In
una linea temporale artificialmente modificata.
C’è
una
tipologia di persone che il computer per la scansione cerebrale
identifica come
potenzialmente pericolose: a queste persone viene dato il nome di
“Tif”,
abbreviazione di timefixers, che io preferisco tradurre con
aggiustatempo. Ad
una conoscenza superficiale, queste possono sembrare persone
normalissime, dai
solidi princìpi morali e con un alto senso della giustizia,
eppure dopo un po’
iniziano ad apparire inaffidabili. Gli aggiustatempo si riconoscono nel
momento
in cui iniziano a mettere in dubbio l’adeguatezza delle tre
regole dell’Agenzia.
All’inizio ci ero passata anch’io, avevo posto il
computer di fronte a un
problema e lui, invece di rispondermi, aveva chiuso la seduta
dichiarandomi non
idonea. Tempo dopo venni a sapere che la mia scheda personale era stata
collocata sotto la dicitura “timefixers”. Mi sentii
piuttosto abbattuta. È raro
che un Tif venga giudicato idoneo in una delle successive scansioni
cerebrali,
quindi davo per scontato che mi sarei occupata del tempo sempre e solo
a
livello teorico e non pratico, come invece ambivo ardentemente. Il
giorno in
cui il computer mi valutò come idonea, mi presi qualche ora
di permesso per
festeggiare in un locale della città. Nonostante la musica e
la piacevole
atmosfera del posto, percepivo in me un velo d’inspiegabile
malinconia. Forse
già allora il mio sesto senso voleva mettermi in guarda da
possibili
sciocchezze che avrei potuto compiere in futuro.
Mentre
cercavo
di contattare Linsdy, intrappolata nella linea temporale passata,
rivedevo il mio
nome inserito nella lista degli aggiustatempo: se il computer mi aveva
rivaluta in
modo errato, l’universo intero stava correndo un grave
rischio.
Finalmente vidi
Linsdy girare l’angolo di un edificio. Camminava guardando
sovrappensiero
l’orologio che aveva al polso: tre quadranti e cinque
lancette per segnare un
unico tempo. Per qualcuno poteva sembrare un’esagerazione, ma
a lei le cose
complicate piacevano. L’indomani a quell’ora si
sarebbe trovata in viaggio
verso la colonia spaziale orbitante attorno a Europa, nel sistema
gioviano.
Aveva l’aria felice mentre alzava lo sguardo verso i profili
degli imponenti
grattacieli a finestre specchiate. Il temporale della sera era ancora
lontano:
il sole del primo pomeriggio rifletteva nelle sue iridi facendole
sembrare due preziosi
smeraldi. Indossava lo stesso soprabito che avrebbe indossato al nostro
appuntamento. I suoi passi leggeri sul marciapiede lastricato segnavano
un
ritmo perfettamente in armonia con l’ambiente circostante. La
vita di Linsdy
apparteneva a quel tempo, ma il tempo continuava a scorrere senza mai
fermarsi a
guardarla. Se fossi stata io, il tempo, avrei ovviato a
quell’inconveniente, mi
sarei fermata e le avrei detto: “Ehi! Stai benissimo oggi,
sembri in armonia
con il tutto.”
Stava
venendo
verso di me, ma non si era ancora accorta della mia presenza. Ne
approfittai
per coglierla di sorpresa.
«Ciao
Linsdy!
Stai benissimo oggi, sembri...»
«Edra!?
Che ci
fai qui? Non dovresti essere
all’università?»
Mi
strinsi
nelle spalle. «Un amico mi registra la lezione.»
Linsdy
iniziò a
scrutarmi con un’espressione stranita in cerca di un indizio
che non riusciva a
trovare. «Sei diversa, ma non capisco in cosa. Sei stata dal
parrucchiere?»
«No.»
«Ci
sono! Hai cambiato
il colore dell’ombretto!»
«No.»
«Sicura?
Hai
gli occhi più luminosi.»
Non
le risposi.
