensi di me? No, perché, se questa è
l'opinione che ti
sei fatta sul sottoscritto, c'è da domandarsi
perché tu abbia
risposto 'sì'.
-Perché io ti amo.
-Lo dici come se intendessi
'a differenza tua, io
ti amo'.
-Non intendevo questo.
-Davvero...?
-Per favore,
basta – gli occhi di Camilla si bagnarono di lacrime
– non voglio
litigare con te. Voglio solo stare tranquilla. Voglio solo... voglio
solo...
Incapace di esprimersi, scoppiò nuovamente in lacrime.
Emanuele rimase vicino a lei, guardando la trapunta, inespressivo.
Alla fine, molto lentamente, parlò.
-Mi sembra di capire – le
disse – che il problema non sia Bianca.
-No – ammise Camilla,
tra i singhiozzi.
-Il problema è che tu non ti senti sicura di
me.
Lei non rispose, ma pianse più forte. Lo prese come un
'sì'.
-Non che non ce l'abbia con te, ma dev'essere in parte
colpa mia, se lo pensi. Ho fatto qualcosa perché tu lo
pensassi?
-No
– sussurrò lei – mai.
-Ma neanche niente perché tu non lo
pensassi, giusto?
-Io ho sempre cercato di fare del mio meglio –
fece lei, con voce tremante – perché tu rimanessi
vicino a me. Di
essere sempre calma e gentile, di non darti pensieri. Perché
ho
paura che tu te ne vada.
-E da chi dovrei andare...?
-Da... da
quelle che ci provano. Da quando ti conosco ce n'è sempre
state, in
continuazione.
-Ah, beh, sì. Io vado con chiunque me lo chieda.
Sicuro.
-Non volevo dire questo!
-Però purtroppo l'hai detto,
si vede che ti è sfuggito. Mi spiace che tu lo pensi, ma,
no, non
sono assetato di sesso al punto di andare con tutte quelle che ci
provano. A questo punto, dovrai pensare che la proposta di matrimonio
sia stato qualcosa come un pesce d'aprile, dato che comunque io sto
con te per finta, vado con le altre e non me ne frega niente di
te.
-No! - gridò Camilla, e scoppiò in singhiozzi
disperati.
Fantastico, pensò Emanuele. Dovunque si girasse,
c'erano donne che piangevano perché l'amavano.
Era un po'
arrabbiato, perché anche lui avrebbe voluto urlare che
rivoleva la
sua vita di prima, quella senza dubbi e problemi e lacrime.
Ma non
poteva più accusare Bianca di avergliela rubata.
Bianca non aveva
fatto altro che risvegliare delle vocine addormentate sepolte nella
parte più profonda di loro stessi; quella parte in cui
finora,
nonostante dormissero fianco a fianco e respirassero in coro, non
avevano ancora avuto modo di scavare.
Modo, oppure volontà.
Oppure coraggio.
Perché era pur vero che, in fondo, i timori di
Camilla non erano per nulla infondati, e di questo non poteva
accusare altri che se stesso.
Quel giorno non andarono da
Bianca. Nemmeno Emanuele ci andò, non ce la faceva.
C'era troppa
tristezza dentro di lui per riuscire a sostenere anche quella di
Bianca. Quelli per ritornare in sella del suo candido destriero non
erano stati altro che vani tentativi.
In realtà, quel giorno
avrebbe voluto dormire da un'altra parte, lontano da Camilla. Aveva
voglia di starle lontano, e ne soffriva enormemente, perché
non
aveva mai voluto starle lontano nemmeno per un secondo.
Capì che
si può perdere l'amore anche quando non sono gli altri a
negarcelo:
può anche sfuggirci scivolando attraverso le nostre stesse
dita, e
noi possiamo solo guardarlo andarsene, volando lontano come granelli
di sabbia cullati dolcemente dalla brezza che, alla fine del loro
viaggio, si disperdono nel mare per sempre.
Quella settimana
si parlarono poco, sempre cortesemente, fingendo che qualcosa non si
fosse rotto tra di loro; ma era nell'aria, l'avvelenava e la rendeva
irrespirabile. Quella gentilezza formale non era ciò a cui
erano
abituati. Non fecero mai l'amore, quella settimana, e dormirono senza
abbracciarsi per qualche giorno. Alla fine si riavvicinarono, ma
quando si toccavano sembrava toccassero una superficie rovente.
Nessuno disse nulla al riguardo.
Stiamo per sposarsi, pensava
Emanuele, ed ecco come siamo ridotti.
E ciò che più gli faceva
male era che Camilla aveva un grande peso nel cuore, ma non ne
parlava, e probabilmente non ne avrebbe parlato mai più,
né di
questo né di altro, per paura di causare una nuova rottura.
Un
giorno, quando il pensiero di Camilla che soffriva dentro di se in
silenzio gli divenne insopportabile, l'abbracciò forte sotto
il
piumone e versò qualche lacrima tra i suoi capelli.
Lei gli
strinse forte le mani e lui circondò la sua schiena
tremante.
Entrambi cercarono di mantenere il silenzio, perché
sentivano che, se avessero parlato, il momento si sarebbe spezzato.
Era un momento così fragile che sembrava ammonirli di non
perderlo,
poiché poteva essere l'ultimo.
*
Bianca
tornò con aprile, con i venti più tiepidi e i
primi timidi
boccioli.
Emanuele ora riusciva a guardarla con reale distacco.
Aveva realizzato che non era lei a costituire la barriera innalzatasi
tra lui e Camilla, quindi si sentiva pronto a guardare la situazione
non come a un problema che lo affliggeva, ma come a un problema che
affliggeva Bianca stessa.
Il due di aprile Emanuele varcò la
soglia della terza A e vide Cappelletto e Valeria attorno al banco di
Bianca; le parlavano. Sorrise. Quando entrò, Cappelletto lo
guardò,
e vide negli occhi di quel ragazzino un sincero sollievo. Nel mentre,
sembrava che Valeria faticasse molto a parlarle – d'altronde
provenivano da due universi totalmente differenti – ma gli
sembrò
un buon segno che ci stesse provando. Del resto, Valeria era una che
parlava poco e aveva un carattere abbastanza scontroso; naturale che
si trovasse a disagio con una come Bianca.
Quanto a Bianca, lei
era come al solito; i capelli rossi sembravano una vampata di fuoco,
l'ombretto nero e l'eyeliner le davano un'aria quasi maledetta che
Valeria, nonostante la sua cipria e il suo trucco da dark lady, non
riusciva in nessun modo ad emanare. Non si era risparmiata
né sulla
scollatura, né sulla porzione di gambe scoperte; i primi
venticelli
caldi l'avevano portata ad eliminare le calze pesanti e a sfoggiarne
un paio di quasi trasparenti, tanto che sembrava avesse le gambe
nude. Portava un paio di ballerine, questa volta, ma l'effetto totale
non ne risultava diminuito di carica sessuale. Benché la
disprezzassero, parecchi dei suoi compagni non riuscirono a non
guardarle le cosce.
-Buongiorno – esordì sorridendo. I ragazzi
lo salutarono, tranquilli. - Come va?
La faceva spesso, questa
cosa del chiedere come andasse. Ci teneva a sapere se i suoi alunni
fossero scontenti o tristi per qualcosa. E sapeva che questo li
faceva sentire considerati anche come esseri umani; bastava
così
poco per andare incontro ai ragazzi, eppure tanti non se lo sognavano
neppure, di domandare loro se andasse tutto bene.
A ben pensarci,
era davvero brutto: se avessero incontrato un conoscente per strada,
sicuramente come prima cosa gli avrebbero detto 'come stai?'. I suoi
colleghi vedevano quei ragazzini ogni giorno, e mai che trovassero la
voglia di chiedere se fosse tutto a posto.
-Male, prof –
bofonchiò Monica, guardando di sottecchi Bianca. Valeria
l'apostrofò
con un:
-Chiudi quella fogna, ogni tanto – mentre Cappelletto le
mostrava il pugno, alzando un sopracciglio con un'occhiata
eloquente.
Bianca aveva trovato due angeli custodi. Gli sembrò di
vedere le sue labbra incresparsi in un accenno di sorriso.
Fu nel
notare questo che si accorse che, sul suo labbro inferiore,
troneggiava un piercing nuovo fiammante a forma di spirale.
E
Cappelletto lo fissava con un'aria decisamente più che
incuriosita.
Notò anche alcuni segni sotto l'occhio destro, e
dalla sciarpina di seta che portava attorno al collo facevano
capolino delle macchie bluastre che Emanuele aveva già visto
in
passato.
Prese un respiro profondo, appoggiò la ventiquattrore e
si disse, resisti.
Cedere non avrebbe mai risolto nulla.
Bisognava
combattere.
-E con questa direi che posso lasciarvi in pace –
asserì, alla fine della spiegazione – siete stati
proprio bravi,
oggi.
Si trattenne dall'aggiungere 'se solo foste sempre
così', cosa che, sapeva, avrebbe avuto il potere di
irritarli
enormemente. Tenne per sé questa considerazione, e vide dei
sorrisi
sulle labbra di alcuni alunni, orgogliosi di sé stessi.
Tentavano di
trattenerli, ma non erano molto astuti. Se ne rendeva conto ogni
volta.
-Questi ultimi cinque minuti sono tutti vostri, fate quel
che volete: colazione, iPod, PSP, disegnare draghi e cavalieri...
basta che non alziate la voce, io intanto mi leggo il mio libro,
ok?
La classe accolse la notizia con entusiasmo e tutti fecero per
lanciarsi sulle loro attività di preferenza; chi
aprì il libro
dell'ora successiva, chi azzannò una merendina, chi, come
Valeria e
Benetazzo, disegnava furiosamente sulle copertine dei quaderni.
Ad
un tratto, però, una ragazza che si chiamava Francesca ebbe
un'illuminazione.
-Prof – esordì – ma lei tra due
settimane
si sposa!
Emanuele alzò gli occhi dal suo Diario
di un vecchio sporcaccione.
Non fece in tempo ad aprire la bocca, che un coro di voci
iniziò a
spargersi nell'aria:
-Ma dai! È vero!
-Il prof si sposa!
-Il
nostro scapolo d'oro!
-Ha per caso cambiato idea, su quel discorso
della spada...?
Sorrise e lanciò loro un'occhiata, senza però
aggiungere altro. Non era certo che a Bianca quel discorso facesse
piacere.
-Allora siamo invitati alla cerimonia? - insistette
Francesca – Possiamo, prof? Non facciamo casino.
-Posso entrare
un attimo prima del bacio urlando 'questo matrimonio non s'ha da
fare'? - lo implorò Cappelletto – Posso, posso,
prof? È il mio
sogno da una vita!
-Semplicemente ti
ammazzerei –
replicò tranquillamente, e Cappelletto sospirò,
scuotendo la testa
– ma se volete venire, prego. Dovete solo prendere un autobus
o due
e farvi un'oretta di treno. Di domenica. E la cerimonia inizia sul
presto. Ricordatevi che la sera precedente è un sabato
– ghignò.
I
ragazzi si guardarono in giro per un attimo, incerti, e un mormorio
percorse l'aula. Ma, alla fine, fu Giulia a prendere una decisione
per prima.
-Io vengo – dichiarò decisa – ci sono
cinquantadue
sabati sera in un anno, ma il prof si sposa una volta sola nella
vita. Almeno questo gli si augura – precisò.
-Grazie, eh,
Giulia?
-Comunque vengo anch'io – asserì Cappelletto
–
sicuro. E viene anche Bianca, vero? E anche Morticia.
Valeria alzò
un dito verso Cappelletto ma poi guardò Emanuele, scocciata,
e
annuì.
Bianca, invece, guardava il davanzale e ridacchiava.
Accortasi che Emanuele e Cappelletto la guardavano, si
affrettò a
tornare seria e fece:
-Cosa? Io? Quel giorno temo di avere un
impegno. Mi dispiace.
Altra ondata di mormorii, questa volta
perfidi. Valeria lanciò in giro delle tali occhiatacce che
smisero
quasi subito, ma la voce che Bianca, oltre che facile, fosse anche
cattiva e maleducata, ormai era partita e difficilmente si sarebbe
fermata.
Tuttavia, ora in classe c'era qualcuno che la difendeva;
a ricreazione notò che i due le stavano vicini, rinunciando
lui alla
compagnia dei suoi amici ricchi e griffati, lei ai suoi amici di nero
vestiti delle altre sezioni. Probabilmente i tempi non erano ancora
maturi per amalgamarla ad altri gruppi, ma il fatto di vederla in
compagnia di quei due le giovò molto: Cappelletto,
nonostante non
fosse granché sveglio, era piuttosto popolare, mentre
Valeria non
era popolare, ma era rispettata, e, laddove non lo fosse, suscitava
comunque una certa inquietudine in coloro che non la conoscevano
bene.
Erano davvero uno strano trio, così diversi, ed Emanuele si
domandò di che accidenti parlassero, perché erano
davvero il
gruppetto peggio assortito di tutta la scuola. Eppure forse proprio
per quello chiacchierarono fitto fitto per tutta la ricreazione, e
vide Cappelletto passarle un braccio attorno alle spalle, e Valeria,
che non era altrettanto propensa alle smancerie, le offrì un
the
alla macchinetta e lanciò insulti e occhiatacce a chiunque
facesse
battute inopportune, che era il suo modo di dimostrare
affetto.
Emanuele decise di azzardarsi a parlarne con
Camilla.
-Sai, oggi è tornata Bianca – esordì,
timidamente.
Lei annuì, e lo guardò in attesa.
-Ha trovato
degli amici – proseguì, con un sorriso incerto
– Cappelletto e
Valeria. Te ne ho mai parlato?
-Mmh, sì.
-Ecco. Ora girano con
lei a ricreazione, la difendono. La situazione è
migliorata.
Inaspettatamente, Camilla sorrise.
-Mi fa piacere –
disse – davvero. Sono felice per lei.
Allungò una mano verso di
lui, e suonò come l'alzata della bandiera bianca.
Emanuele la
strinse e chiuse gli occhi, sentendosi un peso scivolare giù
dalle
spalle come una colata di cemento.
Il giorno dopo, al
gruppetto si unì Benetazzo. Si era avvicinato principalmente
per
parlare a Valeria di un concerto, ma poi rimase a chiacchierare anche
con gli altri due. Ad un certo punto, lo sentì esclamare:
-Ferreri,
ma tu non sei stupida, cazzo. Fai di tutto per sembrarlo, ma non lo
sei
–
decretò, mani sui fianchi. Cappelletto gli mise una mano
sulla
spalla.
-Mi dispiace dirlo, ma PeneCazzo ha ragione –
affermò –
non dovresti far finta di avere il cervello vuoto, o che dentro ci
siano solo enormi cappellotti.
-Così come questa qui non dovrebbe
far finta di essere una strega cattiva – soggiunse Benetazzo,
guardando Valeria con una certa dolcezza. Lei lanciò
un'occhiata
eloquente alle borchie e alle catene, sollevò un
sopracciglio e lui
alzò le mani in segno di resa.
Forse non sarebbero mai stati
amici per la pelle, ma non aveva mai visto Cappelletto o uno dei suoi
amici rivolgere la parola a Benetazzo o a uno dei suoi amici.
Notò
con stupore come Bianca fosse stata capace non solo di separare, ma
anche di unire.
I giorni passarono e sempre più spesso, in
classe, si parlava del suo matrimonio. Curioso, perché in
casa sua
non se ne parlava mai, anche se i parenti chiamavano in continuazione
per confermare gli inviti all'ultimo minuto, chiedere delucidazioni
su una lista nozze che non esisteva nemmeno, parlare delle
decorazioni in chiesa e al ristorante. I vestiti erano già
stati
acquistati, li avevano già provati. Le fedi erano nella loro
scatolina, chiuse a chiave in un cassetto.
Con Camilla si era a
una specie di armistizio. Non avevano ancora riparlato della
questione 'fedeltà', ma sapeva che avrebbero dovuto farlo,
prima del
venti aprile. E mancavano meno di quindici giorni.
Nel frattempo,
a scuola, Bianca era strana.
Come al solito, era irrequieta, non
stava mai ferma, faceva la stupida – anche se ora aveva due
poliziotti che vigilavano sul suo comportamento. Ma sembrava molto
più interessata a quanto accadeva nella sua mente, piuttosto
che a
ciò che succedeva in classe.
-Bianca? Ci sei? - le chiese un
giorno Cappelletto. Lei stava mormorando qualcosa in direzione della
finestra.
-Eh? - si risvegliò – Sì, ci sono.
Quella volta
andò così, ma la volta successiva Bianca
continuò a mormorare a un
destinatario sconosciuto.
Un giorno arrivò con due scarpe diverse
a scuola. Guardò spaesata coloro che ridevano davanti al
tronchetto
e alla décolleté mischiati assieme.
Il giorno successivo, alla
sesta ora, si mise a piangere e, quando Cappelletto le chiese cosa
fosse successo, spiegò che non si ricordava dove fosse casa
sua. Lui
la rassicurò dicendole che l'avrebbe accompagnata; la prese
per mano
e la portò fino alla fermata dell'autobus, e poi ci
salì sopra con
lei e le accarezzò i capelli mentre lei singhiozzava in un
modo che
stringeva il cuore.
Valeria guardò Emanuele, e in quella
ragazzina sempre sicura di sé vide qualcosa che assomigliava
molto
alla paura, e alla sensazione di non sapere cosa fare.
Lui era
molto preoccupato, ma non ne parlò a nessuno, nemmeno a
Camilla.
Soprattutto, non a Camilla.
E il giorno dopo ancora lui non aveva
Bianca, ma lei andò nel suo studio, disperata, chiuse la
porta di
scatto e lo guardò angosciata, dicendo che tutti la odiavano.
-Ma
no che non ti odiano – le disse; ormai sentiva di aver perso
la
confidenza con lei, ma la sua richiesta d'aiuto la
ripristinò
immediatamente – hai anche trovato degli amici, hai visto?
Lei
scosse la testa.
-A loro faccio pena – spiegò –
perché mi
hanno vista quand'ero a letto. Ma mi odiano tutti, prof.
Fu mentre
parlava che notò una brutta ferita sul punto dove pochi
giorni prima
c'era il suo piercing. Deglutì.
-Non ti odiano – ripeté –
davvero. E a loro non fai pena.
Bianca scosse ancora la testa.
Emanuele sapeva che lei aveva ragione, per questo non riusciva a
convincerla delle sue parole.
-E lei... - incominciò Bianca; poi
s'interruppe – comunque non importa! - continuò,
improvvisamente
gioviale, asciugandosi le lacrime – Scusi il disturbo! Ora
vado!
Scappò fuori dalla porta prima che potesse dirle
alcunché.
Antonella più tardi gli raccontò di averla
sentita
raccontare a Cappelletto che il padre era un membro dell'ISO*** negli
Stati Uniti, anche se tutti sapevano benissimo che il padre era un
piccolo imprenditore nel settore calzaturiero. Poi gli aveva
raccontato di quella volta che era andata in Erasmus per un anno a
New York, cosa che non poteva essere successa, perché aveva
frequentato quell'istituto da quando era uscita dalle medie e non era
mai stata lontana da scuola per più di un mese o due. Infine
aveva
asserito con molta convinzione di avere un posto già
riservato come
commessa nell'atelier di Vivienne Westwood a Milano, tutto grazie
alle conoscenze del padre.
-Dubito molto che siano cose vere –
gli confessò Antonella – e se il padre
è come me l'hai descritto,
ho ancora più ragione di dubitarne.
Emanuele non disse nulla,
tornò a casa e non ne parlò a Camilla. Lei rimase
fuori quasi tutto
il giorno per i preparativi. A cena chiacchierarono dei loro amici,
che si sposavano, che avevano figli, dei libri che avevano letto, e
anche quella sera si addormentò con Camilla appoggiata al
suo petto,
ma ancora le cose non davano l'idea di essersi sistemate.
Mancavano
dieci giorni al suo matrimonio, all'incirca, e lui avrebbe voluto
pensare solo a quello. La classe non faceva che ricordarglielo,
esprimendo felicitazioni, appendendo fiorellini in giro per la
classe. Anche i più antipatici dimostrarono autentico
affetto nei
suoi confronti; gli chiesero di portare una foto di Camilla, lui
acconsentì. Quel giorno gliene chiese il permesso,
così si portò
dietro il portatile e, di nascosto, con la Wireless dell'istituto, si
collegò a Facebook e mostrò loro qualche foto.
-Ma allora lei ha
facebook, prof! - esclamò Francesca – La aggiungo
subito!
-Ma
allora anch'io!
-Anch'io!
-Mi accetta prof, vero?
Sospirò;
se l'era cercata. Dopotutto, nell'era del digitale, sarebbe stato
assai difficile trovare una foto in vera e propria carta fotografica,
quindi non aveva visto molte alternative.
Guardarono le foto di
loro due nelle vacanze di Natale, quando avevano fatto il Capodanno
da amici. Si mostrarono molto sorpresi.
-Ma prof... quella è
vodka!
-E quella è Anima Nera!
-Ma prof, qua fa finta di
baciarsi con un tipo!
-Ehi – protestò Emanuele – ero coi miei
amici a festeggiare. Scommetto che anche voi avete foto del
genere.
-Sì, ma... - iniziò Crivellaro; cercava di
spiegarsi, ma
non ci riusciva.
-Fammi indovinare – l'aiutò – pensavi
che
siccome ho un lavoro e un mutuo allora non ho più voglia di
farmi
una bevuta coi miei amici.
-Be'... più o meno – ammise quello,
imbarazzato.
-E se ti dicessi che il fatto di avere un lavoro e un
mutuo mi mettono ancora più voglia di ubriacarmi?
-Quindi –
s'illuminò l'altro – l'addio al celibato...
-Non lo farò –
chiarì – lo trovo molto irrispettoso nei confronti
di Camilla. Non
ne sarebbe affatto felice.
-Ma la sua fidanzata lo fa un addio al
nubilato? Ché al limite mi faccio trovare da quelle parti.
Si
immagini, trenta donne ubriache che hanno voglia di fare le ultime
stronzate! E magari ci scappa anche la scena lesbo...!
-Fai schifo
– dichiarò Giulia.
-Se vuoi la scena lesbo, non c'è bisogno
che tu vada all'addio al nubilato – intervenne una voce, e,
quando
si girarono, videro il viso sorridente di Bianca. Fece un occhiolino
a Crivellaro.
-Ma le amiche di Camilla hanno figli...? - domandò
Cappelletto, con una certa agitazione.
-Eh? Beh, alcune sì.
Perché?
-LEEE MIIIILF****! - gridò Cappelletto, al settimo
cielo; si gettò addosso a Benetazzo ed insieme sprofondarono
in
quegli irrealizzabili sogni di gloria.
Be', avevano trovato
qualcosa in comune. Anche lui, a tempo debito, era rimasto piuttosto
affascinato dalla categoria, e non aveva esitato a togliersi la
voglia appena gli era stato possibile.
Ci ragionò su un attimo.
Si era davvero portato a letto un discreto numero di donne.
Forse
Camilla non aveva tutti i torti a sentirsi insicura.
Alla fine,
tornarono tutti al proprio posto, ed Emanuele iniziò la
lezione.
