Winter Maze 520
[
Settima classificata
e vincitrice del Premio Ambientazione al contest
«Pair520:
Celebrate Roy/Ed Day!» indetto da Setsuka ]
Titolo: Winter Maze
520: An old promise
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tema scelto: I want to exorcise the demons
from your
past, I want to satisfy the undisclosed desires in your heart
› Undisclosed desires, Muse
Tipologia: One-shot
[
4260
parole fiumidiparole ]
Genere: Generale,
Forse
vagamente Malinconico,
Sentimentale, Vagamente Introspettivo
Avvertimenti: Shounen
Ai, Slice
of life, Missing Moment, What if?
Characters: Roy
Mustang, Edward Elric
Pairing: Roy/Ed
Rating: Giallo
/ Arancione
Winter challenge: 30°
Luogo › Luogo
libero: Montagne di Briggs
Vitii et Virtutis: Accidia
›
Malinconia
Binks
Challenge: 6° Grotta
› 55° Sincerità
Prompt challenge: 9°
Argomento: Clima › Gelo
Challenge in love: #19.
Passione
Nota: Questa
storia può vagamente
collegarsi a quelle raccolte nella serie Tra
i bagliori
del fuoco, nello specifico a One
day, who knows [
For now, nothing else matters ] e a Please,
take
me out of here
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX.
All
Rights Reserved.
I
want to reconcile the violence in your heart
I want to recognize your beauty's not just a mask
I want to exorcise the demons from your past
I want to satisfy the undisclosed desires in your heart
[ Undisclosed Desires,
Muse ]
Se
qualcuno mi avesse detto che, a distanza di ben due anni, mi sarei
ritrovato
ancora una volta sulle gelide ed innevate montagne di Briggs, non ci
avrei mai
creduto.
Giacché l’anno
addietro la solita
esercitazione fra quelle lande sperdute era catastroficamente
saltata - con sommo dispiacere del General Maggior
Armstrong, desiderosa più
che mai di dare una bella batosta a noi dell’Est -, avevo
falsamente sperato
che anche stavolta me la sarei cavata e me ne sarei potuto restare nel
caldo del mio appartamento. Invece eccomi lì, con
il culo nella neve
e i piedi gelati nonostante gli stivali foderati all’interno.
Scossi il capo per scacciare quei
pensieri e
mi passai una mano fra i capelli, frustrato, liberando al contempo
qualche
ciocca dai fiocchi di neve che continuavano a scendere dal cielo.
Fortunatamente
non ci eravamo trovati in una violenta bufera - e da quelle parti
accadeva
piuttosto spesso -, ma il freddo era intenso e si faceva sentire,
pungendomi
naso e guance come se si fosse trattato di piccoli pugnali acuminati.
Un fruscio alla mia destra
richiamò la mia attenzione e mi affrettai dunque a
ripararmi dietro al tronco
di un albero per non farmi vedere, con la pistola in pugno premuta
contro il petto.
Ovviamente
quella era soltanto una simulazione e quelle armi non avrebbero fatto
male ad una mosca - sempre se il colpo non veniva sparato a distanza
troppo ravvicinata, e il livido che mi era rimasto sotto al costato per
un paio di mesi, durante le prime esercitazioni, ne era stato la prova
-, ma parecchi soldati, soprattutto
le nuove
leve, erano fin troppo zelanti; non si poteva mai sapere come potevano
reagire
quei piccoli idioti. Il loro marchio era
l’impulsività, e su quel punto di
vista mi ricordavano quello scemo di Acciaio.
I passi nella neve si fecero
più
netti e vicini, e riuscii ad udire persino lo scricchiolio di essi sul
suolo
ghiacciato; il rumore di un ramo spezzato risuonò qualche
attimo dopo nell’aria, e
fui sul punto di
gettarmi
all’attacco quando mi resi conto che lo scalpiccio che avevo
sentito non
apparteneva ad una persona, bensì ad un animale. Gli occhi
neri e impauriti
di un cerbiatto ricambiarono il mio sguardo, sgranandosi ancor
più non appena
focalizzarono del tutto la mia figura; corse via fra la neve prima
ancora che
potessi capirci qualcosa, lasciandomi interdetto e, aye, anche un
po’
scocciato. Avevo sperato di avanzare almeno di qualche gradino e di
stendere uno dei soldati di Briggs, invece
ero
stato bellamente fregato.