Mi morsi il labbro inferiore per frenare le lacrime che cercavano con
prepotenza
un varco, e quando capii che non avrei resistito un secondo in
più, la
abbracciai per nascondere il mio volto. La strinsi a me e affondai la
testa
sulla sua spalla respirando tra i suoi capelli quel familiare profumo
di
angelica e riattivante elettrico. Nel giro di qualche secondo, quel
contatto
ebbe l’effetto di darmi un coraggio inaspettato. Mi sciolsi
dall’abbraccio e
iniziai a parlare a raffica. «Stasera
l’appuntamento è alle sette. Ti prego, non
fare affidamento su quell’orologio!», le dissi con
tono fin troppo supplichevole,
indicando con lo sguardo l’oggetto che portava al polso.
«Anzi, è meglio se me
lo dai e te lo riporto quando ci rivediamo.»
«Che
cosa
c’entra l’orologio?»
«Niente.
Solo
che potrebbe fermarsi, e quando gli orologi si fermano, non sai mai
quello che potrebbe accadere.»
Cercai
di
metterla in guardia lanciandole quel messaggio indiretto. Non potevo
dirle:
“Linsdy, mi dispiace ma stasera morirai, cerca di arrivare
puntale, magari la
storia cambierà”. Ci speravo davvero con tutto il
cuore che la storia cambiasse,
eppure, conoscendo la struttura del tempo, sapevo che gli eventi si
sarebbero svolti
in modo da riportare l’equilibrio. Invariabilità
variabile: il tempo è capace
di creare ossimori meravigliosi e tragici insieme.
«Comunque
continui a sembrarmi strana», disse Linsdy girandomi attorno
con uno sguardo
indagatore. «Mi sembri… lontana.»
La
fermai posandole le mani sulle spalle e, senza
dire una parola, le sganciai l’orologio dal polso e me lo
misi
in tasca. Quel
mio gesto la sorprese abbastanza da lasciarla a bocca aperta.
«Allora
a
stasera!», mi affrettai a dirle, prima di ritrovarmi di nuovo
con le lacrime
agli occhi in cerca delle parole adatte a un quarto addio.
Indietreggiai di
qualche passo continuando a guardarla. Ero combattuta. Se avevo
qualcosa da
confessarle quella era la mia ultima occasione. Dopo
il modo in cui ero
sparita senza
avvisare, al
mio rientro, dubitavo
fortemente
che mi avrebbero affidato altre missioni. Tornai verso Linsdy e la
baciai: le sue labbra erano
leggermente
umide e sapevano di miele. Non oppose resistenza, ma quando mi scostai
lessi
nel suo sguardo che qualcosa la turbava. Il mio improvviso moto di
coraggio si
spense così com'era arrivato. Mi voltai e iniziai a correre.
Al
ritorno mi
trovai ad affrontare l’effetto della mia decisione impulsiva.
Non avevo mai
visto così tante persone riunite nella Sala del Tempo prima.
C’erano tutti i
tecnici, anche quelli che dovevano essere in vacanza e persino il
direttore del
museo. Davanti all’entrata blindata c’era una
squadra di soldati addestrati e
prestati al giuramento di segretezza, completi di armatura e armi
spianate
contro di me.
Scesi dalla navicella con lentamente e con le mani alzate.
«Se
controllate
nella tasca destra troverete l’orologio… voglio
dire il nuovo reperto per il
museo. Missione compiuta!»
Il
direttore
fece cenno ai soldati di abbassare le armi poi mi si
avvicinò, frugò nella tasca
che avevo indicato e ne tirò fuori l’orologio.
«Cosa
diavolo
pensavi di fare azionando da sola il Timegate?!»
Abbandonai
le braccia lungo i fianchi, sconsolata.
«Ti
consideravo
una persona abbastanza responsabile da comprendere la
pericolosità di certi
gesti! Giocare con il tempo può provocare effetti devastanti
sull’intera
struttura dell’universo! E non mi guardare con quegli occhi
dispiaciuti, lo sai
che a ogni causa corrisponde un effetto!»
Si
passò una
mano sul volto e sospirò: aveva quasi
settant’anni, ma ancora tanta energia da
vendere.
«Mi
vuole
licenziare?», chiesi con un filo di voce, temendo la risposta.