Mentre spiegava qualcosa a proposito delle simbologie in
ambito dantesco, e la classe era piuttosto tranquilla,
iniziò a
sentire qualcuno che mormorava. All'inizio non ci fece caso: di
solito non li rimproverava se avevano qualcosa da dirsi; lasciava che
finissero e nel frattempo continuava a parlare. Molto spesso era
questione di pochi secondi: avevano abbastanza rispetto di lui da
concludere in fretta il discorso e tornare alla spiegazione. Ma
questo mormorio non accennava a spegnersi; Emanuele non smise di
parlare, ma lanciò una breve occhiata in giro per la classe,
e si
accorse che a mormorare era Bianca.
Dopo un po' – e dopo che
anche gli altri se ne furono accorti, e dopo che Cappelletto l'ebbe
tirata per una manica – non poté più
ignorarla, anche perché lei
aveva alzato la voce, e ora sentiva distintamente cosa stesse
dicendo.
-Volete starvene zitti? - sbottò a un certo punto,
scocciata, voltandosi verso la classe.
Gli altri si guardarono
l'uno con l'altro, sconcertati: nessuno aveva aperto bocca.
-Cazzo
stai dicendo? - fece Fiorenzato, che sedeva dietro di
lei.
-Smettetela. Fatevi gli affari vostri. Non dite sempre che
bisogna seguire la lezione? Beh, fatelo!
Si voltò verso la
finestra e mise su il broncio. Emanuele era allibito, ma decise di
non prestare attenzione a quell'episodio, e riprese a spiegare.
Per
un minuto o due ci fu silenzio, ma notò che Bianca era
agitata,
nervosa, che continuava a contorcersi sulla sedia e ogni tanto
lanciava occhiatacce in giro. Poi sbuffò. Si morse le
labbra. Si
torse le mani. Si mise le mani nei capelli e iniziò a
tirarli.
Poi
ricominciò a parlare, in direzione dei suoi compagni.
-Vi avevo
detto di smetterla – li implorò – basta,
state zitti. Seguite la
lezione, per favore.
-Ferreri, ti sei rincoglionita? - parlò di
nuovo Fiorenzato – Nessuno ha aperto bocca.
-Non è vero –
protestò lei – vi ho sentiti. State parlando di me.
-Nessuno ha
aperto bocca! - ripeté seccato l'altro.
Gli occhi di Bianca si
riempirono di lacrime. Guardò Emanuele, disperata.
-Non è vero,
prof – gli disse – li sento benissimo. Stanno
parlando di me. Non
li sente? Non tacciono un secondo.
-Bianca – fece Emanuele, con
calma – non devi disturbare la lezione con questi scherzi.
-Ma
prof, non sto scherzando! Continuano a dire che sono una troia.
Dicono sempre che non mi sopportano, che ho l'AIDS, che piango
lacrime di sperma...
-Nessuno sta parlando – replicò
tranquillo; in realtà, stava sudando freddo – ora
ascolta la
lezione e non interrompere, ok?
Lei tacque, ma le lacrime le
rotolarono giù dagli occhi, e la sua espressione era
inondata di
pura angoscia. Cappelletto si alzò, la prese per mano e
chiese il
permesso di portarla fuori a passeggiare per l'atrio.
-Forse è
solo stanca – dichiarò – le
farà bene.
Emanuele annuì ed
aprì loro la porta.
Quando i due furono fuori, Fiorenzato lo
guardò, perplesso, e gli chiese:
-Ma è diventata matta, quella
là?
Sospirò.
-Non lanciamoci in dichiarazioni insensate. E
per questa volta, fatemi un favore personale: non mettetevi a
spargere in giro la voce che è matta, d'accordo?
Tacquero tutti.
Ma Emanuele sapeva che stavolta perfino loro non sarebbero stati in
grado di gettare benzina sul fuoco.
Spiegò fino al suono della
campanella, che gli sembrò enormemente lontano per tutto
quel tempo;
quando finalmente arrivò la ricreazione, si
precipitò fuori e
raggiunse Bianca e Cappelletto che erano seduti sulle scale. Stavano
chiacchierando; lei sembrava stare meglio, lui la guardava
incuriosito e le accarezzava i capelli con una dolcezza che ad
Emanuele scaldò il cuore.
-Tutto a posto? - chiese a Cappelletto.
Lo considerava un po' responsabile per lei.
-Boh, mi pare di sì.
Si è calmata – replicò quello; la
guardò in cerca di conferma –
vero, Bianca? Adesso è a posto.
Ma lei, quando vide Emanuele, si
nascose sulla spalla di Cappelletto. Quello arrossì, ma la
circondò
con le braccia e la strinse a sé. Guardò
Emanuele,
sperduto.
-Rimanete qui un altro po' – suggerì –
parlo io con
l'insegnante dell'ora successiva. Chi avete?
-Francese – rispose
il ragazzo, guardando ora Bianca, ora il suo
interlocutore.
-Benissimo. Voi state qui tranquilli,
ok?
Cappelletto annuì e, mentre si allontanava, Emanuele vide
che, timidamente, azzardò un piccolo bacio sulla testa
fiammeggiante
di Bianca. Sorrise e si allontanò, un po' sollevato.
Il giorno
dopo, contrariamente alle aspettative, Bianca fu spumeggiante. Era
sempre sorridente. Chiacchierò anche con i suoi compagni.
-Ma
buongiorno, Chappy! – apostrofò Cappelletto,
allegramente, non
appena entrò in classe.
-Come, scusa...? - fece quello, alzando
un sopracciglio.
-Chappy! - ripeté lei, gioiosa, un attimo prima
di abbracciarlo affettuosamente. Poi identificò Benetazzo;
gli mandò
un bacio con la mano, e infine fece un occhiolino e la linguetta a
Valeria. La qual ultima reagì con una smorfia inorridita.
L'intera
classe la osservò sbalordita mentre, canticchiando, metteva
giù lo
zaino semivuoto e incrociava con nonchalance
le gambe sul tavolo, incurante del fatto che, da quella posizione,
chiunque potesse vederle la biancheria senza affatto faticare.
-Ti
sei ripresa, Bianca? - le chiese Benetazzo, con un sorriso.
-Sto
da Dio, Penecazzo, sto davvero una meraviglia. Ah, che giornata
meravigliosa! - inspirò a fondo l'aria fresca che proveniva
dalla
finestra aperta; allargò le braccia, chiuse gli occhi,
scosse
teatralmente la testa e si abbandonò contro lo schienale.
Poi si
alzò di scatto e saltellò verso il compagno, che
la guardava
stranito. - E tu, Penny? Che è il diminutivo di Penecazzo?
Come va?
Hai combattuto con qualche drago, oggi? Salvato qualche principessa
in pericolo?
-Io... no – fece quello, allibito, mentre Bianca
raggiungeva Valeria a giravolte. Lei la guardava con tanto
d'occhi.
-Eccola qui, la mia donna. Vieni qua e dammi un bacino –
la chiamò; ma prima ancora che quella potesse reagire le
afferrò il
volto tra le mani e la travolse in un bacio mozzafiato che
lasciò
senza respiro la porzione maschile degli astanti.
-Ma... sei
SCEMA? - strillò Valeria, pulendosi la bocca affannosamente
– Io
ti ammazzo! - aggiunse, stridula. Era diventata rossa come una
fragola.
-Grande! - affermò Cappelletto estasiato, e gli altri
uomini presenti non parlarono, ma nemmeno protestarono. Ovviamente
tra le ragazze ci fu un coro di “che schifo!”
“lesbica di
merda” e “ew”, ma Bianca tornò
tranquillamente al suo banco e
vi si sedette soddisfatta; poi guardò Emanuele e gli disse:
-Oh,
mi scusi, prof, ho solo salutato i miei amici.
-Non voglio saperne
nulla – lui alzò le mani a scudo – a me
basta poter fare la mia
lezione senza intoppi, poi per il resto fai quello che ti
pare.
Bianca mandò qualche bigliettino di scuse a Valeria, che
era arrabbiata e quindi la ignorò; Cappelletto continuava a
supplicare entrambe di ripetere la scena, e a un certo punto vide che
Bianca aveva gattonato fino alla sedia di Valeria e le si stava
strusciando contro facendo le fusa. Le ordinò di tornare al
suo
posto e lei ci tornò, ma poi si accorse che, quando lui si
girava
verso la lavagna, lei e Cappelletto si scambiavano intense effusioni
sporgendosi oltre il banco. Finse di non vedere e ignorò i
commenti
scandalizzati dei suoi compagni, esclusivamente per amore del quieto
vivere. Non aveva voglia di riprenderla.
Alla fine dell'ora, però,
le ordinò di raggiungerlo a ricreazione nella sala
professori, e lei
acconsentì con un sorriso. L'ora dopo aveva un'altra classe,
ed era
così agitato che decise di dedicare l'ora alla discussione
sull'aborto, di modo che si accapigliassero tra di loro senza che lui
dovesse dire una sola parola per portare avanti la conversazione. Si
godette gli scontri verbali e si limitò a riportarli alla
discussione civile quando gli scontri verbali diventarono veri e
propri scambi d'insulti.
La ricreazione arrivò e Bianca lo
raggiunse in sala professori. C'erano altre persone, per cui
spostarono la sede della loro chiacchierata in palestra, che in quel
momento era deserta.
-Se ci fossi io in giro, stia sicuro che non
la troverebbe vuota – commentò Bianca –
vengo spesso qui a fare
le mie cose. E glielo dico in via del tutto confidenziale, la prego
di mantenere il riserbo.
-Mi limiterò ad evitarla attentamente –
rispose Emanuele, poi indicò una pila di materassini
– prego.
Questo sarà il nostro salotto.
Bianca rise e si avviò verso la
pila. Con la minigonna stretta, ci mise un po' a salirci sopra, ma
alla fine si sedette, e iniziò a far dondolare le gambe
sottili.
Emanuele le si accomodò di fianco.
-Allora? - introdusse lei –
Voleva parlarmi? Ah, già, voleva darmi carne
perché ho fatto la
stupida durante la lezione. Ha ragione, prof. Mi dispiace.
-Beh,
sì, in effetti anche – realizzò
Emanuele – e se pregata di
tenere un contegno mentre sei in classe, grazie. Lo dico per te, eh?
A momenti Valeria ti sgozzava.
-Ah, ma can che abbaia non morde,
prof. È solo che è timida e si spaventa di fronte
alle effusioni,
ma è dolce dolce dolce.
-Dici?
-Beh, no, ok, non è dolce, ma
non mi odia, credo. È solo che è fatta
così. Ma so che non è
davvero arrabbiata.
-Eppure, ieri sostenevi che tutti ti odiavano.
Dicevi che parlavano di te.
-Uh, non ci faccia caso.
-Beh,
Bianca, non posso non farci caso, era abbastanza preoccupante.
Vorresti spiegarmi che è successo?
-Ma nieeente, prof. Non
crucciatevi invano, mio signore. Bianca Ferreri è in super
forma. È
come se avessi mangiato un fagiolo magico!*****
-Mi sembra quanto
mai appropriato, come paragone: una pillolina magica che
immediatamente ti rimette in sesto e ti riempie d'energia come non
mai.
-Prof, basta con questa storia – lo ammonì
bonariamente.
-E va bene, basta. Non è questo. E allora
cos'è?
-Oh, ero un po' agitata. Ero nervosa. Forse ero un po'
preoccupata. Sa, lei che si sposa. Mi ha spezzato il cuoricino! -
pigolò, scherzosa – E poi mi sentivo sola e messa
in disparte e
blaa bla bla. Il solito. Ah, e mio padre mi ha quasi strappato via il
piercing a schiaffi. Forse è per quello che ero un po'
così. Ma ora
va bene.
-Non capisco se sei seria o se mi prendi per il culo.
-No
no, prof, serissima! È che adesso è passata,
perché piangersi
addosso? La vita è una sola!
-Giusto – mormorò, incapace di
replicare.
-Vede? Ecco, ultimamente questa cosa che lei si sposa
mi aveva un po' sponata, ecco. Più delle altre cose, in
effetti. O
forse è la classica goccia che. O forse ho ragione io e sono
veramente innamorata di lei, dal profondo del cuore. E insomma ecco,
lei comunque si sposa. E io devo reagire ed essere felice anche senza
di lei! Quindi ecco. Per questo l'ho un po' evitata. Io devo andare
avanti senza il suo aiuto, e le confesso che se non le parlo, per un
pochino, poco poco poco, mi dimentico quanto lei sia importante.
È
che ci sono giorni in cui è peggio e ieri era uno di quei
giorni. Ma
oggi no. Oggi ho preso un bel voto in fisica, materia che odio!, e
mia mamma non mi romperà più le palle
perché ho la media dell'otto
e mi abbassa gli altri voti, perché io ho la media del nove
e dovrei
mantenerla, eppure ho anche yoga e degustazione e quell'altra cosa, e
palestra, tra l'altro non sono ancora riuscita a dimagrire quanto
volevo, sa? Però adesso mangio bene. Mi hanno detto che per
l'alimentazione quotidiana bisogna ingerire...
-Bianca, aaalt –
la interruppe, mettendole una mano davanti alla bocca. Lei
sbarrò
gli occhi e si azzittì. - Una cosa alla volta, ok? - Lei
annuì;
agitava freneticamente le gambe e faceva schioccare le dita di
entrambe le mani. - Quindi sostieni che adesso stai bene,
giusto?
-Mh-hm.
-Ma non è la prima volta che mi dici che stai
bene e poi ti ritrovo il giorno dopo che stai di merda.
-Eh, ma
non posso prevederlo, prof! In quel momento magari le dico che sto
bene perché sto bene, e poi il giorno dopo sto male e non
immaginavo
di stare così male, e così lei pensa che io le
dica bugie, ma non è
così. Se lo potessi sapere in anticipo, sarebbe
meraviglioso!
No?
-Certo, ma...
-E comunque prof, si è accorto che
Cappelletto è innamorato cotto? - Le brillarono gli occhi. -
Ha
visto come mi sta sempre attorno? Lo sa che è la prima
persona che
s'innamora di me?
-Gli altri volevano solo l'avventura?
-Beh,
sì, penso si possa dire di sì. Alcuni credevano
di amarmi, e me lo
dicevano, e poi si stancavano di me e del mio modo di fare... beh, li
capisco. Anche lei li capisce, vero? - rise, e poi riprese –
E
comunque è una figata, quando qualcuno s'innamora di te. Ti
senti
come se da una parte avessi un materasso ad acqua, no? Nel senso: sai
che da quel lato lì non puoi cadere e farti male.
È rassicurante!
Credo che sia così quando ti sposi, no? A parte che se ti
sposi in
teoria vuoi fare da materasso anche tu alla persona che lo fa a te,
solo che io non voglio fare da materasso a Cappelletto, a meno che
non significhi stare sotto di lui, e a dire la verità
neanche in
quel caso; cioè, in realtà gli farei da materasso
perché gli
voglio bene, ma non quel
tipo di materasso, y'
know what I mean?
Sa che in inglese mean
significa sia un verbo, 'significare', che l'aggettivo 'perfido,
cattivo'?
-Sì, lo sapevo.
-L'inglese è una lingua molto più
bella della nostra. Pensi a una cosa: noi diciamo 'mi piaci', loro
dicono 'i
like you'.
Il che significa che loro fanno dell'altra persona un oggetto, e di
sé stessi un soggetto, in quest'azione di esprimere una
predilezione
verso qualcuno. E noi, invece? Pensi un po': facciamo dell'altro il
soggetto dimenticandoci di noi stessi, e finisce che ci releghiamo al
rango di semplici complementi di termine, che se ci pensa bene sono
un gradino più in basso dei complementi oggetto.
È o no un
ragionamento sensato?
-Beh, diciamo che sussiste.
-Siamo un
popolo di personalità dipendenti, prof – rise
– dovevo andare a
fare la psicologa, altro che l'interprete. Sarebbe decisamente il mio
momento d'oro.
-Pensa a te stessa, Bianca – la rimproverò con
dolcezza – prima che degli altri, occupati di te.
-Ma lo sto
facendo, sto pensando al mio futuro. Non fanno che dirci che la mia
generazione è destinata a non avere lavoro, pensione, una
famiglia,
dei figli, l'amore... quindi almeno mi preoccupo di trovarmi uno
stipendio – replicò allegramente. Emanuele sorrise.
-Vorrei
rassicurarti, ma con quello che mi danno temo che potrei soltanto
preoccuparti ulteriormente. Faresti più soldi tu dando
ripetizioni a
un ragazzino delle medie.
-Ah-ha, quanto le danno al
mese?
-Bianca, senza offesa, sarebbero anche un po' cazzi
miei...
-Su, su, se vuole io le dico quanto mi danno i miei di
paghetta. Mi danno quindici euro. Una miseria, vero? Non mi bastano
mai, non posso quasi mai fare niente.
-Come ti capisco –
sospirò.
-Su, me lo dica! Prometto che non lo dico a nessuno. Oh,
voglio saperlo! Sono terribilmente curiosa, e odio che lancino il
sasso e poi nascondano la mano.
-So che sei curiosa come un
gattino, ma non saprai mai qual è il contenuto della mia
busta
paga.
-Guardi che dico in giro il suo soprannome.
Emanuele
impallidì.
-... cosa sai?
-Oh, quello che posso arrivare a
sapere googlando il suo nome – sorrise maleficamente
– caro il
nostro Por...
-Millecentocinquanta – esclamò di scatto,
saltando giù dal materassino.
Bianca scoppiò a ridere, ma subito
dopo, davanti agli occhi attoniti di Emanuele, scoppiò a
piangere
senza nessun apparente motivo.
-Ehi – la chiamò, preoccupato –
che c'è?
-Niente – pigolò lei, poi si asciugò le
lacrime e
sorrise – adesso sto bene. Tutto a posto!
-Sicura?
-Sicurissima!
Si figuri. Con una giornata così bella. Ha visto i ciliegi
in fiore
della casa qui accanto? Sono di una bellezza stupefacente. A volte ti
scordi che le cose più belle sono lì davanti a te
ogni giorno,
vero? Se posso guardare fuori dalla finestra e vedere quel
bell'albero fiorito, che importa il resto? L'albero è sempre
lì per
allietare la mia vista, e non se ne andrà mai. - Ci
rifletté un
attimo. - Ah, beh, sì, a meno che non lo taglino i suoi
proprietari,
ok. Ma quello non c'entra. È che lui ha le sue radici
lì e se fosse
per lui non si sposterebbe mai. Continuerebbe a darmi quei bei
boccioli ogni primavera.
Bianca al pensiero saltellò e gli occhi
si accesero di una bellissima luce.
Emanuele, in seguito, ricordò
molte volte il momento in cui vide quella luce, che si era accesa in
mezzo ad un'immensità immersa nel buio, aggrappata a
qualcosa di
così semplice e fragile ed eterno come un albero in fiore.
Ma al
cambio dell'ora successiva la trovò che piangeva in atrio
sulla
spalla di Cappelletto, poi Valeria arrivò chiamata da
qualcuno, le
due si parlarono, e alla fine della quinta ora Bianca stava
saltellando in giro per il corridoio e abbracciando un tizio di
un'altra classe, che non perdeva occasione per metterle le mani
addosso.
Il giorno dopo, Emanuele si spaventò quando Monica gli
raccontò che Bianca era scoppiata a piangere e si era
aggrappata a
Cappelletto perché secondo lei stavano scoppiando le bombe
fuori
dalla finestra, era scoppiata la terza guerra mondiale, i boati dei
missili si stavano avvicinando e che sarebbero morti tutti.
-Sembrava
così angosciata che ha messo il dubbio perfino a me
– disse Monica
– quella ragazzina si droga. È chiaro. Esiste una
droga che dà le
allucinazioni?
-LSD o funghi – le rispose – ma quand'è
che ha
il tempo di assumerli? E poi – si interruppe in tempo prima
di dire
che una volta l'aveva vista prendere delle pastiglie – e poi
non
possiamo certo perquisirla quando arriva in classe.
-Possiamo, se
abbiamo buoni motivi di ritenerla un elemento di disturbo! Io sono
sinceramente stanca delle bravate di questa ragazzina. Essere
comprensivi con lei non è servito che a farla sentire in
potere di
fare qualsiasi cosa.
-Prof – in quel momento irruppe Francesca,
una compagna di classe di Bianca – scusate, ma dobbiamo
parlare con
il professore da solo. Per favore, può venire con noi?
-Sì,
certo – fece Emanuele, che era pronto al peggio. Le
seguì in
palestra, dove sperò di non trovare Bianca.
-Abbiamo visto una
cosa – intervenne Giulia – e ritengo giusto che lei
lo sappia, e
che parli lei con gli altri insegnanti, perché è
lei il
coordinatore, no? E non trovavo corretto sputtanarla così di
fronte
a tutti.
-Cosa succede? - chiese Emanuele, che già aveva capito
di chi si stesse parlando.
-Abbiamo visto Bianca che prendeva
delle pastiglie in bagno – fece Francesca, agitata, e queste
parole
ebbero lo stesso sapore del taglio definitivo della
ghigliottina.
Aveva detto alle ragazze di aspettare dalla
preside, di spiegarle la situazione, di non parlarne con altri.
Salì
le scale con passo marziale. Arrivò in corridoio,
localizzò con lo
sguardo Bianca che gesticolava animatamente con dei ragazzi. Ma
stavolta non intendeva passare attraverso di lei per le informazioni;
non era affidabile, punto e basta. Era una drogata e come tutti i
drogati era una bugiarda, e aveva mentito anche a lui.
Si sentiva
ferito e pieno di una rabbia cocente che gli arrossava le orecchie.
Entrò in classe incurante dell'eventuale presenza di
ragazzi, anche
se non c'era nessuno. Afferrò lo zaino di Bianca;
aprì la tasca
anteriore, trovò soltanto una merendina e le sue chiavi di
casa.
Rovesciò allora lo scarso contenuto della tasca
più grande, e, tra
un paio di quaderni e un libro scarabocchiato, tra un pacchetto di
caramelle e un paio di pupazzetti sporchi, trovò una
bottiglietta
marrone.
Era piena di pillole.
-
Non credo davvero ci sia
bisogno di dirvelo, ma la canzone è La Cura di Franco Battiato. Se non la
conoscete, ascoltatela ;) è un pezzo dolcissimo.
** “Ve ne prego”, letteralmente.
*** International Standardization Organization. Praticamente
è un organo che si occupa di riconoscere e rendere pubblici
gli 'standard'. È un po' difficile spiegarlo, googlatelo XD.
**** MILF: Mother I'd Like to Fuck. Guardatevi American Pie :°D altrimenti, in
breve, si tratta di madri tra la trentina e la quarantina ancora
avvenenti e disposte ad una focosa avventura con ragazzi adolescenti.
***** Se avete visto Dragon Ball, capirete. Altrimenti...
cacchio, che razza di infanzia avete vissuto ò_o?
(Nda:
Lo so, ci ho messo una vita e faccio schifo ò_o ma non
è stato per
pigrizia, giuro ;_; innanzitutto è stato un capitolo
difficile da
scrivere, ma, soprattutto, come avrete notato :°D, era
piuttosto
lungo ^^;. Se pensate che avrei dovuto renderlo ancora più
lungo,
capirete perché ho splittato in due questo capitolo che
doveva
essere il finale.
C'è anche da dire che avevo già messo
decisamente troppa carne al fuoco e ce n'era di ancora più
succulenta che aspettava di essere messa sulla griglia *_*' siccome
non voglio scrivere un capitolo confusionario, mal scritto e poco
esauriente, ho voluto chiudere qui.
