And... can you dream?

di moonwhisper
(/viewuser.php?uid=36486)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Esorcismi ed emicrania ***
Capitolo 2: *** Confessioni ***
Capitolo 3: *** Partenza ***
Capitolo 4: *** Alex & Michael ***
Capitolo 5: *** Macabri ritrovamenti ***
Capitolo 6: *** The Devil! ***
Capitolo 7: *** Una strana famiglia e un paio di boxer ***
Capitolo 8: *** Tempi duri per Tom Kaulitz ***
Capitolo 9: *** Pigiami e sventure ***
Capitolo 10: *** Tangenziale, tir, cucchiaino ***
Capitolo 11: *** Heidi e Una serie di sfortunati eventi ***
Capitolo 12: *** Piatti da lavare e telefonate ***
Capitolo 13: *** Marijuana e cadaveri ***
Capitolo 14: *** Dramma ***
Capitolo 15: *** Marion dagli occhi vuoti ***
Capitolo 16: *** Wasabi e scintille ***
Capitolo 17: *** E tu puoi sognare? ***
Capitolo 18: *** Collisione ***
Capitolo 19: *** A volte ritornano ***
Capitolo 20: *** Scambio d'opinioni ***
Capitolo 21: *** Conto alla rovescia ***
Capitolo 22: *** Incontri ***
Capitolo 23: *** Bentornato, Bill Kaulitz ***
Capitolo 24: *** Verrai con me? ***
Capitolo 25: *** Verità ***
Capitolo 26: *** Fine ***



Capitolo 1
*** Esorcismi ed emicrania ***


Dunque, dopo aver spremuto per bene i miei neuroni residui (dopo Alone Together e Sunburn non è che fosse rimasto molto ahimé - ma in realtà non è che ci fosse molto precedentemente - ) ho fatto nascere questa "vicenda". Ah vabè, non fatevi convincere dalla storia dei neuroni spremuti, perché in realtà questa Fan Fiction è solo una delle ennesime prove di quanta poca voglia di studiare io abbia.

Frasi di rito:

1 - Con questo mio scritto non voglio rappresentare la realtà ma unicamente dare libero sfogo alla mia fantasia. Indi per cui... non fatevi troppe seghe mentali. - Come odio questa parte -

2 - I commenti e le critiche sono il pane quotidiano di ogni scrittore in erba, ergo mi farà piacere riceverne se crederete che questa FF ne sia degna.

Fine! Basta ciance e andiamo al sodo.

Vi lascio alla lettura del primo capitolo.

Baci

=Phan=

30 Ottobre 2007 – Milano – Italy

Bill strinse la testa tra le mani.

In quel modo rischiava di vaporizzare nel nulla le ore che la sua nervosissima hair stylist aveva impiegato per rendere i suoi capelli immuni alla vigente legge di gravità, ma, decisamente, non gli interessava.

La testa gli faceva tanto male che gli sembrava di impazzire. Era come se circa un miliardo di chiodi gli stessero trafiggendo la metà destra del cranio. Gli ultimi dieci minuti li aveva passati ad accarezzare l’idea di sbattere ripetutamente la testa contro la parete del camerino… ma era sconsigliabile. Nessuna delle dodicimila ragazze che urlavano sotto il palco la fuori sarebbe stata contenta di vederlo salire in scena grondante sangue.

Appoggiò la testa alle ginocchia. Chi era stato quel deficiente ad aver detto che l’aspirina gli avrebbe risolto il problema in un’oretta? Doveva ricordarsi il suo nome… era la prima persona da prendere a schiaffi dopo essersi ripreso. Se si fosse ripreso…

I tocchi di chi attendeva fuori si trasformarono in barriti d’elefante durante il tragitto dalla porta a lui, rannicchiato contro l’angolo della piccola stanzetta buia.

Dovevano aver bussato.

- Signor Kaulitz? Signor Kaulitz lo show inizierà tra cinque minuti. Deve uscire dal suo camerino immediatamente -

Ecco la seconda persona da malmenare. Chissà perché aveva il presentimento che la lista si sarebbe allungata.

Rispondere era fuori discussione, ogni volta che apriva la bocca aveva la sgradevole sensazione di dover sparpagliare a terra qualsiasi cosa si trovasse all’interno del suo corpo.

Ovviamente l’assistente la fuori non capì. Non era pagata per capire, era pagata per esasperarlo fino alla follia. E la follia era vicina.

Bussò ancora, altri barriti d’elefante. Ormai il rumore dentro la sua testa era così forte che nel camerino avrebbero dovuto esserci almeno una quindicina di pachidermi zannuti.

- Signor Kaulitz? Il Signor David la manda a chiamare. Mancano tre minuti allo show! -

- Vaffanculo - esalò Bill circondando le ginocchia con le braccia. Naturalmente la donna non lo sentì.

- SIGNOR KAULITZ! SIGNOR KAULITZ! DEVE USCIRE IMMEDIATAMENTE! SIGNOR… -

- Eh ma ti vuoi togliere dai coglioni? Stai urlando da mezz’ora. Se non apre qualche problema ci sarà no? Vai a sfogarti altrove in preda alle tue crisi pre ciclo mestruale -

Nonostante la sua testa sembrasse essersi trasformata in un cocomero spaccato a metà, Bill non riuscì a non sorridere. Ascoltare i termini alati con cui suo fratello apostrofava le assistenti era sempre divertente. Tom era esattamente ciò che lui si sforzava di non essere. Non sapeva se per l’onnipresente desiderio di distinguersi uno dall’altro che entrambi condividevano, o semplicemente per buona educazione.

- Bill? Mi apriresti gentilmente? -

“Gentilmente” non era una parola solitamente concepita nel vocabolario di Tom. Se l’aveva usata voleva dire che era preoccupato. E se l’aveva usata rivolgendosi a lui voleva dire che era preoccupato per lui.

Mugolò un “aspetta” a voce più alta che poté.

Poi si trascinò verso la porta e allungò il braccio di quel tanto che gli avrebbe permesso di far scattare la serratura. Alzarsi in piedi era fuori discussione.

Rotolò di nuovo contro l’angolo freddo. Aveva perso definitivamente il senso dell’orientamento.

Sentì Tom entrare nella stanza e annaspare nell’oscurità.

- Bill ma che cazzo… - disse confuso. Si mosse da qualche parte indecifrata alla sua sinistra.

Poi Bill sentì il rumore di qualcosa che rovinava a terra, seguito da un tonfo e da un’imprecazione colorita.

Quando la luce si accese Bill strizzò gli occhi con un gemito di dolore.

- Spegni quella dannata luce Tom - sibilò minaccioso.

- Oh, scusami! - rispose Tom ansioso. La luce si spense e la stanza ripiombò nel buio.

Tom si avvicinò a lui, strisciando con cautela i piedi per terra. Fu evidente che non stava usando abbastanza cautela quando urtò di nuovo il qualcosa di prima.

- Ah ma vaffanculo allora -

Tom si accasciò accanto a lui.

-Bill… non voglio assolutamente metterti sotto pressione… ma dodicimila ragazze in delirio stanno urlando il tuo nome, e si aspettano che tu compaia saltellando sorridente come Bambi, ovviamente prima che sua madre venisse uccisa a bastonate, su quel palco entro un minuto. David ha dovuto ingoiare due pastiglie di Valium e Saki sta urlando ordini senza senso apparente a tutta la security. Ah dimenticavo, Georg e Gustav si stanno chiedendo perché mai il loro frontman non sia con loro ad aspettare di cominciare il concerto -

Bill ingoiò. Non aveva le forze necessarie per dare un pugno a Tom in quel momento.

- Ah, grazie Tom, avevo proprio bisogno di queste rassicurazioni - rantolò.

- Dannazione… scusami, hai ragione. Bill… -

La voce di suo fratello si fece seria.

-… pensi seriamente di non salire su quel palco? Perché se è così devo avvisare David, subito -

Bill aprì gli occhi nel buio. Il martello pneumatico continuava a perforargli la testa e la nausea gli arrotolava le budella. Pensò a tutte quelle ragazze che avevano fatto ore e ore di coda, che si erano svegliate alle due, o alle quattro di notte, solo per ottenere le prima fila, che avevano attraversato il Paese…solo per loro. Solo per vederli su quel palco, ancora troppo lontani per essere toccati.

- Ok… vado ad avvisare David… - accanto a lui Tom fece per alzarsi, ma Bill lo fermò all’ultimo, serrandogli una mano attorno al polso.

- No, aspetta… aiutami ad alzarmi… piano – disse. Tom obbedì.

Quando fu completamente in piedi davanti agli occhi gli esplosero le stelle.

- Sei sicuro? Bill? Mi senti? –

- Si, si. Smettila Tom, per favore. Portami fuori e prendi il mio giubbotto dallo sgabello –

- Ah, ecco cosa avevo buttato per terra! Solo tu potevi mettere un cazzo di sgabello in mezzo alla stanza –

Bill non rispose per decenza verso se stesso. Tom lo portò fuori dal camerino sostenendolo.

Il rumore delle urla la fuori era più forte. Molto più forte.

Suo fratello tornò subito indietro con il suo giubbotto di pelle nera stretto in mano.

- Ecco – lo aiutò ad indossarlo mentre lui cercava di riprendersi abbastanza da poter salire sul palco.

- Detto tra noi, sono contento che tu abbia deciso di esibirti lo stesso, anche perché David ha già avuto due crisi isteriche negli ultimi quaranta minuti. Credo abbia licenziato buona metà della crew… -

Bill sorrise appena.

-… Però Bill… - Tom lo prese per le spalle e lo guardò, costringendolo a sollevare gli occhi – la prossima volta non ti permetterò più di salire sul palco. Non in queste condizioni… devi fare qualcosa –

- Non posso farci niente Tom… credi che a me faccia piacere stare così? Non dormire praticamente mai? Essere costretto a salire sul palco ogni sera? Non ce la faccio più… ma è questa la nostra vita no? – Bill dondolò la testa fino a poggiarla al muro. Suo fratello rimase in silenzio per qualche istante.

- Hai ragione Bill… - sospirò – non so davvero cos’altro dirti… -

- Non dire nulla. Su, muovi il culo e accompagnami. Dobbiamo farlo o no questo concerto? – disse il moro raddrizzandosi.

Tom sorrise.

- A tua disposizione! E cerca di vedere cosa puoi fare per la tua voce in questi dieci metri… Dio, sembri il trans che abbiamo incontrato nell’Hotel di Copenhagen –

Bill rise di gusto.

Tom lo accompagnò al suo posto e poi si diresse verso la sua uscita per il palco.

Bill rimase da solo a cercare di arginare il dolore che pulsava nel suo emisfero destro, in ondate regolari. Chiuse gli occhi per un istante, e quando li riaprì davanti a lui c’era un uomo, il sorriso dai denti bianchissimi che esibiva aveva un che di maniacale e gli occhi verdi erano sbarrati, iniettati di sangue.

“Ciao David! Vuoi che chiamo il prete per l’esorcismo?” forse sarebbe stata la frase più adatta. Ma ricordò le parole di Tom e cercò un approccio meno traumatico.

-… Ciao David – disse lentamente. Non era difficile comprendere che il produttore non sembrava aver intenzione di proferire parola.

David continuò a sorridere. Era decisamente inquietante.

- Oh! Ciao Bill! Ti senti meglio? – finalmente l’uomo parve decidersi. Il solo problema era che la sua voce sembrava essersi fermata due ottave sopra il tono degli esseri umani.

- No… - rispose sinceramente il ragazzo. Ma David non sembrò aver sentito. Continuando a sorridere annuì.

- Benissimo, benissimo – farfugliò prima di allontanarsi.

Bill lo seguì con lo sguardo. Dopotutto c’era chi stava peggio di lui.

Il tecnico del suono gli diede l’ok con un gesto, dal fondo del palco.

Bill sospirò e nascose completamente il dolore con un sorriso a ottantatre denti.

Salì i quattro scalini di metallo ascoltando il rumore che facevano i suoi stivali battendoci contro. Nella sua testa qualcuno si stava divertendo a suonare diversi gong contemporaneamente.

- Ciao Milano! –

Dodicimila voci risposero.

Delirio.

Curioso, pensò Bill, che quella scena gli ricordasse terribilmente il momento della morte del cigno, nel Lago dei Cigni di Tchaikovsky.

Fu quella la melodia che gli risuonò nella mente mentre cominciava a cantare tutt’altro genere di note.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Confessioni ***


*14 mesi dopo*

 

- David, io non credo che sia il momento più adatto per parlargli… -

- PASSAMELO HO DETTO! –

Tom sobbalzò. Entrambi i responsabili della sua levataccia avevano urlato. Uno dal microfono del suo cellulare, l’altro dal letto della camera dove si trovava.

Tom guardò Bill che con cipiglio furioso tendeva il palmo aperto della mano verso di lui.

- Andate un po’ a fanculo tutti e due – disse rivolgendosi al fratello, con una mano posta sul microfono del cellulare - si, te lo passo subito David – disse poi con voce gentile, prima di mettere il cellulare in mano a Bill con tanta violenza da farlo sbilanciare.

- Pronto? – disse Bill con voce stizzita.

Tom lo osservò seduto sul bordo del letto, gli occhi ancora gonfi di sonno.

Era l’una che cazzo! Quale persona sana di mente si svegliava all’una durante le vacanze di Natale per parlare con Bill?

Il chitarrista si grattò la testa. Beh, David in effetti non era sano di mente.

Dal piano di sotto salì un piacevole odorino speziato. Sua madre stava preparando il pranzo.

- No, forse sei tu a non aver capito. Io non ho NESSUNA, ripeto NESSUNA intenzione di rovinarmi un altro anno di vita. Dimenticati i concerti un giorno dopo l’altro, dimenticati sessioni improbabili d’interviste. Io così non arrivo ai vent’anni –

Tom sorrise tra se e se. Bill indossava una fascia per capelli lilla, e agitava le mani davanti al viso, le labbra assottigliate di quando si arrabbiava. Sembrava una suocera.

Doveva smetterla di nascondergli gli accessori per i capelli, il lilla della fascia di sua madre non gli donava.

- Non me ne frega niente dell’organizzazione e dei costi! E’ compito tuo! – urlò il fratello. Le guance gli si colorarono di rosso.

- Ho detto che non mi interessa. O così, o quel contratto te lo puoi ficcare nel c… -

Tom atterrò con un salto sullo stomaco di Bill, afferrando il cellulare e togliendoglielo di mano.

- Nel comodino! Esattamente! Il giusto posto per un contratto. Ora scusami David ma dobbiamo lasciarti, nostra madre ci sta minacciando con una motosega. Prima che tagli qualche ciocca a Bill è meglio che intervenga. Ciao! –

Con un urlo belluino Bill, che aveva lottato con lui per i restanti secondi della chiamata, lo lanciò giù dal letto.

Tom fece appena in tempo a vedere la faccia ovale di suo fratello circondata dalla fascia lilla, e poi Bill gli fu sopra, cercando di sottrargli il cellulare dalla mano.

Tom se lo scrollò di dosso con difficoltà e si guardò intorno. Poi si accese la lampadina.

Con un lancio preciso spedì il suo cellulare verso la finestra.

Fu quando sentì un rumore di vetri infranti e vide il guscio metallizzato scomparire oltre il davanzale seguito da mille schegge danzanti, che si rese conto di non essersi accorto che la finestra era chiusa.

Entrambi i fratelli saltarono in piedi, guardando con espressione atterrita il vetro frantumato.

- Bill! Tom! – un urlo agghiacciante li raggiunse, sollevandosi dal piano inferiore.

- Oh cazzo – mormorò Tom.

Tutti e due si lanciarono fuori dalla stanza.

 

 

Bill lanciò per la ventesima volta la pallina di gomma azzurra in alto, e la riafferrò.

Guardava nel vuoto con aria assente, appoggiato allo schienale del letto.

Mancavano appena due giorni a Capodanno, e quindi alla fine delle vacanze natalizie. Il che voleva dire che di li a quattro giorni avrebbe dovuto ricominciare a dormire nel tourbus, con l’odore sgradevole dei piedi di Georg che lo raggiungeva nel suo abitacolo.

Ma non era quello il problema… il problema era ben più grave delle dubbie abitudini igieniche del bassista.

La pallina di gomma cadde a terra, dopo un lancio sbagliato.

Era stanco. Infinitamente stanco ancora prima di partire.

Per la prima volta non voleva più tornare su nessun palco.

Ripensò alle urla di David dell’ultimo anno, a tutte le volte che si era sentito male e non importava a nessuno, ad eccezione di suo fratello e dei suoi due amici. Alle feste, a tutti gli Hotel che aveva visto. Alle stesse facce ipocrite che gli stavano sempre intorno. Nemmeno pensare a tutti i fan sparsi per il mondo che aspettavano per mesi un loro concerto lo aiutava a ritrovare una motivazione, uno stimolo, una ragione in più per dover passare un altro anno da incubo… e poi un altro, e un altro ancora, finché il nome “Tokio Hotel” non fosse scomparso e i loro volti dimenticati, sostituiti…

Era disgustato. Aveva la nausea di tutto ciò che lo circondava. Di tutto ciò che lo opprimeva in modo insopportabile, costringendolo a fare ciò che non voleva: mentire. Ormai la sua quotidianità ruotava attorno alla menzogna. Falsi sorrisi, false risposte, falso entusiasmo.

Il suo entusiasmo si era volatilizzato, seppellito da ingranaggi su ingranaggi, regole, raccomandazioni, imposizioni… bugie… solitudine.

Si stava perdendo… stava perdendo se stesso in quel mare di studiata confusione.

Chiuse gli occhi.

Indipendentemente da ciò che avrebbero detto Tom, o Georg, o Gustav, o David, o Saki… lui non voleva riprendere… non voleva…

Voleva riposarsi, riposarsi davvero…

Sarebbe bastato un mese, o due… solo di quello sentiva il bisogno.

E l’idea che aveva cominciato a prendere forma nella sua testa all’inizio di quelle agognate, ma non sufficienti, vacanze, riaffiorò.

Era un’idea assurda, pericolosa, irresponsabile, che avrebbe mandato tutti nel panico… ma in quel momento, con la mente piena di ansie e nevrosi, gli sembrava l’ultima soluzione possibile.

Forse era impazzito…

No, non ancora, per quello era il momento giusto per staccare. L’ultima occasione.

L’ultima occasione…

 

 

- Che c’è? Non mangi? –

Bill giocherellò ancora un po’ con i pezzettini di carne tagliati nel suo piatto prima di abbandonare la forchetta sul bordo di porcellana bianca.

- Non ho fame – guardò Tom. Dall’angolo della bocca del fratello pendeva la metà di una patatina fritta, che scomparve in pochi istanti.

- A cosa stai pensando? – chiese.

Bill alzò gli occhi al cielo.

L’ultima domanda che avrebbe dovuto fargli.

Decise semplicemente di non rispondere, anche se non poteva negare che in ogni caso suo fratello avrebbe ottenuto la spiegazione che voleva.

- Bill? Quale pensiero malefico e nefasto sta producendo la tua testolina? –.

Infatti.

Tom partì alla carica, il sorriso sghembo di quando lo coglieva in flagrante a pensare “cose nocive”. Bill lo guardò di nuovo, cercando di tenere in piedi ancora un po’ il falso alibi del “non penso a niente”.

- Scusa cosa ti fa pensare che io stia producendo pensieri malefici e nefasti? – chiese con studiata innocenza. Tom si asciugò la bocca con il tovagliolo e sorrise.

- Perché hai sempre quella faccia quando pensi a qualcosa che molto probabilmente metterà nei casini tutti e due. Soprattutto me. Fai quella faccia da quando ti conosco… cioè… più o meno… tutta la vita – rispose. Esibì un sorriso strafottente all’espressione arresa di Bill.

- Su, dai, spiegami tutto – disse appoggiandosi pesantemente allo schienale.

Bill deglutì. Sicuramente Tom avrebbe dato di matto, ma prima o poi doveva parlargliene.

- Parto… - disse soltanto.

Si pentì.

Era il modo peggiore per dirlo.

Nella sua mente aveva formato un lungo discorso dai toni pacati e tranquillizzanti, che avrebbe fatto capire a Tom ciò che aveva intenzione di fare senza il rischio di traumi (fisici, e per lui).

Perché invece della pappardella preparata gli era uscita dalla bocca solo la scarna e scioccante verità?

Suo fratello inizialmente non si scompose più di tanto. Bill lo conosceva come se stesso. Sapeva che aveva preso la sua affermazione come uno dei suoi ennesimi momenti di debolezza, in cui dichiarava di voler farla finita con tutto. Ma non era così. Quel momento durava da un anno, ed era arrivato ad un punto in cui doveva parlarne seriamente con Tom.

- Bill, tra poco ti sentirai meglio. E’ solo il pensiero di dover tornare a lavorare, manda fuori di testa anche me negli ultimi giorni di vacanza. Lo sai che è sempre così – Tom fece uno dei suoi sorrisi rassicuranti ed ingoiò un sorso d’acqua.

Bill non rispose al sorriso. Rimase immobile.

- No Tom, non è la stessa cosa stavolta – disse. Incrociò lo sguardo di suo fratello. Vide il sorriso scomparire dalle sue labbra e gli occhi farsi freddi. Tremò appena, come per scacciare una sensazione fastidiosa.

- E dove andresti esattamente? – domandò con tono beffardo, ma Bill sapeva che quello era il suo modo per esorcizzare la paura.

- New York… -

Il sorriso di Tom questa volta fu sarcastico. Stava cominciando ad innervosirsi.

- New York… - ripeté – ottima scelta… e quando partiresti esattamente? –

Bill attese un minuto prima di rispondere, mentre suo fratello gli lanciava sguardi dardeggianti dall’altra parte del tavolo.

- Il primo di gennaio – disse.

Per un attimo gli occhi di Tom si dilatarono. Forse per lo shock, o per la paura che suo fratello facesse sul serio. Probabilmente era la seconda.

Bill pensò di non dirgli nulla del biglietto nascosto nella tasca dei suoi jeans preferiti, piegati al sicuro dentro l’armadio. L’aveva comprato due giorni prima nell’agenzia viaggi della città, personalmente. Fortuna che nevicava… non aveva dovuto spiegare perché mai una sciarpa gli circondasse tutta la faccia, comprese le punte delle orecchie.

- Stai scherzando – Tom fece cadere le schermaglie. A Bill dispiacque tanto che per un attimo pensò di mandare all’aria tutto.

No, non stavolta Bill. Stavolta andrai fino in fondo.

- No Tom – rispose abbassando gli occhi sulla bistecca smembrata nel suo piatto – dico sul serio –

Tom aprì e chiuse la bocca un paio di volte.

Poi si infuriò.

- Tu… sei… pazzo – disse puntandogli contro l’indice destro.

- No Tom, non sono pazzo, sono stanco – disse Bill. Doveva riuscire a rispondere con calma. Non era il caso di far scoppiare un litigio. Anche se suo fratello non aveva l’aria di voler collaborare.

Tom si alzò in piedi.

- Non me ne frega un cazzo Bill. Non mi interessa. Non puoi prendere e mollarci così. Non esiste – la voce gli tremava dalla collera.

Anche Bill si alzò.

- Tom, non voglio litigare. Ne riparliamo più tardi. Ti chiedo solo di non riferire niente a nessuno per il momento – si incamminò verso le scale e fece i primi gradini senza guardare suo fratello, che sembrava voler rimanere impietrito. Sperò che non lo seguisse. Non accadde.

Tom lo raggiunse con rapide falcate al piano superiore. Lo prese per una spalla e lo voltò di scatto.

- Mi chiedi di non riferire niente a nessuno?! Dovrei lasciare Georg, Gustav e David allo scuro della tua ennesima stronzata?! – sbraitò il ragazzo. Quando la risposta da parte del fratello non arrivò scosse la testa.

- No. No Bill. Mi sono stancato di doverti star dietro. Andate a fanculo tu e tutti i tuoi capricci da primadonna. Ma pensi prima di dire le cose? Pensi a chi chiederanno i soldi per coprire vendite che non ci saranno? Per annullare le date dei concerti mentre tu sarai dall’altra parte del mondo a non fare un cazzo? Ci pensi? O pensi solo a te e alle tue cazzate come al solito? – Tom si interruppe per riprendere fiato. Bill sentì un colpo da qualche parte in fondo allo stomaco. – Non ci pensi eh? Pensi sempre e solo a te stesso… sei proprio uno stronzo egoista –

Suo fratello lo superò e dopo pochi istanti Bill sentì una porta sbattere alle sue spalle.

Non trovò il coraggio necessario per voltarsi per diversi minuti.

Quando si decise a muoversi entrò nella sua stanza e chiuse la porta dietro di se. Scivolò lungo la superficie di legno, ammaccata e graffiata da anni ed anni di lotte tra fratelli finite male e oggetti lanciati.

Stai davvero facendo la cosa giusta?

…Si… O vado via, o impazzisco.

Ma non era più tanto sicuro di se mentre circondava le ginocchia con le braccia, guardando il buio dietro le palpebre chiuse.

 

 

Dormiva da diverse ore quando sentì qualcuno bussare alla sua porta. Anche da appena svegliato poteva indovinare chi ci fosse li dietro.

Guardò fuori dalla finestra.       

Era buio.

Doveva essersi addormentato parecchie ore prima.

Si alzò piano, con le ginocchia che scricchiolavano.

Cercò la maniglia nell’oscurità e aprì la porta.

Davanti a lui c’era Tom, appoggiato allo stipite. Lo guardò con espressione indecifrabile.

- Posso entrare? – chiese.

Bill si limitò ad annuire.

Tom accese la luce e si sedette sul suo letto, dove Bill lo raggiunse dopo aver chiuso la porta.

Per un minuto o due ci fu solo silenzio.

Bill non sapeva cosa aspettarsi.

Tom doveva avere in mente qualcosa. Che volesse malmenarlo per distoglierlo dalla sua idea?

Quando il gemello biondo sospirò forte, trasalì.

- Va davvero male? – chiese Tom senza guardarlo.

- Si… ricordi tre mesi fa? A Bercy? – disse Bill. Tom annuì. – Beh adesso è molto peggio. Non so come ho fatto a resistere fino a queste vacanze… Non ci riesco più Tom… -

Tom abbassò la testa.

- Sei sicuro che questa sia la soluzione giusta? –

Bill si permise solo un attimo di esitazione.

- Si, sono sicuro… Un altro modo non c’è. Se rimanessi qui David e Peter non mi permetterebbero mai di fermarmi –

Evidentemente suo fratello non trovò nulla da ribattere, perché tacque.

- E quanto mancheresti? Cioè… di quanto tempo hai bisogno per… “riprenderti” ? – chiese poi.

Bill deglutì.

- Un mese… un mese e mezzo… -

Vide le mani di Tom stringersi attorno ai lembi del piumone. Si preparò mentalmente ad un’altra sfuriata… che non arrivò.

- Credo di farcela a tenerli a bada per un mese – Tom lo guardò e sorrise.

Bill aprì la bocca scioccato.

- S-stai scherzando? Stai scherzando vero? –

- No Bill, dico sul serio. Hai ragione. Ho detto un sacco di cazzate prima… ma non ne pensavo nessuna. Non voglio vederti ridotto ad un vegetale… se davvero senti che staccare per un po’ ti aiuterà, io ti appoggio. – Tom parlò con difficoltà. Bill sapeva che si stava scusando a suo modo.

- Bene… - disse.

- Bene – rispose Tom.

Calò un silenzio carico di imbarazzo.

- Non lo dirai alla mamma vero? – chiese Tom. La risposta era scontata.

- No, certo che no. Tu sarai l’unico a sapere dove sono… anche se gli altri dovranno credere che non lo sai. Quando sarà il momento mi verrete a cercare, e io mi farò trovare. E ricominceremo… -

Tom non sembrava troppo convinto, ma annuì ugualmente. Bill gli fu immensamente grato.

- A che ora prenderai l’aereo? –

- Alle sei di martedì mattina –

- Ti ci porto io –

- Non con quella macchina da rapper arrapato –

Tom gli lanciò un sguardo eloquente.

 

***

 

Note di Phan:

Il titolo di questa fan fiction è "And... you can dream?". Come le nozioni base di inglese insegnano, nelle frasi interrogative è obbligatoria l'inversione di soggetto e verbo. Tuttavia il titolo della FF non è sbagliato, perchè la frase "you can dream?" viene comunque utilizzata nel linguaggio gergale ^^. Volevo solo fare un piccolo appuntino.

 

Ringraziamenti a lovelylory che ha letto anche le altre due mie FF ^^. La cosa non può farmi che piacere. dark_irina, sempre puntuale con le sue adorabili faccine e i suoi puntini di sospensione che adoro *-*, grazie per la recensione. Vitto_LF grazie per i complimenti ^^, e accetto volentieri l'invito di leggere e recensire una tua FF, anche se temo che dovrai adattarti ai miei tempi q_q, perchè purtroppo faccio fatica a conciliare tutti i casini vari (ma comunque leggerò ;P). bluebutterfly, una delle mie affezionate *-*. Grazie come al solito delle tue parole. Lo so che maltratto Bill... ma a quanto pare non riesco davvero più a farne a meno. La risposta alla tua domanda si trova in questo capitolo. EtErNaL_DrEaMEr ^^ ah ecco, chiarito chi sei!!! *-* Piccolo PS... amo i tuoi gusti musicali! E grazie della tua recensione. pervancablueee finalmente ci ritroviamo!!! Grazie per la dritta sul codice HTML!!! Mi ero dimenticata come una stupida!!! E grazie per la recensione... sai che adoro le tue recensioni. loryherm, ho letto la recensione che hai fatto in Sunburn... sorprendente come tu sia riuscita perfettamente ad inquadrare il "movente". Il mio e il tuo pensiero sembrano essere in simbiosi. Grazie anche per la recensione che hai fatto in questa FF.

Bacioni a tutte. =Phan=

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Partenza ***


- Bill! Bill! Cazzo muoviti! –

Il sibilo di Tom gli arrivò alle orecchie mentre finiva di stendere l’eye liner sulla palpebra. Conservò i trucchi nella borsa che portava a tracolla e indossò il cappellino nero. Si guardò per un istante nello specchio del bagno.

- Bill muovi il culo! – il sibilo di suo fratello questa volta era più lontano. Doveva essere arrivato all’ingresso.

Spense la luce e con le scarpe in mano superò la porta della camera di sua madre.

Scese in silenzio le scale, evitando l’ultimo scalino, che scricchiolava sempre.

La porta di casa era aperta e suo fratello lo aspettava sulla soglia, con accanto un trolley alto quasi come lui. Lo guardò con disapprovazione.

- Il volo è tra mezz’ora – disse secco.

- Si, si, sono pronto. Andiamo! –

Chiusero la porta dietro di loro e sollevarono il trolley, per non smuovere la ghiaia del vialetto.

- Dove hai parcheggiato la macchina di mamma? – chiese Bill quando uscirono dal cancello, appoggiando la valigia a terra e cominciando a trascinarla sull’asfalto della strada.

Tom lo incenerì con lo sguardo. Ancora non gli aveva perdonato di averlo obbligato ad accompagnarlo con l’utilitaria di Simone.

- Ah smettila di fare quella faccia! Non ti dovrà riconoscere nessuno, demente! –

- Si in effetti proprio m’immagino orde di ragazzine che alle cinque e trenta della mattina dopo Capodanno si affollano in aeroporto ad aspettarci al varco –

Bill alzò il sopracciglio.

- E poi non capisco perché tu ti sei potuto truccare e io non ho potuto prendere la mia cazzo di macchina! –

- Cioè davvero vuoi fare un paragone? Proviamo a coprire una Cadillac con un cappellino la prossima volta! Magari funziona! –

Tom si fermò per un attimo e lo guardò attonito.

- Ne dici cazzate eh? – disse.

- Ah, dovresti ascoltarti più frequentemente –

Tom sbuffò.

Caricarono il trolley sul sedile posteriore, perché il bagagliaio era già pieno di valige. Poi si misero in macchina e partirono.

- Toglimi una curiosità, ma come pensi di occuparti della mezza tonnellata di valige che ti stai portando dietro una volta arrivato li? – chiese suo fratello guidando tranquillamente.

- Troverò un modo! Pensi ad andare più veloce invece di blaterare cose inutili? – rispose Bill stizzito. Il vero motivo della sua suscettibilità era che gli mancavano le risposte ad almeno una dozzina di domande. Tom sorrise perfidamente.

- Mi dispiace ma questa macchina non supera i quaranta all’ora –

 

Alla fine non ci misero poi moltissimo a raggiungere l’aeroporto, e dopo una lotta estenuante contro la macchina che occorreva ad imballare le valige, riuscirono a trovare l’accettazione giusta.

I due si guardarono un po’ intorno, facendo finta di nulla. Espediente che non poteva funzionare per molto, dato che di li a cinque minuti il volo sarebbe partito.

- Insomma mi vuoi salutare si o no? – disse Bill esasperato voltandosi verso il gemello. Tom fece uno dei suoi soliti sorrisi.

I due fratelli si abbracciarono.

Bill rifletté istantaneamente che era la prima volta che si dividevano per tanto tempo. Quando sua madre aveva tentato di mandarli in campeggi diversi si ricordava ancora le scenate che avevano fatto. E adesso? Avrebbe rivisto suo fratello un mese dopo… un mese era lungo. Non sarebbe passato in fretta come in tour. Sarebbe stato da solo… niente amici, niente staff… niente Tom.

- Ti sta prendendo il panico vero? – chiese suo fratello quando sciolsero l’abbraccio. Bill annuì impercettibilmente. Inutile cercare di negare, Tom lo conosceva come le sue tasche.

- Ok, cerca di stare tranquillo. Hai il cellulare, hai il mio numero, hai i soldi necessari per comprare un biglietto di ritorno. E’ tutto ok. Va bene? –

- Ok, ok. Hai ragione – disse Bill. Sospirò. L’ultima chiamata per il volo.

- Vai su, altrimenti perdi il volo – Tom lo spinse. Bill sorrise, sapeva che Tom odiava commuoversi.

- Ci sentiamo quando arrivo. Ciao –

- Ciao Bill –

Bill lo guardò infilarsi le mani in tasca, poi si voltò. Diede il suo biglietto alla hostess e si avviò, la borsa a tracolla, i capelli che spuntavano da sotto il cappellino.

Quando si voltò di nuovo suo fratello non c’era più.

 

Lipsia che diventava sempre più piccola sotto di lui era un’immagine abbastanza nostalgica. Fortuna che era ancora semibuio, così avrebbe dovuto salutare solo vaghe luci arancioni e macchine che sembravano formiche luminose.

I passeggeri erano pochi, e già si erano preparati a passare il resto del volo tra quei sedili con aria rassegnata.

Bill abbandonò la sua borsa sul sedile accanto e appoggiò la testa allo schienale.

New York.

Ci stava andando davvero, ed era da solo.

Forse era la volta buona per imparare sul serio l’inglese.

Ignorò il presentimento di guai che sentì in fondo allo stomaco.

 

 

Tom si lasciò cadere sul letto.

Guardò il soffitto per un minuto intero.

Aveva aiutato suo fratello a mettere in atto una delle cazzate più grandi della storia.

Fantastico.

Era proprio quel genere di consapevolezza che sicuramente gli avrebbe garantito di passare un mese d’inferno.

David avrebbe dato di matto. L’avrebbero ricoverato, era la volta buona.

Georg non ci avrebbe creduto in un primo momento.

Gustav invece ci avrebbe creduto subito, per lui Bill non era tutto questo mistero.

Saki probabilmente non avrebbe sospettato di lui. Ma avrebbe cominciato le indagini chiedendogli se sapeva qualcosa. E poi avrebbe sguinzagliato la security.

Peter si sarebbe preoccupato solo dell’impatto con la stampa, e avrebbe indetto una riunione straordinaria per trovare la storia giusta da raccontare al pubblico.

Sua madre… sua madre sarebbe stata l’osso più duro di tutti.

Fantastico. Lo aspettava un mese di bugie, sotterfugi, sospetti…

Già si sentiva stanco, e non era ancora cominciato.

Chiuse gli occhi.

L’unica cosa da sperare era che Bill non si mettesse nei casini.

Ma che stava dicendo… Bill si metteva sempre nei casini.

Che cazzo hai fatto Tom?

 

Grazie a tutte per le recensioni. Anche alla mia ostrichetta *-* (lei sa chi è xD)

Questo è un po' un capitolo senza grossi colpi di scena... Bill parte e punto.

Scusate davvero il ritardo ma ho troppe cose da fare che si accumulano le une sopra alle altre come frittelle (... non chiedetemi da dove mi sia uscita... ). Vi avverto che questa FF non funzionerà come Alone Together sotto il punto di vista della velocità degli aggiornamenti, perché il tempo che dedico a scrivere è notevolmente diminuito a causa di forza maggiore (la scuola...).

Perdonatemi q_q

Un bacio a tutte.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Alex & Michael ***


*9 ore dopo*

 

Sospirò rumorosamente. Sorrise.

Ce l’aveva fatta. Era seduto in un taxi, appena fuori dal J.F.K. di New York.

Non si era perso, non si era fatto rubare i bagagli, ed era riuscito ad avere una conversazione in inglese con la hostess alla quale aveva chiesto dove si trovava l’uscita.

Quello era il modo giusto per cominciare.

Tom sarebbe rimasto stupito di lui.

A riscuoterlo dai suoi pensieri fu il tassista, che diede due studiati colpi di tosse.

Bill sobbalzò. Ebbe per un attimo la visione di se stesso che sorrideva come un ebete guardando fuori dal finestrino.

- Ehm… - si schiarì la voce imbarazzato, cercando di riordinare le idee per dire quello che aveva in mente nella lingua giusta – Vorrei che mi portasse in un Hotel a poco prezzo – scandì bene. Quando terminò la frase vide il volto sbarbato del tassista contrarsi in un’espressione dubbiosa. Che avesse sbagliato la costruzione della frase?

Ragiona Bill. Con calma.

- Motel? – disse con tono esitante. Con suo sommo sollievo il tassista sorrise e annuì. Poi si voltò e mise in moto la macchina di quel classico colore giallo.

Ok, ce l’aveva fatta.

Ripensò a quanto David insisteva con la storia dell’inglese. Ma lui non era portato per lo studio… in effetti il fatto che avessero sfondato nel mondo della musica era stato a dir poco provvidenziale. Dalla scuola era scappato a gambe levate, e l’idea di rimettersi a studiare non gli passava nemmeno per la ben conosciuta anticamera del cervello.

Quando però un’ora dopo il tassista lo abbandonò in un vicolo sudicio, dopo avergli strappato di mano tutti i dollari che aveva tirato fuori dalla tasca e avergli mitragliato addosso in fretta e furia quelle che dovevano essere le istruzioni per arrivare all’Hotel, si pentì di non aver dato retta a David.

Si guardò intorno, ascoltando il rumore delle gomme del taxi che slittavano sull’asfalto. Poi il rumore si perse e nella strada rimase solo lui, circondato dalla sua immensa mole di bagagli.

Cercò di ripetere nella mente ciò che aveva detto il tassista, tentando di dare almeno un senso vago a quelle parole. Ma più ci pensava, più le parole scivolavano via.

Decise di incamminarsi. Se il tassista lo aveva lasciato li voleva dire che l’Hotel non era poi così lontano.

Si caricò in spalla lo zaino, prese per il manico le due valige e cominciò a trascinare il trolley con la mano sinistra. Forse aveva esagerato con i bagagli. Per una volta nella sua vita Tom aveva detto una cosa sensata.

Con una certa difficoltà si avviò, dirigendosi verso il fondo della strada.

Aveva percorso una decina di metri quando vide delle sagome scure davanti a se. Sembravano ragazzi. Alcuni erano appoggiati al muro rosso di una palazzina. Forse poteva chiedere loro qualche informazione!

Quando si avvicinò abbastanza da poterli guardare in faccia però ogni vaga intenzione svanì. Non gli sembrò esattamente cordiale il modo in cui lo squadrarono. Una buona metà del gruppo aveva la pelle color cioccolato, ed erano vestiti tutti come cloni di Tom. Lo seguirono con lo sguardo mentre passava di fronte a loro, dall’altra parte della strada, arrancando sotto il peso dei bagagli. Si sentì totalmente a disagio ed accelerò il passo, lanciando occhiate fugaci al gruppo di ragazzi. Si accorse che avevano cominciato a confabulare tra loro, ma non riuscì a capire nulla di quello che si dissero.

Riecco il cattivo presentimento che si manifestava sotto forma di crampi allo stomaco.

Quando con la coda dell’occhio vide i ragazzi staccarsi del muro e avvicinarsi a lui accelerò ancora.

Qualcosa gli diceva che non avevano buone intenzioni, e non aveva intenzione di verificare personalmente. Per di più la strada era deserta. Non un negozio, non un passante, non una porta.

Sentì il panico impadronirsi di lui quando avvertì che anche gli sconosciuti avevano accelerato il passo.

In preda alla paura svoltò al primo angolo che trovò sul suo cammino.

Pessima, pessima decisione.

Davanti a lui, ad una distanza di massimo cinque metri, si innalzava un solido muro di mattoni.

Vicolo cieco.

Si voltò lentamente e vide il gruppo di ragazzi avanzare verso di lui, con dei ghigni poco rassicuranti dipinti sui volti.

Quando uno di loro, piuttosto grosso, gli si avvicinò, si scoprì a pensare che per rivelare certe intenzioni non era necessario parlare la stessa lingua.

Il pugno che Bill vide avvicinarsi velocemente al suo viso non aveva decisamente bisogno di essere tradotto.

 

 

Appoggiò la bottiglia di birra ormai vuota sul bancone e sospirò.

Accanto a lei Michael stava ancora bevendo.

Quel posto puzzava come al solito. C’era odore troppo forte di alcool e fumo. Ma aveva la bellezza dei luoghi familiari, quelli che conosci in ogni loro angolo, quelli in cui ti senti a tuo agio, quasi come a casa. Perché dentro ci hai nascosto ricordi, ci sei cresciuta, e ti sembra quasi di vederti mentre con i capelli spettinati ingoiavi il primo sorso di birra della tua vita.

Il suo amico abbandonò la bottiglia sul bancone. Sollevò lo sguardo e si guardò intorno circospetto. Lei scosse la testa.

- Michael… come pensi di dirlo a Joanne? – domandò dopo averlo di nuovo inchiodato con lo sguardo.

Lui evase prontamente dai suoi occhi con il pretesto di ordinare un’altra birra. Stava cominciando a farla innervosire.

- Michael per favore. Adesso parliamo e cerchiamo di risolvere la cosa. Posso assicurarti che far finta di non sentirmi non ti servirà a farmi demordere – disse lentamente, cercando di sopprimere l’istinto di afferrare il ragazzo per le spalle e scuoterlo fino a fargli riacquistare quel minimo di buonsenso che sicuramente aveva perso senza accorgersene.

Di nuovo lui tentò di trovare interessantissima l’etichetta bagnata della bottiglia che si rigirava tra le mani, ma l’espediente non funzionò per molto. Alla fine fu costretto a sollevare gli occhi e guardarla.

- Senti, non ho fatto apposta. Sono uscito di casa in orario stamattina, poi ho incontrato alcuni miei amici… e sono arrivato in ritardo al lavoro. Non mi aspettavo che mi licenziasse per una cazzata del genere Alex –

La ragazza scosse i capelli nervosamente. Se Michael stava tentando di distruggere il suo residuo autocontrollo doveva informarlo che la tecnica funzionava perfettamente.

- Trascurando il fatto che è il terzo lavoro che perdi e che è tua abitudine costante arrivare in ritardo dovunque, motivo per il quale non mi stupisco che ti abbiano licenziato, quello che più mi manda fuori di testa è che continui a filartela con i tuoi “amici”… cioè dimmelo chiaro e tondo Michael, cosa intendi fare? Vuoi ricominciare? Perché io non ho nessuna intenzione ne di coprirti, ne di tirare il tuo culo fuori dai guai un’altra volta… non ho più quindici anni, e nemmeno tu anche se ti ostini a far finta di nulla –

Si sentiva furiosa. Ma il sangue freddo come sempre aveva il controllo su tutto. Tante volte quel modo di reagire ai problemi la infastidiva. Lei non era come le persone normali. Non riusciva a scaldarsi, ad alzarsi in piedi ed urlare. Anche se dentro di se aveva come un fuoco che la bruciava senza pietà. Soprattutto quando si trattava di lui.

Michael era praticamente suo fratello. Nonostante non fosse lo stesso sangue a scorrere nelle loro vene, il fatto di essere cresciuti insieme, affrontando tutte le diverse fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, li aveva aiutati a costruire un legame ben saldo. Tuttavia, anche se sapeva benissimo che lui stava di nuovo tentando di immergersi in un mare di guai, e sentiva l’istinto di percuoterlo per la superficialità con cui affrontava le cose, non riusciva a dimostrarglielo. Non riusciva a dirgli che gli voleva bene, che aver avuto dei genitori come i loro non significava che non potessero costruirsi una vita diversa, che lui non c’entrava nulla con suo padre, con quel posto, con quelle colpe. Ma l’unica cosa che riusciva a fare era guardarlo, appollaiata sull’alto sgabello di metallo di quel pub un po’ troppo buio. Dire che si sentiva inutile era poco.

Lui scosse la testa.

- Non ho intenzione di ricominciare nulla. Smettila con queste menate Alex… sei pesante –

Lei sapeva che cinque secondi dopo Michael si sarebbe pentito di quelle parole, e forse aveva già cominciato, visto che si ostinava a non guardarla, ma facevano male lo stesso. Erano come piccoli tagli sottili, veloci, che le facevano capire che per quanto si potesse preoccupare, per quanto potesse tentare di aiutarlo, Michael non voleva essere aiutato, non voleva essere messo “al guinzaglio”. Non voleva sentirsi dire cosa fare e come. Il che equivaleva a dire che in sostanza lei non poteva farci nulla, qualsiasi cosa il suo amico stesse combinando, qualsiasi fosse stato il vero motivo per il quale nonostante non avesse un lavoro riuscisse a pagare l’alloggio a Joanne e a comprarsi scarpe e vestiti nuovi.

Decise di far finta di nulla.

Dopo un paio di minuti l’amico sospirò.

- Scusami… non volevo dire quello che ho detto… cioè… è che il fatto di essere stato licenziato mi manda fuori di testa –

Alex si voltò verso Michael e gli sorrise.

- Non ti preoccupare, lo so –

Nascose la delusione dietro la consueta maschera e poi abbassò di nuovo lo sguardo.

Improvvisamente aveva voglia di tornare a casa e chiudere gli occhi.

Qualcuno entrò nel locale permettendo ad un soffio d’aria di scacciare via la cappa di fumo che era sospesa sopra le loro teste.

Cosa ci faceva li?

Accanto a lei Michael si agitò sulla sedia.

L’acqua aveva cominciato a scivolare in piccole goccioline dal vetro verde, colandole tra le dita della mano ancora serrata attorno alla bottiglia.

- Cazzo… -

Quasi non fece caso all’esclamazione del suo amico.

Domani cosa l’aspettava?

- TU! –

Suo malgrado si ritrovò a dover voltare la testa. Il volume con il quale quella parola era stata pronunciata era tale da distoglierla perfino dai suoi grigi pensieri.

Era un uomo alto quello che aveva urlato. Aveva il volto coperto da un sottile velo di barba. Gli occhi scuri troppo piccoli creavano disarmonia in quel volto già di per se poco attraente. Era vestito male, in modo trasandato, ma non sembrava avere l’aria di quello a cui importava qualcosa. Dietro di lui un manipolo di uomini, più o meno giovani, guardavano dalla loro parte. Non avevano un atteggiamento cordiale… decisamente.

Inizialmente Alex non capì per quale motivo guardassero con tanta insistenza proprio lei.

- Alex… -

La voce esitante di Michael le fornì una risposta.

Non stavano guardando lei.

- Tu, razza di stronzetto, pensavi che non ti avrei trovato? – l’uomo parlò di nuovo, e fece un passo avanti, seguito dai suoi compagni. Sorprendentemente l’unica cosa a cui riuscì a pensare in un primo momento fu che l’uomo aveva un accento strano.

Poi, all’improvviso, si accorse che nel locale era sceso il silenzio. La tensione si poteva tagliare a fette con il coltello.

No, per favore Michael… Non di nuovo.

Avrebbe scosso la testa sconsolata se ne avesse avuto voglia.

Non aveva paura, non era agitata… era solo stanca.

- Alex… - Michael sussurrò di nuovo il suo nome. Nello stesso istante il branco di uomini li caricò, avvicinandosi con passo spedito.

- Scappa! –

Dire che non se lo fece ripetere due volte è poco.

In meno di un paio di secondi, il tempo necessario per permettere ai loro inseguitori di capire cosa stessero facendo, il locale piombò nel caos.

Alex si arrampicò sullo sgabello e saltò oltre il bancone, seguendo Michael, che aveva cominciato a correre di fronte a lei.

Le bottiglie di birra caddero e si frantumarono da qualche parte dietro di loro, assieme a diversi bicchieri. Il barista urlò, ma la sua voce fu coperta dallo scalpiccio degli uomini che evidentemente non si erano fatti prendere troppo alla sprovvista.

Alex si voltò, i capelli davanti al viso.

Michael doveva aver fatto qualche casino dei suoi.

Irruppero nelle cucine, seminando il panico tra i camerieri. Alex urtò una ragazza e le fece cadere a terra il vassoio che aveva in mano.

- Mi scusi! – urlò alzando una mano.

Davanti a lei Michael continuava a correre, il che voleva dire che evidentemente sapeva dove stava andando… forse.

Alex sorrise.

Ormai le veniva da ridere. Non sapeva se per disperazione o perché trovava davvero divertenti quel tipo di situazioni.

Probabilmente era rassegnazione...

Accelerò e scivolò sul pavimento, scaraventandosi dietro Michael fuori da una porta che era comparsa improvvisamente di fronte a loro.

Quando sentì freddo capì che erano in strada.

Sollevò lo sguardo e guardò il cielo nero sopra la sua testa.

Lasciò che l’aria gelida le entrasse nei polmoni, facendoglieli bruciare.

Domani sarebbe stato uguale a ieri.

Ed il giorno dopo ancora…

Stessa vita, stesse fughe.

Stessi silenzi.

 

 

 

 

Male questa porca vita
Spreco
Piango
Il mio cuore l'ho lasciato morto, marcio, violentato
Vivo
Quando tutto dorme esco

E non ho più niente
Non piango più
Non voglio più
Altro che freddo

E l'amore l'ho lasciato morto, marcio, disperato
Nero

E non ho più niente

Non piango più

Non voglio più 

 

 

 

***

 

 

 

 

Grazie a tutte per le recensioni e per i complimenti.

dark_irinaaa sei in Olanda *_*, ti dispiace se ti chiedo com'è??

bluebutterfly puntuale come al solito *_^ . Te ne offrirei volentieri qualcuna!

Vitto_LF ma non ti preoccupareee che Tom non scomparirà! In questa FF ci sarà anche lui

EtErNaL_DrEaMEr esatto! Direi (per quanto è un bell'azzardo, non conoscendo di persona il caro ragazzo) che è molto da "Tom" comportarsi in questo modo (e con "Tom" intendo il personaggio che ho costruito nella mia mente).

Benvenute alle nuove lettrici: V x Vendetta (inutile dire quanto io adori quel film... °_°) che ringrazio per i complimenti ^^, e joey_ms_86 che ha aggiunto questa storia nei suoi preferiti.

Al prossimo capitolo donzelle!

Baci

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Macabri ritrovamenti ***


- Ci seguono ancora? –

Michael si appoggiò al muro dell’angolo che avevano appena svoltato.

Ansimavano entrambi.

Alex si sporse oltre il muro e scrutò la strada, ascoltando con attenzione il silenzio.

- Sembra di no – rispose infine, abbandonando la testa indietro.

Era da parecchio che non facevano una corsa simile.

- Se non sono troppo indiscreta… potrei sapere perché ho appena rischiato di venire malmenata da una decina di gorilla troppo cresciuti? – domandò appena riuscì a riprendere il fiato sufficiente.

Michael non rispose subito. Era piegato in avanti, appoggiato sulle ginocchia.

- Fai le stesse domande che facevi quando avevamo tredici anni… - disse poi.

- E tu continui a non rispondere… prima o poi perderai questo vizio? – ribatté lei sorridendo.

Michael rise sollevandosi.

- E’ una storia lunga, te la spiego con calma quando torniamo a casa –

- Anche quando avevamo tredici anni dicevi così –

Michael fece finta di non sentirla.

Alex non aggiunse altro.

Si sentiva piuttosto di buon umore, all’improvviso, e comunque non aveva le forze per cominciare una nuova discussione. L’adrenalina accumulata durante la fuga stava scemando, portandosi dietro le energie.

Si incamminarono entrambi.

Avevano corso tanto da essere arrivati quasi a casa.

Proseguirono in silenzio nella strada semibuia.

Alex guardava distrattamente davanti a se, la mente persa in una sorta di nebbiolina grigia.

Quando vide quella strana sagoma abbandonata a terra a pochi passi da loro non capì immediatamente cosa fosse. Poi si avvicinarono ancora, e superato il primo istante di incertezza, si immobilizzò.

- Michael – disse con voce strozzata.

Anche il ragazzo si inchiodò non appena vide ciò che la ragazza fissava.

Ad una paio di metri da loro giaceva riverso per terra un… corpo.

Alex pensò di non aver riconosciuto le forme perché la luce fioca del lampione accanto a loro non riusciva ad arrivare fin li.

La voce di Michael la tirò fuori dal suo angolo di pensiero razionale, facendole notare quanto fosse assurdo che, con un probabile cadavere davanti, lei si preoccupasse del motivo per il quale non era riuscita a capire che si trattava di un essere umano.

- Resta li, mi avvicino io –

Non fece nemmeno in tempo ad assimilare il significato della frase che il suo amico si era già avvicinato al corpo. Lo guardò piegarsi con il cuore in gola. Forse non era un cadavere… magari era solo qualcuno che era svenuto…

Si, certo Alex, trascurando il fatto che praticamente il 95% dei corpi abbandonati su questi marciapiedi sono drogati che hanno tirato le cuoia per overdose.

Oddio, no. Non voleva vedere un cadavere.

- Alex avvicinati! – esclamò all’improvviso Michael.

Alex sobbalzò e rimase immobile per circa un paio di secondi.

Avvicinati…

Non l’avrebbe fatta avvicinare se si fosse trattato di un cadavere. O si?

- Alex ti vuoi muovere?! Questo… tizio… è solo svenuto –

La ragazza ignorò l’incertezza nella voce dell’amico e si avvicinò in fretta.

Il corpo steso a terra era quello di un ragazzo, o almeno dai fianchi stretti e dalla totale assenza di seno si evinceva che si trattasse di un ragazzo, anche se aveva le palpebre semichiuse coperte da uno strato di ombretto scuro e scarmigliati capelli lunghi e neri.

- L’hanno pestato di brutto – disse Michael accanto a lei. Ed era vero.

Il volto del ragazzo era tumefatto. Dal labbro gli colava un rivolo di sangue, ed aveva un sopracciglio spaccato. Solo guardandolo bene si rese conto di quanto fossero pessime le condizioni in cui versava.

- Controlla se ha dei documenti addosso – disse.

Michael frugò le tasche del ragazzo mentre lei controllava il giubbotto.

- Qui non c’è niente Alex –

La ragazza slacciò il giubbotto e controllò le tasche interne ma non trovò nulla nemmeno li.

- Niente… -

- Chiamiamo l’ambulanza. Lo facciamo portare in ospedale… - disse il suo amico tranquillamente. Non sembrava preoccuparsi più di tanto della sorte del ragazzo. Alex sbuffò nervosamente.

- Michael non possiamo farlo portare in ospedale, non ha l’assicurazione, e nemmeno noi. Lo lascerebbero qui piuttosto, lo sai che funziona così – replicò torcendosi le mani.

Michael tacque.

All’improvviso Alex si alzò in piedi.

- Cosa facciamo? – chiese il suo amico.

- Lo portiamo a casa, aiutami a sollevarlo – rispose decisa. Ma Michael non sembrava avere l’intenzione di collaborare.

- Che cosa?! Ma sei impazzita?! – esclamò saltando in piedi. Lei lo fulminò con lo sguardo.

- Dimmi, hai un’idea migliore? Forse lasciarlo qui? –

Il ragazzo esitò guardando avanti e indietro lungo la strada.

- Dannazione… - imprecò poi abbassandosi e cominciando a sollevare lo sconosciuto dalle braccia. Alex lo aiutò passandosi un braccio del ragazzo dietro la schiena.

- Ci sei? – chiese Michael sostenendo il peso dall’altro lato.

- Si, andiamo –

Presero a camminare, sorreggendo il peso del corpo dello sconosciuto, i cui piedi strisciavano a terra. Non pesava molto, ma entrambi tirarono un sospiro di sollievo quando giunsero in prossimità di un portone a vetri.

Trasportarono goffamente il ragazzo oltre l’ingresso e guardarono con espressioni atterrite la rampa di scale che si parò davanti a loro.

- Dai, ci siamo quasi – disse Alex. Sentì i polmoni lamentarsi. Di certo dopo una corsa estenuante l’ideale non era caricarsi addosso un corpo esanime.

- Ci siamo quasi… certo… e questa pertica come la facciamo arrivare fino al secondo piano? – domandò con tono acido Michael.

Alex ci mise un paio di secondi a capire che con il termine “pertica” il suo amico si stava riferendo allo sconosciuto.

- Non so, vuoi rimanere qui in attesa dell’intervento dello Spirito Santo per scoprirlo? – ringhiò afferrando all’ultimo momento il braccio del ragazzo, che le stava scivolando via. Michael la guardò funereo e si lanciò sulle scale senza attenderla, facendola incespicare nei primi due scalini.

Quando posarono i piedi sul quindicesimo ed ultimo scalino stavano ormai arrancando.

- Fermiamoci un attimo, ti prego – esalò Michael.

Alex annuì appena, ed aiutò l’amico ad appoggiare lo sconosciuto a terra, prima di sedersi sul primo scalino della seconda rampa di scale. Improvvisamente sentì un caldo terribile. Le gambe le sembravano due blocchi di cemento.

- Michael –

- Mphf… -

- Ancora una decina di scalini e siamo arrivati… -

- Mphf… -

- Aiutami almeno a prenderlo per le braccia. Se non ce la facciamo a sollevarlo possiamo sempre trascinarlo. Non penso che se ne accorgerà. – disse esasperata.

Michael sembrò apprezzare l’idea, ed entrambi allungarono le mani verso il ragazzo, afferrandolo per le braccia e cominciando a trascinarlo su per gli scalini.

Ad Alex sembrava che in quei cinque minuti lo sconosciuto avesse acquistato almeno una ventina di chili in più. Le mani le sudavano e scivolavano sulla pelle di quello stupidissimo giubbotto.

Si rese conto di quanto fosse stanca solo alla fine della rampa di scale. Quando le dita le scivolarono di nuovo sulla manica viscida non riuscì a riafferrarlo e il braccio del ragazzo le sfuggì completamente di mano. Michael, trovatosi in meno di due secondi da solo a dover sorreggere il peso dello sconosciuto, perse l’equilibrio e abbandonò la presa.

I due rimasero immobili come statue mentre, inorriditi, guardavano il corpo del ragazzo allontanarsi sempre di più, sobbalzando ad ogni nuovo gradino che lo portava inesorabilmente verso il pianerottolo abbandonato con tanta fatica. Michael sussultava ad ogni tonfo ed Alex si azzardò ad aprire completamente entrambi gli occhi solo quando lo sconosciuto si arenò sulle mattonelle grigie del pavimento, le gambe e le braccia allargate come se stesse cercando di disegnare un assurdo angelo per terra.

Il silenzio che calò fu quasi imbarazzato.

- Dici che è morto? – chiese infine Michael.

Alex guardò attentamente lo sconosciuto.

- No, guarda, sta respirando – rispose indicando il petto del giovane, che riusciva a distinguere alzarsi ed abbassarsi ritmicamente.

Lei e Michael si guardarono in volto per un secondo solo.

Poi scoppiarono a ridere senza ritegno.

 

 

- Tom! –

Era iniziato così il principio della fine. Con quell’urlo isterico di sua madre che, dopo avergli concesso solo mezz’ora di sonno, aveva fatto irruzione nella sua stanza, scaraventandolo giù dal letto con la sola forza della sua delicata ugola d’oro.

