La fuga, l'amore, la morte, la fuga.

di _Misery
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ... Fu una notte. ***
Capitolo 2: *** Chiamata alla notte ***



Capitolo 1
*** ... Fu una notte. ***


Leonore non si aspettava che tutto potesse rivelarsi così orribile, così tremendo; eppure aveva vissuto in un luogo profondamente depravato, sporco, infestato da farabutti di ogni tipo e contagiato da ogni vizio umano, aveva attraversato stanze fosche e nauseabonde, mangiato alla tavola di lussuriosi, assassini e mentecatti, visto duchi e contesse abbassarsi a leccare i fastosi tappeti calpestati dall’uomo a cui era stata data in sposa.
Era principessa di un mondo nero, avvelenato che, temeva, avrebbe presto sfiorato la sua carne pallida con quel suo alito pestifero; e anzi, le aveva già corrotto il cuore e profanato il ventre, e lei aveva tentato in tutti i modi di nascondere quel marchio.
Ma adesso che i lunghi abiti neri e azzurri non potevano più aiutarla, adesso lei cavalcava nella notte fredda e caliginosa, dopo aver corrotto a sua volta dame, guardie e stallieri, e cavalcava verso un luogo assediato eppure, ai suoi occhi disperati e assetati di libertà, sicuro. Teneva le briglie in modo disperatamente stretto, pronta in ogni momento a lasciarle andare, a cadere nella polvere, a chiudere gli occhi per sempre, ad essere ritrovata lì una bianca mattina di qualche giorno dopo, fredda e morta, a ripercorrere il sentiero al contrario senza accorgersene, ad essere sepolta finalmente e non sentire. Ma la stanchezza la spingeva allo stesso modo verso quel castello accerchiato, prima di lasciarla crollare su se stessa senza pietà.
Il bosco era infinito, ma Leonore conosceva la strada; e uscire alla luce della luna avrebbe significato la sua fine. Doveva continuare per quel sentiero insolitamente quieto, e ricacciare il freddo e la paura giù per la gola; quando vide che le stelle si affacciavano sulle ultime ombre degli alberi frenò il cavallo e smontò, silenziosa e guardinga. Guardò il suo morello a lungo, con tenerezza, senza alcun rimpianto, accarezzandolo affettuosamente sul collo.
- Vai – sussurrò, e lo guardò correre via come una creatura fatata, finché anche il ticchettio dei suoi zoccoli non si fu dissolto nella lontananza. Adesso era rimasta completamente sola al mondo, sola con il suo fiato congelato e quel maledetto peso nella pancia, ma continuò a seguire la luna. Conosceva la strada.
Lentamente una radura cinerea si aprì sotto il cielo, e Leonore rimase senza fiato di fronte alle centinaia di tende che la costellavano come infezioni quiete e rabbiose, pronte ad esplodere non appena fosse sorto il sole. Poco più vicino dell’orizzonte s’innalzava invece il terribile castello di Nottingham, la preda bella e fiera che il fievole chiaro di luna aveva ricoperto d’argento; Leonore doveva costeggiare gli alberi ancora per un bel tratto, prima di raggiungere il leggendario passaggio segreto di cui aveva sentito raccontare sin da bambina. Raccolse con vigile delicatezza i lembi della sua veste e del mantello, tentò di placare il suo respiro – come se i soldati assopiti avessero potuto sentirla annaspare per la fatica e il dolore alle caviglie – e corse, nascosta da rami e cespugli neri.
Quel luogo la attraeva, la chiamava e sospirava la sua ultima salvezza nella notte, ma insieme la respingeva, le incuteva una sorta di piacevole timore man mano che si avvicinava. Se l’avessero trovata mentre correva, se l’avessero presa prima che giungesse al ruscello che separava le torri dalla landa, tutto sarebbe andato perso; era la loro principessa, la signora di tutte quelle guardie ronfanti, la loro regina se suo marito fosse riuscito nel suo intento, ma l’avrebbero riportata indietro subito, ferocemente, senza guardarla in viso. Che cosa avrebbe fatto, allora? Probabilmente avrebbe potuto sperare soltanto di morire non appena avesse varcato di nuovo quell’odiata soglia. Invece doveva sbrigarsi e riuscire ad intrufolarsi in quel castello, doveva trovare quel che stava cercando e poi, finalmente, porre fine a tutta questa maledetta storia.
Il fango cominciò ben presto ad arrampicarsi ai suoi polpacci, ed ecco il fiume, opalino e immobile come in un sogno. Leonore riprese fiato e coraggio, ormai troppo lontana dall’accampamento del redivivo sceriffo di Nottingham per poterlo a malapena scorgere, alzò ancora di più il vestito per non rimanere intrappolata nell’acqua e s’immerse fino alle ginocchia, col cuore in gola e il grembo dolente. Il freddo le afferrò le gambe all’istante, insidiando anche le sue braccia indebolite, e i ciottoli sembravano danzare sotto i suoi piedi, ma Leonore strinse le labbra fino a farsele sanguinare e dovette combattere contro tutta se stessa per non fermarsi. Aveva una lacerante voglia di piangere, di rannicchiarsi a terra e piangere, eppure la fine era così vicina, così vicina! Doveva solo resistere a tutti i costi, resistere a quell’acqua stantia, debole eppure tanto crudele; con gli ultimi sforzi spinse quel corpo sempre più pesante fuori dal torrente e si trascinò fino a quello che presumeva fosse il passaggio segreto, e gli occhi tornarono a avvampare non appena vide che i rovi che lo coprivano erano stati in parte tagliati e calpestati. Era lì, era vero, era salva! Si appoggiò di botto a quella minuscola porticina di legno, quasi senza volerlo, e trattenne ancora una volta il pianto mentre tentava stancamente di aprirla. Ogni singola parte del suo corpo aveva preso a bruciare, e lei voleva solo entrare e abbandonarsi da qualche parte, chiudere gli occhi per un momento…
- Ma che diavolo… ehi! – fece una voce dietro di lei, mentre il passaggio si apriva all’improvviso e una luce fioca di candele le invadeva la vista. – Qui, presto! C’è una donna! Sbrigatevi!