In risposta alle vostre
recensioni... ^^ brevemente perché non ho molto tempo e voi
sarete
stufi dopo trenta pagine di storia XD
Yuki:
a dire la verità, io penso che non esista una persona che si
droga
'per fare l'alternativa', ma che tutti, come Bianca, lo facciano
perché hanno i loro motivi, le loro sofferenze. Quanto ai
problemi
di salute, anche il mio ragazzo aveva la tua stessa idea della
malattia terminale ^^ purtroppo saprete se è così
solo nel prossimo
capitolo ;) *me è malefica e vi fa penare :P*
Baby
Birba:
dunque, diciamo che gli spunti ci sono, ma sono appunto soltanto
spunti. Emanuele ha il nome e l'aspetto fisico di un mio prof del
biennio, ma non so nulla dei suoi interessi e della sua vita privata,
per cui quelli sono totalmente inventati (mentre la questione del
soprannome è vera XD); così come lo è
la relazione con una
studentessa come Bianca. Lei è proprio interamente frutto
della mia
fantasia. Le figure dei suoi genitori hanno in effetti un riscontro
nella realtà, ma non interamente. Camilla e i compagni di
classe
sono del tutto inventati.
Uh, e grazie per il commento a Follow
^.^ è una storiella un po' scema, ma sono contenta che ti
piaccia
^_^!
Dance
of Death:
mi fa davvero piacere sentire che il tutto è realistico.
Sono cose
piuttosto difficili da mettere su carta ò_ò e non
sei mai sicuro se
tu sia riuscito a comunicare o no certe sensazioni. Mi dispiace molto
che tu abbia questo problema, spero vivamente che si risolva
perché
so che razza di rottura di coglioni possa essere. Comunque, grazie
davvero delle tue belle recensioni ç.ç wow
ç_ç se vorrai leggere
qualcos'altro di mio ne sarò felicissima ;_;!
Hellfire:
INFERNAL HAIL!!!! (Volevo dire solo questo è_é.)
(No, scherzo,
anche ringraziarti del commento XD che ha doppio valore considerato
che non segui la sezione, wow, grazieee T.T!)
Khristh,
Veive, Piaciuque:
se solo sapeste che soddisfazione mi danno i vostri commenti T^T
grazie per il vostro irrinunciabile sostegno ç.ç
Prometto a tutti
che per il prossimo muovo il culo e lo pubblico presto!
Ancora
grazie per i fav e le recensioni! I love you all ;_;!)
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Mentre stringeva la bottiglietta tra le mani, si accorse che stava
stringendo i denti al punto di farsi male alle gengive. Il cuore gli
batteva furiosamente. Ma era spaventato come sempre accade quando
arriva il momento della verità.
E quindi, gli aveva sempre mentito. Nonostante proclamasse di amarlo,
nonostante professasse sincerità, nonostante quella sua aria
da innocente, aveva mentito.
Ma era anche colpa sua, avrebbe dovuto saperlo. I drogati erano capaci
di tutto, le menzogne erano soltanto l'inizio. Ovvio che non
confessassero. Ovvio che facessero di tutto per proteggere il loro
sacrosanto diritto di ingoiare pastiglie da una bottiglietta marrone.
Stava giusto aprendola con foga quando con la coda dell'occhio
intravide una confezione azzurra.
Stranito, la prese in mano: aveva tutta l'aria di un medicinale.
Probabilmente era la pillola: la prendeva davvero, dopotutto. L'unica
cosa vera che gli avesse detto.
Andò avanti a tormentare la bottiglietta fino a
quando si accorse che recava una scritta, e poi nella sua testa si
formò un pensiero nuovo, inquietante, un pensiero che gli
aprì davanti un mondo come uno squarcio netto sul ventre.
Un drogato non avrebbe mai messo delle pastiglie, e in una simile
quantità per giunta, in una bottiglietta che era alla
portata di tutti e che poteva essere rubata o scoperta in qualsiasi
momento, figurarsi addirittura a scuola.
E fu un attimo dopo che si accorse, iniziando a sudare freddo e
avvertendo un brivido quasi doloroso sul torso, che la confezione
azzurra non parlava di prevenzione anticoncezionale.
La confezione recava la scritta Lamictal.
E la bottiglietta marrone invece era piena di qualche cosa che si
chiamava Zyprexa.
Le guardò attentamente, con il cuore a mille, sentendo un
calore affannoso salirgli al collo, sperando di trovare qualche
indicazione; ma le etichette non dicevano nulla al riguardo del
disturbo che curavano; elencavano gli ingredienti, ma lui non era in
grado di riconoscerli.
Sentì che qualcuno si stava avvicinando e, con le mani che
tremavano e il cuore che gli batteva furiosamente fin dentro alle
orecchie, gettò tutti gli oggetti alla rinfusa nello zaino
di Bianca.
Si precipitò nell'aula computer. Ne accese uno nervosamente,
dondolando le gambe in modo frenetico per l'agitazione, gli
sussurrò di sbrigarsi, sbrigarsi, sbrigarsi, si morse
l'interno delle guance, si mordicchiò le dita, ma alla fine
riuscì ad aprire Google.
Digitò “Zyprexa”.
Mentre si aprivano i link, gli sembrò di impazzire, sebbene
si fosse trattato di una frazione di secondo. Quando finalmente si
aprì la pagina, lo stomaco gli si attorcigliò.
1.
Olanzapina - Wikipedia
1.
Olanzapina (in commercio in Italia come Zyprexa e nella forma ...
Detailed Zyprexa Consumer Information: Uses, Precautions, Side Effects
- da medlibrary.org ...
2.
Farmacologia - Farmacocinetica - Metabolismo - Effetti collaterali
3.
it.wikipedia.org/wiki/Olanzapina - Copia cache - Simili
1. ZYPREXA
5 mg
4.
Lattosio: le compresse di Zyprexa contengono lattosio.Frequentemente
sono stati osservati aumenti transitori ed asintomatici delle
transaminasi epatiche, ...
www.torrinomedica.it/.../ZYPREXA_5_mg.asp - Copia cache -
Simili
1.
È Scoppiato il Caso «Zyprexa Uccide» -
La Leva di Archimede (IT)
5. Il caso
Zyprexa è scoppiato grazie a Jim Gottstein: un avvocato,
sopravvissuto alla psichiatria, nonchè fondatore del sito
PsychRights. ...
www.laleva.org/.../e_scoppiato_il_caso_zyprexa_uccide.html -
Copia cache - Simili
1. Il caso
Zyprexa - La Leva di Archimede (IT)
6. Questa
volta è il turno dello Zyprexa, uno psicofarmaco
neurolettico molto utilizzato in psichiatria, spesso spacciato per un
farmaco «miracoloso» con pochi ...
www.laleva.org/it/2007/06/il_caso_zyprexa.html - Copia cache
1. Zyprexa
: Forum alFemminile
7. 30 mag
2007 ... Zyprexa. Volevo sapere se voi o qualcuno che conoscete lo usa
e come si trova con questo farmaco. Grazie -Io l\'ho preso per poco..
-Prendo zyprexa ma non è ...
forum.alfemminile.com/.../__f10_f485-Zyprexa.html -
Copia cache - Simili
8. Zyprexa
noooooooooo - 15 giu 2009
Zyprexa aiuto - 18 gen 2009
9. Altri
risultati in forum.alfemminile.com »
Ma alla fine, quando ormai si stava rassegnando a cercare 'olanzapina',
vide un link che conteneva una parola che gli stritolò lo
stomaco in una morsa che gli si sciolse solo parecchie ore dopo.
1.
Zyprexa, INN-olanzapine
1. Formato
file: PDF/Adobe Acrobat - Visualizzazione rapida
Zyprexa è un farmaco contenente il principio attivo
olanzapina. ... Zyprexa è indicato per il trattamento degli
adulti affetti da schizofrenia. ...
Gli mancò il respiro. Cercò di calmarsi,
passò al link successivo.
1. Zyprexa
- Farmaci - Salute - Attualità
1. Questi
fantomatici farmaci, droghe in tutto e per tutto, che arrivano a sedare
per anche 42 ore di file (zyprexa 10 mg) sono il miglior ritrovato in
fatto ...
www.wikio.it/salute/farmaci/zyprexa - Copia cache - Simili
La confusione gli invase la mente. Adesso si parlava di droga. Quindi
Bianca usava questo farmaco come un eccitante? Allora era davvero una
tossicodipendente? Non sarebbe stata certo la prima ragazza a farsi di
Prozac o di Valium in alternativa alle amfetamine o all'eroina.
Ma poi la ragione urlò: come avrebbe potuto procurarsi
farmaci tanto pesanti senza ricetta? Le compresse erano nella loro
scatola, acquistata in farmacia. Non le erano state vendute sfuse da un
pusher.
Andò avanti, disperato, alla ricerca di qualche informazione
in più.
1. The
Official ZYPREXA® (Olanzapine) Site
1.
- [ Traduci questa pagina ]
2.
Includes information for patients with schizophrenia.
www.zyprexa.com/ - Simili
Saltò alcuni post nei forum di utenti che parlavano della
loro esperienza e alcuni link di conferenze che non gli servivano.
Andò avanti, in cerca di chiarimenti.
Prevalentemente, trovava la parola 'schizofrenia' associata a quel
farmaco.
Ma poi gli si presentò davanti un link in inglese che
introduceva una parola nuova.
1. Zyprexa
Information from Drugs.com
1.
- [ Traduci questa pagina ]
2. 3 Sep
2009 ... Zyprexa (olanzapine) is used to treat the symptoms of
psychotic conditions such as schizophrenia and bipolar disorder.
Includes Zyprexa side ...
Disturbo bipolare.
Quella parola iniziò a comparire più spesso nei
link forniti da google.
1. [PDF]
1. See
full prescribing information for complete boxed warning.
2.
- [ Traduci questa pagina ]
3. Formato
file: PDF/Adobe Acrobat - Visualizzazione rapida
ZYPREXA IntraMuscular is indicated for the treatment of acute agitation
associated with Schizophrenia and Bipolar I Mania. ...
1. Zyprexa
Reduces Symptoms Of Mania, Severe Depression In Bipolar ...
1.
- [ Traduci questa pagina ]
2. s
antipsychotic medication Zyprexa(R) (olanzapine) improved the symptoms
of mania in patients with bipolar disorder. Moreover, these benefits
were seen ...
1. Zyprexa
Medication Profile - Olanzapine - atypical antipsychotic drug
1.
- [ Traduci questa pagina ]
2. Zyprexa
- generic Olanzapine - is an atypical antipsychotic medication used to
treat schizophrenia - bipolar disorder - also Alzheimer's.
Andò avanti ancora per un po', ma le parole che ricorrevano
più frequentemente erano 'schizofrenia' e 'disturbo
bipolare'.
Non potendo crederci, decise di non dare adito a simili teorie, non
subito, non prima di essere assolutamente certo che si trattasse di
quello. Decise di cercare l'altro farmaco, cercando assurdamente di
convincersi che il Lamictal avrebbe sfatato quelle teorie, avrebbe
dimostrato che il problema era tutto un altro.
Ma sapeva d'illudersi.
1.
LAMICTAL - LAMICTAL ODT - Medicine for Certain Types of
Seizures
1.
- [ Traduci questa pagina ]
2.
LAMICTAL is a prescription medication for epilepsy and for maintenance
treatment of bipolar I disorder. Visit LAMICTAL.com for more
information.
Questo fu il primo link sufficientemente esauriente che
trovò. La parola 'bipolare' ricorreva. Ma decise di
proseguire, sperando di trovare qualcosa, qualsiasi cosa, che gli
confermasse che non era così, che era solo droga, che si
poteva risolvere.
1.
Lamictal patient advice including side effects
1.
- [ Traduci questa pagina ]
2.
Lamictal information from Drugs.com. Lamictal is prescribed to control
seizures in people with epilepsy. It is also used to control a serious
form of ...
www.drugs.com/pdr/lamictal.html - Copia cache - Simili
L'epilessia era un po' meglio. L'epilessia poteva starci. Ma quella
frase abbozzata lo chiamava come il canto delle sirene, e, sebbene
sentisse l'ansia divorarlo da dentro al pensiero di ritrovare quella
parola maledetta, aprì quel link e lesse la pagina.
“It is also used to control a serious form of epilepsy known
as Lennox-Gastaut syndrome. Lamictal is used in combination with other
antiepileptic medications or as a replacement for a medication such as
carbamazepine, phenytoin, phenobarbital, primidone, or
valproate.”
Questo era già meglio. Non sapeva cosa fosse la sindrome di
Lennox-Gastaut, ma almeno era qualcos'altro.
Andò avanti con la lettura, vorace, per saperne di
più, di questa sindrome che, aveva deciso, aveva affetto
Bianca e che sicuramente era qualcosa di gestibile.
“In addition, Lamictal is used to help prevent the manic
and/or depressive phases of bipolar disorder.”
Si sentì il cuore scendere nell'intestino con un tonfo
sordo, stridendogli contro le viscere.
Tornò indietro, mente sentiva le dita diventare gelide. Fece
per cliccare sulla seconda pagina dei risultati, ma Google gli
mostrò le parole con cui più spesso il Lamictal
veniva associato.
“lamictal bipolar” era il primo nell'ordine.
Andò avanti; tutto ciò che trovò, per
la seconda pagina, fu qualche informazione sul fatto che, come l'altro
farmaco, era una droga usata come stabilizzatore dell'umore in persone
affette da disturbi di ordine psichiatrico.
Principalmente, notò Emanuele, tentando di ignorare i crampi
allo stomaco, ci si riferiva a pazienti che soffrivano di bipolare o di
epilessia; in particolare, veniva combinato ad altri farmaci per
combattere il primo. A volte veniva indicato come trattamento per
entrambi i disturbi, a volte invece si menzionava solo il disturbo
bipolare.
Emanuele chiuse la finestra, si coprì il volto con le mani,
si abbandonò sulla sedia.
Tentò di ragionare lucidamente.
Le possibilità erano tre: schizofrenia, disturbo bipolare ed
epilessia.
Ma Bianca non sembrava epilettica. Non aveva mai avuto crisi
epilettiche. Quanto alla schizofrenia, era un po' più
probabile, ma c'era da considerare una cosa: questi due disturbi non
venivano mai associati da soli ai farmaci che aveva trovato nel suo
zaino.
Il bipolare veniva associato anche da solo allo Zyprexa e al Lamictal,
ma la schizofrenia e l'epilessia, per quanto riguardava quei due
farmaci, venivano menzionate solo in coppia con il bipolare.
Inoltre, il bipolare era una costante di entrambe le ricerche; lo
Zyprexa non includeva il trattamento dell'epilessia, e il Lamictal non
prevedeva la cura della schizofrenia.
Chiuse gli occhi, prese un respiro e ritornò a Internet.
Stavolta non sentiva più alcuna fretta di avere i risultati,
mentre Google elaborava una ricerca per “disturbo
bipolare”. *
Quel giorno non aveva altre ore. Lo considerò una fortuna,
perché non ce l'avrebbe fatta a mettere in piedi una
qualsivoglia spiegazione.
Era quindi corso verso l'uscita senza guardare in faccia nessuno, senza
salutare, per paura di vederla; per paura che vedessero lui. Una nausea
insistente lo tormentava. Inspirò a fondo l'aria di aprile,
ma non gli servì; la nausea gli era penetrata dentro fino in
fondo, gli si era attaccata addosso, non intendeva lasciarlo. E mentre
tentava di calmare il pulsare della testa e il battito furioso del
cuore, pensò che Bianca gli aveva lanciato un sortilegio,
che l'aveva maledetto, perché anche quando non c'era gli
entrava dentro a viva forza impedendogli di camminare, respirare,
guardare dritto davanti a sé.
Salì sul treno sentendosi addosso centinaia di chili,
sentendosi come se fosse stato fatto di gesso; fastidiosamente rigido e
al contempo terribilmente fragile. Non era quello il modo di lavorare,
considerò. Non poteva farcela, non andando avanti
così.
Nonostante tutto, in treno si addormentò pesantemente; le
emozioni di quella giornata l'avevano stravolto, e, momentaneamente,
liberò la mente dalla preoccupazione. Si svegliò
poco prima della sua fermata. Si svegliava sempre poco prima
della sua fermata: per lui quel tragitto in treno era un'abitudine
tanto consolidata che il suo orologio biologico aveva finito per
adattarcisi. Lo trovava atroce. Gli permetteva di scendere sempre alla
sua fermata senza rischiare di ritrovarsi a Rovigo, certo; ma lo
trovava lo stesso una cosa atroce.
Quando fu a casa, si tolse con calma la giacca e la sciarpa,
sfilò le scarpe, le mise nella scarpiera e infine si
gettò pesantemente sul divano. Non pensò a nulla.
Guardò le foto di lui e Camilla sparse per la casa,
guardò i loro libri, i loro fumetti. Gengis lo raggiunse
scodinzolando e gli zampettò pietosamente sulla pancia. Gli
diede una carezza lenta, distratta; era immerso nel vuoto della sua
mente e non intendeva uscirne.
Rimase a lungo così, sfiorando il cane senza davvero
registrare la sua presenza, fissando insistentemente il volto di
Camilla nella carta stampata. Guardò la loro casa
così bella, progettata proprio come l'avevano voluta loro
– anche se era lontana dal centro, anche se a entrambi
toccava prendere il treno per andare al lavoro.
Camilla tornò poco più di un'ora dopo, intorno
alle due e mezza. Sapeva che lui era già a casa, ma non
suonò il campanello; non lo suonava mai, per non
disturbarlo, perché non dovesse alzarsi per aprirle la
porta. Entrò silenziosamente, si pulì le scarpe
sullo zerbino, abbandonò la borsetta di fianco all'uscio.
Emanuele udì un sospiro fatto a bassa voce. Si
alzò sui gomiti e la guardò.
-Ciao – disse lei, con un sorriso.
-Ciao – rispose, tentando anche lui di accennarne uno.
-Tutto bene?
-Più o meno. Tu?
-Più o meno.
I loro dialoghi, ultimamente, si svolgevano più o meno
così. E la cosa più brutta era che non si
chiamavano. Né “Ema”, né
“Lele”, né “amore”.
Si parlavano e basta, nel limite degli argomenti sicuri.
-Hai sospirato – precisò Emanuele, seguendola con
lo sguardo mentre portava scarpe e giubbotto al loro posto.
-Sono solo un po' stanca – disse dolcemente Camilla, poi si
diresse verso la cucina. - Hai già mangiato?
-No, non ancora. Scusa, non ho preparato nulla.
-Nessun problema – fece lei, ma la sua voce era
così stanca che non poté non raggiungerla in
cucina. Incrociò le braccia sullo stipite.
-Parlamene, se c'è un problema – la
incitò.
Lei continuò a concentrare la sua attenzione sulla pentola
piena d'acqua e sul fornello.
-Vuoi parlarmene...? - ritentò.
Camilla prese un lungo respiro, poi si voltò verso di lui.
-La Milanesi oggi era un po' di cattivo umore, e si è
rivolta a me in modo molto poco gentile. Tutto qui. Niente di inusuale,
è solo che non pensavo che potesse essere così
sgradevole.
Annuì e guardò verso il pavimento.
Lasciò che fosse Camilla a riprendere la conversazione.
-E tu, invece? Anche tu mi sembri piuttosto provato.
-Sì. Credo che Bianca sia bipolare –
snocciolò con voce ferma; non era più disposto a
lasciarsi intimidire dalle pretese e dai capricci della sua fidanzata.
Ne conseguiva che non aveva più paura di parlare di Bianca e
degli sconvolgimenti che gli causava, se ne sentiva il bisogno.
Camilla, comunque, tacque. Si mise a lavare i piatti della sera prima e
non alzò nemmeno gli occhi verso di lui. Emanuele lo prese
come un atteggiamento di rifiuto.
-Mi sembra costruttivo, questo tuo fare – sibilò;
all'improvviso sentì montargli dentro una rabbia e un
nervoso che sembravano portarsi dietro tutte le preoccupazioni e le
tensioni provate negli ultimi mesi – davvero da persona
matura, complimenti. Una ragazzina viene picchiata e molestata dai suoi
genitori, non riesce ad avere relazioni che non siano sessuali, ha un
disturbo mentale debilitante che potrebbe compromettere la sua vita per
sempre, ma non parliamone, non menzioniamola, è
infinitamente più importante che conserviamo questa finta
cortesia da salotto settecentesco! Grande. È proprio
così che mi immaginavo il mio matrimonio, grazie, Camilla!
Fu soltanto dopo averlo detto, dopo aver sfogato quella che ora
riconosceva come l'agitazione data dalle scoperte di quel giorno, che
scoprì che non ce l'aveva con Camilla. Non ce l'aveva con
nessuno. Ce l'aveva soltanto con la vita che gli aveva rovinato tutti i
piani, la sua opinione di se stesso, la sua relazione più
importante e in generale la tranquillità che si era
costruito faticosamente negli anni.
-Scusa – sussurrò subito dopo, inorridito,
portandosi una mano davanti alla bocca come per impedire che ne
uscissero altre nefandezze – mi dispiace.
Ma Camilla taceva. Non osò sollevare lo sguardo su di lei
finché non si accorse che, nonostante trafficasse
animatamente con le pentole, nonostante strofinasse la spugna con
l'energia di un'indemoniata, nonostante non si voltasse nemmeno verso
di lui, era perché stava piangendo. Da dietro le spalle, in
silenzio, cercando di non farsi vedere.
-Mi dispiace – ripeté, con voce tremula, ma un
muro si era creato e non bastava scusarsi per abbatterlo. E non
sarebbero nemmeno bastate le chiacchierate, e gli abbracci affettuosi,
e il sesso, e le cose fatte assieme.
Niente avrebbe cancellato la macchia tra loro due, soltanto il tempo
avrebbe potuto appena farla sbiadire.
Si sentì schiacciato dalla sua stessa impotenza.
-Io – mormorò lei, tra le lacrime – non
volevo dire niente del genere. È solo che... non sapevo...
cosa dire. - Singhiozzò. - Sembrava volessi sfidarmi. Io non
ce l'ho con Bianca, lo sai, Ema, e odio queste buone maniere che non mi
vogliono dire niente, così come le odi tu. Il fatto
è che mi sento sempre in colpa verso di te.
-Cristo, non devi – esclamò tristemente, correndo
ad abbracciarla. - Non volevo farti sentire in colpa. Volevo solo
spiegarmi, volevo solo poter parlare liberamente. Sono io che mi sento
in colpa per non aver saputo farti sentire amata. Per favore,
smettiamola qui – la implorò. Lei si nascose sul
suo petto.
-Lo sai che non sarà uguale – sentì la
sua voce attutita arrivargli dalle pieghe della camicia. Le
accarezzò i capelli, come aveva fatto Cappelletto con Bianca.
-Non sarà uguale subito
– affermò, deciso – ma lo
sarà presto.
Chiaro che non possiamo far finta di niente. Ma proprio per questo non
possiamo continuare a fare dei sorrisini ipocriti. D'ora in poi,
promettiamo di parlarci qualunque cosa accada.
-Te lo prometto – Camilla scoppiò in lacrime di
sollievo, e si strinse forte a lui.
Non era la prima volta che si riproponevano qualcosa del genere, ma era
la prima volta che sentiva che avrebbero dovuto farlo, se
non volevano perdere tutto.