Far finta di essere spiazzato e confuso non era stato molto difficile. Il fatto di aver impiegato la notte esercitando attività come trasportare valige su e giù per il vialetto e fare avanti e indietro dall’aeroporto a casa, includendoci nel mezzo un bell’addio colante melassa al fratello gemello, donava al suo aspetto quel non so che perfettamente adatto al ruolo da “non so che cazzo è successo”. E infatti era stata quella la frase con cui aveva risposto a sua madre, dopo che lei gli aveva chiesto con espressione persa per quale motivo suo fratello non si trovasse a dormire nella stanza accanto, coperto dal suo piumone lilla spento (che Bill si ostinava a definire pervinca… ‘cazzo di colore era il pervinca? Lilla spento probabilmente… ).

La sua adorabile genitrice aveva cominciato a chiamare senza sosta il cellulare di Bill, trascinando le pantofole rosse sul parquet della stanza, nel frattempo lui, pienamente consapevole del fatto che sicuramente Bill era in volo e aveva il cellulare spento, tentava di infilarsi i calzini dal verso giusto.

Mentre stava ancora vagando per casa in boxer quadrettati, maglietta sciupata degli AC/DC, calzini di spugna bianchi ed aria visibilmente rintronata, in casa piombò tutto lo staff al completo, compresi due assonnati Gustav e Georg che avevano tutta l’aria di non sapere per quale assurdo motivo si trovassero li. David sembrava più brutto del solito, e Saki aveva gli occhiali storti sul naso. Nel giro di dieci minuti tutta la ciurma era stata radunata nella cucina. Tom, senza sapere come, si era ritrovato seduto alla penisola, tra Gustav e Georg sempre più confusi, Saki, Tobi e altri due armadi non identificati appoggiati al ripiano di fronte a lui, David con le mani nei capelli e la bocca sporca di dentifricio e sua madre che continuava a preparare caffè su caffè apparentemente incurante del fatto che nella stanza erano in nove e non in quindici.

Dopo che sua madre aveva spiegato la situazione e mostrato il biglietto lasciato da Bill che aveva trovato sul tavolino del salone calò il silenzio.

Georg sussurrò qualcosa come: “Non ho capito l’ultima frase”. Saki aggrottò tanto le sopracciglia che sembrava stesse tentando di incastrarsi le lenti degli occhiali nei bulbi oculari, David strinse ancora di più le mani attorno alle corte ciocche di capelli e digrignò i denti, Gustav rimase calmo, le braccia conserte e lo sguardo fisso davanti a se. Tom cercò di fingersi interessato al biglietto lasciato da Bill ed allungò una mano sul tavolo, avvicinandolo a se.

Parto. Tornerò. Bill.

Si trattenne all’ultimo secondo dallo sbuffare. Melodrammatico.

Tornerò.

Suo fratello aveva gusti pessimi in fatto di addii.

Per un attimo nella mente gli passò davanti l’immagine di Bill, lo sguardo carico di pathos rivolto verso l’alto, che agitava un fazzoletto bianco dietro di se. Infilò la bocca nella minuscola tazzina di caffè per evitare il peggio.

Chissà cosa stava facendo suo fratello in quel momento… se lo immaginava con la mascherina da notte, appoggiato allo schienale di un sedile troppo scomodo per i suoi gusti, fregandosene allegramente del panico che aveva scatenato.

Ad interrompere il silenzio fu Saki. Cominciò a mitragliarlo di domande.

Per caso immaginava dove Bill fosse diretto? Negli ultimi giorni Bill aveva parlato di una città o di una nazione particolari? Bill aveva espresso il desiderio di partire ultimamente? L’ultima volta che l’aveva visto cosa stava facendo? Negli ultimi tempi aveva comportamenti strani o sospetti?

Certo di non poter replicare con, in ordine, “Non immagino dove Bill sia diretto, io lo so”, “Negli ultimi giorni? Sono anni che Bill rompe le palle a tutti con la storia di New York”, “No, Bill non ha espresso il desiderio di partire, è partito direttamente”, “L’ultima volta che l’ho visto stava sculettando verso una hostess”, “Devo fare una lista di tutti i comportamenti strani o sospetti di Bill? Partendo esattamente da dove? Dal truccarsi come una drag queen o dall’abitudine di sniffare l’acetone prima di rifarsi lo smalto?”, inventò una serie di risposte che avevano a seconda dell’occorrenza sfumature di sconcerto, confusione o addirittura timore.

La messa in scena sembrò funzionare, e Saki si fece ancora più scuro in volto, mentre David crollò su una sedia, sfinito come se avesse appena terminato duecento vasche stile nuotando con una gamba sola.

Dentro di se sentiva sempre più ingombrante la voglia di sganasciarsi dalle risate, rotolando sul pavimento possibilmente, ma sapeva anche che non era il caso di lasciarsi andare agli istinti. Nonostante la situazione si rivelasse per lui un piacevole intrattenimento per sua madre doveva essere una tortura, per non parlare di David (Tom poteva vedere gli euro perduti che stava contando che abbandonavano la sua mente fluttuando per la stanza) e di Saki, che avrebbe dovuto dirigere le “ricerche”. E al tenero quadretto doveva ancora aggiungersi Peter… il caro Peter. Tom gli dava tempo dieci minuti e avrebbe chiamato, sicuramente avvisato da un pronto messaggio in segreteria di David. Ammetteva con se stesso di essere curioso della storia che avrebbero messo su per la stampa. Bill era andato a meditare tra le mangrovie cambogiane in preda allo stress? (A tal proposito… c’erano mangrovie in Cambogia?) Bill si era preso un’altra volta la tracheite? (Che sarebbe stata la terza della sua onorata carriera) Oppure, avrebbero tirato in ballo la scusa del nuovo album? L’argomento era intrigante, ma Tom si ritrovò a preoccuparsi dell’atteggiamento da dover sostenere con Georg e Gustav. A Georg nascondere tutto sarebbe stato molto facile. Non era una persona particolarmente sospettosa, ne particolarmente acuta. Ma Gustav? Gustav era molto furbo… un po’ troppo forse, ed anche parecchio intelligente, il che poteva essere solo un ostacolo in più, da aggiungere all’immensa montagna che riusciva a vedere incombere su di lui chiudendo gli occhi. Doveva puntare su una buona interpretazione. Le sue bugie dovevano essere pensate e rivedute nei minimi particolari, il suo comportamento equilibrato. Non poteva permettersi momenti di cedimento.

Osservando Tobi e Saki che già armeggiavano con i cellulari, smobilitando probabilmente la guardia nazionale, David che, con una mano ancora saldamente serrata attorno ai suoi poveri e curatissimi capelli, parlava concitato con sua madre e Georg e Gustav che lo guardavano smarriti, Tom si rese ulteriormente conto del casino che suo fratello (aiutato da lui dannazione!) aveva messo su. Come ogni cosa che Bill faceva era montato a regola d’arte per rendergli l’esistenza più che impossibile.

Ed ora la domanda era… tutta quella storia, come sarebbe finita?

Ma soprattutto… se si fosse alzato per andare a pisciare, gli altri avrebbero valutato il gesto come mancanza di preoccupazione?


***




Note di Phan: Scusatemi il ritardo catastrofico... davvero, scusate!!! Purtroppo quando facevo riferimento alla storia delle frittelle... dicevo sul serio q_q. Spero che questo capitolo vi piaccia.

EtErNaL_DrEaMEr: Oddio alle "Pazze Avventure di Bill" io ci penserei seriamente... della serie "traumatizziamo tutti i piccoli pargoli a disposizione finché siamo in tempo". Si incontreranno, si incontreranno... e mi dispiace davvero per msn... Non mi connetto quasi mai, il che contribuisce a rendermi notevolmente frustrata (frustrazione che scarico su Bill come puoi notare, e non senza una punta di soddisfazione. Un bacio.

Vitto_LF: Visto? Ti ho inserito un bel pezzo su Tom, e assolutamente non sarà l'ultimo *_^.

loryherm: Grazie per i complimenti, e lungi da me rimproverarti per non aver letto gli aggiornamenti, considerando che in quanto a tempestività sono terribilmente scarsa... come potete notare. Un bacione anche a te.

bluebutterfly: eheh, il povero figliuolo tanto povero non è... vabé, la risposta al tuo quesito si trova in parte nel saluto dato ad EtErNaL_DrEaMEr. Ahah, la visione di me stessa seduta sul lettino dello psicologo (posto dove diverse persone di mia conoscenza mi manderebbero volentieri) mi ha fatta sorridere. Baci.

GodFather: Si, anche dentro di me si è risvegliata la stessa immagine che hai visto tu. Molto western. Era parecchio tempo che la elaboravo. Grazie per i complimenti donzella. E spero tu ti stia godendo la vacanza. Bacioni (le ostrichette ruleggiano sempre).

dark_irina: mi ero dimenticata di quanto amassi le tue vocali e i tuoi punti esclamativi ed interrogativi infiniti!!! Avrete tutte modo di conoscere meglio i due nuovi personaggi durante la storia, e non saranno gli unici a farsi conoscere meglio *_^. Come ho detto a Vitto, Tom sarà sempre presente! Un Kaulitz non esclude l'altro, come potrebbe essere altrimenti!!! :P bacini.

V x Vendetta: Lo sposi con una gamba ingessata al massimo su! Scherzo, non sarò cattiva fino al punto di mandarlo all'ospedale... (credo). Grazie per i complimenti. E si, io adoro V x Vendetta, è uno dei miei film preferiti, sinceramente. Ha una sua atmosfera particolare e bellissima, e inutile dire che mi sono innamorata perdutamente di V. Sulla parte "aggiorna presto" (coff coff) sorvolo. Baci.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** The Devil! ***


Sugo. Sugo al pomodoro.

Primo messaggio subliminale arrivato alla sua mente.

Piacevole tepore.

Secondo messaggio subliminale.

Sensazione poco rassicurante di nudità semi-completa.

Nudità semi-completa?!?!

Spalancò gli occhi con terrore.

Senza prestare troppa attenzione al luogo dove si trovava sollevò la coperta pesante che lo copriva e sbirciò.

Tirò un sospiro di sollievo e chiuse di nuovo gli occhi.

I suoi boxer neri erano ancora al posto giusto.

Più lentamente riaprì gli occhi e prese a guardarsi intorno con circospezione.

Era steso in un letto ad una piazza (orrore!). Alla sua destra c’erano altri due letti addossati alle pareti grigie. Il pavimento era ricoperto da una sorta di tappetone peloso di uno spiacevole beige. Sui muri erano attaccati una serie di disegni sbilenchi, tracciati evidentemente da mani infantili, e colorati alla meno peggio.

Voltò il capo e per poco non sbatté il naso contro un muro. Dopo aver messo bene a fuoco riuscì a distinguere la macchia di colore di fronte a lui. Era una foto. Nel rovinato rettangolo lucido erano ritratte tre persone. Una donna dai capelli spettinati e scuri, con uno sguardo perso, assieme ad un uomo con occhiaie profonde e cranio rasato. Tra i due sedeva una bambina sui quattro anni, carnagione quasi bianca e capelli castani dritti come spaghetti, era l’unica ad esibire un sorriso convincente.

Distolse lo sguardo dalla foto e perlustrò nuovamente la stanza.

Che non avesse la più pallida idea di dove si trovava era ormai un fatto appurato. Sciolto quel dubbio, doveva rispondere ad un’altra domanda: Come ci era arrivato li? Qualunque fosse quel “li”? I suoi ricordi si fermavano a…

Ripercorse velocemente la sua memoria visiva.

Il sedere a mandolino della hostess fasciato di blu.

I capelli orrendamente cotonati della signora seduta di fronte a lui.

Il corridoio a vetri che aveva attraversato con passo baldanzoso.

Il taxi giallo.

Il suo cervello si fermò con una sgommata.

Vuoto.

Ritornò sull’immagine del taxi giallo e provò a proseguire.

Nulla.

Non ricordava più nulla, e le domande cominciavano ad affollarsi troppo velocemente nella sua testa.

Ad interrompere il suo fiume di quesiti fu una voce sconosciuta. Che parlava anche una lingua sconosciuta. Bill afferrò la parola “Kevin” qualcosa, e poi non riuscì a tradurre nient’altro. Indizio in più… era finito nella casa di qualche newyorkese. La voce che aveva parlato era femminile. Il primo aggettivo che gli venne in mente per definirla fu “densa”. Doveva appartenere ad una donna adulta da quello che riusciva a capire.

Un’altra voce. Qualcuno che rispondeva.

- Oh mum! –

Ok, quello l’aveva capito. “Oh mamma” non era una frase molto difficile da tradurre. La voce che aveva risposto era più acuta. Era sicuramente la voce di un bambino. Impossibile capire esattamente quanti anni avesse, ma di sicuro era piccolo.

La donna ribatté con un’altra frase.

Bill ebbe quasi voglia di afferrare un qualsiasi oggetto contundente e flagellarsi per essere stato così pigro da non aver voluto frequentare uno stupidissimo corso di inglese. Ma prima che potesse trovare l’arma necessaria, uno scalpiccio di piccoli piedi lo distrasse. Sorrise inconsapevolmente. Era una cosa che gli aveva ricordato Tom, così, nello stesso istante in cui aveva sentito il rumore.

Mentre i suoi pensieri si perdevano in ricordi di pomeriggi passati a rincorrersi per casa e scivolate epiche, una sorta di nano irruppe nella stanza, sfrecciando in un punto non ben precisato. Fu tanto veloce che Bill pensò di aver avuto un’allucinazione. Quando però, un secondo dopo, una testolina spettinata spuntò fuori da sotto uno dei letti, sollevando una nuvola di polvere, gli fu evidente che non era stato solo uno scherzo d’immaginazione.

Si puntellò sui gomiti ed osservò il nano indossare un paio di ciabattine blu. I capelli sottili e castani gli spiovevano sugli occhi in una frangetta sfilacciata.

Quando il bambino si alzò e sollevò la testa Bill incrociò due occhi enormi, marrone chiaro. L’esserino di fronte a lui aveva un naso piccolo, leggermente all’insù, che gli donava un qualcosa di simpatico. Poteva avere si e no sei anni.

Bill non riuscì a non sorridergli, così distese il viso gentilmente. Non si ricordava l’ultima volta che aveva sorriso ad un bambino.

Qualcosa però andò storto.

Il bambino spalancò la bocca mostrando i piccoli denti bianchi e cacciò un urlo che quasi gli spettinò i capelli e, Bill ne era certo, distrusse i suoi poveri timpani. Sobbalzò dalla paura.

- THE DEVIL! THE DEVIL!!! –

Il bambino fece un paio di piroette su se stesso, in preda probabilmente al terrore, e poi scappò via, ciabattando come un ossesso.

Ok, anche a Devil ci poteva arrivare.

Il diavolo.

Quella sorta di nano iperattivo l’aveva chiamato Diavolo?

Si guardò intorno con aria disperata.

Ma dove era capitato?!

Era ancora in preda al panico quando nella stanza entrò qualcun’altro. Bill puntò lo sguardo su di lei. O meglio, su di loro.

Sulla porta sostavano tre persone. La prima che notò fu la ragazza. Era alta, magra, con fluenti capelli rossi. Un rosso scuro, purpureo. Aveva un bel viso. Pallido. Tratti regolari. Bocca morbida, dall’incarnato rosa acceso. Ma gli occhi, gli occhi erano forse la cosa più bella. Erano grandi, di un verde luminoso. Tanto luminoso che sembravano rischiarare la stanza. Non ricordava di aver mai visto occhi del genere. Ne rimase aggrappato fin quando il buonsenso o la dignità, non sapeva esattamente quale delle due, gli impose di distogliere lo sguardo.

Dietro la ragazza stava una donna, dalla pelle color cioccolato. Era bassa. I suoi capelli erano corti, e sul viso esibiva diverse rughe. Poteva avere una sessantina d’anni. D’istinto associò la voce che aveva sentito a lei. Si perse per un attimo sul suo grembiule giallo pallido, decorato con un motivo a fiori, prima di notare la ragazzina che le stava accanto. Era abbastanza alta, anche se meno della ragazza, e sottile. Pallida anche lei, lo scrutava con gli occhi scuri, le braccia incrociate come se lo stesse rimproverando. Dei ciuffi disordinati di capelli castani le cadevano lungo le guance e sulla fronte, altri le sfioravano le spalle.

Fu lei la prima a parlare, e disse qualcosa che Bill non capì. Vide la ragazza annuire e dirigersi verso di lui con cautela. Bill studiò i jeans chiari e lacerati in più punti che indossava, appena sotto la canotta nera con una scritta bianca sul petto.

Nirvana

Dov’era che li aveva già sentiti?

- Hi… - la voce della ragazza era bassa. Incerta. Si chinò un poco su di lui, studiandolo con quegli occhi disarmanti.

- Hello… - rispose Bill. Notò quanto il suo accento fosse stato marcato rispetto a quello di lei.

- Do you speak english? – chiese la ragazza.

Fortuna che a scuola li facevano esercitare sempre con quelle frasi pre scoperta dei neuroni.

- Ehm… Not very well… - rispose. Ma lei doveva averlo già capito da sola per il cenno d’intesa che lanciò alla donna e alla bambina sulla porta.

- Where are you from? – domandò con voce più rilassata la ragazza.

- I come from Deutschland – rispose.

La ragazza sorrise, senza scoprire i denti. Un sorriso dolce.

- Possiamo parlare la tua lingua se vuoi –

Bill sorrise come un ebete.

Parlava tedesco! Parlava tedesco!!!

Si sarebbe messo a ballare la conga in mezzo alla stanza se avesse avuto addosso i vestiti.

- Si! – esclamò entusiasta.

La ragazza fece di nuovo quel sorriso particolare.

- Come ti senti? – chiese.

Bill trovò improvvisamente difficile collegare pensieri elementari.

- Bill – rispose.

La ragazza lo guardò perplessa, qualcuno scoppiò a ridere. Bill si voltò verso le altre due persone sulla porta. La ragazzina stava ridendo, coprendosi la bocca con una mano. La donna lo guardò comprensiva, poi si avvicinò a loro. Disse qualcosa in inglese alla ragazza, posandole una mano sulla spalla, che lui naturalmente non capì. Ma ormai poteva dire di averci fatto l’abitudine. Lei annuì.

- Ti chiami Bill? E come ti senti? – chiese di nuovo lentamente.

Bill si sentì una lumaca marina. Probabilmente arrossì, e di sicuro boccheggiò.

Per quale motivo prima aveva risposto Bill?

La sua mente funzionava al contrario. Aveva di nuovo ragione Tom.

- Aehm… bene? – rispose incerto.

Dove cazzo sei finita logorrea?!

La ragazza sembrava ormai convinta di avere a che fare con un ritardato mentale, infatti gli regalò un altro sguardo compassionevole.

- Hai dormito tanto. Ieri notte ti abbiamo trovato in strada, non eri messo molto bene. Ti abbiamo portato qui e abbiamo cercato di curarti alla meno peggio – spiegò.

Lui rispose con un silenzio attonito.

Come ci era finito in mezzo alla strada? E “non eri messo molto bene” cosa significava esattamente?

- Come mai ti hanno picchiato? – chiese la ragazza.

Picchiato?!

Quando? Dove? Perché?

Sgranò gli occhi.

- Picchiato?! – esclamò.

La ragazza annuì tranquillamente, come se stessero parlando dei cambiamenti climatici della settimana passata.

- Perché?! – chiese.

Lei alzò le spalle.

- Io non lo so… per questo lo chiedevo a te – disse, come se fosse una cosa ovvia.

Beh, in effetti era abbastanza ovvia…

- Non lo so nemmeno io… non mi ricordo niente… - rispose.

Lei si voltò spiazzata verso la donna accanto, e le disse qualcosa, in tono concitato. La donna non sembrò particolarmente preoccupata.

- Va bene. Allora, adesso se te la senti puoi farti una doccia e vestirti, poi quando sarai pronto ne parleremo di nuovo, ok? – disse la ragazza.

Lui annuì.

Doccia.

Parolina magica.

- Ok – rispose.

La ragazza parlottò con la donna e si rivolse anche alla ragazzina. Le due uscirono dalla stanza.

- Il bagno è appena fuori da qui, oltre la porta alla tua destra. Li dentro troverai i vestiti e tutto quello che ti serve. Ci sei? – disse poi a lui.

Bill si sentì appena infastidito.

Ci sei?

Con chi credeva di avere a che fare?

- Si – rispose alzando le sopracciglia.

- Ti aspettiamo di la allora –

La ragazza uscì dalla stanza, con passo silenzioso.

Il Tom dentro di lui urlò “beeeel culooo”, ma Bill lo soffocò puntando lo sguardo sul soffitto.

La sua mente si svuotò per un minuto buono.

Si sedette sul bordo del letto e poi si sollevò cautamente.

Lo sguardo gli cadde automaticamente sul petto glabro.

Arrossì per la seconda volta, pensando alla ragazza dai capelli rossi che vagava per le stanza sconosciute di quella casa.

Lui in mutande non sarebbe andato da nessuna parte.

Afferrò il lenzuolo e lo tirò verso di se fino a sfilarlo dal materasso, poi se lo arrotolò attorno a mo’ di toga romana.

In quell’istante una testolina castana spuntò oltre lo stipite della porta.

Di nuovo il nano iperattivo.

Bill gli fece una linguaccia.

Si aspettava di vederlo cominciare a piangere impaurito.

Invece il demonietto iniziò a ridere come un pazzo.

Perfetto.

Somma degli avvenimenti.

Non si ricordava di essere stato pestato a sangue.

Durante la conversazione con la ragazza era passato da dolce-ragazzo-indifeso-trovato-per-strada-da-accudire a lumaca marina, per poi arrivare a ragazzo-ritardato-da-compatire.

Un bambino imparentato con Il Maligno si faceva beffe di lui.

Oh si… i buoni ingredienti per una vacanza con i fiocchi c’erano tutti.

 

 

Razza di deficiente, rincoglionito, egoista, narcisista, stronzo, strafottente, effeminato, viziato pezzo di…

I teneri aggettivi da dedicare alla parte del suo sangue che si trovava oltreoceano erano molti. Soprattutto considerando che a dedicarli era Tom Kaulitz, che in quanto a teneri aggettivi se ne intendeva parecchio.

Ma ad interrompere il suo inveire mentale contro il fratello che non rispondeva dall’altro lato del telefono, fu qualcuno che bussò alla porta del bagno. Tom spense di corsa il cellulare, lo infilò in tasca ed aprì la tenda della doccia. Non sapeva perché si era nascosto nella doccia e aveva chiuso la tenda, in un primo momento gli era sembrata una buona idea. Tirò lo scarico e poi attese giusto un paio di secondi prima di aprire.

Appena spalancò la porta qualcuno lo spostò di lato con mal grazia. Tom squadrò la persona che non era ancora riuscito a mettere a fuoco con espressione sconcertata.

Georg. Con un beauty in una mano e una piastra per capelli nell’altra.

Georg che cominciava ad aprire gli armadietti del bagno.

Georg che prendeva il suo spazzolino e il suo dentifricio e li spostava per fare spazio ai propri. Georg che conservava la piastra per capelli nell’armadietto.

Georg che si guardava allo specchio sventolando i capelli.

Georg che gli passava davanti con un sorriso compiaciuto e gli dava una pacca sulla spalla per poi uscire dal suo bagno, senza portarsi indietro beauty e lo strano aggeggio torturatore.

Tom fissò le piastrelle azzurre davanti a lui il tempo necessario per mettere insieme tutti i fotogrammi.

Uscì dal bagno di gran carriera ed inseguì il bassista che stava scendendo le scale.

- Ehiehiehi… che cazzo fai? – gli chiese trotterellando giù dai gradini per raggiungerlo. I pantaloni gli calarono oltre il livello critico e li sollevò appena, giusto per evitare spiacevoli inconvenienti come finire lungo e tirento per terra.

Georg a malapena si voltò verso di lui, continuando ad aggirarsi da padrone per le stanze della casa. Della sua casa.

Tom riuscì a riacchiapparlo solo quando il bassista entrò nel salone e si buttò sul divano. Seduto accanto a lui, i piedi sul tavolino di vetro di fronte alla tv, c’era Gustav, con un pacco di patatine in mano. Le offrì al compagno appena arrivato, senza staccare lo sguardo dallo schermo.

Tom si guardò intorno. Ok, da un momento all’altro avrebbe assistito all’entrata in scena di Elton John, possibilmente seguito da un pianoforte a coda, a braccetto con Lou Reed, e magari entrambi avrebbero intonato Yellow Submarine volteggiando per la stanza con piedini di fata.

Si parò davanti allo schermo ed incrociò le braccia.

Georg e Gustav allungarono il collo, tentando di continuare la visione.

- Scusa Tom, potresti spostarti un attimo? Questa è proprio la scena clou! – esclamò Gustav insofferente.

Tom strabuzzò gli occhi. Poi sorrise affabilmente e spense il televisore dal bottone.

Georg e Gustav lo guardarono seri.

- Hai appena interrotto Fight Club, nell’esatto momento in cui il protagonista scopre che Brad Pitt non è altro che un frutto della sua mente – disse Gustav. Dal tono che aveva usato sembrava stesse recitando un’omelia.

- La scena dove si scopava la Bonham Carter è già passata? – chiese Georg ignorando del tutto Tom. Gustav si voltò verso di lui con sguardo malinconico.

- No, stava per arrivare – rispose affranto.

Georg lo fissò con fare accusatorio.

- Tu! Miscredente! Come hai osato?! –

Forse era il momento di mettersi le mani nei capelli. Considerando da quanto non se li lavava però, non era un’operazione consigliabile.

- State zitti per un cazzo di secondo gentilmente?! – disse alzando la voce improvvisamente.

I due tacquero.

Oh… finalmente.

- Dunque, avrei poche e semplici domande. Cosa ci fate voi due, stesi sul mio divano, alle dieci di sera, a guardare la tv? Sono stato nel cesso solo un quarto d’ora e vorrei capire esattamente cosa è cambiato nel frattempo – disse con tono isterico.

Gustav e Georg si guardarono.

- Innanzitutto è mezz’ora che sei chiuso in quel cesso, e nonostante tutti e tre sappiamo bene in quali attività ti stessi dilettando – Gustav ghignò assieme a Georg – faremo finta di non aver capito nulla. Ci rendiamo conto che la situazione è difficile, si possono avere dei momenti di debolezza –

- Già, peccato che il suo dura da diciannove anni… ma ti vogliamo bene per quello che sei Tom – intervenne Georg.

- No ragazzi, per favore, così mi toccherà trattenermi dal ridere – disse Tom sarcasticamente – Non avete ancora risposto – aggiunse poi con fare minaccioso.

- David ha detto che dobbiamo starti vicino. E tua madre si è trovata perfettamente d’accordo. Ergo ci trasferiremo qui fin quando tuo fratello non si degnerà di tornare dal suo safari  o quello che è – rispose Gustav lapidario.

Oh, ce lo manderei volentieri in un safari. Possibilmente munito unicamente di uno stuzzicadenti e un perizoma zebrato.

Tom si riscosse dal pensiero di Bill inseguito per la savana da un branco di leonesse bavose non appena il significato di ciò che aveva detto Gustav gli apparve completo.

- C-che cosa? – balbettò. Era certo di aver sentito il suo occhio destro contrarsi un paio di volte.

- Hai capito. Ci siamo messi nella stanza di Bill. Così ora se avrai bisogno di una spalla su cui piangere la fuga del tuo amato fratello, troverai noi sempre disponibili – disse Gustav.

- Due per uno, offerta speciale – tuonò Georg con entusiasmo.

- Fantastico… ora… vado… di la… - a porre fine alla mia esistenza lasciandomi annegare nell’acqua del cesso.

Gustav fece ciao con la manina.

Tom abbandonò la stanza in stato semi-comatoso.

Mancavano giusto Georg e Gustav. Fantastico. Il disegno machiavellico di Bill era stato studiato nei minimi particolari. Mancava solo David. Chissà magari un giorno si sarebbe svegliato e l’avrebbe trovato in cucina, a mangiare biscotti nella sua tazza preferita.

Ritornò nell’unico luogo protetto che conosceva: il bagno.

Si rintanò di nuovo nella doccia e chiuse la tenda.

Suo fratello avrebbe dovuto pagargli i danni morali per tutto quello che gli stava facendo passare. Ed era solo il… primo giorno?

Tom prese a saltellare nella doccia digrignando i denti.

- CAZZOOOOOOOOOOOOOOO -  urlò con tutta la forza che aveva in corpo, prendendo a pugni le mattonelle davanti a lui.

Perché era suo fratello?

Fanculo Bill.

Chissà, magari gli sarebbero fischiate le orecchie, si sarebbe ricordato di chiamarlo.

- Tesoro, c’è qualcosa che non va? –

Tom puntò lo sguardo contro la tenda, nella direzione in cui sapeva che si trovava la porta.

- No, nulla mamma, tutto ok – rispose.

Solo un paio di problemini.

Tipo metà della band dei Tokio Hotel che si trovava spalmata sul divano del salone, e un fratello che si era volatilizzato non appena aveva messo piede negli Stati Uniti.

Questione di routine insomma.

 

***

 

 

Note di Phan: spero davvero che questo capitolo vi piaccia ^^. Cominciamo ad entrare nella storia vera e propria e continuiamo a seguire Tom. Fatemi sapere se questa impostazione vi piace, altrimenti, prontissima a cambiarla *_^. Baci.

 

Vitto_LF : non preoccuparti per la confusione xD. Anche se per un attimo mi hai mandata nel panico perchè non riuscivo a capire di cosa stessi parlando :D. Kisses

dark_irina : ^^ grazie dei tuoi complimenti. Devo ammettere che a scrivere il quinto capitolo mi sono divertita parecchio, strapazzare Bill dovrebbe diventare uno sport riconosciuto. Un bacione.

_PuCiA_ : ma beeenvenutaaa, una nuova lettrice non può che farmi piacere. Davvero grazie per i tuoi complimenti, ed anche per la tua descrizione di un background ideale! Molto molto bella. Mi piace la tua visione!

EtErNaL_DrEaMEr : Si, si, Bill se la caverà, eccome xD. Ho delle belle sorprese in serbo per lui. La maglietta ci andava tutta *_* me lo sono proprio immaginato. Grazie anche a te. Un bacione.

loryherm : Michael è un casinista patentato, uhm... cosa non combinerà xD penso che prima o poi lo odierete, anche se è un personaggio complicato, e quindi è una cosa molto soggettiva. Vabè, divago. Contentissima che ti sia divertita ^^. Grazie. Un bacio.

pervancablue : la tua recensione mi ha messo addosso un senso d'urgenza che nemmeno t'immagini xD. ^^ i dubbi amletici di Tom sono il mio pane, mi sembra proprio il tipo da dubbi amletici xD. Bacioni.

bluebutterfly : caraaa, grazie *_^. Scusami il ritardo, ma non riesco ad aggiornare più di una volta a settimana q_q. Dannata scuola e dannata me. Bill verrà strapazzato a dovere xD. Un bacio.

GodFather : ma tesorrrr. ^^ ahahahah mi hai fatta morire. Vedrò di procurarti un appuntamento nel bagno, visto che Tom sembra trovarlo tanto... confortevole. Un bacione ostrichetta.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Una strana famiglia e un paio di boxer ***


Dopo essere riuscito a lavarsi in una sorta di buco dieci centimetri per dieci, con un getto d’acqua della portata di un rivolo, Bill si trascinò al lavandino ed osservò la sua immagine riflessa nello specchio quadrato. Prima non aveva avuto il coraggio di farlo. Pulì il vetro con una mano e sobbalzò alla vista del grosso livido violaceo che gli si allargava sotto l’occhio. Solo un’altra volta nella sua vita aveva avuto un livido del genere: in seconda elementare, quando ancora non aveva imparato che correre più veloce era l’unica cosa sensata da fare in certi casi.

Tastò piano il labbro e il sopracciglio. Sulle ferite si erano formate delle croste che avevano del raccapricciante, circondate da uno strano alone di colore arancione fosforescente. Non voleva nemmeno sapere di cosa si trattava.

Cercò con lo sguardo i vestiti di cui aveva parlato la ragazza e li trovò su di uno sgabello appena sotto il lavandino. Quel bagno era veramente minuscolo. Aveva le dimensioni di un armadio. Anzi, forse il suo armadio era un tantino più grande. Indossò i jeans scoloriti e la maglietta verde infelice. Si guardò nuovamente nello specchio e sospirò, cercando di non pensare ai ruvidi boxer a righe che indossava sotto i jeans. I capelli gli cadevano sulle spalle flosci, ed ancora umidi. Non aveva trovato il phon da nessuna parte.

Uscì dal bagno con le sue mutande nascoste in tasca e cercò di trovare il “di la” a cui aveva accennato la ragazza. Si trovava in un corridoio abbastanza stretto, ricoperto da carta da parati a fiori rosa e panna. Alle pareti erano appesi diversi quadri di dubbio gusto, estremamente deprimenti, ed alcune foto. Di fronte a lui il corridoio finiva in una porta chiusa, mentre appena alle sue spalle c’erano altre tre porte, chiuse anche quelle. Si diresse verso l’unico uscio aperto, dal quale proveniva un brusio sommesso ed arrivava la luce del sole, proiettata per terra, sul parquet.

Esitò un istante prima di sorpassare la porta.

Il brusio si interruppe istantaneamente. Sei teste si voltarono verso di lui. Dodici occhi lo squadrarono. Dalle punte dei capelli alle punte dei piedi.

Di certo se l’intenzione era di metterlo a suo agio, quello non era il modo più idoneo per farlo.

Avvertì l’impellente esigenza di avere tra le mani una pala, per scavarsi un buco e franarci dentro.

Quindicimila ragazze rispetto a quelle sei persone… erano nulla.

 

 

Alex si accorse con un secondo di ritardo dell’increscioso silenzio che era calato sulla tavolata. Si alzò precipitosamente schiarendosi la voce e si rivolse allo sconosciuto. Michael e Joanne sembrarono afferrare il messaggio e diressero lo sguardo altrove, mentre i bambini continuarono a rimirare il ragazzo immobile sulla porta, con occhi avidi e curiosi.

- Eccoti. – disse avvicinandosi a lui – Vieni, puoi sederti qui – disse guidandolo al posto vuoto vicino a lei, ad un angolo del tavolo.

- Smettetela di fissare voi, non è buona educazione – disse Joanne dal capo della tavola, rivolgendosi ai bambini. Zachary continuò a fissare lo sconosciuto come se fosse un giocattolo, e Kevin abbassò appena la testa, lanciando sguardi inquisitori ad intermittenza. L’unico ad ubbidire fu Samuel, che riprese a mangiare come nulla fosse.

- Come si sente? – chiese Joanne rivolgendosi a lei, con la chiara intenzione di porre la domanda al ragazzo.

- Come ti senti? – chiese Alex a lui, che era seduto sulla sedia come in attesa di salire sul patibolo. Sembrava sinceramente atterrito, e ad Alex dispiacque. Sapeva che non erano esattamente quella che poteva definirsi “famiglia normale”, o “famiglia convenzionale”, come preferiva chiamarli Joanne.

- Bene… mi fa un po’ male la testa… - rispose raddrizzando la schiena.

Lo osservò per un attimo. Era… strano. Forse a donargli quell’aria spaesata era la situazione. Sembrava sgranasse i grandi occhi nocciola in continuazione, guardandosi intorno. Aveva un viso dai tratti molto delicati, quasi femminili, ma l’insieme lo rendeva attraente, anche con le ferite sul viso e quei vestiti forse un po’ troppo larghi per lui.

Michael tossì un paio di volte. Dannazione, di nuovo quel silenzio.

- Ehm… dunque… Io, sono Alex - stava balbettando o cosa? – Loro sono… Michael – disse indicando l’amico, seduto alla sua destra – Joanne – la donna abbassò appena il capo con un sorriso dolce – Zachary – il bambino continuò a roteare il cucchiaio nel suo piattino di plastica sparpagliando pastina sulla tovaglia, senza prestare loro attenzione – Kevin, che hai già avuto modo di conoscere – Kevin sollevò appena la testa – e Samuel – terminò indicando il bambino di fronte a lui, che lo osservava serio.

- E lui è Bill – aggiunse rivolgendosi agli altri.

In quel mentre nella stanza entrò Charlie, con tra le braccia un numero indefinito di aeroplanini di carta.

- E lei è Charlie –

La ragazzina squadrò il giovane con sufficienza e poi andò a sedersi dall’altro capo della tavola, abbandonando gli aeroplanini sul tavolo.

- Cosa stai facendo? – chiese Michael perplesso.

Charlie nemmeno sollevò lo sguardo.

- Sto ricomponendo il mio libro di algebra… anche se a quanto pare ho appena perso pagina 25 – rispose laconica – Ah, a proposito, non è che uno di voi tre per caso sa chi è stato a dilettarsi nel costruire questi graziosi giochini? Così saprò a chi… staccare le orecchie a morsi! – sbottò rivolgendosi ai bambini. Nessuno rispose.

- Ah bene, non accalcatevi – sibilò la ragazzina disfacendo il terzo aeroplano.

Alex scosse la testa e si rivolse al giovane, che evidentemente stava tentando di seguire la conversazione con scarsi risultati.

- Non è successo nulla, non ti preoccupare. Hai qualche domanda da farci? – disse.

Lui annuì.

- Dove sono i miei bagagli? – chiese.

- Non ne avevi quando ti abbiamo trovato… penso che te li abbiano rubati. Noi abbiamo trovato solo te… - rispose dispiaciuta.

Lui sbiancò.

- Ehi, stai tranquillo. Per i documenti possiamo andare in ambasciata quando vuoi, ti accompagneremo io e Michael – disse in fretta.

Il ragazzo scosse la testa con forza.

- No, no… Non posso andare in ambasciata… - disse con tono ansioso.

Alex aggrottò la fronte.

- Perché? – chiese.

- Non posso… - rispose di nuovo lui.

- Ma senza documenti non puoi restare qui… - disse lei confusa.

- Non ti preoccupare, il tempo di riprendermi e mi toglierò dalle scatole –

- Non intendevo qui da noi, intendevo qui negli Stati Uniti… -

Bill ammutolì.

- Cosa succede? – chiese Michael sporgendosi in avanti.

Alex incrociò lo sguardo del ragazzo. Sembrava implorarla di non rispondere. Doveva aver capito il tenore della domanda.

- Nulla – disse lei all’amico - Ne riparliamo più tardi – aggiunse lanciando un’occhiata eloquente a Bill. Lui annuì appena.

- A me sembra un po’ tardo, no? – chiese all’improvviso Charlie guardando con insistenza Bill, che guardò Alex con espressione interrogativa. Lei agitò appena la mano e scosse la testa.

- Niente… - disse sorridendogli.

- Charlie metti la lingua in mezzo ai denti e stringi forte – disse Joanne aiutando Zachary ad infilare un cucchiaio di pastina in bocca.

- Io mi trovo d’accordo con lei… - disse Michael, prendendo anche lui ad osservare Bill.

- Lo stesso discorso vale per te Michael – lo fulminò Joanne.

- Quando la libertà di parola tornerà di moda in questa casa, fatemi un fischio – replicò Charlie. Dopodiché raccolse gli aeroplanini restanti e si alzò – E lo so che sei stato tu, Kevin – disse prima di abbandonare la stanza. Il bambino arrossì.

- Non è vero! – esclamò. Ma non arrivò nessuna risposta.

 

 

Bill si abbandonò a sedere sul letto. Gli scoppiava la testa.

Non si era mai sentito tanto a disagio in vita sua.

I suoi bagagli e i suoi documenti rubati… ancora stentava a credere di essere piombato in un casino di quelle dimensioni. Si trovava negli Stati Uniti, da clandestino, e la sua sopravvivenza dipendeva unicamente da quella strana accozzaglia di individui di varie etnie, specificamente da Alex.

Alex… stranissimo nome per una ragazza. Non aveva mai conosciuto una Alex.

Ripensò al pranzo.

A Michael, il ragazzo dal viso bianco, gli occhi verdi, chiari, ma non luminosi quanto quelli di Alex, più spenti. I capelli scuri e disordinati, il sorriso strafottente che aveva fatto quando gli era stato presentato. A Joanne, che gli ricordava tanto una nonna, ma che i bambini più piccoli chiamavano mamma. A Zachary, che poteva avere un paio d’anni, mulatto, con quella quantità assurda di riccissimi capelli attorno al capo, gli occhi enormi. Al nano iperattivo, che si chiamava Kevin dunque, e che a tavola continuava ad osservarlo di sottecchi. A Samuel, il bambino più grande, nove anni o giù di li, che stava composto a tavola, capelli ricci e corti e pelle scura. A Charlie, la ragazzina che l’aveva guardato come fosse una macchia marrognola su una maglietta. Ad Alex… a cui doveva spiegare perché non voleva andare all’ambasciata.

Ambasciata… Tom.

Tom!!!

Scattò in piedi come una molla.

Tom! Non aveva chiamato Tom!

Infilò le mani nei capelli ancora umidi.

Oddio…

Uscì dalla stanza e si guardò intorno. Nel corridoio non c’era nessuno. Entrò in cucina e trovò Joanne intenta a lavare i piatti, mentre Michael era affacciato alla finestra accanto al piano cottura, a fumare una sigaretta. Samuel stava disegnando sul tavolo, e ai suoi piedi Kevin e Zachary giocavano con degli strani pupazzi. Naturalmente Alex non c’era.

Si avvicinò con cautela alla donna e le picchiettò due dita sulla spalla. Lei si voltò con un sorriso gentile. Anche Michael e i bambini lo guardarono, ma non con la stessa espressione. Michael soffiò il fumo verso di lui, squadrandolo.

- I’m sorry… Where is Alex? – chiese titubante. La donna annuì, poi lo prese per un braccio e lo accompagnò nel corridoio, indicandogli la porta chiusa in fondo.

- Thanks – disse Bill. Lei agitò una mano e tornò in cucina.

Arrivato alla porta bussò cautamente.

Alex la aprì un attimo dopo. Gli sorrise.

E’ proprio gnocca… sussurrò Tom nel suo orecchio.

Bill scosse la testa cercando di scacciare la petulante voce immaginaria di Tom, prima di rendersi conto che davanti a lui c’era Alex, che stava attendendo di sapere perché un metro e ottanta di pura idiozia avesse bussato alla sua porta.

Perfetto… da ragazzo-ritardato-da-compatire era passato a ragazzo-psicolabile-di-cui-avere-paura.

- Scusami… volevo chiederti un favore – disse cercando di riacquistare un minimo di dignità.

- Prego, entra pure – annuì lei facendolo accomodare nella stanza. Bill entrò tentando di esibire un sorriso convincente.

La stanza della ragazza era un po’ più piccola rispetto a quella dove si era svegliato lui. Le pareti erano azzurre, e a terra c’era un tappeto sottile, blu. Alla sua destra, addossato alla parete, c’era un letto coperto da un piumone giallo ocra, su cui erano appoggiati dei cuscini blu. Davanti a lui c’era una scrivania, incassata in una libreria stracolma di tomi di varia dimensione e colore. La sedia era scostata dalla scrivania, e sul piano in legno chiaro era aperto un libro, vicino ad una lampadina arancione. A sinistra c’era l’armadio, anche quello di legno chiaro, e un appendiabiti su cui erano stati appoggiati un paio di giubbotti e diverse borse. Le pareti erano coperte da vari poster, alcuni fogli, e dei disegni. Nell’angolo all’estrema sinistra c’era uno stereo, appoggiato a terra, sul quale erano impilati una serie di cd.

- Bella stanza… - disse spontaneamente.

- Grazie – rispose lei dirigendosi alla scrivania e chiudendo il libro che evidentemente stava leggendo pochi attimi prima che lui la interrompesse.

- Volevo chiederti se… - per caso hai un telefono con il quale chiamare il mio fratello gemello che si trova oltreoceano, per dirgli che sono arrivato qui, che mi hanno rubato tutti i bagagli assieme a circa millecinquecento euro ed un cellulare, e che sono stato malmenato per poi venire abbandonato in strada ed essere soccorso da una rossa che gli piacerebbe conoscere – hai un phon… - disse troncando nella sua mente la domanda che avrebbe dovuto fare.

- Oh scusami! – esclamò lei portandosi una mano alla fronte – non mi sono ricordata che ti sarebbe servito… - disse aprendo l’armadio e infilando una mano nel primo cassetto che trovò. Ne estrasse un phon nero e glielo porse – Ecco, dovrai asciugarti i capelli qui, perché purtroppo nel bagno non abbiamo una presa di corrente… sai, per via dei bambini abbiamo preferito toglierla… - disse indicandogli una presa di corrente che si trovava accanto al letto.

- Non voglio disturbarti… non c’è un altro posto? – disse Bill. L’idea di asciugarsi i capelli di fronte a quella ragazza lo imbarazzava.

Lei sorrise.

- Oh beh, se vuoi puoi asciugarteli in camera di Charlie, ma non penso ti aprirà. Avesse dei cani te li scatenerebbe contro. Oppure puoi optare per il corridoio, ma di solito Zachary e Kevin a quest’ora lo usano per le gare con le macchinine… E comunque, non è un disturbo. Puoi fare quello che vuoi… - disse.

Io avrei un paio di idee… la voce di Tom irruppe di nuovo, maleducatamente, nei suoi pensieri. Bill nascose la stizza con un cenno d’assenso e un sorriso.

- Credo che li asciugherò qui – rispose attaccando la spina e accendendo l’apparecchio. Alex non gli prestò molta attenzione, si risedette alla scrivania e riprese a leggere il suo libro. Bill gli fu immensamente grato.

Quando finì non osò tastarsi i capelli. Probabilmente doveva sembrare un leone, ma non desiderava prenderne coscienza.

- Ecco qui, grazie – disse posando il phon sulla scrivania. La ragazza sussultò, come se si fosse resa conto solo in quel momento della sua presenza.

- Scusami… - disse con una risatina – quando leggo entro in estasi. Dicevi? –

- Ho finito – rispose Bill con un sorriso.

- Ah perfetto… - la ragazza ripose nuovamente l’apparecchio nell’armadio, e Bill si avviò verso la porta il più veloce che poté.

- Un attimo Bill, non così in fretta – disse alle sue spalle Alex, un istante prima che lui posasse la mano sulla maniglia. Bill si voltò. Colto in flagrante.

- Non abbiamo finito il discorso prima – Alex incrociò le braccia, ma la sua espressione non cambiò. Non sembrava preoccupata, arrabbiata, o turbata, aveva un’espressione distesa, tranquilla. Gli occhi però non lo erano, non altrettanto almeno. C’era qualcosa che le saettava nelle pupille. Qualcosa che Bill con il tempo avrebbe forse cominciato a capire, ma che in quel momento lo costrinse a restare. Qualcosa che pochi istanti dopo l’avrebbe costretto a dire la verità.

- Perché non vuoi andare all’ambasciata? – la domanda gli venne posta in modo diretto, pulito, senza troppi giri di parole. Bill non era abituato a quel modo di parlare. Le persone che gli stavano attorno di solito, ad eccezione di Tom, Gustav e Georg, arrivavano al punto in modo contorto, per non irritarlo, sprecavano frasi su frasi per evitargli qualsiasi tipo di “trauma”. Alex decisamente non era il tipo. Si vedeva dal modo in cui lo guardava, mentre attendeva la risposta.

- Vediamo… se ti dicessi che… ci sono delle persone, delle persone che… non devono assolutamente sapere che sono qui… - cominciò, torturandosi le mani.

Stava dicendo la verità!

- Delle persone da cui sei scappato? – chiese Alex. Altra domanda diretta.

- Si… si può dire anche così – rispose Bill. La ragazza inclinò la testa di lato, una ciocca di capelli rossi le scivolò dal collo e le percorse il braccio, fino ad adagiarsi sul gomito.

- Se io andassi all’ambasciata, queste persone scoprirebbero dove sono… e… verrebbero a prendermi… Dovrei tornare da dove sono venuto… E non… - continuò.

- Non vuoi tornare… - terminò per lui Alex.

Bill scosse la testa.

Aveva detto tutto… certo, tralasciando particolari come “Sono una rockstar di fama internazionale” e “Con il mio stipendio potrei comprarmi una Cadillac come quella di mio fratello”, ma era stato sincero.

- Ok Bill… volevo solo sapere il perché. Tutto qui. E non ti costringerò a far nulla… però se per caso ti dovessero scoprire, vorrei che non ci andasse di mezzo la mia famiglia… cioè le persone con cui hai pranzato oggi – disse con tono pacato la ragazza, avvicinandosi.

- Non ti preoccupare. Non succederà – rispose lui.

- Bene. – Alex sorrise, di nuovo, con le labbra chiuse – Benvenuto negli Stati Uniti allora –

- Grazie – disse Bill ridendo sommessamente.

- Magari più tardi vediamo di procurarti dei vestiti più decenti. Chiederò a Michael… - Alex posò gli occhi sulla maglietta stinta e rilasciata che indossava.

- Ti ringrazio, mi sdebiterò appena possibile – Bill smise di torcersi le mani. Finalmente si sentiva a suo agio.

Alex rise tra se e se, quasi con una punta di amarezza.

- Non credo che ce ne sarà bisogno – disse, e Bill non capì.

- Ok, vado di la… sono ancora un po’… intontito - si voltò ed aprì la porta.

- Forse è meglio che ti riposi ancora. Nel caso dovessi addormentarti darò voce a Joanne di svegliarti per la cena. – disse la ragazza – Io stasera non ci sarò, lavoro – aggiunse poi.

Bill si sentì sprofondare in un baratro di inquietudine.

- Non ti preoccupare, Joanne è un tipo pratico, troverai il modo per comunicare con lei – si affrettò a dire la ragazza.

- Ah, ok. Ciao, allora –

- Ciao Bill –

Bill chiuse la porta dietro di se ed alzò gli occhi al cielo.

Come prima conversazione vera e propria non era andata malissimo.

Quando mai si era dovuto preoccupare di quello che doveva dire… avere a che fare con una folla di fan adoranti era più facile di quanto avesse sempre pensato.

 

 

Alex osservò ancora per un minuto la porta ormai chiusa, mordicchiandosi il labbro pensierosa.

Che tipo strano… beh, non tantissimo in effetti. Convivere con Michael le aveva insegnato cos’era l’autentica “stranezza”. Vedere l’amico che si era steso su un cornicione all’ottavo piano di un palazzo, quello era stato strano. Oppure essersi fatta convincere a lanciarsi in una corsa giù dalla discesa della 5th Avenue in un carrello della spesa, quello era stato strano. Bill era forse… misterioso. Non esattamente strano. Anche se qualcosa di strano, nello smalto nero un po’ rovinato che portava sulle mani come fosse una cosa naturale, e nelle meches bionde che aveva, forse c’era. Scosse la testa e ritornò alla sua scrivania. Dopotutto la stranezza era una cosa molto soggettiva.

Si era appena immersa nuovamente nel capitolo undici di Orgoglio e Pregiudizio, quando qualcuno entrò nella sua stanza senza bussare. L’unica persona che lo faceva aveva ventun’anni, occhi verdi, e si chiamava… Michael.

Alex si voltò. L’amico aveva la mano ancora appoggiata sulla maniglia della porta e stava per chiuderla dietro di se. Indossava il giaccone, stava uscendo a quanto pareva.

- Ex io vado, ci vediamo stasera ok? – disse dandole un bacio sui capelli. Poi si infilò le mani in tasca e fece la solita espressione. L’espressione che precedeva sempre la stessa domanda – Hai qualche soldo da prestarmi? –

No! Non ho soldi da prestarti Michael! Vattene!  

Alex infilò una mano nei jeans ed estrasse due banconote da dieci.

- Tieni… - disse senza guardarlo, lasciandoli sulla scrivania. Michael li prese senza esitare.

- Ci vediamo stasera, magari passo dal bar… non lo so – disse voltando le spalle e allontanandosi.

- Ok. Ah, Michael, dovresti procurarmi dei vestiti per Bill. Dei vestiti decenti però… e anche della biancheria probabilmente – rispose lei senza sollevare il capo.

Sentì Michael inchiodarsi a metà strada.

- Però… avete bruciato le tappe eh? – chiese con sarcasmo.

Alex si voltò e fece per rispondere a dovere.

Ma prima che potesse aprire bocca qualcosa di nero le cadde sulle ginocchia e il ragazzo uscì dalla stanza chiudendo la porta dietro di se.

Alex sollevò la stoffa scura apparentemente elasticizzata davanti a se.

Non appena si rese conto di cosa aveva in mano mollò la presa e si alzò.

Per terra, ai piedi della sedia, c’erano i boxer di Bill.

Michael entrò di nuovo nella stanza, un sorriso perfido disegnato sul viso.

- Troverò quei vestiti… - disse. Poi la osservò meditabondo – Non ti facevo così intraprendente comunque! Buono a sapersi! –

I boxer attraversarono la stanza in volo, mirando al capo del ragazzo, che sgusciò via all’ultimo secondo.

Alex si lasciò cadere sulla sedia con un sorriso e riprese a leggere il suo libro, pensando che il “lancio del boxer” sarebbe dovuto diventare uno sport nazionale.

 

***

 

 

Note di Phan: questo capitolo era un po' più lungo del solito, la seconda parte la posterò in seguito, anche perché non è completo! Spero vi sia piaciuto ^^

pervancablue: sono contenta che tu ti sia divertita ^^.

bluebutterfly: caraa, ^^ visto? Ho postato prima stavolta eheh. Complice il primo giorno delle vacanze di pasqua. Il Tom che è in Bill.. si, riserverà delle sorprese muahahah. Grazie. Trovo che tu scriva bene,e sono curiosa di come si evolverà la storia... mi intriga si la tua ff. Sai che sono sempre qui per quando hai bisogno xD. Baci.

Vitto_LF: e magari che queste vacanze mi concederanno la possibilità di cominciare a leggere una delle tue ff (visto che sono diverse). Quale mi consigli? Per cominciare? Anche io amo quel bambino *_* lo adoro. Ahahah povero Bill. *_^ un bacione

dark_irina: annegherete entrambi nel cesso? Chi lo sa! Sarebbe un bel colpo di scena sicuramente. Sono contentissima di averti risollevata *_*. Grazie per i complimenti stupendi. Nono, Bill non si dimenticherà di Tom, non temere! Può darsi che le tue ipotesi siano fondate, chi lo sa ;)

EtErNaL_DrEaMEr: Grazie. Anche io propongo di rinfrescare la mente di Bill.. chissà magari utilizzerò Alex per quest'opera benefica. Non vedo l'ora di postare la seconda parte del capitolo xD. Io questi ragazzi li sto distruggendo. Bacioni.

FuckedUpGirl: Biaaa tesorooooo ^^. Pensavo di avervelo detto che c'ero anche qui *me si guarda intorno* ok... sto perdendo colpi. Grazie ancora (non sono riuscita a trovare un nick decente, e avevo la finestra del forum delle ff aperta... ho detto tutto _-_ come sono caduta in basso). Un bacione.

_PuCiA_: Grazie molte. Mi fa piacere che tu abbia sorriso. Un bacio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Tempi duri per Tom Kaulitz ***


Qualcuno gli stava tirando i capelli. Fu la prima cosa di cui acquistò consapevolezza, svegliandosi improvvisamente. Il qualcuno continuò imperterrito a tirare, dandogli strattoni brevi e forti, fin quando Bill non scattò a sedere.

Si voltò verso la fastidiosa presenza, pur nutrendo la convinzione di sapere già di chi si trattasse. Ridusse gli occhi a due fessure quando vide il nano indemoniato in piedi accanto al suo letto, un sorriso a trentadue denti stampato sul volto. Si guardarono per un lungo minuto, fin quando il bambino non fu evidentemente certo di averlo svegliato del tutto ed abbandonò la stanza, ballonzolando via.

Bill si scoprì con violenza e posò i piedi a terra, meditando vendetta.

Cosa poteva escogitare? Appenderlo per i piedi ad una finestra? Trasformarlo in una pignatta vivente? Anche se l’ultima idea lo stuzzicava parecchio sapeva di poter ideare di meglio.

Abbandonò la camera anche lui, entrando nell’unica stanza della casa che conosceva, esclusa la camera di Alex.

Il nano iperattivo era stato terribilmente puntuale.

La tavola era apparecchiata. Sulla tovaglia bianca e rossa erano appoggiati cinque piatti, di cui due di plastica, assieme ai bicchieri ed alle posate. Joanne trafficava vicino ai fornelli, con un pentolone ancorato sotto il braccio. Samuel era seduto sul piccolo divanetto addossato al muro di destra, e stava leggendo un libro con aria assorta. Zachary, accanto a lui, stava facendo cozzare due pupazzi producendo strani versi con la bocca, creando delle bollicine di saliva ai bordi delle labbra. Quando sentì il respiro di qualcuno attraversare il cotone della maglietta che indossava al livello della pancia, abbassò lo sguardo. Eccolo li, il suo persecutore personale, in pigiamino e ciabattine. “L’apparenza inganna” e come era vero. A guardarlo così il nano appariva quasi innocuo, ma a tradirlo c’erano quegli occhi, occhi troppo vispi ed intelligenti per appartenere ad una persona innocua. Continuava a ricordargli Tom in modo inquietante, e la cosa lo sfibrava. Non solo perché pensava al suo gemello lasciato in pasto a David, Saki e Peter, con l’aggiunta di sua madre, e probabilmente anche di Georg e Gustav, ma anche perché Tom era sempre stato un rompipalle professionista: perfido, furbo, irrequieto. E il nano sembrava un Tom elevato all’ennesima potenza. Lo aspettavano tempi duri considerando che non aveva la benché minima intenzione di tornare in Germania dopo appena due giorni di “vacanza”.

Joanne si voltò verso il tavolo, per rovesciare quella che doveva essere minestra di verdure considerando la densità e il colore verdognolo, e si accorse della sua presenza.

- Hi! – disse sorridendo. Quella donna aveva un modo di sorridere che fungeva da calmante. E la sua voce era così densa… calda, rassicurante. Forse nemmeno sua nonna gli aveva mai dato quella sensazione di affetto semplicemente salutandolo. Joanne aggiunse qualcosa in inglese, rivolgendosi a Samuel e Zachary, ed entrambi si alzarono dal divano per sedersi a tavola. O meglio, Samuel si alzò, Zachary, con la bocca ormai coperta da una sorta di bavetta schiumosa, si girò sulla pancia e scivolò giù dal divano, continuando a far prendere a testate i pupazzi. Bill fece un passo avanti con l’intenzione di sedersi anche lui a tavola, ma urtò qualcuno. Il nano sorrideva di nuovo. In quel modo insopportabile, di chi sa perfettamente di darti sui nervi e si impegna per riuscirci. Bill tentò di passare oltre, ma l’indemoniato gli si piazzò di nuovo davanti.

Bene, vuoi la guerra? E guerra sia.

Bill si piegò e prese il bambino per le spalle. Lo spostò di lato, per poi riuscire a raggiungere finalmente una sedia, incedendo elegantemente e con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Il nano rise, cosa che non lo rassicurò per nulla, ma Bill cercò di non prestargli troppa attenzione. Stava per sedersi quando Joanne si rivolse a lui.

- Please Bill… can you… ? - disse indicando un punto non ben precisato alla sua destra. Bill scosse la testa.

- Zachary – aggiunse la donna indicando sempre la sedia oltre il bordo del tavolo. Bill si sporse e capì. Zachary stava in piedi accanto alla sedia, sfiorandola appena con il mento. Continuava a giocare come nulla fosse, abituato evidentemente ad attendere che qualcuno lo sollevasse.

Il ragazzo si alzò e si avvicinò al piccolo, che lo seguì con lo sguardo, curioso.

Non aveva mai preso in braccio un bambino. Come si faceva?

Impacciato, lo afferrò appena sotto le braccine e lo sollevò cautamente. Era leggero… e morbido. I capelli ricci gli sfiorarono il naso, solleticandoglielo. Aveva un buon odore… un misto tra latte e shampoo per bambini. Non fece una piega quando lo prese in braccio, e si lasciò appollaiare sulla sedia come nulla fosse. Continuò pero a seguire ogni suo movimento, fin quando non si risedette al suo posto.

Bill lanciò uno sguardo in tralice a Joanne, che gli sorrise incoraggiante, poi guardò di nuovo il bambino. Zachary sollevò un piccolo indice verso di lui e dopo un attimo di suspense, scoppiò a ridere.

Doveva proprio attraversare l’oceano per farsi prendere in giro da una manica di poppanti? In patria poteva trovarne a bizzeffe.

Nonostante però il bambino lo stesse chiaramente prendendo per i fondelli, Bill non riuscì ad arrabbiarsi. Nemmeno quando anche il nano iperattivo, seduto accanto a Joanne, si mise a ridere. Perché erano risate da bambini… che invece di irritarlo, lo facevano sentire bene, e gli facevano venire la voglia di ridere di se stesso.

E fu quello che fece.

Rise anche lui, di fronte allo sguardo piacevolmente sorpreso di Joanne, e al sorriso timido di Samuel.