Leonore ebbe a malapena il tempo di sorridere che un uomo l’afferrò per il braccio e la tirò dentro, richiudendo la porta con un calcio affinché il buio tornasse prepotentemente alla notte. Uno scalpiccio di passi e ombre frettolose la avvolse, e ci volle un po’ perché Leonore mettesse a fuoco i volti e le pareti che aveva intorno.
- Ma che diavolo succede? Chi è? – esclamò una ragazza dalla ribelle chioma bionda e il profilo leonino, e subito le fece eco un uomo dagli occhi vivaci e agguerriti. Leonore non ci mise molto a riconoscerlo: Robin Hood.
- Kate, Robin, non lo so – rispose l’uomo che l’aveva spinta dentro. – Ho sentito dei rumori, credo si fosse accasciata alla porta.
La ragazza bionda si avvicinò, sospettosa. – Dannazione, Allan, se avessi gridato un po’ di più sarebbero accorsi tutti i soldati! – sibilò all’uomo che teneva ancora Leonore per un gomito.
- Non ha parlato poi così forte – mormorò Leonore con un mezzo sorriso, mentre il cappuccio le ricadeva frusciando sulle spalle. Kate e l’uomo fecero un balzo indietro, sbigottiti, mentre Leonore vide chiaramente Robin Hood spalancare gli occhi dalla sorpresa.
- La principessa! – esclamò Allan, con le spalle al muro e la mano con cui le aveva stretto il braccio sospesa in aria, quasi avesse osato fare qualcosa di troppo blasfemo senza saperlo.
- Principessa – ripeté Robin Hood, fissandola gravemente; sembrava indeciso tra l’inchinarsi o il rimanere immobile in quella specie di gelido, diffidente astio. – Volete spiegarmi come mai siete qui e come avete fatto a trovare il passaggio?
- A dire la verità – cominciò Leonore, poggiando una mano al muro – credo proprio che dovreste nasconderlo e sorvegliarlo meglio, Robin Hood. In questo modo non ci vorrà nulla a scoprirlo. Comunque non guardatemi così preoccupati, non sono qui per loschi motivi né per tradirvi; ho bisogno… ho solo bisogno di vedere subito una persona… Gisborne… - aggiunse, quasi in un sussurro.
- Gisborne?
Leonore annuì debolmente, senza smettere di guardare Robin Hood negli occhi. – E’ qui con voi, no? Bene, allora lasciatemelo vedere – aggiunse, stringendo i pugni e i denti, quando Robin Hood annuì a sua volta. – Ve ne prego, vi giuro che non vi darò fastidio, ho solo bisogno di vedere lui – mormorò piano, scioccamente, con una mano sul ventre.
Kate sbuffò dalla penombra del suo angolo, ma i passi concitati di qualcuno che scendeva le scale distrassero Leonore.
- Qualcuno mi spiega cosa diamine sta succedendo quaggiù? – esclamò una voce roca, e Leonore vi riconobbe, quasi con sollievo, quella perennemente rabbiosa di Guy di Gisborne. La sua figura alta e scura si stagliò prepotente contro le deboli fiaccole dell’angusto corridoio, e sobbalzò quando Robin Hood si scostò, rivelando l’identità dell’intrusa.
- Principessa… principessa – biascicò Gisborne, e a Leonore parve che ogni singola giuntura del suo volto e del suo corpo stesse lentamente crollando a terra; non poté non sorridergli d’istinto, nonostante tutto, mentre lui riprendeva fiato e scendeva lentamente i pochi scalini che li separavano. – Principessa – riprese, tentando di placare l’evidente tremolio della sua voce. – Cosa… cosa ci fate qui?
- Ha detto che voleva vedere te, Gisborne – rispose Robin Hood, stavolta con una punta di deferenza, mentre Leonore avanzava di qualche passo, ingoiando il timore.
Ma Gisborne continuava a fissare la principessa con occhi vacui e ardenti, balbettando parole senza suono, come se lei lo avesse appena incantato; poi parve riprendere all’improvviso conoscenza, le si avvicinò spedito e le afferrò una spalla con più violenza di quanto non desiderasse.
- Avete attraversato un intero accampamento in piena notte! – fu tutto quello che riuscì a dire, senza poter distogliere lo sguardo.
Leonore guardò prima la mano di lui sulla sua spalla, poi il suo stesso volto infuocato, contratto in una terribile lotta con l’emozione, e sospirò.
- Attraversare l’accampamento? Buon Dio, certo che no, Gisborne! Non sono così stupida – disse. – Mi avrebbero ricacciata da mio marito, se mi avessero scoperta! Ho attraversato il bosco e il ruscello, ovviamente.
- Così non mi fate sentire meglio! – esclamò Gisborne, inspirando quasi ferocemente, e pose anche l’altra mano sulla spalla sinistra della principessa.
- Oh, adesso non fate l’isterico! Devo parlarvi, Guy, e anche urgentemente – sibilò Leonore, e aggiunse, dopo aver guardato con la coda dell’occhio il gruppetto che li circondava: - non credo che mi sopporteranno ancora per molto, per cui adesso calmatevi e portatemi in una stanza in cui si possa parlare. In privato. Avanti.
Gisborne parve esitare, ma Robin Hood rispose al suo posto: - Portala nella camera degli arazzi, Gisborne. Là potrete parlare in pace e lei sarà al caldo, dopo un viaggio del genere.
Gisborne annuì, ancora interdetto, poi lasciò Leonore e la condusse al piano di sopra, poggiandole delicatamente una mano sul braccio. Mentre si allontanava, la principessa notò che Kate e Robin stavano osservando la sua pancia, immobili; probabilmente avevano intuito qualcosa, ma non vi prestò attenzione.
 
Aveva già visitato la camera degli arazzi, anni prima. Suo marito non lasciava quasi mai il suo ozio e le sue libidini per andare al castello di Nottingham, ma lei vi si era recata qualche volta, da bambina, assieme a suo padre e a suo fratello. Leonore entrò nella sala e respirò a lungo il dolce odore di fumo e polvere che ne impregnava gli alti soffitti bui, anche se la corruzione era riuscita ad arrivare, anche lì, fin dove il tempo stesso si era fermato. Attese in silenzio che Gisborne richiudesse la porta dietro di lei, poi si voltò a guardarlo, le mani intrecciate sotto il seno e le pupille ferme. Gisborne prese un lungo respiro e si avvicinò lentamente, quasi esitando a rendersi visibile alla luce del fuoco.