Ora che il segreto di Bianca era stato svelato, Emanuele aveva addosso
una curiosa sensazione di fine. Sentiva che da adesso potevano davvero
ricominciare.
Il giorno dopo, andrò subito a parlare con la preside, prima
ancora di entrare in aula.
Lei lo accolse con un sorriso; stava rigirandosi tra le mani una
collana che costava come un anno degli stipendi di Emanuele. Molti
colleghi parlavano male di lei, definendola una 'borghese piena di
soldi e di boria'. Ma non era vero. Per quanto lo riguardava, aveva
tanto denaro quanta intelligenza.
-Buongiorno – lo salutò gentilmente, indicandogli
la sedia. Lui si affrettò ad accomodarsi. - Così
mattiniero. È successo qualcosa?
-Non è propriamente
successo – incominciò – ma
volevo chiederle una cosa. Ho bisogno di saperlo.
-D'accordo – fece lei, calma – riguarda Bianca,
vero?
-Già – ammise – riguarda lei. Mi dica la
verità, la prego. Bianca è bipolare?
Giovanna prese un bel respiro, fece un sorriso amaro. Infine lo
guardò negli occhi.
-Te l'ha detto lei? - gli chiese. Emanuele arrossì.
-No, non me l'ha detto lei. Ma un giorno ho visto delle medicine che
sporgevano dal suo zaino, e mi sono preoccupato. Non sono riuscito a
non curiosare. Ho cercato su Google cosa fossero; mi ha dato vari
risultati, ma quella del bipolare era l'ipotesi più
probabile. Risponde perfettamente a tutti i criteri, preside.
La guardò supplichevole. Lei si sistemò la
collana attorno al collo, sospirò ancora e
abbassò lo sguardo.
-Sì, è bipolare – confermò
infine.
A Emanuele parve di sentir scoppiare una bomba in lontananza. E una
dentro di sé, così vicino che per un attimo ci
vide buio.
Cercarla in Internet era un conto. Era una scommessa.
Sentirselo dire da qualcuno che sapeva, però, metteva fine
ad ogni speranza. Era davvero così.
-Quindi... - riprese, con voce e mani tremanti – quindi
è per questo che è assente così spesso?
-Proprio così. È stata anche ricoverata in
ospedale. Stando a quanto mi raccontano i tuoi colleghi, non manca
molto prima che ce la riportino di nuovo.
-Ma perché non ci avete mai detto niente?!
-Una richiesta esplicita della famiglia – mormorò
Giovanna, con evidente perplessità – non chiedermi
il perché. Forse si vergognavano a farlo sapere al corpo
docenti, forse volevano negare il problema anche davanti a se stessi;
come saprai, finché non dici una cosa chiaramente puoi
sempre far finta che non sia vera.
-Lo so bene – disse piano, e lo sapeva davvero.
-Questo è quanto. Mi hanno chiesto di promuoverla comunque
nonostante le assenze, e io ho replicato che Bianca recuperava sempre
alla perfezione la parte di programma a cui non aveva assistito, quindi
non c'era problema. Ho promesso loro di mantenere il riserbo,
nonostante a volte mi risultasse impossibile e assurdo. Mi creda; avrei
voluto informarvene. Ma loro insistevano col dire che doveva essere
trattata come tutti gli altri, e io, un po' per giustificarli e
giustificare me stessa, mi sono aggrappata a questa teoria. Ma mi rendo
conto che non si può andare avanti così. - Si
tolse lentamente gli occhiali, li osservò come se
contenessero delle risposte. - Ultimamente è molto
peggiorata. Ha allucinazioni, vuoti di memoria, sbalzi d'umore a ciclo
ultrarapido. Prima queste cose non succedevano. Non capisco cosa
l'abbia sconvolta fino a questo punto.
-Crede che ci sia qualcosa, dietro ai suoi cambi d'umore?
-Sicuramente sì. Ma il bipolare si autoalimenta. Alcune
teorie sostengono che il periodo maniacale sia una sorta di ripresa di
potere da parte dell'io, che recupera le energie e l'allegria perdute.
È anche vero che alle fasi maniacali seguono quelle
depressive, poiché l'eccessivo dispendio di forze porta alla
prostrazione del fisico e della mente. Ciò che le accade ha
sicuramente un'influenza sulle fluttuazioni del suo umore, ma spesso
è totalmente ininfluente.
-Si è informata molto.
-Ho dovuto.
-Ma è possibile che... qualcosa
aiuti l'insorgere di una fase?
-Certo, è possibile. Benché sia la pazzia a
dettar legge, incurante dello stato d'animo della persona, l'ambiente
esterno contribuisce senza dubbio ad alimentare le oscillazioni. Senza
dubbio, se Bianca ha pensieri negativi la fase depressiva
sarà decisamente più pesante.
-Quindi... i pensieri negativi potrebbero averla portata a
ciò che è adesso...?
-A sentire gli psichiatri che la seguono, a contribuire molto sono
l'abuso di alcool da parte di Bianca e una certa
refrattarietà alle cure. Quand'è nel periodo
maniacale, com'è tipico, pensa di non aver bisogno di nulla,
di stare a meraviglia. Credo l'abbia notato anche lei, no? A volte
sembra che sia estasiata di fronte al mondo, è vivace,
scherzosa, ottimista, non sta calma un momento... e magari qualche
giorno dopo si rifiuta di alzarsi dal letto.
-Ma adesso non ci sono più distanze di mesi, preside. Adesso
succede da un momento all'altro.
-Ed è esattamente questo a preoccuparci; una volta era sotto
controllo, ma il fatto che abbia dato segni di psicosi è
assolutamente allarmante, significa che sta avvicinandosi alla perdita
delle proprie facoltà mentali.
Emanuele rabbrividì.
-Ma da quando? - esclamò, agitato - Da quando ha questa
malattia?
-La madre dice, da quando ha dodici anni. Non si sa cos'abbia scatenato
il disturbo.
-Ho letto che esiste in effetti un evento scatenante –
osservò Emanuele – qualcosa che l'ha, come posso
dire... acceso.
-Hai usato un vocabolo appropriato. Il disturbo c'era, ma dormiva, non
l'aveva ancora afferrata. Qualcosa l'ha acceso, ma noi non
sappiamo che cosa. Nemmeno i genitori. Non l'ha mai confidato a nessuno
degli specialisti che l'hanno seguita.
-Dodici anni...? - sussurrò Emanuele.
-Sì. Perché, le dice qualcosa?
In quel momento, mentre lui si sentiva una colata di lava riversarglisi
nelle viscere, ricordò alcune parole, sentite in un
colloquio tanti mesi prima.
Beh, Bianca ha iniziato
a fare un po' la stupidina quando aveva dodici anni. Magliettine
scollate, poi voleva tenere i capelli lunghi e stava sempre
lì a spazzolarseli, poi le è venuta la mania di
truccarsi... sa, è l'età.
Dodici anni. Sbarrò gli occhi, la preside lo
guardò confusa, ma lui riuscì solo a
boccheggiare. I ricordi riaffiorarono.
E lo fecero graffiando come artigli d'acciaio.
Avevo dodici anni. Mi ha
infilato la mano dentro i pantaloni, e poi dentro le mutande.
Iniziò a battere i denti, pietrificato. Il suo sguardo fisso
nel vuoto preoccupò Giovanna, che gli toccò la
mano delicatamente.
-Emanuele? Tutto a posto?
-No – mormorò – no. Io... no.
Quindi era stato quello. Era stato quello a svegliare la pazzia
addormentata profondamente dentro Bianca, ed era stato da quel momento
che lei aveva intrapreso quel cammino che l'aveva poi portata ad essere
la ragazza più scandalosa ed isolata della scuola.
-Che cosa succede, Emanuele?
Quindi era stato suo padre a renderla quello che era. A farla
impazzire, e a farla diventare la puttanella dell'istituto. Era stato
lui a dare il via a tutto, e non aveva mai fatto altro che alimentare
quel fuoco che stava bruciando Bianca da dentro, lasciando sempre
più cenere sotto di lei, finché non sarebbe
sparita definitivamente sotto strati e strati di incoscienza.
-Io credo... credo di aver... - “credo di aver capito
tutto”, avrebbe voluto dire. Ma non poteva. Se Bianca non
voleva parlarne, non l'avrebbe fatto nemmeno lui. - Io credo di aver
bisogno di un po' d'acqua. Mi permetta.
-Certo.
Tirò fuori una bottiglietta dalla ventiquattrore. Bevve
diverse sorsate. Si mise una mano sulla fronte accaldata.
-Immagino che sia shockante – commentò Giovanna
– scoprire che una ragazza così giovane sia
passata attraverso sofferenze che noi non potremo mai nemmeno
immaginare. È stato un brutto colpo anche per me, mi creda.
-Non è giusto – sussurrò.
-No, non è giusto. Il suo modo di fare, oltretutto, la
distanzia dai suoi compagni. Ma io non posso dire loro: ragazzi, non ha
potere su questo, non ha il controllo di sé stessa. Non lo
posso fare.
Notò negli occhi della preside una tristezza che lo scosse
molto. Lei, sempre così posata, così lucida di
fronte ad ogni evenienza. Non l'aveva mai vista tanto toccata da
qualcuno o qualcosa.
-Guarirà? - le chiese, con una voce incerta e sperduta che
non riuscì in nessun modo ad impostare come quella di un
adulto.
-No, non guarirà – asserì Giovanna,
amareggiata – qualunque cosa l'abbia portata a questo, lei
non potrà tornare indietro. Può fermarsi qui, al
massimo; può tenere sotto controllo la sua malattia,
può attutirne gli effetti, se prende i farmaci, ma non
guarirà. Se devo dirle la verità, non credo
nemmeno che migliorerà. È troppo tardi e il
bipolare invade la mente come un esercito armato. Puoi solo cercare di
sopravvivere vagando tra le rovine.
Emanuele sentì diversi impulsi prendere possesso di lui
tutti insieme. L'impulso di piangere, quello di spaccare a pugni la
faccia di quell'uomo, quello di strapparsi i capelli e urlare, quello
di abbracciare Bianca.
Forse era così che lei si sentiva tutto il tempo.
Strinse i denti.
-La ringrazio – disse alla preside – mi scusi il
disturbo. Non ne parlerò con i miei colleghi.
-Grazie, Emanuele. Cerchi soltanto di vederla come una ragazza normale.
Ne ha bisogno.
Le sorrise tristemente; ma le sorrise, perché lo meritava,
perché aveva capito senza nemmeno dirglielo che lui aveva
bisogno di sentirsi dire cosa fare.
Lei lo salutò con lo stesso sorriso appannato.
Ormai mancava meno di una settimana al suo matrimonio, e in classe
qualcuno aveva disegnato i due sposini alla lavagna, premurandosi di
colorare i suoi capelli interamente di bianco. Non riuscì a
risalire all'autore dell'opera.
Notò che Bianca si stava trattenendo in corridoio, vicino
all'ascensore, con un tizio. Uno nuovo. Le andò vicino.
-Ehi, è ora di entrare – le disse; lei lo
guardò, le si illuminò lo sguardo e smise di
ascoltare il suo interlocutore.
-Certo! Arrivo subito, prof. Ci vediamo, Zampi.
Gli si fece di fianco; sembrava felice. Lo guardò, con
quell'espressione gioiosa che la caratterizzava nei suoi momenti buoni,
e che, ora lo sapeva, probabilmente non corrispondeva a reale allegria.
Forse era finta. Forse non era Bianca a sorridere.
Chissà quando era lei ad avere il controllo sul suo sorriso,
chissà quanto tempo le lasciava la malattia per esprimere
sé stessa, e non quella versione esagerata di Bianca in cui
il bipolare la trasformava.
-Come sta, prof? Manca poco al gran giorno, eh?
-Già. Ma non vorrei parlarne, se non ti spiace.
-Che c'è? Si preoccupa per me? Stia tranquillo, se non
l'avessi accettato non gliel'accennerei. Non deve trattenersi in classe
per paura che io ci stia male.
-Io non mi...
-Sì, prof, lo fa. Mi lancia delle occhiate ansiose talmente
poco sottili che mi sorprende come mai nessuno si sia ancora accorto
che lei scruta la mia espressione ogni volta che parla della sua
ragazza.
-Non hanno motivo di farci caso.
-O forse non sono abbastanza acuti, prof. Anche se in effetti, senza
offesa, ma lei proprio non ha il dono
dell'imperscrutabilità... le sconsiglio fortemente una
carriera da ninja.
-Non credo comunque che avrei deviato tanto dalla carriera che ho
già, comunque grazie del consiglio, Bianca. Su, vai in
classe.
-E lei?
-E io arrivo tra due minuti, ho bisogno di un caffè. A
proposito, più tardi vorrei parlarti.
-Volentieri, prof. Quando?
-Alla fine della sesta ora, se hai tempo. Ti offro una pastasciutta
riscaldata al Fly.
-Wow, prof, grazie. Se voleva un appuntamento galante, però,
poteva almeno portarmi in un ristorantino carino dall'atmosfera intima,
suvvia...
-Sparisci – la ammonì; e quello pose la parola
'fine' alla conversazione. Lei si allontanò sorridendo e
salutandolo con la mano.
E mentre inseriva i trentacinque centesimi nella macchinetta e pigiava
“espresso lungo”, si chiese se durante quel tempo
avesse parlato con Bianca, la vera Bianca che aveva iniziato ad
andarsene quattro anni prima, o con la pazzia che si stava lentamente
impadronendo di lei.
Il pensiero lo inquietava così tanto che decise di lasciar
perdere il caffè. I suoi muscoli e i nervi erano
già fin troppo tesi.
La lezione passò tranquillamente; Bianca non
seguì una sola parola, era troppo impegnata a disegnare un
ritratto a penna di Valeria che, Emanuele notò di sfuggita,
era anche piuttosto ben fatto. A fine lezione glielo
consegnò raggiante, le diede un bacio sulla guancia e le
disse di non buttarlo via. Valeria, spiazzata, lo prese in mano e
guardò prima lei, poi il disegno, poi di nuovo lei, poi di
nuovo il disegno, infine arrossì e lo mise in una busta che
aveva nel raccoglitore.
-Cosa si dice? - la riprese bonariamente Benetazzo.
-Fatti gli affari tuoi – fu la dolce risposta; ma Benetazzo
sorrise pacificamente e le arruffò i capelli con la sua
enorme mano. - Dai, smettila, coglione, che mi tiri i capelli con
quelle cazzo di borchie.
-Si dice grazie,
signorina. E se vuoi che smetta, si dice...?
-”Guarda che ti spacco la faccia”.
-Ma no, scemotta, si dice per
favore.
-Che bella coppietta che siete – squittì Bianca
– così... neri.
-Non ripeterlo se ci tieni alla vita.
-E invece ripetilo, che suono delizioso!
-Guarda che ti strozzo con quella catena che porti attaccata alla
cintura.
-Wow, Valeria, ti piace il sadomaso? Non ti facevo così
porcellina – cinguettò Bianca.
Valeria sbatté la testa sul banco, Benetazzo, che ormai
aveva fatto l'abitudine a certe battute, rispose con un
“magari!” estasiato.
Sembrava tutto ok.
Sì, sembrava che tutto andasse bene, ogni volta... fino a
che, ogni volta, andava puntualmente a finire male.
Ma Emanuele si sbagliava, perché quel giorno Bianca non si
perse mai d'animo. Fu quasi impossibile tenerla a bada, anche se ora,
quantomeno, concentrava le avances sessuali solo su Cappelletto e
Valeria; ma preferiva vederla così piuttosto che catatonica.
Anche se, e lo sapeva, le due situazioni erano da considerarsi pari.
La recuperò al portone ed assieme attraversarono la strada,
dirigendosi verso la tavola calda nella galleria di fronte alla scuola.
Si sedettero in un angolo un po' appartato; Emanuele voleva assicurarsi
di poterle parlare con calma.
-Che bello, a pranzo col prof – cantilenò Bianca;
sembrava che la cosa la rendesse davvero felice. Probabilmente quella
gioia era vera. La pazzia non era in grado di crearla.
Emanuele le sorrise, ma non disse nulla, perché non sapeva
come introdurre il discorso. Lasciò che fosse lei a condurre
la conversazione.
-Quindi, prof? Ho come idea che lei voglia tirare in ballo qualcosa di
serio, ma stavolta sono pulita, ne sono sicura. Non mi sono
più fatta trovare in bagno con nessuno e ho tenuto
rigorosamente bocca e gambe chiuse. Stavolta non mi può
rimproverare – dichiarò orgogliosa. Emanuele la
guardò divertito. - Che c'è, prof?
Cos'è quella faccia? Mi sta prendendo in giro?
Lo guardò con aria ammonitrice.
-No, non ti prendo in giro. Volevo solo chiederti una cosa.
-Mi dica.
-Stai bene?
Bianca sembrò spiazzata. Spalancò gli occhi,
batté più volte le ciglia, aprì e
richiuse la bocca, e infine rispose, confusa:
-Beh... direi di sì. Sono piuttosto in forma. Come mai?
-Sei sicura di stare bene? Nel senso, è tutto ok? Non
c'è niente di strano?
Ricordò le volte in cui lei aveva detto che se le cose
andavano troppo bene, significava che in realtà non andavano
bene per niente. Quando gli diceva che presto, sicuramente, sarebbero
andate male.
Non era pessimismo. Era solo consapevolezza di quello che la sua
malattia comportava.
Così tanti tasselli che andavano al proprio posto.
-Di strano?
Del tipo?
Si rese conto che Bianca aveva sempre evitato accuratamente di
rispondergli. E che gliel'aveva suggerito più volte,
accennandolo appena, ma non gliel'aveva mai detto.
I tasselli che si riunivano stavano formando un'immagine cupa e densa
di tristezza.
-Tu non ti droghi – affermò, di punto in bianco.
-Eh, no che non mi drogo. Si è convinto, prof, finalmente?
-Sì, ne ho la certezza. Quelle pastiglie non erano ecstasy o
roba del genere, e tu non vedevi gli scoppi delle bombe per via degli
allucinogeni. Tu non ti droghi.
-No – mormorò Bianca, che però era
impallidita, e sembrava piuttosto agitata. Continuava a far dondolare
la gamba accavallata a ritmi velocissimi, e si morse le labbra.
-No – ripeté Emanuele – tu mi hai detto
la verità, da un lato, ma hai omesso diverse cose.
-Io non...
-Non serve che tu me lo dica, Bianca. Lo so. Ma voglio sapere
perché me l'hai tenuto nascosto.
Lei prese un respiro tremolante, a bocca aperta. Guardava il tavolino.
-Non volevo tenerglielo nascosto – disse, a voce bassissima
– io credo... di aver voluto che lei lo capisse. Solo, non
volevo dirglielo.
-Non potevo, Bianca. Non ne avevo gli strumenti. Non so niente di
psichiatria.
-Non volevo dirle che... sono pazza – la voce le si spense
nell'ultima parola, e il suo viso si fece tanto triste e vergognoso che
Emanuele allungò una mano verso di lei. Bianca
posò la sua, piccola ed esile, nel suo palmo infinitamente
più grande. La strinse con delicatezza.
Dentro di lui stava pensando: non ci sono più scappatoie. Me
l'ha detto lei. È tutto vero.
Quella che gli si prospettava di fronte aveva tutta l'aria di un'altra
battaglia da combattere; non contro qualcuno, ma contro una terra
impervia per la mera sopravvivenza.
Doveva essere forte anche per chi non lo era.
-Non lo sei, infatti. Non lo sei per niente. Hai risultati formidabili,
Bianca, hai capacità incredibili. Non puoi essere pazza.
Lei lo guardò, sconsolata.
-Spesso è la mania a darmi le energie per fare e memorizzare
tutte quelle cose. Me l'hanno detto i dottori. Quando sto dietro a
troppe cose, a un livello in cui una persona normale inizierebbe a dar
segni di stress, allora vuol dire che c'è sotto la pazzia.
Niente di quello che faccio è vero.
-No – protestò Emanuele, che pure avrebbe avuto
bisogno che fosse Bianca a gridare quel “no”
– la mania forse ti dà l'energia. Ma il cervello
è il tuo, e su questo non c'è dubbio. Tutte
quelle cose intelligenti che scrivi nei temi, le tue conoscenze su
così tante materie. I pazzi di solito sono soltanto pazzi.
Ma tu hai qualcosa dentro che non può essere soffocato. E
forse le fasi maniacali l'amplificano, ma se l'amplificano è
soltanto perché c'è una base, ed è una
base brillante, Bianca, cazzo, lo so meglio di chiunque altro.
-Prof – lei scosse la testa, con amarezza – sa
quanti bipolari sono stati considerati dei geni? Dante,
Pirandello, Virginia Woolf, Kurt Cobain, Hesse, Andersen, Napoleone,
Hemingway, Van Gogh... non ha idea di quante personalità di
rilievo potrebbe trovare in questa lista. Le possibilità
sono due: o il bipolare colpisce solo i geni, oppure quel presunto
'genio' è soltanto frutto di una capacità che non
proviene da noi. Una sorta di patto col diavolo. Siamo tutti dei Faust
bugiardi, professore.
-No – ripeté, ostinatamente. Bianca lo
guardò, in attesa di una risposta, ma senza convinzione. -
Esistono moltissimi cosiddetti 'geni' che il bipolare non l'hanno
avuto. Perché Virginia Woolf non poteva essere un genio e
una persona ammalata?
-Non saprei darle una risposta immediata. So solo che, quando arriva la
mania, io non sono propriamente io.
Non credo che normalmente avrei voglia di fare tutte quelle cose.
-Credi che non andresti con tutti quei ragazzi, se non fosse per la
mania...?
Lei lo guardò fisso negli occhi.
-Oh, no – affermò convinta – quello lo
farei comunque. Non dico che a volte non mi aiuti a distaccarmi dai
pensieri, ma... lo farei comunque.
-Lo credi davvero?
-Sì, lo credo davvero. Quell'uomo pensa di avermi tutta per
sé, e invece... invece la do esattamente a chi voglio io.
Anche a tutti, se mi gira di darla a tutti. Non sarà mai lui
ad avere il controllo su quello che faccio a letto, mai.
-Mi sembra che non ce l'abbia nemmeno tu, Bianca.
-D'accordo, forse la cosa mi è un po' sfuggita di mano. Ma
l'importante è che sia io
a decidere. E che siano altri a toccarmi, e non lui. Io voglio...
-Tu vuoi riappropriarti di te stessa. L'ho capito. Ma con la tattica
che hai scelto non ottieni altro che farti del male.
-Siete tutti assurdamente convinti che fare tanto sesso sia sinonimo di
autodistruzione. Sa che durante l'atto sessuale il corpo rilascia delle
sostanze chiamate endorfine, che producono una sensazione di benessere
prolungato e generalizzato? E poi fa dimagrire. Non può
certo fare del male.
-Ma tu non la vorresti, una persona che ti ama...? Farlo con qualcuno
che vuole soltanto te, che vorrà farlo soltanto con te per
tutto il resto della sua vita?
-Sì – si limitò a dire lei, puntando i
due grandi occhi castani fin nel profondo dei suoi.
In quel momento dovettero ordinare, e il discorso si interruppe. Dopo
che ebbero chiesto le loro pizze, ci fu un attimo di silenzio, che fu
interrotto da Bianca.