 

 

Ecco la chiave nella porta.

Alex sollevò gli occhi dal suo libro e restò in ascolto per un attimo prima di posare i piedi nudi a terra ed uscire dalla camera, nel suo pigiama di cotone nero.

Percorse il corridoio ascoltando la persona che era entrata abbandonare il cappotto sul divano.

Michael.

Entrò in cucina e trovò l’amico appoggiato al davanzale della finestra, dalle imposte aperte, a fumare la sua solita sigaretta prima di andare a dormire. Lanciò un’occhiata all’orologio. Le sei.

Si appoggiò allo stipite della porta e lo osservò.

Aveva la testa altrove, gli occhi persi in un posto che non le era concesso vedere.

- Ehi… - Michael si accorse di lei solo qualche minuto dopo.

Spense la sigaretta sul davanzale e lanciò giù il mozzicone. Sapeva benissimo che lei non sopportava l’odore del fumo.

Alex accennò un sorriso e si avvicinò al frigorifero, tirandone fuori una bottiglia di latte. Michael la osservò aprire gli stipetti ed afferrare un bicchiere di vetro, che riempì quasi fino all’orlo con il liquido, e dal quale cominciò a bere, appoggiata al finto marmo in plastica della cucina.

Nessuno dei due ruppe il silenzio fin quando Alex non vuotò il bicchiere.

- Dove sei stato? – chiese con voce atona.

Michael per tutta risposta estrasse di nuovo il pacchetto di sigarette dalla tasca e ne infilò una tra le labbra. La accese e fece il primo tiro, poi rispose.

- In giro… - rispose senza guardarla.

- Avevi detto che saresti passato… - gli fece notare Alex, tentando di concentrare tutta la sua frustrazione sul muro bianco di fronte a lei.

- Avevo detto che non sapevo se sarei passato – puntualizzò il ragazzo, soffiando fuori il fumo, che si dissolse pochi istanti dopo – Ho avuto delle cose da fare –

Alex sorrise amaramente.

“Delle cose da fare”.

Nel muro c’erano diverse crepe, non era riuscita a coprirle completamente con la pittura l’ultima volta che avevano ridipinto. Michael quel giorno era rimasto a casa, l’aveva aiutata… le aveva anche inzuppato le punte dei capelli nel secchio della tempera, e lei si era infuriata.

- Non sei passato perché avevi da fare con Manuel. Cerca almeno di essere sincero… è una cosa complicata per te, vero? – disse. Si era lasciata sfuggire l’amarezza che covava dentro. Il trucco della concentrazione non era riuscito.

Vide Michael contrarre la mascella, prima di voltarsi verso di lei con un moto di stizza.

- Perché non la smetti di dire stronzate Alex, eh? Mi spieghi perché devi sempre assillarmi con questa storia? Non ti sopporto più – sibilò. Se i bambini non fossero stati addormentati probabilmente avrebbe urlato. Almeno per loro riservava un minimo di considerazione.

Alex non rispose, appoggiò piano il bicchiere nel lavandino e lo sciacquò con l’acqua fredda. Osservò le sue mani lunghe e sottili bagnarsi sotto il getto del rubinetto.

- Manuel non mi piace Michael… lo sai. Non mi convince quel ragazzo… L’idea che tu passi tanto tempo con lui non mi fa stare tranquilla – disse poi, con tono pacato.

Michael rinunciò a finire di fumare la sua sigaretta e la spense, lanciando il secondo mozzicone giù dalla finestra.

- Non me ne frega niente Alex. Fatti i cazzi tuoi una buona volta. Non sono tuo fratello, non sono il tuo ragazzo. Smettila di insistere con queste paternali sulle compagnie. Ho ventun’anni, frequento chi mi pare e faccio quello che mi pare, tu non sei nessuno per dirmi come gestire la mia vita. Nessuno – ribatté avviandosi verso la sua camera.

- Non sono nemmeno un’amica? – chiese Alex. La voce suonava flebile anche a lei stessa.

Michael si immobilizzò. Poi si voltò di nuovo verso di lei.

- I vestiti che mi hai chiesto sono li – disse con voce dura indicando il divano. Poi raccolse il suo giaccone grigio, lo indossò ed uscì dalla porta d’ingresso, senza un’altra parola.

Alex teneva ancora lo sguardo fisso sulla parete.

Crepe… troppe crepe.

Spense la luce e si diresse verso la sua camera.

Qualcosa però la fece fermare prima che arrivasse a destinazione.

Si avvicinò con cautela alla porta dei bambini, semiaperta.

- No… no… lasciatemi stare… non voglio tornare… Tom! Tom! Mi vogliono prendere! Tom! Fermali! –

Bill stava parlando nel sonno, ma aveva una tale paura nella voce che fu quasi tentata di svegliarlo. L’avrebbe fatto se pochi istanti dopo il ragazzo non avesse smesso, e alla sua voce non si fosse sostituito il respiro pesante di chi scende di nuovo nel sonno profondo, dopo essere sfuggito ad un incubo.

Tornò pensierosa nella sua stanza, e si abbandonò a letto, coprendosi con il piumone fin sopra la testa.

Rannicchiata contro il muro pensò che non poteva fare nulla.

Non poteva fare nulla per Michael… ed assurdamente non poteva fare niente per quell’originale ragazzo che parlava nel sonno nella stanza poco lontana.

O forse si…

Le palpebre si chiusero.

Calò il buio.

Non aveva mai tempo per sognare.

 

 

 

Prega l'amore
L'aurora non è ancora
timida beltà
e circa da tre ore
un pianto secco fa rumore
- tic tic tac -
fra gola e anima.

Prega l'amore
sapendo che l'aurora
non lo porterà,
con tutte le sue prove,
come ebbrezze nuove
(tic tic tac
dal cuore all'anima)

Sogna di ricordi che per lei sono impossibili
dando loro vita con soffi di pietosa carità.
Nutre il suo languore con confetti di miracoli
e angustia il suo silenzio quando pensa
"sono la mia specialità".

E chi la leggerà
e si innamorerà
sicuro troverà
da qualche parte scritto
"E' troppo tardi..."

Prega l'amore
che venga come il sole
incontro al buio va
e che giri come il globo
della terra il quale, poi,
verso il buio
la riporterà.

Prega l'amore
perché si prega ciò che
forse mai si avrà:
e quando crede vera
questa cosa, si dispera
in un sorriso che
sa d'infelicità.

Sogna che l'amore sia il ripudio della realtà
come una follia tanto bella quanto ineffabile.
E sente con la sua miserabile lucidità
che quella condizione non le sarà accessibile.

 

 

 

Sarà stata l’ora (appena le otto di mattina, scandaloso) o il trovarsi di fronte ad una scena assurda e demenziale al punto del tragicomico, ma Tom sentiva il bisogno di fuggire da quella casa il più presto possibile, senza guardarsi indietro.

Forse era il caso di cominciare a stilare una lista di tutto quello che Bill gli stava facendo passare, anche se dubitava di riuscire a dimenticarsi qualcosa.

Quella notte si era addormentato con il cellulare in mano, attendendo una chiamata che non era arrivata. E poi… ciliegina sulla torta. Seconda levataccia. E lui odiava le levatacce. Lui era stato assemblato per dormire la mattina e per scatenarsi la notte, non per fare il contrario. Ma Saki non era sembrato dello stesso avviso quando alle sette e trenta in punto aveva fatto irruzione della sua camera, che oramai a quanto pareva era diventata di pubblico accesso (la sera prima Georg era entrato cercando un paio di calzini puliti da mettere), e lo aveva scosso rudemente, sballottolandogli anche le budella. In quel momento Tom non ricordava come aveva fatto ad arrivare dalla sua camera al divano del salone, ma di certo non era stata un’operazione piacevole. Continuava a vedere le persone attorno a lui come sagome confuse. Alla sua destra doveva esserci Gustav, probabilmente pimpante come al solito, ed accanto a Gustav, Georg. Al novanta per cento anche l’amico doveva essere in piena crisi da trauma post-risveglio violento. Alla sua sinistra avvertiva il profumo di sua madre, mentre di fronte a loro la sagoma nera e titanica doveva essere quella di Saki. Accanto a lui c’era un altro uomo più basso e magro, dai capelli scompigliati. David.

Perfetta scena da “Siamo tutti qui, e tutti insieme, noi canteremo, bracco baldo show”.

Una voce lontana cominciò a parlare.

- Dunque, vi aggiorniamo sulla situazione –

“Ma perché cazzo dovete aggiornarmi alle otto di mattina?” Sarebbe stata una domanda logica, lineare, ovvia. Ma non riusciva a muovere la mascella. Sentì un rivolo di bava colargli dall’angolo della bocca mentre gli occhi cominciavano a chiudersi.

- Tom! Svegliati e ascolta! – sua madre lo strattonò facendolo raddrizzare.

- Non siamo ancora riusciti a stabilire una traccia precisa. Per il momento stiamo seguendo tutte le piste. Pullman, aerei, treni… -

Sembrava stessero parlando della caccia ad un serial killer.

Ma a nessuno di loro passava per la mente che probabilmente, se Bill aveva deciso di scappare, un motivo c’era? O era solo lui ad avere i processi mentali invertiti?

- Se Bill dovesse mettersi in contatto con uno di voi, dovrete informarci immediatamente – disse serio Saki.

Certo Saki, sarà la prima cosa che farò! Stanne pur certo!

Tom rise tra se e se dondolando la testa.

- Tom? Trovi la cosa divertente? – chiese David.

Tom si sentì improvvisamente sveglio.

- No, no. Scusate… - rispose.

Prima figura di merda.

E ce ne sarebbe stata un’altra al 99,9% dei casi… e poi un’altra, e un’altra ancora… fin quando la sua dignità non si fosse trasformata in un tappetino sintetico, schiacciato e peloso.

Sintetico, schiacciato e peloso?

Oddio… ecco che arrivavano le metafore semi-allusive e prive di senso.

Svegliarsi presto gli produceva scompensi, l’aveva sempre detto lui.

- Ho avvertito praticamente tutti coloro con cui abbiamo dei contatti, ho allertato le polizie di sessantaquattro Stati, e ho elaborato una scansione a tappeto di tutte le possibili aree designate. Lo troveremo presto – terminò Saki con tono sicuro.

Tom non poté fare a meno di scuotere la testa (ovviamente il tutto accadeva nella sua mente).

Sottovalutavano Bill, come sempre. Lo trattavano come uno sprovveduto. Ma lui sapeva che, quando voleva, se la cosa non gli procurava troppa stanchezza e soprattutto non lo faceva sudare, suo fratello riusciva ad essere furbo quasi, quasi, quanto lui. Dopotutto erano gemelli, la sua influenza positiva doveva pur essere servita a qualcosa. Tom gongolò.

- Benissimo, mi affido a te Saki. Tom, Sali a vestirti, andiamo alla conferenza stampa –

Era David ad avere parlato?

Tom cercò di aprire una volta per tutte gli occhi.

Il manager era a quanto pareva tornato al consueto “splendore”. Cosa che inconsciamente lo terrorizzava.

Un attimo… aveva appena detto “Sali a vestirti, andiamo alla conferenza stampa”?

- Che cosa?! – esclamò, sveglissimo.

- Cos’è? Hai qualche problema di udito? Ho detto di salire a vestirti, tra mezz’ora abbiamo la conferenza stampa – ripeté stizzito il manager, portandosi il palmare all’orecchio – Pronto? Si, Charlize tesoro… si, stiamo per arrivare… Ancora problemi con il truccatore? Benissimo, lo licenziamo dopo però, Tom ha un pessimo colorito stamattina… -

- Che conferenza stampa?! – domandò il ragazzo inorridito.

David alzò gli occhi al cielo e posò una mano sul microfono del telefono.

- Quella in cui dirai che avete deciso di cominciare a lavorare prima all’album, e che dovete interrompere il tour per non rischiare di incrinare la vostra vena artistica –

Tom ammutolì.

Dire cosa, quando e dove soprattutto?

Sicuramente David si era sbagliato… di certo voleva dire: “La conferenza stampa in cui dichiarerai che tuo fratello si è volatilizzato sotto i nostri occhi senza che nemmeno ce ne rendessimo conto, occupati come eravamo a rimpinguare i nostri conti bancari tirando il collo alla gallina dalle uova d’oro”.

Nella mente gli apparve Bill nelle sembianze di un pennuto dall’enorme testa tutta punte.

Ok… aveva urgente, urgente, bisogno di ritirarsi in bagno.

E… pensare.

 

***

 

 

Nota di Phan: ragazze, spero il capitolo vi piaccia. Non ho la forza necessaria per ringraziarvi una per una. Ringrazio comunque le diciotto ragazze che hanno messo la storia nei preferiti, e tutte coloro che partecipano assieme a me alla scrittura di questa fan fiction commentando. Un bacio. P.S. La canzone che trovate riportata è Laura, dei Marlene Kuntz (<3)

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Pigiami e sventure ***


La traduttrice continuava a masticare rumorosamente una gomma nel suo orecchio. Stretto tra lei e David, Tom si sentiva… senza via di scampo. Cercò di ignorare la massa di gente che già era accalcata di fronte a loro, i loro taccuini, le penne assassine, le telecamere e le macchine fotografiche, ma era una partita già persa in partenza. E poi c’era quel rumore insopportabile, di saliva e schiocco di lingua, che l’orribile donna accanto a lui ci teneva, a quanto pareva, a fargli sorbire.

- Mi scusi, può andare ad emulare un cammello altrove gentilmente? Gradirei concentrarmi prima dell’inizio dell’intervista – disse con tono serafico.

La donna sembrò non capire. Evidentemente il verbo “emulare” le giungeva nuovo.

- David, abbiamo bisogno di un’altra traduttrice, questa qui è ritardata – disse ad alta voce al produttore, che continuava a sorridere a tutti come nulla fosse. Lo ignorò, concentrato a salutare un uomo che aveva riconosciuto in fondo alla stanza.

Era bello essere ascoltati, gli donava quel non so che di sicurezza.

Abbassò lo sguardo sul tavolo. Accanto alla bottiglietta d’acqua e al microfono c’era il suo cellulare, acceso. Nessuna traccia di Bill. Stava cominciando a preoccuparsi sul serio e non poteva consultarsi con nessuno. Tutto ciò, unito alla folla curiosa e occhialuta davanti a lui, lo rendeva più che nervoso. Sarebbe riuscito a conservare il suo equilibrio mentale fino al ritorno del figliol prodigo?

Eh si… mancavano proprio le citazioni bibliche.

Qualcuno lo scosse.

- Tom, abbiamo cominciato. Rispondi con tranquillità e sorridi sempre – sibilò David a denti stretti.

I giornalisti cominciarono ad alzare le mani.

Toccava a David sceglierli, in modo da ricevere le domande più innocue.

Prese la parola una donna alta, piuttosto insipida, che aveva accanto a se un fotografo affetto probabilmente da ipertiroidismo, data la dimensione dei suoi bulbi oculari.

- Nella rete sta circolando la voce che tutte le date da qui a Marzo saranno annullate, può confermare Signor David? – chiese compunta.

David continuava a sorridere.

Ci dava proprio dentro con gli sbiancamenti.

Seguirono altre domande a cui Tom non prestò attenzione, perso nelle sue ipotesi di ciò che poteva essere successo a Bill.

Sarebbe rimasto ad osservare con insistenza il suo cellulare, se David non avesse sbagliato giornalista.

- Tom, vorrei farti una domanda se possibile – disse una voce lontana.

David lo colpì sotto il tavolo con un tacco delle sue Paciotti nere.

- Prego, dica pure – rispose cercando di esibire un sorriso affabile. L’uomo che gli aveva posto la domanda non gli piaceva per nulla, stretto in quel vestito scuro e con lo sguardo troppo intelligente per i suoi gusti.

- Qual è la sua versione dei fatti? – chiese.

Quasi sentì David imprecare, dietro quel suo sorriso ancora dipinto sul volto, che si trasformò in una smorfia maniacale.

Caro, vecchio David…

Era sempre convinto di avere a che fare con i principianti. Di essere più intelligente, più sofisticato, più furbo, ed era così che si faceva fregare.

Tom pensò in pochi secondi a cosa avrebbe risposto Bill al suo posto.

Ok, c’era arrivato.

Esibendo il solito sorriso tranquillo, rispose:

- Nonostante la nostra giovane età, possiamo essere definiti artisti. O almeno a noi piace crederci tali. – nella sala si diffusero delle risate educate – Quando un’artista riceve l’ispirazione è essenziale che esso la colga al volo, anche rischiando di alienarsi dal resto del mondo circostante. L’ispirazione va seguita, ignorarla significherebbe distruggerla del tutto. Ed è quello che faremo noi. Ci alieneremo per poco, e torneremo con un nuovo disco, che,  io e gli altri componenti della band ne siamo convinti, riuscirà a stupirvi come e più degli altri –

L’uomo boccheggiò per un attimo. Il sorriso di David ritornò convincente.

- Bene, la conferenza stampa termina qui. Grazie a tutti, e buona giornata – disse il produttore avvicinandosi al suo microfono.

Si alzò un mormorio confuso e lentamente i giornalisti abbandonarono la sala conferenze.

- Sei stato fantastico. E’ così che ti voglio –

Tom annuì a scatti.

Ma che cazzo aveva detto cinque minuti fa?

 

 

Bill studiò il suo riflesso nello specchio del bagno.

Esattamente, quel pigiama di flanella color giallo canarino-post-mortem, da dove era spuntato? E soprattutto… perché lo indossava?

E perché i suoi capelli gli stavano così piatti sulla testa? Sembrava gli avessero versato sul capo un pentolone di olio per frittura.

E perché il livido da viola era diventato verde muffa?

Dio… non era mai stato così penoso in vita sua.

Appoggiò con disperazione il capo sul braccio, seduto sul bordo del bidet.

Non aveva nessuna intenzione di uscire di li.

Qualcuno bussò con violenza alla porta.

Naturale che le cose non dovessero andare come voleva lui, per una buona volta.

Si alzò stizzito ed aprì la porta.

Davanti a lui si parò la ragazzina, Charlie, che alzò un sopracciglio e si schiarì la voce, puntando lo sguardo sui suoi capelli.

- Please, you… - imitò con le dita il gesto di due gambe che si muovono – go away – disse scandendo bene le parole, lentamente.

- Sure – rispose Bill squadrandola a sua volta e osservando con disgusto il pigiama azzurro puffo che la ragazzina indossava.

Si guardarono in cagnesco, poi Bill decise di ignorarla e si diresse verso la cucina, cercando di ostentare sicurezza.

Anche in quel pigiama che sarebbe stato perfetto per “la casa di Lulu”, rimaneva sempre e comunque Bill Kaulitz! … O no?

Tutte le sue convinzioni crollarono come un castello di carte quando spiò in cucina, e invece di vederci Joanne, ci vide Alex, seduta al tavolo, con le gambe accavallate e i capelli raccolti in una coda disordinata. Teneva in mano una tazza di porcellana bianca, e ogni tanto ne sorseggiava il contenuto, leggendo una rivista.

No… non poteva entrare in quella cucina. Era fuori discussione.

Stava pensando a come evitare l’ennesima pessima figura quando qualcuno lo urtò da dietro, facendolo sbilanciare in avanti, e costringendolo ad entrare nella stanza per evitare di ruzzolare a terra.

Charlie lo superò esibendo un sorriso deliziosamente urticante.

- Oh! Sorry Bill! I’m so careless – disse con tono costruito.

- Buongiorno Bill! – esordì Alex con un sorriso, guardandolo.

Bill sorrise di rimando, anche se probabilmente il suo sorriso somigliava più alla smorfia di una maschera tribale africana.

Avanzò verso il tavolo portandosi nervosamente i ciuffi ribelli di capelli dietro le orecchie, ansioso di nascondere almeno metà del suo corpo sotto il mobile.

Alex lo seguì con lo sguardo.

- Dormito bene? – chiese gentilmente.

Bill ci pensò su un attimo.

No… non aveva dormito bene. Conservava il vago ricordo di un incubo dai contorni indistinti, di cui non riusciva a ricordare precisamente nulla, tranne una forte sensazione di panico.

- Si – rispose, poco convinto. Ma lei non indagò.

- Cosa ti do’? – chiese alzandosi ed aprendo il frigo – C’è del latte… del succo d’arancia… e poi ci sono i biscotti, o i cereali. Posso farti un’omelette se gradisci… oppure pancetta e uova-

Omelette per colazione? No… lui era il tipo da colazione all’italiana.

- Andranno bene i cereali e il latte, grazie – rispose educatamente.

Alex annuì e gli posò davanti una scatola di cartone colorato, una tazza con dentro un cucchiaio e la bottiglia di latte. Charlie guardava la scena con le braccia incrociate e l’espressione perplessa di chi si chiede perché mai dovessero trattarlo gentilmente.

Bill evitò di guardarla distraendosi a riempire la tazza di latte e versandoci dentro i cereali. Rimirò le decine di piccole ciambelline glassate galleggiare nel liquido candido con occhi bramosi.

Poi nel liquido bianco vide improvvisamente qualcosa che non ci doveva essere, di regola, in una tazza.

Un ditino che mescolava le ciambelline facendole sbattere una contro l’altra e facendo irrimediabilmente colare il latte oltre il bordo di porcellana.

- Kevin! – rimproverò Alex, guardando un punto vicino al suo gomito.

Bill abbassò lo sguardo e rimase quasi abbagliato dal sorriso splendente che il bambino sfoggiava, mentre continuava a mescolare imperterrito il suo latte con l’indice.

Alex si alzò e guardò il bambino con aria minacciosa, poi disse qualcos’altro, una frase troppo lunga perché lui riuscisse ad afferrarne il significato. Charlie, addentando una mela dietro di lei, rideva.

Il bambino si interruppe e posò lo sguardo su Alex.

- Come here, now! – disse la ragazza con tono autoritario.

Kevin fece il giro del tavolo, e ad ogni passo il suo labbro inferiore sporgeva sempre di più.

La ragazza si sedette e prese le mani del bambino, avvicinando il suo viso al suo e cominciando la ramanzina. Bill osservò la scena con curiosità. Alex aveva un tono duro di voce, ma i suoi occhi tradivano dolcezza. Alla fine del rimprovero il bambino si diresse all’angolo della stanza, tra la finestra e la piccola televisione appoggiata su di un mobile.

- Scusalo – disse Alex facendo per togliergli la tazza.

- No, fa nulla. Puoi lasciarla se vuoi. –

Vuoi bere dalla tazza dove il marmocchio ha infilato il suo bel ditino, con il quale si sarà scaccolato, o che avrà intinto nei liquidi più improbabili? Stai rincretinendo? Chiese il suo Tom personale, inorridito.

- Sicuro? – chiese Alex perplessa.

- Si, dopotutto è solo un bambino no? – rispose lui.

Ma da dove gli era uscita quella frase stucchevole poi?

Prese il cucchiaio e raccolse una manciata di ciambelline miste a latte, per poi infilarlo in bocca.

Alex si sedette sorpresa, osservandolo come se temesse che da un momento all’altro le avrebbe lanciato la tazza contro, mentre Charlie lo osservava con disgusto.

A cosa si era ridotto…

- Posso chiederti una cosa? – chiese all’improvviso, ricordandosi del quesito che gli rimbalzava da un lato all’altro della testa da quando si era svegliato.

- Certo – disse Alex.

- Come mai parli così bene tedesco? – domandò curioso. Lei sorrise.

- Posso dire che almeno ad una cosa la scuola che ho frequentato è servita. Ho preso il diploma all’istituto statale di lingue. Li studiavo tedesco, spagnolo e francese. – rispose poi. Bill avvertì degli strascichi di amarezza nella sua voce, ma non riusciva ad afferrarli completamente.

- Ah… capito – rispose.

Alex gli sorrise.

- Dovrei chiederti un favore – disse.

- Prego –

- Stamattina Joanne è uscita presto, è andata ad assistere una sua amica che purtroppo è costretta a letto. Ed io, tra più o meno… mezz’oretta – disse lanciando un’occhiata fugace all’orologio appeso vicino al frigo – dovrei andare a fare la spesa e sbrigare alcune cose. Potresti restare a casa con i bambini? Ci sarà anche Charlie. E sarà per poco, non più di un’oretta… - terminò la ragazza.

NO! Rifiuta! Non sei nelle condizioni di tenere testa al nano malefico. Lo sappiamo bene! Perfetto… ora Tom parlava al plurale.

- Ok! Nessun problema! – rispose con tono allegro.

Alex gli rispose con il suo solito sorriso.

Cazzo… ti sei già flippato il cervello Bill.

 

 

Tac.

Bill tamburellava le dita sul tavolo, osservando i due bambini seduti sul divano di fronte a lui.

Tac.

Alex era uscita da una decina di minuti, e non era successo nulla. Il nano malefico non aveva dato fuoco a nessun mobile, Zachary si era limitato a giocare con i suoi pupazzi bitorzoluti, costruendo complicate conversazioni che nessun essere umano sopra i due anni avrebbe potuto capire.

Tac.

Era tutto tranquillo. E lui aveva urgente bisogno di una doccia. Alex gli aveva fatto trovare i suoi nuovi vestiti.

Tac.

Si voltò con sguardo assassino verso Charlie, seduta alla sua sinistra.

Tac.

La ragazzina gli fece esplodere il gigantesco pallone rosa gonfiato dalla sua bocca in faccia. Lo guardò con aria di sfida. Poi si alzò e scomparve nel corridoio, continuando a far scoppiare in quel modo insopportabile le bolle.

Il ragazzo si alzò e si diresse verso i bambini. Si sedette sui talloni e li guardò con espressione seria.

- Bene, è il momento di cominciare a cooperare – disse rivolgendosi ai due. Kevin lo guardò con occhi vispi, Zachary gli puntò contro la faccia dei pupazzi continuando ad emettere strani gorgoglii con la bocca. Era evidente che non lo capivano, ma aveva sentito da qualche parte che l’essenziale era il tono di voce che si usava con i bambini.

- Ora lo zio Bill va a fare una doccia, e voi verrete con lui nel bagno – continuò scandendo bene le parole e sorridendo ad intervalli regolari.

Sembra la frase di un pedofilo in un poliziesco di serie B si lamentò Tom.

Lo mise a tacere concentrandosi sui bambini.

Sembravano aver afferrato il messaggio.

Il fatto che Zachary avesse cominciato ad agitare i pupazzi tentando di strofinarli sul suo naso poteva considerarsi una risposta positiva?

Cercando di evitare i quesiti esistenziali prese per mano il nano malefico e lo trascinò giù dal divano, senza che lui opponesse resistenza, stranamente.

Solo a metà strada si rese conto di aver lasciato indietro Zachary.

Ritornò al divano e prese con cautela il bambino in braccio. I bambini potevano rompersi? Perché era quella la sensazione che provava stringendolo a se. Cercò di allentare un po’ la presa, anche se non sembrava che Zachary stesse scomodo. Il bimbo infatti prese a pettinargli i capelli con il muso di uno dei pupazzi, apparentemente incurante del fatto che erano talmente unti da rischiare che lo sgorbio con cui giocava ci rimanesse attaccato.

Con la manina del nano malefico ben salda tra le dita della sua mano destra si diresse verso il bagno.

Quando si trovò al sicuro dietro la porta del bagno tirò un sospiro di sollievo. Posò Zachary a terra e lasciò la mano del nano.

Era riuscito a raggiungere il bagno senza scaraventare bambini per terra o perdere il controllo sul nano malefico. Stava imparando in fretta.

Cercò di sorridere in modo rassicurante ai due pargoli e aprì l’acqua della doccia portatile. Controllò che ci fossero gli asciugamani, il sapone e lo shampoo.

- Allora. Patti chiari, amicizia lunga. Intendiamoci subito noi tre. Lo zio Bill adesso entra nella doccia, tempo dieci minuti e sarò fuori. Voi due dovrete comportarvi da bravi bambini e rimanere seduti qui – disse indicando il water chiuso. I bambini seguirono il suo dito con lo sguardo ed osservarono perplessi la tazza – fin quando non avrò finito. E’ tutto chiaro? – chiese.

I due lo guardarono in silenzio.

Ok, seguendo il principio del “chi tace acconsente” poteva ritenersi soddisfatto.

Si spogliò ed entrò nella doccia prima di sfilarsi i boxer brevettati sicuramente a Guantanamo. Li lanciò oltre la tenda della doccia e si lasciò bagnare dal getto dell’acqua, stranamente più calda del giorno precedente.

Forse la sua mania per le docce non era molto indicata per una situazione del genere…

Alzò le spalle scrollandosi di dosso l’ennesimo pensiero inutile.

- Leeeb diiee seeekundee –

 

 

 

Strizzò i capelli e afferrò alla cieca un asciugamano di quelli che erano appesi accanto alla doccia.

Rosa.

Lo guardò per un attimo, cominciando a rabbrividire.

Pazienza, era pur sempre un asciugamano.

Se lo attaccò in vita ed uscì dalla doccia, afferrando un altro asciugamano ed indossandolo a mo’ di turbante.

Si specchiò e sbuffò.

Rosa anche quello.

Tirò fuori la lingua ed ammirò il suo piercing.

Uhm… aveva bisogno di lavarsi i denti.

E poi… eccola. La sensazione inquietante di aver dimenticato qualcosa. Qualcosa di importante.

Si lambiccò per un paio di secondi il cervello fin quando un campanello d’allarme non risuonò nella sua testa.

Si voltò con uno scatto verso il water.

Oh no, Bill! Tu e i tuoi disturbi ossessivo compulsivi del cazzo! Esclamò Tom.

Inorridito.

Ecco come si sarebbe definito.

Zachary era seduto sul bordo del water, dal coperchio aperto, e schiaffeggiava l’acqua dello scarico con i grassi piedini, lanciando schizzi veloci come proiettili per tutto il bagno.

Ossignore.

Afferrò il bambino sotto le braccia e lo sollevò tenendolo lontano da se.

Dov’era Kevin?

[Soundtrack: Blitzkrieg Bop (Hey, Oh! Let’s Go!) – Ramones -> http://www.youtube.com/watch?v=urp22F8MwUQ ]

Panico.

In asciugamano e turbante, tenendo dritto davanti a se Zachary con i piedini sgocciolanti acqua, uscì dal bagno.

- Nano male… Oh dannazione… Kevin? – chiamò alzando la voce. Nulla. Non rispose nessuno.

Perlustrò ogni stanza, a piedi nudi, lasciando dietro di se la traccia bagnata prodotta da Zachary che aveva cominciato a ridere come un pazzo.

Arrivò in cucina e si guardò intorno disperato.

Orrore e raccapriccio.

La porta di casa era aperta. Spalancò la bocca in una smorfia angosciata e si catapultò nel pianerottolo.

No… oddio… tutto ma quello no.

 

 

Alex girò la chiave nel portone ed entrò nell’ atrio, dando una spallata alla porta semiaperta. Le buste cominciavano a segarle le dita delle mani.

Persa nei suoi pensieri, non si rese immediatamente conto del trambusto che riecheggiava nella tromba delle scale.

Rizzò le orecchie.

Convivere con Kevin le aveva insegnato che ascoltare serviva davvero molto.

C’erano delle risate di bambino, risate che il suo istinto suggeriva non promettessero nulla di buono. Accelerò il passo cominciando a preoccuparsi sul serio.

Arrivata al pianerottolo del primo piano si gelò sul posto.

Non sapeva se sentirsi imbarazzata, impaurita, arrabbiata, divertita, infuriata, terrorizzata… forse era tutte quelle cose insieme. Probabilmente fu per quello che non riuscì ad emettere nessun suono e si limitò ad osservare atterrita la scena di fronte a lei.

Kevin in cima alle scale, steso sopra l’asse da stiro, inclinata pericolosamente in avanti.

- Facciamo suuuurf – continuava ad urlare, fingendo di nuotare e spingendosi pericolosamente sempre più avanti.

Sulla porta di casa c’era Bill. Anche se ad un primo sguardo aveva stentato a credere che si trattasse veramente di lui.

Indossava unicamente un asciugamano rosa, legato morbidamente sui fianchi. Troppo morbidamente. Il nodo le dava l’impressione di doversi sfaldare da un minuto all’altro, senza preavviso. Appena sopra l’espressione che ricordava di aver visto esclusivamente sulla copertina di Scream Volume 1°, troneggiava un turbante rosa.

Il ragazzo teneva teso davanti a se Zachary, a mo’ di vittima sacrificale.

Doveva fare qualcosa, subito.

Ma… troppo tardi. Kevin spinse ancora più avanti l’asse da stiro, che cominciò a scivolare.

Primo… secondo… terzo… quarto gradino.

Lei.

Collisione.

 

***

 

Nota di Phan: ^^ mi scuso di avervi fatte attendere sempre più del necessario! Spero che questo capitolo vi abbia divertite. Se avete critiche o suggerimenti ditemi pure! Un bacione. *Me ama i commenti*

 

Kimiko Kaulitz: Benvenuta! ^^ Mi piace quest'idea dei colori per le fan fiction *_*. Spero continuerai a seguirmi, e spero di non deluderti *_^

dark_irina: Mia cara, sempre puntualissima *_^. Si i personaggi di Alex e Michael vanno approfonditi... mi piace inventare personaggi di sana pianta! E' una cosa molto divertente, e mi piace quindi descriverli. Oh si, Bill si ritroverà coinvolto! Con Tom mi sto sfiziando parecchio ti dirò *_^. Un bacione.

Dying Atheist: *_* Tu. Mamma quanto tempo che non ci sentiamo. Ormai su msn mi connetto ad ogni giubileo :S. Grazie del commento *_* *_* *_*. Un saluto donzella.

Vitto_LF: Plagiarmi? Ma nuuu :(. A causa mia hai ritardato la pubblicazione di una tua ff? La cosa mi rattrista q_q. A me piacciono le recensioni lunghe, si ^^'' deformazione professionale. Ti ringrazio per le cose bellissime che mi hai detto *me arrossisce*. Ho cominciato a leggere "Dimentica", e ti dirò, personalmente mi sento coinvolta... e le cose sono due, o sono io che sono ipersensibile, oppure scrivi bene *_^. Quindi rimpinguiamo un po' questa autostima su! xD Vabè, lasciami perdere. Un bacio.

pervancablue: carissima, sempre presente (non sai quanto amo te e le ragazze che ci sono con un commento ad ogni aggiornamento *_*). Sei guarita nel frattempo? O sei ancora convalescente? Com'era? La sfiga ci vede benissimo o giù di li giusto? *_^ . Io propongo di fondare un fan club per il nano malefico... io lo amo, è l'uomo della mia vita! (uomo O_o?). Ahah, David perfido ci stava troppo bene. Grazie per i complimenti. Un bacione.

EtErNaL_DrEaMEr: Grazie ^^. Anche io comincio a provare compassione per Tom, ti dirò. Li sto strapazzando parecchio i due poveri gemellini (muahahahah W il sadismo). E' una cosa così divertente. Il Bill pennuto me lo sono sognato, quindi ecco spiegata la sua comparsa >.<. Bacini.

 

Grazie alle 21 persone che hanno messo questa storia in preferiti, ed anche ai lettori silenziosi, che mi fanno piombare in depressione ma so che ci sono! :P

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Tangenziale, tir, cucchiaino ***


La più imbarazzante situazione della sua vita.

Ecco cos’era stata.

Vedere Kevin catapultarsi giù dalle scale, steso a pancia in giù su un’asse da stiro, e quasi investire Alex, che all’ultimo secondo si era lanciata di lato, spargendo il contenuto delle sue due borse della spesa per tutto il piano inferiore.

Correre giù dalle scale con l’asciugamano che continuava pericolosamente a scendere, e che non poteva fermare, perché le sue mani sorreggevano ancora Zachary.

Imbarazzante… terribilmente imbarazzante. E patetico.

La cosa più frustrante era che Alex non aveva detto mezza sillaba. Non lo aveva sgridato malamente, non gli aveva fatto capire di essere arrabbiata, non l’aveva mandato a fare in culo! Si era fatta aiutare a sollevarsi, e a raccogliere la frutta, le uova rotte, dopo aver verificato che il nano malefico non si fosse fatto nulla. Poi, una volta riusciti a rientrare in casa, dove una simpaticissima Charlie li aspettava dietro la porta ancora chiusa a chiave della sua camera, Alex si era armata di straccio ed aveva pulito praticamente tutta la superficie piana dell’appartamento, rifiutando il suo aiuto categoricamente. “Ti prenderai un raffreddore se non ti asciughi i capelli”, aveva detto solo quella frase, seguita dal solito, disarmante sorriso, e da uno sguardo altrettanto spiazzante, non semplicemente perché accompagnato da uno dei colori più assurdi che avesse mai incontrato, ma per la dolcezza mescolata a quel verde liquido, brillante. E lui, Bill, aveva appena annuito, ed aveva obbedito. Si era tolto di dosso quell’insieme grottesco di tessuto ridicolmente rosa, e si era vestito, dopo aver rinchiuso i capelli asciutti in un elastico trovato sul bordo del lavandino.

Era certo che non potesse succedere niente di peggiore. Nulla che potesse vincere sopra quella sensazione di disagio assoluto, che lo spingeva a chiedersi per quale motivo si trovasse ancora li, in quella casa, e non avesse avuto la decenza di volatilizzarsi lasciando di se solo un pessimo ed esilarante ricordo.

Dopo mezza giornata passata a letto senza avere il coraggio di mettere naso fuori da quella stanza, aveva deciso. In tutto quel marasma accaduto poche ore prima non aveva fatto l’unica cosa che il buonsenso avrebbe dovuto suggerirgli: chiedere scusa. Si era limitato a balbettare come un deficiente ed aveva riacquistato con orgoglio il suo titolo di lumaca marina.

Sbattere la testa contro il muro, ecco la soluzione più ovvia. Si, certo. Seppellire tutto sotto il dolore lancinante. Forse poteva funzionare…

Non dire cazzate, alza il culo e vai di la a fare quello che devi fare.

Ecco, perfetto. Anche Tom si era messo a dire cose sensate. Aveva raggiunto l’apice del delirio.

Con un grugnito scostò la coperta e scivolò giù dal letto indossando le sue scarpe, l’unico oggetto integro (a parte i boxer) che gli era rimasto dopo il “ritrovamento”. I suoi vestiti dovevano essere da qualche parte a svernare in lavatrice. Anche i suoi amatissimi jeans Calvin Klein. Al solo pensiero il suo cuore si struggeva.

Uscì dalla stanza silenziosamente.

L’ideale sarebbe stato trovare Alex da sola. Dopotutto era da poco passato il pranzo (che lui aveva evitato prontamente, fingendo di essersi addormentato), non poteva essere già andata al lavoro. In punta di piedi si accostò alla porta socchiusa della cucina, attirato dal vivace vocio che proveniva da dentro la stanza.

Spiò all’interno, intrufolando i suoi occhi nel sottile spazio lasciato aperto.

Alex era appoggiata al bordo del cucinino, le sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate. Era l’espressione più vicina alla rabbia che le avesse mai visto sul volto. E di fronte a lei c’era tutta la sacra famiglia. Più o meno. Joanne era seduta a capotavola, come al solito, e gli dava le spalle. Alla sua destra, sul lato del tavolo, sedeva Michael, che si stava rivolgendo con tono concitato ad Alex, spalleggiato da Charlie, che conservava la sua espressione strafottente. Samuel, Kevin e Zachary erano troppo occupati con i cartoni animati per prestare loro attenzione.

La voce di Alex riempì la cucina. Era nervosa. Rispose a Michael con tono amaro.

Stavano discutendo per qualcosa… ma non riusciva a tradurre praticamente nulla. Parlavano troppo veloce.

Dannata ignoranza.

 

 

- Lo so benissimo come vanno le cose Michael, non c’è bisogno che tu me lo ripeta –

- Si, ma mi sembra che tu non abbia capito il punto centrale della questione. Qui le regole valgono per tutti –

Alex affondò le unghie nella mano destra, chiusa in un pugno e stretta contro il suo fianco. La sua sola valvola di sfogo per la rabbia momentaneamente disponibile. Michael continuava a rispondere con quel suo tono sfrontato, irrispettoso. Non che lei pretendesse rispetto per qualche particolare motivo, ma solo perché era sua… amica? No… dopotutto anche lui le aveva detto che non era nessuno, quella mattina, giusto? Nessuno. Non era nessuno. E allora le avrebbe dovuto concedere lo stesso rispetto che si concede ad una sconosciuta. Rispetto che si trasformava in educazione, pregio di cui il ragazzo era ovviamente sprovvisto. Cosa che la faceva infuriare, interiormente, si capisce. Come sempre.

- Esatto, ha ragione. Se vuole restare qui deve fare come fate tu e Michael. Pagare. Lo sai che le condizioni sono sempre state queste –

Ed ecco anche Charlie, che non si risparmiava il suo intervento. Alex dubitava che lo facesse semplicemente per senso della giustizia. Ma quello era un altro paio di maniche.

- Sono la prima a sostenere le vostre ragioni. Mi sembra che la mia parte di affitto arrivi puntuale ogni mese, giusto? – chiese gelida. E, come si aspettava, nessuno obbiettò. – Dico solo di aspettare ancora un po’… deve ambientarsi, riuscire a capire la lingua… -

- Ah beh, se dovremo aspettare che riesca ad imparare la lingua, temo che l’attesa sarà piuttosto lunga. Non mi sembra molto brillante il tipo – disse Charlie. Alex la ignorò deliberatamente, mentre sulle labbra di Michael si disegnò un sorriso perfido.

- Non possiamo aspettare Alex. Non si sono mai fatte eccezioni per nessuno. Non sono state fatte per me, ne per te. E non saranno fatte per il primo idiota con l’aria sperduta che passa per questa casa – replicò il ragazzo.

Alex si voltò verso Joanne chiedendole tacitamente aiuto. La donna scosse la testa.

- Anche se non condivido l’accanimento che stanno dimostrando – disse rivolgendosi a Charlie e Michael – non posso dare loro torto. Bill deve trovare il modo di contribuire anche lui al mantenimento della famiglia. Avere lui qui significa avere un’altra bocca da sfamare, e il cibo non è gratis. E la questione vale per ogni aspetto. Temo che debba cominciare a darsi da fare da subito, se vuole rimanere –

Alex accusò il colpo in silenzio. Naturalmente era l’unica a pensare che sbattere in strada un ragazzo che avevano trovato pestato a sangue solo pochi giorni prima era un atto disumano. In quella casa era sempre valsa la regola del “severo ma giusto”, che in alcuni casi era servita anche a lei… ma in altri, come in quello, l’aveva costretta a prendere decisioni azzardate.

- Formate la maggioranza, non mi resta che accettare. Mi occuperò io di trovargli un lavoro. D’ora in poi sarà sotto la mia speciale “protezione”, visto che nessuno sembra aver voglia di aiutarlo – disse. La sua voce suonò tagliente, fredda.

Michael storse per un attimo la bocca e assottigliò gli occhi, quando lei pronunciò la parola “protezione”. Charlie fece uno sguardo soddisfatto e Joanne invece la guardò, affettuosa.

La ragazza si avviò verso la porta, fermandosi per un attimo solo quando fu sull’uscio.

- E comunque, Michael, il tuo “contributo” non credo possa essere ritenuto tale. Almeno non in paragone al mio. Io questa famiglia la sfamo con ore di sudato lavoro… e invece, tu? –

Lasciò la domanda in sospeso, e senza voltarsi attraversò la soglia e chiuse la porta dietro di se.

Pesantissima.

Ecco come si sentiva.

Voltò lo sguardo per caso e si trovò a pochi centimetri da due occhi marroni, spalancati.

 

 

- Ehm… - Bill si guardò disperatamente intorno, cercando una scusa plausibile.

Alex lo scrutò, come per incoraggiarlo a dire qualcosa.

- Stavo… -

- Origliando, si, lo so – disse Alex.

Pala. Fossa. Sepoltura.

- No ecco io… Si – capitolò Bill con un sospiro.

E lei sorrise.

Perché quando lui si aspettava che lo percuotesse lei sorrideva?

- Non… non ti da fastidio? – chiese il ragazzo esitante.

- No. Mi darebbe fastidio se tu avessi capito mezza parola di tutto quello che abbiamo detto. Ma siccome confido, date le prove attendibili, che tu non abbia capito nulla, non sono arrabbiata. Tecnicamente, non hai origliato – rispose.

Bill sorrise.

- Però ora mi chiederai di cosa stavamo parlando… - Alex lo guardò inclinando la testa di lato. Bill si morse una guancia.

- Ehm… si – di nuovo, si arrese.

- Vieni, andiamo di la. Non è il giusto posto per parlare temo – rispose lei avviandosi nel corridoio, diretta evidentemente alla sua camera.

Bill la seguì, e inconsapevolmente tirò un sospiro di sollievo quando Alex chiuse dietro di lui la porta della stanza. Si sentiva al sicuro, in quel luogo. Era strano come tra quelle quattro pareti avvertisse paradossalmente la sensazione di trovarsi… a casa.

La ragazza lo fece accomodare sul letto, poi si lasciò cadere sulla sua sedia con le ruote e scivolò verso di lui.

- Dunque… da dove cominciare… ehm – esordì mordendosi il labbro inferiore.

Bill, seduto sul bordo del letto, fece un’espressione dubbiosa.

- Ok, vedrò di rendere la cosa il più chiara possibile. Avrai notato che questa famiglia non può definirsi esattamente… normale – disse Alex prendendo un respiro.

Bill tacque, permettendo al suo cervello provato di tirare le somme.

Un’adolescente affetta da personalità multiple, ma tutte ugualmente insopportabili, che indossava strani pigiami. Un bambino posseduto dal Demonio che si lanciava giù dalle scale in groppa ad assi da stiro. Un quasi poppante che trascorreva le giornate giocando con pupazzi mutilati. Un ragazzo dallo sguardo folle che passava il tempo a fumare come una ciminiera… Gli unici componenti a salvarsi del tutto erano Alex, Joanne e Samuel, che non spiccicava una parola.

Ecco, si, forse si era accorto che quella famiglia non era “esattamente normale”.

Ma come dirlo?

- Avrai notato almeno che abbiamo la pelle di colore diverso… - aggiunse la ragazza vedendo che non dava segni di vita. Bill sobbalzò.

- Si certo, certo – rispose maledicendosi in strane lingue a lui prima d’allora sconosciute.

- Beh, c’è una motivazione. Hai mai sentito parlare di una “casa-famiglia”? – chiese. Il suo tono era diventato più distaccato.

Si… aveva già sentito quel termine… ma non ricordava in che occasione, anche se doveva trattarsi di molto tempo prima.

- Non ricordo esattamente cosa voglia dire… - rispose sinceramente.

- Una casa-famiglia è un’abitazione in cui vengono ospitati minori, o anziani, ma anche disabili e persone affette da gravi malattie. La nostra è una casa-famiglia… specializzata in un particolare tipo di accoglienza… - per un istante Alex sembrò esitare – quella dei figli dei tossicodipendenti –

Un masso. Dritto sullo stomaco. Un tonfo che gli riecheggiò nelle orecchie.

- Parecchi anni fa Joanne, assieme a suo marito, riuscì ad ottenere l’autorizzazione dello Stato, e insieme cominciarono ad accudire i bambini che vennero loro affidati. I primi siamo stati io e Michael… ero molto piccola quando sono arrivata qui. Siamo stati solo noi due per diverso tempo, poi Benjamin è morto, ed è rimasta solo Joanne. Nel frattempo però noi eravamo diventati maggiorenni, e lei è comunque riuscita ad ottenere il rinnovo dell’autorizzazione. Così ci sono stati affidati gli altri bambini, a condizione che anche loro ricevessero lo stesso affetto che era stato dato a me e Michael. E’ così è stato. Il problema principale è che i bambini costano, e parecchio, e Joanne non riesce a sostenere le spese, nonostante i sussidi del Governo. Così io e Michael la aiutiamo pagandole una sorta di affitto mensile. In questo modo riusciamo a tirare avanti, e quando va bene anche a concederci qualche sfizio in più… -

Kevin… aveva i genitori tossicodipendenti? Ed anche Alex? E Samuel, e Zachary… e Charlie…

- Ora ci sei anche tu, e a me… a noi, farebbe piacere se rimanessi. Lo so che non mi hai ancora raccontato tutto su di te, e che ci sono tante zone d’ombra che forse preferisci far rimanere tali, ma io ho capito che se sei scappato l’hai fatto per una ragione importante, e voglio aiutarti. Il problema è che anche tu rappresenti una spesa, nel tuo piccolo… - Alex tentennò – Quindi gli altri mi hanno detto di aiutarti a trovare un lavoro, per permetterti di contribuire… -

La sua mente corse alla foto che aveva visto in quella camera, la prima volta che si era svegliato. Ai volti smunti dell’uomo e della donna, alle loro occhiaie, agli sguardi persi. Ripensò ai due occhi marroni, di quella bambina sorridente, e per un attimo gli apparve davanti il sorriso perfido di Charlie.

“Oh! Sorry Bill! I’m so careless”

- Bill? C’è qualcosa che non va? –

Bill la guardò negli occhi. Non sembrava turbata o commossa, o triste. Realizzò all’istante che per lei non doveva essere la prima volta che parlava di quell’argomento.

- No, no. Ok, perfetto. Non c’è nessun problema. Per me è già davvero molto che mi permettiate di dormire qui, almeno fin quando non riuscirò a guadagnare il necessario per togliermi di mezzo – rispose. Alex sorrise in modo tenero.

- Deciderai tu cosa fare nel prossimo futuro, per il momento ci tengo ad informarti che ti ho già trovato un posto… - disse con tono misterioso. Bill assottigliò gli occhi e cercò di stare al gioco, nonostante il macigno fosse ancora li, presente, pressante, a ricordargli quanto schifo facevano lui e tutti i suoi soldi guadagnati sfruttando praticamente il nulla. Il nulla. E nello stesso mondo c’erano centinaia di migliaia di Zachary con i genitori troppo deboli per riuscire ad occuparsi dei propri figli.

- Cioè…? – domandò cercando di ignorare quella sensazione di soffocamento.

E i genitori di Alex invece? Chi erano? Perché non avevano amato abbastanza la loro bambina? Tanto da lasciarsela portare via?

- Diciamo che… è una sorpresa ok? – rispose lei alzandosi e sorridendogli di profilo. Era molto bella. Molto… vera, più che altro. Ed anche molto matura, troppo forse.

Bill si sollevò e si avvicinò a lei.

- Adesso dovrei vestirmi… - disse la ragazza lanciando uno sguardo eloquente alla porta dietro di lui, gli occhi che sorridevano ancora.

- Ah, certo, scusami! – disse Bill dirigendosi verso la porta. Prima che riuscisse a posare le dita sulla maniglia però, Alex lo fermò.

- Ti voglio pronto sulla porta tra dieci minuti, altrimenti Javier darà di matto, e non è una buona cosa –

Bill spalancò gli occhi confuso.

- Ehm… cosa? Pronto per cosa? – chiese.

- Per il tuo colloquio di lavoro – rispose Alex pimpante.

Tangenziale. Tir. Cucchiaino.

 

 

Strizzò gli occhi e li riaprì di nuovo.

Ok, l’immagine raccapricciante di pochi secondi prima si trovava ancora nello stesso punto, perciò era appurato che… non stava sognando. O, più precisamente, non stava facendo un incubo. La scena di fronte a lui era terribilmente reale, quanto terribilmente delirante. Perché era chiaro che, ormai, si trattava di delirio.

Saki e David, che passavano tutto l’arco della giornata dentro casa sua, anche se nessuno sembrava ricordarsene più, erano seduti al tavolo della cucina con sua madre. Si, proprio sua madre, quella donna tranquilla, dai capelli biondi, che non aveva mai potuto soffrire particolarmente David e che amava la pace. Tutti e tre stavano teneramente gustando un piatto di qualcosa che emanava del fumo, mentre un cordless troneggiava al centro del piano di marmo, scintillante sotto il lampadario appeso al soffitto. Il cordless era ormai diventato il punto attorno al quale la vita in casa Kaulitz gravitava. Tutti sembravano seguire moti precisi e stabiliti attorno a quel rettangolo di plastica grigia, dai tasti consumati. Sua madre lo portava con se, ovunque. I luoghi più strani in cui l’aveva visto erano stati la cesta della biancheria (mentre sua madre smistava i capi sporchi da lavare), il davanzale della finestra (mentre sua madre stendeva i panni umidi), il bordo della plafoniera (mentre sua madre cucinava il pranzo), il divano del salone (appoggiato su un cuscino accanto a sua madre). Quando sua madre era stanca, o si struggeva nell’ennesimo pianto lanciandosi addosso al primo malcapitato che passava per il corridoio (l’ultimo era stato Gustav, e con lui la donna aveva completato il secondo giro del trio Tom-Gustav-e-Georg-i-simpatici-ragazzi), qualcuna delle persone presenti (il cui numero continuava inspiegabilmente ad aumentare di giorno in giorno) si posizionava di fronte al cordless e non lo mollava per un istante. Tom aveva visto omoni alti due metri e passa continuare a fissare senza sbattere ciglio quel telefono per ore dimenticate. Ormai la sua casa si era trasformata nella sede del Pentagono. E quello non era esattamente il posto giusto per il complice di un fuggitivo. Cominciava a sentire il fiato sul collo, e lo sentiva tanto nitidamente che continuava a sollevarsi il collo della felpa ogni due per tre, in preda probabilmente ai primi sintomi della schizofrenia.

Nessun posto era sicuro in quella casa. Ovunque qualcuno lo perseguitava. Anche il bagno era stato contaminato. Quel narcisista di Georg lo aveva colonizzato con tutti i suoi prodotti per i capelli e le sue piastre con lama surriscaldata in ceramica, ed ogni mezz’ora, puntuale come un orologio svizzero, bussava alla porta del gabinetto, per “riassestare la sua chioma”, riassestamento che l’ultima volta era durato un’ora e mezza. Gustav invece era diventato un prolungamento del divano e stava prendendo visione di tutta la filmografia presente nella loro dimora, partendo dalla Corazzata Potëmkin, per arrivare a Ben-Hur doppiato in lingua originale, passando da Il Padrino.

Un girone infernale. Ecco cos’era diventata quella casa. Un luogo di perdizione e degenerazione, dove produttori senza scrupoli e armadi dalle dubbie fedine penali cenavano placidamente con sua madre.

Aria. Aveva bisogno di aria.

Si guardò intorno disperato e si lanciò sulle chiavi della macchina di sua madre, lasciate sul mobile dell’ingresso. Socchiuse la porta e spiò fuori. Il vialetto era pattugliato da due bodyguard.

Fanculo.

Afferrò il suo giubbotto ed entrò nel salone poco lontano. Gustav era ancora sul divano, che fissava con occhi vitrei lo schermo.

- Io vado Gustav – disse Tom dirigendosi verso il fondo della stanza.

In risposta gli arrivò un grugnito agghiacciante.

- Avvisa mia madre che torno sul tardi –

Altro grugnito.

Era il momento di staccare per un paio d’ore.

Aprì la finestra e la scavalcò, con non poca difficoltà tra l’altro, a causa della sua insana passione per le taglie forti. Indossò il cappotto e raggiunse il garage, strisciando nell’oscurità.

Quando riuscì a rifugiarsi al sicuro nell’abitacolo del veicolo e a mettere in moto accelerò ed attraversò il vialetto a razzo, cercando di non investire nessuno.

Le 21.00, strillava l’orologio digitale della radio.

Era ancora presto.

Sarebbe tornato, ma l’importante in quel momento era mettere più distanza possibile tra lui e quel manicomio.

***

Consiglio di Phan: ragazze, ho pensato di consigliarvi una lettura questa volta... ^^. E' la ff di una mia amica di "tastiera", e trovandola parecchio originale ho pensato di sponsorizzarla! E' una delle poche scritte in italiano corretto tra l'altro xD. Si intitola Music World. Penso che potreste trovarla interessante.

Note di Phan: Scusate il ritardo catastrofico! Ecco il mio capitolo settimanale ^^. Spero vi sia piaciuto. Attendo il vostro responso e nel frattempo saluto con un bacione i 27 utenti che hanno la mia storia in preferiti. Ora i saluti particolari alle anime buone che commentano *_*, spronandomi a continuare:

dark_irina: Ahah,si, ci saranno ancora colonne sonore in questa ff... *_^, posizionate nei momenti giusti! Sono contentissima che ti sia piaciuto! Inizialmente anche io pensavo che Tom avrebbe sbagliato qualcosa... poi non so per quale motivo il mio cervello ha elaborato tutt'altro andamento. Però l'effetto sorpresa mi è piaciuto! Ho capito perfettamente ciò che intendi :P. Un bacio. Grazie ^^

Vitto_LF: Come va? Il mal di testa è passato? In colpa di cosa? La tua storia è completamente diversa O_O, non ci sono particolari analogie. I caratteri dei personaggi sono differenti! E' proprio "un'altra storia", ecco. Quindi per favore metti via quei sensi di colpa prima che diventi violenta!!! P.S. con la lettura della tua ff questa settimana non ho fatto grandissimi progressi... mi sono fermata al capitolo 5! E continua a piacermi! Bacio.

Dying Atheist: minaccia gradevolissima agli occhi direi *_* (non potendo sentirti materialmente mentre la dichiari). Che bello... almeno manteniamo un contatto *_*. Come vanno le cose? Hai scritto qualcosa di nuovo??? Grassie. Un bacione.

Paaola: ahahahah tesoro!*_* Ci siamo ritrovate! Sono a dir poco contenta che la mia storia ti piaccia! Che bello... anche tu qui q_q mi commuovo. Un bacione! *le panzerotte ruleggiano*

pervancablue: Ahahahah che mito che sei! Grazie dei complimenti *_*, sono felicissima di farti ridere! Stai ancora male? Un bacione.

bluebutterfly: carissima! Il completino di Bill me lo figuravo nella mente già da un po' a dire la verità xD. DOVEVO inserirlo. Sono davvero contenta che le immagini che cerco di "dipingere" riusciate a vederle anche voi! Un bacione. P.S. la tua fan fiction mi piace sempre di più... amo Stephen. Appena finirò di pubblicare in giro passerò da te a lasciarti il commento che ho scritto nella mia testa!

EtErNaL_DrEaMEr: Mio Dio... scuola, di grazia, evitiamo quest'argomento. Perché il senso di soffocamento che ha Tom in questo capitolo rischia di finire anche me. Ahahah avrei voluto vederti mentre ridevi. "Un mercoledì a leoni" muahahahah... dovrei intitolarlo così il capitolo mi sa xD. Grazie della bellissima recensione e dei complimenti. Un bacione tesoro!

piscula: Ah! Sono riuscita a smuovere la coscienza di una lettrice silenziosa! *_* Chissà se commenterai questo capitolo... uhmmm :P. Scherzi a parte, contentissima che ti piaccia, spero continuerai a seguirmi. Kiss.

lipsia8: Nuova lettrice! Benvenuta! Ci ho guadagnato, ci ho guadagnato... me lo suggerisce il mio sesto senso. Ti ringrazio davvero tanto, e spero che anche tu continuerai a leggermi! Un bacione Marty.

nihal_chan: Nihal come Nihal della Terra del Vento? Se si sappi che già ti amo, se no sappi che ti amo comunque, dato che sei una nuova lettrice *_^. Benvenuta cara! Abbiamo la stessa immagine di David nella mente a quanto pare! "Amo-colgate-compralo-anche-tu" xD bella questa. Sulla parte dell'"aggiorna presto" glisso... :( vaffanciuccio all'economia. Un bacione.

FuckedUpGirl: Biaaaa ^^. Non parliamo di ritardo ti prego ^^'', qui io supero tutte. E sono sempre io a dover chiedere perdono xD. Grazie tantissimo dei complimenti stupendi. *Me arrossisce*. Ahah, si chiamami Moon. P.S. ahah è vero... che fantasia... tra tutte e due... xD.

valux91: Benritrovataaa! Grazie giuoia (come mi piace scriverlo così!). Anche qui glisso sulla parte dell'aggiorna presto ^^''. Un bacione.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Heidi e Una serie di sfortunati eventi ***


Posto tranquillo… posto tranquillo…

Difficile trovarne uno quando da quattro anni imperversava in ogni angolo della Germania, esibendo il suo faccione su ogni tipo di magazine, dai settimanali per ragazzine, alle riviste dedicate ai cultori del giardinaggio.

Pensò velocemente, tamburellando le dita sul volante, mentre continuava a guidare senza una meta precisa per la periferia di Lipsia.

Era l’ora di punta, quindi sarebbe stato consigliabile evitare il centro, a meno che un impeto di follia non lo spingesse al suicidio, ma non era ancora arrivato a quel punto (ci mancava davvero poco, ma non ci era ancora arrivato). Magari poteva nascondersi in qualche pub li nei dintorni… dopotutto non venivano frequentati praticamente da nessuno. Si, l’idea gli piaceva, e inoltre cominciava ad avere fame.