- Dovreste sedervi e riposarvi un attimo, principessa – mormorò. – Se volete rifocillarvi, io…
- No – lo interruppe Leonore, secca. Gisborne la vide lì, di nuovo immobile e bianca come la dama a cui aveva dovuto essere fedele in un tempo non troppo lontano, e deglutì. Quella situazione lo stava sconvolgendo più di quanto avrebbe voluto, e quando lei gli si fece improvvisamente vicina dovette impedirsi di fare un passo indietro.
- Non sono venuta qui per sedermi e rifocillarmi – disse Leonore a denti stretti, e Gisborne deglutì di fronte a quegli occhi gelidi, di fronte alle sue dolci labbra pallide, al profumo di notte dei suoi capelli neri e ferini. – Non ho mai saputo se fidarmi o meno di voi, Sir Guy – aggiunse, piano – ma in questo momento siete l’unico individuo su tutta la faccia della Terra a cui io possa rivolgermi.
- Mia signora, voi siete fuggita in piena notte…
- Per chiedervi un favore, un enorme favore. Voi dovete aiutarmi, Sir Guy, e prima – aggiunse, poiché Gisborne aveva aperto la bocca per ribattere – che il principe Giovanni si accorga della mia assenza da quel suo lurido talamo.
Gisborne non poté parlare davanti a quel volto d’opale che fremeva alla luce del focolare; ci fu un bagliore improvviso, e si ritrovò in mano un pugnale che Leonore aveva estratto svelta dal suo mantello.
- Uccidetemi, Guy – ordinò Leonore, fissando il fondo di quegli ardenti occhi d’ossidiana e tenendo stretta la mano di Gisborne contro il suo petto. – Uccidetemi in fretta!
Ma Gisborne sentiva quella lama fredda sfiorare la carne giovane di lei, e non capiva, non poteva sopportarne il pensiero; inerme, guardò la principessa, feroce nella sua freddezza, e quelle due mani intrecciate attorno al pugnale. Non riusciva a capire, cosa voleva dire tutto questo? Cosa voleva da lui?
- No – disse, scuotendo la testa - no. No. Non di nuovo, non di nuovo!
- Non di nuovo? – ripeté Leonore, mentre il suo viso s’accendeva lentamente in una maschera di rabbia; per un attimo, lui avvertì un tremito nella stretta della sua sottile mano. – Oh, cielo, Gisborne! Non fate il sentimentale proprio ora! – ringhiò, avvicinandosi ancor più pericolosamente alla lama. – Chissà quante persone avete ucciso in questi anni! Che problema avete? Ve lo ordino!
- No! – esclamò Gisborne, con la sua vecchia voce da lupo. – Non vi ucciderò, non spingerò mai questa lama nel vostro cuore!
Leonore lo osservò respirare con rancore, e chiuse gli occhi per nascondergli tutto il suo timore e la sua disperazione. Era la sua signora; lui doveva obbedire, costasse quel costasse.
- E invece lo farete – disse, con spietata calma. – Perché io sono incinta, Gisborne – spiegò, pallidissima, premendo l’altra mano di Gisborne sul suo ventre in modo che ne percepisse il turgore – porto dentro il figlio di un uomo che amo e odio in modo insano, e questa miserabile creatura non può, non deve vedere la luce. Dobbiamo morire entrambi, questa notte, prima che lui lo venga a sapere.
Fu come se quella lama avesse appena trapassato il petto di Gisborne, invece che quello di Leonore. I suoi occhi bruciavano, completamente folli.
- Non… sapete cosa mi state chiedendo – disse, con voce strozzata; poi parve riacquisire la sua forza, e aggiunse infine, scostando la mano da quel grembo come fosse infuocato: - Ma non vi ucciderò, principessa, nemmeno dovessi morire io stesso se non lo facessi. Ho smesso di obbedire al principe Giovanni, e per questa volta non obbedirò a voi.
- Molto bene – fece Leonore, senza celare il fremito delle sue labbra; poi strappò il pugnale dalla mano di Gisborne e arretrò velocemente, puntandolo contro la sua stessa gola. – Evidentemente dovrò far da sola, in questo caso. Speravo di non dover arrivare proprio a questo punto, ma voi non volete aiutarmi, Gisborne!
 
Kate spalancò la porta della sala, allarmata dal frastuono che riecheggiava per i corridoi del castello: vi trovò Gisborne chino sulla principessa, con i suoi polsi candidi stretti nelle mani e la luce del fuoco che si dimenava sul suo viso stravolto; un pugnale d’osso e d’argento brillava immacolato a pochi passi da loro. Gisborne le lanciò un’occhiata di ghiaccio, e tanto bastò per mandare Kate su tutte le furie.
- Maledetto cane, che cosa le state facendo? – gridò, precipitandosi verso di loro.
- Stava tentando di ammazzarsi – ringhiò Gisborne, sprezzante – e io gliel’ho impedito. – Poi tornò a rivolgersi a Leonore: - Adesso ascoltatemi: voi rimarrete qui, e faremo nascere questo bambino ad ogni costo – le sussurrò, con voce più perentoria che rassicurante, mentre allentava la presa. – Poi lo affideremo a qualcuno, se proprio ritenete che sia la decisione migliore, faremo in modo che viva il più lontano possibile da qui. Ma adesso vi dovete calmare.
Leonore si limitò a fissarlo impassibile senza annuire, ma Gisborne la lasciò andare, raccolse il pugnale e raggiunse velocemente Kate, raggelata al suo posto.
- Rimanete qui con la principessa e accertatevi che non faccia nient’altro di insensato – le disse tra i denti, indicando con uno sguardo irato il pugnale. – Devo parlare con Robin.