-A proposito del resto della vita – un sorriso birichino le
nacque sulle labbra – fra poco qualcuno
sottoscriverà una promessa d'amore eterna.
-Dai, non serve tirare fuori il discorso se non vuoi.
-Ma scherza?, avanti, non sono così infantile. Certo: non
dico che verrò, perché, sì, insomma,
mi sembrerebbe irrispettoso verso Camilla, dopo quello che le ho
combinato quella volta in hotel. E poi diciamolo: se entrassi in chiesa
l'acqua santa evaporerebbe e Cristo si schioderebbe dalla croce, se la
metterebbe sotto braccio tipo baguette e scapperebbe dall'entrata sul
retro.
-Cretina – ridacchiò – se solo ti
infilassi una camicetta chiusa fino al colletto e un bel pantalone
classico, e magari ti sistemassi un po' quei capelli, nemmeno Don
Giuseppe avrebbe da ridire su di te.
-Scherza? Lui e quelli come lui hanno sempre avuto il fastidioso hobby
di perseguitare noi rosse dicendo che eravamo delle streghe mandate
dall'inferno.
-Ma è passato un po' di tempo –
sottolineò – ah, voi anticattolici ad oltranza. Vi
attaccate a certe cose...
-Sì, sì, vabé, lei ha sempre vissuto
nel suo paesetto con Don Giuseppe che conosce tutti, il lattaio che le
fa lo sconto e i vicini di casa che le tengono il cane quando va in
vacanza. Non pretendo che capisca.
-D'accordo, Bianca, hai ragione, scusami se alla mia bigotta e limitata
mentalità da paesino sfugge il momento in cui Don Giuseppe
ha afferrato una rossa per i capelli, l'ha legata a un palo e le ha
dato fuoco, incitando la folla al linciaggio.
-Le concedo che non intenda bruciarle, ma non che non gli piacerebbe
portarsele a letto.
-Tu hai davvero una peculiare idea del mondo.
-Anche il signor Freud pensava che tutto girasse attorno al fiki fiki,
ma perché lui è un genio e sta nei libri di
storia, mentre io invece sono solo un'assatanata?
-Beh, credo che sia perché lui da questa idea ha ricavato
delle teorie, mentre tu ne hai ricavato soltanto un codice
comportamentale quantomeno opinabile, volendo essere diplomatici.
-Ma quel codice è mio
– osservò Bianca – mio e di nessun
altro. Né di mio padre, né di quel cane
poliziotto di mia madre, e neanche della pazzia. È solo mio.
E se agli altri dà fastidio non importa, perché
è una parte di me, e io... io ci tengo a conservare un pezzo
reale e sincero di me stessa, capisce?
-Credo di sì – fece Emanuele –
è un po' confuso, come concetto, ma credo di esserci
arrivato.
-Bene – Bianca sorrise – e adesso per favore
parliamo di cose belle. Mi racconti del suo matrimonio.
-Cosa vuoi sapere?
-Mmmh... Camilla avrà l'abito bianco?
-Beh, sì. Perché?
-Così, curiosità. E chi avete invitato?
-I nostri genitori, fratelli, cognati, zii, cugini, amici stretti,
relativi consorti.
-E come decorerete la chiesa?
-Non me ne sono occupato io, ma credo ci saranno dei bouquet di rose
bianche e lilium.
-Che meraviglia, prof. Me ne porterà uno?
-Vuoi un bouquet del mio matrimonio...? Ne sei sicura?
-Certo, ne sono sicura. Devono essere bellissimi. Allora, mi promette
che me li porterà, lunedì? Il giorno dopo
dovrebbero ancora essere belli. Me lo promette? Che mi
porterà i fiori?
-D'accordo, Bianca. Te ne porterò un mazzolino.
-Promesso?
-Promesso.
-Grazie – sorrise felice – e allora...
dov'è che andrà, in viaggio di nozze?
-Ci hanno regalato un coast to coast negli Stati Uniti –
sorrise, non potendo nascondere la soddisfazione – New York,
San Francisco, Hollywood, Chicago, Los Angeles, Las Vegas.
-Peeerò – commentò Bianca, spalancando
gli occhi – che bellissimo regalo. Ma sarà costato
un occhio della testa.
-In effetti se lo sono diviso tra tutti gli invitati, più o
meno – ammise – ma in fondo abbiamo già
una casa, dei mobili e dei corredi, e abbiamo specificato che non
avevamo bisogno di soprammobili o cazzate varie. Certo, un assegno per
pagarci il mutuo di quest'anno sarebbe stato il massimo, ma non mi
lamento.
-Ma non può
lamentarsi – esclamò Bianca, stupita –
che bel regalo, davvero. Devono volerle molto bene.
-Spero quanto io ne voglio a loro.
Lei sorrise.
-Mi piace questo suo lato genuino e tenero, prof. Davvero.
Non poté fare altro che restituirle il sorriso, un po'
imbarazzato. Ma lei riprese con le domande.
-E quindi, quanto starà via? Suppongo un bel po', vero? Non
verrà neanche a salutarci, prima di partire? - Bianca sporse
il labbro inferiore e lo fece tremolare, scherzosamente.
-Beh, il progetto era quello di partire mercoledì. Dato che
ci prenderemo un paio di settimane, abbiamo dovuto organizzarci al
lavoro, e non è stato possibile partire subito. Pazienza;
ora come ora siamo troppo occupati con i preparativi, quantomeno avremo
il tempo di fare i bagagli.
-Certo, capisco. E così mentre noi siamo qui chiusi in una
stanza tutti assieme lei se ne va a prendere il sole e a far shopping!
Quanto la invidio. Non sarebbe male andare a New York.
-Un giorno, magari, quando ti sposerai, potrai chiedere come regalo di
nozze un viaggio nella Grande Mela.
Bianca rise e non aggiunse altro, quindi si concentrarono finalmente
sulle pizze ormai fredde.
Finirono di mangiare velocemente e poi si diressero verso la fermata;
lei salì sul 13, la salutò con la mano, lei lo
salutò allo stesso modo, con un gran sorriso sulle labbra.
Poi dopo qualche minuto passò un 8 che lo portò
in stazione, e lui inspiegabilmente si sentiva il cuore leggero.
-Oggi l'ha ammesso – disse a Camilla, entrando a casa
– di avere il bipolare. Ma sembrava tranquilla, al riguardo.
Forse ha accettato di doverci convivere.
-Mi dispiace così tanto – mormorò
Camilla, che stava versando il purè sui piatti –
davvero. Se solo fossi stata più informata, se solo ne
avessi saputo qualcosa... è un caso talmente eclatante.
-Lascia stare, non hai idea di quanto mi sono sentito stupido e
ignorante. Certo, non è il mio campo, ma è un
disturbo così diffuso, e così pericoloso! Eppure
non se ne sa nulla.
-Te ne ha parlato?
-No, in realtà poi il discorso è caduto sul
nostro matrimonio. Mi ha detto che non vuole venirci, ma ha insistito
perché le portassi uno dei bouquet che ci sono in chiesa. Ti
dà fastidio?
Camilla tacque per un attimo. Emanuele si sentiva un po' teso, forse
aveva chiesto troppo, pensò. Ma poi lei, timidamente, con
voce incerta, suggerì:
-Stavo pensando che, anche se non posso lanciarglielo... forse potremmo
portarlo a lei, il mio bouquet. Che ne dici? Come buon auspicio per il
suo futuro.
Quello era un gesto di pace, ed era un gesto di fiducia, ed Emanuele
sentì che finalmente aveva una tregua. Baciò
Camilla e l'abbracciò forte. Lei aveva un sorriso timido e
felice che non le vedeva addosso da tanto tempo.
Nei quattro giorni rimanenti, la casa fu tutto un viavai di genitori,
fratelli e cognati, telefonate, prenotazioni, conferme, ulteriori
conferme, conferme definitive.
-Ma guarda Alberto se proprio adesso doveva prendersi l'influenza. Poi
dico, almeno dammi la certezza che non ci sei, come fai a dirmi 'boh,
forse ci sono, tienimi il posto'?
-Emanuele, dove ze che
te ghe messo i anei? [ Dove hai messo gli
anelli? ] - sbuffò in dialetto sua madre, che
girava per la casa senza scopo da mezz'ora – No te poi assarli in giro dove
che capita, ostia! [ Non puoi lasciarli in
giro dove capita, accidenti! ]
-Non sono in giro, mamma – davanti a Camilla le parlava in
italiano; a casa, invece, le rispondeva in dialetto, perché
così era stato cresciuto – li ho messi in
cassaforte, al sicuro.
-E ora cossa 'spetavito
a dirmeo? Go da portarli via! Possibie che te sipi sempre el soito
savaton... [ E allora cosa aspettavi a
dirmelo? Devo portarli via! Possibile che tu sia sempre il solito
ciabattone... ]
-Dai, mamma, sta' calma due minuti, ché c'è
già abbastanza casino.
-Te digo mi beo, tuto el
casin nasse parché ti no te si bon de fare e robe come che
ga da 'ndare [ Ti dirò, bello,
tutto il casino nasce perché non sai fare le cose come si
deve ] - chiocciò sua madre – 'Scoltime qua Camilla,
sarà ben che te me parli co mi, assa stare 'sto pandoeo che
no 'l se ga gnancora incorto de esare al mondo [ Senti,
Camilla, sarà meglio che tu parli con me, lascia stare
questo tanghero che non sa neanche di stare al mondo ].
Camilla rise, Emanuele scosse la testa e decise di lasciar perdere. Per
fortuna, pensò, se n'era trovata una diversa da sua madre.
-Cami, me lo lanci il bouquet? - chiese Vittoria, che quel pomeriggio
era venuta a provarsi ancora una volta il vestito da damigella. -
Così magari poi mi sposo con Davide!
-Tesoro, mi dispiace, ma pensavo di tenerlo io per ricordo, il bouquet
– mentì Camilla, con un dolce sorriso. Si
scambiarono un'occhiata complice – però,
se vuoi te ne do uno di quelli in chiesa.
-Non è la stessa cosa – Vittoria fece una smorfia,
ma si dimenticò presto il bouquet quando poté
provarsi il vestito; era la prima volta che ne metteva uno vero,
elegante, e sua madre non faceva che ripetere loro quanto fosse
irrequieta in quei giorni.
-Più ci avviciniamo alla cerimonia, e più si
agita – sospirava – neanche l'avessero allestita
per lei. Che incubo. Continua a dirmi di portarla dal parrucchiere e
che vuole farsi i boccoli, ma lei ce li ha già i capelli
ricci, non c'è bisogno di andare dalla parrucchiera, ma lei
no!, vuole i boccoli fatti col ferro dalla parrucchiera, e poi mi
chiede di truccarla, ma figuratevi se trucco una ragazzina di sedici
anni; l'acqua e sapone è sempre il trucco più
bello, no? Vero, patatina?
-Non chiamarmi patatina!
-Guardatela, come si vergogna. E invece sei ancora una patatina, la
patatina della mamma, vero, tesoro?
-Daaii!
Camilla ed Emanuele sorridevano, annuivano e intanto pensavano a come
defilarsi, e ogni tanto si lanciavano qualche occhiata ad occhi
rovesciati.
-Non trovi assurdo che il giorno del nostro matrimonio – le
sussurrò Emanuele quando furono soli in cucina a preparare
il caffè per gli ospiti – saremo costretti a
sorbirci queste chiacchiere per l'intera giornata, mentre invece
teoricamente dovrebbe essere il nostro giorno, dedicato solo a noi?
-Poi abbiamo due settimane di pace in solitudine –
sussurrò Camilla di rimando – cerchiamo di
resistere.
-Insoma, quanto te voe
par pareciare un caffé? El giorno che ea Camilla se stufa de
ti, come pensito de fare, indormesà come che te si?
[ Insomma, quanto ti ci vuole per preparare un
caffé? Il giorno in cui Camilla si stuferà di te
come pensi di cavartela, tonto come sei? ]
Emanuele sospirò. Sua madre faceva così
perché era nervosa, lo sapeva, e non ci diede molto peso; ma
ricordava che, quando abitava con lei, i suoi attimi di nervosismo
erano molto frequenti, perché lui aveva studiato una cosa
inutile, perché non trovava lavoro, perché
perdeva troppo tempo con le ragazze e perché tornava tardi.
Guardò Camilla e pensò che era felice che la sua
nuova vita iniziasse con lei, che la sua famiglia d'ora in poi e per
sempre fosse quel visino dolce e sorridente.
-Prof, mi sono provata un vestito per la cerimonia –
esordì Francesca – vedrà come saremo
eleganti.
-Ma in quanti intendete partecipare? Anche tutte le altre classi che
seguo hanno detto che vogliono intervenire. Guardate che al ristorante
ci sono solo parenti e amici stretti, è già
prenotato, potreste solo assistere alla cerimonia in chiesa e
probabilmente stareste in piedi.
-No problem! - gli assicurò Crivellaro – E
prometto che non aprirò bocca se non per recitare l'Ave
Maria e il Padre Nostro. Anzi no: neanche quelli, dato che non me li
ricordo. Starò muto e immobile per tutta la cerimonia.
-Anche se è un luogo di ritrovo per il culto cristiano, io
ci sarò – promise Benetazzo – e... e per
lei, io... io mi metterò in giacca e cravatta!
-Sono sinceramente commosso – si stupì Emanuele
– e, giuro, non ti sto prendendo per il culo.
-Non bestemmierò neanche una volta –
giurò Cappelletto.
-Sarà bello per una volta vedervi senza jeans e Converse
– sorrise – ad ogni modo, vi ringrazio davvero per
la vostra partecipazione. È un gesto molto bello da parte
vostra.
Bianca lo guardava sorridendo e col labiale gli ricordò
'fiori'. Emanuele annuì impercettibilmente ed
iniziò la lezione, durante la quale Bianca, che aveva fatto
in modo di sedersi di fianco a Valeria, parlottò per tutto
il tempo, ridacchiando e tentando di palparla.
L'ora dopo gli chiese di uscire perché era troppo
irrequieta; acconsentì e ogni tanto la videro passare mentre
faceva le ruote per tutto il primo piano. Poi iniziò a
correre da un capo all'altro del corridoio, e la sentirono che spiegava
al bidello, affannata, che si era data al jogging. Iniziò a
chiacchierare col vecchio Gigi e nel frattempo Emanuele
notò, con la coda dell'occhio, che si stava esercitando con
le verticali contro il muro. Non ci fece caso.
Si era a inizio trimestre e le lezioni erano costellate di spiegazioni;
Bianca gli comunicò che per un paio di giorni avrebbe
saltato scuola, ma che sabato sarebbe venuta a salutarlo, per fargli le
congratulazioni. Un giorno a ricreazione le chiese cos'avrebbe fatto, e
lei, con un sorriso furbo, gli rivelò:
-Dico a mia mamma che vado a dormire da una mia amica. In
realtà vado a un rave, e poi resto al chill-out. Ho bisogno
di movimento.
-Ne hai un po' troppo
bisogno – osservò Emanuele – non
è che...
-No no no – lo rassicurò lei, agitando le mani
– si figuri. Sto prendendo il litio regolarmente;
è tutto a posto, sono stabile. È solo che ho
deciso di non pensare a lei e di dedicarmi a me stessa, alle mie
passioni, ai miei interessi...
-I tuoi interessi sono il cinema e la letteratura, Bianca. Me ne hai
sempre parlato.
-Beh, io non sono un'intellettuale che non pensa al divertimento. Mi
piace anche ballare, fare tardi, fare sesso e poter raccontare storie
allucinanti. Se non lo faccio ora, quando?
-Mi sembra di averla già sentita, questa.
-Ma su, prof, guardi che ho anche periodi di calma –
protestò – non sono sempre esagitata o
superdepressa. Le mattane mi lasciano anche dei momenti di
normalità – rise.
Era pur vero che la normalità di Bianca erano le feste, il
sesso e l'alcool. Dimenticava sempre che, per quanto fosse
intelligente, le piacevano cose anche molto banali e stupide.
-Promesso che non fai cazzate?
-Promesso, prof. Non mi drogherò, mi metterò il
preservativo e cercherò di tornare a un'ora decente del
pomeriggio.
-Il pomeriggio – mormorò Emanuele – non
ci sono più i giovani di una volta. E pensare che ai miei
tempi la trasgressione era fare mattina.
-Perché lei non ha mai vissuto appieno la sua vita
– gli fece l'occhiolino – ma se lei è
contento così, con la casa e il cane e la fidanzata fissa,
allora sono felice per lei. Non sono nessuno per criticare.
La guardò attentamente. Riconobbe la trappola dietro il
sorriso innocente; aveva già sentito una volta questa
storia, e un bravo combattente non si fa colpire due volte dallo stesso
attacco. Fu così che decise di passare al contrattacco.
-Non me ne farai pentire – asserì –
nossignora. E so che tu la vorresti, una casa con dentro un cane e un
fidanzato fisso come la mia: ma non riesci a trovarla e sai che se non
cambierai sistema non la troverai mai, inoltre sai altrettanto bene che
non cambierai, quindi per consolare te stessa vieni a dire a me che mi
prendo dalla vita quello che lei si degna di darmi e che non auspico a
niente di meglio di quello che mi è caduto tra le mani. Ti
dirò: puoi anche considerare il mio stile di vita poco
avventuroso, all'insegna dell'accontentarsi, delle regole da bigotti
per bene... ma io sono davvero felice di quello che ho, e credo che
essere felici con quello che si ha venga prima di tutto. Anche di quel
qualcosa che tu cerchi e che forse non ti servirà a niente.
-Lo so, ha ragione lei – ammise, con un sorriso timido
– gliel'ho sempre detto che a me sarebbe piaciuto molto, se
solo... - si interruppe. Emanuele pensò che forse volesse
dire che le sarebbe piaciuto, se avesse potuto stare con lui; ma non
seppe mai cosa Bianca avesse inteso dire quella volta. - Beh, comunque
sì, ha ragione, sono un po' invidiosa! Ecco
perché devo andare a quel rave e darmi una bella botta di
vita.
-Se lo dici tu.
-Non si preoccupi – gli ripeté – faccio
la brava.
Con questo lo salutò perché doveva scappare a
prendere l'autobus. Forse l'aveva accettato davvero. Forse questa
volta, forse, avrebbe potuto avere il suo lieto fine.
I due giorni che seguirono furono frenetici. Tutto il loro tempo libero
era dedicato ai parenti che invadevano la casa portando regali e un
fastidioso chiacchiericcio. Venerdì avevano a cena i
testimoni di nozze da parte di lei; si trattava della migliore amica di
Camilla, Elena, e del suo fidanzato giapponese incontrato in Erasmus,
Soichiro, il che rubò una discreta quantità di
tempo ai preparativi, ma portò loro in cambio i cinnamon rolls
preparati appositamente da Soichiro, e naturalmente una serata
piacevole, libera dal parentame.
-Quindi sono questi gli ospiti? - ripeté per l'ennesima
volta il proprietario del ristorante – E mi conferma anche la
disposizione dei posti?
-Sì, sì, tutto perfetto. In giornata ripassa mia
mamma a controllare chi si siede dove e tutte quelle robe là.
Fu il turno del prete.
-Mi raccomando, ricordatevi sabato di venire a confessarvi,
ché poi vi devo comunicare. Questione di cinque minuti. Se spera.
Poi di sua mamma.
-Sempre a mi me toca
fare e robe al posto tuo [ Tocca sempre a me
fare le cose al posto tuo ] - si esasperò
– ah, Dio,
quando ze che te metarè giudisio, mi no so pì che
santi ciamare [ ah, Dio, quand'è
che metterai giudizio, io non so più a che santo votarmi
]!
In effetti, pur di non averla attorno l'avevano spedita a fare
commissioni e controlli; così, almeno, era lei stessa a fare
le cose e non poteva criticare gli altri. Criticava comunque, ma in
misura molto limitata.
-Camilla, sei sicura che ci siano tutti i documenti per il viaggio? -
si preoccupava il padre di lei, che non contava molto sulla sua
capacità di cavarsela al di fuori del loro controllo
genitoriale – Non per dire che tu non sia capace, per
carità, ma controlla una volta in più se
c'è tutto.
-Ho i biglietti, papà, per tutte le destinazioni e per il
ritorno; ho la prenotazione degli aerei, ho la carta di credito
internazionale carica, le valige le faccio la settimana prossima.
È tutto pronto.
-Ma hai ricontrollato un'altra volta se c'è proprio
tutto...? Hai telefonato agli hotel per avere conferma...?
-Due volte ciascuno questa settimana.
-Ecco, richiamali anche la settimana prossima. Il giorno in cui parti.
Mi raccomando.
-Sì, papà.
La sera di giovedì si gettarono a letto esausti, sospirando
in coro. Presero un bel respiro.
-Più che un giorno di gaudio, è una gran rottura
di maroni – commentò Emanuele.
-Non dire così, dai. Necessita organizzazione. Magari se mi
avessi sposata in una chiesetta alla periferia di Parigi, quella
domenica mattina, solo io e te e i prati innevati e le campane... -
sorrise – ma hai voluto fare le cose in grande, visto? Ed
ecco cosa ci è capitato.
Emanuele rise.
-Ma sì, chi se ne frega. In fondo, ti sposi un po' il giorno
in cui lo chiedi, no? È lì che davvero nasce la
promessa. Domenica ci limiteremo a confermarla davanti a tutti quelli
che conosciamo.
-E anche a noi stessi.
-Già. Che dici – la scrutò, un po'
indeciso se chiederglielo o meno, ma poi prese coraggio – tu
confermi...?
-Confermo – sorrise lei, e poi gli accarezzò il
viso – e tu...? - aggiunse, con malcelata tensione.
-Confermo – mormorò, prendendole la mano e
baciandola; si addormentarono tenendosi per mano.
Il venerdì passò all'insegna dei lavori di casa:
occuparono il pomeriggio sistemando la casa per il rinfresco. Il
giardino era troppo piccolo perché potessero starci tutti
quegli invitati, per cui furono costretti ad adattare il salotto;
spostarono mobili, sprimacciarono cuscini, spolverarono i soprammobili.
Si divisero i compiti: Camilla lavò i pavimenti, sua madre
spolverò i mobili, Emanuele pulì i vetri delle
finestre e diede una riordinata generale a tutte le stanze della casa.
Si accertarono che ci fossero asciugamani puliti in bagno in tinta con
la tappezzeria; i libri ebbero la loro passata di straccio e poi furono
chiusi nelle loro librerie con vetrina; tutti gli oggetti lasciati in
disordine in garage furono ammassati sugli scaffali o nella casetta per
gli attrezzi. Appesero alcuni festoni, prepararono il tavolo in
salotto, chiamarono la pasticceria per assicurarsi che domani alle nove
potessero passare a ritirare ciò che avevano ordinato.
Cenarono con i loro genitori, che se ne andarono comunque abbastanza
presto; la casa era più bella che mai, ne erano soddisfatti.
-Almeno, domani possiamo concederci una giornata di relax. In teoria.
-Tranquillo Ema, salterà fuori qualche inconveniente, me lo
sento.
-No, basta – gemette, afflosciandosi sul tavolo.
Ma non era davvero esausto. Dovevano fargli fare ben altro, prima di
fargli cambiare idea su lui e Camilla.
In quei due giorni di fatica aveva quasi dimenticato Bianca e il suo
rave. Anzi; poteva tranquillamente affermare di averla accantonata per
tutto quel tempo. Ma aveva promesso di comportarsi bene, per cui non si
era preoccupato e aveva dormito tranquillo.