Con uno sbuffo, inserii la sicura e
ficcai la pistola alla cintola, cominciando ad avanzare cauto fra
quella fitta
vegetazione. Qualche raggio di sole filtrava timidamente dalla cappa di
fogliame sopra di me ed illuminava la zona sottostante, creando chiazze
più
chiare sulla neve candida; seguii le tracce lasciate dal cerbiatto -
quasi del
tutto certo che stesse scappando da qualcuno giacché erano
troppo ravvicinate
fra loro, come se avesse proceduto al galoppo fin lì - e mi
inoltrai nel
sottobosco, sentendo intorno a me soltanto il silenzioso suono della
montagna.
Di tanto in tanto, la quiete veniva
interrotta da qualche incerto cinguettio proveniente da punti
imprecisati della boscaglia, ma nient’altro
sembrava levarsi per
dare almeno la parvenza che nei dintorni ci fossero altre forme di vita
oltre a
me. Che avessi sbagliato strada? Eppure avevo consultato la mappa prima
ancora
di mettermi in viaggio, dannazione. Mi sarei già dovuto
trovare nei pressi
delle tende allestite per l’occasione, con tanto di pomposi
Generali e
ufficiali al seguito ad assistere alle nostre esercitazioni.
Imprecai a denti stretti quando la
neve accumulatasi su uno dei rami degli alberi mi cadde in testa,
imbrattandomi
da capo a piedi; già infreddolito di mio, rabbrividii nel
sentirla scivolare
dietro al collo, scrollandomela ancora una volta dai capelli con foga.
Perfetto, maledizione. Ci mancava soltanto quello.
Stavo per togliermi il cappotto e
liberarlo dalla neve quando udii nuovamente un rumore alle mie spalle,
e non
feci in tempo a voltarmi che qualcosa di pesante mi venne addosso,
facendomi
cadere; riuscii appena a scorgere un vago baluginio argentato prima che
mi
rotolassi nella neve, con lo scricchiolio del ghiaccio nelle orecchie e
il
rumore di rami spezzati.
Provai ad estrarre la pistola nel
momento esatto in cui mi ritrovai disteso di schiena, ma, prima ancora
che
potessi farlo, mi resi conto di avere una lama d’acciaio alla
gola e sgranai gli occhi, incredulo. Ma che
diavolo...? «E tu
cosa diamine ci fai qui, dannato
Colonnello?» sbottò una voce
fin troppo familiare, e alzando lo sguardo potei ricambiare quello
dorato di
Acciaio. Beh, avrei dovuto capirlo subito.
Gli poggiai una mano sul petto e
lo scansai da me con ben poca grazia, sentendolo imprecare a mezza voce
quando
si ritrovò seduto nella neve. «Tu,
piuttosto», sbuffai scontroso, «cosa credevi
di fare lanciandoti in quel modo? Con una lama sguainata, per
giunta».
Acciaio si massaggiò il
sedere e, guardando
altrove, borbottò, «Credevo fossi uno dei soldati
di Briggs», come se quello
potesse giustificarlo, e io non potei fare a meno di sbuffare ancora.
Atterrato
da uno dei miei uomini, perfetto. Già mi sembrava di sentire
nelle orecchie le
risate della Regina delle nevi.
«La prossima volta conta fino
a
dieci, Acciaio», ironizzai, rimettendomi in piedi per
spolverarmi i calzoni.
Feci poi per allungare una mano verso di lui per aiutarlo,
però ci ripensai,
ricordando l’ultima volta in cui ci avevo anche solo provato.
Non era sembrato
molto entusiasta di quella mia galanteria, ma in fondo non
c’era da stupirsi:
Acciaio era pur sempre Acciaio. Difatti si alzò da solo, non
prima
di aver ritrasmutato il proprio auto-mail.
«La prossima volta
mi assicurerò di
beccarti davvero, caro il mio Colonnello di merda»,
replicò scorbutico,
sistemandosi la coda in cui teneva legati i lunghi capelli biondi - che
tra
l’altro, in quegli ultimi due anni, erano cresciuti in modo
spropositato e non aveva mai preso in considerazione il mio consiglio
di tagliarli - prima
di darmi le spalle. «Io continuo da solo, tu
arrangiati».