Gisborne uscì e non dovette impiegare molto tempo per trovare Robin, perché le due donne udirono subito la loro discussione: Gisborne stava tentando di convincerlo – o, meglio, stava urlando – che fosse necessario tenere la principessa lì con loro, perché era incinta (Leonore non poté non notare la sua esitazione nel dirlo) e, soprattutto, lo era all’insaputa del principe; ma Robin rimaneva dubbioso, ribatteva che la sua presenza in quel castello assediato sarebbe stata estremamente rischiosa per lei e per tutti loro. Leonore, accasciatasi senza rumore su una delle poltrone, ascoltava tutto ad occhi serrati; Kate continuava a guardarla in silenzio, ma che fosse per controllarla o perché la sua pancia attirava inevitabilmente il suo sguardo, Leonore non aveva più la forza di chiederselo. Avrebbe tanto voluto poggiare la testa in qualche angolino buio, quieto e remoto, avrebbe voluto dimenticare e dormire per sempre, prima che le truppe si ridestassero, là fuori; ma quelle voci non facevano che rimbombarle tra le tempie, e lei era sconfitta. Non voleva lasciare che nascesse, quel maledetto bambino; non poteva lasciarlo dritto nelle fauci di un mondo infuocato dalle guerre e dall’ingiustizia, sapeva che non si sarebbe mai salvato, pure fosse cresciuto come figlio d’un re usurpatore o al riparo nella lurida capanna di qualche contadino del Sud. Ma s’era mai vista una regina tanto in balia del destino e delle decisioni degli uomini?
- Non sarò mica l’unica donna gravida che voi abbiate mai visto, Kate – proferì Leonore, marcando con disgusto il suo stato e interrompendo il silenzio che le tendeva come due giunchi. – Potreste anche smetterla di fissarmi.
- No, io… è che siete tanto immobile che non vi si vede quasi respirare – rispose Kate, ancora incerta se mostrare una qualche particolare riverenza a quell’arida principessa, che era pur vincolata al peggiore dei loro nemici. – Dunque il principe Giovanni non sa nulla.
Leonore trattenne un respiro e Kate la vide, per la prima volta, giungere le mani sotto il grembo. – Ovviamente no. Mi avrebbe tenuta sotto chiave. In un gioco ai troni come quello che lui sta facendo, un erede avrebbe rappresentato una pedina troppo importante; non oso nemmeno pensarci. Gliel’ho tenuto nascosto finché ho potuto, e d’altronde è talmente ottenebrato dai suoi vizi che non mi ci è voluto molto.
- Ma ne parlate come se quello che avete in grembo non fosse una creatura – tentò Kate, senza riuscire a celare la sua disapprovazione. – Non siete fuggita per lui, ma per… per… avete tentato di… uccidervi…
- Tacete! Voi non potete nemmeno immaginare – la interruppe Leonore, riaprendo di scatto gli occhi e scandendo le parole con una lenta furia sorda mentre Gisborne riprendeva a sbraitare, - non potete nemmeno immaginare che cosa sia, voi non potete nemmeno immaginare quanto io mi senta sporca! Non potete saperlo – disse, alzandosi in piedi senza riuscire a calmarsi, - e non voglio perdere tempo a dirvelo.
Prima che Kate potesse fermarla, Leonore si era precipitata fuori dalla stanza come un’amazzone ferita, ribellandosi alla tentazione di posare una mano su quel ventre dolente.
- Gisborne, continuo a pensare che non dovrebbe essere qui – stava dicendo Robin Hood, ma s’interruppe quando la principessa entrò in fretta e furia nella vecchia biblioteca in cui si trovavano; lo circondavano altri ricercati, nascosti nell’ombra, mentre Gisborne lo fronteggiava con un pugno sul tavolo e gli occhi fiammeggianti.
- No, vi prego, continuate pure – disse Leonore, gelida, chiudendosi svelta nel mantello non appena percepì quella ventina d’occhi trafiggerla. – Tanto la vostra diatriba si sente benissimo dalle altre stanze. Comunque – sibilò, prima che allo sguardo tormentato di Gisborne potesse seguire anche una sola parola – ci tenevo solo a farvi sapere che non sono di certo qui per intralciare i vostri piani di… sommossa, perciò, dato che Gisborne non vuole aiutarmi, ora posso anche andarmene. Addio.
Leonore si voltò e fece per uscire, ma Gisborne girò rapidamente attorno al tavolo e si precipitò a fermarla; lo sguardo della principessa corse da quel braccio ammantato di nero al volto del suo possessore, incredulo e furente.
- E se… e se spiattellasse a qualcuno dove si trova il passaggio segreto? Se… - esclamò all’improvviso un ragazzo dai capelli rossicci, emergendo dall’ombra e indicando la principessa con un indice poco convinto.
- Che cosa stupida! Non lo farebbe mai! – lo interruppe Gisborne, indispettito. – Principessa, ve ne prego – mormorò poi, chinando la testa – rimanete qui, non potete andare altrove… e non potrei sopportare l’idea che tentereste di uccidervi ancora, lontano.
Leonore continuava a fissarlo con le labbra strette, e si voltò solo quando Kate parlò per Robin Hood, che si era abbandonato su una sedia con una mano sulla fronte, muto.
- Allora dovremo trovare qualcuno che la assista, mentre noi saremo occupati con quei trogloditi laggiù – disse, ferma, poggiando lieve una mano sulla spalla di Robin. – E nessuno di loro deve vederla né venire a conoscenza della sua presenza qui, per nessuna ragione al mondo; non devono saperlo nemmeno gli abitanti di Nottingham, eccetto per una levatrice che possa aiutarci. E poi deve stare ben nascosta, ed essere pronta a fuggire… nel caso dovessero riuscire a riprendersi il castello.
Gisborne annuì, mentre i suoi occhi parevano rasserenarsi di colpo, e tornò a guardare la principessa. Leonore lo ignorò: odiava essere spinta ad assentire in quel modo. Sospirò.
- Adesso sarà meglio che andiate a riposarvi, principessa, davvero – mormorò Robin Hood, evidentemente esausto. – Kate vi condurrà nella camera più comoda e nascosta di questo maledetto castello.