Arrivò a scuola sabato mattina e fu accolto da un boato e da
un applauso, che lo imbarazzarono un po', ma gli fecero anche piacere.
Bianca, assieme ad alcuni altri, era ancora in spogliatoio dopo
educazione fisica; non ci fece caso finché non la vide
arrivare in classe, scarmigliata e affannata, per ultima assieme a
Cappelletto.
-Sì, è come pensate –
dichiarò lui entrando in classe, poi si sedette tranquillo
al suo posto. Lei rise e fece lo stesso.
-Beh, con comodo – disse loro – dai ragazzi, oggi
ho voglia di fare presto. State buoni per quaranta minuti e gli ultimi
quindici sono tutti vostri.
-Ma prof, domani si sposa! Non è necessario che anche oggi
si affatichi per fare lezione!
-Grazie della preoccupazione, Francesca, ma se arriva qua il direttore
dopo il viaggio di nozze non torno più a scuola. Dai,
prometto che saprò rendervi interessante l'Italia
prerinascimentale.
-Non credo – gemette Francesca – comunque, prof,
abbiamo qui una cosa per lei...
-Una cosa per me?
-Le dico già che non è una spada intarsiata
– sospirò Benetazzo, scuotendo la testa con
amarezza.
-No, ragazzi, sul serio...
-Prof, è il minimo, ci mancherebbe altro –
intervenne Giulia con fermezza – lei è sempre
stato il migliore. Se non facciamo il regalo a lei, allora possiamo
anche spararci.
Rise ed accettò il regalo di buon grado. Li
ringraziò uno per uno, stretta di mano ai ragazzi e bacio
sulle guance alle ragazze; tutti erano emozionati, fu difficile tenerli
calmi quel giorno.
Bianca in particolare fu più irrequieta del solito; con la
scusa di non avere il libro, si avvicinò a Cappelletto e non
fece che provocarlo per tutto il tempo. Rise ad alta voce per
chissà cosa lui le aveva detto, incurante della spiegazione
in corso, ad un tratto lanciò un urlo e scattò in
piedi, poi si risedette come nulla fosse. Era strana, ma non disse mai
di sentir parlare le voci, o di sentire i boati delle bombe.
Chiese ad altri insegnanti delle ore successive e gli confermarono che
era stata piuttosto agitata; ma poi, a un certo punto, durante l'ora di
religione, aveva urlato “ma sì! Tanto si
risolverà tutto!” e poi si era calmata; Emanuele
la incontrò alla fine della sesta ora, alla fermata, e la
trovò effettivamente serena.
-Prof! - lo salutò, allegramente – Salve. Allora,
è agitato? Quando ci rivedremo lei sarà un uomo
sposato, wow!
-Già, avrò una fede al dito – ammise
– sarò ufficialmente il Signor Emanuele Vettorel.
Lei sembrava felice per lui. Gli diede una piccola gomitata.
-Dica la verità, lei è contentissimo.
-Ti dirò che sono emozionato, sì. Non pensavo che
avrei sentito le farfalline nello stomaco, eppure eccomi qui. Stanotte
mi sa che non chiudo occhio.
-Vuole che le presti uno dei miei sonniferi? Volentieri, prof.
-No, grazie, Bianca, abbiamo così tante cose da fare che
arriverò a stasera stanco morto. Grazie del pensiero,
comunque – le sorrise.
-Per così poco. Comunque... oh, no – sugli occhi
di Bianca spuntò uno spesso velo di lacrime. Lei si
toccò le guance dove quelle scivolavano giù una
dopo l'altra, sorpresa. - Oh... questo non era previsto. Mi scusi. - Si
asciugò il viso alla bell'e meglio. Si sporcò con
il trucco nero, ed Emanuele cercò un fazzoletto nella
ventiquattrore; trovatolo, le pulì velocemente il viso.
Lei rimase immobile mentre lui passava il kleenex sul suo volto bagnato
di lacrime.
-Mi scusi. Non è per il matrimonio, glielo giuro.
-E per che cos'è, allora...?
-Niente. Non ho davvero motivi per piangere. Adesso non più
– affermò, con un tono tanto deciso che Emanuele
si sentì subito rassicurato.
Forse quello era il regalo di nozze di Bianca, pensò.
Assicurargli che non l'avrebbe fatto sentire in colpa per amare
Camilla, mai più.
-Devo prendere il treno – le disse – sono sicuro
che è tutto ok?
-Sì, prof – gli sorrise – ogni tanto
succede, sa. Non dipende dai miei stati d'animo reali. Succede e basta.
-D'accordo – annuì – ricordati le
medicine.
-Certo, prof, grazie. Senta...
-Sì?
-Posso chiederle una cosa?
-Certo, dimmi.
-Prima che lei vada, le posso dare un abbraccio? Tra poco devo andare,
e mi farebbe piacere andarmene con il ricordo del suo profumo. Dato che
tra poco potrebbe essere un atto di adulterio – gli fece
l'occhiolino.
Emanuele le sorrise.
-Ma sì, perché no. Avanti, vieni qui.
Bianca in un saltello gli fu davanti, e lo guardò fiduciosa,
in attesa. Lo intenerì. Si appoggiò la testolina
rossa sul petto e con l'altra mano le circondò la schiena.
Sentì il piccolo peso di Bianca appoggiarsi a lui, e il suo
petto gonfiarsi nell'inspirare il suo profumo; infine
abbandonò la fronte contro il suo petto. Appoggiò
la testa sulla spalla di lei.
Si separarono dopo pochi secondi. Bianca guardava il marciapiede, con
le guance lievemente arrossate. In quel momento il 13 si
avvicinò alla fermata.
-Grazie, prof – mormorò, e, prima di voltarsi e
salire sull'autobus, gli regalò uno dei suoi bellissimi
sorrisi pieni di luce, che gli occhi lucidi e le guance rosate
riuscirono a rendere soltanto più luminoso e dolce.
La salutò con la mano, ma lei questa volta non lo stava
seguendo con gli occhi dal finestrino; stava districando i nodi degli
auricolari, ed Emanuele fu felice che fosse così.
Quella notte non dormì, come aveva previsto. Era
stanchissimo – i preparativi non finivano mai, e per di
più quel giorno aveva avuto sua madre per casa –
ma non riuscì a dormire; sembrava che quella notte, tutta in
un colpo, gli fosse scesa addosso la consapevolezza di stare per
compiere un atto definitivo, di stare per dire 'sì' a una
promessa che non avrebbe mai potuto infrangere. Mai, era la parola
chiave. E sempre.
Due parole che davano il capogiro.
Stettero immobili e in silenzio, ma entrambi sapevano che l'altro non
stava dormendo. Dopo anni in cui avevano condiviso ogni singola notte,
ormai avevano imparato a distinguere se la persona accanto a loro fosse
immersa nel sonno o soltanto nei suoi pensieri. Emanuele trovava che
quella capacità acquisita con la vicinanza fosse una cosa
bellissima.
Restarono svegli molto a lungo, ma non parlarono. Rimasero ognuno alle
prese con le proprie emozioni, ma saldamente abbracciati.
E finalmente arrivò il mattino, e dovettero alzarsi presto;
i genitori di Camilla e quelli di Emanuele arrivarono carichi di
tramezzini, pizzette, pasticcini e ogni genere di stuzzichino. Si
affrettarono a disporli sul tavolo già preparato e munito di
salviette, stuzzicadenti, bicchieri e bevande. Vassoi di confetti alle
mandorle coronavano il tavolo. Gli invitati non tardarono a
raggiungerli, alla spicciolata.
Sì, l'atmosfera era di festa, e la giornata splendeva di un
sole bellissimo, galleggiante in un cielo di un azzurro da fotografia.
La giornata si prospettava allegra.
Salutarono gli amici, conversarono amabilmente con i più
anziani, scherzarono con i bambini; le Action Figures erano state tutte
riposte dove i più piccoli non potessero raggiungerle.
In chiesa trovarono gli alunni di Emanuele, molti dei suoi colleghi, e
diversi colleghi di Patrizia.
-Prof! - gridò un coro – Congratulazioni!
-Ehilà – li salutò, raggiante
– peccato che non possa presentarvi la mia fidanzata. Adesso
è da un'altra parte, sapete, la tradizione...
-Adesso è sua moglie, prof – gli
ricordò Francesca.
-Ehi, manca ancora un'oretta – protestò
scherzosamente – ragazzi, siete veramente belli, ve lo devo
proprio dire. Fatti vedere, Benetazzo? Vediamoti?
Quello si fece strada timidamente tra i suoi compagni. Coi capelli
raccolti in una coda, giacca e cravatta e un paio di scarpe classiche,
sembrava un'altra persona.
-Sì, ma non guardate tutti me – si
affrettò ad esclamare.
-Sì, infatti – ghignò Cappelletto
– guardi come si è tappata Morticia. Vista
così è quasi pisellabile, vero?
-Siamo davanti a una chiesa, imbecille – grugnì
una voce, ed Emanuele si stupì di scoprire che quella voce
proveniva da Valeria, la quale, fasciata da un vestito di lana bianca e
munita di décolletés, anche se forse non era il
momento più opportuno per una simile considerazione, era
decisamente più pisellabile
del solito.
-Complimenti, ragazzi. Veramente. Non vedo l'ora di farvi una foto.
-No – lo implorò Valeria.
-Oh, sì, anche tu, regina delle tenebre –
Cappelletto le mise un braccio attorno al collo; Valeria e Benetazzo si
affrettarono a rimuovere quel braccio – lo sapranno tutti. La
notizia raggiungerà ogni angolo della provincia, che dico:
dell'Italia! Che dico: dell'Europa! Che dico...
-Annichilisciti
– sibilò lei, poi si diresse verso l'entrata
– beh, io vado a sedermi, voi fate quello che volete. Prof,
viene?
-Devo salutare qualcun altro, ma dopo la cerimonia torno da voi
– le assicurò – ci vediamo
più tardi.
Allontanandosi, sentì che parlavano di Bianca.
-Ma non viene davvero?
-Non l'ho più sentita.
-Hai provato a scriverle un sms e chiederglielo?
-Sì, ma mi ha risposto 'grazie'. Non credo abbia afferrato
il punto.
-Mi spiace che proprio oggi non ci sia – commentò
Benetazzo; fu l'ultima frase che udì distintamente prima di
essere risucchiato da un'orda di parenti.
La cerimonia fu all'insegna della tradizione, non molto briosa, come
c'era da aspettarsi da Don Giuseppe; questo smorzò un po' il
fermento degli invitati e degli stessi sposi, ma il momento del
'sì' fu ugualmente memorabile.
Camilla era bellissima nel suo abito di seta; tutto quel bianco attorno
a loro, le rose, i gigli, il vestito, la coroncina; tutto era candido e
brillante come la luce della luna in un cielo pulito. Quando le
infilò l'anello al dito, la mano gli tremava, e lei gli
rivolse un sorriso così tenero che per un momento si
fermò per guardarla negli occhi e sorriderle.
Il gesto non sfuggì agli astanti e scoppiò un
applauso fragoroso. Camilla rise e si gettò tra le due
braccia, e lui la strinse forte e la baciò tanto a lungo che
scoppiò un secondo applauso, ancora più forte del
primo. Tutti sorridevano, tutti erano felici; quel giorno fu speciale
non perché disse un 'sì', ma perché,
per un'ora in tutta la sua vita, seppe che negli occhi di tutti c'era
gioia e che quella gioia era dedicata a loro due.
-Dai, mamma, non piangere – le mise un braccio attorno al
collo; a fine cerimonia, ancora si stava asciugando gli occhi con il
fazzoletto. Lei lo scrollò scocciata.
-No pianxo
mìa par ti seto [ Non piango mica per te, sai ]
- rimbeccò, con voce tremolante - pianxo par 'sta poareta che
desso ghe toca tendarte par tuta ea vita. [
Piango per questa poveretta a cui toccherà tenerti d'occhio
per tutta la vita. ]
Suo padre scosse la testa, sospirò e poi li
abbracciò entrambi. Notò che anche lui aveva gli
occhi un po' lucidi.
-Papà, non mi dire che ti sei commosso! -
esclamò, anche se era sull'orlo delle lacrime anche lui. Si
sentiva il cuore gonfio di qualcosa di inesprimibile.
I genitori di Camilla l'avevano presa più tranquillamente;
dopo averla abbracciata, sorridenti e commossi, avevano lasciato spazio
agli altri invitati ed erano usciti portandosi dietro alcuni parenti,
iniziando già a dare indicazioni per il ristorante.
La preside fu la prima a raggiungerlo, quando gli amici iniziarono a
seguire i parenti fuori sulla scalinata.
-Tanti, tanti auguri – esordì, prendendogli una
mano tra le sue – non sai quanto solo felice per voi.
Permettimi di presentarmi – sorrise a Camilla, le porse la
mano – Giovanna, molto piacere. Siete davvero bellissimi,
ragazzi. Congratulazioni.
-La ringrazio, preside.
-Camilla, sappi che questo è un bravissimo ragazzo, uno dei
migliori che abbia avuto nella scuola; e lo dico nel senso umano, non
professionale.
-Senza dubbio – confermò Sonia – vi
faccio i miei più sinceri auguri.
-Che meraviglia – commentò Antonella –
date un senso di gioia soltanto a guardarvi. Vi auguro davvero un
futuro sempre migliore.
-E questo da parte di tutti – soggiunse Mariolina con un
sorriso; poi fu il turno di Rossella di felicitarsi. Gli altri non
avevano potuto venire, ma ad Emanuele andava bene così;
c'erano esattamente quelli che voleva che ci fossero.
Poi arrivarono gli studenti, e finalmente riuscì a
presentarli a Camilla.
-Allora – incominciò – questo qui
è Benetazzo. Guardalo bene, perché è
la prima e l'ultima volta che lo vedrai così.
-Così come?
-Senza una ferramenta attaccata ai vestiti –
commentò Monica Miotto, scuotendo la testa. Ma era un giorno
di gioia, per cui ridacchiarono senza badare alla critica.
-Anche lei – Cappelletto sospinse Valeria davanti a Camilla
– normalmente sembra la Morte, le manca solo la falce.
-Ringrazia che non possa usarla contro di te – lo
apostrofò quella – scusami, Camilla.
Congratulazioni di cuore.
Le strinse la mano; a lei seguirono Giulia, Francesca, Crivellaro,
Benetazzo, Cappelletto, Monica e altri due o tre che erano intervenuti;
portarono anche i saluti e le felicitazioni degli altri compagni che,
per un motivo o per un altro, non avevano potuto venire.
Emanuele non lo disse, ma in fondo era contento: anche in quel caso,
quelli a cui era più affezionato erano lì.
Tranne una, diceva una vocina nella sua testa. Ma la ignorò
pensando che Bianca ora aveva altro per la testa, che sabato aveva
gridato 'si risolverà', e aveva fiducia nelle sue
possibilità. Sapeva che avrebbe sconfitto la pazzia, che se
ne sarebbe liberata prima o poi.
Il pranzo si risolse in un viavai infinito tra i tavoli; dovevano
chiacchierare con tutti perché nessuno si sentisse escluso,
ascoltare un'infinità di insegnamenti sul valore di quel
sacramento e sui sacrifici che esso comportava ( “pensavo che
dopo la messa questi discorsi fossero finiti”
sussurrò Emanuele tra i denti a Camilla) e consegnare le
bomboniere; il pranzo tirò per le lunghe e ne uscirono a
pomeriggio inoltrato, esausti e con l'unico desiderio di togliersi gli
abiti da festa e stare finalmente da soli, con il fermo proposito di
non riunire mai più tutti i loro parenti nella stessa stanza
fino almeno alle nozze d'oro, quando, auspicavano, almeno la
metà di loro non sarebbe più stata in
circolazione.
-E mi raccomando, e guardate che, e non sarà sempre facile
– li scimmiottò Emanuele – ma ci siamo
appena sposati, non puoi lasciarmi nel mio stato di eccitazione
estatica e rimandare le prediche a un altro giorno?
-Dimenticano che viviamo assieme da tre anni e che siamo fidanzati da
parecchio. Pensano che non abbiamo idea di cosa voglia dire condividere
il proprio quotidiano con una persona – sospirò
lei, togliendosi le scarpe con la punta dei piedi e lasciandole cadere
per terra.
-Ma sì, lasciamoli perdere... Dio, sono esausto. Andrei a
dormire subito, se non avessi una quindicina di portate nello stomaco.
-Non dirmelo. Andrei a fare una passeggiata, ma non ho nemmeno la forza
per alzarmi dal letto.
-Ci facciamo un the?
Lei sorrise.
-Finocchio e liquirizia. Il digestivo ideale – lo
informò – faccio una caraffa?
-No, riempi direttamente il pentolone per il minestrone con tutta
l'acqua che riesci a farci stare, e poi falla bollire. Dovrebbe essere
sufficiente, ma non ne sono sicuro.
Camilla rise e, con uno slancio, si tirò su e
andò al piano di sotto. La raggiunse quasi subito; prima
tirò fuori il regalo dei suoi alunni dallo scaffale su cui
l'aveva lasciato, e lo portò di sotto.
-Lo apriamo? - disse a Camilla, che stava scegliendo le foglie di the
– Questo è il regalo dei miei studenti.
-Ma certo, apriamolo! Sono curiosa.
-Tieni, scartalo tu – glielo porse. Lei l'afferrò
con un sorriso e lo scartò velocemente.
Era una grande cornice d'argento, molto elegante; ci avevano inserito
una specie di collage, fatto con un programma di grafica, dove avevano
inserito tutte le loro facce.
-Ma dai, che carini! - rise Camilla – C'è anche un
biglietto... leggilo, dai!
-Vediamo... dunque, dice: “Tanti auguri di cuore dalla terza
A! Ovviamente la cornice è destinata a ospitare una foto sua
e della sua bellissima moglie, non le nostre brutte facce! Grazie per
tutto quello che ha fatto per noi... le vogliamo bene. Terza
A”, e poi ci sono le firme.
Tacque, inebetito.
Camilla lo guardò.
-Ti vogliono molto bene – disse. Lui annuì.
-Alla fine, forse, un piccolo segno gliel'ho lasciato.
Dopo il the, iniziarono a spreparare il tavolo del soggiorno, a buttare
gli avanzi che non era possibile conservare, a pulire il pavimento e a
rimettere i mobili al loro posto. Quella sera non cenarono; guardarono
assieme Balle Spaziali e,
sebbene fosse divertente, si addormentarono entrambi a metà
film. Dato che la sveglia era puntata piuttosto presto per entrambi,
Emanuele spense tutto e si addormentarono abbracciati, dopo un lungo
bacio caldissimo.
E la mattina dopo si alzò con la sveglia, era un'altra bella
giornata di sole, l'aria fresca del mattino penetrava dolcemente
attraverso la finestra socchiusa. Erano felici; altri due giorni e poi
finalmente sarebbero partiti, i preparativi erano terminati, erano
marito e moglie e finalmente tutto era finito, le nubi si erano
dissolte.
Dopo aver infilato i jeans, la camicia e la giacca, dopo aver dato un
lungo bacio a Camilla e averla abbracciata forte, dopo averle mormorato
“non vedo l'ora di riabbracciarti quanto torno a
casa”, uscì in giardino e ammirando il cielo
turchino aprì il cancello.
Fu nel richiuderlo che si accorse di una lettera che sporgeva dalla
cassetta della posta.
-Ma dai? - mormorò tra sé e sé, poi
chiamò Camilla che stava richiudendo la porta –
Cami, ma il postino a che ora passa?
-Intorno a mezzogiorno – gli disse lei, guardandolo con aria
interrogativa – ci è arrivata posta?
-Pare di sì – rispose, infilando la mano nella
fessura della cassetta – che sia arrivata ieri, e non ce ne
siamo accorti?
-Non credo, il postino non passa di domenica.
-Aspetta un attimo.
Camilla rimase sulla porta in attesa. Riuscì a recuperare la
busta; non indicava un mittente né un destinatario. Era
bianca e asettica, come la parete di una casa.
La aprì incerto.
Poi riconobbe quella calligrafia che aveva visto così tante
volte nei temi, e pensò, ha voluto farmi gli auguri.
Un po' sorpreso, iniziò a leggere.
“Caro Emanuele,
è strano, vero? È la prima volta che ti chiamo
così. Forse, se ti avessi chiamato così fin
dall'inizio, se non ti avessi chiamato 'prof', 'professore', non ti
saresti sentito come il mio insegnante, ma soltanto come un uomo posto
di fronte a una donna, e le cose tra noi magari sarebbero state
diverse. O magari no, ma mi piace pensarlo. Stavolta, però,
volevo proprio chiamarti così, come fanno tutti i tuoi amici
e i tuoi genitori e Camilla, perché avrei voluto farlo tante
volte, davvero, ma la convenzione imponeva che io rispettassi il tuo
stato di docente, e così non l'ho mai fatto, nonostante mi
sembrasse di allontanarmi da te. Sebbene ti amassi, non ho mai potuto
chiamarti per nome.
So che adesso starai sorridendo e pensando che esagero, come al solito.
L'hai sempre pensato. Non ho mai saputo farti cambiare idea, e anche
adesso, nonostante tutto, la cosa più importante mi sembra
ancora cercare di dimostrartelo; almeno dimostrartelo. Vorrei farti
capire che forse era infantile, forse era ossessivo, forse era mal
espresso, ma non ho dubbi che il mio verso di te fosse amore.
Non fraintendermi: lo è ancora. Non sono mai riuscita a
cancellarti dal mio cuore, nonostante ci abbia provato mille volte. La
mia mente viene sempre trascinata qua e là, in mille
direzioni, e a volte non riesco a tenere stretta la sua mano e quella
scivola giù per il precipizio, ma c'è sempre
stata una costante nei miei pensieri, sempre, ogni volta che schizzavo
in alto o sprofondavo in basso. Sei sempre stato dentro di me, al
centro di ogni mio istante.
Se non vuoi chiamarlo amore, allora non chiamarlo in nessun altro
modo.”
-Ema? Tutto bene?
-Aspetta... aspetta un attimo – esalò.
“Forse, come dici tu, non sono mai riuscita a trovare un
appiglio, e mi sono aggrappata a te con le mie ultime forze. Ci ho
riflettuto molto, Emanuele. Qualcosa non mi tornava, stonava, non mi
convinceva. E mi sono chiesta: non lo facciamo forse tutti? Quando ci
innamoriamo, non ci sentiamo forse come se avessimo trovato un'ancora
di salvezza in mezzo a tutta la cattiveria che c'è nel
mondo? Camilla non è forse per te una scintilla luminosa che
illumina le tue notti?
E così mi sono chiesta se non potesse essere così
anche per me, verso di te. Tu protesteresti che io sono sempre stata
sola, che sei stato l'unica persona che mi abbia mai teso la mano.
Può darsi. Ma il fatto che tu sia stato l'unico a guardare
oltre non ti rende degno d'amore? E questo non perché hai
guardato in me, in particolare; ma semplicemente perché hai
teso la mano a qualcuno che ormai era solo in mezzo al palco, immerso
nel cono luminoso dell'occhio di bue.
Non so se ora tu mi creda. Non so se mi crederai mai. Forse continuerai
ad aggrapparti alla tua teoria per non pensare che una sedicenne sia
capace d'amore, e che in un modo o nell'altro tu sia stato coinvolto in
una storia che ti stava logorando.