«In teoria dovremo andare
nella
stessa direzione», gli tenni presente in tono di sufficienza,
ricevendo
un’occhiataccia a dir poco infuocata. Il che era ironico,
specialmente se
tenevamo conto che l’Alchimista di Fuoco ero io.
«Puoi benissimo prendere
un’altra
strada», sembrò ironizzare, cominciando ad
avviarsi senza
aspettarmi. Lo vidi scansare i rami dei cespugli con fare indispettito,
e non
potei fare a meno di alzare lo sguardo al cielo e sospirare
pesantemente. Quel ragazzo era
decisamente
una spina nel fianco, quando ci si metteva: assurdamente testardo e
sempre
propenso a fare di testa propria senza volerne sapere di ascoltare
qualcuno. A
quei miei stessi pensieri, però, sorrisi. Essere attratti da
un bisbetico
fagiolino nevrotico aveva anche i suoi vantaggi, in fin dei conti.
Seguii Acciaio tenendomi a pochi
passi di distanza da lui, lo sguardo fisso su quella coda bionda che
ondeggiava
sulle sue spalle ad ogni minimo movimento; il giaccone che indossava
gli stava
grande ed era piuttosto lungo, tanto da farlo sembrare un bambino
che, per
gioco, si era preso gli abiti del padre dall’armadio e aveva
cominciato a correre per casa.
Ridacchiai fra me e me
per quel paragone, rimediandoci una rapida occhiata indispettita come
se si
fosse accorto che ce l’avevo con lui. Quando si trattava
della sua altezza era
davvero perspicace.
La sua compagnia migliorò
decisamente quella lunga traversata, per quanto non avessimo
aperto
bocca nemmeno per un attimo. Le sole cose che rompevano la quiete erano
i bassi
cinguettii degli uccelli e lo strisciare sulle foglie secche di qualche
serpente ritardatario che tornava alla tana, e la cosa stava diventando
alquanto monotona. Odiavo le esercitazioni invernali anche per quel
motivo.
Perché ci fossi costretto a parteciparvi, poi, per me era un
vero e proprio
mistero. In quanto ufficiale d’alto rango mi sarei dovuto
trovare come gli
scorsi anni ad addestrare le truppe composte dai nuovi soldati, non di
certo
fra la neve in mezzo ai boschi. Eppure, a quanto sembrava, era andata
esattamente
così e ci vedevo lo zampino del General Maggiore. Non ci
eravamo mai sopportati, io e lei.
Sentii degli schiamazzi provenire in
direzione
ovest e, facendo cenno ad Acciaio di fare il minimo rumore possibile,
mi
avvicinai ad un gruppo di alberi sempreverdi che avrebbero potuto
nascondermi,
permettendomi al tempo stesso di guardare oltre. Facendomi largo fra i
cespugli, aguzzai la vista e sbirciai attentamente, notando una piccola
truppa
composta da soli tre uomini seduti a ridosso di un paio
d’abeti; stavano
chiacchierando amabilmente e sorseggiavano quello che aveva tutta
l’aria di
essere del liquore, o almeno così mi parve dato il colorito
dorato che
possedeva. Stavano facendo una pausa, a quanto sembrava.
Portandomi una mano alla cintola,
afferrai la pistola e, dopo lo scatto della sicura, presi la mira con
quanta più
attenzione possibile, socchiudendo di poco un occhio per non sbagliare.
Però
Acciaio mi distrasse, accovacciandosi immediatamente al mio fianco.
«Che
diavolo vuoi fare con quella cazzo di pistola?»
sibilò aspramente. «Hai
intenzione di ammazzarli?»
Imprecai a denti stretti,
sbuffando. «Abbassa la voce e rilassati,
dannazione», rimbeccai in un
sussurro nervoso e annoiato. «Queste sono semplici
scacciacani che utilizziamo
durante questo tipo di esercitazioni, non è mai morto
nessuno e non c’è dunque
bisogno di agitarsi. Parli tu, poi, che volevi usare il tuo auto-mail
come arma impropria?»