La ragazza parve esitare un momento, ma Leonore, cogliendoli tutti di sorpresa, piegò dolcemente le ginocchia in un inchino, e Kate si convinse.
- Venite con me – le disse, precedendola fuori dalla stanza e lanciando un’occhiata indispettita a Gisborne, che stava seguendo la principessa. – Non ho mica intenzione di attentare alla sua vita, Gisborne, non c’è bisogno di una guardia del corpo.
Leonore si voltò, gli lesse negli occhi quel tormento che aveva imparato a conoscere tanto bene, e tornò a guardare avanti.
- Lasciate che venga – disse.
 
- C’è ancora qualcosa che dovete dirmi, Guy?
Il chiarore di un fuoco appena accesso illuminava uno spicchio del viso di Leonore, ma Gisborne, alla sua soglia, taceva.
- In questo caso, buonanotte – sussurrò la principessa, richiudendo piano la porta. Era strano per entrambi trovarsi così vicini, in modo così fatale e necessario, senza la presenza ingombrante di un principe che richiedesse teste e boccali di vino; sapeva che Gisborne sarebbe rimasto lì fuori ancora per un po’. Non si fidava del suo cuore. 

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Capitolo 2
*** Chiamata alla notte ***


Mentre i primi raggi dell’alba esangue s’infilavano tra le tende e la testa mozzata di suo fratello le librava ancora davanti agli occhi, un orribile frastuono agitò il sonno di Leonore; si destò di soprassalto, convinta che le truppe nere di suo marito avessero fatto irruzione per riprenderla, ma la quiete tornò all’improvviso. Doveva aver avuto una notte piena d’incubi.
Si sollevò dalle pesanti coltri del letto, rifiutandosi di sentire se quel bambino fosse ancora vivo, si sistemò velocemente i capelli con le dita sottili e si gettò addosso il mantello. Da quella stanza solitaria non aveva visuale sul campo che fronteggiava il castello, e non sapeva se l’allegra combriccola di fuorilegge fosse già scesa all’azione; odiava tutto questo, la confondeva e la nauseava.
Corse fuori, in mezzo al silenzio che sembrava aver incantato la fortezza, e non trovò anima viva finché non s’imbatté in Kate, accanto alla biblioteca.
- Principessa! Siete già sveglia – disse, sistemandosi una faretra sulla spalla destra.
- Sì, credevo d’aver sentito dei rumori… ma sembra che non ci sia nessuno – mormorò Leonore, infreddolita.
Kate la guardò di sbieco. – Non pretenderete di essere servita e riverita, spero – disse.
- Cielo, certo che no! Sarebbe una pretesa quantomeno fuori luogo, in questo momento. Solamente, mi chiedevo se foste già andati ad affrontare gli uomini di Vasey.
- Non ancora, principessa. Dovremmo almeno capire quali sarebbero le loro mosse, ma non sembrano ancora intenzionati a far nulla, per cui non c’è molto che possiamo fare. Figuratevi – aggiunse, con un mezzo sorriso che Leonore decise di ignorare – che Gisborne era talmente irrequieto che ha passato la notte a sorvegliare il castello e a cercarvi una levatrice in gran segreto. Sembrava veramente un lupo idrofobo.
- Sempre gentilissima – fece Gisborne, comparso alle loro spalle.
- Ovviamente – ribatté Kate, sollevando il mento. – Con permesso – disse poi, chinando lievemente la testa in segno di saluto, e si allontanò con passo veloce e deciso.
- Non dovreste rimanere nella vostra stanza e non farvi vedere troppo in giro, principessa? – chiese Gisborne, con una punta di sarcasmo nella voce profonda.
Per tutta risposta, Leonore si avvicinò ad una delle chiare finestre e scrutò l’orizzonte ancora intriso di notte. – E da chi, di grazia? – disse. – Non c’è anima viva.
- Ci stiamo preparando – replicò Gisborne, tendendo naturalmente verso di lei. – Loro non esiteranno ancora molto ad attaccare, e voi dovrete essere il più al sicuro possibile; inoltre stanotte vi ho…
- … trovato una levatrice in gran segreto? – lo interruppe Leonore, mentre la sua corazza di ghiaccio e sarcasmo cominciava a vacillare come se qualcuno vi fosse finito addosso inavvertitamente.
- Infatti.
- Singolare, non è vero? Io tento di finirla una volta per tutte e voi cercate di aiutarmi in modo totalmente opposto.
- Perché è di questo che avete bisogno, non della morte –
- Non mi sembra di avervi mai dato il permesso di contraddirmi – ringhiò Leonore, piano, senza voltarsi ancora.
 - Non siate sciocca, principessa – disse Gisborne, lottando contro se stesso per rimanere calmo di fronte a quella piccola roccia aspra che aveva di fronte. – Voi non conoscete l’amore ma lo temete, figurarsi se non avete paura della morte…
- Questo non è affatto vero! – esclamò Leonore, puntandogli in viso due bianchi occhi di fuoco e ricacciandoli subito via, come se d’un tratto qualcosa li avesse feriti. – Sapete cosa veramente temo? La vita che mi rimarrebbe. Tutti quegli sguardi perversi che tornerebbero a fissarmi giorno e notte, quegli inchini, quei banchetti pieni d’animali, quel vuoto… Dio mio, so che è strano, ma quel che sento in questo luogo pur malsicuro è la cosa più vicina alla felicità che io abbia mai provato, e voi, nonostante tutto, siete quella più vicina ad un amico che abbia mai avuto, se è così che chiamano le creature che non sanno parlarsi ma si ritrovano sempre fianco a fianco! – Leonore si fermò come per riprendere fiato o per trattenere il pianto, Gisborne non sapeva; avrebbe voluto volgerle quel collo d’argento, farla tacere una volta per tutte. – Ma dopo? – sussurrò ancora; sembrava accartocciarsi lentamente su se stessa. – Dopo cosa diavolo farei?
Il suo silenzio, tanto cupo che l’avrebbe percepito anche a metri di distanza, la fece infine voltare; ma stavolta fu lui a non guardarla. Il suo profilo sembrava essersi pietrificato alla luce dell’alba.