«Licenziare?»,
ripeté. «Farò smantellare il computer
che ti ha valutato come idonea! È chiaro
che si è guastato e dev’essere
sostituito!»
Fu
un
piacere
constatare che il valore delle mie capacità impediva al
direttore di
prendersela seriamente con me. La sua predica ad un certo punto mi
apparve
quasi la ramanzina di un padre preoccupato per la figlia. Mi sentii in
dovere
di ringraziarlo.
«Non
mi
ringraziare, questa è stata la tua prima ed ultima missione
da DJ», mi rispose.
Avrei dovuto immaginarlo che non sarebbe andato tutto liscio.
Mi
ritirai nel
mio alloggio e, nonostante la stanchezza e il tardo orario, non riuscii
ad
addormentarmi: troppi pensieri e troppe emozioni mi vorticavano nella
mente. Ad
un certo punto abbandonai il letto e mi sedetti alla scrivania rivolta
verso
l’unica finestra della camera. Il cielo era limpido e si
vedeva la Luna. Rovesciai
la sveglia a led che proiettava l’ora sul soffitto in modo da
rendere la stanza
completamente buia. La prima volta che avevo guardato fuori da quella
finestra avevo
pensato che il paesaggio non fosse male. Si vedevano le luci della
città e,
verso l’orizzonte, persino la torretta più alta
dello spazioporto che si
trovava a qualche chilometro da lì; di notte
s’accendeva come un faro,
lampeggiava con un ritmo preciso, matematico, e per il colore brillante
ricordava una strobosfera.
«Perdonami
Linsdy»,
dissi con lo sguardo puntato nel cielo stellato oltre il vetro.
«Anzi, non mi
perdonare, non me lo merito. Avrei dovuto fregarmene della terza
legge!»
Improvvisamente
la volta celeste fu attraversata da una scia luminosa che
terminò proprio in
corrispondenza dello spazioporto: una navicella proveniente da
chissà dove, aveva
fatto ritorno sulla Terra. Considerando la data, poteva benissimo
essere la
navicella che avrebbe riportato a casa Linsdy, se lei fosse stata
ancora viva.
Mancavano
meno
di due ore all’alba e quell’assenza di sonno mi
ricordò il primo periodo all’Agenzia.
La notte non riuscivo a dormire: il letto era comodo, ma era un letto
estraneo,
l’ambiente era accogliente, ma non era quello di casa.
Così mi alzavo, percorrevo
con passo felpato il corridoio che portava nella Sala del Tempo e, una
volta
entrata, mi sedevo a gambe incrociate sul pavimento e restavo
lì, in
ammirazione a guardare il grande cerchio immerso nella penombra.
Ricordai la
prima volta in cui ero entrata Sala del Tempo di notte: avevo avvertito
una strana
energia attraversarmi e avevo avuto la certezza di essere destinata a
stare lì
in quel preciso momento, e che quel luogo fosse il tassello centrale
del
mosaico della mia vita. Il Timegate sembrava un enorme orologio, che
spogliatosi della
guarnizione di fondo, ostentava con un certo orgoglio tutti i suoi
complicati
meccanismi interni. Sul pavimento freddo, a contemplare quel maestoso
cerchio
intriso di perfezione divina, iniziavo a sentirmi finalmente a casa.
Qualche
volta mi scoprivo a sorridere pensando che la navicella per lo
spostamento
temporale, allora poggiata al suolo, somigliasse moltissimo a un
vecchio ferro
da stiro con le ali, ma poi tornavo subito seria. Nel vuoto di quella
stanza
avevo l’impressione di sentire la voce di Linsdy:
“È possibile che ogni volta
che io e te ci incontriamo debba piovere?!” Non mi sarei
sorpresa più di tanto se
fosse apparsa come un fantasma all’interno del perimetro del
Timegate. C’era, e
c’è tuttora, qualcosa di misterioso in quella
struttura, qualcosa che non può essere
spiegato nemmeno dalle stesse formule matematiche che ne hanno reso
possibile
la costruzione.
È
come se il
tempo fosse qualcosa di vivo, un’entità senziente.