Acciaio incassò il colpo con
una sorta di grugnito
disgustato, distogliendo lo sguardo. «Aggiriamoli e basta,
Colonnello
di merda», replicò con il medesimo tono, sebbene
avesse alzato un tantino la
voce. «Oppure andiamo lì e affrontiamoli faccia a
faccia, senza usare metodi
come questo», soggiunse seriamente, e dal modo in cui si
alzò sembrò pronto
a fare anche da solo ciò che aveva appena detto.
Maledizione. Forse sarebbe stato
meglio continuare senza di lui, visto il suo essere così
testardo anche quando si trattava di addestramenti di quel tipo. Chi
era il soldato con più esperienza in campo, tra noi? Io o
lui?
Che mi ascoltasse per una buona volta, accidenti. Borbottando qualcosa
fra me e me,
inserii la sicura della pistola e scoccai una rapida occhiata ad
Acciaio. «Vediamo
di allontanarci senza farci scoprire, allora», gli sbottai
contro in un
sussurro, stando attento a non fare troppo rumore mentre sentivo nelle
orecchie
gli schiamazzi che provenivano da quei tre soldati. Avevano cominciato
a
ridacchiare, ignari del pericolo che avevano rischiato di correre.
Sebbene avesse ricambiato quella
mia occhiata di sfida, Acciaio si allontanò da quel gruppo
di alberi con
attenzione, guidandomi nel bel mezzo della foresta e, nello specifico,
lontano
dai tre uomini che stavano ancora festeggiando in barba al fatto che
erano lì per addestrarsi, non per fare una scampagnata in
mezzo
alle montagne.
Fu una vera fortuna quando, al
calar della sera, Acciaio riuscì a scorgere il piccolo
ingresso di una grotta
nel folto della boscaglia. Avanzando fra arbusti secchi e spezzati
dalle
intemperie,
fra la neve che ci arrivava ormai alle caviglie e i rami più
bassi degli alberi
che ci ostruivano il passaggio e rischiavano pure di cavarci un occhio,
giungemmo infine a destinazione,
ringraziando
un qualunque dio per quell’inaspettata botta di culo.
Mi lasciai cadere seduto sulla
pietra con un lamento, sfilandomi gli stivali per massaggiarmi le dita
dei
piedi. Erano piuttosto freddi e mi facevano un po’ male, ma
fu con sollievo
che, una volta liberatomi anche di un calzino, vidi che non vi era
traccia di
geloni. Meglio così. Perdere le dita era proprio l’ultima
cosa che volevo, in mezzo a quel posto sperduto.
Stavo infilando
nuovamente calzini e scarponi quando mi
resi conto che Acciaio non mi aveva seguito, vedendolo raggiungermi
solo
qualche attimo dopo; reggeva un mucchietto di legna che doveva aver
raccolto nei
dintorni e persino qualche ramo che aveva strappato dagli alberi, viste
le
foglioline ancora verdi su di essi. Sarebbe stato alquanto difficile
bruciarli
per bene, quelli.
Intercettando il mio sguardo,
Acciaio bofonchiò «Alcuni sono umidi e altri
freschi, ma vedi di farteli
bastare», quasi mi avesse letto nel pensiero. Beh, almeno era
da apprezzare il
fatto che li avesse raccolti senza che gli dicessi io di farlo.
Lasciò quel mucchietto al mio
fianco e andò a prendere posto poco distante, osservando
ogni mio movimento
quando, una volta rimessomi in piedi, cominciai a sistemare la legna
per
accendere il fuoco. Recuperai persino qualche pietra, ringraziando il
fatto che
l’Accademia mi avesse istruito abbastanza bene, su quel
fronte.
«Dannazione, quanto ci metti ad
accendere quel fuoco?» sbottò d’un
tratto, passandosi le mani sulle
braccia con fare nervoso. «Mi si sta gelando il
culo».
Gli scoccai appena un’occhiata
e,
mentre accatastavo la legna e sistemavo intorno ad essa delle pietre
per creare
un bivacco, replicai, «Se non ti si è ancora
congelata la lingua, non morirai
di certo assiderato se attendi un altro po’».
Sbuffò e si
poggiò con la schiena contro la parete rocciosa, sfregandosi
le mani guantate
l’una contro l’altra per quanto la cosa fosse
infruttuosa. «Per una volta che
la tua alchimia può rivelarsi utile...»
bofonchiò sarcastico, lasciando la
frase in sospeso. Un modo come un altro per dirmi di darmi una mossa,
supposi.