Gironzolò ancora per una decina di minuti, e poi trovò il posto adatto. Un piccolo locale nascosto in un vicolo, con un insegna al neon, azzurra. Semplicemente perfetto. Parcheggiò la macchina a pochi metri e raggiunse il pub, il cappuccio del giubbotto calato sul capo.

Quando entrò qualcosa tintinnò sopra la sua testa, e il cassiere si voltò verso la sua direzione, senza mostrare apparenti segni di vita, a parte lo sbattere lento degli occhi. L’ambiente non era nulla di che. Alla sua sinistra c’erano diverse file di tavoli e panche sistemati contro il muro, mentre a destra c’era un lungo bancone di legno con diversi sgabelli. L’illuminazione era scarsa, gli avventori pochi e ben nascosti nell’ombra. Scelse un tavolo libero in fondo, e lo occupò, cercando di incassare quanto più poteva la testa nelle spalle. Solo quando fu seduto nell’angolo della sua panca ed ebbe appurato che nessuno gli prestava attenzione, abbassò il cappuccio.

Tirò un sospiro di sollievo. Finalmente… pace.

Si abbandonò al muro dietro di se e i suoi pensieri corsero a Bill. Tirargli il collo, ecco cosa doveva fare appena lo avrebbe rivisto. Dio… e se gli fosse davvero successo qualcosa? Dopotutto New York non poteva essere certo definita un luogo sicuro, no?

Cazzo.

Bill si cacciava sempre in casini più grossi di lui, di loro.

Suo fratello era lo stesso ragazzo che poco meno di un mese prima era riuscito a chiudersi a chiave in un bagno pubblico e a rimanerci bloccato! Avevano dovuto chiamare i pompieri per estrarlo! Come aveva anche solamente potuto pensare di lasciarlo andare?!

Uno più deficiente dell’altro.

- Ehm, ehm -

Aprì gli occhi e si raddrizzò di scatto. Davanti a lui c’era una ragazza. Tom eseguì la scansione in pochi secondi. Non era altissima, ma sufficiente per i suoi standard. Indossava un paio di pantaloni neri, infilati in quelli che sembravano anfibi consumati. Sotto lo striminzito grembiule rosso, legato dietro la schiena, una maglietta nera a collo piuttosto alto copriva il busto. Aveva un viso pallido, una spruzzatina di efelidi sul naso dritto e due occhi marroni da cerbiatta. I capelli scuri le cadevano in lunghe ciocche sulle spalle, sfiorandole la vita. Non era magrissima, i fianchi erano piuttosto rotondi, senza essere sgradevoli, tutt’altro anzi, ed anche sotto la maglietta si poteva ben identificare un seno piuttosto florido.

Una volta stabilito che era passabile, sfoderò il suo solito sorriso ambiguo. Non lo faceva per un particolare motivo, semplicemente non riusciva a fare altro quando nei paraggi c’era una ragazza carina.

Lei però non sembrò apprezzare. Alzò un sopracciglio e gli rispose con un sorriso che le increspò le labbra carnose. Sorriso che però non era affatto compiacente o complice, anzi… sembrava lo stesse prendendo platealmente per i fondelli.

- Intendi ordinare oppure ripasso quando avrai rimesso in moto i muscoli facciali? – chiese la ragazza. Aveva una voce dolce, rispetto al tono che aveva usato, che definire ostico era poco.

- L’educazione non è compresa nel costo del coperto in questo locale? – chiese Tom serafico.

- Non quando i clienti guardano le cameriere come fossero bovini da macello – rispose lei in tono altrettanto angelico.

Tom tacque. Ok, bisognava cambiare strategia.

- Io stavo applicando quella che di norma viene riconosciuta come: cortesia. Termine di sicuro a te sconosciuto. Ben lungi da me guardarti come un bovino da macello… personalmente, ho sempre preferito le ragazze ai ruminanti – disse aprendo il suo menu su un pagina a caso. Sapeva già cosa doveva ordinare, anche senza bisogno di leggerlo su quella carta ruvida.

La ragazza non rispose. Tom lesse sul suo viso la frustrazione di non aver trovato una frase adatta con cui controbattere.

Tom 1, Cameriera scorbutica 0.

Ghignò sotto i baffi e poi sollevò nuovamente lo sguardo sulla ragazza.

- Bene. Credo che prenderò un cheeseburger e una porzione di patatine fritte… e… una Corona, si –

La ragazza annotò tutto sul suo taccuino, premendo tanto con la punta della penna che Tom ebbe timore volesse trafiggerlo. Poi gli strappò il menu dalle mani e scomparve oltre le porte di quella che doveva essere la cucina.

Che tipino…

Il chitarrista non dovette attendere molto prima che la ragazza ritornasse, trasportando su di un vassoio il contenuto della sua ordinazione. Gli servì cheeseburger e patatine senza guardarlo in faccia, e fu con un gesto particolarmente violento che appoggiò la birra sul tavolo, facendo finire il limone infilato nel collo della bottiglia nel liquido ambrato.

- Non è il caso di agitarsi tanto per nulla – disse Tom guardandola raddrizzarsi con aria di superiorità.

- Non capisco a cosa ti riferisci. Dunque, paghi ora o preferisci pagare dopo, bimbo che agita la chitarra? – ribatté la ragazza sfoderando un sorriso abbagliante.

Quindi l’aveva riconosciuto…

- Se vuoi un autografo permettimi di dirti che questa è senz’altro la tecnica più scadente che io abbia mai visto… - rispose lui dopo aver ingoiato un sorso. La ragazza sorrise, stavolta esibendosi di nuovo in una smorfia acida.

- L’ultima cosa che vorrei da un musicista scadente, narcisista, e sopravvalutato come te, è un autografo. Mi piacerebbe averlo di Dimebag Darrell, si, ma dell’autografo di un ragazzino strimpellante non so davvero cosa farmene – replicò lei, una smorfia di trionfo sul volto.

Tom abbassò la bottiglia e osservò quella ragazza a dir poco stupida e superficiale che gli si parava davanti.

- Ti ringrazio dei complimenti. Ma ti dirò, non so cosa farmene dei tuoi insulti. L’unica cosa che realmente mi infastidisce e che tu abbia nominato un chitarrista famoso credendo di umiliarmi. – Tom fece un bel respiro e gelò la cameriera con lo sguardo – Dimebag Darrel è nato il 20 agosto del 1966 a Dallas, in Texas. E’ stato uno dei fondatori dei Pantera, nonché uno dei maggiori personaggi della storia del metal, quello che comunemente definiremmo un “pioniere”. E’ stato uno dei migliori chitarristi che abbiano mai attraversato la scena musicale mondiale. Ed è curioso che tu desideri avere un suo autografo, dato che Dime è stato assassinato l’8 dicembre 2004 a Columbus, nell’Ohio, da un suo fan. In ogni caso dubito che lui ti avrebbe concesso un autografo, nemmeno la pietà può fare tanto in certi casi. –

Avrebbe sorriso se non avesse sentito dentro di se l’istinto di prendere a schiaffi quella ragazza piena di se.

- Di’ un po’, hai scoperto i Pantera due giorni fa, in un cd di un ragazzo che ti piace magari, ed hai ben pensato di venire qui a sfogare la tua frustrazione su di me, sfoggiando la tua pseudo-cultura musicale? – domandò. Lei non rispose. Era diventata paonazza in viso.

- Fammi un favore, dopo che sarai tornata nella tua cucina a soffrire come una bestia per il tuo ego trafitto, impara a non sfoderare in giro nomi di mostri della musica per sentirti un gradino più in alto degli altri. E’ una cosa stupida, e… tristemente patetica. – terminò il ragazzo con un sorriso. Poi sorseggiò ancora dalla sua bottiglia.

- Puoi andare ora. Su, su. – la incoraggiò, vedendo che la ragazza non si muoveva.

Le fece quasi pena quando la vide girare su se stessa e allontanarsi con passo molto meno baldanzoso di prima.

Convintona del cazzo.

Odiava quel tipo di persone. Quelle che credevano che, solo perché aveva appena diciannove anni e suonava in una band di suoi coetanei, fosse un ignorante. O peggio che non conoscesse la materia con cui praticamente condivideva la sua vita: la musica.

Beh, in ogni caso, aveva sistemato per bene la saputella. Di sicuro non si sarebbe comportata di nuovo in quel modo.

“Se l’è cercata”, pensò, mentre addentava con gusto il suo cheeseburger, contornato da una bella dose di soddisfazione.

 

Venti minuti dopo Tom Kaulitz uscì dal locale, infilandosi le mani nelle tasche. Era arrivato quasi alla macchina quando qualcuno lo richiamò.

- Ehi, tu –

Tom si voltò e riconobbe la cameriera. Quasi strabuzzò gli occhi per la sorpresa. Nessuno, era importante ripeterlo, nessuno, gli aveva più rivolto parola dopo uno dei suoi discorsi stermina-dignità. Nessuno.

Si avvicinò cauto alla ragazza, che andava a passo svelto verso di lui. Per un attimo fugace serbò il timore che volesse aggredirlo, invece quando gli arrivò davanti si fermò, i capelli spettinati di fronte al viso, coperta da una felpa nera e larga.

- Sei venuta a donarmi altre perle di saggezza? – chiese sarcasticamente lui. La ragazza sembrò voler ribattere, ma all’ultimo secondo si morse il labbro inferiore, alzando gli occhi al cielo.

- Senti, sappi che quello che sto per fare non è nella mia natura, quindi prendilo come una tua personale conquista… - sembrò cercare la forza necessaria, poi sospirò profondamente – Ti…  chiedo scusa, per il mio comportamento di poco fa – disse, tutto in un fiato.

Si ostinava a non guardarlo, ma Tom non rispose fin quando non la costrinse ad incrociare il suo sguardo.

- E… ? – la incoraggiò sadicamente.

- E sono stata una stupida. Ho esagerato. Ti chiedo di perdonarmi per la mia immaturità – aggiunse saltellando. Tom non capì se per il freddo o per lo sforzo sovrumano che stava compiendo.

Decise di lasciarla friggere ancora un po’, muovendo il capo indeciso.

- Uhm… ok… ma ad una condizione – disse con tono misterioso. La cameriera tornava a sembrargli simpatica.

- Cioè? – chiese lei assottigliando gli occhi in un modo che gli ricordò paurosamente Bill.

- Domani sera mi offrirai la cena – rispose Tom con un sorriso sghembo.

La vide contorcersi nella sofferenza di dovergli concedere quel capriccio e il suo ego fece le fusa.

- Va bene – sbottò poi la ragazza con un ennesimo saltello.

- Perfetto. A domani allora… ? –

- Heidi –

- Quella del “ti sorridono i monti, le caprette ti fanno ciao” ? –

- No, quella del “vaffanculo” –

Tom rise e si avviò verso la macchina.

- A domani Heidi del “vaffanculo” – disse agitando una mano.

- A domani Kaulitz. Ah, e comunque, io ascolto i Pantera da quando avevo tredici anni, stronzo! –

La ragazza si voltò e corse di nuovo al riparo dentro il pub.

Tom la guardò allontanarsi con un sorriso sulle labbra.

- Che simpatica ragazzina –

 

 

 

Passare dalla casa quasi claustrofobica alle strade larghe come interi quartieri era stato abbastanza traumatico, considerando che il passaggio era avvenuto in meno di cinque minuti, passati a trotterellare dietro ad una Alex scattante e, a quanto pareva, in ritardo (probabilmente per colpa sua, ma la ragazza si era ben guardata dal dirglielo). Le camminava accanto guardandosi intorno e perdendosi quasi letteralmente in quel ambiente così diverso da quello a cui era abituato. Era come se si potesse percepire il caos… era una massa pulsante, fatta da persone di razze tutte diverse, abbigliate di tantissimi colori, pettinate in modo strano o anonimo. Tutto lo confondeva. Avrebbe voluto vedere tutto quanto, ma purtroppo possedeva solo due occhi, e così doveva accontentarsi di far scattare la testa da una parte all’altra. Alex sorrideva sotto i baffi, guardandolo di sottecchi.

Non ci misero troppo tempo ad arrivare al punto di destinazione, che Bill scoprì essere un locale situato sulla strada principale, poco lontano da casa. L’insegna era in legno scuro, incisa. El Rojo. Faceva tanto vintage. Sembrava chiuso, ma Alex si diresse decisa verso l’ingresso ed attraversò la soglia, tenendo aperta la porta per lui.

Il locale era davvero grande. Tutto era in legno scuro, a partire dai numerosi tavoli, passando per il lungo bancone al centro del posto e le mensole per gli alcolici, per arrivare al pavimento e alle pareti. Tutto di quel bel marrone intenso, caldo. Qua e la erano appesi quadri dai colori violenti, come giallo, rosso sangue e blu elettrico, e ritratti di strani uomini a lui sconosciuti con lunghi capelli. In fondo c’era una sorta di pedana, sulla quale erano sistemati degli amplificatori, ed appoggiate nei posti più improbabili, ma anche appese alle pareti, c’erano lampade coperte da tessuti verde smeraldo e rosso carminio. Sembrava un posto accogliente. Il classico posto in cui ti rifugi durante le uscite con gli amici, dopo aver cercato di trovare un altro posto dove passare la serata.

- Javier? – urlò Alex avanzando nella stanza. Non arrivò nessun tipo di risposta. Bill continuò a seguirla verso quelle che sembravano le cucine.

Quindi era li che avrebbe lavorato? Ed esattamente cosa aveva in mente Alex?

All’improvviso le porte della cucina si aprirono e comparve un uomo. Era alto quasi quanto lui, ma in larghezza lo superava decisamente. Aveva un grosso ventre coperto da una maglietta di cotone bianco, piuttosto rilasciata. Attorno al bordo dei pantaloni scuri portava legato un grembiulino che su di lui aveva del ridicolo, verde cupo. Aveva la pelle piuttosto scura, labbra carnose e naso piccolo, occhi marroni e folte sopracciglia nere. La fronte, già di per se piuttosto ampia, sembrava continuare all’infinito sul cranio totalmente pelato, ad eccezione di due piccoli ciuffi di capelli ricci ai lati. Dalla maglietta spuntavano i peli irsuti del petto, il collo taurino e braccia pelose di notevoli dimensioni. Con le mani grandi e tozze stava piegando un triangolo di cotone a quadri blu e gialli.

Dunque era lui… Javier?

 

 

Alex gli sorrise.

- Ciao bimba! Un po’ in ritardo oggi eh? – disse l’uomo con la sua solita voce arrochita dalle troppe sigarette.

- Scusami davvero Javier, ho avuto qualche problema a casa – rispose lei. L’uomo sorrise, mostrando i denti giallognoli.

- Non ti preoccupare, lo sai che per te non c’è nessun problema. Chi è la pertica? – chiese l’uomo concentrando la sua attenzione su Bill. Il ragazzo lo notò e abbassò gli occhi immediatamente.

- Ecco… dovrei chiederti un favore Javier – disse Alex mettendosi tra lui e Bill. L’uomo la guardò con aria sospettosa. Probabilmente aveva già capito tutto. Javier era molto furbo, come quasi tutti i messicani che aveva conosciuto.

- Dunque, questo ragazzo ha bisogno urgente di un lavoro. So che tu hai un posto libero come cameriere visto che Jeremy se n’è andato… quindi, ho pensato che potesse tornarti utile – disse tutto in un fiato. La cosa principale da evitare era che Javier chiedesse di più su Bill, tipo…

- Si, perfetto! Ottimo! Così non dovrò sputare sangue per trovarne un altro. Ha con se i documenti? Così lo assumo subito. Stasera prevedo il pienone, suona un tipo nuovo, che dicono sia conosciuto… Ah, ma io non capisco tutta questa musica spacca timpani… potrebbero tranquillamente suonare padelle per me – disse l’omone trascinandosi al bancone del bar. Alex lo seguì mordendosi la lingua. Arrivava la parte difficile.

- Ecco Javier, avrei un problema… - disse abbassando la voce. Bill era rimasto qualche passo indietro – Bill, cioè il ragazzo, non ha con se i documenti… -

Javier cambiò immediatamente espressione.

- Mi stai dicendo che stai cercando di farmi assumere un clandestino? – domandò con tono inquisitorio. Alex mantenne lo sguardo fermo.

- Non sarebbe il primo mi sembra… che mi dici di José? E Miguel? Non venire a raccontarmi che a loro hai chiesto il permesso di soggiorno quando sono venuti a lavorare qui – disse sapendo di aver centrato il punto. Javier infatti si rabbuiò e rispose con varie imprecazioni in spagnolo.

- Con tutti i casini che ho… Vabbè, Alex… lo sai che non posso dirti di no. Lo assumo, però sarà sotto la tua responsabilità. Qualsiasi cosa combinerà sarai tu a doverne rendere conto. Chiaro? – chiese con tono burbero, puntandole un dito contro.

Alex si sciolse in un sorriso riconoscente.

- Chiarissimo. Non sai quanto ti sono grata Javier – disse.

- Ah, smettila di fare la ruffiana. Trovagli un grembiule e spiegagli come funzionano le cose. Che non gli passi per la mente di ricevere stipendi esorbitanti! Devo pur campare io! – rispose acido. Ma Alex vide nei suoi occhi la solita luce affettuosa. Gli sorrise di rimando ed annuì.

- Sarà fatto. Grazie ancora –

- Meglio che vada, tutta questa dose di complimenti potrebbe avere un effetto letale per me – disse l’uomo agitando una mano ed allontanandosi, scomparendo oltre la porta dello sgabuzzino.

Alex si voltò trionfante verso Bill ed agitò un pugno in aria.

- Caro Bill, ti comunico che la tua vita da cameriere è cominciata – disse con tono scherzoso.

Il ragazzo sbiancò e le restituì uno sguardo carico di panico.

 

 

- Guarda, si mette così – gli spiegò per l’ennesima volta Alex allacciandosi dietro il collo il grembiule rosso uguale al suo. Attorno a loro c’era un via vai di persone vestite di bianco, che armeggiavano ai fornelli facendo volteggiare padelle, mescolando strani intrugli e infornando appetitosi intingoli dagli odori speziati. Nella grande cucina riecheggiavano troppe lingue, sembrava una sorta di Babele in scala ristretta. L’inglese si sentiva, ma c’erano anche echi di spagnolo, arabo, e probabilmente cinese. Nessuno prestava loro attenzione, erano tutti troppo occupati. Trovare un posto dove potessero riuscire a non essere travolti da quella massa danzante persa nel delirio culinario era stata un’impresa.

- Non ci riesco – disse Bill abbandonando le mani lungo i fianchi con aria disperata. Alex si rassegnò e gli passò le mani attorno al collo, legandogli il grembiule dietro la nuca. Bill sentì la pelle del coppino arricciarsi mentre guardava il lobo di Alex vicinissimo alla sua bocca. La sua maglietta profumava di panni puliti, un odore che aveva sempre adorato. I capelli avevano un’essenza strana, che non riusciva ancora ad identificare, ma era parecchio piacevole. Quando la ragazza si allontanò riprese a sentirsi un essere umano e non più suo fratello. Aveva deliberatamente censurato ciò che Tom gli aveva suggerito nel timpano, anche se alcune delle idee non sembravano proprio pessime ora che ci pensava.

- Ok, sei pronto. Ascoltami bene, perché non abbiamo tempo e stasera ci sarà un bel casino. – cominciò Alex spostandolo appena in tempo dalla traiettoria di un inserviente che aveva la visuale coperta da una pila di piatti.

- Questo è il tuo blocchetto, e questa la tua penna – disse porgendogli gli oggetti – E’ essenziale che non li perdi, perciò tienili sempre a portata di mano. Quando devi portare i vassoi infila blocchetto e penna in tasca, per sicurezza –

Bill afferrò il materiale e lo osservò, con sguardo perso.

- Quando fanno le ordinazioni, se non capisci cosa dicono, scrivi la pronuncia della parola, poi cerca di trovarmi e vedremo di sistemare la situazione in qualche modo. In linea di massima fai si con la testa. Solitamente non chiedono mai specificazioni sul menu, ma se dovesse succedere di’ che stai andando a chiedere allo chef, e vieni da me. –

“Perfetto” pensò Bill “ma come diavolo si dice ‘vado a chiedere allo chef’?”. Non fece in tempo a porre la domanda, Alex ripartì a raffica.

- Fai attenzione al numero dei tavoli, segnalo sempre sul taccuino, mi raccomando. E attenzione anche al conto. Appena fanno l’ordinazione corri alla cassa e fatti stampare il conto, qui i clienti devono pagare prima di consumare –

Alex raccolse i capelli in una coda e trasse un sospiro.

- Sei pronto? – chiese prendendolo per un braccio ed avviandosi verso le porte della cucina.

No! No! Bill non farlo! Ti stai preparando ad una catastrofe e lo sai anche tu! Chiedile se conosce qualcuno che può offrirti un posto da estetista!

- Certo. Ho solo un po’ di terrore misto a panico… ma per il resto tutto ok – rispose con un sorriso tirato. Alex gli sorrise.

- Beh, c’è sempre una prima volta per tutto. Andrà bene, rilassati – gli fece l’occhiolino e lo scaraventò fuori dalla porta senza troppi indugi.

Bill si guardò intorno terrorizzato. Tutti i tavoli erano pieni, il locale era sommerso da un intenso brusio. Persone che parlavano senza sosta. Ragazzi, uomini, donne, bambini. Da dove era spuntata tutta quella gente?

Alex venne chiamata subito da un tavolo poco lontano. Bill la guardò dirigersi con decisione e passo svelto a destinazione.

- Waiter! – urlò qualcuno.

Ok. Era ufficialmente, irrimediabilmente, incontrastabilmente… fottuto.

 

 

 

Il numero sedici gli sarebbe probabilmente rimasto marchiato a fuoco nella mente a vita. Cosa che avrebbe portato a cambiare il numero delle canzoni nei cd, delle canzoni nelle scalette dei concerti, dei suoi smalti, delle sue paia di jeans, ma anche delle sue scarpe. Bill Kaulitz avrebbe avuto terrore del numero sedici, per il resto della sua esistenza.

Dopo il primo tavolo, di cui miracolosamente era riuscito a capire le ordinazioni, era toccato al secondo, e al terzo. Poi aveva perso il conto. Stranamente sembrava cavarsela, forse per il sorriso incoraggiante che Alex gli regalava ogni volta che riusciva a trovarlo con lo sguardo, o forse perché mediamente doveva portare massimo due vassoi alla volta.

Stava proprio pensando che l’inglese non era poi così difficile, e che forse il ruolo da cameriere gli si addiceva, quando venne chiamato a servire ad un altro tavolo. Ormai stava facendo avanti e indietro nel locale da un paio d’ore, e solo il fatto di essersi sempre esercitato saltellando sui palchi di mezza Europa gli aveva impedito di cadere a terra stremato.

Prese taccuino e penna dalla tasca e si era diresse al tavolo senza prestare troppa attenzione a quello che aveva intorno. Si trovò davanti ad una tavolata immensa, piena di energumeni poco raccomandabili. Gli ricordavano parecchio qualcuno, ma non avrebbe saputo spiegare chi. Facevano un baccano infernale, ed avevano tutta l’aria di non volergli rendere il lavoro facile. Sentì un moto di vergogna inchiodarlo al suo posto, quando l’uomo a capotavola accanto a lui sollevò lo sguardo.

- Ciao tesoro – gli disse. Aveva un aspetto sgradevole. Occhi piccoli e molto vicini, fronte bassa, labbra sottili e barba sfatta.

Solo nel momento in cui si accorse che l’uomo lo squadrava con occhi bramosi capì che doveva averlo scambiato per una cameriera. Arrossì fino alla radice dei capelli e si morse la lingua, cominciando a prendere le ordinazioni. Dal quarto cliente iniziò a confondere i piatti. Dal sesto anche le bibite. Ma non aveva il coraggio di chiedere delucidazioni, perché il clima della tavolata era a dir poco… insopportabile. Gli energumeni ruttavano, ridevano sguaiatamente, si grattavano punti non ben precisati sotto il bordo del tavolo e fumavano come turchi. Ad infastidirlo più di tutti era però l’uomo accanto a lui, di cui sentiva lo sguardo fastidiosamente addosso. Forse quando lo aveva chiamato “tesoro” avrebbe dovuto informarlo di essere un ragazzo. Ma ormai era tardi.

Quando tutti ebbero ordinato Bill scappò quasi letteralmente da quell’assurdo angolo e si fiondò in cucina, dopo essere passato a far stampare il conto. Non dovette attendere troppo perché i piatti fossero pronti. In meno di cinque minuti si vide riempire le braccia di vassoi stipati di cibarie fino all’inverosimile, che pesavano evidentemente, almeno secondo il suo parere, troppo per lui. Ma lo chef non sembrò della stessa opinione quando lo scaraventò fuori dalla cucina. Bill quasi rischiò di far cadere tutto a terra. Iniziò la sua lenta e cauta marcia verso il tavolo degli sciroccati in preda al terrore. Sentiva il sudore freddo imperlargli la fronte e i polsi gli tremavano. Da un momento all’altro avrebbe rovesciato tutto per terra, se lo sentiva.

Una volta arrivato miracolosamente al tavolo dell’allegra compagnia, cominciò a depositare i vassoi sul tavolo, trovandosi così costretto a sostenere tutto l’armamentario con una sola mano.

- Ma guarda che carina che sei… - la voce gli arrivò crudele all’orecchio proprio mentre stava cercando di estrarre un panino dall’ingarbugliatissima scultura moderna che era diventato l’insieme di vassoi sostenuti dalla sua mano sinistra.

- Però dovresti mettere su qualche chilo, sei un po’ magrolina – susseguì una risata grassa dell’uomo, assecondato dai commensali.

Poi accadde tutto molto velocemente.

Qualcuno assestò una bella pacca sulla sua chiappa sinistra, provocando un sonoro rumore che riecheggiò nel locale, nonostante il chiacchiericcio. Bill perse l’equilibrio precario in cui si trovava e si sbilanciò in avanti. Poi fu la volta dei vassoi.

Caddero

Uno per uno.

Ecco il panino.

Ecco la birra.

Ecco la salsa messicana.

Ecco la testa dell’uomo che gli aveva palpato le chiappe.

Ecco la testa dell’uomo che gli aveva palpato le chiappe coperta di salsa messicana.

Ecco il silenzio glaciale.

L’estetista! Porco cane Bill, avevo detto l’estetista!

 

 

Alex si voltò in tempo per vedere il peggio.

Ad attirare la sua attenzione era stato quel rumore, che aveva tanto il suono di schiaffo.

La scena si era svolta tutta al rallentatore.

Aveva visto Bill barcollare e scaraventare i sei vassoi addosso ai commensali del tavolo sedici, senza poter far nulla.

Quando ormai il danno era stato consumato, aveva lasciato i clienti che stava servendo a bocca aperta, ed era corsa da Bill, che osservava il disastro appena compiuto senza dare apparenti segni di vita.

Quando era arrivata accanto a lui l’uomo che era stato innaffiato dalla salsa messicana si era alzato, con espressione furiosa. Il liquido denso e rosso gli colava lungo il viso e il collo scuro, creando il grottesco effetto di uno splatter fatto in casa.

Alex aveva boccheggiato. Sapeva perfettamente che tutto il locale li stava guardando, compresi i musicisti e i baristi, ma non riusciva a muoversi. Probabilmente Bill le aveva attaccato la sindrome da perdita di funzioni vitali.

- Tu – sibilò l’uomo puntando l’indice verso di loro.

Un attimo… stava indicando lei.

Non Bill.

Lei.

Ma perché?!

La ragazza assottigliò gli occhi guardando meglio l’uomo.

Poi qualcosa nella sua memoria si risvegliò e le fece drizzare i capelli.

Era lo stesso uomo che aveva inseguito lei e Michael per due isolati, pochi giorni prima.

L’uomo fece un passo verso di lei, minaccioso.

- Che cosa succede qui? – un altro sibilo le arrivò alle orecchie. E nonostante fosse molto più minaccioso, nonostante la ragazza sapesse che di li a dieci minuti tutta la rabbia di Javier si sarebbe scatenata su di lei, non riuscì a fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.

La musica riprese, e il resto della clientela ritorno alle proprie occupazioni.

Alex si voltò verso il suo capo, che in quel momento sembrava un’imitazione molto riuscita di un toro imbufalito.

- E’ stato un incidente – disse, lanciando uno sguardo a Bill. Era bianco come un lenzuolo e probabilmente non respirava.

Javier la fulminò con lo sguardo.

- Chi è stato? – chiese furente. Alex non esitò.

- Sono stata io, volevo aiutare Bill, invece l’ho urtato e ho fatto cadere tutto – rispose. Sentì il ragazzo muoversi impercettibilmente verso di lei. Lo vide aprire la bocca ed allungò una mano verso il suo braccio, assestandogli un pizzicotto.

Javier la sbranò con gli occhi e poi fece un unico, solo, gesto. Puntò il dito verso le cucine.

Alex afferrò Bill per il grembiule e se lo trascinò dietro prima che succedesse qualcos’altro di spiacevole.

 

 

- Scusa –

- Smettila di chiedere scusa, era una cosa che poteva succedere a tutti –

- Si ma… -

- Niente ma Bill! Ti prego non farne una tragedia! –

Alex lo liquidò con una risata argentina. Aveva iniziato a ridere quando si erano rifugiati in cucina e non aveva ancora smesso.

- Beh almeno concedimi di dirti che è piuttosto avvilente, dopo aver ricevuto una bella strizzata di chiappe ed aver causato una catastrofe, vedere qualcuno ridere in modo così sguaiato delle mie disgrazie – disse Bill incrociando le braccia.

Alex lo guardò per un secondo e poi riprese a ridere senza ritegno.

- Oddio Bill, non ridevo così da non so quanto… - gli disse asciugandosi una lacrima all’angolo di uno dei bellissimi occhi. Bill, suo malgrado, sorrise.

- Bene, potresti assumermi come dispensatore di ilarità allora, visto che a quanto pare ho perso il lavoro… - disse. Alex scosse la testa e lo spinse verso un angolo alla sua sinistra.

- No, non ti preoccupare. Ho già detto che sono stata io. Javier non mi licenzierà mai… - gli rispose tranquillamente.

- No, aspetta un attimo, sei sicura? – chiese Bill incerto. Lei gli sorrise.

- Rilassati un po’ Bill, per favore! – ribatté – Adesso vieni, forse è il caso che ti faccio cambiare ruolo – disse facendogli capire di seguirla.

Attraversarono la cucina, facendo slalom tra i camerieri e i cuochi, finché non arrivarono all’angolo estremo della sala, dove erano ancorati al muro due grossi lavandini e delle enormi mensole.

- Mi dispiace Bill, ma dopo la performance di stasera, da tuo tutore, ti devo declassare a… - la ragazza afferrò uno strofinaccio appeso li vicino – lavapiatti – terminò lanciandogli lo straccio di cotone sulla faccia.

Bill lo lasciò cadere.

- Cosa?! – chiese sconcertato.

Lui non lavava i piatti.

Lui non sapeva lavare i piatti.

Qualcuno urlò il nome di Alex.

- Devo correre, meglio non far arrabbiare di più Javier, mi raccomando Bill! Non combinare disastri eh! – la ragazza si mise di nuovo a ridere e scomparve nel disordine vorticante della cucina.

Bill si voltò verso i lavandini.

Poi abbassò lo sguardo sulle sue unghie.

Io te l’avevo detto. Adesso sono cazzi tuoi.

 

***

 

Note di Phan: capitolo gigantesco... scusatemi! Spero non vi siate stancate a leggerlo! Per motivi di tempo ora non posso ringraziare tutte una per una, ma vi mando un bacio enorme. Aggiornerò con i commenti singoli più tardi ^^. Vi amo. Fatemi sapere se questo capitolo vi è piaciuto *_^

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Piatti da lavare e telefonate ***


Acqua.

Sapone.

Unghie che si spezzavano.

Ecco i ricordi delle sue ultime tre ore. O forse erano state quattro? O venti?

Piatti.

Decine, centinaia di piatti.

Piatti su piatti… di piatti.

Bianchi, rotondi, quadrati, sbeccati, dipinti, rigati, ruvidi, lisci, ma anche a pois, a costine, a rombi…

Non aveva mai visto tanti piatti in vita sua. Ormai andava avanti per inerzia.

Prendi, lava, insapona, sfrega, appoggia.

Prendi, lava, insapona, sfrega, appoggia.

Un ciclo infinito, privo di termine alcuno.

Ma non era solo. Con lui c’era Hao. E il nome era l’unica parola che aveva capito di tutto il fiume che il ragazzo, lavapiatti come lui, gli aveva rovesciato addosso da quando era arrivato li. Poco importava che gli avesse detto nel modo più chiaro possibile di non parlare bene la lingua. Ad Hao non interessava.

Dimostrava circa diciotto anni. Aveva tratti palesemente orientali, un paio di perfetti occhi a mandorla, zigomi pronunciati, naso piccolo e lunghi capelli corvini, liscissimi, che probabilmente gli avrebbero sfiorato le spalle se non li avesse tenuti raccolti in una coda. Era piuttosto basso, magro, e scattava da una parte all’altra della cucina a velocità sub-umana, sollevando pile immense di piatti sporchi come fossero fogli di carta. Sorrideva spesso, e annuiva quando lui gli faceva cenno di aver compreso, anche se in realtà avrebbe potuto parlargli anche dei suoi traumi infantili, e lui sicuramente non avrebbe capito un tubo. Era troppo veloce, e la sua strana cadenza gli rendeva più difficile tradurre le parole. Aveva rinunciato dopo la prima mezz’ora. Forse Hao era un benedizione comunque, fosse stato da solo probabilmente dopo il cinquantaduesimo piatto avrebbe iniziato a saltellare su e giù per le cucine lanciando stoviglie addosso ai cuochi. 

Bill appoggiò le mani al bordo scivoloso del lavandino e sospirò. Si portò una ciocca di capelli bagnati dietro l’orecchio. Doveva pur finire prima o poi. Nemmeno in purgatorio lo avrebbero sottoposto a pene del genere. Solo al pensiero che, quasi sicuramente, quello sarebbe stato il suo primo lavoro, si sentiva mancare.

- Bill –

Eccola. La voce della salvezza. O almeno ci sperava. Si voltò pieno di entusiasmo.

Alex era di fronte a lui, si stava slacciando il grembiule con aria stanca.

- Dai, molla tutto, ti aspetto di la – gli disse appallottolando il grembiule - Hi Hao – aggiunse prima di voltarsi e allontanarsi.

- Hi Alex – rispose il ragazzo con un gran sorriso, poi, quando Alex fu abbastanza lontana, si voltò verso di lui – She’s so beautiful – sussurrò con espressione eloquente.

Bill rispose con una serie di smorfie contrastanti tra loro. Avrebbe voluto fare la faccia di quello che si trovava d’accordo ma considerava la cosa in modo distaccato, ma molto probabilmente gli uscì la faccia di quello che cerca di asciugarsi la bava alla bocca con poca disinvoltura. C’era più Tom di quanto pensasse in lui.

 

Dopo cinque minuti Bill uscì dalle porte della cucina, le mani piene di grinze orribili e le braccia pesanti. Lui non era tagliato per quel lavoro. Proprio no. Si guardò intorno cercando la chioma infuocata di Alex. Il locale era quasi vuoto, i musicisti continuavano a strimpellare giusto per un paio di persone, e i camerieri rimasti cominciavano a sgombrare i tavoli. Javier stava in piedi dietro il bancone, appoggiato alla superficie di legno, mentre discuteva con un uomo.

- Bill, sono qui – una voce lo richiamò.

Eccola. Alex era poco distante da lui, seduta ad un tavolo in un angolo. La raggiunse trascinando i piedi. Cominciava anche ad aver sonno. Perfetto. Condizioni ideali per intraprendere una conversazione con una ragazza.

Si lasciò cadere sulla panca di fronte ad Alex ed appoggiò il mento sulle mani. Lei gli spinse una birra davanti.

- Stanco eh? – chiese inarcando le labbra. Bill rispose con il solito sorriso.

- Si, parecchio. Non avevo idea che lavare piatti fosse così faticoso. Non hanno mai pensato… non lo so, di procurarsi una lavastoviglie? – chiese alzando le spalle. Alex rise.

- Probabilmente si, ma sai, i piatti ci occorrono pronti, non abbiamo il tempo di stare a guardare lavastoviglie – rispose, prima di sorseggiare dalla sua bottiglia. Quando la riappoggiò sul tavolo gli occhi di Bill caddero sulla sua bocca. Al labbro inferiore era rimasta appesa una gocciolina dorata.

Ecco, esattamente quanto era normale che avvertisse lo stomaco contorcersi in quel modo bieco e barbaro? Condividere lo stesso sangue con un fratello erotomane cominciava a rivelarsi un problema ingombrante.

- Giusto… - rispose schiarendosi la voce. Sorseggiò anche lui dalla bottiglia e poi cominciò a guardarsi intorno. Non gli era mai piaciuta, la birra.

- Bill, posso farti una domanda? – chiese Alex all’improvviso. Probabilmente il silenzio che era sceso aveva dell’imbarazzante, ma Bill non se n’era reso conto in tempo.

- Certo – rispose – però stabiliamo una clausola. D’ora in poi non continuiamo a chiederci se possiamo farci delle domande. Facciamole e basta. Altrimenti le conversazioni diventeranno ripetitive –

Alex gli rispose con uno sguardo vispo.

- Hai ragione. Sarà fatto – disse, mentre con un indice affusolato seguiva il profilo rotondo del collo della bottiglia – E’ una domanda stupida, però sono curiosa di sapere come mi risponderai… - . Bill mosse il capo cercando di incoraggiarla a continuare.

- Perché sorridi sempre in quel modo? – chiese.

Forse si era perso qualche passaggio.

- Quale modo? – chiese confuso.

- Non lo so… - rispose lei, sembrava essersi pentita di averglielo chiesto -… è come se dovessi sorridere per qualcuno… come se ti avessero infilato delle stecche di legno in bocca, giusto per intenderci – cercò di spiegare eludendo il suo sguardo indagatore.

Bill rimase interdetto. Si aspettava qualunque tipo di domanda, ma di certo non quella. Che razza di domanda era?

- Veramente non ci ho mai pensato… - disse, interdetto – intendi dire che sembro falso? – aggiunse cominciando a capire i sottintesi. Alex arrossì appena.

- No, no. Non in quel senso… cioè, piuttosto che falso… ecco… costruito… si. Costruito – alzò gli occhi e li fissò dentro ai suoi. Sembrava gli stesse chiedendo scusa.

- Beh, non lo so perché rido così. L’ho sempre fatto – No, non era vero. Aveva cominciato a farlo quando gli avevano detto che doveva sorridere in un modo specifico. Ecco di cosa si era accorta Alex. Si vedeva così tanto? – O forse no… non saprei dirti veramente… forse mi sono abituato – gli sfuggì un sorriso amaro.

- Ecco, questo era un sorriso vero. Magari non positivo, ma vero. Dovresti imparare a sorridere così – disse la ragazza.

Bill sollevò lo sguardo. Alex aveva ancora le guance arrossate. Forse per la birra, anche se sospettava fortemente si trattasse di vergogna.

Sorrise in modo spontaneo. Come faceva quando parlava con Tom, piuttosto che con sua madre.

- Perfetto  - disse lei annuendo. Poi sorseggiò di nuovo la sua birra e gli sorrise. Probabilmente non sarebbe mai riuscito a raggiungere lo stesso risultato, ma poteva almeno provarci.

- Ora tocca a me chiederti una cosa – disse. Alex si raddrizzò.

- Dimmi pure –

- Dunque, dovrei fare una chiamata molto urgente nel mio Paese, in Germania, domani – disse. La magia della conversazione precedente si perse, ma ormai aveva perso troppo tempo. Chissà cosa avrebbe combinato Tom se non avesse chiamato al più presto. La ragazza annuì tranquillamente.

- Nessun problema. Posso portarti in un internet point, è il modo più facile e meno costoso – rispose appoggiando la schiena alla panca.

- Grazie, davvero. Appena avrò messo da parte qualche soldo ti ripagherò di tutto – disse sospirando.

- Ah, ma per favore, smettila Bill! Ti fai così tanti problemi che perderai i capelli a lungo andare – Alex agitò una mano liquidandolo.

- Questa non l’avevo mai sentita – chissà come sarebbero state contente le sue fan.

- Si, infatti l’ho inventata ora. Ma rendeva bene l’idea – Alex rise. Bill la accompagnò.

Non fu una risata esagerata, non fu particolarmente lunga. Fu una risata vera, e per quello l’avrebbe ricordata per molto tempo ancora.

 

 

Spalancò gli occhi nel buio della camera.

Anche quella giornata sarebbe cominciata con una sostanziosa dose di imprecazioni contro suo fratello.

Infilò la mano sotto la schiena ed estrasse il guscio rigido del cellulare conficcato nelle sue costole, per poi scaraventarlo a terra con un grugnito.

Affondò la faccia nel cuscino e strinse i pugni, furioso.

Provò a girarsi sul fianco e a riprendere sonno, ma non ci fu nulla da fare. Alla fine scattò a sedere con un movimento nervoso e scalciò via le coperte con i piedi.

Fanculo.

Infilò la maglietta ed uscì dalla stanza, scuro in volto. Lui odiava, odiava, svegliarsi prima del dovuto.

Era assurdo, Bill riusciva a spaccargli le palle anche senza essere materialmente presente.

Scese le scale ed entrò in cucina, lanciando immediatamente uno sguardo all’orologio appeso alla parete di fronte. Le 7:00. Scosse la testa emettendo un lamento disperato.

- Buongiorno – disse una voce ironica.

Tom superò la soglia della cucina e si accomodò su uno degli sgabelli attorno alla penisola, appoggiando la testa sulla superficie di marmo.

- Sticazzi – grugnì.

- Cosa? –

Sua madre era seduta accanto a lui. Stava sorseggiando quella che probabilmente era tisana al ginseng o giù di li.

- Nulla. Buongiorno ma’ – rispose sollevandosi. Prese a stropicciarsi gli occhi.

- Come mai in piedi già a quest’ora? – domandò la donna posando la tazza sul piano.

Perché mio fratello è una checca isterica” non suonava come una buona risposta, anche alle sue sinapsi rallentate dal brusco, ma soprattutto prematuro, risveglio.

- Mi sono svegliato e non sono più riuscito a prendere sonno – rispose sbadigliando. Sua madre sorrise e nella stanza calò il silenzio.

Poi Tom avvertì il suono di un profondo sospiro.

Era arrivato. Il sospiro scoraggiato. Quel sospiro. Peccato che non fosse esattamente un buon momento per una delle crisi esistenziali di sua madre. Purtroppo sapeva che dopo il sospiro scoraggiato non c’era nessun modo di fermare il “discorso dalle tematiche importanti”, che l’avrebbe fatto stramazzare al suolo per overdose di “scambi d’opinione”, o come diamine li chiamava lei.

Perché tutti in quella famiglia concorrevano nella competizione atta a minare il suo equilibrio psicofisico? Sembrava fosse un concorso a punti. “Dieci punti per l’esaurimento nervoso! Quindici punti per le crisi d’identità! Venti punti per il suicidio!”.

- Tom – tono denso di carica melodrammatica.

- Dimmi ma’ – rispose lui, già arresosi all’inevitabile. Si sforzò persino di sollevare le palpebre ed incrociare lo sguardo di sua madre, nonostante la cosa potesse rivelarsi potenzialmente letale, considerando quanto sembrava pesargli la scatola cranica. “Ottanta punti per morte da collasso della colonna vertebrale!”.

- Che cosa ho sbagliato con voi? –

Sua madre gli aveva posto quella domanda altre volte, durante la sua vita.

La prima quando lui e Bill avevano legato il gatto del vicino per le zampe alla staccionata. La seconda quando aveva fatto la sua prima visita in presidenza, dopo aver mandato molto elegantemente a farsi fottere la professoressa di matematica. La terza quando il Signor. Ieger l’aveva fermata al supermercato per intimarle di tenere il suo amato figliolo lontano dalla sua adorata figliola, nata con la naturale predisposizione alla facile apertura delle gambe. La quarta e la quinta avevano quasi sicuramente a che fare con l’alcool… ma non ricordava troppo bene le dinamiche.

- Ma no dai, perché dici così? Non è vero, e lo sai – rispose automaticamente. Sapeva che avrebbe anche potuto replicare con l’esplicazione dell’analisi storica di Guernica, oramai sua madre aveva ingranato la quinta.

- E invece si… ho sbagliato. Eravate troppo piccoli magari… - disse la donna, lo sguardo perso altrove.

- Troppo piccoli per cosa? – chiese Tom confuso.

- Per questo tipo di vita, per diventare famosi insomma… Era tutto troppo grande per voi. E non sono riuscita a far andare le cose come volevo che andassero –

Tom si raddrizzò.

- Cioè? –

Sua madre alzò le spalle.

- Non lo so… pensavo che avreste continuato ad andare a scuola, volevo che la finiste qui. E poi non credevo che avreste cominciato da subito con i concerti, con i viaggi… -

- Beh, credo che sia un po’ tardi per pensarci, ci siamo abituati ormai – replicò, passandosi stancamente le mani sul viso.

- Forse non è un bene questo –

Sua madre lo inchiodò alla sedia con lo sguardo, e lui si limitò a rispondere con un’occhiata interrogativa.

- Insomma guarda Bill, Tom! – scoppiò lei con tono esasperato – Ti pare possibile arrivare a fare una cosa del genere? Fate una vita che non è adatta a… a… agli esseri umani! –

Ma per quale assurdo motivo metà della famiglia Kaulitz soffriva da panico post-considerazioni amletiche?  Perché tutti si facevano domande che lui non si poneva nemmeno in preda alla sbronza più patetica?

Non fece in tempo a dire qualcosa, sua madre ricominciò imperterrita.

- E adesso non posso più obbligarvi a fare nulla. – disse appoggiando le fronte alle mani. Poi sospirò nuovamente ed incrociò le braccia – Non lo so… spero davvero che tuo fratello torni presto. – terminò.

Si alzò ed abbandonò la tazza nel lavandino. Poi lasciò la stanza.

Tom osservò il punto dove cinque secondi prima c’era sua madre, poi sbatté forte la testa sul marmo della penisola.

- Perché, perché, perché, perché - prese a ripetere, sconfortato.

- Ehi amico –

Con la coda dell’occhio riuscì a riconoscere la chioma sconvolta di Georg.

- C’è qualche problema? –

Tom sollevò la testa, restituendogli uno sguardo laconico.

- No. Non c’è davvero nessun problema, Georg. Mio fratello è fuggito, mia madre è piombata nella crisi di mezz’età  con una decina d’anni d’anticipo, casa mia è colonizzata dalla Universal Corporation e sono costretto ad andare in giro a raccontare panzane all’opinione pubblica, inventate sul momento per giunta. Tutto liscio come l’olio. – rispose.

Georg lo guardò per un lungo istante.

- Wow – annuì appena. Poi non disse null’altro a parte… - Scusa, potresti spostarti su quello sgabello li? Perché questo è il mio posto preferito –

Tom alzò un sopracciglio e pensò che per l’incolumità altrui, ma soprattutto per la sua, era fondamentale che abbandonasse quella stanza nel minor tempo possibile.

 

 

Si guardò nello specchio con occhi luccicanti.

Finalmente, finalmente una parte di lui che ritornava al suo posto.

Infilò le mani nelle tasche dei jeans. I suoi jeans. I Calvin Klein. Quelli belli, strappati accuratamente sui bordi, scoloriti nei punti giusti. Joanne li aveva ritirati dalla lavanderia il giorno prima a quanto pareva. E quella mattina li aveva trovati piegati ai piedi del letto. Avrebbe saltellato volentieri su e giù davanti a quello specchio se non fossero state le otto e mezza di mattina e il suo organismo non fosse stato occupato ad urlargli “rimetti il tuo culo a letto e restaci fino all’una”.

Uscì dal bagno più pimpante di quando ci era entrato, ma ancora pesantemente rincoglionito. Anche se il risveglio era stato parecchio piacevole. Alex gli aveva portato una tazza di caffè a letto. Sentì lo stomaco attorcigliarsi in quel modo che era diventato quasi sopportabile. Vista la rarità delle occasioni in cui quel tipo di sensazione gli era stata concessa durante la sua vita, aveva deciso di non farsi troppi problemi e di godersi la recente, anche se alquanto assurda, realtà.

Entrò nella cucina e si sedette sul divano fiorato. Zachary era seduto vicino a lui, assieme ai suoi pupazzi di compagnia. Giocava tranquillamente, non alzò nemmeno la testa quando gli si mise accanto. Appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi.

Joanne aveva portato i bambini a scuola. Il nano malefico aveva combinato un pandemonio. Non sembrava gli piacesse particolarmente la scuola. Alla fine Alex aveva dovuto imbottirgli la bocca di biscotti al cioccolato per farlo smettere di urlare, sotto lo sguardo sconsolato di Samuel, che invece era rimasto fermo, con lo zainetto sulle spalle. Gli era apparso quasi rassegnato. Quel bambino non aveva uno sguardo felice… non lo sembrava per nulla. Kevin e Zachary apparivano sereni, escludendo il fattore iperattività del nano. Samuel no. Era come se pensasse sempre a qualcosa o a qualcuno lontano da loro. Bill ricordò la spiegazione che Alex gli aveva fatto sulla parola “casa famiglia”. Rabbrividì senza accorgersene.

Poi aprì gli occhi e sollevò la testa. Sentì trafficare Zachary nei pressi della sua gamba ed abbassò lo sguardo.

L’orrore lo travolse.

Costernato, guardò il pargolo infilarsi un dito nel naso, dal quale colava una candela di muco bianchiccio, e spalmare la sostanza sui jeans.

Quando riacquistò le facoltà locomotorie scattò in piedi ed afferrò il bambino per le braccia, sollevandolo.

- No… no! No! – esclamò guardando i jeans impiastricciati.

Sollevò gli occhi sul bambino, che gli sorrideva innocente, la faccia sporca di muco.

- Perché? Perché Zachary? Per quale motivo lo hai fatto? Ti sembro una persona cattiva? – chiese, vicino alle lacrime.

Proprio in quel momento, mentre era impegnato ad affrontare un monologo per ridestare la coscienza del funghetto colante, nella stanza entrò Alex, pronta per uscire.

- Cosa succede? – chiese curiosa, arrotolandosi una sciarpa attorno al collo.

Bill si rivolse verso di lei e cercò di assumere un’aria meno affranta possibile.

- Nulla. Zachary si è pulito il naso sui miei jeans… - rispose.

La ragazza rise e gli prese il bambino dalle mani, appoggiandoselo su un fianco.

- Scusalo – disse rivolgendogli uno sguardo rammaricato. Quella mattina teneva i capelli raccolti sul capo, con una sorta di bastoncino nero. Gli occhi sembravano ancora più grandi. – E’ un po’ porcellino, vero Zack? – il bambino si mise a ridere come un pazzo battendo le mani.

Bill non poté fare a meno di sorridere di fronte a quella scena.

- Adesso ti puliamo questa faccia e ti mettiamo il cappottino, così vieni a fare due passi con me e Bill, eh? – disse Alex dirigendosi verso il lavandino.

- Io vado a cambiarmi i jeans – disse Bill uscendo dalla stanza.

Appena svoltato l’angolo si scontrò con Charlie. La ragazzina lo spinse e lo guardò furiosa. Teneva lo zaino nero appeso ad una spalla ed esibiva una felpa di dubbio gusto a scacchi neri e fucsia. Solo a guardare quei quadratini Bill sentiva lo stomaco roteargli come una trottola.

- Stupid! – gli ringhiò contro. Poi lo scansò con una zainata lo superò.

Simpatia portami via.

Scosse la testa ed entrò nella “sua” camera.

 

Dieci minuti dopo lui ed Alex stavano camminando su quella che aveva scoperto chiamarsi “Withman Road”. Alex teneva in braccio Zachary, mentre il bambino agitava per aria il suo pupazzo preferito della collezione “peluche importati da Chernobyl”, quello con un occhio visibilmente più grande dell’altro e due braccia che gli spuntavano da un fianco.

- Ma… non siete riusciti a trovargli dei… pupazzi normali? – chiese spontaneamente Bill osservando le trecce blu del “coso” svolazzare avanti e indietro.

- Ahah… si, in effetti ci abbiamo provato. Ma ormai Zachary si era abituato a giocare con questi, quindi per lui sono “normali”. Glieli fa tutti Charlie – rispose Alex asciugando ancora una volta il naso del bambino, che era incastrato in un giubbotto imbottito delle dimensioni di un salvagente ed aveva il capo coperto da un cappellino di lana rossa, mentre una sciarpa spessa gli circondava il collo.

- Ah, ora capisco il… design. A proposito di Charlie… è strano che si comporti come se volesse passarmi un rasoio sul collo, o lo fa con tutti? – domandò il ragazzo scansando un omone peloso che occupava metà marciapiede.

- No, è proprio parte del suo carattere comportarsi così, soprattutto con gli sconosciuti, e soprattutto se sono ragazzi – disse Alex con tono eloquente.

- Capisco… - sussurrò Bill pensieroso.

- Le passerà. Dalle un po’ di tempo. E’ molto chiusa, e timida soprattutto, è per questo motivo che a volte reagisce in malo modo. Fa parte della categoria “timidi-aggressivi”. Anzi… ora è decisamente migliorata! – Alex fermò il braccio di Zachary, che stava per colpire la faccia di una passante con il pupazzo.

- Non oso pensare a come fosse prima. Devo confessarti che mi inquieta non poco… magari una mattina di queste mi ritroverete in un lago di sangue – Bill fece finta di rabbrividire. Alex rise, ed anche Zachary imitò il suo esempio, nonostante quasi sicuramente non avesse compreso nulla di tutto il discorso.

- In tema di caratteri timidi, Samuel? Lo vedo… non lo so, spento –

Bill infilò le mani nelle tasche del giubbotto nero che indossava. Era quasi carino, faceva molto rockettaro trasandato.

L’espressione di Alex divenne seria.

- Non è una bella storia quella di Samuel. Lui e Zachary sono fratelli – disse Alex – Il padre di Samuel si drogava, e saltuariamente beveva. Era un tipo violento. A quanto pare spesso e volentieri picchiava la loro madre. Un giorno ha esagerato. Hanno avuto una colluttazione sul pianerottolo di casa. Lei voleva lasciarlo, aveva già preparato le valige, sai? Era pronta. Aveva vestito i bambini, si era messa d’accordo con la madre per raggiungerla in South Carolina. Ma lui l’ha trovata. Non era lucido, e l’ha picchiata. Nel trambusto la madre dei bambini è caduta dalle scale e… - la ragazza non terminò la frase.

Bill si sentì ghiacciare il sangue nelle vene. Istintivamente guardò Zachary. Stava sfregando il nasino contro il muso del suo pupazzo deforme.

- Zachary era neonato. Ma Samuel era abbastanza grande da ricordarsi di tutto. Ne ha risentito molto. Tutt’oggi, dopo più di un anno e mezzo che vive con noi, fa fatica a parlarci. Solo con me si apre un po’ di più, ma riuscire a cavargli le parole di bocca costa parecchia fatica. E non lo biasimo. Non oso pensare a ciò che deve aver passato. –

Bill abbassò gli occhi e prese a guardarsi le scarpe.

- Mio Dio… - mormorò.

Alex non aggiunse nient’altro, o forse non lo sentì affatto.

Dopo appena cinque minuti arrivarono a destinazione. Entrarono in un internet point malridotto, dalle porte di plexiglas graffiate e dai bordi arancioni. Alex parlottò un po’ con il commesso, un tipo con un pizzetto tinto di rosso e le orecchie traforate da almeno una decina di piercing, poi lo accompagnò al suo computer, guidandolo in una stanza ovale semivuota. Quasi tutte le postazioni erano libere, a parte quella in fondo, occupata da un uomo che presumibilmente stava dormendo, data la posizione in cui giaceva.

- Ecco, puoi metterti qui. C’è un’icona apposta, sul desktop. E li appese ci sono le cuffie con il microfono. – disse Alex abbassandosi appena per indicargli il monitor – Io e Zachary ti aspettiamo di la’, fai con comodo, tanto questa mattina devo solo fare un po’ di spesa. Ok? Se hai bisogno di qualcosa fai un fischio –

Bill si sedette sullo sgabello scomodo.

- Certo. Grazie davvero di tutto. Cercherò di far presto – disse, già proiettato verso la telefonata. Le probabilità che riuscisse a stringere quella conversazione erano davvero poche.

- Tranquillo ho detto – lo liquidò Alex allontanandosi.

Bill sospirò e riportò lo sguardo sullo schermo.

Cliccò sull’icona e si aprì una finestra dove gli veniva richiesto lo stato dove la chiamata doveva essere effettuata, ed il numero di telefono da chiamare.

Inserì le risposte nei campi giusti e poi cliccò su “call”.

Infilò le cuffie sul capo e sistemò per bene il microfono.

Primo squillo.

Aveva un bisogno terribile di parlare con suo fratello, di risentirlo.

Secondo squillo.

E se non avesse risposto?

Terzo squillo.

Rispondi, rispondi Tom!

Quarto squillo.

- Pronto? –

 

 

Fece scattare l’indice contro il tappo appoggiato sulla tovaglia, la lingua che gli spuntava dalle labbra e un occhio chiuso per riuscire a prendere meglio la mira.

Il tappo decollò e colpì in pieno Georg sul naso. L’amico si portò una mano al viso fulminandolo con lo sguardo, mentre Gustav alzò le braccia e cominciò ad ondeggiarle da destra a sinistra, imitando il suono di un coro da stadio. Tom sorrise vittorioso e finse di fare un paio di inchini.

- La volete smettere? – abbaiò la Signora Kaulitz.

Gustav abbassò le braccia prontamente e le raccolse in grembo, come un bravo bambino. Georg probabilmente si chiese cosa doveva smettere di fare, di farsi prendere a tappi in faccia forse? Tom sbuffò sonoramente e si lasciò cadere sul tavolo.

- Sono due ore che stiamo parlando della stessa cosa. Farebbero meglio a dirci che non hanno la più pallida idea di dove si trovi mio fratello. – sbottò voltandosi verso il resto dei commensali.

David non lo aveva nemmeno ascoltato, stava parlando ininterrottamente al cellulare da più di mezz’ora. Saki se avesse potuto gli avrebbe messo le mani intorno al collo, sua madre lo incenerì con un’occhiata omicida.

- E’ passato troppo poco tempo. Stiamo facendo dei passi avanti nelle indagini, riusciremo a trovarlo prima di quanto tu pensi – rispose Saki, anzi sarebbe stato meglio dire che sibilò.

- Sarà… - disse Tom con aria poco convinta.

Erano le tre del pomeriggio e l’unica cosa che voleva fare era arrancare fino al salone e lanciarsi sul divano a peso morto. Era stato già abbastanza dover sorbire la presenza di David e Saki a pranzo, ci mancava solo che lo tenessero attaccato a quella sedia per un’altra ora. Non avrebbe retto.

Ad estrarlo dalle sue elucubrazioni borbottanti fu qualcosa che prese a vibrargli in una delle tasche formato famiglia dei suoi jeans.

- Chi cazzo è adesso… - disse infilandosi con irritazione una mano nella tasca ed estraendone il cellulare.

Numero sconosciuto.

Odiava quando facevano così.

Schiacciò la cornetta verde.

- Pronto? – esordì.

Per un attimo dall’altra parte calò il silenzio.

- Pronto, Tom? Sono Bill –

Tom soffocò in meno di un secondo l’istinto di alzarsi saltando come un grillo.

Si guardò intorno circospetto.

David parlava ancora al telefono, Saki e sua madre stavano discutendo di qualcosa, e Georg e Gustav avevano ripreso a lanciarsi tappi in testa.

Si alzò lentamente e poggiò una mano sul microfono del cellulare.

- Scusate un attimo, una mia amica – disse a Gustav. Lui non lo guardò nemmeno in faccia, preso com’era dallo scansare la raffica di tappi che il bassista gli stava mitragliando contro.

- Si, si – disse sbrigativo.

Tom uscì dalla stanza il più lentamente possibile.

Salì le scale incespicando nei pantaloni e si fiondò nel bagno, chiudendosi la porta dietro di se.

- Bill! – esalò lasciandosi crollare sulla tavoletta del cesso.

- Ciao!!! – esclamò Bill dall’altra parte della cornetta, facendo fischiare il microfono dell’apparecchio.

Tom cercò di farsi passare il fiatone.