«L’unica
domanda che avresti dovuto porti fin dall’inizio,
non ti ha nemmeno mai sfiorato la mente.»
È
l’angelo dai
begli occhi verdi a parlare. È comparso dal
nulla, assieme alla sensazione di essere stata sbalzata fuori dalla mia
linea
temporale originaria. Devo essermi addormenta sulla scrivania:
sì,
è la spiegazione più
plausibile.
Ci troviamo in una
stanza poco
illuminata, molto simile a
quella del primo sogno. Su un tavolo c’è una
lampada di sale che spande luce
fioca tutto intorno. C’è anche lo specchio vuoto,
manca solo la tenda blu
dietro la quale, l’altra volta, si nascondeva Linsdy.
Immagino sia un sogno,
ma non
escludo possa trattarsi di un’allucinazione,
un effetto collaterale dell’esposizione alle fluttuazioni
quantistiche. Non riesco a scartare nessuna ipotesi.
«Che
cos’è il tempo?», azzardo.
«Questo te lo
sei chiesto fin troppe volte», mi rimprovera lui.
«Quale altra
domanda
avrei dovuto pormi?»
«Dove sono
finiti i DJ
del tempo che lavoravano alla Titraahibe
prima di te, per esempio.»
«Giusto! Dove
sono
finiti?»
«Sono
diventati parte
integrante della struttura del tempo.»
«Come?»
«Semplicemente,
un giorno,
prima di partire per una nuova
missione, hanno capito che non sarebbero più
tornati», mi risponde lui.
«Sono
morti?»
«No. Sono
diventati parte
integrante della struttura del
tempo. E tu, è proprio il caso di dirlo, hai combinato un
bel caos!»
La rivelazione mi lascia
senza
parole. Ho sempre agito in buona fede, per cui non capisco in che
modo posso aver combinato un casino.
La voce
dell’angelo
riprende suadente: «Tutti coloro che osano
rimescolare gli avvenimenti della storia a loro piacimento, finiscono
per
ritrovarsi a supplicare. Ad un certo punto anche tu sentirai dentro di
te il
peso di tutto ciò che avresti potuto fare se solo ne avessi
avuto il tempo. La
colpa è tua che hai voluto scendere a compromessi con
qualcosa di inconcepibile.»
«Ho violato la
terza
regola, è questo il problema, vero?
Quella regola andrebbe modificata. Il passato certe volte è
troppo crudele: non
si può stare fermi a guardare che tutto si ripeta quando
c’è la possibilità di
rendere le cose migliori!»
«È
questo il
tuo problema: ti preoccupi troppo per ciò che è
stato. Ma il passato non esiste.»
«Ho sempre
cercato un
modo per evadere dal tempo», replico,
«ho trascorso tre anni di studio
all’università chiedendomi ogni giorno
“perché
tempo e spazio sembrano fusi? perché uno non può
esistere senza l’altro? perché
succedono certe cose invece di altre?” Le persone continuano
a chiamarlo
destino…»
«E tu hai
trovato una
risposta migliore?»
«No, ma credo
di esserci
vicina.»
L’angelo
sorride e
s’incammina lentamente verso la parete su
cui è appeso il suo specchio vuoto. «Hai tutti gli
elementi per comprendere», dice
allungando le mani guantate verso il nulla oscuro contenuto nella
cornice, poi
continua: «Serve molta pazienza per svolgere questo lavoro,
sai? Se stringo
troppo la presa, il tempo si ribella e l’universo
implode.»
Si gira a guardami, mi
basta un
instante per leggergli negli
occhi le sue intenzioni, ma è troppo veloce e non riesco a
far nulla per
fermarlo. Stringe le dita sui palmi formando due pugni e in quel
preciso
istante inizio a sentire un fastidioso formicolio su tutto il corpo e
un
fischio acuto. Poi l’universo implode. I concetti di passato,
presente e futuro
perdono senso, le distanze si annullano, non esistono più
confini tra le cose.
«Bentornata»,
esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia,
tastandomi il polso per sentire le
pulsazioni.
«Ti
prego, non
dirmi che sono crollata prima di salire sulla navetta e che la missione
è stata
posticipata!», supplicai.