«Anziché startene
con le mani in
mano, Acciaio», cominciai, allungandomi per afferrare qualche
altro ceppo di
legna da gettare nel centro, «potresti andare a prendere un
po’ di sterpaglia
per far attecchire meglio il fuoco».
«La mia parte di lavoro
l’ho
già
fatta», replicò immediatamente, osservandomi con
fare piuttosto scettico. «Ho
trovato questa caverna e raccattato la legna, no? Il resto spetta a te,
mangia-stipendio a sbafo».
Uno a zero per lui. «La tua
è
stata soltanto fortuna», volli aver ragione, dando
un’ultima sistemata al falò
prima di infilare una mano in tasca alla ricerca di ciò che
mi
sarebbe servito, con la speranza di averli portati davvero e di non
averli lasciati in camerata. Per una volta la sorte fu dalla nostra e
tirai fuori uno dei miei guanti, calibrando la concentrazione
d’ossigeno
nell’aria quel tanto che
bastava per accendere il fuoco; quando schioccai le dita, le fiamme
attecchirono
immediatamente alla legna senza bisogno di un qualunque supporto, e un
piacevole calore cominciò a propagarsi nella grotta,
riscaldandola. Mi lasciai
sfuggire un sospiro di appagamento nel sentire una vampata salirmi al
viso, e,
dopo essermi liberato del guanto ed averlo riposto nuovamente in tasca,
mi
puntellai sui calcagni per farmi più vicino, riscaldandomi
le mani e
crogiolandomi al fuoco.
Con la coda dell’occhio, vidi
Acciaio gattonare svelto verso di me per fare esattamente lo stesso. I
bagliori
delle fiamme e il calore delle stesse gli tinsero immediatamente le
guance,
donandogli un
sano colorito rosato che contrastava non poco con il naso arrossato dal
gelo.
Mi venne da ridere, ma mi trattenni per chissà quale
fortuna, sentendomi pian piano avvolto da
quel
calduccio piacevole e confortante.
Non seppi quanto tempo passammo
accanto al fuoco, scambiando giusto qualche parola e alternandoci nel
compito
di alimentare le fiamme per evitare che si spegnessero. Forse
trascorsero due
ore, forse di più, però ciò che sapevo
con certezza era che il calore aveva
fatto più volte sì che abbassassi le palpebre,
sebbene fossi riuscito a restare
sveglio. Chi si era accucciato lì accanto era stato Acciaio,
e l’avevo lasciato dormire facendo
più
silenzio possibile,
conscio che
aveva bisogno di
riposo. E adesso mi trovavo lì fuori, con i bagliori del
fuoco che coloravano
la notte e la neve che imbiancava i dintorni.
In realtà non ero certo del perché
fossi uscito, se proprio dovevo essere sincero con me stesso. Per
quanto
facesse freddo e il sonno avesse appesantito le mie palpebre, non ero
comunque
riuscito a chiudere occhio, ed uno dei motivi era forse da imputare al
luogo in
cui ci trovavamo. E non mi riferivo a quella grotta, bensì
alle montagne di
Briggs e ai pericoli che celava nel suo ventre. Se contavamo poi il
fatto che, attirati dalla luce, i soldati avrebbero potuto capire la
nostra posizione e attaccarci nel sonno, era meglio stare svegli e
controllare i dintorni il più possibile.
«Che cosa stai facendo qui
fuori?»
mi domandò con voce distratta e assonnata Acciaio, appena
sopraggiunto a sua
volta. Trattenne qualche sonoro sbadiglio, stiracchiandosi amabilmente
come un
grosso gatto.
Abbozzai giusto un sorriso e lo
guardai di sottecchi, tornando ben presto ad osservare la volta celeste
sopra
di me. «Niente»,
risposi semplicemente. «Guardavo soltanto le stelle. Non
credi anche tu che
siano meravigliose, quando non sono offuscate dalle luci della
città?»