- Tu… sei… un… deficiente… - disse a fatica. Prima che potesse aggiungere a quell’affermazione tutta la serie di delicati aggettivi che aveva deciso di dedicargli non appena si fossero sentiti, Bill cominciò a seppellirlo di parole.

Gli parlò di un pestaggio, di valige rubate, di un suo livido sotto l’occhio, di un sopracciglio spaccato, di un bambino pazzo, di una rossa, ma non riuscì a comprendere se parlava di una birra o di una ragazza, o di qualunque altra cosa. Nel discorso di suo fratello comparvero pigiami gialli, lingua inglese, assi da stiro, vassoi e grembiuli da cameriere, piatti e sapone.

Non capì molto del primo resoconto di Bill. Forse perché la sua mente era occupata ad assorbire la voce del gemello. Avrebbe voluto urlare fino a fargli capire quanto fosse idiota, ma non ne aveva la forza. Sia emotiva che fisica.

Cercò di calmarlo, poi si fece ripetere tutto daccapo. E così venne a conoscenza del casino in cui Bill si era immerso fino al collo. Solo lui poteva farsi derubare e pestare appena aver messo piede giù dall’aereo. In effetti era molto che l’aereo stesso non fosse precipitato durante il sorvolo dell’Atlantico.

- E adesso, cosa vuoi fare? – chiese Tom quando Bill terminò il resoconto. Sentì il fratello sospirare dall’altra parte del telefono.

- Voglio rimanere qui ancora un po’. Insomma… ho vitto, alloggio. Sto anche andando a lavorare sai… -

Tom si portò una mano alla fronte sconcertato.

- Aspetto di vedere come vanno le cose. Adesso che so come chiamarti ti terrò sempre aggiornato sugli sviluppi. Li come ve la passate? –

Questa volta toccò a lui sospirare.

- Bene. Georg e Gustav si sono trasferiti da noi, dormono nella tua camera. E David e Saki passano praticamente ogni santo giorno qui da noi. Ho dovuto presenziare ad una conferenza stampa nella quale ho annunciato che stiamo lavorando ad un nuovo disco, e per questo motivo abbiamo dovuto annullare tutti i concerti… -

- Che cosa?! Ma sei impazzito?! – il microfono del telefono fischiò di nuovo.

- Senti bella bambola, la prossima volta me ne svolazzo io da qualche parte lasciandovi nel panico, e vedremo come te la caverai di fronte ad ottanta persone che vogliono sapere se sono morto o se mi drogo, mentre David ti punta un coltello nella schiena – ringhiò Tom. Bill tacque.

- La mamma? – chiese alla fine il gemello.

- La mamma sta come dovrebbe stare una mamma con un figlio rincoglionito, viziato e famoso che si volatilizza dall’oggi al domani… - rispose.

- Ah… -

- Non sta bene Bill, è questo che volevo dire. Ma ti aspettavi saltellasse allegra in giro per casa? Dico, stiamo parlando della mamma, non di me –

- Bastardo –

- Fottiti –

Calò il silenzio.

- Ora vado. Ti richiamo appena possibile, ok? – disse ad un tratto Bill, con tono più distaccato. Doveva essere arrivato qualcuno.

- Ok. E per cortesia, fatti i conticini in base al fuso orario, perché sia chiaro che io alle quattro di notte sono in altre faccende affaccendato, e non ho nessuna intenzione di rispondere a telefonate ambigue – ribatté Tom.

- Si, si. Ciao Tom – concluse Bill.

Si, c’era qualcuno.

- Ciao Bill. E… mi raccomando –

Dall’altro capo del telefono si sentì il respiro del gemello. Probabilmente gli avrebbe voluto rispondere.

Poi cadde la linea.

 

***

La fan fiction che piace a Phan in questo periodo: Dimentica di Vitto_LF. E' una storia dolce, matura e con un forte spessore emotivo. Mi ha emozionata e non fa altro che migliorare capitolo dopo capitolo. Vale davvero la pena di leggerla.

 

Note di Phan: Eccomi! Scusate il ritardo catastrofico! Ma questa è stata una settimana campale... >_<. Domani comincerò la sessione settimanale d'esami e quindi ho dovuto studiare almeno un po' xD.

Dunque, questo capitolo è molto lungo da come avrete potuto notare. E' il più lungo che ho scritto fino ad ora, ma non mi piaceva l'idea di spezzarlo. E' nato per essere pubblicato in una sola volta! Spero vi piaccia.

Ringraziamenti speciali alle ragazze che mi seguono da "vicino", con recensioni e chattate (anche se rare) in msn. *_* Un salutone a lipsia8 che ho conosciuto pochi giorni fa ed anche ad EtErNaL_DrEaMEr e naturalmente alla mia ostrichetta *_*.

Ringrazio inoltre tutte le lettrici "silenziose" ^^.

 

Vitto_LF: Purtroppo non sei l'unica che reclama Bill come lavapiatti! Mi sa che dovrete organizzarvi con i turni! Grazie ^^. Si Heidi piace anche a me. Alex è più complicata da inquadrare effettivamente, è proprio nata così nella mia mente. Il discorso di Tom lo pensavo da un po', sinceramente credo sia molto OOC, però il "mio" Tom lo vedo intelligente e musicalmente colto, non so per quale motivo! Si, Bill lo stiamo abbattendo deliberatamente... e la cosa, ti dirò, mi diverte! Un bacione ^^

pervancablue: Prima cosa: adoro le tue recensioni... così "corpose", "cicciose" o come le vuoi chiamare ^^. Il termine che hai usato per la magra figura di Heidi è perfetto XD. Muahahah che coincidenza! Registraci la versione tokiohotellata di Heidi e caricala su youtube! Voglio sentirla! >_<. Sei una mita. Contentissima che ti sia piaciuto il capitolo precedente, un bacione.

GodFather: Adesso voglio il titolo della canzone di Allevi! Ma sai che stavo quasi per andarlo a vedere in concerto? Solo che poi il giorno prima avevo il concerto dei Marlene (Kuntz) e quindi ho dovuto scegliere q_q. Sono contenta che apprezzi l'inserimento di dettagli. A volte mi rileggo e, oltre a trovare una caterba di errori, mi trovo noiosa. *_* Oddio, alla parola carta-mode mi è preso un arrotolamento di budella non indifferente. Non hai idea di quanto sogno una cosa del genere... ma temo di non avere le capacitù sufficienti ^^'''. Grazie di tutto ostrichetta. Un bacione *_*

bluebutterfly: Oddio... a dirlo così sembra una cosa importante. Si, ho "conosciuto" i Tokio Hotel al meet del 6 Settembre a Roma, alla fnac. Solo a ridirlo sento lo stomaco chiudersi veramente. Non so perché non l'ho scritto nel mio profilo... semplicemente non avevo voglia di scrivere troppo di me... anche se forse sarebbe ora di descrivermi un po'. Si, è proprio quel meet... quando l'hai descritto sono rimasta di sasso. Hai visto il video vero? Quella che diceva "poveretti" ero io ^^'''''. Ma stavo solo svarionando perché Tom guardava dalla mia parte. Che dire... dal vivo sembrano ancora più finti che dietro uno schermo. Mi sembrava di essere entrata in una stanza nella quale due mondi completamente diversi, cioè quello reale e quello irreale, si incontravano e si fondevano insieme. E' stato traumatizzante, a dir poco. Tornata dal meet ho attraversato un paio di mesi di incubazione. Non pensavo ad altro che a loro... in maniera quasi ossessiva, e non è stato molto piacevole. Però lo rifarei. Bill l'ho visto molto... distaccato, devo dire la verità. Abituato. Tom è un marpione xD, guardava tutte e cinque in un modo... *_* Ti metteva soggezione addosso! Georg è molto carino dal vivo.. sisi. E Gustav sempre gentile ed educato *_*. Ti ho detto tutto ciò che mi viene in mente ad una prima revisione di ricordi. Un'altra cosa, Tom e Bill profumavano di fondotinta! >_<. Bill aveva anche un retrogusto di lacca! Comunque è tutto scritto in un intervento nel mio blog: http://claudiaspirit.spaces.live.com/ . Grazie per i complimenti. Ah, comunque, non sono più capoarea, ho lasciato l'incarico un mese e mezzo fa, circa. Maledetta!

EtErNaL_DrEaMEr: Si, come hai detto tu, i Pantera ci stavano tutti! ^^. Ahahah no, in questa ff Bill starà buono buono a lavare piatti. Chissà, magari imparerà "quanto costa il pane al chilo" (come dice mia madre). Grazie cara, un bacione ^^.

.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Marijuana e cadaveri ***


- Bill –

Sollevò la testa e vide Alex avvicinarsi.

- Ora vado. Ti richiamo appena possibile, ok? – disse mescolando nelle parole un messaggio. “Non posso parlare adesso Tom”.

- Ok. E per cortesia, fatti i conticini in base al fuso orario, perché sia chiaro che io alle quattro di notte sono in altre faccende affaccendato, e non ho nessuna intenzione di rispondere a telefonate ambigue – sentì rispondere.

“Ho capito Bill”

- Si, si. Ciao Tom – lo liquidò a malincuore, mentre Alex lo raggiungeva.

- Ciao Bill. E… mi raccomando –

Lo sguardo si perse sul bordo metallizzato del monitor di fronte a lui. Tom era preoccupato. Sul serio. Non c’era traccia della solita nota sarcastica che imprimeva solitamente in ogni frase, non c’era traccia di leggerezza o spensieratezza. Quel “mi raccomando” suonava più pesante di quanto avrebbe pesato se a dirlo fosse stata sua madre.

Alex gli si parò affianco, sinceramente dispiaciuta di averlo interrotto.

Bill cliccò sull’icona di fronte a lui.

Connessione interrotta.

Si sfilò le cuffie e rivolse lo sguardo su Alex, un sorriso tirato sul volto.

- Scusami davvero… - disse la ragazza mentre si alzava.

- Non preoccuparti, ho detto tutto quello che c’era da dire – mentì, rivolgendole un altro sorriso – Che succede? – chiese.

- Hanno chiamato dalla scuola sul mio cellulare, Kevin ha morso un suo compagno e ha cominciato a creare problemi come al solito. Dobbiamo andare a prenderlo – rispose lei. Aveva tutta l’aria di quella che non andava per la prima volta a ritirare Kevin in seguito ad istinti cannibali del bambino.

- Ok, fuggiamo – disse Bill accompagnandola fuori.

Sorrise ancora.

Ed ebbe voglia di prendersi a schiaffi.

Era diventata davvero un’abitudine ridere quando non ne aveva la minima intenzione. E se n’era accorto solo in quel momento, dopo sei anni di vita “da star”.

 

Per recuperare Kevin furono costretti ad attraversare un intero isolato.

La scuola del bambino sembrava un casermone rosso. L’edificio in mattoni aveva la forma di un grande quadrato, circondato da un giardino. Sorpassarono il cancello spalancato e seguirono il viale. Alex lo precedette oltre un portone a vetri, Zachary ballonzolante sul suo fianco. La ragazza si diresse verso la signora seduta dietro una scrivania, alla loro sinistra. Era intenta a limarsi le unghie delle mani macchiate dai segni dell’età, e sollevò non poco irritata lo sguardo su Alex quando venne interrotta. Quando le rispose la crocchia di capelli grigi che aveva raccolta sulla testa sussultò e la carne tremula sotto il mento vibrò senza pietà alcuna. Bill distolse lo sguardo da quell’angelica visione prima che la colazione di quella mattina decidesse di sparpagliarsi sul pavimento asettico.

Dopo pochi minuti comparve una donna sulla quarantina, pesantemente truccata, e dai capelli tinti di un rosso improbabile. Teneva per mano Kevin, o meglio, la sua mano era chiusa attorno al polso del bambino, che si lasciava trascinare, lo sguardo ostinatamente basso. Alex andò incontro ai due e salutò l’insegnante. Bill non capì quello che si dissero, ma la donna gli sembrò alquanto arrogante. Aggredì Alex con un tono sgarbato e acido, degno di un David in preda all’isteria dopo un concerto annullato. La ragazza cercò di rispondere, ma la donna la soffocò con il suo fiume di parole. Decise di avvicinarsi.

Quando Kevin vide i suoi piedi spuntare accanto a quelli di Alex sollevò lo sguardo. Anche l’insegnante spostò gli occhi su di lui, interrompendo per un attimo il sermone.

- Qual è il problema? – chiese Bill ad Alex mentre questa lo guardava perplessa.

- Niente. Il problema è che la signora è un’incompetente. Ma dirglielo mi sembra sgarbato, e poi non posso permettermelo, ogni due per tre tira fuori la scusa di convocare gli assistenti sociali e così mi tocca sopportarla – rispose in tedesco. La donna stava seguendo la conversazione, domandandosi probabilmente cosa si fossero detti.

Bill le lanciò uno dei suoi sguardi in perfetto stile “cosa ci fai tu qui, ameba strisciante” e poi riconcentrò la sua attenzione su Alex. Si accostò al suo orecchio e le disse qualcosa, sotto lo sguardo oltraggiato dell’insegnante, che cominciava a perdere la pazienza. La ragazza gli rispose titubante, sempre nell’orecchio. Poi Bill si voltò verso la donna.

- Se fosse capace di fare il suo mestiere non ci troveremmo qui – disse, in perfetto inglese. Alex trattenne un sorriso ed alzò le sopracciglia.

- Spetta a lei mantenere l’ordine in classe, se non ne è in grado le suggerisco di cambiare lavoro – aggiunse, fredda.

La donna rimase basita.

Bill allungò un braccio verso Kevin e gli prese la mano. Il bambino sfuggì alla stretta dell’insegnante e lo seguì, mentre voltava le spalle alla donna e si incamminava, seguito da Alex, verso l’uscita.

Una volta fuori la ragazza gli rivolse un sorriso splendente.

- Grazie! Non fosse stato per il tuo intervento probabilmente mi avrebbe trattenuta fino all’ora di pranzo – disse facendo scoppiare con il fazzoletto le bollicine di saliva che Zachary stava gonfiando da un paio di minuti.

- Non mi ringraziare. Nutro una spontanea avversione verso la classe insegnanti. È stato un piacere – ribatté Bill.

Qualcosa si mosse sotto le sue dita. Il ragazzo abbassò lo sguardo sulla testolina castana di Kevin. Non lo guardava, ma continuava a tenergli stretta la mano. Pensò che non gli era mai capitato di tenere per mano un bambino. Aveva tenuto per mano ragazze belle o solo carine, mezze nude o trasandate, adoranti… ma mai un bambino. Ed era stato un immenso peccato, pensò. Perché era bello sentire di poter proteggere qualcuno, solo tenendolo per mano. Serrò ancora un po’ le dita attorno a quelle del nano malefico, stando attento a non fargli male.

Era quella, la pace?

 

Un paio d’ore dopo, carichi di bambini e buste della spesa, tornarono a casa. Solo quando attraversarono l’uscio il nano malefico gli lasciò la mano, e Bill avvertì una sorta di improvviso senso di incompletezza. Scacciò via la sensazione aiutando Alex a svuotare le buste, mentre Kevin rotolava sotto il tavolo e Zachary lo osservava impilare scatolette di minestrina sul tavolo.

Quando si avvicinò l’ora di pranzo, spinto da un moto di altruismo, si prodigò nell’assistere Alex a cucinare, anche se probabilmente fu più d’intralcio che d’aiuto. In ogni caso lei non gli fece notare nulla, perciò pensò bene di tacere.

Al ritorno dell’altra metà della famiglia il pranzo era pronto, e tutti presero posto a tavola. Bill rimase incastrato tra Zachary e Kevin, ma la cosa non gli dispiacque più di tanto. Di fronte a lui Alex ogni tanto lo guardava e sorrideva, seduta accanto ad un Michael che sembrava essersi svegliato da poco e ad un Samuel oltremodo silenzioso. Charlie, dal capo destro della tavola, lanciava sguardi superiori a tutti, leggendo un libro mentre trafiggeva con violenza la bistecca tagliata nel suo piatto. Joanne invece era uguale a sempre, sorrideva in modo pacifico domandando come si era svolta la giornata a tutti i presenti. Lo chiese anche a lui, e Bill dovette sopportare le risatine sadiche di Charlie mentre cercava di rispondere in un inglese comprensibile.

Finito di mangiare, Michael si alzò e senza troppe cerimonie scomparve nel corridoio, per non fare più ritorno. Charlie aiutò Alex a sparecchiare, mentre Joanne scuoteva la tovaglia fuori dalla finestra. Dal canto suo, non sapendo cosa fare, si limitò a cercare di strappare un sorriso a Samuel, senza riuscirci. Ripensando a quello che Alex gli aveva raccontato si sentì improvvisamente a disagio sotto gli occhi scuri del bambino, e spostò rapido lo sguardo.

- Bill, dovrei chiederti un favore. Un altro… - disse ad un certo punto Alex, distogliendolo dalla contemplazione del lettore dvd incastrato in precario equilibrio sotto il piccolo televisore.

- Certo – rispose sorridendo.

- Vedi, il letto dove dormi tu è di Samuel. Ti abbiamo messo li perché rispetto alla brandina in camera di Michael è più comodo. Adesso che stai meglio però, ti andrebbe di spostarti in camera con Michael? – spiegò la ragazza, piegando uno straccio.

- Si, certo, nessun problema! – disse Bill. Dentro di lui però una vaga sensazione di panico prese a farsi spazio. Michael era l’unico che lo inquietava in quella famiglia, escludendo Charlie ovviamente, ma solo perché non era un ragazzo ed era minorenne. Gli aveva da subito dato un’impressione poco gradevole. Probabilmente il principale motivo di quella diffidenza era che Michael era quanto di più lontano potesse esserci da lui. Non sembrava farsi problemi di nessun genere, non si imbarazzava per niente, ed ostentava sempre un’aria di sicurezza che ti metteva a disagio. Il suo sguardo poi era insopportabile. Bill aveva l’impressione che lo guardasse quasi con compatimento, e la cosa lo irritava non poco.

- Grazie – disse semplicemente Alex, appoggiando lo straccio sullo schienale di una sedia.

 

Un’ora dopo Bill stava trasferendo le “sue cose” nella camera di Michael. La vasta gamma di oggetti comprendeva: le scarpe, un cuscino e l’immancabile pigiama giallo canarino-post-mortem. Da qualche parte dovevano esserci anche delle mutande, ma non era il momento di controllare, considerando che Alex era davanti a lui e lo stava guidando verso la camera di Michael.

Arrivati davanti alla porta in fondo al corridoio, dalla parte opposta a quella di Alex, la ragazza bussò con decisione. Poi mise una mano sulla maniglia ed entrò nella stanza.

- Wow… - mormorò Bill.

- Mi scuso a suo nome… visto che dubito lui lo farà – disse Alex rassegnata.

La stanza era rettangolare, si allungava di fronte a lui fino a raggiungere la parete dove una finestra faceva entrare i raggi del sole. A sinistra, abbandonato tra le coperte arrotolate, c’era Michael, con due grosse cuffie alle orecchie, che dormiva a pancia in su, un braccio appoggiato dietro la testa. Indossava ancora le scarpe. Dalle cuffie partiva un lungo filo sottile che si collegava allo stereo appoggiato sulla scrivania incastrata tra letto e finestra. Sul ripiano c’era praticamente di tutto. Vestiti, calzini, dischi, quaderni, strani oggetti di vetro dalle forme allungate che Bill ricordava di aver già visto da qualche parte, penne, residui di cibo stantìo e chiavi. Alla parete destra era addossato un armadio e un letto più basso, sul quale erano stati abbandonati un piumone e una montagna di vestiti. Sopra il letto erano appese diverse mensole, sulle quali era appoggiata la stessa massa eterogenea che marciva sulla scrivania. Le pareti della stanza erano azzurrine, e quel colore contribuiva ad illuminare ancora di più il caos regnante in quel luogo.

- Vado a prenderti delle lenzuola e torno – disse Alex, uscendo dalla stanza.

Bill rimase impalato, il cuscino tra le braccia e i pantaloni del pigiama che strisciavano per terra. Dopo un minuto di silenzio decise di sedersi sulla brandina, da bravo bambino.

Michael non sembrava dare segni di vita, così Bill cominciò a guardarsi intorno. Nemmeno camera sua era ridotta in quel modo. Il suo sguardo scese sul bordo del materasso della brandina, sotto al quale spuntava l’angolo trasparente di qualcosa. Si piegò incuriosito, e tirò l’angolo, estraendo quella che si rivelò essere una bustina di plastica. La posò sul suo palmo, osservandone il contenuto, che appariva come una specie di grumo verde formato da erbetta compressa. Curioso, aprì la sigillatura. Un odore dolciastro lo investì, penetrandogli nelle narici. Si sentì per un attimo smarrito. Poi si rese conto di cosa stava aspirando allegramente.

Si tesoro, è erba disse Tom nel suo orecchio.

Oddio. Cos’era?!

Erba. Fumo. Cannabis. Hai presente le belle foglioline verdi? aggiunse suo fratello, stizzito.

Bill sgranò gli occhi e li fissò su Michael, che dormiva beato di fronte a lui.

Quando sentì i passi di qualcuno avvicinarsi fu investito dal panico.

- Eccoli – disse Alex ad un passo dalla porta.

Scattò in piedi ed infilò rapido il pacchetto nella tasca posteriore dei jeans, con un gesto piuttosto goffo che per fortuna lei non notò entrando.

La ragazza appoggiò le lenzuola sul letto, assieme ad un altro piumone dall’aria più pulita.

- Ok, c’è tutto ora. Ti lascio mentre ti sistemi. Mi raccomando, alle tre e mezza dobbiamo uscire di qui, Javier mi ha chiesto di aiutarlo nelle pulizie – aggiunse poi, voltandogli le spalle. Sull’uscio si voltò. – Ah, e non fare troppo caso a quello che troverai qui dentro. Se ti passeranno cose strane tra le mani semplicemente fai finta che non esistano – disse con una smorfia infastidita, lanciando uno sguardo a Michael. Bill annuì, impallidendo.

Quando Alex uscì dalla stanza si lasciò cadere sul letto. La bustina, schiacciata dal suo peso, si lamentò con un debole scricchiolio.

 

 

- Salve –

La ragazza che gli dava le spalle sobbalzò, voltandosi.

Quando lo vide la sua smorfia si trasformò da stupore a irritazione.

- Che ci fai qui? – chiese aggrottando le sopracciglia scure.

- E’ da dieci minuti che aspetto di ordinare, quando non sei arrivata ho pensato di venire a ricordarti che tra un colpo di lima e l’altro potresti anche lavorare – rispose Tom.

Heidi alzò un sopracciglio, fermandosi nell’atto si smussare l’angolo di un unghia. Gli infilò a forza la lima in mano, poi raccolse un vassoio dal bordo del piano cottura dove era appoggiata e lo superò, il naso all’aria come se tentasse di toccare il soffitto.

Tom osservò per un attimo l’oggetto diabolico e poi rise sotto i baffi.

Attese che Heidi tornasse nella cucina e abbandonasse il vassoio vuoto.

- Devo ricordarti la promessa che hai fatto oppure sarai così educata e corretta da ricordartene autonomamente? – disse incrociando le braccia.

La ragazza sorrise strafottente e lo imitò.

- Ti ha mai detto nessuno che il nero è un colore usato solitamente per le cerimonie funebri? – chiese quando non ottenne una risposta.

- Ti ha mai detto nessuno che i cappellini da baseball dopo le sei di sera non occorrono più? – ribatté lei mettendosi a sedere sul ripiano in metallo.

- Puoi fare di meglio – disse Tom raggiungendola.

Lei sbuffò.

- Senti, seriamente, perché sei venuto? – disse la ragazza guardandolo.

Quella sera teneva i capelli raccolti in due treccine spettinate.

- Perché mi devi una cena. E quando ti avrò fatto pagare le tonnellate di cibo che ordinerò, mi sentirò realizzato e soddisfatto – rispose Tom come se fosse ovvio.

- Però… ti basta poco – Heidi finse un’espressione stupita.

- E’ questo il segreto della felicità – affermò Tom saccente.

- Ce la fai a fare un discorso che si mantenga per più di due secondi sulle linee della serietà, o hai bisogno di aiuto? – domandò Heidi squadrandolo con sufficienza.

- Uhm. Aiuto del tipo “dolce e affettuosa guida”? – disse il ragazzo.

Heidi storse la bocca come se le avessero fatto ingoiare una caraffa di succo di limone appena spremuto.

- No, pensavo più alle pene corporali – disse – Dai, seriamente Kavoltiz, Krautiz o come diamine ti chiami… -

- Kaulitz. Non è molto difficile –

- Beh si. Hai capito. Perché sei venuto? Pensavo di averti liquidato chiedendoti scusa. Cioè, la promessa che ho fatto l’ho fatta solo perché credevo che umiliandomi ti saresti sentito realizzato e non saresti più tornato… - continuò Heidi gesticolando davanti a se.

- E invece sono tornato – disse Tom alzando le spalle.

- Si, questo lo vedo anche io nonostante la mia miopia galoppante. Ma perché?! – chiese di nuovo la ragazza, esasperata.

Tom rimase per un attimo in silenzio.

“Perché quel coglione di mio fratello è scappato in preda all’isteria per andare a farsi pestare negli Stati Uniti, quando, tranquillamente, avrei potuto pestarlo io a casa. Perché il nostro manager tra poco pur di farci lavorare ci legherà sui palchi con le catene e perché mia madre altrimenti mi avrebbe tartassato con le sue crisi di coscienza”.

Eccola, la risposta giusta. Era proprio li. Ben formulata nella sua testa. Ed era abbastanza stanco di non poter dire quello che pensava.

- Perché quel coglione di mio fratello è scappato in preda all’isteria per andare a farsi pestare negli Stati Uniti, quando, tranquillamente, avrei potuto pestarlo io a casa. Perché il nostro manager tra poco pur di farci lavorare ci legherà sui palchi con le catene e perché mia madre altrimenti mi avrebbe tartassato con le sue crisi di coscienza –

Ecco.

L’aveva detto.

Heidi lo guardò. Sembrava essere incerta tra il pensare che la stesse prendendo in giro o che le avesse raccontato la verità.

Lo perforò con lo sguardo, tentando probabilmente di fargli confessare la possibile bugia. Ma alla fine parve convincersi.

- Ah… - disse soltanto. – Negli Stati Uniti dove? – chiese poi.

Non gli fece domande complicate. Non richiese nessun tipo di spiegazione che avesse un riscontro psicologico. E la cosa si rivelò… terribilmente piacevole. Tanto che Tom trasse un sospiro di sollievo.

- New York – rispose, puntando lo sguardo sulla cappa in acciaio appesa al soffitto.

Anche Heidi puntò lo sguardo nello stesso punto.

- Tuo fratello deve essere uno spacca palle – disse poi.

- Si, hai centrato il punto. Come fai a saperlo? – chiese Tom.

- Mi è bastato vedere una vostra foto. Probabilmente se me lo trovassi davanti lo prenderei ad anfibiate – rispose Heidi.

- Ti autorizzo –

La cappa apparve molto interessante ad entrambi fin quando qualcuno non chiamò Heidi.

- Aspetta qui, togliamo di mezzo gli ultimi clienti e poi ti do’ qualcosa di decente da mangiare – disse scivolando giù.

- Togliamo di mezzo… materialmente? Nel senso pezzi, sacco e discarica? – chiese guardandola mentre si allontanava.

Lei si voltò appena.

- Ovvio, no? – disse uscendo dalla cucina.

Tom sorrise.

- Ovvio – mormorò.

 

***

 

Phan consiglia: La Bamba di EtErNaL_DrEaMEr, un concentrato di ilarità ed energia. Questa ff ti tira su che è una meraviglia! I miei complimenti cara!

 

Note di Phan: bene, eccomi ritornata. Chiedo venia per il terribile ritardo q_q. Finalmente ho finito la settimana d'esame, quindi, recuperi permettendo (^^'''), avrò un po' più di tempo per dedicarmi alla stesura dei capitoli. Spero davvero che questo vi sia piaciuto *_*. E scusate gli eventuali errori.

Ringrazio tanto le 30 persone che hanno messo questa storia in preferiti, e ringrazio un po' meno quelle che invece l'hanno tolta (non so per quale strano motivo O_O, misteri della fede).

Come al solito il mio affetto va' alle anime buone che commentano ad ogni santo capitolo *_* . Vi amo. Ma anche i lettori silenziosi, proprio perché lettori, non si possono lasciare in disparte *_^. Un bacione a tutti insomma.

 

Ora passiamo ai saluti ad personam:

Vitto_LF: Ho visto *_* e ti ringrazio tantissimo per la recensione, approfittando dell'occasione qui. Al tour Vitto for President ci sto pensando, per maggio dovremmo essere pronti. Prepara una buona dose di idiozie per la campagna elettorale! Invidio la tua idea personalmente. E posso dirti che la condivido. Si il mio Tom è come l'hai pensato tu. Complimenti per la perspicacia e la maturità cara ^_*. Un bacione.

bluebutterfly: XD si, odio scrivere da cani ovunque veramente. Si, penso che questa ff sarà molto "densa". Eccotela qui Heidi *_^. Grazie tantissime. Un bacio.

dark_irina: *_* Più di questo cosa avresti potuto dire. Grazie *_*. Mi piacciono tantissimo le tue recensioni, perchè sprizzano vitalità da tutti i pori. Un bacione irina.

Dying Atheist: Tuuuuu *_*. Oggi spero di riuscire a beccarti in msn q_q. Bellissima la canzone che mi hai mandato. L'avevo giù ascoltata, però in versione completa, e suonata solo dall'orchestra, senza effetti. Odddioo voglio leggere cosa hai scritto. Grazie. Un bacio.

valux91: Ecco. Mi hai detto una cosa che mi ha fatta sentire immensamente felice. "Quando leggo la tua storia le mie preoccupazioni si volatilizzano". Potrei forse chiedere di più? Non penso. Un bacio grande. E scusami il ritardo q_q

EtErNaL_DrEaMEr: Ahah  sisi, Tom è agli arresti in pratica. Fortuna per Heidi. Magari, come tu hai già pensato e come mi hai comunicato, la prossima volta cerca di non metterci November Rain come sottofondo... perché la cosa è potenzialmente distruttiva. *_^ Un bacione.

Paaola: Ma ciaooo ^^ no, io non vi abbandono forever. SCORDATEVELO! XD un bacione tesorrrr.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Dramma ***


Tom attese, appollaiato sul ripiano in acciaio di quella cucina. Heidi gli sgambettò davanti trascinando i pesanti anfibi diverse volte, prima di rivolgergli di nuovo la parola.

- Ti ho liberato un tavolo nell’angolo più buio che c’è – disse, incrociando le braccia e guardandolo come si guarda una zanzara molesta.

Tom sorrise perfidamente.

- Nella clausola “offrirmi la cena”, era compreso anche il fatto che tu dovessi cenare insieme a me. Spero non ti sia sfuggito questo particolare – disse.

Heidi spalancò la bocca sconcertata, poi arricciò le labbra.

- No, tu non hai capito niente. Non se ne parla… - rispose irrigidendosi.

- Che c’è? La cosa ti imbarazza? – chiese Tom, esibendo un sorriso sornione.

Vide le sopracciglia di Heidi tentare di scomparire sotto l’attaccatura dei capelli.

- Tu hai bisogno di una visita, perché, credimi, il problema che hai è grave. Qualunque esso sia – disse.

- Non ti hanno mai detto che la follia si asseconda? Decidi cara Heidi, o ti abbasserai a condividere una cena con me, oppure preparati a dover passare parecchie sere in mia compagnia – Tom si stiracchiò pigramente, senza prestare attenzione alla reazione della ragazza.

Quando ritornò con lo sguardo su di lei, la vide furibonda. Probabilmente, se avesse potuto, lo avrebbe bucherellato con la punta della sua penna bic, fino a trasformarlo in un colapasta. Ringraziò mentalmente che almeno l’omicidio fosse ancora punibile per legge e sostenne lo sguardo carico d’ira della cameriera.

- Razza di australopithecus afarensis – ringhiò Heidi lanciandosi uno straccio sulla spalla e digrignando i denti. Poi voltò le spalle e marciò fuori dalla cucina ben decisa a non guardarlo.

Tom aspettò che la porta si fosse chiusa dietro di lei prima di scoppiare a ridere sadicamente.

 

- Tira giù il culo da li e muoviti –

- Suggerisco bidet freddo in vista della consumazione di un pasto –

Heidi alzò gli occhi al cielo, come per chiedere perdono di ciò che stava pensando. Poi fece finta di non aver sentito e lo guidò in fondo alla cucina.

Il ristorante si era svuotato con relativa velocità, ed ora nel locale erano rimasti solo lui e “la cameriera isterica”.

- Senti, se vuoi farmi fuori, almeno che sia indolore… - disse ad un certo punto Tom, quando Heidi spalancò la porta di una stanza buia.

La ragazza accese la luce.

- Credimi, la tentazione di disossarti come un coniglio è forte. Ma credo che per questa sera farò appello al mio disciplinatissimo autocontrollo – rispose entrando nella stanza.

Tom la seguì guardandosi intorno.

C’era un letto basso, che aveva tutta l’aria di essere stato un pouf, appoggiato alla parete di fronte alla porta. Subito a sinistra, addossato alla parete, faceva bella mostra di se un tavolo uguale a quelli usati nel pub, completo di panchette. Su una sorta di comò erano impilati dei libri scolastici, mentre ai piedi del mobile stava attaccato alla presa elettrica uno stereo. Sul tavolo erano sparsi decine di cd che Heidi raccolse e lanciò sul letto prima di sfilarsi il grembiule.

Tom si accomodò su una delle panche.

- Beh, hai finito di guardarti intorno come se stessi assistendo alla rivelazione di Fatima? – disse brusca Heidi.

- Ti ha mai detto nessuno che sei veramente pesante? – chiese Tom incrociando i piedi.

- Da che pulpito. Dunque, vogliamo mangiare o hai intenzione di star qui a disquisire amabilmente fino a domattina? – Heidi stirò un sorriso gentile.

- Vada per il mangiare. Cosa offre la casa? – chiese Tom.

Heidi portò un dito al labbro con aria pensierosa.

- Dunque, cheeseburger con contorno di presunzione, hamburger insaporito con salsa d’ego, e patatine da intingere in ketchup e megalomania. Da bere ti suggerisco una bella birra corretta a modestia e umiltà… sai, per bilanciare – rispose poi.

- Genio della comicità, quando arriverà il momento di ridere potresti farmi uno squillo? Sai, tra una battuta esilarante e l’altra, ho perso il filo – Tom esibì un sorriso a duecentosessanta denti, compreso sberluccichio sull’incisivo.

- Sei irritante – constatò Heidi gelida. Poi uscì dalla stanza, tirando su il naso come al solito.

Tom gongolò. Si stava divertendo, nello stesso modo in cui si divertiva quando prendeva in giro Bill. Era una cosa così gratificante.

Quando Heidi tornò, dopo aver spadellato rumorosamente in cucina, portava con se due vassoi carichi di libagioni. Si sedette di fronte a lui e gli fece scivolare davanti il suo vassoio. Tom osservò il panino farcito.

- Niente hamburger insaporito con salsa d’ego? – chiese, con tono deluso.

- No, di la hanno detto che si rivelerebbe potenzialmente distruttivo per la tua monumentale convinzione. E’ per il tuo bene Krautiz – rispose Heidi stappandogli la bottiglia di birra.

- Come siamo premurosi. Dovrei preoccuparmi riguardo all’integrità della composizione chimica di questo panino? Che dici? – domandò sollevando con un dito la superficie farinosa colante maionese.

- Se vuoi fugare la possibilità che dentro ci sia del veleno puoi sempre inciderti il braccio e intingerlo nel condimento. Ho visto un film dove questo trucchetto funzionava. Ah, nel caso dovesse mancarti il coraggio sappi che il braccio posso incidertelo io, con immenso piacere – ribatté la ragazza stappando la sua bottiglia di coca-cola. Gli occhi di Tom caddero sul grosso panino che faceva bella mostra di se nel suo piatto.

- Qual è il tuo secondo lavoro? Il muratore? – disse, indicando il vassoio della cameriera. Lei guardò l’oggetto in questione con perplessità.

- Si. Nei tempi morti vado anche a dare una mano al cantiere navale – disse, tirando fuori dal panino una foglia di insalata viscida a causa del mix di salse in cui navigava. La portò alla bocca e la ingoiò con gusto.

- Senti, smettila di guardarmi così Krautiz. A me piace mangiare, ok? – sbuffò Heidi. Tom rise.

- Va bene, va bene. Buon appetito –

- ‘tito –

I primi cinque minuti trascorsero in silenzio. Tom, tra un boccone e l’altro, osservò Heidi attaccare il suo panino. Le labbra della ragazza si chiudevano in piccoli e rapidi morsi, simili a quelli di un bambino. Ogni tanto sorseggiava dalla sua bottiglia e vagava con lo sguardo, stando ben attenta ad evitare di posare gli occhi su di lui. Le trecce le cadevano dietro le spalle, mentre dei ciuffi ribelli faticavano a stare dietro le orecchie piccole, forate da diversi piercing, e si arricciavano solleticandole il collo bianco.

- Krautiz, la smetti di fissarmi, per cortesia?! – chiese ad un certo punto Heidi, con tono esasperato. Tom sorrise furbamente.

- La cosa ti irrita? – chiese innocentemente. Lei lo fulminò.

- Si – rispose secca.

- Ma non ci sono altre apparizioni di madonne da ammirare, devo pur impiegare il mio tempo – disse Tom sgranando gli occhi.

- Leggi le modalità di consumazione della tua birra piuttosto! – Heidi agitò le mani davanti a se, istericamente.

- Perché ti irrita? – chiese di nuovo Tom. Heidi abbandonò il suo panino nel vassoio.

- Perché mi da fastidio essere osservata mentre mangio – rispose, gli occhi scuri attraversati da pericolose saette.

- Vuoi dire che ti imbarazza? – domandò lui.

Heidi sbatté le mani sulle ginocchia mordendosi il labbro.

- SI! Ok?! Diosantissimosignoreaiutami – rispose muovendo di nuovo in gesti ampi le mani. Urtò la bottiglia di coca-cola e quasi la fece cadere, senza mostrare di essersene accorta.

- In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. Comunque, preghiera del Padre Nostro a parte, mi diresti perché ti imbarazza? O preferisci cominciare con la recitazione del Corano? – Tom sarebbe volentieri scoppiato a ridere, ma voleva tirare la corda ancora un po’.

Heidi si rizzò a sedere sulla sedia.

- Perché si, ok? Mi imbarazza! Potrei avere qualcosa tra i denti, o potrei sporcarmi la bocca, sbrodolarmi, impiastricciarmi. Potrebbero cadermi residui di patatine e pomodori sulla maglietta o sulla tovaglia! Potrei mettermi a tossire o starnutire o… diamine! Potrei fare cose repellenti e… -

La mano che Heidi stava usando per spazzare l’aria di fronte a lei urtò la bottiglia di Tom. Che cadde, rovesciando la birra nel suo panino, e sul tavolo. La stessa birra che in fiotti generosi colò dal bordo del tavolo e atterrò… sul cavallo dei suoi pantaloni.

Tom si alzò rapidamente, ma ormai il danno era compiuto. Nello stesso istante Heidi sollevò la bottiglia di birra, vuota.

Guardò costernata i suoi pantaloni, sui quali si stava allargando una grossa macchia di provenienza equivoca. Sulle sue guance comparve un impietoso rossore.

- Oddio… s-scusami – mormorò spostando in fretta lo sguardo dai suoi pantaloni.

- Non fa niente, non ti preoccupare – disse Tom, sorridendole. Heidi però non lo vide, impegnata com’era a sfuggire di nuovo il suo sguardo.

- Vado, prendo uno straccio, e torno –

Heidi si volatilizzò e lasciò Tom ad ammirare il danno.

Tornò con in mano un panno.

- Ehm… dunque… tieni – disse mettendoglielo in mano.

Tom cercò di rimediare nei limiti del possibile. Mentre Heidi si torturava il labbro.

- Davvero… scusami. E’ che sono imbranata. Cioè non costantemente… solo quando divento isterica. Non mi succede spesso, anzi ultimamente sempre di meno, ma sai, non me ne rendo conto e combino tanti di quei… - disse la ragazza in preda ad un probabile attacco di logorrea post-imbarazzo.

- Ehi, calma. Respira. Guarda che succede a tutti. E poi non è mai morto nessuno per un po’ di birra sui pantaloni… certo, probabilmente metà della mia famiglia mi riderà dietro dandomi dell’incontinente, ma ho subito di peggio – la interruppe Tom, abbandonando lo straccio sul tavolo. Heidi rise. Una risata breve, ma pur sempre una risata.

- Certo, tutto questo ci porta a dover pattuire delle nuove condizioni… - aggiunse Tom.

Gli occhi della ragazza si assottigliarono.

- Cioè? – chiese, sospettosa.

- Cioè domani alla stessa ora verrò a reclamare la mia seconda cena –

 

 

 

- VATTENE. VATTENE VIA. NON METTERE PIU’ PIEDE IN QUESTA CASA –

Alex aveva urlato. Con tutta la forza che aveva in corpo.

Bill posò lo sguardo su di lei. La tensione la attraversava, facendole tremare le mani, mentre la voce era ferma, profonda. Era pallidissima, quasi dovesse collassare a terra da un momento all’altro.

Non gli era sembrata il tipo di persona che potesse urlare. Passava il suo tempo con i bambini, li accudiva con tenerezza, li sgridava con amore. Non era una che per risolvere le cose alzava la voce, Alex. Piuttosto se la immaginava con un’espressione dura, granitica, e la voce fredda. Invece no. L’espressione dura c’era, ma c’erano anche quelle parole, urlate, senza controllo.

Dal lato verso il quale Alex era rivolta, che ora non entrava nel suo campo visivo, non giunse nessuna risposta. La porta si chiuse, con un tonfo sordo. E poi calò il silenzio.

Bill si guardò intorno spaesato.

Era successo tutto molto, molto in fretta.

 

*

 

*Poco prima*

 

- I jeans sono pronti, Bill – disse Alex entrando di nuovo in camera di Michael con i suoi pantaloni piegati tra le braccia. Bill le rivolse un sorriso sincero e finì di infoderare il cuscino, prima di prenderli.

- Se quelli sono da lavare portameli di la, sto facendo la lavatrice – disse la ragazza uscendo dalla stanza.

Bill si sfilò i jeans che indossava e scivolò nei suoi, con sommo piacere. Poi raccolse gli altri e raggiunse Alex nello sgabuzzino, dove aveva scoperto esserci una piccola lavatrice che lavorava a pieno regime per praticamente tutte le ore del giorno e della notte.

- Eccoli –

 

*

 

Alex scosse i jeans di Bill, prima di infilarli in lavatrice. Infilò le mani nelle tasche, come era abituata a fare con i vestiti dei bambini, per accertarsi che non ci fossero oggetti dimenticati o fazzoletti abbandonati dentro. La sua mano si chiuse all’improvviso su un qualcosa che scricchiolò. Estrasse il qualcosa con curiosità.

Sbiancò.

No. Non era possibile.

Rimase immobile, imbambolata, ad osservare il contenuto, purtroppo ben conosciuto, della bustina spiegazzata nella sua mano. Le aveva viste tante volte quelle bustine, circolare tra i banchi di scuola, sotto nasi di insegnanti impegnati ad esercitare cosciente ignoranza.

Ma cosa ci faceva quella bustina nella tasca dei jeans di Bill?

Si alzò di scatto ed uscì dallo sgabuzzino, la bustina stretta nella mano destra. Raggiunse Bill nel corridoio.

- Bill – disse, voltandolo. Lui le rivolse un’occhiata interrogativa e per nulla colpevole.

- Dimmi – disse, con espressione tranquilla.

- Che ci faceva questa nei tuoi pantaloni? – chiese mostrandogli ciò che teneva in mano. Tenne gli occhi ben fissi sul viso del ragazzo.

Bill impallidì improvvisamente, e sgranò gli occhi.

- N-non è come pensi – disse alzando le mani come per sostenere l’argine di un fiume in piena.

- Ah, e com’è? – chiese lei, tagliente. Il ragazzo fece per aprire la bocca, poi si fermò.

- Bill, ricordi cosa ti avevo detto, riguardo al non mettere nei guai la mia famiglia? Bene, questa – disse sventolando la bustina – rientra nel termine “guai” –

Bill la interruppe abbassandole la mano.

- Non è mia – disse, serrando le dita attorno alle sue e volgendo un’occhiata eloquente alle sua spalle. Alex si voltò e vide Charlie allontanarsi.

Si spostarono più avanti nel corridoio.

- E cosa ci faceva allora nella tua tasca? – sibilò Alex.

Bill si morse il labbro.

- L’ho trovata sotto il letto da Michael – disse, lasciandole la mano – Poi sei entrata tu, e non sapendo dove metterla, l’ho infilata nella tasca dei jeans. E mi sono dimenticato di toglierla di li prima di darteli… -

Alex piantò gli occhi nei suoi, tentando di trovarci dentro una traccia di menzogna, di inganno. Ma non c’era nulla. Nulla a parte sincero dispiacere.

Superò Bill e puntò verso la stanza di Michael.

 

*

 

Bill le corse dietro.

- Alex… Alex, cosa stai facendo? – le chiese. Ma lei non si voltò.

Spalancò la porta bruscamente, e quella andò a sbattere contro il muro della camera, facendo svegliare di soprassalto Michael, che si guardò intorno confuso.

Alex non gli prestò attenzione. Prese il materasso indicato da Bill e lo sollevò, abbandonandolo a terra.

Bill strabuzzò gli occhi.

Sul pavimento caddero alcune delle decine di bustine sistemate su un panno bianco, ticchettando nel silenzio.

Alex si raddrizzò lentamente. Bill non riusciva a vederle il viso.

Michael saltò in piedi, perdendo di colpo l’aria confusa.

- CHE CAZZO FAI?! – urlò contro Alex.

Bill sobbalzò. Alex non diede segno di aver sentito. Si piegò e prese i lembi del panno, richiudendoli gli uni contro gli altri, e creando una sorta di sacco. Uscì dalla stanza, il viso schermato dai capelli color fuoco.

Dopo un attimo di silenzio Michael si lanciò dietro di lei, e Bill fece altrettanto.

Quando arrivò in cucina la confusione regnava sovrana.

Zachary e Kevin, che stavano guardando SpongeBob, avevano sollevato le testoline per capire la ragione di tutto quel trambusto improvviso. Joanne si era impietrita nell’atto di asciugare un piatto e Samuel, seduto al tavolo, aveva spezzato la punta della sua matita sul quaderno.

Michael superò con un balzo felino una sedia e raggiunse Alex, che stava per lanciare fuori dalla finestra il sacco. Le prese i polsi e la costrinse a ritirare le braccia.

A quel punto Joanne radunò i bambini e li portò in fretta fuori dalla stanza, oltrepassandolo, senza quasi accorgersi della sua presenza.

Bill era atterrito. Si guardò intorno invaso dal panico. Non sapeva cosa fare. Non c’era più nessuno.

Assistette inerme alla lotta silenziosa tra Michael e Alex. La ragazza tentava di divincolarsi dalla presa delle mani di Michael, senza riuscirci. Alla fine il sacco le sfuggì e tutte le bustine caddero a terra. Il ragazzo le lasciò i polsi, dove erano comparsi dei brutti segni viola, e si piegò per raccoglierle.

 

*

 

- Razza di stupida. Cosa pensavi di fare, eh? Hai idea in che casino mi avresti messo? – disse con tono rabbioso.

Lei quasi non sentì.

Tenne lo sguardo puntato fuori dalla finestra.

Sentiva gli occhi pizzicarle, e davvero, non era una bella cosa.

Nel cielo quel primo pomeriggio brillava il sole. Le parve un insulto imperdonabile.

Tutto di lei tremava. Le mani, le braccia, le ginocchia, le spalle, ma anche le ossa, la mente, il sangue.

Sentiva i polsi bruciare.

Le aveva fatto del male. A lei.

“Tu non sei nessuno”.

Per quanti giorni quelle quattro parole le avevano attraversato i pensieri, crude, impietose?

Lei non era nessuno. A lui non importava di farle del male.

Avvertì le lacrime salirle agli occhi con sorprendente facilità.

Da quanto tempo non piangeva?

Otto, nove anni. Forse più.

La parte della sua mente che era ancora vigile vide Michael sollevarsi e posare le bustine raccolte sul tavolo.

Le sembrò di riprendere vita.

- Togli quella roba da li – sibilò, gelida.

Il ragazzo si voltò. Aveva un’espressione feroce dipinta sul volto. Sembrava un felino. Ogni volta che si arrabbiava i suoi occhi diventavano sottili, duri. Impenetrabili. Scompariva, per lasciare spazio alla parte peggiore di se.

- Ho detto togli quella roba da li – ripeté, la voce ferma.

- Tu devi lasciarmi stare, Alex. Tu devi smetterla di impicciarti in cose che non ti competono ne ti interessano. Devi uscire dalla mia vita – disse per tutta risposta Michael.

Un’altra fitta un po’ più crudele.

Più male di così non poteva certo fare.

- Io non ci sono mai entrata nella tua vita. Di te non mi interessa nulla. Fai ciò che ti pare, ruba, spaccia, fatti ammazzare. Ma fallo lontano da me, fallo lontano da loro – disse, puntando un dito contro le camere dei bambini.

Michael sgranò appena gli occhi per la sorpresa. Ma fu solo un istante.

- “Non sono nemmeno un’amica?” – scimmiottò poi, imitando la voce acuta di qualcuno che certamente non era lei – Cos’è? Hai cambiato idea? Manchiamo un po’ di coerenza, non trovi? –

Si. Poteva fare più male di così.

Tacque.

Piena di punti deboli. Ecco cos’era. E Michael era forse il punto debole più grande e doloroso di tutti. Perché lui sapeva, sapeva e capiva tutto. E ne approfittava per punirla, per torturarla, senza un motivo.

Era così cattiva? Gli aveva mai fatto del male in quel modo?

Di nuovo quelle maledette, odiate e stupide lacrime.

[Soundtrack: White Horses – Elisa]

Lo scostò bruscamente e buttò a terra tutto ciò che c’era sul tavolo.

Quaderni, matite, un bicchiere mezzo pieno d’acqua, la roba di Michael. Tutto.

Il ragazzo la prese per le spalle e cominciò a scuoterla, come una brutta bambola, o un bambino capriccioso.

- La vuoi smettere? SMETTILA! – le urlò addosso, a pochi centimetri dal suo viso. Lei chiuse gli occhi.

Si sentiva estremamente debole, e fragile, e vuota. Tutt’un tratto. E il dolore vero non era più nella presa salda di Michael, non era più fuori, ma tutto dentro. Ed era tanto che pensava di poter esplodere li, sotto le sue mani.

- NO – urlò di risposta, divincolandosi.

Michael la lasciò andare.

Le sue mani sottili lo spinsero via, mandandolo a sbattere contro la sedia alle sue spalle.

- TI ODIO –

Non aveva mai urlato così.

Dentro quelle urla c’era lei, interamente. Lei, la sensazione di avere un taglio che le attraversava la gola e un coltello piantato nel petto.

Respirava a fatica. E le sue mani tremavano, tanto.

Michael non disse nulla.

Calò un silenzio innaturale, che rimbalzò nella sua testa come il suono di un gong.

Lo vide voltarsi e raccogliere le bustine e il panno da terra.

Anche in quel momento lei era “nessuno”. Trasparente.

Non le importava di essere qualcosa per qualcun altro. Lei aveva sempre voluto essere qualcosa per lui. Perché solo significare qualcosa per lui l’avrebbe cambiata, l’avrebbe trasformata, le avrebbe tolto le catene. Solo essere qualcuno per lui avrebbe voluto dire essere.

Invece no.

Le cose non dovevano andare così. E forse era meglio… Forse era meglio non illudersi, non credere e nemmeno sperare. Non aveva mai sperato in niente, tranne in lui. L’unica persona in cui non avrebbe mai dovuto riporre la sua fiducia.

Perché lui era vuoto. A lui non importava, semplicemente. E quella era una cosa troppo grande da cambiare. Non era alla portata delle sue mani, non avrebbe nemmeno mai potuto sfiorarla con le dita.

Lo vide allontanarsi come in sogno, mentre riusciva a contenere ancora quelle lacrime.

- VATTENE. VATTENE VIA. NON METTERE PIU’ PIEDE IN QUESTA CASA –

Parole vuote.

Mai parole le erano sembrate più vuote.

La porta si chiuse, e improvvisamente le sue forze parvero scomparire, come spazzate via dal soffio d’aria fredda che era penetrato nella stanza.

Cadde sulle ginocchia, senza tentare di mantenersi ancora un attimo in piedi.

E finalmente le lacrime decisero di cadere, decisero che era il momento giusto, lontano da quegli occhi freddi, che ora non c’erano più ma che una parte di lei continuava a chiamare a se, nonostante non lo meritassero.

Sentì le lacrime roventi rotolarle sul viso.

Eccola li, a sciogliersi, a consumarsi. Finalmente aveva ceduto. Finalmente qualcos’altro aveva vinto, aveva distrutto la sua forza, pensò con ironia amara.

I suoni parvero scomparire, avvertiva solo il cuore battere lentamente, quasi arrancasse, le spalle sussultare contro il suo volere.

Poi qualcuno la abbracciò.

Non si chiese chi era.

Affondò il viso in una maglietta che profumava di un odore particolare, che ricordava vagamente di aver sentito attorno a lei in quei giorni.

Il qualcuno la strinse a se con affetto.

L’unica cosa di cui aveva bisogno.

Si abbandonò in quell’abbraccio, lasciandosi cullare come una bambina.

 

***

Note di Phan: Oh, oh, oh! direte voi! Ebbene si, questa settimana sono arrivata prima del previsto ^^. Forse per farmi perdonare dei ritardi accumulati in precedenza, chissà.

Questo capitolo è molto dolce-salato. Da una parte ho piazzato la cena tra Tom ed Heidi, e spero di non avervi deluse, e dall'altra ho inserito la prima parte davvero drammatica di questa ff. Spero che l'insieme non sia sgradevole q_q. Se così fosse preparate pure le pietre, sono pronta a porgere il cranio. Ah dimenticavo, scusate gli eventuali errori.

Come è tradizione ringrazio tutte le anime buone che leggono questo mio folle scritto *_*. E anche i nuovi che hanno aggiunto questa storia nei loro preferiti.

Vi amo.

 

Ringraziamenti personali

bluebutterfly: Hai fatto la prima recensioneee. Applausino. Grazie cara q_q. Sono a dir poco contenta che ci sia qualcuno a cui questa storia piace e diverte. Un bacione.

_Ellie_: Ma sai che all'inizio non avevo capito a che forum ti riferissi? Poi oggi ho postato sul forum di cui stavi parlando, ed ho scoperto l'arcano! Dunque, naturalmente ti perdono il fatto di non aver mai commentato prima, ma solo perché la tua recensione è bellissima! *_* Grazie, grazie ed ancora grazie. Wow! Ma sai che non sei la prima ad essere attratta da uno dei miei Bill? Mi diverto a infrangere gli equilibri mentali delle persone XD. Si, gli sto riempiendo la testa di pensieri demenziali... un po' me lo immagino così veramente, il vero Bill Kaulitz. Uno non può essere profondo come appare dalle sue interviste, deve avere dei momenti di demenza, e io li ho portati a galla! Eccoti servita la cena tra Heidi e Tom. Si, loro due sono completamente "sparati", è per questo che mi piacciono un sacco insieme. Niente complessi d'inferiorità paladina del congiuntivo! Naturalmente ora andrò a leggere qualcosa di tuo. Gustav e Georg torneranno in azione nel prossimo capitolo, ho dovuto escluderli un po' negli ultimi per questioni di spazio ^^''' XD. Ecco esaudito il tuo desiderio. Postato! ^^

pervancablue: caraaaaaa, come le amo le tue recensioni. Non mi stancherò mai di dirtelo, bada. Anche io associo le parole a qualcosa di specifico. E' un vizio ^^'''. Si il Tom di Bill è amato non troppo segretamente anche da me. La cenetta da splatter a cui accennavi sarà organizzata dalla sottoscritta quanto prima. Grazie *_*. Mi sono divertita davvero, ho sghignazzato e ti ringrazio anche per questo. Mi sento tanto cerebrolesa *_*. Un bacione.

EtErNaL_DrEaMEr: Sisisisi. La tua storia mi piace un sacco *_*. Heidi del vaffanculo è uno dei miei personaggi preferiti. Ahahah visto la figuraccia? Anche se la cosa è scivolata nel dramma alla fine... ma prima o poi doveva pur succedere. Grazie, grazie e grazie <3. Tanti baci.

GodFather: mia adorata ostrichetta, hai idea della frustrazione che mi ha assalita quando ho visto che la frase di cui hai parlato allegramente per tutta la recensione, non è stata trascritta q_q? Mi hai fatto venire un coccolone. Q_Q E ora ovviamente dovrai dirmi a che frase ti riferisci prima che la curiosità mi divori, facendomi evaporare. Grazie. *_* Oddio, "geniale". *me si rotola nel brodo di giuggiole poi arrossisce* Grazie. Ti voglio bene bene bene. Un bacio grande.

valux91: Oddio, questa è stata la settimana di pioggia anche da te? >.<. Da me si, nerrrrvi. Grazie *_*. Un bacio.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Marion dagli occhi vuoti ***


Lei si stupì e restò arresa alla brutalità di un impeto infernale
che lui rigurgitò con abominevole irascibilità rituale.

Poi sbiancò e cascò nell'impossibilità di muoversi o parlare,
gli occhi in fissità sull'indefinibile abisso di afflizione universale

Lenta un giorno apparirà, rossa piaga apparirà,
la cognizione di un dolore miserevole.
E lenta un giorno crescerà, e cancrena si farà,
la cognizione di un dolore deprecabile.
E lenta un giorno fiorirà, e tumore diverrà,
la cognizione del dolore.

E più grande di ogni colpa avrà inviolabile sovranità
su chi non potrà più vivere felice, mai.

 

[La cognizione del dolore – Marlene Kuntz]

 

Abbracciarla era stato un gesto naturale.

Avrebbe potuto fare altro, dopo averla vista crollare così? Bill era sicuro di no.

Gli dispiaceva per quello che era successo, per come l’aveva trattata Michael, perché lei di certo non meritava nulla di quello che le era stato fatto e detto in quei pochi minuti. L’unico modo per farle sapere tutte quelle cose senza sommergerla di frasi inopportune, era abbracciarla. A lui piaceva quando sua madre o Tom lo abbracciavano dopo una delle sue crisi di nervi. Certo, quello che era appena successo non poteva ricondursi ad una semplice e stupida crisi, ma un abbraccio, secondo il suo terrorizzato parere, sarebbe servito comunque. Giusto… ?

Sentì il capo di Alex appoggiarsi al suo petto e la ragazza rannicchiarsi contro di lui.

All’improvviso avvertì la stessa sensazione che aveva provato prendendo in braccio Zachary la prima volta. Gli sembrava che ad una minima pressione Alex, la stessa Alex che aveva visto trasportare bambini e zaini su e giù dalle scale, la stessa Alex che aveva sempre un sorriso per tutti, si sarebbe sbriciolata sotto le sue dita. Solo che in quel frangente la sensazione non era sorprendente e vagamente piacevole, tutt’altro. Gli trasmetteva un senso di impotenza orribile.

Allungò incerto una mano verso il capo di Alex, affondandole appena le dita nei capelli. Lei reagì aggrappandosi alle sue spalle e iniziando a singhiozzare.

Non sapeva davvero cosa fare, e si lasciò guidare dall’istinto.

Le accarezzò la testa, stringendola un po’ di più. Le lacrime di Alex attraversarono il cotone della maglietta che indossava, bagnandolo appena.

Per un attimo l’assurdo pensiero di scoppiare a piangere anche lui gli attraversò la mente. Un istante dopo si diede del cretino e non riuscì a capacitarsi della demenza senile galoppante che evidentemente aveva invaso il suo cervello senza che se ne rendesse conto.

All’improvviso nel suo campo visivo entrarono tre testoline.

Samuel, Kevin e Zachary si erano avvicinati silenziosamente, senza che lui si accorgesse della loro presenza.

Vide Samuel abbracciare Alex, inginocchiandosi a terra come loro, e lo stesso fece Kevin, cingendo la vita della ragazza. Zachary rimase in piedi, ed allungò una manina paffuta sul capo di Alex, accarezzandole i capelli ed emettendo strani gorgoglii sconnessi.

Rimasero li per un po’, interpretando una goffa imitazione di famiglia.