E a proposito: perdonami. Perdonatemi, tu e Camilla, per tutti i disagi
che vi ho causato. So di aver invaso la tua vita e il tuo tempo
più di quanto sarebbe stato lecito fare, e so di averti dato
troppi pensieri che tu non meritavi di portarti sulle spalle. Vi chiedo
scusa dal profondo del cuore. Perdonatemi, se potete, e cercate di
essere felici, perché ve lo siete meritati, e
perché quello che avete è molto più di
quanto io e miliardi di altre persone avremo mai in tutta la vita. Vi
è stato elargito un dono raro. Figurati che io non ci
credevo nemmeno più, finché non ho visto voi.
Quindi, anche per me, prendetevene cura. Ve lo chiedo come favore.
Ma torniamo a noi.”
-Ema, di chi è quella lettera...?
-Aspetta solo un secondo, ti prego. Un secondo solo.
-Tutto a posto?
-Un attimo. U... un attimo.
“Ti ho scritto perché volevo che almeno tu
capissi. E, se puoi, che lo spiegassi agli altri.
Vedi, ho scritto miliardi di volte questa lettera, in momenti di
lucidità, perché so che se l'avessi scritta poco
prima di imbucarla in questa cassetta, mentre tu eri al matrimonio,
avrei scritto soltanto una sfilza di frasi senza senso, e non avresti
capito niente, perché non avrei capito molto neanch'io.
Quindi non so cos'avrò avuto esattamente per la testa nel
momento in cui sono venuta qui, davanti al tuo cancello. Probabilmente,
se l'ho fatto, è stato perché mi sentivo sola.
Perché tu e lei vi stavate unendo per tutta la vita,
perché ti ho definitivamente perso. Perché in
fondo non sono mai riuscita ad accettarlo. Perché oltre a te
non avevo nessuno, e non sono mai stata davvero disposta a
condividerti. Perché il mio amore è destinato a
non essere ricambiato... ma, soprattutto, perché ho preso
una decisione cosciente.
Una mia amica, un po' di tempo fa, mi aveva fatto ascoltare una
canzone. Non ricordo chi fossero gli autori, ma mi è
piaciuta subito. Mi ha ricordato me stessa.
Mi dispiace di aver delirato sulle bombe, sulla guerra, davvero, non
avrei voluto dare scena a quel modo. Le vedevo davvero, questo
è il fatto. E sentivo i boati degli scoppi, a volte sentivo
addirittura delle urla di agonia. Mi succede sempre più
spesso, e io sono stanca.
Come ti ho già detto, sono stanca di tante cose, e queste
cose non cambieranno mai.
E c'è un altro aspetto da tenere in considerazione: io la
pazzia non la voglio più nella mia vita.
Il punto è che lei non se ne andrà, continua a
farmi visita e lo fa sempre più frequentemente. Tenerla
sotto controllo è così difficile, Emanuele, e
quando arriva mi sconvolge così tanto che ho paura del
momento in cui perderò definitivamente me stessa, il momento
in cui non sarò io a parlarti ma un pagliaccio caricato a
molla che scatta a sorpresa fuori da una scatola, e poi, dopo qualche
rimbalzo, si affloscia pesantemente sul tavolo.
Ho paura, ho sempre avuto paura. E quando arriva la tristezza, mi
schiaccia a terra in un modo che non puoi immaginare. Qualunque cosa io
faccia, non mi lascia finché non è lei a decidere
di farlo.
Non è questo che volevo.
Non volevo questa madre, non volevo di certo quel padre che ho. Non
volevo essere messa in disparte da tutti, ma non ho potuto evitarlo. Mi
sono sempre sembrati tutti così bambini. Così
felici, e io così sola.
E quando ho visto l'unica persona che mi abbia mai ascoltata, l'unica
che abbia mai amato davvero, quando l'ho vista allontanarsi per mano
con qualcuno, ho capito che c'era un modo per uscire da tutto questo,
perché era evidente che questa realtà non facesse
per me; cercava di dirmelo in ogni modo, continuava a suggerirmi di
lasciar perdere, era quasi buffo il modo in cui cercava di farmelo
entrare in testa, il modo in cui io fingevo di non capire.
Ero così stanca di sentire le bombe, Emanuele.
E quella canzone mi ha fatto capire alcune cose; mi ha detto che potevo
non sentirle più, se era questo che desideravo. Prima ero
disperata, ma dopo questa scoperta ho recuperato la speranza. Come ti
avevo detto, era tutto a posto; alla fine sono riuscita a risolvere
tutto.
Davvero non ricordo l'autore, ricordo solo alcuni versi. Te li riporto,
forse tu potrai capire. E se così fosse, spiegalo anche agli
altri, ti prego. Vorrei che almeno questa volta capissero quello che ho
fatto.
Oh, e per favore, non dimenticarti di portarmi i fiori come mi avevi
promesso.
“Vivere non
è possibile”
Lasciò un
biglietto inutile
Prima di respirare il gas
Prima di perdersi nel
caos
Era una mia amica
Era una stronza
Aveva sedici anni appena
[…]
E nonostante le bombe
vicine e la fame
Malgrado le mine
Sul foglio
lasciò parole nere di vita
“La guerra
è finita
Per sempre finita
Almeno per me.”
Emotivamente instabile
Viziata ed insensibile
Il professore la
bollò
[…]
E nonostante la madre
impazzita e suo padre
Malgrado Belgrado,
America e Bush
Con una bic profumata
Da attrice bruciata
“La guerra
è finita”
Scrisse così.
Con vero amore, e grazie di tutto.
Bianca.”
*Nel caso non conosciate questo disturbo, vi consiglio fortemente di
leggere la breve spiegazione che vi ho fornito qui sotto. Penso di
poterla ritenere abbastanza esauriente, e, soprattutto, se non sapete
nulla del bipolare non capirete granché di quello che
verrà detto d'ora in avanti su Bianca ^^;.
Il disturbo bipolare è una psicosi (per questo viene anche
chiamato psicosi maniaco-depressiva) contraddistinta dall'alternarsi di
fasi di mania e fasi di depressione, intervallate da periodi di
normalità.
Lo stato maniacale consiste in un periodo di grande energia e
vitalità da parte della persona malata: in questo periodo
è sempre allegro, ottimista, scherzoso, pronto a tutto; non
avverte la fatica, la fame e il sonno, tende a parlare esageratamente
ed a velocità eccessiva, a volte perdendo il filo dei suoi
stessi discorsi (fuga d'idee). Lo stato depressivo invece è
un periodo in cui la persona ha pensieri negativi, perde la
vitalità e la voglia di vivere. Questi due periodi non hanno
una durata precisa poiché questa dipende dalla
rapidità del 'ciclo' delle oscillazioni: possono durare mesi
come pochi minuti, a seconda della persona.
Questo disturbo viene suddiviso in due assi:
-bipolare II: considerato meno grave del bipolare I, è
caratterizzato dall'alternarsi di fasi depressive (in cui comunque
devono essere diagnosticati i sintomi di depressione maggiore) a fasi
di normalità o di ipomania, ovvero una forma meno estrema
dello stato maniacale.
-bipolare I: viene riconosciuto allorquando compaia un'alternarsi di
fasi depressive a fasi maniacali; inoltre è necessario che
sia avvenuto un episodio maniacale, come ad esempio un tentativo di
suicidio.
Esiste anche il disturbo ciclotimico, che prevede l'interscambiarsi di
episodi depressivi (quindi la diagnosi non è quella di
depressione maggiore) ad episodi ipomaniacali.
Questi stati d'animo sfuggono dal controllo della persona bipolare, che
avverte il proprio stato mentale come in balia della pazzia e nutre il
timore di perdere il contatto con la propria personalità e
con la realtà stessa. Spesso i bipolari tendono ad abusare
di alcool, convinti che possa avere un effetto lenitivo sui sintomi
della mania - che è caratterizzata da un treno velocissimo
di pensieri incoerenti; spesso la persona affetta da questo disturbo
ricorre al suicidio solo per fermare quel fiume in piena di pensieri
inafferrabili - dove in realtà l'alcool peggiora soltanto i
sintomi del loro disturbo; per di più agisce danneggiando il
fegato, solitamente piuttosto provato dagli stabilizzatori dell'umore.
I medicinali possono tenere sotto controllo il disturbo e garantire una
vita pressoché normale, ma devono essere assunti
regolarmente e venire associati a una vita regolata e sana.
Nel momento in cui gli effetti del bipolare rendessero impossibile il
condurre una vita normale, si ricorre all'ospedalizzazione e in casi
estremi all'elettroshock. Durante le fasi di mania acuta, la psicosi
porta alla perdita della memoria, ad avere manie di grandezza, ad
ingigantire fatti ed eventi, a inventare storie sulla propria vita e su
quella dei propri conoscenti, fino ad arrivare alle allucinazioni
visive ed uditive. In questi casi si manifesta una perdita di controllo
sulla propria mente e la persona viene ritenuta incapace di intendere e
di volere. Se riconosciuto ai suoi inizi e se curato regolarmente, il
disturbo bipolare non raggiunge questi picchi di psicosi. Se
trascurato, invece, tende a peggiorare: più episodi
maniacali avvengono, più è certo che ne
avverranno in futuro.
Il disturbo bipolare presenta un'altissima percentuale di suicidi.
Questo perché le fasi depressive sono tanto profonde e le
fasi maniacali tanto estreme che la persona arriva a desiderare di
porre una fine a quell'alternarsi di sensazioni tanto intense. Esistono
anche episodi misti in cui, ai pensieri negativi tipici delle fasi
depressive, si unisce il flusso incessante di pensieri tipico della
mania: in momenti come questi è altamente probabile che la
persona tenti il suicidio. E' importante sottolineare che la psicosi
può portare a una morte accidentale poiché spinge
ad azioni potenzialmente pericolose e rischiose: guida spericolata,
abuso di alcool e droghe.
Non è raro che chi soffre di questa malattia tenda ad avere
una vita sessuale, sociale e lavorativa molto intense; l'energia
portata dalla mania porta a pensarsi capaci di sostenere ritmi
impensabili e, da una parte, una vita piena può costituire
una valvola di sfogo; la persona maniacale tende a non stare mai ferma,
mai zitta, ad essere sempre in movimento. In realtà un
simile modus vivendi è altamente sconsigliabile,
poiché debilita il fisico mostrando, però, gli
effetti di tale sfinimento soltanto una volta conclusosi il periodo
maniacale. Al periodo maniacale segue sempre un periodo depressivo,
tanto più grave quanto più intensa è
stata la mania. Tuttavia, alcune teorie sostengono che la mania sia un
modo utilizzato dalla psiche per riprendersi la spinta vitale
sottrattale dalla fase depressiva.
Il disturbo bipolare è genetico e può anche
rimanere latente; di solito a risvegliarlo è un trauma
psicologico.
E' stato spesso riscontrato in persone universalmente riconosciute come
'geniali'; se può interessarvi, vi fornisco una lista di
bipolari celebri: http://www.bipolarsupport.org/famous.html.
(Nda: e quindi siamo arrivati alla fine. L'epilogo vi
racconterà quanto succede dopo la lettera, ma la fine vera e
propria è questa.
Alla luce dei fatti che sono emersi, volevo fare un paio di
considerazioni sui personaggi.
Camilla e Bianca hanno suscitato reazioni opposte in chi ha letto la
storia e l'ha seguita fino a qui, soprattutto negli ultimi capitoli.
Credo che in Bianca la spiegazione sia stata fornita: è
eccessiva perché è bipolare. Oscilla da uno stato
all'altro perché è un caso da manuale di quella
che è la sua malattia. E può risultare
affascinante perché, come moltissimi bipolari, ha
un'intelligenza spiccata, interessi culturali, un carattere vivace e un
modo di fare particolare, capace di sorprendere - almeno
così mi dite ^^ io spero di averla resa così. Il
fatto che susciti opinioni contrastanti non mi sorprende; come ripeto,
è un caso tipico.
Quanto a Camilla, c'è chi la voleva combattiva e chi invece
la voleva dolce e riservata fino alla fine. C'è da dire che
Camilla è soltanto un essere umano. Una persona mite e
gentile di carattere, che ha provato a farla funzionare
finché ha potuto, ma che poi non ce l'ha fatta
più e ha confessato i suoi disagi. Spero che non sia stata
interpretata da tutti come una che ha recitato una commedia. Le
relazioni umane sono molto più complicate di 'essere' o 'non
essere' (senza alcun rimando shakespeariano); ci sono molte zone grige,
molte debolezze e molti tentativi. Questa è la storia
normale e senza gloria di un cavaliere e una principessa che hanno
scoperto che nella vita non può sempre andar bene, e che
quindi hanno smesso i loro panni per vivere qualcosa di più
reale. Di meno edulcorato, ma reale. Spero che questo messaggio fosse
passato anche senza la mia spiegazione :).
Quasi dimenticavo: la canzone, se vi interessa, è La guerra è finita
dei Baustelle. Non amo il gruppo e non ho mai ascoltato questa canzone,
ne conosco solo il testo, ma non ha potuto non farmi pensare a Bianca.
Per rispondervi ^_^:
-complimenti a Dance of
Death per aver intuito che il disagio di Bianca era di
tipo psichiatrico ^^! Non si trattava appunto di schizofrenia, ma sono
contenta di vedere che gli hint sono stati colti :*.
-Khristh:
ehm... ^^; non so se scriverò una nuova storia tanto presto,
non credo in ogni caso; non ho idee ora come ora e l'idea di un'altra
long fiction mi uccide *_*''. Ma se ti è piaciuta questa,
tra le mie storie prova a leggere No
Hope, No Love, No Glory: è un'angst come
questa, anzi, forse lo è di più XD con la
differenza che è più lunga e quindi il tormento
non finirà facilmente :P.
-Rebellion:
no, io e Bianca non abbiamo niente a che vedere ^^, a parte cose molto
generiche che però non fanno testo. E' un personaggio che ho
completamente inventato. I riferimenti ovviamente sono pescati dalle
mie conoscenze personali, ma questo credo sia normale ^^.
E ovviamente un GRAZIE enorme a tutti voi che avete recensito, davvero.
Siete stati carinissimi, un pubblico obiettivo e capace di spunti di
discussione. Vi ringrazio infinitamente per avermi regalato una
porzione del vostro tempo commentando la mia storia e i miei
personaggi. Grazie davvero. (E un chu ;* a CTA.)
Il ringraziamento finale va al mio ragazzo :* che ha seguito fino a qui
commentandomi pezzo per pezzo, e gettando lui stesso luce su alcuni
aspetti dei personaggi e della narrazione che non avevo considerato.
Grazie, di questo e di tutto il resto naturalmente.
Spero davvero di avervi dato qualcosa con questa storia, un pizzico
d'informazione o una prospettiva diversa su certi modi di vivere,
magari.
Ancora grazie per il vostro prezioso sostegno. Vi lascio all'epilogo ;)
e buon fine settimana!
Arianna aka The Corpse Bride)
|
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Capitolo 12 *** Epilogo ***
Quel giorno, quella mattina soleggiata d'aprile, cadde in ginocchio con
quella lettera in mano. Cercò di respirare, ma l'ossigeno
sembrava essere scomparso tutto d'un tratto; sentì che il
cuore faticava a pompare sangue nelle vene.
-Ema - esclamò Camilla, poi corse in pigiama verso di lui.
Gli toccò la schiena. - Cos'è successo? Ema?!
Lui non rispose; non riusciva a fare altro che tremare e cercare
affannosamente di prendere respiro. Lei gli tolse la lettera di mano,
la lesse velocemente, e anche le sue mani iniziarono a tremare.
Arrivata alla fine, lo guardò, stravolta dall'angoscia.
-Non è quello che penso, vero? - riuscì a
mormorare – Non l'ha fatto, vero?
-L'ha fatto – rantolò Emanuele – ci
è riuscita. Questa volta ci è riuscita.
Tacquero per un po', terrorizzati, con gli occhi fissi sul vuoto. La
lettera era per terra, la calligrafia tondeggiante e ordinata di Bianca
la decorava con l'inchiostro blu.
Ad un tratto Emanuele scoppiò a piangere tanto
disperatamente che i vicini accorsero ai suoi gemiti, ma lui non li
vide, non se ne accorse. Si nascose sul seno di Camilla e ne riemerse
solo quando non ebbe più la forza per urlare.
La scuola era in subbuglio.
I genitori avevano avvertito la mattina stessa; tutte le classi furono
convocate in aula magna per una riunione straordinaria, e la preside li
informò dell'evento con una voce flebile che non le avevano
mai udito. Lei, che era sempre stata così forte ed elegante,
non era nemmeno in grado di guardare verso il pubblico. Guardava il
pavimento, tormentandosi la collana costosa tra le dita.
-Non sono... non sono davvero in grado, in questo momento, di fare
discorsi commemorativi – esordì, a voce bassa
– vogliate comprendere il mio stato d'animo. Volevo soltanto
informarvi del fatto che il funerale, come ci hanno comunicato i
genitori, si terrà domani mattina alle dieci, nella chiesa
di Altichiero. Non chiederò alcuna giustificazione a chi
sarà assente per partecipare al rito funebre; non
controllerò chi c'era o non c'era, per cui, se volete, siete
liberi di fingere di esserci stati e di non giustificare la vostra
assenza. Io spero solo... - Ma a quel punto Giovanna s'interruppe.
Chiuse gli occhi, scosse la testa. - Ma cosa ve lo dico a fare. Siete
grandi, ormai. Potete fare quello che volete, se solo lo volete.
Nelle ultime parole, la voce le si incrinò.
Sonia non aveva voluto assistere alla riunione; Antonella
ascoltò senza mai alzare gli occhi dal pavimento. Sara si
asciugava le lacrime, Rossella e Mariolina sembravano pietrificate. Gli
altri tenevano una mano davanti alla bocca, si torcevano le mani,
battevano le palpebre per non piangere.
-Se qualcuno vuole aggiungere qualcosa – mormorò
la preside, al microfono – io ho finito.
Incrociò lo sguardo di Emanuele. Lui aveva ascoltato,
cercando di contenere i singhiozzi, passandosi continuamente una mano
sul viso che non smetteva mai di bagnarsi di lacrime.
Si alzò e camminò verso il microfono, cercando di
focalizzare gli studenti davanti a lui attraverso il velo di lacrime,
tentando d'ignorare il bruciore agli occhi. La voce gli uscì
strozzata, ma in qualche modo gli uscì.
-Ragazzi... - esordì, cercando di rassicurarli. Ma adesso
non ce la faceva ad essere adulto. Un singhiozzo lo costrinse a
voltarsi, nuove lacrime gli scesero sulle guance. - Scusatemi. - Il suo
pubblico mostrò espressioni comprensive. Molti iniziarono a
piangere nel vedere le sue lacrime. - Adesso dovrei fare l'uomo ed
essere forte, ma... perdonatemi. Non ce la faccio. Non
riuscirò mai a consolare nessuno, nemmeno me stesso, quindi
volevo dirvi solo un paio di cose, brevemente. La prima: non siate
ipocriti, non piangete per una persona che disprezzavate. Non l'avevate
capita prima, non la capirete nemmeno adesso. Ma, dato che lei me l'ha
chiesto, voglio provare a farvela capire. Cercate di seguirmi.
Tutti tacquero. Cercò con lo sguardo Cappelletto, che teneva
i gomiti sulle ginocchia e il volto fermamente coperto dalle mani.
Valeria aveva il trucco nero completamente sciolto sul volto.
Continuava a singhiozzare, e, nonostante Benetazzo la tenesse per mano
e cercasse di calmarla, non smise per un momento di piangere, come se
non riuscisse più a smettere.
-Lei – s'impose di mantenere ferma la voce – si
sentiva sola. E vorrei dire che era solo una sua sensazione, ma il
punto è che lo era davvero, e non posso negarlo, anche
perché significherebbe discolparvi ed è l'ultima
cosa che voglio fare. Ci sono moltissime cose che non sapete, e che non
posso rivelarvi, ma Bianca aveva mille motivi per voler morire, e
praticamente nessuno per aver voglia di vivere. Quello che vedevate di
lei non era che un superficie sulla quale lei non aveva il controllo.
La vita le ha fatto incontrare talmente tante persone orribili che alla
fine ha deciso scientemente di lasciarla. E sebbene adesso io abbia il
cuore in pezzi, e la netta sensazione che rimarrà in pezzi
per tutta la mia vita, non riesco a considerarla una codarda:
perché, se continuano a tormentarti e non c'è
modo di porre fine al tormento, non è poi così da
deboli prendere e andarsene da un'altra parte, dove si possa
stare più tranquilli. - Prese un respiro. - So che non
è giusto dirlo, che non è corretto, specie
davanti agli adolescenti. Ma le ho promesso di spiegarvi tutto, ed
è quello che farò: quindi, vi dirò in
sincerità che Bianca ha preso una decisione per
sé stessa. L'ha fatto per liberarsi di tutto ciò
che la stava distruggendo, e l'ha fatto dopo averci pensato infinite
volte. Cercate solo, con la prossima persona strana e diversa che vi si
presenta davanti, e che non riuscite a capire... - si morse le labbra;
i singhiozzi ripresero a battergli in gola per uscire –
cercate di non farvi un'idea senza sapere un cazzo. Non aumentate il
numero degli stronzi che popolano il mondo, ve ne prego – la
voce gli si ruppe clamorosamente, le lacrime ripresero a scendere
– cercate di essere persone migliori di quelle che lei ha
incontrato. Tutto qui. Ora scusatemi, ma ho bisogno di stare tranquillo
per un attimo.
Si allontanò velocemente, sotto lo sguardo preoccupato degli
studenti, e raggiunse Sonia in atrio. Anche lei aveva gli occhi rossi e
gonfi; guardava fisso davanti a sé, con la sua solita
espressione ferma, decisa, con i suoi occhi grandi così
simili a quelli di Bianca; ma le lacrime le bruciavano gli occhi e
continuavano a rotolare giù per il suo volto magro, senza
che lei nemmeno si premurasse di asciugarle.
Sedettero vicini, in silenzio; quel giorno i professori della terza A
si rifiutarono di tenere lezione, e gli insegnanti di altre sezioni si
offrirono di accogliere gli studenti nelle loro aule. Lentamente, tutti
si avviarono verso le loro aule, mormorando come se avessero paura di
infrangere il silenzio, come se avessero avuto paura che lei li
sentisse.
Mentre sedeva senza parlare accanto a Sonia, Cappelletto e Valeria,
accompagnata da Benetazzo, gli si avvicinarono. Soprattutto i primi
due, avevano due facce sconvolte, annientate. Lo raggiunsero senza
dirgli nulla, e lo guardarono, sperando forse che gli dicesse qualcosa.
Ma non aveva niente da dire.
-Venite qui, per favore – riuscì a sussurrare tra
le lacrime, e loro si gettarono su di lui e non poté fare
altro che stringerli tra le braccia.
Cappelletto che era sempre pronto a fare lo stupido, che non aveva
paura di dire scemenze davanti a tutti. Valeria, che lanciava fendenti
sul mondo intero, che era sempre al di sopra di tutto. Benetazzo
guardava da tutte le parti con un'espressione nervosa, angosciata.
-Prof, se n'è andata – sentì la voce
soffocata di Cappelletto – non c'è più.