Non potei vederlo in viso, ma fui
quasi certo che avesse inarcato un sopracciglio con fare scettico per
il tono
con cui mi rispose qualche istante dopo. «Capisco che tu
voglia
perderti dietro a sfere di plasma che brillano di luce propria a
milioni e milioni di chilometri nell’universo,
ma anche in mezzo alla neve devi essere sempre
pieno di stronzate
romantiche?» ironizzò, lasciandosi sfuggire
uno sbuffo prima di sedersi
accanto a me. «Con l’età che hai
dovresti stare accanto al fuoco, stupido
Colonnello di merda. Il freddo ti gela il cervello», disse, e
stavolta gli
scoccai una vera e propria occhiataccia.
«E i bambini dovrebbero essere
a
letto, caro il mio Acciaio», rimbeccai, già pronto
alla sfuriata che si sarebbe
lasciato sfuggire e che, come previsto, non tardò ad
arrivare. Puntuale come al
solito, cavolo.
«Chi sarebbe così
piccolo da non
essere visibile neanche con una lente di ingrandimento, eh?!»
sbottò nervoso ed
agitato, al che io non potei davvero fare a meno di ridere di gusto.
Stuzzicarlo per sentire quelle sue risposte campate per aria era una
passione
perversa e bizzarra, lo sapevo, ma era un ottimo passatempo per rompere
la
monotonia, il più delle volte.
Gli diedi una pacca su una spalla
e gli passai un braccio dietro alla schiena, provando a calmarlo
nonostante mi
lasciassi sfuggire qualche risatina di tanto in tanto. «Per
quanto mi diverta
sentirti blaterare, Acciaio, preferirei evitare che la tua soave voce
provochi una valanga», lo presi in giro, e lui non si
risparmiò dall’appiopparmi una gomitata al fianco
con il
braccio d’acciaio,
strappandomi un goffo lamento.
«Sta’ un
po’ zitto, Colonnello
di
merda», borbottò, scansandomi senza tanti
complimenti prima di sollevare lo
sguardo verso il cielo, cominciando così ad osservarlo con
blanda attenzione.
Nonostante tutto, mi scappò
un
altro sbuffo ilare; decisi di tornare a mia volta a guardare la volta
celeste
puntellata di stelle, godendo di quella quiete che attorniava la
montagna.
Grazie ai bagliori delle fiamme che provenivano dall’interno
della grotta
dietro di noi, la neve che ci circondava aveva assunto una vaga
sfumatura
arancio-dorata, illuminandola come se si fosse trattato di un piccolo
sole.
Appariva persino calda, per quanto fosse ovvio che al tatto avrebbe
solo
arrossato dal freddo le mani di chi, stoltamente, avrebbe tentato di
toccarla
senza guanti. Tutto sommato, però, era uno spettacolo da
mozzare
il fiato: se si alzava anche solo di poco lo sguardo, si riuscivano a
scorgere i profili lontani delle cime innevate e le punte dei pini che
si confondevano fra le ombre se non si scorgeva con attenzione, e di
tanto in tanto il volo di qualche rapace e il suo stridulo canto
notturno.
«Era una notte come
questa»,
disse d’un tratto Acciaio, richiamando la mia attenzione ed
interrompendo al
contempo i miei pensieri più disparati.
Voltandomi verso di lui, chiesi,
«Cosa
intendi dire?»
Sorrise amaramente, un sorriso che
mi sembrava di non avergli mai visto. «La mamma»,
rispose in un basso sussurro
appena percettibile. «É morta in una notte come
questa».
Dire che ero rimasto spiazzato
sarebbe stato un vero e proprio eufemismo. Di solito non era il tipo da
parlare
di quel determinato argomento del suo passato, né tantomeno
gradiva quando era
qualcun altro a chiedergli che cosa fosse successo con esattezza. Se lo
teneva
per sé e basta, racchiudendo nel suo cuore tutti i demoni
che aveva affrontato
durante la sua infanzia e il peso della colpa con cui aveva sempre
convissuto in seguito. Per quanto sapessi che, almeno in parte, fossi
riuscito a lenire il dolore che si portava dietro da allora, ero
conscio del
fatto che non fosse ancora abbastanza. Più volte, da quando
quella nostra
relazione era cominciata, ci eravamo ritrovati a colmare
l’uno il vuoto che
provava l’altro, ma erano ancora troppe le cose che
preferivamo tenere nascoste
per non ferirci a vicenda. Su quel punto di vista eravamo uguali,
proprio come una volta ci aveva detto suo fratello Alphonse. Due
idioti
grandi e grossi che il più delle volte anteponevano gli
altri a
se stessi e il
proprio passato al
presente. Ishvar, la trasmutazione di sua madre... crimini
diversi
che
avevano
l’egual peso, per noi. E forse era proprio per quel motivo
che tentavamo in
tutti i modi di cancellare quelle ombre del nostro passato, chi poteva
dirlo.