Bill rifletté in pochi minuti che non aveva mai visto niente di più vero in vita sua. Tutto era autentico, reale, scevro da ogni tipo di patinatura. E non era bello, non era felice, non era positivo, ma la preziosità di quel momento stava proprio li. Tutti si comportavano in modo naturale e spontaneo. Abbracci teneri, pianti disperati e sinceri, conforto disinteressato. E gli parve di ritornare alla vita, quella normale, quella che aveva abbandonato appena dopo i quattordici anni. La vita che gli era venuta a mancare, senza che lui se ne accorgesse. Ritornò a sentire ed ascoltare le persone attorno a lui. Sentiva davvero Alex piangere, sentiva il dolore di quella ragazza molto più intensamente di quanto gli fosse mai successo. Comprendeva quanto amore quei bambini nutrivano per lei, e quanto erano ricambiati. Afferrava il significato di ogni privazione che Alex si imponeva, per quei bambini. Tutto era così immensamente grande ed importante da spingerlo a vergognarsi di se stesso.

C’era qualcuno per cui lui aveva mai fatto qualcosa di concreto?

Quante delle sue azioni erano state compiute per il benessere di qualcun altro?

Quante volte era stato disposto a mettere da parte se stesso?

Alex sollevò la testa, ed incrociò il suo sguardo.

Aveva delle chiazze rosse sulle guance, l’incarnato delle labbra era diventato più scuro, e il verde dei suoi occhi navigava nelle lacrime. Sul suo viso si vedevano tutti i segni di una sofferenza profonda, nascosta abilmente per tanto tempo. Ma gli sorrise. Distese appena le labbra, continuando a guardarlo.

- Grazie – mormorò.

Mai.

Lui non aveva mai fatto niente per nessuno.

Ogni sua azione, ogni suo pensiero, ogni sua preoccupazione, erano rivolti a se stesso.

Era lui, il centro del suo mondo.

Alex si sfilò dal suo abbraccio e strinse a se i bambini, baciandoli sulla fronte come avrebbe fatto una mamma.

Quando il calore del corpo di Alex gli venne a mancare si sentì improvvisamente vuoto. Un vuoto gelido, sconfinato, fastidioso. Dentro di lui non c’era nulla?

In quel momento arrivarono anche Joanne e Charlie.

La ragazzina era più pallida del solito, ma non disse nulla, si limitò ad accertarsi con pochi sguardi ansiosi che Alex stesse bene, che non fosse successo nulla di troppo grave. Poi incrociò le braccia stringendo tra le dita il cotone della felpa che indossava.

Joanne aiutò Alex ad alzarsi, e poi la strinse in un abbraccio da nonna.

Bill si sentì fuori posto. Non tanto perché lui non facesse parte di quel quadro familiare, ma perché si sentiva diverso. Non era come loro. Lui era ricco, bello, e vuoto. Ed egoista. E… Bill Kaulitz. Lui era Bill Kaulitz. Perché Bill Kaulitz avrebbe dovuto preoccuparsi degli altri? Nulla della sua vita perfetta lo richiedeva.

Alex riprese a sorridere, asciugandosi le lacrime con uno straccio raccattato dallo schienale di una sedia. Rassicurò i bambini dicendo che no, non era successo niente, non si era fatta la bua, stava bene.

Aveva sorriso ad Alex quando lei gli aveva regalato l’ennesimo sguardo di riconoscenza. Dopotutto la ragazza non poteva sapere che quell’abbraccio era stato più frutto del caso che d’altro.

Aveva assistito a quello che era accaduto dopo come in trance.

Alex che si lavava il viso nel lavandino, Joanne che si scusava con lei per conto di Michael, Samuel che continuava a guardarla come se dovesse scoppiare a piangere da un momento all’altro, Zachary che gorgogliava, Kevin estremamente composto e silenzioso, Charlie con lo sguardo perso e il solito sarcasmo sopito.

La ragazza aveva chiamato Javier per avvisarlo che quel pomeriggio non sarebbe andata a lavorare, e l’uomo non aveva fatto una piega, segno che Alex era la sua pupilla esattamente come Bill aveva sospettato. Non rimase sorpreso, dopotutto, chi avrebbe potuto dire nulla su Alex?

All’improvviso si era ritrovato con un cappotto tra le mani ed Alex imbacuccata al fianco.

 

- Mettitelo, oggi ti porto un po’ in giro –

Bill ritornò alla realtà con uno sforzo sovrumano.

- Ok… - rispose titubante, seguendo la ragazza fuori dalla porta, dopo aver salutato la scossa famigliola rimasta dietro l’uscio.

Si trascinò dietro Alex, seguendola prima per strada e poi su un tram. Non parlarono per nulla durante tutto il tragitto, fin quando Bill non si rese conto di essere in attesa dell’arrivo di un treno, sotto ad un tunnel della metropolitana.

Si guardò attorno sperduto, circondato da uomini in giacca e cravatta, donne in tailleur, filippini impegnati in animate conversazioni al cellulare, cinesi alle prese con buste della spesa che parlavano ad alta voce tra loro e messicane piene di braccialetti tintinnanti. Ma quella era solo una minima parte della folla assiepata in attesa del treno, che vista nell’insieme dava l’impressione di una grande massa variopinta in perenne movimento.

Una donna in tailleur grigio affianco a lui gli sfiatò davanti al viso una nuvola di fumo.

- Dove stiamo andando? – chiese ad Alex.

Lei non si voltò.

- Da mia madre – rispose soltanto, e a Bill diede l’impressione di essere estremamente lontana.

La madre di Alex. In quelle settimane Bill non aveva mai nemmeno tentato di immaginarla. Alex gli dava l’idea di essere… completa. Non poteva aver bisogno di una madre.

Pensando al motivo per il quale la ragazza era cresciuta in una casa famiglia il senso d’angoscia ormai ben conosciuto gli scivolò sullo stomaco come un macigno.

Il treno arrivò, preceduto da un cupo rombo. Con non poca fatica Bill riuscì a rimanere accanto ad Alex, e passarono le prime fermate in piedi, appesi alle maniglie di quel vagone un po’ vecchiotto. Solo quando tutta la folla di lavoratori si dissipò, lasciando liberi numerosi posti, riuscirono a sedersi.

- Ci metteremo un po’ – disse Alex interrompendo il lungo silenzio che era sceso da quando erano saliti in treno – E’ a circa un chilometro da New York, il posto dove stiamo andando. Arrivati al capolinea dovremo prendere il tram –

- Ok… - rispose Bill, non sapendo cos’altro dire.

- Scusami se ti ho praticamente costretto ad accompagnarmi ma… Ho bisogno che ci sia qualcuno al mio fianco. Di regola sarebbe venuto Michael però… - la voce di Alex scomparve tutt’un tratto. Lei deglutì e smise di torturarsi le mani, senza guardarlo.

Bill le portò una ciocca di capelli caduta davanti al viso dietro l’orecchio, poi le posò una mano sulla spalla.

- Non provare nemmeno a scusarti, è un piacere. Non hai idea di quanto tu stia facendo per me – disse.

Alex sollevò lo sguardo su di lui, per un attimo, tradendo una strana emozione, prima di ripararsi nuovamente dietro le ciocche ribelli.

Per raggiungere il capolinea impiegarono un’ora netta, e Bill accolse con immenso sollievo la luce del giorno quando furono usciti dal dedalo di intricate gallerie della metro.

Come Alex gli aveva anticipato presero il primo tram che passò, ed attraversarono un quartiere decisamente diverso da quello dove abitavano la ragazza e i bambini. Era composto unicamente da villette basse, lontane dai grattacieli opprimenti della città.

Quando l’autobus rallentò in vista di un edificio bianco, Alex gli fece cenno di seguirla, ed entrambi scesero, trovandosi su un marciapiede grigio e pulito. Davanti a loro si innalzava un cancello verniciato di verde, attraverso le cui sbarre si poteva vedere un giardino ben curato e un grande caseggiato circondato da alberi.

Alex aprì il cancello senza esitare, e Bill la raggiunse, superando una grande insegna inchiodata al muro d’ingresso.

Green House.

Dubbioso, e invaso da un brutto presentimento, si affiancò alla ragazza, percorrendo un piccolo sentiero che portava alla porta principale dell’edificio. Anche in prossimità della porta Alex non si fermò ed entrò decisa, spingendo il battente.

Quando una donna in camice bianco venne loro incontro, attirata dal tintinnio che avevano provocato aprendo la porta, i peggiori sospetti di Bill presero forma.

Alex salutò la donna come se la conoscesse piuttosto bene, poi si avviò verso un corridoio alla loro destra, Bill che le trotterellava dietro.

Il ragazzo studiò il diverso numero di porte che comparivano ad intervalli regolari nella parete, e dalle quali ogni tanto uscivano un uomo o una donna vestiti di bianco. Era tutto terribilmente asettico e lucido. I capelli di Alex, così rossi, creavano un contrasto con le mattonelle candide che gli faceva dolere gli occhi.

Svoltarono un angolo e raggiunsero un corridoio più corto. Alex rallentò il passo, segno che evidentemente erano arrivati a destinazione. Esitò appena davanti all’ultima porta, poi posò una mano sulla maniglia ed entrò dentro.

Bill la seguì un istante dopo, mettendo da parte la voglia di fuggire lontano da li.

 

La madre di Alex doveva essere stata bella. Si poteva indovinare dai dolci tratti del viso, che somigliavano tanto a quelli della figlia. Ma tutta quella bellezza era ormai sfiorita, per lasciare posto ad un fantasma silenzioso.

Assente, fu la prima parola che gli venne in mente quando la vide. Il suo corpo era li, ma lei non c’era più.

Era appollaiata su una sedia vicino ad una finestra, le mani ferme in grembo, come le avrebbe tenute un bambino. Sembrava ancora più magra di quello che era nella vestaglia che indossava, di un brutto colore pastello che faceva risaltare il pallore del volto. I capelli bruni le cadevano sulle spalle, flosci e sottili, le labbra erano dischiuse come in perenne ricerca d’aria. Gli occhi, gli occhi della madre di Alex non avrebbe mai potuto dimenticarli.

Vuoti.

Completamente vuoti.

Due iridi identiche in tutto e per tutto a quelle della figlia, ma talmente inespressive da sembrare quelle di una bambola di plastica.

Li trapassò con lo sguardo, come se non li vedesse neppure.

Alex si avvicinò lentamente a lei, dopo aver lasciato la borsa ed il giubbotto sul letto poco distante dalla finestra. Le sistemò i capelli dietro le orecchie come avrebbe fatto con Charlie o Kevin. Bill la vide sorridere appena, mentre accarezzava una guancia della donna, che sembrò non accorgersene affatto.   

- Ciao mamma – mormorò, dandole un bacio sulla fronte.

La donna sollevò lo sguardo su di lei, come rendendosi improvvisamente conto della sua presenza. Sorrise. Un sorriso perso, di chi non sa esattamente perché sorride, ma lo fa in ricordo di un piacere lontano.

Alex aprì la finestra, lasciando che l’aria troppo calda della stanza si rinfrescasse. La donna continuò a sorridere, dedicando la sua attenzione al giardino.

Alex si sedette ai piedi del letto, e Bill le andò accanto, prendendo posto con cautela.

Non riuscì a dire o a chiedere nulla, rimase immobile esattamente come la ragazza, ad ammirare il triste spettacolo della donna dal sorriso svampito e gli occhi ancora vuoti.

- Si è fatta praticamente di tutto. Tutto quello che puoi immaginare… hashish, cocaina, eroina… tutto. Per colpa della persona sbagliata. Si era innamorata di ragazzo di New York. Di mio padre so solo che aveva il mio stesso colore di capelli e che era tossicodipendente, ce l’ha trascinata lui nel giro. So anche che quando mia madre è rimasta incinta è scappato… e sai, lei lo amava da impazzire. Era una ragazzina mia madre… certe cose non le capiva – la voce di Alex gli arrivava alle orecchie amara, triste.

- Nei primi tempi aveva un lavoro, riusciva a mettere da parte qualcosa per me… poi ha smesso di fare anche quello, perché non riusciva a resistere senza prendere dosi su dosi di… non lo so nemmeno io che cosa. Lentamente è uscita di senno, un po’ è stata colpa di mio padre, un po’ di tutto quello che si faceva. Sta di fatto che un giorno ha preso una dose tagliata male e le è venuta una crisi, è caduta in coma e io stavo morendo di fame. Avevo appena un anno. Qualcuno però mi ha sentita piangere e ci ha trovate in tempo. E’ stato li che mi hanno data in affidamento ad un orfanotrofio prima, e dopo tre anni mi hanno impacchettata e spedita da Joanne –

C’era troppo da dire. E le parole gli sfuggivano dalla mente. Le stesse parole che avrebbe trovato facilmente di fronte ad un giornalista ora erano sparite, perché quella non era un’intervista dove non importava dire la verità o meno, quella era la realtà. E lui non era per nulla preparato ad affrontarla.

- Come si chiama tua madre? – chiese infine. E non seppe nemmeno perché.

- Marion – rispose Alex, lanciandogli un’occhiata.

- Non sente niente? Non ti riconosce? – domandò.

Alex lanciò uno sguardo malinconico alla donna, che ora indicava qualcosa nel giardino, probabilmente dei fiori o uno dei passeri che volteggiavano sulle cime dei pini.

- No… non sa chi sono. I medici dicono che forse riesce a sentire gli odori e a riconoscermi, ma non ne sono tanto sicura… - disse, abbassando il capo.

- Mi dispiace Alex. Tantissimo – sussurrò.

Lei non sollevò la testa, così Bill le mise una mano sotto il mento e la costrinse a guardarlo.

Aveva di nuovo gli occhi lucidi.

- Perché sei voluta venire? Perché oggi, dopo tutto quello che è successo? – chiese accorato.

Lei cercò di sfuggire al suo sguardo, di nascondere di nuovo il labbro appena tremante dietro una ciocca di capelli, ma Bill la trattenne.

- Non lo so… - rispose, con voce rotta – forse per ricordare che c’è sempre lei che sta peggio di me… - i suoi occhi si posarono di nuovo sulla madre – O forse perché è pur sempre mia madre… forse perché vorrei che mi abbracciasse, ma so che non è possibile… Non so perché torno qui Bill –

Le lacrime sgorgarono di nuovo dagli occhi di Alex, raggiungendo rapidamente la sua mano. La ragazza lo cercò in un abbraccio, e Bill la strinse a se.

 

Tocchi le foglie al sole
(che sempre invochi su di te)
poggiata al ramo e nel cuore
il desiderio ardente di attrarre la mia pietà

Dispieghi con passione sdegnose verità
Io abbasso gli occhi e geme
la pena che nascondo alla tua vista

C'è la brezza che disegna la tua infelicità
fra le ortiche e questo pezzo di cielo
sempre più invisibile, inviolabile

 

[Una canzone arresa – Marlene Kuntz]

 

 

Scese le scale lentamente, i boxer a livello inguine, indossati esattamente come sua madre odiava. Ma dopo l’ennesima levataccia una delle cose di cui davvero non voleva preoccuparsi era il parere di sua madre sulla sua classe nel vestire. Si perché era classe, nonostante molti faticassero a capirlo.

Tom si era reso conto che ogni giorno qualcuno elaborava un pretesto diverso per farlo saltare giù dal letto. Quella mattina ad esempio era stato svegliato da un gran trambusto dietro la sua porta. Sembrava che un branco di elefanti stesse giocando a fare le scivolate lungo il corridoio. La sua mente era subito andata a Georg e Gustav che ormai si erano impossessati di casa Kaulitz, riempiendo le stanze di pezzi di batteria e bassi, vestiti e calzini, e colonizzando il bagno di Bill. Tom non aveva provveduto a rasare loro le creste semplicemente per il fatto che voleva vedere la faccia di Bill quando sarebbe tornato e avrebbe scoperto in che stato versava la sua camera.

Arrivò al piano terra, e si diresse verso la cucina, attirato dal vociare a volume sempre più alto che proveniva dall’interno della stanza.

Fece appena in tempo ad affacciarsi sulla porta che qualcuno lo placcò, mozzandogli il fiato all’altezza della vita con un forte colpo e scaraventandolo a terra. Dopo la caduta distinse a fatica il suono di qualcosa che scoppiava, un urlo e poi il silenzio.

Riaprì gli occhi, saette argentate che gli balenavano davanti alle pupille, causate probabilmente dal dolore lancinanti che sentiva propagarsi dall’osso sacro.

Il qualcuno ben posizionato sul suo stomaco si sollevò, e lui ritornò a respirare normalmente.

Vide Gustav sovrastarlo con il suo faccione.

- Ma che… Gustav che… ma cosa cazzo sta succedendo? – chiese, sollevando appena il capo fortemente confuso.

Vide il bassista voltarsi verso la cucina e sorridere, alzando un pollice.

- Ok, sta bene. Vieni, ti aiuto ad alzarti amico – disse, porgendogli una mano.

Tom la afferrò incerto e dolorante e si fece sollevare.

Appena il suo sguardo si posò sulla cucina strabuzzò gli occhi.

Quello era un casino. Un enorme, gigantesco, ciclopico casino.

Ogni superficie piana della stanza era coperta da quello che sembrava caffè. La plafoniera, il tavolo, le mattonelle, anche il soffitto. C’era caffè ovunque, persino sul frigo e dentro il vaso del bonsai.

Guardando meglio notò la sagoma di Georg, intento a sollevarsi da terra, i ciuffi di capelli più vicini alle orecchie raccolti con un mollettone rosa sopra la testa.

Il suo sguardo passò dal batterista al bassista in cinque secondi di puro panico.

- Che cosa cazzo avete combinato?!? – esplose poi.

Gustav lo superò agitando una mano, come se non fosse accaduto nulla di che.

- Niente, Georg si è dimenticato di mettere l’acqua nella moka – rispose, le mani sui fianchi.

Georg si voltò verso di lui con aria assente. Sembrava dormisse ancora, infatti non diede nessuna risposta di senso compiuto, si limitò a grugnire.

- Ma non vedi che è più di la che di qua? E gli fai preparare il caffè?!? – disse Tom disperato guardandosi attorno.

- Cosa ne sapevo io?!? Voleva il caffè e gli ho detto di farselo… - si discolpò Gustav.

- Ma perché invece di un primate e di un narcolettico non potevano darmi in dotazione due esseri umani dotati di quoziente intellettivo superiore a quello di uno gnu?!? -  sbottò Tom, afferrando uno straccio dal tavolo.

Gustav non diede segno di essersi offeso, Georg si sedette ed appoggiò la testa sul tavolo.

- David ha detto che più tardi ti chiameranno quelli di Bravo per un’intervista – disse Gustav, risultando completamente inopportuno, mentre lui decideva, in mutande e calzini, da che parte cominciare a pulire.

Per la serie “il buongiorno si vede dal mattino”, ma anche “collezioniamo buone notizie” e “avere un batterista demente”.

- Gustav sparisci da qui entro tre secondi, tu e quel tuo… amico dal finocchissimo fermacapelli, prima che ti usi per ripulire caffè dalle pareti – ringhiò Tom minacciando l’amico con lo straccio.

Gustav sorrise appena e poi si dileguò in pochi secondi, lasciando Georg addormentato a sbavare sulla penisola.

Tom brontolò tra se e se ancora per un po’, poi il bordo dello straccio che stava usando per spazzare via il caffè dalla plafoniera gli ricordò qualcosa. Era dello stesso colore degli elastici che Heidi aveva addosso la sera prima. Ghignò tra se e se, ripensando alla faccia che la ragazza aveva fatto quando si era vista costretta ad offrirgli un’altra cena.

Riprese a spolverare, fischiettando.

Forse quella giornata non sarebbe andata poi così male.

 

***

 

Note di Phan: presumo di dovermi scusare per il ritardo, ma abbiate pietà, sono in stato semi-comatoso dovuto alla febbre che mi ha azzannata anche se io non ero per niente d'accordo! Ammetto di aver fatto fatica a scrivere questo capitolo, non so perché... probabilmente per il fatto che mi comporta uno sforzo mentale che il mio piccolo e sovraccaricato cervellino non è in grado di sopportare q_q. Quindi perdonatemi se sarà noioso, pieno di errori o potenzialmente senza senso O_O (cosa probabilissima).

Ringrazio tuttiiii. Il postino, mia madre, mia sorella, la vicina di casa, ma in particolar modo le 34 persone che hanno messo questa ff nei loro preferiti (sappiate che vi amo) e le otto che hanno recensito il precedente capitolo *_*. In ordine ringrazio personalmente...

valux91: Ma ciao cara, mi complimento con te per il primo posto XD. Anche io sono tanto sbadata q_q, soprattutto nei momenti in cui dovrei ostentare sicurezza e maturità faccio delle figure bieche e ridicole >.<. Sai che anche io prenderei a testate Michael, se sapessi di produrre qualche effetto almeno? Oddio requiem sul capitolo precedente è da tragedia pura! Grazie per i complimenti! Bacio. P.S. Anche qui il sole è tornato, a fatica, ma è tornato.

ErErNaL_DrEaMEr: Sono davvero contentissima che il capitolo precedente ti sia piaciuto così tanto *_*. Si Heidi è timida, è chiaro come il sole, anche se lei tende a coprire questo fatto dietro anfibi e musica metal. Prima o poi, come hai detto tu, il momento doveva pur arrivare! Dopotutto Bill non è che è piombato esattamente in un contesto paradisiaco! "L'allegro collezionista di simpatico fogliame"! Muahahah questa frase mi ha fatta morire dal ridere XD. Non so ancora come si comporterà Michael, però posso dirti che di tipi come lui ne ho conosciuti abbastanza (purtroppo) e raramente riacquistano la coscienza... ma siccome non ho ancora assolutamente chiara nemmeno io la fine della vicenda, lasciamo questa parentesi aperta. Grazie tantissime cara. Un bacione.

pervancablue: Oddio, tutti gli effetti collaterali che hai elencato, e che si verificherebbero se tu riuscissi a recensire anche questo capitolo, sono plausibili! Tutti tranne uno, ossia "i Rolling Stones smetteranno di cantare". Gli arzillotti resistono troppo bene! Comunque si, puoi essere perseguitata legalmente. Ahahahahah la parte di radio Maria mi ha fatta scompisciare, ma che vi mangiate voi, la mattina? Oddio alla parte della bandiera del Vaticano associata con un succinto costumino sono rotolata giù dalla sedia. Ti amo! Grazie tanto tanto tanto per i tuoi complimenti. E ti comunico che l'invito arriverà! Bacione.

bluebutterfly: Gli anfibi di Heidi! *_*. Grazie dei bellissimi complimenti e anche dell'incoraggiamento. Beh dai, direi che in quanto a recensioni non posso lamentarmi, anche perché ormai sono legata alle anime buone che recensiscono sempre, e perciò una loro recensione ne vale almeno dieci per me *_*. Eheh sulle "scintille" tra Tom ed Heidi non fiato! Vedremo (ma ci sono buone possibilità, mi dicono). Beh si, ovviamente è Bill, l'unico idiota rimasto senza fare nulla dopo il famoso litigio. Ehm ehm... sulla velocità speedy gonzales glisso spudoratamente. Bacio.

GodFather: Si, finalmente gli ho fatto fare la parte del bel principino che corre in soccorso della donzella in pericolo. *_* Oddio che bello che ti sia piaciuta quella frase... *_*. Ti amo. Un bacione mia ostrichetta.

Paaola: Mia Paolettaaaa! ^_^ che bello sentirci anche qui, adesso che gli altri mezzi di comunicazione sono andati a farsi benedire ^^'''. Sono contentissima che la mia ff ti piaccia *_*. Panzerotto the best. Bacini <3

Vitto_LF: Cara, sappi (se ancora non hai controllato) che ti ho lasciato una bella recensione logorroica a Dimentica, di quelle che non facevo da tanto tempo, e che te la sei meritata tutta, per giunta. Anche io sono indecisa tra Tom ed Heidi sai?! Questi personaggi mi stanno travolgendo... tra poco comincerò a vedermeli davanti agli occhi in pieno stile A Beautiful Mind... con la sola differenza che io probabilmente non possiedo una Mind... e anche se l'avessi non sarebbe nemmeno lontanamente Beautiful q_q. Vabè, sto delirando, ti ringrazio cara! Bacioni. 

susisango: Benvenuta in questo angolo di avvinazzate (oddio alcune ragazze spero di no, di alcune ne ho le prove - vedi pervancablue e le sue recensioni XD -, ed io rientro certamente nella categoria). Sono veramente entusiasta che la mia fan fiction ti stia appassionando, e spero che continuerà ad essere così anche alla pubblicazione dei capitoli successivi! Uhm... sai, forse è più una sfortuna quella di Bill Kaulitz... o almeno, questo è il mio fosco e pessimistico parere. Ciao ciao ^^

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Wasabi e scintille ***


Fu così che Bill scoprì cosa volesse dire occuparsi di qualcuno. Fino a quel momento erano stati gli altri a preoccuparsi per lui, ad accontentarlo, ad usare delicatezza nei suoi confronti quando era un momento no, ad ascoltarlo. Fare tutte quelle cose per Alex era diventato stranamente piacevole, in poco tempo. Gli piaceva lasciare che si sfogasse con lui, dopo un intero pomeriggio di lavoro, anche se era stanchissimo, anche se le dita erano rugose per via dell’acqua e la schiena gli mandava preoccupanti segnali d’allarme. Gli piaceva provare a trovare soluzioni ai problemi di Alex, risposte alle sue domande. Si sentiva utile. Utile concretamente, però, non utile attraverso la superficie lucida di un cd. Utile con le parole, con qualche raro abbraccio e tanti sorrisi.

Alex si era rivelata essere molto di più di quanto lui credesse. A tutti appariva come matura, costantemente con i piedi per terra, pronta a far fronte ad ogni tipo di situazione. Invece era fragile e umana come tutti. Come lui.

“Cosa dovrei fare Bill? A cosa servirebbe dimostrare di avere una paura folle, di essere angosciata e terrorizzata come qualunque diciannovenne sarebbe di fronte ad una famiglia da sostenere? I bambini starebbero forse meglio? Io starei meglio? No… Preferisco far si che almeno loro si sentano al sicuro, che abbiano la certezza di avere qualcuno su cui contare, che li protegge, anche se il qualcuno in questione a volte si sente completamente perso… “ aveva detto Alex una sera. E Bill era rimasto completamente spiazzato di fronte a quel tono schietto e serio. A lui un pensiero del genere non sarebbe mai venuto in mente. Più conosceva Alex più si rendeva conto che era lontana anni luce da lui, dal suo egoismo e dai suoi dilemmi che, illuminati dalla nuova realtà in cui era stato catapultato, sembravano insignificanti. E probabilmente lo erano.

Lentamente lavorare aveva smesso di essere un peso ed era diventato una fonte di informazioni sulla realtà. Ogni persona che incontrava aveva una storia alle spalle, come l’assurda odissea di Hao, che era arrivato negli Stati Uniti nascosto nelle cambuse di una nave mercantile, o il racconto di Javier sui suoi sette fratelli e le cene che si trasformavano in risse per conquistare il cibo.

In due settimane cominciò a parlare in modo sciolto l’inglese, pur continuando ad inciampare in alcuni termini ed attirandosi addosso le risate di chiunque si trovasse nei paraggi in quei momenti. Ma non gli dispiaceva. Era tutto così caldo, piacevole, familiare, anche se pieno di realtà crude come quelle di Samuel e Alex. Era tutto così… autentico.

 

- Tu deve assaggiale! –

Bill abbassò gli occhi ad altezza appendice nasale e vide una strana cremetta verde spalmata su quello che doveva essere un crostino. Riportò la sua attenzione su Hao, seduto di fronte a lui, e poi lanciò un’occhiata interrogativa ad Alex, alla sua sinistra. Lei sorrise tranquillamente.

- Cos’è? – chiese diffidente all’entusiasta Hao, che continuò a sorridere in quel modo sfacciatamente allegro.

- Specialità giapponese – disse, come se quello scongiurasse ogni tipo di riserva nei confronti dell’intruglio soggetto di quello scambio di sguardi.

Alla fine Bill, più per stanchezza che per curiosità, capitolò e prese in mano il crostino.

Succedeva che Hao si unisse a loro la sera, per mangiare, e Bill aveva già avuto modo di toccare con mano le sue strane abitudini. Il ragazzo non mangiava niente di quello che cucinavano da Javier, definendo i piatti messicani con un termine impronunciabile del tipo “kionghotò” (di cui Bill ignorava la traduzione ma che doveva essere parecchio offensivo), preferendo portarsi il cibo da casa (luogo non ben definito, anche se comunque sospettava si trattasse di un domicilio occupato illegalmente) conservato in piccoli contenitori di plastica resistenti come amianto.  

Bill mise tutto il crostino in bocca e masticò con noncuranza, finché qualcosa di strano non cominciò ad agitarsi. Dapprima fu solo una sensazione di bruciore diffuso, sulle guance, sulle gengive e soprattutto sulla lingua, ma in pochi secondi si trasformò in un dolore bruciante che probabilmente sarebbe stato provocato soltanto dagli effetti dell’acido muriatico. Era come se tutta la bocca gli stesse andando in auto-combustione.

Saltò in piedi come un grillo, aprì la bocca ancora piena di cibo masticato e boccheggiò come un pesce, mentre la vista gli si appannava per le lacrime.

Ingoiò con enorme sofferenza, soffocandosi quasi. Cercò con lo sguardo qualcosa di liquido ed arraffò dalle mani di Alex la birra che stava sorseggiando, portandosela alle labbra con un gesto disperato.

Fu una pessima idea, perché le bollicine frizzanti non fecero altro che stimolare il bruciore.

Prese a saltellare sul posto e ad agitare le mani istericamente, mentre Hao cominciava a ridere.

- Cosa gli hai dato?! – chiese Alex al ragazzo, cominciando ad allarmarsi.

Hao si concesse una pausa nella sua grassa risata.

- Wasabi – rispose con un ghigno perfido.

Bill continuò a saltellare impotente, domandandosi di cosa diamine stessero amabilmente discutendo quei due, mentre lui cominciava a sentire le lacrime bagnargli le guance poco dignitosamente.

- Deficiente! – esclamò Alex alzandosi di scatto anche lei. Prese Bill per un gomito e lo trascinò nelle cucine, rischiando di farli scivolare entrambi su un paio di pozze d’acqua rovesciata a terra. Raggiunsero un grande frigorifero e la ragazza ne estrasse una bottiglia di latte, stappandola velocemente.

- Bevi – ordinò mettendogli la bottiglia in mano.

Bill non si fece particolari domande. Cominciò a tracannare dalla bottiglia con gli occhi chiusi ancora pieni di lacrime e la bocca che sembrava dovesse liquefarsi da un momento all’altro.

Lentamente il dolore diminuì, sostituito da una strana sensazione di insensibilità, quasi ci fosse stato anestetizzante nel latte. Sentiva ancora un pizzicore latente, ma non insopportabile come quello di pochi minuti prima. Svuotò completamente la bottiglia e poi la appoggiò con un gesto arreso sulla penisola di metallo di fronte a lui, tirando un lungo respiro.

- Cos’era? – chiese strabuzzando gli occhi.

Alex si concesse di sorridere, finalmente. Cosa che indipendentemente da quando accadesse non poteva che essere positiva, per quanto lo riguardava. Anche se in quel momento lui era reduce da una tortura in piena regola.

- Una particolare salsa usata nella cucina giapponese. Ho il dubbio che il sorriso di Hao ti abbia tratto in inganno. Ma d’altronde ha tratto in inganno anche me! – disse sfilandosi uno straccio dalla cintura ed avvicinandosi a lui.

- Appena lo prendo lo uccido – ringhiò Bill, accorgendosi solo all’ultimo secondo che Alex si era  appoggiata a lui e gli stava asciugando le guance dalle lacrime.

Improvvisamente calò il silenzio.

Un silenzio molto, molto strano. Sapeva parecchio di indecisione, di dubbio e forse di leggero timore.

Alex esitò appena quando incrociò i suoi occhi, poi distolse lo sguardo e gli passò la superficie ruvida dello strofinaccio sulla guancia destra, con un gesto delicato.

Bill rimase frastornato. Non sapeva esattamente ne cosa dire per riempire quel silenzio imbarazzante, ne cosa pensare di tutto quel marasma che si aggirava dalle parti dello sterno.

Cos’era? Agitazione, ansia, paura?

Sembri una verginella al primo appuntamento, un po’ di dignità Bill per cortesia, e chiudi la bocca si lamentò Tom.

Bill obbedì prontamente.

Gli sembrò che la ragazza ci mettesse un po’ più del necessario, ma dovette trattarsi solo di una sua impressione, perché quando Alex si fu allontanata gli parve che non fosse successo nulla negli ultimi secondi.

- Ecco, adesso puoi andare a… uccidere Hao – disse Alex. Si, doveva essere un’impressione anche il fatto che gli fosse sembrato di riconoscere dell’imbarazzo nella sua voce. Quel Wasabi doveva provocare anche allucinazioni.

Fatto sta che sorrise, probabilmente sembrando un’idiota grazie ai suoi occhi gonfi e la bocca anestetizzata, e si allontanò a passo di carica diretto verso il ristorante.

Quando però ebbe sorpassato la soglia delle cucine, accetta in mano… no, in effetti gli sarebbe piaciuto avere un’accetta in mano, ma non ne aveva trovate le tragitto, scoprì che Hao si era provvidenzialmente volatilizzato.

- Se n’è andato, eh? –

La voce di Alex lo fece sobbalzare appena.

- Si – disse annuendo – ma se pensa di sfuggirmi non sa ancora con chi ha a che fare – aggiunse.

Alex rise.

- No, credo che tu non sappia con chi hai a che fare. Ad ogni modo cercherò di stare lontana da voi due per evitare danni permanenti in questi giorni – disse la ragazza, con gli occhi ridenti.

- Senti, mi è venuta un’idea – aggiunse poi, dopo un minuto di silenzio fermi sugli stipiti della porta. Esibiva una strana espressione cospiratrice.

- Illuminami – disse Bill curioso.

- Voglio portarti a fare un giro – disse Alex facendosi pensierosa.

- A quest’ora? – chiese Bill perplesso.

- Si, e ci metteremo un po’, quindi se sei troppo stanco lasciamo perdere – rispose la ragazza sorridendo.

Stanco? Lui? A-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e!

- Stanco? Io? Assolutamente! – disse Bill raddrizzandosi con un entusiasmo che nemmeno sapeva dove aveva scovato.

- Perfetto. Prendi giubbotto e sciarpa e andiamo – disse Alex spingendolo nello sgabuzzino poco distante.

 

 

Tom non si ricordava nemmeno bene come era cominciata, quella serie di incontri folli con Heidi. Si, perché quando si parlava di qualsiasi vicenda che includesse Heidi, anche alla larga, la parola “follia” doveva essere associata per forza di cose. A dire la verità ricordava esattamente come era iniziata la conoscenza con Heidi, perché sarebbe stato difficile da dimenticare, partendo da citazioni inopportune di chitarristi famosi a monti sorridenti e caprette saltellanti. Ciò che Tom non ricordava era come andare da Heidi, trascorrere le sere con lei, da punto di sfogo delle sue sventure era diventata un’abitudine quasi… piacevole. Si, perché gli piaceva, anche se lui e Bill continuavano a sentirsi, a raccontarsi cosa succedeva, anche se erano passate due settimane e ormai si era abituato all’assurdo clima in casa sua, tornare ogni sera da Heidi. Quella ragazza lo svuotava, lo alleggeriva completamente con la sua parlantina instancabile e condita da termini assurdi, i suoi vaneggiamenti mistici sulla musica metal e i suoi insulti impietosi.

Lentamente, senza che quasi se ne accorgessero entrambi, il loro era diventato un germoglio d’amicizia.

 

- Schnauz – disse Tom, steso sul letto con lo sguardo piantato sul soffitto sopra di lui. Schnauz era il diminutivo del nuovo soprannome giornaliero che aveva dato ad Heidi, ossia Schnauzer.

Da qualche parte ai suoi piedi arrivò un grugnito minaccioso.

Erano stesi sulla brandina di Heidi, come facevano quasi ogni sera dopo essersi rimpinzati in modo osceno. Ovviamente a qualsiasi ragazza dotata di senso estetico, a modesto parere di Tom, la presa di coscienza di essere stesa sullo stesso letto con lui avrebbe provocato scompensi, ma Heidi sembrava completamente immune al suo plateale fascino. Cosa che lo irritava, anche se si era ben guardato dall’ammetterlo con se stesso.

- Dimmi Krautiz – disse la ragazza muovendo gli anfibi affianco al suo orecchio.

- Ehi, stai attenta con questi affari. Comunque, stavo pensando che non ti ho mai chiesto una cosa – disse Tom, guardandosi le unghie.

- Attenzione, attenzione, la grande mente sta per stupirci con un altro dei suoi quesiti filosofico-esistenziali! – disse Heidi alzando le mani in aria. Per un attimo Tom fu tentato di assestarle una scarpata sul muso, ma si trattenne.

- Simpatica. Volevo chiederti come mai tu dormi sempre qui – disse poi.

- Qui nel letto? Sai Tom, è un’abitudine condivisa dalla maggior parte degli esseri umani. Tu dove dormi, sui trespoli? – chiese Heidi.

- Intendevo qui al pub – specificò lui esasperato.

Sorprendentemente calò il silenzio, e Tom era abbastanza esperto in tema “Heidi” per capire che quello era un evento di portata notevole. Si sollevò a sedere e guardò la ragazza con gli occhi fuori dalle orbite.

- Cosa vedo! Schnauz tace! Si aprano le cateratte dei cieli! – esclamò.

Poi si accorse che Heidi non lo guardava in viso, teneva gli occhi bassi, e la bocca le si era leggermente piegata in una smorfia da bambina imbronciata. Non rispose con una delle sue battute sarcastiche, e gli fu chiaro che non era stata esattamente un’idea geniale porle quella domanda.

Stava proprio per dirle che se non se la sentiva non era necessario che rispondesse, quando Heidi parlò.

- Non mi piace stare con i miei. Litigano, si urlano addosso in continuazione e non si decidono a dividersi. Sono riuscita a sopportarli per diciassette anni, un anno fa ho deciso che non ce la facevo più e mi sono sistemata qui dallo zio Alfons. Fine della breve storiella “Heidi e le sue turbe emotive parte seconda” – rispose velocemente, sempre senza guardarlo.

- Capisco… - mormorò, senza sapere bene cosa dire. Decise di portare l’attenzione altrove. Dopotutto lui non era Bill.

- Ho un’altra domanda – disse mettendo su un sorriso perfido.

Finalmente Heidi alzò gli occhi nocciola su di lui e lo fulminò.

- Ma cos’è oggi? La sera del quiz? – chiese scocciata.

- No, è la sera in cui invece di mangiare come un muratore e sparare cazzate per il resto del tempo condurrai con me una conversazione a tema – rispose, appoggiandosi al muro e stendendo le gambe sopra le ginocchia di Heidi. La ragazza fece per scrollarselo di dosso ma Tom si portò un dito alle labbra.

- Fai la brava, solo un’altra domanda – disse. Lei alzò gli occhi al cielo e sbuffò.

- Muoviti! Pesi come un vitello –

- Dunque, volevo chiederti, come mai ti rifiuti categoricamente di ascoltare uno dei nostri cd? – domandò, con sincero interesse, seppur mascherato da un velo di ironia nella voce.

Heidi alzò le spalle, come se la risposta fosse ovvia.

- Secondo me non fate buona musica, mi limito a questa considerazione – rispose candidamente.

Tom sorrise pensando che se Bill si fosse trovato in quella stanza probabilmente non avrebbe esitato a tirare i capelli ad Heidi, allegandoci anche un bell’urlo isterico dei suoi.

- Buona musica? Scusami, quale sarebbe secondo te la “ buona musica”? – chiese, incrociando le braccia.

- Quella che ascolto io. Non fare quella faccia, senti cosa ho da dire. Per ognuno l’unica “buona musica” che esiste è quella che ascolta, quella che ama, quella che sente più sua. A me la vostra musica non piacerebbe – disse Heidi tranquillamente.

Tom alzò un sopracciglio.

- Mi sembra una cosa stupida. Così ci si fossilizza sempre sullo stesso genere, senza permettersi di spaziare… - disse – Cioè tu vuoi dirmi che non hai mai ascoltato uno dei nostri cd per partito preso? – aggiunse, perplesso.

Heidi alzò di nuovo le spalle, irritandolo.

- E’ brutto da dire così… - disse poi, tentennando.

Tom spalancò la bocca.

- No! E’ orribile da dire! Dimostri un’ottusità assurda! No, tu DEVI ascoltare un nostro cd – disse scuotendo la testa.

Heidi aggrottò la fronte oltraggiata.

- Io non sono ottusa! – esclamò – E non DEVO ascoltare proprio un bel niente, non mi puoi obbligare Krautiz! –

Tom si sforzò di non ridere di fronte alla sua indignazione.

- Ah no? Non posso? – disse, tradendo furba minaccia.

Heidi sembrò esitare.

- No, non puoi! – disse poi, alzando il mento in segno di sfida.

Si fronteggiarono per un attimo, Tom con il suo sorriso sghembo sempre presente sulle labbra, Heidi apparentemente indifferente alla sua minaccia.

Poi Tom allungò una mano verso l’addome di Heidi e la stuzzicò con un dito. La ragazza sobbalzò al tocco.

- No. Fermo – ringhiò feroce. Ma per Tom Kaulitz quell’ordine era come un invito a nozze.

Bloccò i polsi alla ragazza, sfruttando la sua scarsa agilità, e prese a farle il solletico senza pietà.

Heidi cominciò a ridere in modo convulso e delle lacrime iniziarono a scorrerle lungo le guance.

- No ti prego no Tom! – urlò in preda agli spasmi.

- Ascolterai quel cd? – disse ad alta voce Tom, continuando a torturarla con un sorriso.

- Mai! – rispose sbraitando Heidi. Tom continuò a farle il solletico crollandole addosso.

- Cosa? Non ho sentito – disse concedendole un’altra possibilità.

Heidi quasi non riuscì a rispondere dal ridere.

- Mi stai schiacciando – esalò poi.

Tom non si spostò di una virgola.

La guardò, occhi chiusi e lacrime agli occhi, i capelli scompigliati e quell’aria cocciuta. Gli sembrò… carina. Carina lei. Heidi del vaffanculo, Heidi lo schnauz ma anche il muratore e la rompipalle.

Si immobilizzò all’istante e solo in quel momento si accorse di essere in una posizione alquanto compromettente.

Heidi smise di ridere e prese a respirare meno velocemente, poi aprì gli occhi ed anche lei si rese conto di un certo numero di cose non esattamente innocenti.

Ad esempio che Tom era sopra di lei, le teneva i polsi fermi con una mano che sembrava bruciare, e la stava guardando con espressione confusa e stranamente rapita.

Per diversi istanti nessuno dei due osò parlare, ma l’aria intorno a loro sembrava essere diventata così densa da potersi tagliare con il coltello. C’era odore di cambiamento. E di arancia, pensò Tom, guardando una delle ciocche di capelli bruni di Heidi vicina al suo dito.

- Tom? – una voce molto lontana lo riportò alla realtà.

Tornò a fissare Heidi negli occhi.

L’aveva chiamato Tom. Era la prima volta che diceva il suo nome. E la trovò una cosa… piacevole?

No. Improbabile.

- Tom, potresti sollevarti? Faccio fatica a respirare – disse la ragazza, con tono incerto, impaurito quasi. Aveva un’espressione spaventata, celata da una punta di forzata disinvoltura. Ma Tom distinse molto nitidamente un tiepido rossore invaderle le guance quando non rispose alla sollecitazione.

- Prima devi dirmi che ascolterai il cd – disse, ingoiando e ritrovando la sua spavalderia perduta, anche se si rivelò un’impresa insospettatamente difficile.

Heidi sembrò lottare con se stessa per un lungo minuto. Alla fine però l’imbarazzo prevalse e Tom si sentì forse… rammaricato?

No… impossibile. Lui era Tom. Tom! Il SexGott! Quel Tom! Tom Kaulitz!

- Va bene! Ok? Hai avuto la tua piccola vittoria giornaliera, adesso potresti andare a crollare altrove? – disse Heidi, troppo velocemente.

Tom sorrise e con molta calma si sollevò, lasciandole i polsi.

Scese dal letto e raccolse il suo giubbotto e le chiavi della macchina dal tavolo ancora occupato dai vassoi.

- Te lo porto domani sera. Ciao Schnauz – disse, fuggendo dalla stanza e lasciandosi dietro un’Heidi parecchio sconvolta e confusa, ma soprattutto infuriata, anche se nemmeno lei sapeva spiegarsi pienamente il perché.

 

***

 

Note di Phan: Sono tornata si, dopo questo silenzio più lungo dei soliti. Il problema? Zero ispirazione. E temo che questa mancanza di ispirazione abbia portato alla stesura di un capitolo tutto sommato deludente, per quanto mi riguarda. q_q Sono in completa "crisi dello scrittore". In più si aggiunge il fatto che l'ultimo capitolo è stato commentato solo da poche anime buone (vi amo, ma a voi mi dedicherò nei prossimi righi). Ora, volevo dirvi, si, a voi che leggete questa storia, pochi o molti che siano, ignoti o noti... fatemi sapere! Sputatemi in un occhio, lanciatemi maledizioni, lasciate recensioni che rimarranno negli annali di EFP per la loro acidità, criticatemi, fatemi nera, crocifiggetemi e condannatemi, MA NON TACETE! E' di gran lunga peggio! Già sono in preda a crisi esistenziali (gravi quasi quanto quelle che muovono i quesiti di Tom), se mi abbandonate così mi farete venire un coccolone (con relativo mancato aggiornamento XD. Va beh, qui sfondiamo nel ricatto!). Insomma, fatemi sapere tutto ciò che pensate. Belle o brutte che siano le recensioni mi aiutano, non ho mai detto di desiderare recensioni unicamente positive! Ma mi occorrono. Mi occorrono per migliorare, per riuscire ad esprimermi in modo migliore, per rivedere il mio stile e non fossilizzarmi.

Spero di aver mosso qualche coscienza XD.

In ogni caso annuncio che nel prossimo capitolo ci sarà una forte vena romantica, quindi preparate il secchio!

 

Ora, ai tesori che hanno commentato il capitolo precedente mando un bacio speciale, e come al solito dedico il saluto personalizzato.

Vitto_LF: Ciao mia talentuosa ragazza! Ok, mi sento ufficialmente in colpa, e tu sentiti ufficialmente in colpa perchè io mi sento in colpa! Contentissima che il capitolo 14 ti sia piaciuto. Stavo pensando di dare un titolo a tutti i capitoli, che ne pensi? Già Alex sembra così "anziana" vero? Si, volevo dipingerla così. Devo dirti che ho apprezzato tantissimo la tua sincerità, e che anche io sono un po' scettica riguardo al romanticismo che è comparso tra i due in questo capitolo, ma Bill ed Alex non ne hanno voluto proprio sapere. Hanno fatto di testa loro come al solito! Spero davvero di finire prima la storia! Mio Dio, ci confido seriamente, turbe emotive permettendo. Besitos Vitto.

bluebutterfly: Ma salve! Sempre presente, non ti ringrazierò mai abbastanza. Secondo me il trattamento d'urto a Bill farà bene! Con quella testina egoista che si ritrova XD (e qui partì la denuncia per diffamazione). Riguardo al risvolto romantico ti spedisco alla risposta per la Vitto. Dunque, Georg ha detto che non è ancora pronto a staccarsene, queste star con tutte le loro manie! Appena si addormenta glielo frego e te lo spedisco con la posta prioritaria (così invece che arrivare in due mesi arriverà in uno e mezzo!). Il "club" lo sto tesserando, stiamo lavorando (io, Tom e Bill) per i buoni pasto. Un bacio amor.

valux91: Ma salve! Grazie per i tuoi complimenti *_*. Si Bill doveva decisamente risvegliarsi (almeno per il mio parere impiccione).

EtErNaL_DrEaMEr: Eccotiiiii! Come sempre più che contenta di farti ridere XD. Speriamo che Heidi sia in grado! Lei dice che tra poco l'esaurimento nervoso di Tom dovrà accollarselo personalmente! Eheheh, sei molto arguta cara, perché sei la sola che ha notato questo particolare in Charlie (ne rivelerò il motivo nel prossimo capitolo, o forse più in la). Già, hai detto bene. "La cosa più triste è che queste cose esistono veramente". Come non condividere? Grazie. Tanti baci.

Paaola: Mio tesoro panzerottoso (ok, questa era brutta vero? XD). Grazie tantissime! Oddio, appena ho aperto l'immagine mi sono resa conto che... E' LUI. E' IL BILL DI QUESTA FAN FICTION! Grazie davvero, salverò immediatamente la foto *_*. Un bacioooo ancheee a teee XD.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** E tu puoi sognare? ***


“New York è il luogo dove nascondersi, smarrire o scoprire se stessi.”

Truman Capote

 

 

 

- Ma dove stiamo andando? –

Bill si guardò intorno, intimorito. Stavano camminando in un vicolo buio, e dall’aspetto non esattamente raccomandabile.

Alex camminava sicura al suo fianco, con uno strano sorriso a curvarle le labbra.

- Non ti preoccupare, nessun tentativo di pestaggio – promise, radiosa.

Era raro vederla così spensierata, anzi, Bill non ricordava di averle mai visto quell’espressione allegra sul viso. In quel momento gli sembrò finalmente una sua coetanea.

Alex lo prese per un braccio e lo guidò verso destra, facendogli svoltare un angolo.

In lontananza si stagliarono le sagome di alcune persone, illuminate da un neon incastrato nel muro sopra a quella che doveva essere una saracinesca. Bill si irrigidì appena, senza nessun apparente motivo, mentre Alex continuò a camminare decisa.

Quando si avvicinarono abbastanza per poter distinguere i visi delle persone ferme a chiacchierare, Bill le studiò con diffidenza.

Erano in tre, appoggiati al muro vicino alla saracinesca. Uno mollemente abbandonato contro i mattoni grigi, quella che tutto sembrava tranne una sigaretta tra le dita. Accanto a lui un altro era intento a trafficare con un accendino. Entrambi erano nascosti da grandi cappucci che lasciavano il viso in ombra. La terza persona era l’unica a volto scoperto, e stava ridacchiando. Era un ragazzo sui vent’anni, cranio completamente rasato, tatuaggio su una tempia bianca e alcuni piercing che gli trafiggevano l’orecchio destro e il viso. Ne aveva uno al labbro inferiore, due al sopracciglio e l’ultimo in cima al setto nasale. Bill sapeva che si chiamava “bridge”, quel genere di piercing, e da quanto gli aveva detto il suo tatuatore a lungo andare portava allo strabismo. Ma quando Alex si avvicinò, e il ragazzo sollevò gli occhi su di loro, Bill incontrò due iridi azzurrissime perfettamente al loro posto.

- Ciao Sven! – esclamò Alex, ignorando gli altri due energumeni ed avvicinandosi al ragazzo.

Lui esibì un sorriso entusiasta ed abbracciò Alex.

- Alex! Era ora che tornassi! E’ un mese che non ti fai vedere! – disse con un tono cordiale che fece capire a Bill diverse cose. Primo che Alex e il tipo in questione dovevano essere amici da parecchio, secondo che l’interesse che quel tale provava per lei non era propriamente platonico.

- Piena di casini come al solito – si giustificò Alex con un sorriso gentile. Sven scosse la testa.

- Non ti preoccupare, lo sai che la porta è sempre aperta per te – disse.

Alex fece cenno a Bill di avvicinarsi, e lo presentò al ragazzo.

- Ho deciso di portarlo a fare un giro sulla tua bambina – disse – Posso? –

Sven portò lo sguardo su Bill, divertito.

- Avrai una notte movimentata – constatò, lanciando un’occhiata complice ad Alex.

- Non farti spaventare, è solo un buffone – disse la ragazza, cercando di tranquillizzarlo.

Sven rise e infilò una mano nella tasca della felpa nera, estraendone un mazzo di chiavi.

- Ho fatto il pieno stasera, quindi esagera pure – disse, mettendo le chiavi in mano ad Alex. Alla ragazza brillarono gli occhi di gioia.

- Grazie – mormorò, poi sorpassò Bill ed aprì la saracinesca, facendo risuonare nel vicolo un acuto e fastidioso stridio.

Bill la seguì nel buio, fin quando una luce non illuminò il luogo sconosciuto.

Non senza una punta di sorpresa, vide Alex accarezzare il manubrio di una… moto. Un bestione cromato di nero e argento, dalla sella in pelle scura e una grossa scritta bianca sulla fiancata: Kawasaki.

- Ti piace? – chiese la ragazza rivolgendogli uno sguardo brillante.

- E’ molto bella – sussurrò lui, avvicinandosi lentamente.

E pericolosa sibilò Tom.

Finalmente il tenore della conversazione che c’era stata tra Sven ed Alex gli fu chiaro, e si permise il lusso di lanciare un’occhiata di panico verso di lei.

- Non aver paura, so guidarla bene – lo precedette la ragazza, togliendo il cavalletto e spingendo la moto fuori dal garage.

Quando furono usciti, Sven chiuse la saracinesca dietro di loro.

Alex si mise a cavalcioni sulla sella ed infilò le chiavi nel quadro, cominciando a riscaldare il motore e provocando cupi e profondi rombi.

Bill la osservò, i capelli rossi appoggiati su una spalla, la schiena dritta e un sorriso soddisfatto sulle labbra. Gli sembrò impietosamente bella ed impietosamente umana, cosa che lo sconvolse non poco. La sua opinione doveva essere condivisa anche da Sven, perché il ragazzo la guardava con un’espressione bramosa che non gli piacque per niente.

- Allora? Sali o no? – lo stuzzicò Alex voltando il capo verso di lui.

“Bill Kaulitz, frontman dei Tokio Hotel, decede a causa di un incidente mortale, dopo essere caduto dalla sella di una Kawasaki nelle strade di New York” recitò Tom nel suo orecchio. Bill, quella moto ha il motore dello space shuttle. Hai la più pallida idea di quello che stai facendo? Aggiunse poi il suo gemello, allarmato.

Bill scrollò le spalle.

Si avvicinò ad Alex e si posizionò dietro di lei.

- Metti il casco – disse la ragazza, prendendo quello che gli stava porgendo Sven. Lo infilò con mani esperte, mentre il ragazzo porgeva un casco identico a Bill. Lui si fece aiutare ad indossarlo, sotto il sorriso incoraggiante di Sven, che cominciò improvvisamente a stargli più simpatico.

Quando furono pronti Alex si voltò verso di lui, prima di chiudere completamente la visiera.

- Tieniti forte a me – gli raccomandò, con un sorriso disarmante.

Bill annuì a fatica, sentendo il capo stranamente ingombrante.

- Stai tranquillo. Ti sembrerà strano, ma sei al sicuro con me – terminò Alex, prima di voltarsi.

Bill pensò che non gli sembrava strano per niente, ma non ci fu bisogno di dirlo. Abbassò a sua volta la visiera e strinse forte la vita della ragazza. Lei fece rombare ancora di più la moto e tolse il cavalletto.

Bill sentì la voce vaga di Sven urlare qualcosa, sul frastuono.

Poi Alex partì, con un’accelerazione che gli fece sfrecciare tutti gli organi interni in gola. Uscirono dal vicolo a velocità discreta, e quando furono in strada la ragazza rallentò un attimo prima di ripartire come un razzo.

I profili degli edifici si dissolsero all’istante, come se si fossero polverizzati.

Tutto divenne un mescolarsi di fasci lucenti e suono ovattato di vento.

 

[Soundtrack: House Of Cards - Radiohead]

 

Sicuramente, tra tutti i modi per godersi la bellezza notturna di New York, quello era il migliore. Almeno secondo la modesta opinione di Bill.

Si, lo era, senza possibili dubbi.

Alex guidava tranquillamente, affrontando le curve con gesti morbidi e decisi, accelerando appena ne aveva la possibilità, facendo salire nello stomaco di Bill prima la paura e poi un eccitante senso di adrenalina. In poco meno di mezz’ora, dopo aver girovagato nelle strade semideserte della periferia, la ragazza prese l’uscita per l’autostrada che circondava la città. Quando furono intrappolati nelle quattro, enormi, corsie, Alex accelerò ancora, costringendolo a stringersi di più a lei. Bill trovò il coraggio di guardare il paesaggio alla loro destra, attraverso la visiera trasparente del casco. New York brillava come una galassia. Nonostante l’ora erano migliaia le luci che si potevano vedere, come sospese in mezzo al nulla, a sfiorare il cielo. Si sentì improvvisamente molto piccolo e allo stesso tempo non riuscì a staccare gli occhi da quella visione ipnotica, che si muoveva lentamente sull’orizzonte, nonostante loro stessero sfrecciando come una scheggia impazzita, superando le poche auto lungo il cammino.

Perse la cognizione del tempo, mentre lasciava che fosse Alex a decidere il quando, il come e il perché. Si sentiva completamente al sicuro, ed ormai la paura di finire schiantati da qualche parte era semplicemente sparita. Con Alex non poteva succedere niente del genere.

C’era un piacevole stordimento che lo avvolgeva come un mantello, la sensazione ovattata di essere fuori dal mondo e dallo spazio, in un universo in cui esisteva solo quel rombo cupo e così profondo da fargli tremare piacevolmente il corpo, solo il vago piacere di stringere Alex e sentire, attraverso quel contatto, che era finalmente felice, una felicità che si sprigionava dal suo corpo e lo invadeva con discrezione. No, non era stanco. No, non era preoccupato. Per nulla. Perché il resto non esisteva, molto candidamente.

Quando Alex prese un’uscita che a lui parve uguale a tutte le altre che avevano ignorato, non si chiese dove stavano andando. Per un attimo anzi, ebbe la paura infantile che stessero per tornare a casa, ed era l’ultima cosa che desiderava in quel momento. Per questo motivo tirò un sospiro di sollievo quando si rese conto che stavano attraversando la strada di una zona a lui completamente sconosciuta. C’erano alberi a destra e una linea di belle case a sinistra, case da borghesi più che benestanti, con giardini e cancelletti tutti uguali.

Alex proseguì dritto, fin quando non rallentò in vista dell’entrata di quella che sembrava una baia, protetta da una transenna. La ragazza si avvicinò il più possibile all’entrata e poi spense la moto. Dubbioso, Bill scivolò giù dalla sella ed Alex fece lo stesso, sfilandosi il casco. La osservò srotolare una catena nera dal manubrio e chiuderla attorno ad una delle ruote, dopo aver messo il cavalletto.

- Andiamo – disse poi, rialzandosi. Bill si sfilò il casco e la guardò smarrito.

- Andiamo dove? – chiese. Alex gli sorrise facendolo sentire un budino.

- Ti piacerà – rispose.

Incurante del fatto che, concretamente, quella risposta non soddisfaceva la sua curiosità, Bill la seguì, ed insieme scavalcarono la transenna.

- Non… non stiamo facendo niente di illegale vero? – disse ad un tratto, come ricordandosi improvvisamente che anche a New York esistevano leggi scritte, clandestini e spaccio di droga a parte.

- Romanticamente no. Tecnicamente si – lo informò Alex. Ed accidenti, sorrise di nuovo! Bill abbassò lo sguardo, nervoso.

Il suo nervosismo ebbe vita breve, ad ogni modo, perché quando svoltarono un angolo e si trovò di fronte a quello spettacolo… beh, comprese che avrebbe solo sprecato il suo tempo, facendosi troppe domande. Decise quindi all’istante di non porsi quesiti almeno fino al giorno successivo, o forse fino alla settimana successiva, o magari un mese.

Aveva intuito bene, era una baia. Placidamente immersi nell’acqua galleggiavano diverse decine di lussuosi motoscafi ed alcune moto d’acqua, ancorate qua e la. Di fronte a lui la distesa d’acqua nera rifletteva i bagliori della città, circondando Manhattan e la sua bellezza svettante.

- Ti presento la vera New York – disse Alex – Vieni con me – aggiunse poi, prendendolo per mano.

Bill sentì una vaga scossa elettrica fargli scoppiettare il sangue nelle vene, ma era ancora troppo preso dalla visione titanica di fronte a lui per preoccuparsene troppo. Senza che se ne accorgesse si trovò sull’estremità più lontana dalla riva di un lungo pontile di legno. Gli sembrò di essere sospeso sull’acqua.

Alex si sedette a terra, lasciando le gambe a penzolare sull’acqua, e Bill fece lo stesso, continuando a lanciare occhiate sognanti attorno a se.