«Va
bene, non
lo farò.»
Valutai
per
qualche istante la situazione: chiaramente non era più notte
il che lasciava
presumere che io mi fossi svegliata e avessi compiuto delle azioni che
mi avevano
fatta finire sul lettino dell’infermeria. Mi sforzai di
ricordare, ma fu
inutile: avevo un vuoto di memoria.
Io
e
Karf restammo
a fissarci per qualche lunghissimo istante senza proferire parola.
Avevo il timore
di chiedere, ma la curiosità infine ebbe la meglio.
«Che cosa è successo?»
«Linsdy
ti è
venuta a trovare e, quando vi siete incontrate in corridoio, tu hai
urlato e
poi hai perso i sensi.»
Un
senso di stordimento
si appropriò della mia mente impedendomi di formulare
qualsiasi pensiero coerente.
«Che???»
«La
tua amica è
venuta a trovarti e poi…»
«La
mia amica
chi?!»,
lo interruppi quasi urlando, temendo di avere le
allucinazioni uditive.
«L
I N S D Y»,
scandì lui. «Vi siete incrociate in corridoio e tu
hai avuto quella spaventosa
reazione. Ti ho prescritto un accertamento psichiatrico. Non
fraintendermi, non
credo che tu sia pazza, ma forse avresti bisogno di una vacanza. Dove
vai?! Aspetta!»
Karf
non fece
in tempo a fermarmi, ero già in corridoio che correvo senza
una meta precisa girando
la testa a destra e sinistra a ogni bivio. A metà strada tra
la Sala del Tempo
e il laboratorio di analisi chimiche, inciampai sul camice che
indossavo, scivolai
e mi ritrovai stesa a terra. Cercai di rialzarmi, ma con un
ginocchio dolorante
non era un’impresa tanto semplice. Qualcuno mi
offrì
gentilmente una mano, la
afferrai e una volta in piedi mi ritrovai davanti al viso di lei. Nel
giro di qualche
secondo nella mia mente si affacciarono le possibilità
più disparate: pensai di
essere nell’aldilà, ipotizzai che
l’implosione dell’universo fosse veramente
avvenuta, supposi persino lo slittamento dello spazio in una linea
temporale
alternativa, ma non pensai nemmeno per un istante che la spiegazione
risiedesse
nell’orologio che avevo le rubato.
«Bel
modo di
salutarmi dopo cinque anni e due mesi di assenza!» La sua
voce mi scosse. Aveva
usato lo stesso tono scherzoso di quella sera al pub e mi guardava con
quei
suoi grandi occhi verdi cercando di carpire qualcosa dalla mia
espressione.
«Ti
senti
meglio?», mi chiese.
Le
mie labbra restarono
sigillate.
Mi
prese le
mani e al contatto sentii una scossa. «Hai le mani
gelate!» Constatazione
eccellente. «E il mio orologio che fine a fatto? Me lo dovevi
dare quella sera
prima che partissi! Dì qualcosa, sto iniziando a
preoccuparmi!»
«L’orologio?»,
riuscii
finalmente ad articolare.
«Sia
ringraziato il cielo!», disse con fare teatrale.
«Dopo cinque anni ti ostini
ancora a fingere di non ricordare? Se proprio ti piaceva tanto, bastava
dirlo e
te l’avrei regalato.»
La
naturalezza con la quale Linsdy mi rivolgeva la parola era incredibile.
Sembrava che fosse passato appena qualche giorno dal nostro ultimo
incontro. Forse ci eravamo tenute in contatto in qualche modo che ora,
per colpa del vuoto di memoria, non ricordavo.
«S-stai
parlando di quell’orologio?
Quello
con tre quadranti?»
«Sì,
parlo di
quel prezioso orologio con tre quadranti e cinque lancette di fattura
estruviana che mi hai sottratto cinque anni fa.»
Mi
appoggiai frastornata
a una parete, lei mi imitò continuando a osservarmi con una
certa preoccupazione.