«Era tutto così... dannatamente
tranquillo, quella sera»,
continuò, senza che io dicessi niente né tanto
meno aspettandosi che lo
facessi. «Non un richiamo d’un qualche animale, non
un grillo che friniva... niente.
Assolutamente niente di niente.
Persino i sussurri delle persone che erano venuti a trovarci sembravano
inesistenti, quasi non ci fosse proprio nessuno giù in
salotto».
Trasse un lungo
sospiro e affondò le mani nella neve, lo sguardo ancora
fisso verso il cielo
buio. «Io e Al eravamo di sopra con zia Pinako e la mamma,
sai», soggiunse,
quasi si sentisse in dovere di farlo. «L’ultima
cosa che mi ha chiesto è stata
di farle una composizione con l’alchimia...
una composizione floreale come quelle che quel
vecchio
bastardo creava per lei. E, dannazione, per tutto il tempo ha
continuato a
sorridere».
L’amarezza con cui
pronunciò
quelle ultime parole fu disarmante e a dir poco straziante. Sembrava
che quel passato che
aveva
tanto cercato di tenere nascosto stesse cominciando a pesare nel suo
animo e a
premere contro le pareti del suo cuore, spingendo e sussultando per
tentare di
uscire anche senza il suo consenso. Aveva però deciso di
affrontarlo con
solenne distacco, o almeno all’apparenza. Era fin troppo
palese il fatto che
quella decisione lo facesse ancora soffrire.
«Acciaio», provai
infine a
chiamarlo, umettandomi le labbra, ma mi interruppi pochissimi istanti
dopo. Che
cosa avrei potuto dirgli, d’altronde? Che ormai era acqua
passata e che non
avrebbe più dovuto pensarci? Che tutto ciò che
era successo nel corso di quegli
anni l’aveva ampiamente pagato con un prezzo altrettanto
alto? Se avessi anche
solo provato a farlo, sarei stato soltanto un ipocrita. Io stesso non
riuscivo
a dimenticare tutti gli orrori che avevo veduto e provocato con le mie
mani ad
Ishvar, ed era anche per quel motivo che tentavo in tutti i modi di
raggiungere il mio obiettivo per far sì che non si
ripetessero
più stragi di quella portata.
Acciaio agitò distrattamente
l’auto-mail e abbozzò un altro mezzo sorriso,
quasi volesse
alleggerire la tensione; nonostante tentasse, però, si
vedeva lontano un miglio che quel
sorriso, in
realtà, non significava assolutamente niente. Era lo stesso
principio
dell’indossare una maschera. La gente vedeva ciò
che c’era in superficie, non
ciò che avevi deciso di nascondere. «Lascia
stare», disse poi, lanciandomi
appena una rapida occhiata. «Non è esattamente il
genere di discorsi che si
dovrebbero fare in luoghi tranquilli come questo».
«Invece credo sia proprio il
luogo
adatto, Acciaio», replicai di getto, forse senza neanche
pensarci davvero. «Ci
siamo soltanto noi due e la montagna, nessun altro. Ma se non vuoi
parlarne,
beh, io ti capisco. Anche per me ci sono cose che non riesco a
raccontare, non ancora. Vorrei solo che tu sappia che, qualunque cosa
accada, io ti
sarò sempre vicino».
Mi aveva guardato per tutto il
tempo con quei suoi occhi dorati, persino un po’ ingigantiti
dalla confusione
iniziale; però poi, scuotendo la testa, sollevò
un angolo
della bocca e si scompigliò i capelli con una mano.
«Tu e
queste tue stronzate romantiche,
dannazione», rimbeccò,
picchiettandosi i palmi sulle cosce prima di alzarsi in piedi.
«Non fare
promesse che non sei sicuro di mantenere, Colonnello di merda. Il
futuro è
incerto, no? Fosti tu stesso a dirmelo».