Quella era davvero una visione che non avrebbe mai dimenticato. Ne era più che certo. Di bei posti ne aveva visti a bizzeffe, Bill Kaulitz. Parigi, Londra, Praga, Barcellona, Madrid, Dublino. Le più importanti città europee le aveva sempre incontrate sul suo cammino con una certa felicità. Ricordava ancora la trepidazione in attesa di vedere finalmente Parigi, la tanto decantata Ville Lumière. Ma ricordava bene anche la delusione che aveva provato, nell’essere costretto a lanciare poche e fugaci occhiate in giro quando aveva messo piede su suolo parigino. Perché, appunto, quelle città le aveva viste da Bill Kaulitz. E le sole occupazioni di Bill Kaulitz erano cantare, soddisfare il pubblico, sorridere, farsi fotografare e rispondere nel dovuto modo alle dovute domande, non godersi una giornata da turista. Invece, in quel momento, in quella così poco ortodossa situazione, perso in una città a lui praticamente sconosciuta… lui era solo Bill. Non c’era nient’altro di mezzo. Non c’erano striscioni, giornalisti, fotografi, fans. C’erano solo Alex e il suo se stesso, senza fronzoli o impedimenti atti a frenare ciò che voleva, che desiderava. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, senza preoccuparsi delle conseguenze. Perché li, su quel ponte, in quella notte, lui non era importante. Non era nessuno. Solo Bill.

Poteva chiamarsi libertà, quella?

Sentì un’improvvisa sensazione di leggerezza sul cuore. Fu come se una cappa di fumo fosse stata soffiata via. Sorrise, e nemmeno quel sorriso fu seguito da domande inutili quanto inopportune.

- Ti piace? – la voce musicale di Alex gli arrivò alle orecchie con dolcezza.

- Moltissimo. E’ meraviglioso – rispose, voltandosi verso di lei.

- Io ci vengo spesso qui, ma solo di notte. Di mattina non ti piacerebbe così come ti piace ora. La luce del sole a volte toglie tutta la bellezza alle cose – disse la ragazza, in quello che somigliava molto ad un sussurro.

- Perché dici così? A me piace il sole – ribatté Bill, appena confuso, forse per tutte quelle luci, forse per l’improvvisa assenza del vento nelle orecchie o magari per gli occhi di Alex, che erano fin troppo sinceri per lui. Lei alzò le spalle a guardò sotto di se.

- Perché certe cose sarebbe molto meglio non vederle. Adesso New York ti sembra stupenda, vero? Piena di luci, di magnificenza. Ma con il sole tutta questa bellezza se ne andrebbe. Noteresti che sotto di noi l’acqua è grigia, che i grattacieli brillano troppo e ti abbagliano. Magari ti renderesti anche conto che qua e la ci sono delle gru, che il cielo è fumoso e che gli alberi che abbiamo visto prima sono tristi… - incrociò i suoi occhi – La notte ti permette di vedere solo la magia delle cose – terminò, abbassando di nuovo il capo.

Bill rifletté su quelle parole, improvvisamente turbato da ciò che aveva detto Alex.

- Ma così è come illudersi, no? – disse, con voce atona.

- Si. E’ illudersi. Ma a volte penso che sia meglio illudersi che affrontare la realtà… - la ragazza lo guardò, come per chiedergli conferma.

- Vivere sempre e solo di notte insomma – mormorò Bill, posando gli occhi sull’acqua che si muoveva contro uno dei pali del ponte, silenziosa.

- Mi piacerebbe. Diciamo che forse per me la vita è stata sempre un po’ troppo illuminata. Mi piace illudermi un po’, però non riesco a non tornare alla realtà. So che ho responsabilità e doveri, e non posso permettermi di fingere che non esistano – rispose Alex, e nella sua voce arresa c’era una malinconica traccia di densa stanchezza.

Bill la guardò e desiderò possedere anche solo una briciola della sua maturità, della sua forza di volontà. Allo stesso tempo gli sembrava impossibile che una persona potesse rinunciare deliberatamente alla sua felicità per donarla agli altri.

- Ma così non ti concedi nulla. Sei talmente immersa nella tua realtà da non poter nemmeno… fingere, sognare – si lasciò sfuggire, scosso di nuovo dal desiderio di aiutarla, di sganciarla da quelle sofferenze che non meritava.

Alex di nuovo fissò le iridi verdi, che nell’oscurità continuavano a brillare per conto proprio, nei suoi occhi. Si avvicinò a lui ed allungò una mano, portandogli una ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio. Poi si soffermò a guardarlo, regalandogli un sorriso. Un sorriso compassionevole e tristemente complice allo stesso tempo. Gli passò un dito sulla guancia, accarezzandolo dolcemente.

- E tu puoi sognare? –

Pensò vagamente alla risposta, ma l’angoscia di scoprirla dentro di se, così chiara e lampante, fu subito spazzata via da qualcos’altro. Qualcos’altro che aveva strettamente a che fare con il respiro caldo di Alex che si infrangeva sulle sue labbra, e con i suoi occhi fermi, sinceri. E poco importava che in quel momento non fosse in se, che sentisse un enorme vuoto aprirsi nel suo petto. Colmò quel vuoto con i battiti del cuore che andavano accelerando e il desiderio di toccare finalmente quei capelli, di sentire pienamente quell’odore discreto che la ragazza aveva addosso. Forse Bill Kaulitz era etereo, era irreale, ma il Bill che in quel momento era seduto su quel ponte, era fatto di carne e sangue, umano come mai prima di allora. E fu con un gesto molto umano, che allungò una mano verso il collo di Alex e le si avvicinò. Sotto i polpastrelli sentiva la pelle calda e morbida della ragazza sussurrargli un richiamo irrinunciabile. Inclinò il capo e le sfiorò appena le labbra, sentendo finalmente più vicino quel profumo. Mandorla. Ecco cos’era. Attese appena pochi attimi prima di posarle un bacio delicato sulla bocca tremante. Si allontanò di pochi centimetri e sollevò gli occhi su di lei, che restituì di nuovo lo sguardo con quell’abisso di emozioni che si distinguevano fin troppo bene dentro a quel verde.

Piena di smarrimento, confusione, dubbio, Alex gli permise di baciarla di nuovo. In quel primo, vero, unico istante della loro libertà condivisa ed effimera.

 

 

"Solo nei sogni gli uomini sono davvero liberi, è da sempre così e così sarà per sempre".

L’attimo Fuggente

 

 

 

 

 

 

- SONO UN MOSTRO! –

L’urlo belluino di Georg fece tremare la cristalliera di fronte alla tv, mentre il bassista alzava un pugno in alto.

Al suo fianco Gustav aveva la fronte imperlata di sudore e lo sguardo concentrato di chi sta compiendo un’impresa degna delle dodici fatiche di Ercole.

Entrambi i ragazzi erano in piedi davanti alla tv, i capelli scompigliati, vestiti alla meno peggio. Gustav indossava un paio di boxer e una camicia sbottonata sul davanti, mentre ai piedi aveva un paio di infradito rosa che gli andavano notevolmente piccole. Georg invece sfoggiava un accappatoio lilla decisamente stretto per lui, e stava calpestando con i piedi nudi il tappeto del salone. Tutti e due, appese ad una spalla, portavano delle chitarre in misura ridotta, bianche e piene zeppe di pulsanti. Le stavano agitando e schiacciando ovunque, mentre Tom assisteva alla competizione non sapendo se piangere per lo stato di patetici nerd a cui erano stati declassati o farsi coinvolgere dagli assoli di chitarra dei suoi due amici. Erano più o meno trenta minuti che giocavano e si erano mandati a fare in culo una dozzina di volte, infilandoci in mezzo insulti vari a povere madri ignare e parenti lontani innocenti. Incredibile quale potere avesse una piattaforma Nintendo Wii.

A tirarlo fuori dalle sue considerazioni di somma profondità e importanza, arrivò sua madre.

Si piantò sulla soglia del salone e lanciò uno sguardo di condanna a loro tre e ai numerosi pacchi di patatine vuoti che giacevano sparsi in giro per la stanza.

- Questo posto è un porcile – sentenziò, come se la sua opinione fosse stata richiesta.

Georg e Gustav praticamente non si accorsero della sua presenza, impegnati com’erano a sfinirsi a colpi di schitarrate, Tom alzò gli occhi al cielo.

- Sistemiamo tutto dopo – disse rotolandosi sul divano per raggiungere l’ultima patatina nel pacchetto accartocciato a terra.

- Sono le undici di mattina! Vi siete risucchiati otto pacchi di patatine! – esclamò la donna, con una vena isterica nella voce.

- Si lo so, moriremo giovani, il nostro organismo si disintegrerà, mio figlio nascerà con due teste e bla bla bla – la precedette Tom, grattandosi una natica – VAI GUSTAV! FAGLI IL CULO! AMMAZZALO! SQUARTALO! FICCAGLI QUELLA CHITARRA NEL… – aggiunse poi con un urlo, saltando a sedere sul divano per non perdersi la rimonta dell’amico su Georg.

- Tom! Per grazia divina! Cambia linguaggio! – strillò sua madre di rimando.

Tom la ignorò deliberatamente, gli occhi incollati sullo schermo.

- Figlio snaturato – borbottò sua madre – Ero venuta qui per dirti che al telefono c’è una ragazza che ti vuole – aggiunse poi, rinunciando a frenare l’idiozia del pargolo.

Improvvisamente l’attenzione del trio fu catturata dalla figura di Simone, ferma sulla porta.

- Ragazza? – domandò Georg, abbandonando la chitarra.

- Dove? – chiese Gustav, uno sguardo sospettoso.

- Chi? – fece Tom confuso.

- Una certa Heidi… - rispose sua madre, alzando le spalle.

- E chi cazzo è Heidi? – disse Georg scuotendo la testa, nel suo accappatoio lilla.

Tom saltò giù dal divano e si scaraventò fuori dalla porta un attimo prima che Georg e Gustav, dopo aver rimesso in moto le sinapsi cerebrali, si lanciassero dietro di lui in una carica degna di una mandria di bovini in calore.

Corse nel corridoio, inciampando nel tappeto, mentre i suoi due amici svestiti cercavano di raggiungere prima di lui il telefono, che sembrava quasi brillare sulla mensola dell’ingresso.

- Ma si può sapere cosa diavolo avete?! – sbraitò loro dietro sua madre.

Certo, le donne non capivano mai. Simone in più era anche una mamma, impossibile che capisse. Il rituale delle chiamate maschili doveva seguire una certa procedura, soprattutto in presenza di amici e/o compari e/o coetanei eterosessuali. Ossia: prendere per culo la ragazza dall’altra parte, convincendola che colui che sta attendendo è “finocchio” e/o “sfigato” e/o possibilmente mutante.

Tom raggiunse il telefono con una scivolata da campionato e prese la cornetta tra le mani, spostandosi all’ultimo minuto dalla traiettoria di Gustav e Georg, che si erano lanciati in avanti cercando di placcarlo. Il risultato fu che i due amici cozzarono uno contro l’altro e caddero per terra, rotolando fino alla porta d’ingresso con grugniti poco rassicuranti. Tom si accertò che non fossero in grado di rimettersi in piedi, e finalmente rispose.

- Pronto? – disse, con nonchalance.

- Buongiorno Krautiz. Dal rumore pensavo stesse arrivando a rispondermi una carica di gnu – disse Heidi dall’altro capo del telefono, con voce squillante.

- Non fare domande imbarazzanti per favore, e togli di mezzo questi gnu che davvero non so cosa siano e nemmeno voglio saperlo. ‘Cazzo vuoi? – disse, occhieggiando con preoccupazione la massa informe, che erano diventati Georg e Gustav, che riprendeva a muoversi.

- Gentilissimo come al solito, e simpatico come un cactus nel retto. Volevo solo dirti che hai dimenticato il cellulare qui, ieri sera – gli comunicò.

Tom si portò una mano alla fronte. Cavolo! Che deficiente!

- Oh si! Dannazione, è vero! – esclamò – Me lo porti? – chiese.

Dall’altra parte risuonò una grassa risata.

- Bella questa Krautiz! No, non te lo riporto, ovviamente. Ti ho comunicato la notizia, se lo rivuoi muovi il culo e vieni a prendertelo. Ciao ciao! –

La voce sarcastica di Heidi fu sostituita da un “tuu” ripetitivo e irritante.

Tom rimase con la cornetta in mano, dubbioso.

- Ma guarda te che razza di… -

Non riuscì a terminare la frase. Qualcuno lo afferrò per la vita e lo scaraventò a terra.

- Vendetta tremenda vendetta! –

- RAGAZZI! -

 

 

***

 

Note di Phan: Bonjour mes chères! Come state, dopo questo capitolo colante miele? Ad un certo punto ammetto che mi veniva da ridere, e penso di averne tirato fuori una scena romantica piuttosto esilarante... ma pazienza! Doveva pur arrivare questo momento prima o poi. Ovviamente, come avete potuto vedere, subito dopo questa scena romantica ricca di particolari inutili, ho dovuto spoetizzare il tutto, mettendoci in mezzo la demenza senile del trio rimasto su suolo tedesco. Questo capitolo è diviso a metà, il resto lo posterò la prossima volta. Ho preferito spezzettarlo per non renderlo troppo pesante da leggere. Che va bene tutto, ma a Guerra e Pace ci ha già pensato Tolstoj.

Ah, ultima cosa, riguardo al luogo dove Alex e Bill decidono di sromanticare. Non penso esista realmente, mi sono ispirata al film Hitch, dove compariva un luogo del genere.

Detto ciò, ringrazio i 40 utenti che hanno messo questa storia nei loro preferiti (vi amo). Ringrazio quelli che leggono, ma ribadisco che ciò che più mi occorre sono le opinioni. Indi per cui, uscite dal vostro tunnel di silenzio e trucidatemi pure!

 

Passiamo ora alle dediche personali, per le deliziose ragazze che hanno lasciato una recensione nel capitolo precedente: vi adoro.

 

EtErNaL_DrEaMEr: *_* Grazie, sono contenta che il capitolo precedente ti sia piaciuto. Io amo segretamente Hao. Diciamo che Bill è il mio fidanzato (anche se non lo sa), Tom il mio amante (anche se lo ignora) ed Hao l'accompagnatore (se esistesse). Anche io nutro un'insana passione per Heidi. Nel prossimo capitolo preannuncio che ci saranno risvolti tra Tom ed Heidi, o almeno spero, se 'sti si decidono una buona volta a metter giù le cornazze dell'orgoglio. Si, si, i nomi dei capitoli sono stati aggiunti all'ultimo aggiornamento. Mi sembrava così triste continuare a chiamarli "Capitolo1", "Capitolo2". Un bacione tesoro. Zao.

 

GodFather: Ahahah oddio quante grasse risate che mi sono goduta alla lettura dei tuoi commenti. Contentissima di averti scatenato l'ormone! Fa sempre bene! Ti ringrazio molto per i complimenti riguardo al capitolo precedente. Si, ho sviluppato ulteriormente il personaggio di Alex, era previsto che ad un certo punto si sarebbe "evoluta". Grazia grazie e grazie ostrichetta.

P.S. mia cara Giulia q_q appena torno alla vita terrena mi collego in msn e ti sommergo per bene di cose inutili *_*. Un bacione. Ti voglio ben-ben-bene!

 

valux91: sono veramente contenta che ti piaccia questa storia. Si, nascono nuove coppie, e hai centrato pienamente il punto della relazione tra Bill ed Alex. Ispirazione tornata, crisi superata *_^. Bacini.

 

Vitto_LF: ma come sei cattiva! Poveri Tom ed Heidi! Oddio, chissà se il capitolo precedente ti ha lasciato spiazzata che cosa succederà dopo che leggerai questo XD. Minimo mi lancerai dietro un anatema di quelli seri. Ma smettila, a me piace la sincerità. Una recensione sincera ne vale dieci. Grazie dell'incoraggiamento. Bacio.

 

bluebutterfly: *_* tela li la svolta! Oddio, di fronte alla tua minaccia mi sono sentita lievemente terrorizzata. Ad ogni modo, a proposito di aggiornamenti, quando diamine hai intenzione di aggiornare la TUA fan fiction? Mi lasci qui ad annegare nel mio brodo di frustrazione? Ti odio! Ma ti mando un bacio.

 

Dying Atheist: Mia cara! Quanto tempo! Ci si sente sempre meno q_q e non sai come mi dispiace. Spero davvero di riuscire a farmi vedere di più a partire dal mese prossimo. Grazie dei complimenti. Un bacione grande!

 

susisango: ma che bello! Sono contentissima che ti piaccia! ^^. Cercherò di continuare così. Ciao ciao.

 

L_Fy: bene, prendiamo un respiro, che ci vuole sempre in occasioni come questa (del tipo "la mia scrittrice preferita mi recensisce la storia"). Non so da dove partire per ringraziarti. Forse dal divano con la forma delle tue terga, o dai gemelli teutonici ispiratori di ossimori, o la vendita su e-bay delle mutande di Bill (cavoli! Alex non ci aveva pensato, non ti dico come si è pentita). No forse sarebbe meglio ringraziarti per quel "scrivi da Dio" o semplicemente per aver letto la mia storia! Grazie insomma! Riguardo il fidanzamento... vediamo, ci si regola lunedì! Mi hai fatta sganasciare dalle risate (come al solito). Grazie grazie e grazie.

 

missmar23: carissima! Benvenuta! Grazie veramente per i complimenti! Spero continuerai a leggermi ^^. Bacio.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Collisione ***


Dopo quel bacio ce ne fu un altro. Più morbido e più consapevole al tempo stesso. Bill si sentì improvvisamente onnipotente, mentre toccava i capelli rossi di Alex. Associò istintivamente quella sensazione alla stessa che provava in piedi al centro di un palco, di fronte a migliaia di mani alzate e occhi che brillavano. L’adrenalina, l’eccitazione, la paura, erano identiche. La ragazza gli sfiorò una mano e lui le accarezzò il dorso della sua, in un gesto intimorito e spontaneo. Che buon sapore aveva, lei. Sapore di fragola, decise, assaggiandole le labbra un’altra volta.

L’ultimo bacio fu il più delicato. Si staccarono lentamente uno dall’altra, senza trovare il coraggio di guardarsi negli occhi, continuando a respirare velocemente.

Calò un silenzio che nessuno dei due ruppe, lasciando che gli sguardi vagassero di nuovo su quell’orizzonte luminoso che era stato l’unico spettatore di quell’esibizione imprevedibile.

A Bill sembrò di rimanere li seduto per dei secoli, a sentire il calore di Alex vicino a lui avvolgerlo come un manto. Poi in lontananza, il cielo decise per loro che era il momento di terminare quella notte.

Alex si sollevò in silenzio.

- Torniamo a casa – disse. Bill alzò gli occhi su di lei, un accenno di paura che gli stringeva lo stomaco. Quando però incontrò il viso della ragazza, la paura di sciolse come neve al sole. Sorrideva, tranquilla, gli occhi animati da quella sua onnipresente luce. Afferrò la mano che gli stava porgendo e si sollevò, seguendola nel percorso di ritorno.

Non parlarono, non discussero. Conservarono un sorriso complice sulle labbra, appena incerto, stupito, rendendosi improvvisamente conto, alla luce azzurrina dell’alba, che da quel momento in poi avrebbero condiviso un segreto.

A Bill il tragitto parve molto più corto, anche se era quasi certo che quell’impressione fosse riconducibile al desiderio di non staccarsi da Alex, protetto dalla scusa della velocità.

Sopra di loro il cielo diventava sempre più chiaro, mentre rincorrevano l’ultimo lembo di notte che lentamente si stava dissolvendo all’orizzonte.

Alex abbandonò la moto in una sorta di deposito vicino a casa di Joanne, ed insieme varcarono la porta d’ingresso ridacchiando. La prima a prendere l’iniziativa, in corridoio, fu la ragazza.

- Grazie – gli sussurrò portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Bill aggrottò le sopracciglia divertito e stravolto nello stesso confuso istante.

- Quando vuoi – mormorò, facendole l’occhiolino come un vero ed esperto Don Giovanni.

Alex soffocò una risata con la mano.

- Buonanotte – disse poi, abbacinandolo con quegli occhi verdi.

- Dovrebbero obbligarti a portare degli occhiali da sole… - farfugliò Bill grattandosi la testa, per poi ricordarsi all’ultimo minuto che pensare ad alta voce non era mai una buona idea.

La ragazza scosse la testa confusa.

- Cosa? – domandò, con un sorriso tenero che ridusse in una pappetta gelatinosa quel che era rimasto delle sue budella. Dio, erano le cinque di mattina, aveva passato la notte in bianco, e si agitava ancora così?!

Eh si… è grave fratellino. Ma ha un bel culo, ti perdono. E poi guida quella moto in un modo… Sussurrò la voce assonnata di Tom nel suo orecchio. Bill alzò gli occhi al cielo. Ma possibile che la petulanza di suo fratello non conoscesse limiti di orario o decenza?

- Niente, niente – si affrettò a dire dopo essersi reso conto del silenzio che era calato su di loro – Notte Alex – aggiunse poi, sorridendole. Lei sembrò esitare per un istante, poi fece un passo avanti e gli sfiorò una guancia con le labbra.

Bill la guardò allontanarsi, e poi scomparire dietro la porta della sua camera con un ultimo sorriso. Entrò nella stanza di Michael, dall’altra parte del corridoio, con la stupenda e impagabile sensazione di camminare a due palmi da terra. Si sentiva leggero, piacevolmente vuoto, estasiato. Tutte cose che per lui erano davvero… strane. No, strane non era il giusto aggettivo. Nuove. Ecco, si, erano tutte sensazioni nuove.

Si stese sul letto, dopo essere miracolosamente riuscito ad infilarsi un pigiama, e tirò un lungo, dolce sospiro. Restò per diversi minuti con gli occhi spalancati piantati sul soffitto, senza vederlo. Nella sua mente continuava a ripercorrere tutti i singoli secondi di quella notte, nella paura di dimenticarseli all’improvviso. Quando però decise che dimenticare quello che era successo sarebbe stato impossibile, chiuse le palpebre, scivolando in un sonno confortante e profondo, che aveva odore di… fragola.

 

Poche ore dopo, esattamente tre ore dopo, Bill si ritrovò seduto al tavolo della cucina assieme a tutta l’allegra famiglia. Non sapeva come era arrivato li, né perché si fosse svegliato ad un orario tanto infame, ma decise che non farsi domande gli avrebbe risparmiato un bel po’ di fatica. Sentiva la faccia rigida e le palpebre pesanti, serbava lo spiacevole sospetto che i suoi capelli si fossero trasformati in un mazzetto di carciofi, ed ancora non riusciva a mettere a fuoco le persone intorno a lui. Charlie doveva essere passata alle sue spalle pochi attimi prima, dandogli un angolo della tazza di porcellana in testa. Sentiva una strana presenza aggrappata alla sua gamba. Dal gorgoglio proveniente da sotto il tavolo doveva essere Zachary. Qualcuno gli stava tirando la manica sinistra del pigiama. Sicuramente Kevin. Di fronte a lui vedeva l’enorme posteriore di Joanne volteggiare da un angolo all’altro della cucina trasportando le cibarie per la colazione. Samuel doveva essere quella forma sfocata seduta dall’altra parte del tavolo.

- Buongiorno! – trillò una voce. Bill sorrise tra se e se e puntò gli occhi perfettamente aperti sulla porta, dove comparve Alex, i capelli rossi stretti in una coda alta e il viso perfettamente fresco e pulito. Si era lavata, cambiata, e sembrava più che pimpante. Eppure avevano avuto si e no tre ore di sonno entrambi.

Un coro di vari “buongiorno” accolse la sua presenza. Alex si avvicinò come se stesse danzando, o forse era lui che cominciava a vedere le cose sotto una luce strana, e si piegò sotto il tavolo per staccargli Zachary dalla gamba.

- Buongiorno – gli disse, regalandogli uno sguardo inconsapevolmente complice.

- Ciao… - rispose Bill, schiarendosi la voce e pensando per un attimo a quanto dovesse sembrare osceno conciato in quel modo. Poi decise di ignorare le sue domande da adolescente turbata e consumò la colazione con il resto degli inquilini, tra ciambelline rovesciate sul tavolo, succhi di frutta schizzati addosso alla sua maglietta del pigiama e strisce di bacon che superavano a volo radente le tazze colorate.

Come ogni mattina aiutò Alex a sistemare i bambini per i vari asili e scuole, sotto lo sguardo perfido di Charlie che si divertiva sempre come una matta a vederlo in preda al panico di fronte a Zachary.

- Quelle sono bretelle, non cinghie di un paracadute. Devi mettergliele sulle spalle, non attorcigliarcelo dentro come un insaccato – disse la ragazzina, seduta a gambe accavallate sul divanetto, in attesa che loro finissero. Bill alzò uno sguardo su di lei, incontrando un paio di lenti scure circondate da una spessa montatura di plastica bianca.

- Begli occhiali. Quando Elton torna a prenderli fammi un fischio, ho sempre sognato di avere un suo autografo – disse, sorridendole. La ragazzina inarcò le sopracciglia e con un gesto lento abbassò gli occhiali sulla punta del naso, fulminandolo con lo sguardo.

- Ah ah ah – fece, per poi trincerarsi di nuovo dietro le lenti con aria di superiorità. Bill approfittò di quell’insolito momento di pace per slegare Zachary dalle bretelle arrotolate in vita e mettergliele al posto giusto.

- Allora, adesso vado ad accompagnare i bambini a scuola. Poi farò un salto da Sven per rimettergli la moto in… ehm… garage – disse Alex sollevandosi. Esitò per un istante quando Bill le si parò davanti – Quindi stamattina dovrai andare da solo all’internet point. Ok? – terminò velocemente controllando a sproposito il colletto della maglietta di Kevin.

Bill sorrise tra se e se e le afferrò un polso, delicatamente, riportandola con lo sguardo su di lui.

- C’è qualcosa che non va? – chiese, divertito di fronte allo sguardo sorpreso e appena imbarazzato di Alex. Lei non rispose immediatamente, come se non trovasse le parole giuste. Poi si sciolse in un sorriso.

- No. Va tutto bene. Tutto così bene che mi ci devo ancora abituare – rispose poi. E arrossì. Bill vide chiaramente le sue guance pallide colorarsi di un rosa tenue e adorabile. Rimase immobile a guardarla, il suo polso ancora tra le mani, fin quando qualcuno non pensò bene di interrompere la scena idilliaca.

- Scusate. Permesso. Siamo in ritardo – disse Charlie passando in mezzo a loro e dividendoli a colpi di borsa.

- Giusto. Ci vediamo dopo, a casa – disse Alex rivolta a Bill, prendendo in spalla gli zaini di dei bambini e sollevando Zachary da terra. Lui annuì, guardando Charlie che afferrava la mano di Kevin e Samuel che si metteva al fianco della ragazza. Sembravano tutti pronti per una spedizione militare.

- Fuori – ordinò Alex, aprendo la porta. La strana compagnia uscì di casa, lasciando un vuoto poco piacevole nel piccolo ingresso.

Bill rimase per un istante a guardare la porta, la mente catturata dall’ultimo sorriso che Alex gli aveva rivolto. Pensò alla scheggia di lei che aveva visto, attraverso la fessura della porta ancora non completamente chiusa. Poco più di una ciocca di capelli rossi, un’iride verde e le labbra rosa.

Si lasciò cadere sul divanetto, con un sospiro. Senza sapere perché una strana sensazione di malinconia si fece largo in lui, appesantendolo. Guardò di nuovo l’ingresso, bianco e deserto, così squallido senza la presenza dei mille colori di quei bambini e del loro vociare continuo. Si chiese se avrebbe sentito la loro mancanza nello stesso modo, quando il momento di tornare a casa sarebbe arrivato.

Decidendo di ignorare l’ultimo pensiero e nello stesso tempo chiedendosi come diavolo avrebbe fatto ad abbandonare tutti quanti, soprattutto Alex, soprattutto quel pontile, soprattutto quel ricordo, si diresse verso il bagno, canticchiando sommessamente una canzone che apparteneva ad un altro tempo. Un tempo che sembrava davvero tanto, tanto lontano.

 

Bill tamburellò le dita sulla tastiera. Non si era ancora abituato a non sentire il ticchettare delle unghie, che ora erano corte e rosa. In effetti in quel breve lasso di tempo le sue unghie non erano l’unica cosa ad essere cambiata. Ad esempio, aveva imparato a muoversi in modo autonomo nelle vicinanze della casa di Joanne. Poteva orientarsi nel raggio di due isolati, e gli bastava.

Il cellulare di Tom continuò a suonare a vuoto, attraverso le cuffie. Bill alzò gli occhi al cielo. Suo fratello era flemmatico oltre ogni dire. Quando finalmente sentì la cornetta sollevarsi, prese fiato per salutare. Ma…

- Buon pomeriggio! Qui risponde la segreteria di Kruger Sexy Shop, Kreiekauer Straße quarantadue. Articoli per tutti i gusti. Lasci un messaggio dopo il segnale acustico. – gracchiò una voce femminile, piuttosto calda. Dopo un attimo di smarrimento Bill chiuse la comunicazione e guardò lo schermo confuso. Doveva aver sbagliato qualcosa. Ricompose il numero e attese la risposta. Il telefono squillò un paio di volte.

- Pronto? Qui è la macelleria “Da Franz”! Questa settimana in vendita a metà prezzo quarti di manzo per casalinghe disperate. Vi aspettiamo numerose in Heinrich Straße dodici! – esclamò di nuovo una voce femminile. Ma nonostante il tono fosse mutato da sensuale a gioviale Bill riuscì a distinguere lo stesso timbro.

- Cos’è? Uno scherzo? – disse, acido, inarcando un sopracciglio. Dall’altra parte calò il silenzio.

- Chi sei? – chiese poi la voce, in tono naturale. Bill identificò l’interlocutore come una ragazza della sua età, all’incirca.

- La domanda giusta è chi sei tu, visto che quello a cui sto chiamando è il numero di mio fratello – rispose Bill. La ragazza sbuffò.

- Dio Signore ma dovevate capitare tutti e due a me, voi gemellini cerebrolesi?! Dico, non ne bastava uno, di Krautiz?! Adesso ti ci metti anche tu? – si lamentò, esasperata. Bill scosse la testa confuso.

- Mi stai mandando in tilt. Partiamo con le domande elementari. Come ti chiami? – chiese, massaggiandosi il setto nasale.

- Heidi. E per carità risparmiati la battuta sulle caprette che ha fatto tuo fratello perché altrimenti ti assesto un’anfibiata dal microfono – rispose la ragazza, con tono rassegnato. – Tu sei Bill, giusto? – aggiunse poi.

- Si, sono Bill. Passiamo alla prossima domanda. Perché hai il cellulare di Tom? – domandò Bill, curioso. La tizia dall’altra parte non sembrava antipatica, anzi, si era lasciata sfuggire quel tantino di follia che a lui piaceva nelle persone. Quello che si domandava era che tipo di legame avessero lei e suo fratello. Di solito Tom le ragazze le sceglieva prive dell’uso della parola, più che altro si esprimevano in sospiri e risatine, non utilizzando la coniugazione dei verbi.

- Perché il tuo fratellino mongolino lo ha dimenticato da me ieri sera, tornerà a riprenderselo oggi – lo informò Heidi, rilassata.

- Ah – ribatté Bill – Ehm… scusa, ma che tipo di ehm… insomma ehm… - cercò di aggiungere, chiedendosi in quale modo porre la domanda.

- Dimmi un po’, ma a voi due nel biberon cosa mettevano? Assenzio? Perché si spiega solo così la vostra incapacità di comunicare utilizzando parole di senso compiuto e non grugniti – lo interruppe Heidi, facendogli passare la voglia di formulare una domanda che non la mettesse in imbarazzo.

- No, nel biberon io preferivo la Vodka Lemon, insuperabile. Ad ogni modo, dicevo, che tipo di relazione avete tu e Tom? – disse senza riuscire a soffocare un ghigno. Dall’altra parte il silenziò calò come una pesante cortina.

- Che relazione dovremmo avere? – chiese Heidi, la voce gelida, anche se Bill distinse bene una nota strozzata in quella freddezza.

- Non lo so, lo chiedevo a te. Del tipo… scambiate fluidi corporali? Fornicate insieme? Cose di questo genere – rispose. Qualcosa cadde, in qualunque luogo si trovasse Heidi all’altro capo del telefono, e Bill sentì distintamente la ragazza imprecare come uno scaricatore di porto allontanandosi dalla cornetta. Quando la riprese nuovamente in mano gli rispose con furia.

- Noi non fornichiamo un bel niente. Tuo fratello viene a rompermi le balle ogni santa sera ed io sono costretta a sfamarlo per di più, quando potrei chiamare un qualsiasi giornalista e spiattellare tutto quello che so su di te e la tua fuga in qualunque momento. Quindi lingua tra i denti e stringi forte, prima di fare domandine allusive –

Bill ammutolì, le mani sulle cuffie. No… suo fratello non poteva essere così deficiente.

- Cioè mio fratello ti ha raccontato tutto? – sfiatò. Il silenzio dall’altra parte gli fece chiaramente capire che si, suo fratello era così deficiente.

- Si – capitolò infine Heidi – Ma non ti preoccupare, sono abbastanza idiota da non trovare il coraggio di utilizzare tutta questa storia per comprarmi un appartamento. Sai, alla mia epoca ci facevano ancora senza macchia e senza paura… -

Bill tacque, analizzando il tono di Heidi e ragionando.

- Da quanto lo sai? – domandò infine.

- Uhm… un bel po’ di tempo. Tom mi ha detto che te ne eri andato da circa sei giorni quando è venuto da me – rispose la ragazza, con voce allegra.

Bill tirò un sospiro di sollievo. Se quella Heidi non aveva spifferato nulla per tutto quel tempo aveva buone ragioni per credere che non l’avrebbe fatto nel prossimo futuro.

- Ok – si limitò a dire – Dunque, suppongo che dovrò aspettare domani per parlare con il mio fratello degenere –

- Si, temo di si – confermò Heidi.

- Perfetto. Allora per oggi salutamelo tu, va bene? –

- Sissignore –

Bill sorrise.

- Ciao Heidi –

- Ciao Krautiz Secondo –

Chiuse la comunicazione con il sorriso ancora ben fermo sulle labbra. Che suo fratello non avrebbe sopportato di passare tutto quel tempo senza ronzare attorno ad una qualche ragazza, se l’era aspettato. Quello che non si aspettava era che ne scegliesse una con i neuroni tutti al loro posto, nonostante la chiara follia galoppante. Scosse la testa. Heidi sarebbe stata un osso duro per Tom, di quello ne era più che sicuro. Nemmeno dieci minuti di telefonata gliel’avevano fatto capire chiaramente. Si alzò gongolante e pagò il cassiere per poi ritornare in strada.

Aveva ragione Alex. Andava tutto bene, talmente bene che non riusciva ancora ad abituarsi completamente all’idea di vivere in quel clima pacifico.

Passando davanti ad una vetrina vide il suo riflesso. Si fermò a scrutarlo, curioso. Si vide pallido, struccato, magro, alto. Lineamenti troppo delicati, da ragazza. Capelli lunghi e lisci, poco curati. Era quello il ragazzo che aveva baciato Alex, realizzò in un istante, e trovò quel pensiero assurdo. Che attrattiva possedeva quell’individuo? Non era famoso, non era bello, non era ricco, evidentemente. Ma era proprio quello il punto, proprio quella la cosa che gli metteva addosso il desiderio di urlare come un pazzo e saltare come un canguro. Alex aveva baciato Bill! Bill! Aveva scelto lui! Non Bill Kaulitz! Ad Alex piaceva proprio lui.

Sorrise al suo gemello un po’ sbattuto e riprese a camminare, mani in tasca, naso per aria, con la netta sensazione di non aver mai visto una mattina così bella.

 

 

- Ha chiamato tuo fratello stamattina –

Tom quasi si soffocò con l’ultimo boccone di panino. Tossì un paio di volte dandosi dei forti colpi sul petto, per poi sollevare lo sguardo su Heidi, che lo osservava perplessa con un bicchiere di Coca-Cola in mano.

- C-che cosa? – esalò Tom cercando qualcosa da inghiottire per ritornare a respirare.

- Senti Krautiz, cerca di non creparmi per favore. Altrimenti quando torna il tuo bel fratellino cosa gli racconto? – rispose Heidi, porgendogli il suo bicchiere.

Tom ingoiò un paio di sorsi e poi respirò profondamente.

- Hai parlato con mio fratello? – domandò.

- Si – disse Heidi alzando le spalle.

- Che cosa gli hai detto? – chiese il ragazzo con terrore.

Heidi si guardò intorno dubbiosa.

- Niente… cioè mi ha chiesto perché avevo il tuo cellulare, e gli ho spiegato un po’ tutto –

- Tutto tutto? – disse Tom atterrito.

- Si! Tutto tutto! Ti vuoi riprendere Krautiz?! Cos’è? Ti da’ fastidio che il tuo adorato gemellino sappia che condividi del tempo con la plebe?! – sbottò Heidi.

- E si è arrabbiato? Ha detto cose del tipo “quando torno scuoierò Tom e lo lascerò a sgocciolare sangue su una picca”? – chiese Tom ignorandola.

- NO, Tom! E’ stato educato e abbiamo scambiato si e no una quindicina di parole in cui non era compresa questa visione raccapricciante. Contento adesso?! – disse Heidi alzandosi e buttandosi a sedere sul letto.

Tom si appoggiò allo schienale della panca, sollevato.

- Benissimo! – disse, sorridendo alla ragazza – Beh, sbaglio o noi abbiamo un conto in sospeso? – aggiunse poi. Vide Heidi alzare gli occhi al cielo.

- Di’ un po’, ma con il cervello limitato che ti ritrovi, dovevi proprio conservare la capacità di ricordarti ogni, singolo, stupido, “regolamento di conti”? – esclamò.

Tom si alzò, estraendo da una delle enormi tasche tre cd. Si avvicinò ad Heidi, che lo guardava terrorizzata e disgustata allo stesso tempo.

- Scegline uno – disse, mostrandoglieli. La ragazza si sporse di malavoglia e guardò le copertine.

- Questo arancione no. Ma quanti anni avevate qui? Le maestre dell’asilo vi permettevano di registrare dischi del genere? – disse la ragazza osservando scettica l’illustrazione di Schrei.

- Risparmiati il tuo distorto senso dell’umorismo – disse Tom. Heidi lo fulminò con lo sguardo.

- E tu l’imperativo – sibilò – Dunque, quest’altro no. Tuo fratello ha la faccia da indemoniato – disse poi, scartando Scream – Opto per questo. Zimmer 483. Niente facce dalle espressioni ridicole o colori fluo –

La ragazza si alzò ed afferrò il disco dalle sue mani, dirigendosi verso lo stereo. Inserì il cd e lo fece partire, prendendo una sorta di telecomando rotondo dalla cassettiera. Ritornata vicino a lui si sedette sul letto, stringendo le ginocchia al petto. Tom imitò il suo esempio e si lanciò sul materasso, stendendosi comodamente e provocando un ringhio di Heidi che finse bellamente di non sentire.

Le note di Ubers Ende Der Welt riempirono la piccola stanza. Dopo i primi venti secondi di canzone Heidi premette un pulsante sul telecomando e passò alla traccia successiva.

- Falso rock, non mi piace per niente – sentenziò, risvegliando in Tom il desiderio di tirarle il collo.

Saltò a piè pari Totgeliebt dicendo “Roba da matti, che apprezzino questi testi”, e liquidò Spring Nicht con un lapidario “La lametta la vendete in omaggio con il cd?”. Trovò che Heilig fosse “un invito aperto al suicidio” e dichiarò che Wo Sind Eure Hande fosse semplicemente una “filastrocca di origini germaniche trasformata in canzone”.

Quando arrivò il turno di Stich Ins Gluck tacque per un attimo.

- Uhm… accettabile – disse infine, dopo averla sentita per metà. Passò alla traccia seguente con una smorfia indispettita sul volto.

Al primo riff di chitarra di Ich Brech Aus storse il naso. Quando Bill cominciò a cantare scosse la testa.

- Bella melodia, ma non mi piace come la canta tuo fratello – disse, senza guardarlo. Tom fece appello al suo autocontrollo. Si sollevò, mentre Heidi passava alla successiva canzone, Reden.

- Ma perché fai così? Non stai nemmeno ascoltando le tracce! – disse, sinceramente stufo dell’atteggiamento della ragazza. Lei si voltò impassibile.

- Certo che le sto ascoltando – disse strafottente.

- Ma se dopo una decina di secondi le elimini tutte sputando sentenze?! – esclamò Tom.

- Non è vero! Ti ricordo che ne ho ascoltata una per metà! – si difese Heidi.

- E il massimo che sei riuscita a dire è stato “accettabile” – le fece il verso Tom – Perché non scendi un po’ dal piedistallo, abbandoni tutte quelle arie da grande intenditrice di musica, e provi ad essere sincera? – chiese. Gli occhi di Heidi lanciarono fiamme.

- Sono veramente stufa delle tue idiozie! Proprio non riesci ad accettare che la vostra musica non mi piaccia? – disse, alzando la voce.

- Perché so che non è vero. Ho visto la tua faccia, e so che piuttosto che ammettere che facciamo della musica che ti piace ti amputeresti una mano. Non capisco perché lo fai. Credi che sia una guerra contro di me, forse? – ribatté Tom. Heidi voltò il viso, sfuggendogli.

- No. Ho detto finiscila di dire cretinate. Non mi piace e punto, Krautiz. Io non sono come la massa di ragazzine che vi sbava dietro, ho una testa, non vi cado ai piedi solo per i bei faccini – disse, con voce dura. Tom sorrise perfidamente.

- Ah, ho capito. Allora è per questo che ci odi così. Perché vuoi solo distinguerti. Sai… sei veramente deludente. Mi aspettavo qualcosa di più – disse infine, riprendendo la sua posizione supina. Heidi tacque e per pochi attimi nella stanza si udirono solo le note di Reden. Poi qualcosa lo colpì all’altezza dello sterno, facendolo sobbalzare.

- Ehi ma che diavolo fai?! – urlò contro Heidi, che aveva ancora la mano alzata a mezz’aria.

- Tom Kaulitz. Sei il più grande, cosmico, titanico, patetico, insopportabile, perfido idiota che io abbia mai conosciuto – gli sibilò contro Heidi – Tu, tutte le tue teorie su cosa dovrei dire, fare, pensare, le tue manie di grandezza, il tuo ego soffocante e i tuoi sorrisini. Non ti sopporto PIU’ – terminò, e se i suoi occhi avessero potuto probabilmente l’avrebbero trafitto seduta stante, lasciandolo agonizzare. Già, gli occhi di Heidi. E… i capelli di Heidi. Le lentiggini sul naso di Heidi. La nevrastenia di Heidi. La timidezza nascosta di Heidi…

La bocca di Heidi.

Prima di sapere esattamente cosa stesse facendo, prima di rendersi conto che le aveva infilato una mano dietro la nuca e l’aveva tratta a se, Tom non si pose troppe domande. Era abituato a prendersi quello che voleva, e in quel momento aveva ben chiaro nella mente ciò che voleva. Le modalità erano particolari insignificanti. Appoggiò rudemente la bocca sulle labbra di Heidi e la bloccò in un bacio poco gentile, decisamente maleducato, decisamente da Tom. La ragazza rimase immobile per un istante, poi cercò di allontanarlo da se premendogli le mani sul petto.

- Ferma e taci – ordinò Tom staccandosi appena per afferrarle i polsi. La costrinse ad appiattirsi contro il muro e la baciò di nuovo. Heidi tentò di divincolarsi, ma alla fine capitolò, diventando partecipe di quella nuova sorta di competizione con entusiasmo malcelato.

Tom perse letteralmente il senso del tempo mentre i baci rabbiosi diventavano qualcos’altro e le note di Reden gli rimbombavano nelle orecchie assieme al pulsare del sangue.

Poi tutto si interruppe in modo molto brusco. Senza sapere come si ritrovò seduto con le natiche per terra. Sollevò lo sguardo su Heidi, ancora rannicchiata sul letto. Aveva i capelli spettinati e la bocca rossa. Gli rivolse uno sguardo confuso e appena delirante.

- Vai via – mormorò poi, con voce tremante. Scese dal letto e si diresse verso la porta della stanza, cercando di stargli il più lontano possibile. Tom la guardò scomparire nel corridoio e poi sentì dei passi affrettati, prima dello sbattere di una porta in lontananza.

Rimase per un attimo spiazzato, a guardarsi intorno. Poi si sollevò come in trance e raccolse le sue cose, uscendo dalla stanza e lasciandosi dietro le ultime note di una canzone che in quel momento non riusciva a ricordare.

 

Wir wollten nur reden…

 

Reden, reden, reden, reden…

 

***

 

Note di Phan: tantantantaaan tantantantaaaannn. Ok, di nuovo, non sono contenta di questo capitolo, ma pazienza, se dovessi aspettare di essere contenta qui tirerebbe tardi. Perdonate gli errori, ma la mia semi-beta-reader si è data alla macchia e siccome sono molto pigra e ho poco tempo, non ho riletto bene quello che ho scritto. Spero perdonerete questa mia mancanza (insieme alle altre, molteplici e fastidiose). Mi farò perdonare con un bacino a tutte voiiii (anche perché è il massimo che posso permettermi). Attendo le vostre opinioni su questo capitolo, sperando che non decidiate di lapidarmi. Ovviamente l'invito è rivolto anche alle buone anime che hanno questa storia nei preferiti, o che comunque la leggono, ma mi fanno elemosinare recensioni. Dite un po', ci provate gusto eh?! Vi capisco.

 

Andiamo a salutare tutte le mie gioie che hanno lasciato una recensione al capitolo precedenteee (oggi sono molto in vena di vocali).

Eowyn 21 10: Come sono contenta che tu abbia deciso di trucidarmi. Sono tanto, tanto tanto contenta. E sappi che se deciderai di trucidarmi ancora sarò ancora più contenta.  Grazie tanto tanto per quel "fantastica" che mi ha fatto arricciare le dita dei piedi. Ho continuato, non proprio presto ma ho continuato. E sappi che ti amo a prescindere, perché hai come nick il nome di uno dei personaggi del Signore degli Anelli che ho amato di più: Eowyn. Avevo addirittura una sua figurina attaccata sul mobile sopra al letto (particolare imbarazzante). Un salutissimo.

Vitto_LF: Lo so, lo so che ti è difficile immaginarti Alex in questo tipo di "situazione", non ti dico come è stato difficile per me renderla adatta. Eheh, riguardo agli sviluppi di questa vicenda non posso ancora dirti nulla. Si, ci sono tanti interrogativi, che come vedi in questo capitolo non ho risolto XD, ma arriverà il momento, non temere. Si, ho letto la recensione che hai lasciato a Yashal e ti ringrazio tantissimo. Ad ogni modo prevedo che ci saranno altre One-Shot ^^. Un bacione Vitto.

bluebutterfly: Ahah, che te ne pare degli "sviluppi" dei due "occupati a mandarsi reciprocamente a quel paese"? Mi sembra di aver fornito loro sufficiente materiale su cui pensare. Grazie mia cara. Devo aspettare ancora?! Scusa, mi potresti dare indirizzo completo? Vengo a bucarti le gomme. Un bacio.

missmar23: Rieccoti. Ahah, sei perspicace XD. Ti ringrazio per i complimenti. Un bacio anche a te.

BabyzQueeny: Benvenuta cara! Contenta che ti piaccia! A presto e grazie!

susisango: Sono contenta che tu non abbia trovato troppo romantico il precedente capitolo! Eheh, ecco cosa succede, e oserei dire che questa è solo la punta dell'iceberg. Un salutoo.

valux91: Ma ciao cara! Si, è vero, sinceramente a me l'inversione dei ruoli ha messo un po' d'ansia, ma tutto sommato posso dire di essermela cavata, anche se non brillantemente. Sono contenta che ti sia piaciuta! E grazie. Un bacione anche a te.

EtErNaL_DrEaMEr: Ma va', Tom ed Heidi non saranno mai romantici, per quello bastano ed avanzano Bill ed Alex ho il dubbio. Che bello che ti piacciano quei film. Ma anche io ti adoVo! Che bello averti fatta ridere! No problema affatto! Grazie. Un bacione grandee.

L_Fy: Mia cara! Grazie prima di tutto. Sono più che contenta che ti sia piaciuta la scena tra Bill ed Alex. Riguardo al fidanzamento con Heidi ti rimando alla recensione che ho lasciato alla tua spassosissima Venerdì 17. Salut.

GodFather: Ostrichetta! Ma che bello che invece di studiare letteratura mi scrivi le recensioni, sai che ti amo? Mi hai lasciato una recensione stupenda, che ho letto con gli occhi sgranati. Magari averla vissuta, una notte brava con Bill. Dubito però che sarei stata romantica come Alex (sono materiale, ma tu lo sai già). Ahahah chissà come leggerai questo capitolo, sono curiosa della tua reazione. Grazie, grazie e grazie Giuly, per tutto tutto! Un bacione.

Paaola: My darling! Ma si! Spiazziamoci insiemeee! Un bacione grande. Ti voglio bene.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** A volte ritornano ***


Fu solo quando si ritrovò davanti alla porta di casa che si rese conto di aver fischiettato per tutto il tragitto. Si trovò vagamente patetico, in un qualche angolo del suo inconscio ben seppellito sotto strati di quella che probabilmente era follia. Sicuramente era follia.

Aprì la porta con il suo duplicato della chiave, regalatogli direttamente da Joanne. Appurò subito che Alex non era ancora tornata, e sospirò di sollievo, pensando che almeno avrebbe avuto del tempo per elaborare dei pensieri sensati, possibilmente traducibili in parole. Perché Bill sapeva che qualcosa doveva dire. Sarebbe stato tremendamente idiota da parte sua tirare dritto e far finta che non fosse successo nulla, o peggio far intendere che quello che era successo non fosse importante.

In preda ai dilemmi amletici accostò silenziosamente la porta dietro di se e si diresse verso la sua camera, con lo scopo di trovare una maglietta che non fosse lacerata e/o rilasciata come quella che aveva addosso. Quando però arrivò in corridoio, fu costretto a fermarsi con un sobbalzo. Di fronte a lui, di spalle, distinse la sagoma di un uomo, vestito in jeans e maglietta nera, chino sui cassetti della scrivania. In preda al panico si chiese cosa fare con pensieri febbrili.

Scappa! Esclamò Tom nel suo orecchio.

Bill rimase immobile. Non poteva scappare, quella era casa di Alex! Di Zachary! Di Kevin e Joanne! Dei bambini!

Bill se è un rapinatore ti ammazza, qui non vanno per il sottile. Muovi il culo e vai via! La voce di Tom tremò.

Ma Bill non lo stava ascoltando. Stava studiando con sguardo attento la nuca dello sconosciuto. C’era qualcosa di familiare in quei ciuffi di capelli dal colore incerto.

- Michael – sfiatò, nello stesso istante in cui il ragazzo si voltò verso di lui, raddrizzandosi. Bill vide chiaramente la sua solita espressione indifferente inquinarsi con una nota di amara sorpresa.

- Chi si vede – disse, calcandosi placidamente un berretto sulla testa e dirigendosi con passo elastico verso di lui. Bill ebbe quasi timore che lo volesse colpire, invece il ragazzo lo superò ignorandolo del tutto ed entrando in cucina. Dopo un istante di confusione si ricollegò con la mente al giorno in cui Michael se n’era andato, alle sue mani su Alex, a ciò che le aveva detto.

Bill, non fare stronzate. Lo avvertì la voce di Tom, prevedendo il formarsi di pensieri funesti nella sua mente.

Di nuovo, Bill non ascoltò. Si voltò e raggiunse Michael in cucina, trovandolo intento a frugare nei cassetti dei mobili.

- Cosa diavolo stai facendo? – chiese con tono aggressivo.

Michael si voltò verso di lui con un sorrisino strafottente che gli fece venir voglia di afferrare una sedia e frantumargliela sui denti.

- Non sono affari tuoi bel faccino. Non mi rompere – rispose poi, riprendendo a controllare nei cassetti.

- Tu non dovresti essere qui. Vattene immediatamente – disse Bill, gelido. Il ragazzo sollevò nuovamente gli occhi freddi su di lui e scoppiò a ridere. Una risata vuota, falsa. Superò il tavolo e si avvicinò a lui.

- E tu chi saresti per ordinarmi di andarmene? – gli chiese, la risata scomparsa velocemente come era venuta.

- Io non sono nessuno, ma nemmeno tu. Non sei persona gradita in questa casa. Sei un delinquente, non meriti di mettere il naso qui dentro – rispose Bill, tranquillo.

La bocca di Michael si stirò in un ghigno sadico.

- Ah si? E dimmi Bill. Intenderesti cacciarmi? Buttarmi fuori di peso? – sibilò il ragazzo avvicinandosi di un passo.

- Se è necessario, si – disse Bill, facendo anche lui un passo avanti – Tra poco tornerà Alex, non voglio che ti veda qui –

Bill! Quello con la tua cassa toracica ci fa una gabbietta per canarini! Abbassa la cresta! Esclamò Tom, prudentemente.

- Oh, sono commosso da tanta premura – disse Michael portandosi le mani al cuore – Di sicuro avrete familiarizzato parecchio, tu ed Alex, da quando io me ne sono andato, no? – aggiunse, estraendo un pacchetto di sigarette dalla tasca. – Ma vedi, Bill – disse infilandone una tra le labbra – Alex non è quello che sembra. Mi ha sempre sbavato dietro come un cagnolino fedele, e adesso che io non ci sono ha bisogno di qualcun altro per… - Michael accese la sigaretta con un gesto noncurante – soddisfare le sue esigenze – sollevò gli occhi su di lui – Tu sei solo la ruota di scorta –

Bill Kaulitz non era mai stato tipo da menar le mani. Al contrario di Tom, che quando si presentava l’occasione ne approfittava sempre, più per “divertirsi” che per reali motivi, lui si era sempre tenuto lontano dagli scontri fisici. Anche perché, volendo essere del tutto sinceri, lui non aveva le capacità fisiche per confrontarsi con qualcuno in quel genere di materia. Sarebbe stato come menare fendenti con uno stuzzicadenti contro una spada in acciaio temperato. Una follia, in poche parole. Eppure in quell’esatto momento, tutti quei razionalissimi pensieri non attraversarono la mente di Bill, nella quale continuava a risuonare sempre la stessa frase “Tu sei solo la ruota di scorta”. Ma era davvero così? Decise che non gli interessava. L’unica cosa che in quel momento voleva fare era spaccare la faccia a quello stronzo di Michael. Magari fargli saltare via il naso di netto, o almeno un paio di denti.

Senza sapere esattamente come fare, sferrò un gancio contro il ragazzo, con quanta forza aveva nelle gracili braccia. Al contatto con il naso ossuto di Michael sgranò gli occhi. L’aveva colpito! L’aveva colpito davvero! Tirò indietro il braccio prima del dovuto, immobilizzandosi a guardare il ragazzo con il viso voltato da un lato.

Perché tenti continuamente il suicidio? Chiese la voce esasperata di Tom nel suo orecchio. Bill non riuscì a rispondere, perché nel medesimo istante Michael puntò gli occhi su di lui. Prima ancora di poter formulare pensieri come “questo adesso mi ammazza” o “quante preghiere conosco?”, sentì qualcosa di molto duro scontrarsi con la sua appendice nasale con violenza. Il dolore fu talmente forte che gli occhi si annebbiarono di lacrime istantaneamente. Sentì qualcosa di caldo colargli sulle labbra, mentre cercava di far tornare a fuoco la stanza. Ci riuscì appena in tempo per schivare un altro pugno di Michael che aveva come obiettivo lo stomaco. Si scostò goffamente e si lanciò contro il ragazzo, afferrandolo per la vita. Michael tentò di scrollarselo di dosso con vani risultati, dato che gli si era avvinghiato a doppia mandata addosso, nonostante non sapesse esattamente cosa fare e come. Proprio mentre entrambi stavano per cadere rovinosamente a terra la porta d’ingresso si spalancò. Come se fosse stato urlato loro un comando, si immobilizzarono e posarono lo sguardo sulla persona che era immobile sull’uscio.

Alex guardò la scena per un paio di secondi, probabilmente cercando di registrare le informazioni necessarie a farsi un quadro completo di quello che stava succedendo. Poi la sua faccia diventò, se possibile, ancora più bianca del solito.

- Bill! Che diavolo stai facendo? – disse andandogli incontro a passo di carica e staccandolo da Michael. Lo guardò per un attimo sconcertata. In Bill si insinuò il dubbio di doverle delle spiegazioni.

- L’ho trovato che frugava in casa – disse, con voce incerta, impastando la lingua con il sangue che gli era colato in bocca.

Alex si mise fra i due e rivolse gli occhi a Michael, trasformandosi in una statua di granito.

- Cosa cercavi? – chiese, feroce. Michael rimase impassibile, non rispose.

- Vattene, subito – ringhiò Alex quando vide che il ragazzo non aveva intenzione di rispondere. Per tutta risposta Michael sputò per terra e poi uscì dalla casa, sbattendo la porta dietro di se.

Alex si voltò in fretta verso di lui.

- Ti fa male? Riesci a muoverlo? – gli chiese con apprensione, avvicinandosi.

- Come si fa a muovere un naso? – domandò Bill confuso, mentre la ragazza lo trascinava verso il bagno.

Lo fece sedere sul bordo del gabinetto e gli ripulì con un asciugamano bagnato d’acqua fredda la bocca e il viso, stando ben attenta a non urtargli il naso per sbaglio.

- Non credo si sia rotto. Però è probabile che ti rimarrà indolenzito per un po’ – disse Alex, osservandolo.

- Non è un problema – rispose Bill, ingoiando a vuoto un paio di volte. In effetti il suo naso era l’ultima cosa di cui si preoccupava in quel momento.

- Vieni, andiamo di la – disse Alex con un sospiro.

Bill la seguì nella sua camera. Entrambi si lasciarono cadere seduti sul letto, appoggiandosi contro la parete come facevano di solito. Era un’abitudine, ormai. Dopo mangiato lo facevano quasi sempre, ritagliandosi del tempo per chiacchierare o anche solo ascoltare un po’ di musica.

Posò lo sguardo su Alex, sapendo già cosa avrebbe visto. La ragazza stava rigida, lo sguardo perso nel vuoto e l’espressione di chi non è mentalmente presente.

- Alex… posso farti una domanda? – disse infine, dopo aver trovato il coraggio necessario per spezzare quel silenzio pesante.

La ragazza sembrò riscuotersi dalla sua momentanea assenza e lo guardò.

- Certo – disse, abbozzando un sorriso.

- Tu e Michael siete stati insieme? – chiese tutto d’un fiato. Senza sapere perché, sentì un tremito di paura percorrergli la schiena. Paura per quello che Alex avrebbe potuto dire rispondendo alla sua domanda.

La vide studiarlo per un attimo, con un’espressione che mutò rapidamente sotto i suoi occhi. Dapprima parve impaurita anche lei, poi tesa, intenerita e infine triste. Voltò il capo, piano.

- No Bill. Ma suppongo che questa risposta non ti sarà sufficiente. Vuoi sapere se ero innamorata di lui? – disse la ragazza con voce bassa, quasi avesse paura che qualcuno li potesse sentire. Bill sentì le orecchie prendere fuoco e ringraziò mentalmente di avere i capelli lunghi.

- Si – mormorò, incerto e terribilmente imbarazzato.

- Si Bill, ero innamorata di Michael. Ma lui non lo era di me, o se lo era, non me l’ha mai dimostrato – sospirò Alex, facendo sprofondare il suo stomaco da qualche parte in prossimità degli alluci.

“Tu sei solo la ruota di scorta”

La rabbia arrivò inaspettata, suscitata dal ricordo di quelle parole.

- Capisco… - disse il ragazzo, con voce atona – Quindi, spiegami bene Alex, perché adesso comincia a sfuggirmi qualcosa. Ieri hai baciato me semplicemente perché non ti è possibile baciare Michael? – terminò, con una freddezza che non aveva la più pallida idea da dove fosse arrivata. Forse era stata la paura stessa a farlo diventare così freddo, la paura che quel Bill riflesso in una vetrina in realtà non piacesse a nessuno. Non piacesse ad Alex.

La ragazza gli rivolse uno sguardo allarmato e addolorato.

- Come puoi dire una cosa del genere? – gli chiese accorata. Bill incrociò i suoi occhi, cercando di trovarci la verità, come era successo tante altre volte. Ma non riusciva a distinguere nulla in quel momento.

- Non rispondere con un’altra domanda, per favore – disse soltanto, senza lasciar andare quello sguardo. Alex si ritrasse, ferita.

- Perché vuoi mettermi in imbarazzo? – disse, arrossendo. Bill sospirò ed allungò una mano verso i suoi capelli color fuoco, portandole una ciocca ribelle dietro l’orecchio sinistro.

- E’ l’ultima cosa che voglio fare. Ma ho bisogno di sapere Alex. Tu non puoi nemmeno immaginare quanto sia importante per me – disse, una nota malinconica nella voce, che tuttavia rimase ferma.