- Lotterete – mormorò Gisborne, ma fu come se le parole stessero sgorgando da uno spirito a lui solo vicino.
- Gisborne! – chiamarono all’improvviso, tanto forte da farli sobbalzare: era Robin Hood, ricomparso da qualche punto del sonno stregato del castello. – Gisborne! Corri! Si preparano ad attaccarci!
- Maledizione, maledizione – ringhiò lui, e per un attimo il suo volto parve tornare quello selvatico di una volta. – Sto arrivando! Jane! – gridò poi, afferrando il braccio di Leonore. – Jane!
Una miriade di passi parve circondarli alla sprovvista, sempre più veloci e tanto rumorosi che Leonore avrebbe voluto piangere.
- Adesso ascoltatemi – le disse, fissandola dritto negli occhi – ho mostrato a Jane la camera più protetta del castello, lei vi ci condurrà e voi dovrete rimanere lì, succeda quel che succeda. Intesi?
- Dannazione, Gisborne – sibilò immobile Leonore, con l’espressione di chi avrebbe tanto voluto sbattergli una porta in faccia, se solo avesse potuto – voi non potete andare a buttarvi in un’impresa tanto folle e dire a me di lottare!
- E invece lo farete – rispose lui, aspro, lasciandola andare.
Leonore rimase lì, inerme, a guardarlo correre via; soffocava come se il suo cuore fosse appena stato squarciato da una lunga, stremante corsa. Poi qualcosa attirò la sua attenzione, e Leonore si volse: subito una donnina dai capelli appena inargentati e i vestiti miseri le si inchinò davanti, quasi tremando – eccola, la sua dannata levatrice, una creatura tanto esile che persino la brezza avrebbe potuto piegarla.
- P… principessa – balbettò, senza alzare il capo.
Ma Leonore non rispose. Qualcosa di caldo e viscido colava lungo le sue gambe, attorno alle ginocchia, fin giù alle caviglie, e non era sangue; in un istante il mondo intero parve contrarsi e gettarlesi addosso con quelle sue fauci spalancate e accecanti, pronto a dilaniarla. Leonore poggiò una mano al muro e si accasciò a terra, maledicendo a denti stretti quel giorno: non avrebbe mai dovuto vederlo, non sarebbe mai dovuto arrivare! Guy di Gisborne era un demonio, uno schifoso traditore, un vile della peggior specie!
 
Quante urla, quante grida avevano riempito il cielo grigio: la battaglia aveva ululato per tutto il giorno, infinita, fragorosa. Anche Leonore aveva urlato, aveva gridato, tutto il giorno, senza fine, mangiandosi le labbra, spezzandosi le dita, serrando gli occhi di fronte al rosso delle lenzuola e delle mani della piccola Jane. Si stava frantumando, lo sentiva; era orribile, era pronta a morire e a lasciare quel corpo malato, a non vedere più. Ma tutto era finito all’improvviso, il suo ventre aveva smesso di lacerarsi sotto il baldacchino, i gemiti erano morti così com’erano venuti, e il silenzio era tornato a rombare feroce al tramonto prima che un nuovo suono, uno stridio insopportabile – il pianto di un bambino – sorgesse dalla penombra. Leonore avrebbe voluto piangere assieme a lui, ma non di gioia, non di gioia.
 
Erano riusciti a trattenere gli uomini di Vasey e i loro arieti, forse per una notte ancora.
- Cosa diavolo è successo? – sbraitò Gisborne, dimenticando la cortesia. Robin Hood e gli altri erano dietro di lui, gli occhi splendenti nell’oscurità.
- La principessa ha dato alla luce una bambina mentre difendevate il castello – frusciò Jane; non osava guardarlo. – È nata molto prima del tempo, temo, ma sembra che per ora stia bene, anche se la principessa non ha voluto prenderla per nulla al mondo. Il prete Tuck è con loro, adesso.
- Dannazione – borbottò Gisborne, scansando la levatrice senza troppe cerimonie e affrettandosi verso la stanza di Leonore; credette di poter sentire una parte del dolore che doveva aver provato lei.
- Spero sopravvivranno entrambe – sospirò Jane, passandosi una mano sugli occhi.
- Certo che lo faranno! – gridò inaspettatamente lui, da lontano. I suoi passi risuonarono ancora per un po’, come rapide pugnalate sulla pietra, poi scomparvero nel buio.
 
Un uomo nero come le ombre – un monaco, o uno spirito, forse – le stava carezzando dolcemente la fronte umida, come se questa potesse racchiudere qualcosa di veramente prezioso.
- Come vi sentite? – chiese.
Leonore dovette quasi sforzarsi per ricordarsi che aveva una bocca. – Come se avessi combattuto per mesi – riuscì a dire, con una voce che non era nemmeno sua.
 L’uomo sorrise, e a Leonore parve lontanamente di sorridere di rimando. – Vi riprenderete presto, vedrete – sussurrò. – Ah, Gisborne – mormorò poi, accorgendosi ora della figura che sostava alla porta, di nuovo, perfettamente immobile. – Siete già qui.
Gisborne taceva ancora; la visione di quella figura bianca e tanto fragile che le coltri avrebbero potuto inghiottirla, di quello spettro che moriva, gli aveva semplicemente falciato il respiro. Dov’era la principessa che s’imporporava per l’ira, che feriva con occhi disumani? Adesso, come fosse riuscita a trovare una fiamma a loro invisibile, volgeva ostinatamente il viso alla finestra nera, lontana da tutti loro.
Tuck s’avvicinò a Gisborne con una ciotola calda tra le mani, ma questi non riuscì ad articolare un qualsiasi suono sensato; si limitò a deglutire forte, tentando di seppellire le proprie emozioni quanto più a fondo poteva, mentre i suoi occhi si facevano neri, neri come la notte lì fuori.
- Si riprenderà davvero – sussurrò il prete, dopo aver atteso invano una qualche domanda. – Basterebbe che mangiasse un po’ – e lanciò una breve occhiata desolata alla scodella – ma è molto forte, comunque. Non ci metterà molto a tornare quella di prima.
- E se invece non lo volesse? – biascicò Gisborne, con la gola arida e le labbra contratte.