La nebbia si stava pian piano diradando dalla mente. Durante il mio
ultimo
viaggio nel passato avevo incontrato Linsdy nel pomeriggio, qualche ora
prima
del nostro appuntamento all’Ibizu Kilea, avevo trafugato il
suo orologio e me
n’ero tornata al presente. Quella mia azione doveva essere
stata la causa
principale della deviazione degli eventi. Avevo creato un ramo
temporale
alternativo!
In
cinque anni
il colore degli occhi
di Linsdy non era
cambiato, inoltre profuma ancora di angelica e riattivante elettrico.
«Inizio a
dare ragione al medico, forse dovresti riposare un
po’», disse apprensiva, poi
sorrise e continuò: «Non me ne frega nulla
dell’orologio, stai tranquilla, prima
scherzavo.»
La
spiegazione
più probabile era questa: senza il fatidico orologio, Linsdy
aveva cercato
altrove l’orario riuscendo ad arrivare puntuale al nostro
appuntamento, la cena
era terminata prima e lei aveva mancato l’incontro con
l’auto impazzita.
«Ho
combinato
un casino! Ma è il più bel casino che avessi mai
potuto combinare!», conclusi
avvicinandomi in cerca di un abbraccio. Sentii le sue mani accarezzarmi
la
schiena; restammo qualche minuto così, in silenzio, a
nutrirci ciascuno dell’anima
dell’altra.
Nella
mia testa
sarebbe sempre rimasto quel vuoto temporale che si estendeva dal
momento in cui
ammiravo il paesaggio notturno dalla finestra della mia stanza fino al
risveglio
in infermeria. Nell’intermezzo, mascherato da
quell’enigmatico sogno in cui
parlavo con l’angelo, ci poteva essere l’infinito.
Rabbrividii al pensiero che
l’universo potesse essere veramente imploso sotto la
pressione delle mani
guantate di una creatura in grado di controllare il tempo da un
luogo fuori
dalle dimensioni a noi conosciute.
Immaginavo
che dopo
la mia bravata mi sarebbe stato tolto il ruolo di DJ e riaffidato
quello di
cronoquantista teorica. Se il mio destino era quello di abbandonare per
sempre la
possibilità di viaggiare nel tempo, volevo salutare per bene
il Timegate: certo,
lo avrei rivisto ancora, ma sotto le spoglie di una cronoquantista
sarebbe
stato diverso, come se un muro invisibile si fosse posto tra noi.
Linsdy
non aveva
il permesso di entrare nella Sala del Tempo, quindi mi
aspettò fuori. Non
appena varcai la soglia, la prima cosa che notai, oltre
l’imponenza del
Timegate, fu l’assenza della statua dell’angelo.
Raggiunsi Inck che in quel
momento era impegnato ad armeggiare con un robusto cavo
d’alimentazione che
connetteva la macchina del tempo a un serbatoio atomico. Gli chiesi se
sapeva
che fine aveva fatto la statua dell’angelo. Lui interruppe
momentaneamente il
suo lavoro, si passò mano sulla fronte imperlata di sudore e
mi guardò. «Di
quale statua stai parlando? Le uniche statue che io abbia mai visto in
questo edificio
sono custodite al museo.»
«Non
ti ricordi
della statua?!»
Inck
sembrò
rifletterci su per qualche secondo. «No, non mi ricordo. Come
potrei ricordarmi
di una cosa che non ho mai visto?»
Possibile?
Mi
avvicinai per osservare meglio la porzione di pavimento su cui
ricordavo fosse
poggiato l’angelo e notai una traccia: il segno
inequivocabile di un oggetto
che era rimasto in quel posto per parecchi anni prima di essere
rimosso. In
quel preciso momento, si risvegliò in me una certezza:
Linsdy era tornata e l’angelo
era sparito. Si sa che il tempo è un abile affarista, se
salvi la vita a
qualcuno lui ne vuole un’altra in cambio, la tua
possibilmente. Non importa
quanto dovrà aspettare per prenderla, alla fine
troverà sempre un modo. Ero
convinta che prima o poi avrei sognato di nuovo la stanza illuminata
dalla
lampada di sale e, quando sarebbe successo, non mi sarei più
risvegliata. Ogni
istante di tempo sarebbe scorso tra le mie mani guantate e non avrei
potuto far
altro che contemplare innumerevoli vite contrastate da altrettanti
innumerevoli
eventi.