Come dimenticarle quelle
parole? Le avevo pronunciate il giorno stesso in cui, dopo aver fatto
sesso -
sesso... che brutta parola, era stato ben più di quello -
per la prima volta,
mi aveva chiesto che cosa ne sarebbe stato di noi se ci saremmo
stancati l’uno
dell’altro. Beh, da allora era passato ancora parecchio
tempo, e a quanto
sembrava quella nostra relazione andava ancora avanti, anche se con i
suoi alti
e i suoi bassi comuni in ogni coppia. Così mi limitai
semplicemente a dar vita
ad una scrollata di spalle, di quelle che potevano significare tutto o
niente. «Touché,
Acciaio. Questa volta hai vinto su tutti i fronti»,
ironizzai, sentendo subito
dopo un suo sbuffo ilare.
«Alzati e torna dentro,
muoviti»,
borbottò in tono vagamente divertito, appioppandomi una
pacca su una spalla con
la mano d’acciaio. «Mettiamo da parte questi
discorsi tristi, te lo do io
qualcosa su cui riflettere prima di rimetterci in marcia».
In un primo momento mi accigliai,
non comprendendo immediatamente di che cosa stesse parlando tutto
d’un tratto.
Quando la mia mente assonnata riuscì a mettere insieme le
informazioni
frammentate che Acciaio mi aveva lanciato, però, ghignai,
scuotendo il capo.
«Chiedo il
permesso di considerarla una proposta indecente, signore»,
borbottai in tono sarcastico, vedendolo
arcuare un sopracciglio.
«Permesso negato, Colonnello
dei
miei stivali», replicò ilare. «E adesso
porta dentro il culo».
Beh, ci avevo quasi sperato.
Scrollai dunque le spalle e mi limitai semplicemente a
seguirlo
quando lui cominciò ad avviarsi dentro alla grotta,
sbadigliando sonoramente e
grattandosi dietro al collo come se nulla fosse, quasi non avesse
minimamente
esternato i suoi sentimenti e i suoi pensieri fino a pochi attimi
prima.
Era un suo modo come un altro per
dire che ciò che avremmo dovuto fare sarebbe stato solo
attendere che la notte
scemasse, portandosi via ogni vana parola.
«A
proposito di
promesse... mi devi ancora quei 520 cenz, Acciaio».
«Tu
pensa a
diventare Comandante Supremo e te li ridarò con gli interessi,
Colonnello di merda».
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata scritta per il contest
“Pair520:
Celebrate Roy/Ed Day!”
indetto da Setsuka, e si è classificata settima
vincendo il Premio
Ambientazione/Descrizioni.
Mi preme inoltre dire che, al di là del contest e della
posizione, questa storia è stata scritta specialmente per
celebrare il Roy/Ed Mariage che l'anno scorso, in questo stesso giorno,
si è tenuto in Giappone.
Voglio dunque festeggiare con voi con questa piccola storia, sperando
che, in qualche modo, la apprezziate semplicemente per quella che
è: un omaggio ad una coppia che tutte noi, vecchie e nuove
frequentatrici del fandom, abbiamo imparato ad amare.
Mi piacerebbe anche segnalarvi dei piccoli sketch che feci l'anno
scorso proprio per questo evento - e che alcune persone già
conoscono -, quindi eccoli qui di seguito nell'ordine corretto:
Se
tutto va bene, vorrei persino
provare a far diventare questa
storia un romanzo a tutti gli effetti, e mi piacerebbe
davvero sapere che impressione vi da il primo capitolo postato.
Non
spenderò altre parole, giacché tutto
ciò
che volevo dire l'ho detto in questa storia, attraverso le parole di Ed
e Roy. Spero soltanto che, per quanto pecchi moltissimo di
originalità, vi sia piaciuta in qualche modo.
Alla
prossima.
♥
_Undisclosed Desires
Voglio
riconciliare la
violenza che c’è nel tuo cuore,
voglio riconoscere che la tua bellezza non è solo una
maschera.
Voglio esorcizzare i demoni del tuo passato,
voglio soddisfare i desideri nascosti nel tuo cuore.
WINTER MAZE 520: AN OLD PROMISE
SETTIMA CLASSIFICATA CON PREMIO AMBIENTAZIONE/DESCRIZIONI
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