- Vi sento parlottare, laggiù – mormorò improvvisamente Leonore: il suo viso era ancora oscuro, ma intanto sembravano guardarli due paia di polsi esangui, cristallini, languidamente abbandonati lungo i fianchi. – Siete morti o vivi? – e inspirò fremendo come se le facesse male, – siete Gisborne?
- Sì, sì, sono io.
- Avete una freccia in mezzo al petto o siete tutto intero?
- Tutto intero, mia signora, tutto intero; siamo riusciti a difendere il castello per una notte ancora.
Parole che in quel momento non sembravano avere alcun senso, non per lui, non per lei; ma cosa dire ad una creatura con un tale dolore nel viso pallido, nei capelli neri, nel corpo freddo, cosa dire ad una creatura che sembrava dovesse essere presto divorata dalle paludi?
- Almeno voi potete ancora combattere – sospirò Leonore, e anche questo parve farle ancor più male. – Io non ho nemmeno più qualcosa per cui morire. Voglio dormire, voglio dormire. Se vedete Giovanni non ditegli che sono qui, abbiamo urlato tutti un po’ troppo per i miei gusti.
Gisborne fissò la principessa a lungo, smarrito, poi tornò a guardare il prete; una candela bastava a malapena ad illuminargli il viso, ma Tuck percepì il lampo dei suoi occhi.
- È troppo stanca e deperita, Gisborne – sussurrò, quasi giustificandosi. – Adesso è meglio che andiate e la lasciate riposare, io cercherò di farle mangiare qualcosa.
- Non ho fame – replicò Leonore, debolmente, dal suo angolo.
- Mangerete – ringhiò Gisborne, mentre usciva. Tuck lo bloccò all’improvviso, afferrandolo per un braccio.
- E comunque, dato che nessuno sembra volersene minimamente preoccupare – soggiunse, quasi minaccioso – la bambina si trova nell’ultima stanza del corridoio, e sta anche meglio di quanto potessimo sperare.
- Un boccale di vino! Un bel boccale di vino profumato, presto! – la voce di Leonore cadde presto nel sonno.
 
Il frusciare di due voci sommesse e ridenti distrasse Gisborne dai suoi pensieri, fissi davanti alla porta della principessa; il bagliore di una candela, dal fondo della notte, le accompagnava per il corridoio. C’era qualcuno nella stanza della bambina: Gisborne lasciò il suo posto e corse a vedere chi fosse, incurante dei suoi passi – e, diamine, si trattava solamente di Kate e Robin.
- Cosa state facendo qui dentro? – sibilò, facendoli sobbalzare. I due intrusi si volsero e lo fissarono con un’espressione estatica che Gisborne non aveva mai visto, sui loro volti (e che, sinceramente, lo irritava non poco); Kate aveva in braccio la neonata, e le stava carezzando la piccola testa assopita con il pollice.
- La stavamo solo guardando, Gisborne, sta’ tranquillo – disse Robin Hood, con un sorriso ebete stampato in faccia. – Una bambina così delicata non può starsene tutta sola.
- È veramente bellissima, per essere così prematura – mormorò Kate, prendendo a cullarla pian piano. – E Tuck le ha dato un nome adorabile, Rose. Piccola, piccola Rose.
- Non v’immaginavo davvero così teneri – fece Gisborne, con una smorfia. – Vi comportate come se foste voi i suoi genitori, ed è alquanto stomachevole… adesso rimettetela a posto!
- Oh, avanti, ne parlate come se fosse solo un oggetto troppo fragile! E poi me l’ha data Jane, e so benissimo come si tiene in braccio un bambino. Non ve la romperò mica, questa povera, adorabile creaturina. Così piccola e già ripudiata, riuscireste ad immaginare destino peggiore?
- È senz’altro il migliore che potrebbe desiderare, Kate.
Nessuno riconobbe subito l’asprezza di quella voce o quel bagliore d’occhi che uscivano dalla notte, nessuno l’aveva udita camminare, socchiudere la porta, guardarli come uno spirito.
- Leonore…
- Leonore.
- Dovreste essere a letto, siete terribilmente pallida.
La principessa contrasse la bocca, sbatté le palpebre, alzò violenta la testa; senza i suoi velluti scuri e le sue sete era piccola, infinitamente piccola, eppure tanto spaventosa.
- Per prima cosa – disse, inspirando forte come per impedirsi di lanciare quella dannata candela nel bel mezzo della fronte di qualcuno – non mi sembra di esservi tanto intima. Secondo poi, non voglio passare un attimo di più in quel letto polveroso, e terzo, Gisborne ha ragione: lasciate la mia… lasciate la bambina dov’era.
Per tutta risposta, Kate parve tenere quel fagottino ancor più stretto. – Cielo, principessa, stanotte è così freddo e lei è così piccina – disse, avvicinandosi a quella tremenda creatura che la fissava furente. – Non potete semplicemente lasciarla così… ecco, guardatela, non vorreste prenderla in braccio?
- Kate, no. Lascia stare, avanti. – Robin Hood era guardingo come se, invece che indossare quella miserabile veste bianca, Leonore fosse armata fino ai denti. Ma quanto ci si poteva fidare di una creatura infelice?
Kate non l’ascoltò affatto. – Nemmeno per un po’?
Ormai era a pochi passi dalla principessa; Leonore fissò stordita il suo mezzo sorriso, poi il volto della bambina e quelle sue guance rosse come fiori, e si sentì affogare. Vedeva quella minuscola testa, quel cranio ancora leggermente malfatto, quelle ciocche fulve, quei pugni che si agitavano nell’aria, e vedeva un’anima che le era stata ormai amputata; poteva forse amarla? Poteva amare una figlia di suo marito?
All’improvviso notò che anche lo sguardo affranto di Gisborne si era posato sulla bambina, e tutto il suo odio si riversò su di lui.
- È uguale a suo padre! – gridò, allontanandosi di corsa. – Dio mio, è così uguale a suo padre! Fatela sparire immediatamente!
Kate rimase agghiacciata dov’era, mentre Rose si agitava e piagnucolava contro il suo petto.