-Lo so – soffiò, sentendo qualcosa di simile a un
braccio che gli attraversava il petto.
-Come si può essere così stupidi?! -
gridò Valeria, e poi prese a piangere con una violenza tale
che Benetazzo dovette aiutare Emanuele a sorreggerla.
-Prof, è morta
– singhiozzò Cappelletto – morta, come
tutte quelle altre persone che muoiono.
Capiva cosa intendesse dire. Bianca non aveva solo compiuto un atto di
estremo rifiuto verso la realtà che la circondava; adesso
non c'era più, proprio come tutte quelle altre persone che
morivano di cancro o di AIDS o di vecchiaia. Esattamente come loro, era
scomparsa dalla faccia della Terra. Dire che si era 'suicidata'
rimandava troppo al concetto del suo estremo addio a quel mondo che
odiava e che sembrava odiarla. 'Morta' era più crudo, meno
romantico, ma alla fine era la verità; ricordava che
ciò che aveva fatto era togliersi la vita, sparire da ogni
luogo tangibile.
Bianca era morta. Morta, come tutti gli altri cadaveri che riempivano i
cimiteri.
Non seppe mai con che forza riuscì a rimanere lì
sei ore; in classe non spiegò nulla, dichiarò che
non se ne sentiva in grado e continuò a guardare fuori dalla
finestra, cercando quel punto invisibile che Bianca guardava ogni
volta. Non fu mai in grado di capire su cosa si posasse il suo sguardo,
in quei giorni. Forse sulle case, forse su quell'albero fiorito che le
piaceva. Emanuele si chiese come avesse potuto andarsene, se era vero
che amava tanto quell'albero.
Ma poiché sapeva meglio di ogni altro perché
l'avesse fatto, non poté nemmeno porsi delle domande. Fu
semplicemente posto davanti alla rassegnazione.
Camilla venne a prenderlo all'uscita e, a casa, gli diede un calmante.
Lo abbracciò e gli accarezzò la schiena per tutto
il tempo in cui Emanuele rimase immobile e muto a fissare il soffitto.
Lui, nel frattempo, si chiedeva se era così che Bianca si
sentisse; senza forze, senza speranze, monca di qualcosa. Si rispose
che probabilmente era così. E subito dopo pensò
con chiarezza che lui non sarebbe riuscito a sopportarlo, non
più di una volta nella vita, mai; non certo per un mese
intero, più volte all'anno, per tutto il resto della sua
esistenza.
Non parlarono, non si dissero nulla, perché non esistevano
parole di consolazione, non esisteva niente che potesse ridurre quel
dolore. Niente avrebbe mai potuto porre rimedio alla morte. Era l'unico
posto da cui non si poteva tornare indietro.
Le ore colavano lentissime, ma un sonnifero gli regalò il
sollievo del sonno; fu una notte ovattata, priva di sogni, che lo fece
svegliare vuoto di sensazioni.
Poi la morte di Bianca gli precipitò addosso come una
grandinata e si sentì schiacciare a terra, con una forza
tale che si aggrappò alla mano di Camilla. Il panico lo
invase. Bianca era morta, e non l'avrebbe mai più rivista
per tutta la durata della sua vita.
-Dobbiamo andare al funerale – gli ricordò
Camilla, con grande delicatezza – dobbiamo lavarci e
vestirci. Te la senti?
-Sì – bisbigliò. Deglutì
faticosamente. Durante la notte aveva sudato; sentiva un fastidioso
senso di nausea. Non si sentiva affatto bene.
-Ti aiuto?
-No, grazie, Cami, ce la faccio – mormorò.
Ma la realtà fu che ebbe un capogiro e dovette sedersi, e
Camilla corse in cucina a prendergli del succo di frutta. Lo bevve
controvoglia; era solo un peso nello stomaco, ed era freddo,
freddissimo. Quella mattina, tutto gli sembrava brutto, tutto
contribuiva ad aumentare quel senso di nausea. Non gli passò
per tutto il giorno.
In macchina, la radio trasmetteva piano qualche canzone rock. L'ultima
volta stavano ascoltando Virgin Radio, quindi la stazione era rimasta
impostata su quelle frequenze. Il cielo era sorprendentemente bello, i
raggi di sole erano dorati e scaldavano. L'erba splendeva lucente. Le
canzoni rock erano nell'aria, e, nonostante questo, Bianca aveva scelto
di morire.
Le ascoltava mai, quelle canzoni? Vedeva mai il cielo e il sole e
l'erba? E se li aveva visti, forse non erano stati abbastanza per
convincerla che il mondo era un posto dove si poteva vivere?
Ma ci aveva già provato, considerò Emanuele. Non
era la prima volta che cercava di andarsene. E da quel giorno a ben
vedere non aveva trovato alcun motivo per cambiare idea; era logico,
pensò, avrebbe dovuto aspettarselo. Avrebbe dovuto capire.
Ma erano quelle cose che si pensavano sempre, in casi del genere.
“Come ho potuto non capirlo?”. Non l'aveva capito
perché Bianca gliel'aveva tenuto nascosto, perché
aveva sorriso e fatto sesso e gridato finché non si erano
tutti convinti che stesse pensando a qualcos'altro.
Eppure qualche indizio gliel'aveva dato.
Gli aveva chiesto se sarebbe rimasto ancora qualche giorno, prima di
partire. Era perché intendeva consegnargli la lettera,
sperando che la trovasse prima del viaggio. E quando gli aveva chiesto
di abbracciarla, perché lei tra poco avrebbe dovuto
andarsene, gli aveva sussurrato in mezzo alle parole che quello sarebbe
stato il loro addio.
Non gli aveva mai parlato chiaramente, non gli aveva mai mentito, ma
non gli aveva mai detto davvero la verità. Nonostante
dicesse di amarlo, gli era sfuggita dalle dita fino all'ultimo,
concedendogli di sapere solo ciò che lei voleva che sapesse.
Era tanto immerso nei suoi pensieri che arrivarono all'obitorio senza
aver mai parlato; d'altronde, Camilla sembrava tranquilla. Gli
toccò dolcemente il braccio e aspettò che
scendesse dalla macchina; poi gli prese la mano e la strinse forte, e
non la lasciò più finché non fu lui a
lasciare la sua.
Attraversarono capannelli di parenti sconvolti. C'era qualche
insegnante; oltre a lui, solo Antonella e Sonia si erano sentite
abbastanza legate a Bianca da presentarsi all'obitorio. Di fianco a
loro c'erano Valeria e Cappelletto.
Si diresse verso di loro, aggrappandosi alla mano di Camilla come se,
lasciandola, avesse potuto franare a terra.
-Ciao – disse, cercando di accennare un sorriso. Antonella
tentò con scarso successo di ricambiarlo; Sonia lo
salutò cortesemente, ma il suo volto era spento. Per molto
tempo non lo vide più riaccendersi.
I ragazzi non parlarono. Cappelletto aveva l'espressione più
triste e confusa che avesse mai visto; Valeria si mordeva le labbra per
non far rumore, ma i suoi occhi continuavano a far scendere lacrime.
Sonia le passò un braccio attorno alle spalle.
-Siete già entrati? - chiese.
-Noi e Valeria sì – rispose Antonella –
Federico ancora no.
Lo guardò.
-Ci andiamo assieme?
Cappelletto alzò lo sguardo su di lui. Lo fissò
per un attimo, poi annuì.
-Ti aspetto qui, se vuoi – mormorò Camilla. Ma le
strinse ancora di più la mano.
-No, per favore. Vieni con me.
Si avviarono assieme verso l'entrata. Pensare che Bianca era chiusa in
una camera mortuaria, senza vita, sembrava completamente assurdo.
Bianca, che era stata così vivace, che rideva sempre, quando
poteva.
La stanza era asettica, ma l'odore di fiori rendeva tutto tremendamente
lugubre. C'erano gigli e parenti in lacrime vestiti di nero. E proprio
al centro della stanza c'era una bara di legno scuro troppo grande,
aperta, tanto grande che non si vedevano nemmeno i suoi capelli.
Tuttavia, quando la vide sentì le ginocchia cederli. Ma
c'era Federico di fianco a lui, quindi proseguì.
Per tutta la vita si portò nel cuore l'immagine di Bianca,
pallida, con i capelli lisci e pettinati, vestita con un semplice abito
blu e grigio. Il suo sorriso era scomparso. I suoi grandi occhi erano
pesantemente chiusi. Le sue piccole mani esili, incrociate sul suo
petto.
-Prof – soffiò Federico, aggrappandosi al suo
braccio. Non seppe che cosa rispondergli. Continuò a
camminare verso la bara.
Sua madre era di fianco alla testa, ritirata in sé stessa.
Era chiusa in una rigida posizione fetale e non parlava con nessuno;
continuava a fissare un punto nel vuoto sopra il corpo della figlia
morta. C'era anche suo padre; con un fazzoletto ormai inservibile,
continuava ad asciugarsi lacrime da un volto innaturalmente rosso.
Non rivolse la parola a nessuno dei due.
Sapeva che era inutile fissare Bianca, ma non riusciva a togliersi
dalla testa che quella era la sua ultima occasione di guardare il suo
viso.
Camilla piangeva in silenzio; vide la sua mano allungarsi a sfiorare
quella di Bianca. Ma lei rimaneva immobile. L'assenza del respiro era
così pesante da rendere ancora più immoto e cupo
il silenzio che regnava attorno alla bara.
I fiori erano così lugubri, pensò. Senza i fiori,
non sarebbe stato così orribile.
Cercò di memorizzare il suo viso, la sua bocca piccola e
morbida. C'era una piccola cicatrice sotto il labbro. Due fila di
ciglia lunghe e folte spiccavano da sopra gli zigomi. I capelli,
benché fossero stati ben lisciati e pettinati con una sobria
riga in centro, avevano ancora quel colore rosso fuoco che li
contraddistingueva. Probabilmente sua madre non aveva avuto tempo o
voglia di decolorarli; fu felice di vedere che erano rimasti almeno
quelli, ma la felicità durò poco,
perché non gli avrebbero mai più ridato Bianca e
non avrebbe mai più visto i suoi capelli.
Era inutile guardarla, lo pensò ancora. Tanto, non si
muoveva, non poteva far nulla. Non sarebbero stati quei pochi minuti
accanto a lei a consolarlo della sua perdita. Non gli avrebbe fatto
alcun bene. Forse era il caso di uscire, altra gente stava entrando
nella stanza per vederla.
Era così buia, quella stanza. Anche se fuori c'era il sole,
era così grigia, in quella triste penombra. Forse era per
dare il giusto riposo ai morti.
Allungò una mano, lasciando quella di Camilla, e
toccò una mano di Bianca. Era gelida. Si sentì
ghiacciare il sangue nelle vene, si ritrasse. Ma poi si diede dello
stupido e la sfiorò ancora; si avvicinò al bordo
della bara rivestita di seta, prese coraggio, riuscì quasi a
chiudere quella piccola mano esanime nella sua. La strinse, ma non
riuscì a scaldarla. Sentì che le lacrime
tornavano. Appoggiò la mano sulla guancia di Bianca e le
diede un'ultima, tenera carezza, che aveva nel suo tocco tutto il
dolore dell'addio.
Incapace di sopportarlo, fece per avviarsi verso l'uscita; poi vide
Federico, aggrappato al bordo della bara con entrambe le mani, le
nocche bianche per lo sforzo. Guardava Bianca con una tale tristezza,
come se le stesse chiedendo ripetutamente
“perché?”, che Emanuele si
fermò ad aspettarlo. La guardava, confuso, imbronciato,
quasi fosse in attesa che lei si risvegliasse e gli dicesse che era
stato solo uno scherzo, che non l'aveva abbandonato davvero.
Ma Bianca rimaneva lì, e le persone continuavano a piangere
attorno a lei. Non era uno scherzo.
Lentamente, tremando, con le lacrime che scendevano sul viso del suo
primo amore, strinse piano la sua mano destra, poi si chinò
verso di lei e baciò una delle sue guance morbide, che ora
erano pallide e fredde. Il suo bacio fu di una tale delicatezza, di una
tale dolcezza, che Emanuele non seppe più trattenere le
lacrime. Circondò Federico con un braccio e
camminò velocemente assieme a lui verso l'uscita, tentando
di non ascoltare il suo pianto sempre più forte, sempre
più terribile.
Si sentiva come se gli avessero fatto il cuore in pezzi. La gente non
avrebbe dovuto dire 'ho il cuore in pezzi' con tanta leggerezza; prima
di poterlo dire, avrebbe dovuto sperimentare questo. Altrimenti non era
davvero a pezzi, era soltanto un po' soffocato.
Raggiunsero assieme Sonia, Antonella, Valeria e Benetazzo. Nessuno
parlò per un po'; parlare di Bianca era inconcepibile, e
parlare d'altro era fuori luogo. Nessuno di loro aveva la forza di
cercare un altro argomento di conversazione; si limitarono ad osservare
le altre persone intervenute, probabilmente parenti. Di tutte le
persone che Bianca aveva conosciuto, a parte i suoi tre compagni di
classe, non ce n'era nessuna. C'erano soltanto adulti, zii, nonni,
cognati. Attesero insieme di venir chiamati per la chiusura della bara.
Quando arrivò, fu un momento terribile. Quando il coperchio
si chiuse su di lei, seppero con lacerante chiarezza che non avrebbero
mai più, per tutta la loro vita, rivisto il suo viso. Non ci
avrebbero mai più parlato. Non l'avrebbero più
abbracciata. Non l'avrebbero più vista in classe, voltando
lo sguardo.
Avrebbero potuto cercarla ovunque, in ogni angolo della terra, ma non
l'avrebbero trovata; l'unico modo per rivederla la carta stampata delle
fotografie, i ricordi così fragili nelle loro memorie. La
sua voce non li avrebbe mai più chiamati. Bianca, la ragazza
che conoscevano, non sarebbe mai più riapparsa nelle loro
vite.
Avrebbero conosciuto qualcun altro, insegnato a qualcun altro, amato
qualcun altro, ma non Bianca. Mai più.
-Eterno riposo dona loro, o Signore; risplenda ad essi la luce
perpetua. Riposino in pace. Amen.
Tutti quei gigli sopra il legno della bara. Il suo corpo era chiuso
lì; non l'avrebbero mai più riaperta. Quella che
le avevano dato era stata l'ultima carezza, per sempre.
Il funerale fu insignificante, nemmeno una singola parola gli
sembrò adatta a Bianca, a quello che era stata. Quello
avrebbe potuto essere stato il rito funebre di chiunque, e non
ascoltò prestò la minima attenzione.
La sepoltura invece era intima, veniva gestita da chi era rimasto, con
i propri sguardi, con le proprie lacrime. Di fatto quell'ufficio,
nonostante fosse il momento peggiore, sembrò quasi una presa
in giro, a causa di tutto quel sole e di quel cielo terso. Alcune
rondini passarono sopra di loro, cinguettando e rincorrendosi allegre.
Avrebbero sicuramente avvertito in modo più chiaro la
perdita definitiva, pensò Emanuele, se avesse piovuto o ci
fosse stata la nebbia.
Ma poi, quando la bara fu alzata barcollando e fu infilata nel loculo,
con il cupo stridore del legno contro il cemento, il sole e il cielo e
le rondini sparirono d'un colpo. I pianti si alzarono in coro e
Federico e Valeria si aggrapparono tra di loro, così
disperati, tanto che sembrava che gli stessero strappando il cuore dal
petto.
Svuotato di tutte le sue lacrime, prese delicatamente il bouquet che
gli porgeva Camilla, di lilium e rose bianche, e lo posò
piano sulla tomba.
Aveva mantenuto la sua promessa.
Mai, in seguito, ricordò di aver fatto qualcosa di
più straziante. Si sentì come se tra i fiori
bianchi e rosa avesse lasciato il suo cuore bagnato di sangue, ancora
pulsante.
*
Emanuele si licenziò poco dopo essere tornato dalle ferie.
Diede il minimo del preavviso alla preside, quel giorno, e le disse che
non sarebbe tornato, che non ne aveva le forze.
-Hanno bisogno di te - osservò lei, indicando i ragazzini
che piangevano sperduti.
-Hanno l'un l'altro - replicò - è esattamente
quanto di cui hanno bisogno.
-Tu sei sempre stato il loro modello.
-Ma adesso non potrei esserlo. Non saprei davvero aiutarli, Giovanna,
sono sincero. Saprei soltanto farglielo pesare ulteriormente.
-Ne sei sicuro?
-Non tornerò dove Bianca non ha voluto tornare. Mi scusi.
-Non scusarti.
Partì per il suo viaggio. Si ripropose di dimenticare tutto,
di ricordarlo solo quando fosse tornato. Salì quindi sul
Rockefeller, guardò il Grand Canyon dall'alto, si godette le
spiagge assolate, andò per negozi e attraversò il
deserto in macchina, con una bandana in testa. Vinse anche qualche
cosa, a Las Vegas. Fece l'amore, molto. Rise come aveva riso al
matrimonio. Abbracciava Camilla, l'abbracciava spesso, e le fece dei
regali. Scattarono moltissime foto.
E quando furono nell'hotel dell'ultima notte, una frase gli si
stampò in testa all'improvviso e non vide altra alternativa
che dirla, subito, immediatamente.
-Ha fatto in modo che mi ricordassi di lei per sempre -
osservò, stupito della sua scoperta, guardando il soffitto.
Camilla, che ancora non dormiva, mormorò:
-Bianca?
-Sì. L'ha fatto il giorno del mio matrimonio. Non mi ha mai
perdonato, in realtà, per averti scelta.
Da quel momento fu consapevole che quell'ultimo atto era stato
un modo per entrargli per sempre nel cuore; un modo perché,
a ogni anniversario del matrimonio, a ogni giorno di
felicità e celebrazione con sua moglie, lui ricordasse che
qualcun altro l'aveva amato, e che per averlo amato aveva dovuto
d'andarsene, in preda al dolore dell'amore che non veniva corrisposto.
Gli aveva insomma lanciato una maledizione: non avrebbe mai
più potuto essere felice. Non senza pensare a lei, che per
lui aveva deciso di morire.
-In realtà - riprese Camilla, con sua grande sorpresa dato
che lei dopo il funerale non l'aveva più nominata - penso
che lei ci abbia insegnato qualcosa.
-Insegnato….? Che cosa?
la guardò con curiosità. Lei prese un respiro,
cercando di scacciare il sonno.
-Ci ha detto la verità al riguardo di noi stessi. E poi ha
fatto in modo che ce la dicessimo a vicenda. Se non ci fosse stata lei,
ci saremmo mai parlati con tanta sincerità?
-No - ammise, sbalordito dalla rivelazione.
-Già. Ci ha fatto capire che possono esistere momenti di
rabbia, o di tristezza. E che ne possono arrivare ancora, ma che questo
non significa che non ci amiamo più. Soltanto che ce ne
sono, e che dobbiamo saperlo.
-Non credo intendesse darci un messaggio di pace universale.
-Ho detto il contrario, infatti. Ho detto che ci ha insegnato che
combattere è giusto. Emanuele. Dovresti perdonarla.
Emanuele scoppiò a piangere disperatamente, e Camilla lo
strinse forte finché, dopo un'ora o due, non
sentì di avere più un briciolo d'energia in corpo.
-Ti amo - le disse.
-Ti amerò per sempre - gli rispose lei - forse non
è vero, ma ora voglio promettertelo.
Nonostante le lacrime versate, Camilla era ancora viva accanto a lui.
Ora sapeva che la vita di una persona ferita non era scontata, ma
Camilla era ancora lì, al suo fianco.
Tornò ancora a portarle dei fiori. Mazzi di lilium e rose
bianche, che alla visita successiva non ritrovava mai. Probabilmente i
genitori non li ritenevano adatti, non a una persona morta. I bouquet
da sposa erano per le persone vive. In fondo non li biasimava.
Ma un po' gli davano l'impressione di un augurio. L'augurio che potesse
trovare anche lei qualcuno che l'amasse, qualcuno da amare. Anche se
non c'era più, anche se non era possibile. Emanuele
continuava a pensare che lei ci fosse, da qualche parte, che fosse
partita verso un paese lontano dove cercare quello che lì le
era stato negato, per avere una nuova vita dove non sentirsi soltanto
un'asettica parete bianca.
Un giorno trovò Federico e Valeria, in visita, senza fiori.
-Non credo che le interessino - spiegò Valeria, atona - non
credo che nessuna di quelle robe la 'rappresenti'. Credo le interessi
di più quello che abbiamo da raccontarle.
-Ne sono sicuro - rispose, deciso.
A scuola non ne avevano più parlato, non nelle sue ore.
Comunque, ci era rimasto solo poche settimane.
-Mi manca troppo
- disse Federico, all'improvviso - più di quanto riesco a
sopportare.
-Non so come aiutarti, Federico - mormorò Emanuele, che non
sapeva, non sapeva assolutamente, come si potesse restituire la vita a
un ragazzino di sedici anni che vedeva morire la ragazza che amava.
Ma quello stesso ragazzino, cresciuto di dieci anni in pochi giorni,
scosse la testa con quell'aria matura, amareggiata, rassegnata che
avevano i vecchi.
-Lei non potrebbe fare niente - gli disse, saggiamente - a meno che non
la riporti qui, che cosa può dirmi di così
importante da farmi passare la tristezza?
-Ti capisco.
-Mi dicono di parlarne - proseguì il ragazzo, seccato - di
sfogarmi. Oppure mi dicono di non pensarci, di distrarmi. Grazie, lo so
anch'io che dovrei fare una di queste cose, o tutte e due. Le sto anche
facendo, per la verità. Ma perché me lo dicono
come se questo risolvesse la situazione? Non capiscono che sono solo un
modo per attutire, che non mi passa anche se vado in discoteca o parlo
di lei fino a che non arriva il mattino?
Emanuele e Valeria tacquero. Alla fine, lasciarono giù i
fiori di Emanuele ed andarono a fare colazione assieme, parlando
d'altro, del nuovo lavoro di Emanuele, di quello che succedeva a scuola.
Si salutarono come se si fossero rivisti il giorno dopo, come se non
fosse cambiato niente. La verità fu che dopo quel giorno non
li rivide mai, e nemmeno li cercò. Qualche collega lo
contattò, gli disse che chiedevano di lui, ma lui sorrideva
sempre e replicava cortesemente che, appena ne avesse avuto il tempo,
si sarebbe fatto vivo.
Non lo fece mai. Non ritornò più in
quell'istituto.
Ma ogni sabato mattina prendeva il treno e poi correva sul tredici, con
grande energia.
Arrivato al Altichiero, si precipitava dal fioraio, che ormai lo
riconosceva, e chiedeva un bouquet di lilion e rose bianche, avvolte in
un velo rosa acceso.
-Deve essere proprio innamorato di questa donna - scherzò un
giorno quel buon signore, a cui non aveva mai detto nulla - ancora non
ha ceduto?
Rise e gli rispose che era una ragazza difficile.
Hai visto?, disse più tardi a Bianca, senza parlare,
guardando la tomba. Un uomo che ti porta le rose fresche ogni
settimana. L'avresti mai immaginato?
-Guarda un po' - mormorò tra sé e sé -
dev'essere proprio innamorato, quell'uomo.
Sistemò delicatamente i fiori sul vaso; accarezzò
dolcemente la foto e poi se ne andò, mentre il sole e il
cielo e le rondini l'accoglievano vivaci.
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