Uscii
dalla
sala e trovai Linsdy che mi aspettava in corridoio giocherellando con
un nuovo tipo
di orologio. Quando mi vide mi venne incontro e si fermò
davanti di me aspettando
che io parlassi. Avevo un mucchio di cose da dirle, ma nessuna in quel
momento sembrava
quella giusta, così sorrisi e lasciai che tre singole parole
descrivessero
tutto ciò che avevo vissuto in quegli ultimi cinque anni:
«Mi sei mancata!»
Questa in definitiva
è
la mia storia. Scoprii che Linsdy non
era arrabbiata per quel bacio che le avevo rubato cinque anni prima; mi
confidò
che dopo essere partita si era posta delle domande, e la lontananza
dalla Terra
le aveva fornito le risposte. La sera in cui l’angelo sarebbe
venuto a
prendermi per portarmi nella stanza illuminata dalla lampada di sale,
Linsdy
entrò nel mio alloggio e ricambiò il bacio. Mi
lasciò di fianco al cuscino un
vecchio orologio da tasca con dei numeri romani incisi sulla ghiera e
mi disse
che la mia carriera di DJ non era del tutto rovinata: la colonia
orbitante
attorno a Giove stava iniziando a interessarsi ai viaggi nel tempo.
«Come sai,
gravità e tempo sono strettamente collegati»,
disse.
«Ecco, prima che io tornassi sulla Terra si parlava di
assumere qualcuno di
esperto in grado analizzare con precisione i dati cronoquantistici e
che fosse
disposto a viaggiare nel futuro.» Inutile nascondere che
quell’ultima parte del
discorso mi aveva esageratamente entusiasmato, tanto che avevo subito
accettato
di partire con lei alla volta di Giove.
Il futuro?! Chi non
sogna
di vedere
il futuro? Peccato che il
destino aveva già scelto per me un’altra strada;
non avrei mai più assistito al
sorge di una nuova alba da quella prospettiva mortale. Quando riaprii
gli occhi
credendo d’iniziare un nuovo giorno, davanti di me
c’era già lo specchio vuoto,
questa volta sorretto da un mobile in legno dall’aria
antichissima.
Registrai la mia storia
nell’attimo che intercorse tra il
sollevare le mani, rendermi conto che erano coperte da preziosi guanti
di
velluto ricamato, e il protenderle verso
l’oscurità dello specchio. Queste
memorie, ho voluto chiuderle in un cassetto della mia nuova specchiera,
tra le
pieghe dello spazio-tempo, in modo che le parole rimanessero
indelebili. A
tutti i futuri DJ del tempo, voglio lasciare qualche spunto di
riflessione: se
aveste la possibilità di controllare il tempo, che fareste?
Tornereste indietro
per cambiare qualcosa del vostro passato o lascereste tutto
com’è? Sbircereste
nel futuro per agevolare la vostra fortuna? Pensereste a voi stessi o
agli
altri? Chiedetevelo e cercate di darvi una risposta sincera, e
fregatevene delle tre regole.
Io non sono mai riuscita a trovare una soluzione, nemmeno
ora che tutto è compiuto, che il cerchio si è
chiuso, che la clessidra ha smarrito
la sua sabbia nella spiaggia del tempo. Io, che avevo sempre visto il
tempo
come una prigione, io che cercavo un modo per fuggire dal destino,
volevo
essere libera, e ora, in un certo senso, lo sono.
Tutto dipende da me,
dal modo
in cui inclino le mani, avvolte da questi preziosi guanti ricamati,
verso l’atarassica
oscurità di questo specchio vuoto. E non provo
più niente, le emozioni non
hanno più senso. Non c’è tristezza,
né gioia, solo una scintilla color verde
smeraldo che, ogni tanto, illuminando la sconfinatezza del tempo,
sembra
implorarmi di tornare e allora io le rispondo “sono
già lì con te”. Perché il
tempo è sempre e ovunque.