- Santo cielo, Gisborne, non ti rendi conto che ormai è completamente folle? – esclamò Robin, guardandolo accasciarsi piano su una sedia, con la testa tra le mani.
- E che cosa dovrei fare, secondo te? – biascicò lui, rivolto più a se stesso che al suo compagno di sventura. – Io mi chiedo perché diavolo, perché diavolo sia dovuta venire proprio qui! Avrei preferito non vederla, avrei dovuto ucciderla!, invece che lasciarla in queste condizioni… se solo io…
- Adesso non vi ci mettete anche voi – ribatté Kate, aspra, mentre cercava di calmare la bambina proteggendola col suo collo. – Smettetela di dire assurdità e andate a fermarla, prima che faccia qualcosa di tremendamente sciocco o pericoloso. Forza!
Gisborne s’alzò e uscì meccanicamente, ciondolando come un fantoccio appeso. Doveva essere veramente fuori di sé, per eseguire gli ordini di una ragazzina.
- Robin, qui stanno diventando tutti matti – mormorò Kate, preoccupata.
- L’ho notato – rispose lui, mentre il pianto della bambina cresceva e si faceva sempre più disperato. – Dobbiamo trovare subito qualcuno che si prenda cura di Rose, che possa abbracciarla in ogni notte come questa… e che se ne vada il più lontano possibile da qui. Noi non potremo farlo, Kate.
 
Leonore era una furia che infestava i corridoi, ululando, frusciando via nelle sue vesti opaline ogni volta che Gisborne tentava di prenderla. Oramai l’intero castello doveva averla vista o averne udito i passi frenetici, ma a lei sembrava non interessare minimamente.
- Oddio, quel pianto, quel maledetto pianto! – gridava, con le mani nei lunghi capelli color della notte. – Fatela smettere!
Gisborne la seguì nella sua stanza, completamente dimentico di ogni buona creanza; la principessa parve non accorgersene, ossessionata com’era dalla voce ormai lontana della sua bambina. Ansimava, appoggiata al davanzale della finestra, come se una lama gelata le stesse trafiggendo le tempie da parte a parte, come se non potesse trovar sollievo.
- Fatela tacere, ho detto! – continuò, ma la sua voce parve cedere. Improvvisamente si tolse le mani dalle orecchie e, afferrato il gelido pasto che il prete aveva tentato di farle mangiare (non riusciva a realizzare quanto tempo fosse passato), lo lanciò fuori dalla finestra con tutta la rabbia che le fremeva in corpo; dal piccolo cortile sottostante s’alzò un corale ehi!.
- Prendete e mangiatene tutti! – strillò Leonore, stizzita; poi si voltò – e ancora sembrava non vedere quell’ombra ospite –, fissò con ineffabile rabbia la candela che languiva in un angolo della stanza e vi si lanciò contro. Fu a quel punto che Gisborne la fermò, senz’altro modo che tenendola stretta fra le braccia.
- Adesso calmatevi, calmatevi! – sibilò, ricacciando giù per la gola l’orrore che l’invadeva. – Siete completamente fuori di voi!
- Ma non sono pazza! – replicò Leonore, dimenandosi con violenza. – Lasciatemi!
- No, no – disse Gisborne, e la strinse ancora di più; poteva quasi sentirla soffocare, come una bestia ferita, sotto le sue braccia. – Vi ricordo che teoricamente qui sareste in territorio nemico, ed io non ho la minima intenzione di rispondere ai vostri ordini.
La principessa si fermò, stremata, e soffiò via le lunghe ciocche di capelli neri dal suo viso stravolto.
- Io, invece, vi ripeto che non sono una mentecatta, Gisborne – mormorò, tra i denti. – Sono solo arrabbiata, tremendamente arrabbiata.
- Lo capisco, princ… –
- No! Ovvio che non mi capite! – lo interruppe Leonore, piantandogli addosso gli occhi lucidi di collera. – Come potreste? Parlate come se foste mai stato… come se foste mai stato incinto. Diavolo! Come ha potuto farmi questo… avrei preferito mille volte morire trafitta su un campo di battaglia che passare tutto questo… io… e voi! – gridò, tornando a scalciare più forte di prima. – Voi, siete solamente un vile bastardo! Come avete osato lasciarmi in questo stato? Con quale maledetto coraggio?
Il corpo di Leonore era ora così piccolo e caldo, tanto diverso da quella scultura di marmo e ferro che Gisborne aveva sempre dovuto ammirare da lontano, e sempre con quell’eccentrico principe rossiccio ad oscurarne il vago chiarore; ma era impossibile placarla, gli stava lentamente impazzendo tra le braccia, e le sue parole aspre gli raggelavano il sangue nelle vene, lo rendevano furioso.
- Avreste potuto farlo da sola, se desideravate tanto morire – esclamò, ormai esasperato. – Perdio, adesso basta!
E fece qualcosa che non avrebbe mai nemmeno immaginato di poter fare: alzò una mano, un lampo chiaro contro la luce della candela, e schiaffeggiò la principessa in pieno volto. Lei ricadde all’indietro, sul suo letto – più per la sorpresa che per il dolore, forse –, e all’improvviso lo guardò con viso pallido e ardente; ma Gisborne già pareva atterrito dal suo stesso gesto, e si fissava le mani senza riuscire a dir nulla.
- Andatevene – ringhiò Leonore, stringendo convulsamente una colonna del letto. – Avete ragione, sono stata una debole sciocca… ma non preoccupatevene troppo, già domani sparirò. Ma adesso andatevene, miserabile, o vi ucciderò io stessa! Voi e quella cagna di vostra sorella! – gridò ancora, mentre Gisborne batteva in ritirata, stravolto e sconfitto. – Voi non mi amate, Guy, non mi amate!
Leonore sprofondò tra le lenzuola, azzannandole, mentre la candela moriva lentamente accanto a lei. Aveva dato alla notte una bambina senz’anima, aveva combattuto e aveva perso, era sola; nella sua testa si risvegliarono le voci oscure di suo padre e di suo fratello, ma Leonore le fermò prima che potessero ingannarla.
Tutto tacque, tutto fu buio.

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