- No, tu non puoi immaginare quanto sia importante per me – ribatté la ragazza senza guardarlo, ed allontanandosi dalla portata delle sue mani. Bill la vide prendere un respiro profondo e intrecciare le dita in grembo.

- Non sai cosa vuol dire scoprire all’improvviso che c’è qualcuno accanto a te. Qualcuno pronto ad ascoltarti sul serio, non per darti consigli scontati o esprimere giudizi. Qualcuno che ti vuole aiutare per il tuo bene, per vederti star meglio. Una persona che ti accompagna nelle occasioni più stupide, come fare la spesa o andare a prendere i bambini, e in quelle più importanti, come andare a trovare una madre che ormai non ti riconosce più – Alex sembrò trovare improvvisamente il coraggio di guardarlo in faccia – Tu sei arrivato in un momento in cui non ti aspettavo. Sono sempre stata sola Bill, in qualsiasi contesto. Ho dovuto crescere dei bambini, conoscere ed affrontare problemi più grandi di me quando non avevo né l’età né la forza per farlo. Ma mi sono abituata, abituata ad avere sempre tutti sulle spalle, e a sapere che quando io avrei avuto bisogno di aiuto, non ci sarebbe stato nessuno. Tu Bill… mi hai fatto conoscere qualcosa che io non sospettavo nemmeno potesse esistere. Non hai idea di quanto hai fatto per me, soltanto con la tua presenza, con i tuoi atteggiamenti fuori luogo e i tuoi modi di fare così strani – la ragazza sorrise appena – Con i tuoi sorrisi, con le tue espressioni preoccupate o corrucciate. Hai idea di cosa significhi trascorrere ogni momento della tua giornata in compagnia di una persona, dopo aver vissuto tanti anni in solitudine? Sai cosa significa riscoprirti ad apprezzare le cose più stupide e più piccole, abituarsi all’odore e al calore di quella persona, osservarla chiedendosi costantemente se è reale o meno? – Alex tacque per un istante, la voce tremante – Michael non è mai stato niente di tutto questo per me. Scoprire di averlo amato invano è stato doloroso, lo ammetto. Tanto doloroso che credevo di non guarire più. Ma non è stato così… - puntò gli occhi dentro ai suoi, facendolo trasalire appena – Credi ancora che io ti abbia baciato per il motivo che hai detto? –

Bill sentì il peso del senso di colpa scivolargli sullo stomaco come un incudine. Nello stesso istante una strana euforia lo investì, facendogli scoppiettare un’ondata di scintille nello stomaco.

- Io… io… scusami – disse, scuotendo la testa.

Alex gli sorrise improvvisamente, in quel modo disarmante che lo lasciava sempre con una sensazione di vuoto nello stomaco.

- Non credo tu debba scusarti di qualcosa. In verità credo di essere io a doverti ringraziare. E tanto – disse stringendogli la mano.

Bill si ritrovò a pensare che quel contatto gli sembrava quasi fisicamente doloroso. Era davvero, davvero troppo pensare che una persona come Alex potesse realmente vedere tutto quello in lui. Mentre stava ancora cercando, confuso, qualcosa da dire o da fare, la ragazza si sporse verso di lui e lo abbracciò, posandogli il capo sul petto. Gli sembrò tutt’un tratto piccolissima, a tenerla così tra le sue braccia. La strinse a se un po’ di più, affondando il viso nei suoi capelli e cercando di imprimersi bene nella mente quell’odore dolce, con un retrogusto di foglie e vento.

- Grazie – sussurrò Alex contro il cotone consumato della maglietta, respirando esattamente come avrebbe fatto una bambina.

 

L’ora di pranzo arrivò in anticipo, o almeno così parve a Bill.

Al ritorno di Joanne lui ed Alex l’avevano aiutata a cucinare per i bambini, e due ore erano passate come nulla. In men che non si dica si era ritrovato a servire una Charlie particolarmente astiosa, un Kevin su di giri e un Samuel più loquace del solito.

Ormai Bill si era abituato all’atmosfera folle che si respirava a tavola con la “famiglia” di Alex. Ognuno parlava cercando di sovrastare la voce dell’altro, in un mischiarsi di resoconti che facevano venire i capelli bianchi. Come quello di Charlie, che aveva appena terminato di raccontare nei particolari il modo in cui il suo compagno di banco, durante la lezione di arte, aveva provveduto al taglio di diverse dosi di hashish.

- Charlie ti prego, basta! – disse esasperata Alex, cercando di infilare un cucchiaino di pastina nella bocca di un distrattissimo Zachary. Bill sollevò gli occhi su di lei, sorprendendola con un sorriso condiscendente e pacifico dipinto sulle labbra.

Proprio mentre stava cominciando a pensare vagamente che forse era lui la causa di quel sorriso, qualcuno suonò alla porta. Joanne si alzò, rimettendolo a sedere con una manata quando tentò di precederla, ed andò ad aprire, sempre fasciata dal suo grembiule fiorato.

Bill ritornò ad occuparsi di Kevin, che stava tentando di strangolarsi con la bavetta. Solo quando improvvisamente attorno a lui calò il silenzio, sollevò gli occhi. La prima cosa che vide fu lo sguardo furioso ed atterrito insieme di Alex che, più pallida del solito, stava guardando un punto dietro le sue spalle.

Quando si voltò, anche la sua faccia si trasformò in un pezzo di marmo.

Sulla soglia, preso a braccetto con un poliziotto, c’era Michael, il suo sorrisetto strafottente ben disegnato sulle labbra. L’uomo che lo accompagnava era alto e imponente, stretto in una divisa blu con appesa alla cintura una pistola.

- Buongiorno – disse, con tono serio – Posso… ? –

Joanne si fece da parte prontamente, lasciando passare i due.

- Prego, prego – disse senza scomporsi più di tanto. Il poliziotto lasciò che Michael si accasciasse con uno sbuffo sul divanetto, e si fermò di fronte al tavolo, sovrastandoli con la sua mole.

- Vuole sedersi? – disse Alex facendo per alzarsi, con una voce gelida.

- No, resta seduta tu – la fermò Bill, sollevandosi e cedendo il posto al poliziotto, che si accomodò provocando un sinistro scricchiolio nella sedia di legno. Lui fece il giro del tavolo e si posizionò dietro Alex, badando bene a non guardare Michael, esattamente come stava facendo anche la ragazza.

- Mi scusi l’orario – disse l’uomo all’indirizzo di Joanne, che si era seduta di fronte a lui – Non ho potuto tardare ancora, al comando c’è sempre una gran confusione –

La donna agitò una mano.

- Non si preoccupi. Piuttosto mi spieghi meglio i provvedimenti che avete preso, al telefono non ho capito molto – disse, con la sua voce densa.

Alex e Bill si scambiarono un’occhiata dubbiosa. Non erano al corrente di nessuna telefonata, ma era chiaro che Joanne e quel poliziotto si conoscevano già.

- Dunque – disse l’uomo togliendosi il cappello – Dopo l’arresto per spaccio di sostanze stupefacenti, il Signor O'Byrne è stato condannato agli arresti domiciliari, con obbligo di esercitazione di servizio sociale. Il luogo dove vive attualmente non è idoneo, ma a suo dire non ha altra casa oltre a questa, e mi rammarica che voi dobbiate provvedere a questa incombenza… purtroppo lo sconto della pena è obbligatorio – terminò guardando tutti e tre, da Joanne a Bill, passando per Alex.

- Servizio sociale? – chiese la ragazza, confusa.

- Si. Praticamente, ogni giorno uno di noi dovrà occuparsi di accompagnarlo al centro sociale di Jackson Street, e andare a riprenderlo – spiegò in poche parole Joanne. La ragazza ammutolì.

- Per quanto? – chiese Bill.

- Fin quando non avrà scontato la pena – rispose il poliziotto.

- Ritorneremo a vivere tutti insieme appassionatamente in questa casa, a quanto pare – la voce di Michael li raggiunse, strafottente e irritante come mai prima di allora.

 

 

- Stasera non esci? –

Tom sollevò lo sguardo su Georg, che era intento a spalmare della crema al cioccolato su una patatina. Gustav era seduto dall’altro lato del tavolo, e stava guardando disgustato il bassista.

- No – rispose il chitarrista, tornando a studiare con attenzione il bicchiere che aveva tra le mani.

- E perché? Non avevi detto che stavi intrallazzando con una barista? – disse Georg, infilando in bocca il manicaretto.

- Non sto intrallazzando con nessuna. Dammi tregua Georg – sibilò Tom.

- Nervosetto eh? – fece Gustav allungando una mano sulle patatine alla paprika del bassista.

- Ma la volete finire di fare le comari? Fatevi i cazzi vostri – sbottò Tom alzandosi e prendendo il tubo di patatine dalle mani di Gustav – I cazzi – fece voltandosi verso Georg che lo guardò con espressione vacua, la bocca piena di patatine e cioccolato – vostri – terminò fulminando il batterista.

Poi uscì dalla stanza di gran carriera.

- Eh, poveretto. Gli succede sempre così quando è in astinenza – sospirò Gustav guardandolo sparire dietro la porta.

- Già… - fece Georg cogitabondo – Ehi, prendi un po’ l’altro pacco di patatine per favore –

 

Chiuse la porta del bagno dietro di se e si infilò nel vano della doccia, tirando la tendina impermeabile.

Scivolò lungo le mattonelle lentamente, fino a ritrovarsi seduto sulla pedana di ceramica bianca. Infilò in bocca con furia quattro patatine e cominciò a masticare rumorosamente, cercando di togliersi dalla testa tutta quella serie infinita di quesiti e pensieri. Ma per quanto tentasse e ritentasse, per quanto forte decidesse di masticare, non riusciva a coprire quel brusio insistente. Brusio al quale non era per nulla abituato. Già… Non era abituato a chiedersi per quale motivo una ragazza avrebbe dovuto respingerlo, semplicemente perché nessuna ragazza lo aveva mai respinto, e soprattutto nessuna lo aveva mai scaraventato giù dal letto. Ormai aveva capito che Heidi non rientrava nell’ordinario, tuttavia la sua reazione lo aveva lasciato… spiazzato, ma soprattutto incazzato come una iena incazzata. Quella era stata una delle figure peggiori di tutta la sua vita, e non comprendeva ancora le motivazioni che avevano spinto quella folle isterica a trattarlo così. Che non le piacesse? Tom quasi si mise a ridere. No, impossibile. Aveva restituito il bacio con troppa partecipazione perché lui le risultasse indifferente. Ora c’era solo da collegare la partecipazione con il suo sedere che si schiantava per terra. Portò le mani alle tempie. No, non ce la faceva davvero a mettere in relazione quelle due reazioni.  Heidi lo stava mandando definitivamente ai pazzi. Quando era andato da lei l’obiettivo era risolvere un problema, in quel momento invece ne aveva due tra le mani che scottavano più di quanto avesse pensato. Beh per quanto lo riguardava Heidi poteva anche andare a quel paese, lui non si sarebbe più fatto vedere, ormai era deciso. Però se pensava che non avrebbe più condiviso le cene con quella squilibrata una strana sensazione di vuoto si faceva largo in lui, dalle parti dello stomaco. Cosa vuol dire? si chiese allarmato. Lui non era esperto in temi di vuoti, litigi e romanticherie varie, quello che sguazzava in quel mare smielato era Bill. Bill! Fu come vedere una lampadina accendersi davanti alla sua fronte. Avrebbe parlato con suo fratello il giorno dopo, durante la consueta telefonata!

- Sono un genio – sussurrò Tom tra se e se.

 

***

 

Note di Phan: Siii eccomi! Un po' dolorante per via di un intervento in bocca che ho dovuto subire questa settimana, ma presente e frizzante! Rileggendo il capitolo mi sono resa conto che non succede poi molto... però pazienza, è uscito così, lo pubblico così! Spero mi perdonerete questa dimostrazione di negligenza! Prima di passare ai saluti ad personam vi informo che diverse parti di questo capitolo sono state scritte ascoltando una canzone dei Fratelli Calafuria, questa: http://www.youtube.com/watch?v=iYFQd1IchI0  . E' una canzone di una follia galoppante che non vi dico, se l'ascolterete vi renderete pienamente conto di cosa stiamo parlando, indi per cui, non arrabbiatevi troppo con me, prendetevela con i Fratelli ^^''''.

Ringrazio tutti coloro che leggono questa storia! Quelli che l'hanno inserita nei preferiti, e quelli che non mi hanno voluto concedere questa soddisfazione, quelli che la commentano e quelli che non lo fanno (anche se vi ringrazio un po' di meno! Sono umana anche io eh!).

Ah quasi dimenticavo! Lodata sia la mia beta reader.

 

Ora passiamo a salutare le anime adorate che hanno commentato il capitolo precedente ^^.

BabyzQueeny: Grazie tesoro, per l'incoraggiamento e per i complimenti! Ti aspetto in questo capitolo ^^. Bacio.

Dying Atheist: Mia cara tu sei giustificata! Più che giustificata! Raccomandata oserei dire! Grazie della recensione comunque *-*. Un bacio grande, a prestissimo!

avuzza: Cosa vedono le mie fosche pupille! Hai commentato! Sono contentissima! Ahah riguardo a "la coppia più puccia del mondo" mi trovo decisamente d'accordo. Un salutone!

missmar23: Insomma li vuoi sistemare tutti quanti! Mi dispiace deluderti ma non vedo matrimoni all'orizzonte per il momento! Soprattutto Heidi non guarda con occhio favorevole l'idea... Insomma, sarebbe costretta a togliersi gli anfibi! Ecco il continuo che hai aspettato con ansia, spero ne sia valsa la pena *_^. Un bacio.

Vitto_LF: Ma silenzio! Voi vedete il risultato finale. Se io non avessi una beta reader dovreste tradurre con babelfish dal turkmeno all'inglese e poi dall'inglese all'italiano! Bene, tu e Alex non vi digerite nello stesso modo in cui io non riesco a farmi andare giù Hay! Che tristezza. Ma non so se hai compreso a quale odore di fragola io mi riferisco. Non quello del profumo, ma quello del frutto all'esterno, che è totalmente diverso dalle essenze confezionate! Se non hai idea di come sia ti consiglio di comprare una fragola singola  e di sniffartela ben bene... sempre che tu non voglia evitare di comprartela e sniffartela al supermercato o dal fruttivendolo, ma se ti porteranno di peso nell'istituto di igiene mentale più vicino, io me ne laverò le mani, sappilo. Passando ad argomenti di più ampio respiro, anche io preferisco Bill struccato. Ma lui non sembra essere d'accordo! Eheh, dovrai aspettare un po' per scoprire le motivazioni di Heidi mi sa'. Un bacio mia cara.

L_Fy: Mi caraaa! Beh io non sono mai contenta dei miei capitoli, che ci vuoi fare. Le tue recensioni mi fanno ridere in modo pietoso... sai quando si diventa paonazzi? Ecco, così. E non sono uno spettacolo molto gradevole. Mi sono divertita un sacco a scrivere la conversazione tra Bill ed Heidi, devo ammetterlo. Ecco la tua dose! Devotamente Phan (Heidi ti saluta).

bluebutterfly: Poetica addirittura... di questo passo mi farai arrossire q_q. Ahahah pensa che quelle due frasi mi sono venute in mente in momenti qualunque della mia giornata. Se non sbaglio la prima mentre lavavo i piatti, la seconda non ricordo. Io? La mia personalità non è solo doppia temo, ma tripla, quadrupla, quintupla... ed ora mi fermo perché non so come si dice la prossima moltiplicazione... sestupla forse?. Un bacio grande.

Freiheit: Cosa vedo, cosa vedo! Una nuova lettrice! Oh sono contentissima, ho gli occhietti che brillano! Hai anche inserito la storia nei preferiti, e ti ringrazio ^^. Non so per quale motivo, ma quando vado a scrivere di Gustav e Georg in casa Kaulitz mi vengono in mente solo scene ad alto livello demenziale, in pieno stile commedia americana (che io odio, ma vabé). Ci deve essere qualche ragione che non comprendo, ma non riesco a scrivere su loro due in altro modo, non in questa fan fiction almeno. Beh Heidi è una finta "cazzuta", hai presente i timidi aggressivi? Ti ringrazio immensamente per la recensione e per i complimenti. Sono veramente felice che la mia storia ti piaccia. Comunque vedo che qui siete tutte molto dedite alle dipendenze... devo preoccuparmi? XD. Lascia perdere questa battuta veramente triste, a presto (spero)!

EtErNaL_DrEaMEr: Ahah mi piace essere considerata blablabla, lo ammetto! E' il complimento più bello che potessi farmi, e non sto scherzando! Mi sto sforzando di non far cadere la relazione tra Bill ed Alex in un concentrato di melassa colante, perché non lo sopporterei. E' difficile, e quando non ci riuscirò più ti autorizzo ad avvisarmi! Ahah, sisi, spargimenti di sangue, hai detto bene. Beh, dai, Tom è Tom, e quando parliamo di Tom questo genere di cose succedono sempre. Ahahah la Marvel! Ti amo! Comunque ammetto che non so da dove mi escano certe cose... succede! Un bacio tesoro, alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Scambio d'opinioni ***


- Sei un deficiente –

Bill era consapevole di aver appena fatto un’osservazione scontata, ma l’impulso era stato troppo forte.

- Tom, sono passati cinque giorni. E’ troppo perfino per i tuoi standard – disse massaggiandosi le tempie con le dita e socchiudendo gli occhi. Quegli ultimi giorni sarebbero stati sufficientemente pesanti anche senza i problemi di cuore di Tom. Problemi di cuore. Gli veniva da ridere anche in quel momento, ritrovandosi ad associare l’espressione “problemi di cuore” al nome “Tom”, anzi, all’essenza “Tom”. Tuttavia non gli venivano in mente altri termini da usare. Perché era di quello che si trattava. Problemi di cuore.

Erano ben cinque giorni che il suo gemello lo tartassava con una serie di domande senza senso apparente, riguardanti Heidi e la sua reazione a quello che doveva essere stato un bacio e che suo fratello si era limitato a definire “scambio di opinioni”. Bill era rimasto semplicemente terrificato, per le ore seguenti a quella sconcertante confessione. Tom non si faceva problema alcuno a descrivere nei particolari i suoi soliti “scambi di opinioni” con bionde, rosse e nere, ma in quel caso lui stesso, esperto di questioni romantiche ed eletto ufficiosamente ad esperto di relazioni sentimentali nel gruppo, aveva faticato non poco per comprendere in realtà di cosa il fratello stesse parlando. Un bacio. Tom aveva baciato Heidi. E Heidi l’aveva mandato affatto metaforicamente con il culo per terra. La cosa l’aveva fatto gongolare per un bel po’ di tempo, poi si era deciso a prendere in mano la situazione. Aveva proposto una soluzione a Tom, ma a quanto pareva il cerebroleso non sembrava molto propenso a metterla in atto, dato il lasso di tempo che era passato da quando gli aveva detto “Chiama Heidi, chiedile scusa, dalle un appuntamento per sdebitarti” a quella mattina.

- Senti, genio, metti il caso che lei dica di no? Insomma, Heidi non va’ tanto per il sottile. Se mi chiude in faccia? Non ci penso proprio a fare la figura del coglione – farfugliò velocemente Tom all’altro capo del telefono.

- Sarebbe solo l’ennesima, non credo che una in più cambierebbe il bilancio – sospirò Bill guardando laconico lo schermo davanti a se. Era stanco. Stanco perché erano cinque giorni che non dormiva, esattamente come erano cinque i giorni che Tom lo assillava, ed esattamente come erano cinque i giorni passati da quando Michael era tornato.

- Non mi stai aiutando – ringhiò Tom.

- Tom, tu non vuoi essere aiutato. Tu vuoi l’intervento di una qualche autorità divina, e, per quanto io possa apparirne come l’incarnazione, ti assicuro che non lo sono. Perciò, o muovi le chiappe e fai quello che ti ho detto, oppure saluta Heidi anche da parte mia. E’ tutto abbastanza chiaro? – sibilò nel microfono delle cuffie.

Il suo gemello tacque, apparentemente cosciente del fatto che Bill aveva ragione, ma sicuramente restio dal dirlo ad alta voce.

- Come stai? – chiese infatti Tom, piuttosto che lasciarsi sfuggire qualche affermazione che lo gratificasse. Bill sorrise con cipiglio divertito e sbuffò.

- Non va bene. Durante le poche ore della notte che passo a casa dopo il lavoro non chiudo occhio, ho il terrore che Michael possa tentare di ammazzarmi nel sonno, per quanto possa sembrarti assurdo – iniziò con il dire.

- Dalla descrizione che me ne hai fatto posso giustificare questa tua paura – lo interruppe Tom con tono partecipe, segno che evidentemente voleva addentrarsi ben bene in quella nuova conversazione piuttosto che continuare a parlare di Heidi. Ovviamente Bill lo accontentò, non si sentiva troppo crudele quella mattina.

- All’insonnia, aggiungiamo il fatto che per evitare ad Alex di accompagnarlo ogni santo pomeriggio al centro sociale, faccio i doppi turni. Questo vuol dire che sono costretto a passeggiare per una buona mezz’ora mano nella mano con Michael… - continuò.

- Che visione raccapricciante – disse schifato Tom.

- Inoltre, il fatto che Michael sia sempre tra i piedi non concede a me e ad Alex di parlare decentemente. Cosa che prima o poi dovrò fare, se non voglio che Saki mi piombi tra capo e collo, come sento che succederà. Poi lei è sempre nervosa per via di quel narcotrafficante irlandese dei poveri, e posso anche capirla – rifletté ad alta voce Bill. Si fermò quando sentì il fratello ridere.

- Sei veramente assurdo Bill. Cioè, hai a disposizione una ragazza come Alex, che io non ho visto ma è sicuramente una gnocca da come me l’hai descritta, e ti rammarichi di non aver sufficiente tempo per “parlare” – disse Tom.

- Chiamala un’altra volta gnocca e quando torno ti faccio arrivare le mutande a livello circonferenza cranica – grugnì.

- Cioè io al tuo posto invece di passare le notti insonni per paura che Michael mi uccida con una pugnalata nel petto, mi fionderei nudo come un verme nella camera di Alex e via con le danze – continuò Tom ignorandolo del tutto.

- Vedi Tom, la differenza tra me e te è che la mia materia grigia è collocata al posto giusto, mentre a te è scivolata un po’ troppo in basso. Devono averti shakerato parecchio durante il parto – disse Bill con tono superiore.

- Ma va’, stai li a farmi la suoretta, quando magari sei anche peggio di me. Non credere che non ti abbia capito, fratellino – lo stuzzicò Tom.

Bill assottigliò gli occhi e decise di cominciare a giocare sporco.

- A quanto pare la personalità bipolare è prerogativa di entrambi. Mi duole ricordarti che per dire di aver infilato la lingua in bocca ad Heidi, senza il suo consenso peraltro, ci hai messo mezz’ora buona, e ne hai ricavato solo una triste definizione – ribatté affondando deliberatamente il coltello nella piaga e cospargendo la ferita di sale.

- Sei uno stronzo – disse Tom con voce piatta dopo un cinquanta secondi di silenzio.

- Si, anche tu. Ti dispiace se vado, ora che abbiamo finito di esprimere il nostro reciproco affetto? Devo comprare qualcosa per pranzo – disse Bill, pacifico.

- Oh, anche casalinga – disse Tom con voce accorata.

- Preferivo suoretta – sorrise Bill.

- Ok, prendo un appunto. A domani – ghignò il gemello.

- A domani –

- Ah, suoretta, mi dispiace dirtelo, ma il tuo mese di vacanza è quasi finito – sospirò Tom, come se dirglielo gli pesasse. E non era per via del fatto che quando entrambi si trovavano nella stessa casa le liti erano costanti – Ciao – terminò poi, quasi pentito.

La comunicazione si interruppe e Bill si lasciò andare contro lo schienale della sedia, massaggiandosi su e giù il setto nasale, le cuffie ancora premute contro le orecchie.

 

- Bill? –

La voce di Alex lo raggiunse come un balsamo benefico. Aprì gli occhi e si voltò verso la ragazza, seduta accanto a lui sul divanetto della cucina. Non l’aveva nemmeno sentita arrivare, tanto aveva i sensi offuscati dalla stanchezza.

Alex aveva delle occhiaie identiche a quelle che aveva ammirato addosso al proprio riflesso, nello specchio del bagno, appena un’ora prima. Probabilmente non era l’unico a non dormire la notte. Notò inoltre che la ragazza sembrava più pallida e tesa. La presenza di Michael era nociva in qualsiasi senso possibile.

- Ehi – disse con voce gentile, sporgendosi verso di lei. Alex sorrise, spontaneamente.

- Come stai? – chiese, portandosi i capelli dietro le orecchie. Lui fece una smorfia buffa, che probabilmente rispose al posto suo.

- Sono un po’ stanco. Tu? – disse tuttavia, a voce bassa.

- Anche, parecchio – ammise lei appoggiando il capo allo schienale morbido e fiorato del divano.

Bill restò per qualche minuto ad osservarla, ripensando a quello che Tom gli aveva detto prima di riattaccare. Finito. Fine. Il mese di vacanza era quasi… finito. Non riusciva a crederci. Aveva rimandato quel pensiero per tanto tempo da farlo diventare quasi irreale.

- Senti, magari oggi chiedo a Javier una giornata libera, eh? – disse Alex ponendo fine a quel silenzio. Alzò il capo e lo guardò negli occhi, con un’espressione talmente tenera e abbattuta che Bill sentì l’improvviso moto di abbracciarla.

Proprio in quell’istante Charlie fece irruzione nella cucina, un sorriso abbagliante stampato sul viso. Bill non aveva potuto fare a meno di notare che la comparsa di quell’aria giuliva era coincisa con il ritorno di Michael. La ragazzina non li degnò di un’occhiata. Si diresse verso uno dei cassetti della cucina, lo aprì e ne estrasse due forbici dalla punta affilata, per poi voltare loro le spalle, naso ovviamente per aria, e scomparire nel corridoio con aria da diva.

Alex tentò di ignorare l’interruzione e riprese a parlare.

- Così magari più tardi, non lo so, usciamo, parliamo un po’. Qui dentro il clima si è fatto troppo pesante – disse.

Bill gli sorrise sinceramente e sospirò sollevato.

- Si, è un’idea ottima. Più che ottima. Perfetta – disse avvicinandosi alla ragazza. Lei lo imitò, un’aria vagamente smarrita che le fece imbronciare le labbra.

Con un gesto lento, Bill fece scivolare una mano dietro la sua nuca e la baciò dolcemente. Alex rispose al bacio, posandogli una mano sul collo.

In quell’esatto istante Bill cominciò a sentire nostalgia di qualcosa. Non sapeva esattamente di cosa. Fu come se qualcuno dentro di lui avvertisse il pericolo di stare per perdere quel singolo attimo di pace e serenità, condiviso con una persona a cui voleva bene, anzi, più che bene. Un altro genere di bene, per essere più chiari.

- Ehm, ehm – qualcuno si schiarì la voce alle spalle di Bill, ed entrambi saltarono a sedere sui lati opposti del divano, separandosi.

Bill si voltò, indeciso tra l’uccidere colui che li aveva interrotti o vergognarsi come un ladro.

Quando riconobbe la persona appoggiata allo stipite della porta della cucina, il desiderio prevalente fu compiere un omicidio e finirla li una volta per tutte.

Michael li osservava, e se a disturbare Bill c’era quella perenne aria strafottente che lo riempiva della voglia di prenderlo a scarpate, a far esultare il suo orgoglio era la sorpresa, e forse la delusione, che si intravedeva perfettamente dietro quella maschera di indifferenza.

- Vedo che non perdi tempo, Alex – sibilò Michael, senza lasciarsi sfuggire l’occasione di rendersi, se possibile, ancora più detestabile di quanto già fosse.  

Bill si alzò in piedi, determinato a non far andare oltre quella conversazione. Si, avrebbe volentieri pestato a sangue Michael, ma era consapevole di aver ampiamente dimostrato di non averne le capacità, e, in ogni caso, azzardarsi a mettere in piedi una rissa con tutti i crismi nelle condizioni in cui si trovava, sarebbe stato un inno al suicidio.

- Andiamo, Michael – disse lapidario indossando il giubbotto, senza accogliere la sua provocazione. L’ultima cosa che aveva voglia di fare era farsi una passeggiatina con quella vipera velenosa, ma sarebbe stato disposto a tutto pur di allontanarlo da Alex.

Il ragazzo, un sorrisino odioso dipinto sulle labbra, lo raggiunse, lanciando occhiate di scherno ad entrambi. Bill aprì la porta e gli cedette il passo, lasciando che uscisse sul pianerottolo prima di lui, poi si voltò verso Alex e le sorrise. Un sorriso brillante e sereno, che sembrò riflettersi sul viso di lei.

- Ci vediamo tra poco – le disse. Lei annuì e trasse un lungo respiro.

- A tra poco – mormorò, prima che la porta si chiudesse.

 

Il destino a tratti si rivela crudele.

 

- Ho detto di no – disse Bill esasperato.

Michael lanciò in strada il secondo mozzicone di sigaretta ed affondò le mani nelle tasche.

- Sei veramente insopportabile. Ti ho anche detto di venire con me, cosa può esserci di male? – disse con tono nervoso.

- Di male può esserci che sei infido come serpe, e dove ci sei tu ci sono i guai. Non ti accompagno da nessuna parte. Il mio compito si limita a lasciarti al centro sociale e ritornare a riprenderti al giusto orario. Fine delle responsabilità da tutore – ribatté gelidamente accelerando il passo.

- Ma siamo anche in anticipo! Perché non ti rilassi un po’ cazzo?! – esclamò Michael piantandosi in mezzo al marciapiede. Bill fu costretto ad inchiodare e fermarsi davanti a lui.

- Michael, so che per te può essere inconcepibile, ma le persone hanno dei limiti. Lasciami in pace, sono stanco – disse cercando di mantenere il controllo sulla parte di se che voleva afferrare la prima borsetta di qualsiasi passante e ficcarla in gola al suo simpatico amico.

- Ti lascerò in pace. Devi solo accompagnarmi in un pub poco distante da qui, mancano appena un paio di traverse. E io ti lascerò in pace – disse il ragazzo alzando i palmi in segno di resa. Per un attimo gli parve addirittura sincero.

- Non ci casco, Michael – disse Bill scuotendo la testa.

- Dico sul serio. Lascerò in pace anche Alex – aggiunse lui.

Che razza di porco infido… Ti ricatta! Hai capito questo abnorme pezzo di…

Bill interruppe il furibondo flusso di coscienza di Tom e strinse i pugni nelle tasche. Non aveva idea di cosa voleva dire odiare una persona, ma era più che sicuro che quello che stava provando nei confronti di Michael in quel momento, ci si avvicinava parecchio.

- Andiamo – sibilò, sferzante. Il ragazzo sorrise vittorioso e riprese a camminare, guidandolo.

- Vedrai, ci sbrigheremo subito. Devo solo salutare un amico – continuò a ripetere durante il tragitto.

Quando svoltarono in un vicolo Bill non poté fare a meno di guardarsi intorno sospettoso, aspettandosi da un momento all’altro di scoprire quale fregatura Michael stesse tentando di rifilargli.

Proseguirono per un bel tratto, fin quando non giunsero in prossimità dell’entrata di quello che sembrava a tutti gli effetti un night club. Di fronte all’insegna rosso fuoco, dalle lampadine rosse accese anche alle tre di quel primo pomeriggio, tentennò.

- Sarebbe questo, il “pub” – chiese scettico osservando il manifesto illustrante una bionda ossigenata tutta tette avvinghiata ad un palo da lap dance, vestita solo di una coppia di adorabili stelline abbottonate sui capezzoli.

- Si, dai forza – disse Michael posando una mano sul maniglione in acciaio e spingendo. Bill lo seguì riluttante dentro al fumoso locale.

Le luci erano soffuse, tutte rigorosamente rosse, e la quantità di avventori del locale più che sospetta, dato l’orario. Quasi tutti fumavano, cosa che spiegava come mai sulla sua testa fosse sospesa una coltre di fumo grigio talmente densa da poterla tagliare con il coltello.

Se non altro il fatto che Michael l’avesse portato con se poteva significare che non avesse nulla da nascondere.

Oppure vuole farti accoppare da qualche sicario e scaricarti a pezzettini in un pozzo suggerì la voce di Tom, saccente. Lui tentò di ignorare l’accenno di panico che gli comparve nello stomaco e si attaccò ai calcagni del ragazzo, pronto a scattare ad ogni movimento anomalo che avesse intravisto.

Arrivato al bancone dedicato allo smistamento di alcolici, che era accostato ad una lunga pedana che si perdeva nella nebbia al centro del locale, Michael si fermò, e Bill gli rimase accanto. Ci mise diversi secondi a distinguere il barman in tutto quel confondersi di luci rosse ed esalazioni di nicotina.

- Ciao Joe! – esclamò Michael, con un tono entusiasta che gli fece accapponare la pelle. Niente che poteva rendere entusiasta Michael si sarebbe potuto rivelare positivo per lui.

- Ma guarda chi si vede! Pensavo che avessero buttato la chiave – fece l’uomo dietro il bancone, con una voce arrochita e sputacchiante. Aveva il capo rasato e un brutto naso storto.

- Che uomo di poca fede che sei. Come sono andate le cose durante la mia assenza? – chiese il ragazzo, battendo felicemente le mani sul ripiano di metallo.

- Male, abbiamo dovuto assumere due che non sapevano nemmeno da che parte si cominciava. Due consegne sono andate a vuoto, alla fine Julius li ha sbattuti fuori a calci nel culo – disse il barman, afferrando un bicchiere da un punto non ben precisato ed iniziando a lucidarlo con solerzia.

- Lo dicevo io, che non chiedevo troppo. Aspetterò di uscire da questo casino, e poi vedrò cosa posso combinare – disse Michael avvicinandosi all’uomo. L’altro sorrise, rivelando l’assenza di due denti, nella giallognola arcata superiore.

- Non sarà mica facile convincere Julius. Lo sai che lui preferisce quelli puliti – gli ricordò con tono quasi gongolante.

- Come sarebbe a dire… - iniziò Michael confuso. Ma non riuscì mai a terminare la frase.

In quell’esatto istante, il silenzio fumoso del locale fu lacerato dal suono di decine di urla concitate. In pochi attimi, tutto piombò nel caos.

Bill sentì, avvertì e vide troppe cose nello stesso lunghissimo secondo. Michael che tentava di portarlo via afferrandolo per il giubbotto. Gli avventori del locale che saltavano tutti in piedi come molle e correvano verso il retro. Il barman che cercava spasmodicamente qualcosa tra le bottiglie di vetro. Un gruppo di uomini che si lanciava all’inseguimento di coloro che tentavano di fuggire, pistole alla mano. Grida, ordini, minacce, rumore di corpi che cozzavano e lottavano. Qualcuno che continuava a strattonarlo da una parte all’altra in cerca di una via d’uscita.

Poi, all’improvviso, il contatto gelido della sua guancia contro la superficie graffiata del bancone. Puzza di sudore e la sensazione di avere qualcosa di duro e terribilmente pericoloso puntato in mezzo alle scapole.

- Metta le mani ai lati della testa, bene aperte e gambe larghe. Lei ha il diritto di rimanere in silenzio, tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei in tribunale –

 

 

Tom non aveva seguito il consiglio di Bill. Aveva fatto di meglio. Almeno secondo la sua modesta opinione.

Aveva aspettato che arrivasse la sera, girando attorno al tavolo con espressione cogitabonda, e poi aveva ripescato dal fondo di un mobile una bottiglia di quella che doveva essere vodka, o qualcosa di simile. Dopo averla quasi completamente svuotata si era sentito decisamente più propenso a chiamare Heidi e mettere in pratica le parole del fratello. Poi nella sua mente si era fatta largo un’idea diversa. Perché non andare direttamente a trovarla? Dopotutto a lui non erano mai piaciute le conversazioni per telefono.

Armato di coraggio e più che vagamente alticcio, aveva raggiunto il pub dove lavorava la ragazza, prendendo un paio di curve troppo strette e urtando un bidone della spazzatura.

Una volta parcheggiata l’auto a pochi metri dall’entrata del locale, era smontato giù ridendo come un idiota per il movimento oscillante del pupazzetto appeso allo specchietto e aveva richiuso la portiera con violenza non necessaria.

Avvicinatosi all’entrata però, aveva visto qualcosa che non gli era piaciuto per niente.

Fuori c’era Heidi, appoggiata al vetro della porta, e davanti a lei un ragazzo. Alto, biondo, ben vestito.

E a quel punto, se non fosse stato definitivamente ubriaco, probabilmente avrebbe fatto dietrofront e sarebbe tornato a casa con la coda tra le gambe. Ma… Tom era definitivamente ubriaco.

 

Cercò di muoversi in linea retta sul marciapiede, cosa che gli risultò piuttosto difficile, con sua somma sorpresa.

Arrivato in prossimità della coppia, si schiarì la voce.

Entrambi si voltarono verso di lui, il ragazzo con un’espressione interrogativa e vagamente infastidita, Heidi con la faccia di chi ha appena assistito alla rivelazione di Fatima.

- Si? –

- Che ci fai qui? –

Le due domande arrivarono nello stesso momento, creando non poca confusione nella sua mente.

- Ehi, ehi, ragazzi non tutti insieme, per favore – biascicò, appoggiandosi con una mano alla porta.

- Lo conosci? – chiese con voce irata il tizio biondo ad Heidi. Lei lo ignorò elegantemente, gli occhi sgranati ancora puntati su Tom.

- Che ci fai qui? – domandò nuovamente, come se le si fosse inceppato il disco.

Tom si decise a guardarla in viso e notò che Heidi era davvero carina, nonostante gli sembrasse che il profilo delle sue guance tremasse un po’.

- Devo parlarti – disse alzando le spalle, come se la risposta fosse ovvia.

- Chi sarebbe questo, un tuo amichetto? – fece il ragazzo indicandolo con un dito – Ti sei già trovata un altro, eh? – continuò alzando la voce.

- Non iniziare Aaron – lo ammonì Heidi fulminandolo con gli occhi.

- Cosa non iniziare? – disse lui diventando rosso in volto – Mi hai lasciato nemmeno un mese fa e adesso trovo questo qui che viene a farti gli occhi dolci alle undici di sera? –

- Non mi sta facendo gli occhi dolci, vuole solo parlarmi per l’amor di Dio! – esclamò Heidi, alzando anche lei il volume.

- Sei una stronza! Ed è uno stronzo anche questo deficiente! Vai a fare in culo – urlò il biondo, sferrando un pugno contro il plexiglas accanto all’orecchio della ragazza.

- Tu… sei matto – disse Heidi, mento all’insù come il suo solito ma voce tremante udibile anche dalle sue percezioni alterate.

- E tu sei una troia – ringhiò il ragazzo, sputando ai piedi di Heidi, che rimase immobile.

Il tipo fece per allontanarsi, quando Tom gli posò una mano sulla spalla. Non aveva capito praticamente niente della discussione a cui aveva assistito, ma la parola “troia” gli era più che chiara, significati compresi.

Il ragazzo lo fulminò con gli occhi, il volto ancora rubizzo.

- Tom… - la voce di Heidi esitò appena, osservando terrorizzata la sua mano posata sulla spalla del tale di nome Aaron.

- Aaron è un nome da checca – rifletté Tom ad alta voce, in preda al delirio etilico.

Fu sufficiente quella frase per far infuriare come un toro nell’arena il caro Aaron, che gli diede una forte spinta e lo fece barcollare all’indietro.

Senza sapere come Tom riuscì a rimanere in piedi, e riacquistò un po’ di lucidità causata dalla rabbia. Si, perché all’improvviso si sentiva furioso. Furioso per essere stato rifiutato da Heidi, furioso perché quel tizio insignificante e rozzo era il suo fidanzato, furioso perché era da solo.

Restituì la spinta e fece sbilanciare indietro Aaron, lanciandoglisi contro senza pensieri specifici. Lui non era mai stato uno che pianificava le risse, semplicemente entrava nella ressa e si muoveva ad istinto. Il solo scopo era fare male a sufficienza da dissuadere altre eventuali reazioni.

Afferrò il ragazzo per il bavero del giubbotto e gli diede un pugno sullo zigomo, incurante dell’urlo che Heidi fece. Il tipo cercò di divincolarsi dandogli una ginocchiata all'addome, che Tom, probabilmente a causa della grossa quantità di vodka o simili che aveva in corpo, non avvertì più di tanto. Rispose con un altro pugno sullo stesso zigomo, e sotto le sue nocche la pelle bianchiccia del ragazzo cedette, sporcandolo di sangue. Quando gli fu chiaro che Aaron era abbastanza intontito da non poter reagire, lo spinse a terra e infierì con un calcio allo stomaco. Avrebbe anche continuato, se due braccia per niente forzute non gli avessero circondato la vita, tentando di tirarlo indietro.

Quello che Tom sentì fu solo solletico, e si guardò curioso alle spalle, riconoscendo la fronte di Heidi premuta sulla sua schiena.

- Basta! Basta! – urlava contro la sua maglietta, puntando i piedi per terra per fermarlo.

Tom si immobilizzò, rendendosi improvvisamente conto di aver il fiato corto. Aaron rotolò lontano da lui, e si rialzò a fatica, diverse smorfie di dolore ad increspargli il viso.

Lo vide lanciargli un ultima occhiata di puro odio e poi allontanarsi, piegato in avanti, mano sullo stomaco e andatura incerta. Quasi gli dispiacque.

Heidi continuava a stringergli la vita, come se temesse che lo avrebbe inseguito. Tom le sganciò le mani senza troppa difficoltà e si voltò verso di lei, il sudore gli imperlava la fronte che bruciava al contatto con l’aria fredda. La ragazza sollevò su di lui gli occhioni nocciola e lo guardò con l’espressione di un cucciolo braccato.

- Era il tuo ragazzo? – chiese Tom, vagamente minaccioso. Heidi indietreggiò di un passo, andando a sbattere contro la porta dell’ingresso al locale ed annuì appena.

Lui sospirò, avvertendo la testa girare un paio di volte su se stessa piuttosto vorticosamente.

- Senti, io devo parlarti – disse poi, appoggiandosi con la schiena accanto ad Heidi.

- Se volevi parlarmi non occorreva che tornassi qui ubriaco e massacrassi di botte il mio ex – mugolò lei, con tono quasi colpevole.

Tom annuì a fatica.

- Già… sai è che pensavo ad una comparsa ad effetto… Non mi è venuto niente di meglio in mente per dirti quello che dovevo dirti – ribatté voltandosi verso di lei.

Heidi lo guardava per nulla impressionata, come se per lei fosse questione di routine assistere ad una rissa. Piuttosto sembrava spaventata da lui, esattamente come la sera dello “scambio di opinioni”.

- Cioè? – disse con voce gelida.

- Cioè scusa, perché ti ho praticamente aggredita l’altra sera. Scusa per tutte le cene scroccate, per gli insulti e tutte le cazzate che ti ho detto. Scusa, perché io non sono come le persone normali, e le cose importanti non so dirle senza fare qualcosa di nocivo o altamente maleducato – rispose Tom, inciampando nelle parole.

- E cos’è che avresti voluto dirmi, esattamente, con tutto questo menar le mani, rompere le palle e attentare alla mia virtù? – lo stuzzicò Heidi, un sorriso perfido che le increspò le labbra.

Tom si staccò dalla superficie di plexiglas e, con uno sforzo titanico, si mise dritto di fronte a lei.

La osservò per un attimo, vedendola vacillare sotto il suo sguardo e tentare di sfuggirgli.

- Che mi piaci, Schnautz – mormorò. E fu certo che senza l’ausilio di una bella bottiglia di vodka non sarebbe mai riuscito ad ammetterlo. Aveva i suoi limiti, Tom Kaulitz.

Gli occhi di Heidi si fermarono finalmente nei suoi, spalancati e incerti. Boccheggiò un paio di volte, facendo dissolvere il suo residuo autocontrollo.

Si sporse in avanti e l’afferrò per le spalle, baciandola. Ce la mise tutta per non far sfociare quel bacio in qualcosa di decisamente inopportuno e perseguibile per legge, se esercitato in luogo pubblico, ma non fu facile, soprattutto quando si rese conto che Heidi gli aveva fatto scivolare le braccia dietro il collo e si era abbandonata contro di lui. Quando gli fu chiaro che la situazione stava per degenerare, anche se probabilmente volendo essere pignoli era degenerata già da un pezzo, si staccò a fatica, imponendosi di non guardare in faccia la ragazza per evitare ricadute poco consigliabili.

- Aspetta aspetta aspetta – biascicò riprendendo fiato – Meglio che mi fermi qui –

- Si, meglio – rispose Heidi, allontanandosi da lui.

Tom si accasciò nuovamente contro il plexiglas e trasse un profondo respiro, cercando di riacquistare la capacità di intendere e volere.

- Devo tornare a casa – disse, sopraffatto dal buonsenso.

- Credo sia un’idea saggia – ribatté Heidi con tono ridente. Tom sorrise spensieratamente e la guardò.

- Prima, però… me lo lasci il tuo numero? -       

 

 

***

 

Note di Phan: ... Buahahahahahah. Sono crudele, vero? Si, si sono crudele, e ne sono più che consapevole. Ora vi chiederete, ma questa qui dove vuole andare a parare? Eheheh, lo scoprirete presto, non temete, perché (mi duole dirlo) ma la storia è agli sgoccioli mie adorate e stupenderrime donzelle. Sostanziosetta, eh? Forse un po' troppo, ma volevo far succedere talmente tante cose che stringere i contenuti sarebbe stata un'impresa impossibile. Spero di non avervi mai annoiate, durante la lettura, nonostante il "menarla in lungo". Questo capitolo è piuttosto "ciccioso", ed entra di diritto a far parte dei capitoli più lunghi di questa fan fiction. Chissà se vi piacerà... fatemi sapere, mi raccomando donzelle! Soprattutto ora che il termine si avvicina precipitosamente, fate il piccolo sforzo di farmi sentire la vostra vocina, aiutandomi a scrivere un finale degno di tale nome!

Un bacione a tutte.

P.S. Ed ora, in coro, un bell'applauso alla mia beta reader!

 

Saluti speciali:

BabyzQueeny: Oh! La prima della lista, con i tuoi spumeggianti punti di domanda! Grazie per la recensione mia cara! Un bacio.

Dying Atheist: Mia adorata! Si, so bene che non ti piacciono i Tokio Hotel e, proprio per questo motivo, il fatto che tu mi legga mi fa brillare gli occhietti. Grazie e grazie! A presto.

EtErNaL_DrEaMEr: Spero di aver recuperato sul "non succede un granché" con questo capitolo. Il piccolo "respiro" del capitolo precedente era studiato ^^. Ahahah "Michael lo prenderei a carciofate in testa! Lui e il suo fogliame degno del Califfo"! Ti amo. Immagine azzeccatissima, quella riguardante Tom. Un bacio grande.

GodFather: Ostrichetta destinataria delle mie lettere color yogurt ai mirtilli, che piacere leggere la tua recensione! Che domande insulse che fai, "perdonarti"? Ma fammi il santissimo piacere! Ahahah "gioiuzza". Pensa che Michael è ispirato a diversi personaggi "reali" che purtroppo ho avuto la sfortuna di incontrare lungo il cammino della mia vita da studente. Si, dopo 19 capitoli, deve pur succedere effettivamente. Ho sforato di uno, nel prossimo ne vedremo delle belle. In quanto ad idee malsane credo di esser messa bene anche io, perciò non farti troppi problemi ad illustrarle, la prossima volta. Un bacione mia cara.

missmar23: Grazie mia cara per la recensione, e ti ringrazio per gli auguri di guarigione (sto decisamente meglio ora)! Un bacionissimo mia fedele fan (*-*).

avuzza: Si! Di nuovo tu! Non ci posso credere! Che bello che bello che bello che tu adori questa fan fiction! Sono contenta ^^. Ahhhh! Un bacio cara (chissà, magari ci rivedremo in questo capitolo XD).

Lales: Tu! Tu! Grazie a te per la recensione, seriamente. Si, mi rendo conto che Alex è un personaggio fin troppo positivo e mi dispiace averla resa per così dire "senza macchia", ma non ho potuto farne a meno. Grazie *_*. Un bacio.

L_Fy: Mia musa! Eccoti! Ti odio perchè metti in subbuglio le mie capacità digestive ogni volta che mi ritrovo a leggere una delle tue recensioni. Grazie mia cara. Alla prossima.

valux91: Ma figurati! Studia, studia! Fai ciò che io non... coff coff, bene, sorvoliamo su questa parte del discorso. Si, difficile, decisamente. Perchè Tom è Tom. Ho esaudito il tuo desiderio, Michael ricambia l'interessamento con una frase che non posso riportare qui. Mi dispiace, è un tale deficiente! Sarà l'effetto del "simpatico fogliame". Grazie per la recensione cara. Un bacio.

bluebutterfly: Avevo deciso di non risponderti alla recensione, data la tua malsana idea di cancellare la storia che avevi pubblicato... ma in fondo sono buona (anche se sappi che una bella ciabattata virtuale non te la toglie nessuno). Vabé si sa che i pazzi stanno simpatici a tutti! Eheh, dove ci porteranno? Bella domanda. Un abbraccino coccoloso mia cara, anche da parte di due maleducatissimi e demenzialissimi Georg e Gustav. Un bacione.

Vitto_LF: Tesoro, figurati! Non ti preoccupare, davvero! E non ti scusare! Non hai mai saltato un capitolo, ti pare che mi sarei crucciata se l'avessi fatto stavolta? Ti adoro. Ahah, che Tom non capisca niente credo sia cosa ben nota. E di nuovo, non chiedere scusa!!! Un bacio grande.

Paaola: Mio ammmore!!! Come ti ho saltata?! Oddio ma allora sono più rincoglionita di quello che pensavo q_q. Mi scuserai per questa terribile mancanza? Grazie per la recensione. Spero che una carrellata di baciozzi rivestiti al cacao ti rendano più propensa al perdono. :****

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Conto alla rovescia ***


- … E io gli ho detto: “Tesoro ma con quel cosino cosa ci dovremmo fare io e te?” –

- Ohoh! Ma sei perfida cara! –

- Ma certo! Si è tirato su le mutande ed è scappato via dalla vergogna, il poveretto –

- Ohoh! –

- Ehi voi due, volete chiudere quelle fogne? – ruggì una voce con un forte accento ispanico.

- Maleducato! –

Bill si ritirò nel suo angolo, schiacciando la schiena contro il muro lurido e cercando di allontanarsi il più possibile dalla coppia di viados che erano seduti vicino a lui, sulla panca di metallo appoggiata alla parete di fondo della cella. Non sapeva se preoccuparsi di più di quei due o dei tre energumeni loschi che erano seduti sull’altra panca. Alla sua destra Michael sedeva tranquillo come se stessero aspettando di farsi servire the e biscotti. Ma no, non erano li per discorrere amabilmente del più e del meno, come stavano facendo i due trans ricoperti di paillettes. Erano lì per diversi motivi, nessuno dei quali avrebbe dovuto riguardarlo. Perché si poteva dire che Bill Kaulitz fosse un personaggio a suo modo strano, che fosse piuttosto eccentrico nei modi di fare, ma non che spacciasse droga. Almeno quello no, per carità. Invece era proprio per quella ragione che si trovava in una cella, nella centrale della polizia del Quindicesimo Distretto. Aveva fatto giusto in tempo a leggerlo prima che lo spingessero dentro e lo mettessero in fila per le foto segnaletiche. Di foto ne aveva fatte tante, in vita sua, ma mai come quelle.

- Passalo anche a me, quando hai finito – disse uno dei viados, con voce baritonale. Si voltò e vide l’altro alle prese con un tagliaunghie, chino su uno dei suoi piedi formato famiglia, dalle unghie smaltate di fucsia. Il suo compare notò che lo stava osservando e gli sorrise, mettendo in mostra un paio di denti d’oro e sbattendo le ciglia impastate di mascara. Bill lanciò uno sguardo inquieto al vestito fiorato traslucido e alla chioma ondulata, raccolta sul capo con un grosso fermaglio a forma di farfalla.

- Che c’è tesorino? Hai paura? – gli chiese con voce materna. Bill inspirò profondamente, e scosse la testa.

- Carmen, guarda che pulcino questo qui! – trillò il trans dando un colpetto al compagno, che sollevò gli occhi.

- Oh si! Ma che bei lineamenti che hai, caro! Somigli a me, quando ero adolescente – sospirò, inarcando le labbra dipinte di rosso in un sorriso malinconico.

Bill si appiattì ancora di più contro il muro, risucchiando l’aria intorno.

- Domenico, Carlos, su le chiappe –

Tirò un sospiro di sollievo e benedì mentalmente l’agente grassoccio e pelato che era comparso dietro le sbarre, chiavi tintinnanti alla mano.

- Oh! Jacky! Quale piacere rivederti! – squittì quello che aveva in mano il tagliaunghie.

I due transessuali si alzarono in piedi e, nel loro metro e novanta incrementato da vertiginosi tacchi di vernice, uscirono dalla cella, tutti brillantini e risatine da soprano.

Bill si accasciò contro il muro scoprendo di avere un impietoso mal di testa. Assurdo. Era tutto assurdo. Avvenimenti ai confini della realtà. Ci avrebbe potuto scrivere un libro, su quella vacanza. O magari ci avrebbe composto una canzone. L’avrebbe intitolata “Kill Bill”, o magari “Prison”, vista la piega che avevano preso gli eventi. Certo, il titolo “Kill Bill” lo riportava con la mente all’omonimo film, e già s’immaginava, sulla copertina del singolo, stretto in una tutina di pelle gialla. Sarebbe stato la gioia del mondo omosessuale.

- Tu –

Riaprì gli occhi, avvertendo uno sguardo su di se. Fuori dalla cella era ricomparso lo stesso agente di prima, solo che sembrava meno amichevole di quando aveva accompagnato fuori Domenico, Carlos e le loro tettone di dubbia provenienza.

- Io? – fece Bill esitante, appoggiandosi l’indice sul petto. L’uomo annuì e alzò gli occhi al cielo.

- Certo deficiente. Muoviti – ringhiò aprendo la cella. Michael sollevò lo sguardo e lo seguì fin quando non fu fuori dalla cella. Prima di farsi condurre in qualunque posto l’agente lo stesse portando, Bill si voltò verso di lui. Per un attimo gli sembrò di leggere paura su quel volto affilato, poi l’uomo lo trascinò via.

Attraversarono lo stesso corridoio lercio superato appena un’ora prima, e ritornarono nella stanza principale della stazione di polizia, dove c’erano un bancone per le ricezioni e lo smistamento arresti e alcune sedie blu elettrico, appoggiate contro i muri sporchi.

Lanciò uno sguardo fugace alla sala d’attesa, prima che il poliziotto lo spingesse dentro ad una stanza. Lei non c’era. E non sapeva se sentirsi sollevato o impaurito.

 

Un altro filo di cotone, del sedile del taxi, le rimase tra le dita, strappandosi al suo ennesimo strattone. Guardò con espressione smarrita il parabrezza dell’auto, dal sedile posteriore, cercando di capire dove fossero, ma era impossibile sotto quella pioggia. La pioggia era arrivata all’improvviso, come la telefonata. Mentre lei non se l’aspettava. L’aveva sorpresa nel bel mezzo di una bella giornata, per caderle addosso, gelida, colarle sotto il giubbotto, nella maglietta, e inzupparle i capelli. Ed ora rimaneva solo il freddo. Pungente, terribile, doloroso freddo che le impregnava le ossa. Non era solo pioggia però.

Erano bastate poche parole.

 

Proprio non le andava di rispondere al telefono. No, aveva sonno. Un sonno tremendo. Ma allungò ugualmente la mano sul mobile vicino al divano, e sollevò la cornetta, rispondendo con voce roca.

- Pronto? – disse, socchiudendo nuovamente gli occhi.

- Plonto? – gracchiò una voce.

- Li? – domandò, confusa.

- Si, si. Alex, sono io – confermò il ragazzo. Aveva un tono di voce ansioso, come se dovesse dirle qualcosa di importante ma non sapesse come fare.

- Che succede Li? – chiese, sedendosi.

- Alex è successo un glan casino qui. Hanno beccato Paco e Gabliel in un night club dove spacciano la dloga. Li hanno allestati. Javiel ha dato fuoli di matto… - rispose, agitato, come se fosse un’informazione di estrema importanza.

- Che è successo? – domandò, cercando di sentire qualcosa sopra il fischio che disturbava la comunicazione.

- Javiel ha detto che hanno fatto una letata… Una letata, si! – disse Li, confondendole ancora di più le idee.

- Sono felice che tu mi abbia avvisata Li, ma non capisco il senso della telefonata – sospirò, il fischio che si faceva sempre più fastidioso. Poi si interruppe, come al solito.

- E’ impoltante, Alex! Hanno allestato anche Michael e… - Li si impappinò, come se stesse cercando di ricordare qualcosa. Alex si irrigidì contro lo schienale del divano, senza respirare.

- Il tuo amico. Il tuo amico con l’accento da stupido. Bill! – terminò, con tono sollevato.

 

La fine della telefonata non era mai arrivata. Era scattata subito in piedi, Alex. Perché già sapeva dove si trovava Michael, e, di conseguenza, dove avrebbe trovato Bill. Non era la prima volta che era costretta a precipitarsi al Quindicesimo Distretto. La cornetta era caduta per terra con un tonfo sordo, e per alcuni minuti Li aveva urlato nel microfono, chiamandola. Ma lei non aveva sentito nulla. Aveva già infilato il suo cappotto e preso la borsa dall’appendiabiti, lasciato un biglietto telegrafico a Joanne, in cui non c’era traccia di arresti o faccende simili, ed era volata giù per le scale. La paura non aveva tardato ad arrivare. E nemmeno il freddo. A quello che la ghiacciava dentro, però, si era aggiunto quello che arrivava da fuori, quando era uscita dal portone, e si era ritrovata sotto un acquazzone. Di cappuccio nemmeno a parlarne. Di ombrelli non ne aveva mai avuti. E in ogni caso, il suo unico pensiero in quegli istanti, era andato a Bill. Pensava solo a lui. Unicamente a lui. E al fatto che Bill, di documenti non ne aveva.

Il taxi rallentò, interrompendo i suoi pensieri confusi. L’autista si voltò verso di lei con il braccio teso. Gli lasciò in mano i soldi e scese dall’auto spalancando la portiera.

Nemmeno ebbe bisogno di guardarla, l’insegna blu, per capire che si trovava nel posto giusto, purtroppo.

Entrò spingendo uno dei due portoni di vetro antiproiettile e subito un agente la placcò, passandola al metal detector. Si guardò intorno cercando qualcosa, anche se nemmeno lei sapeva bene cosa, ma vide solo la testa pelata di un uomo grassoccio scomparire dietro una porta  e una scrivania, esattamente di fronte a lei, occupata da una donna in divisa, dall’aria annoiata. Una volta che l’agente l’ebbe lasciata andare, si avviò verso di lei, stringendo allo stomaco la borsa e cercando di rendersi almeno presentabile, nonostante, piena di acqua e con l’espressione stravolta che aveva, sarebbe stato più facile mostrarsi disperata e in preda al panico.

- Ehm ehm – si schiarì la voce, stupendosi di sentirla così acuta.

La donna sollevò gli occhi scuri su di lei, indifferente.

- La posso aiutare? – chiese, con voce monocorde.

- Ehm… si. Vorrei chiederle se è possibile parlare con Michael O’Byrne – disse, scandendo bene le parole, per paura di mangiarsi qualche consonante. La donna inarcò le sopracciglia.

- Ah, il Signor O’Byrne – fece, improvvisamente gelida.

- Posso vederlo? – disse Alex, stringendo sempre di più la borsa umida tra le mani.

- Temo di no, signorina. Al momento il Commissario sta prendendo le deposizioni – rispose, ordinando una pila di fogli di carta spiegazzati.

- Sa quando terminerà? – chiese, in preda ai tremiti di freddo.

- No. Dovrà attendere se vuole parlare con il Signor O’Byrne. E comunque non le posso assicurare nulla – la liquidò la donna, schiarendosi la voce in modo eloquente.

Alex abbozzò un sorriso, senza nemmeno sapere per quale motivo si sentisse in dovere di farlo, e si allontanò, i jeans bagnati che strusciavano sulla superficie grigia del pavimento.

Prese posto su una delle sedie graffiate addossate al muro, guardandosi intorno sperduta.

Un’immagine continuava a penetrare nella sua mente, frantumando tutti i pensieri che cercava di ricomporre, come i pezzi di un puzzle. Bill, nel suo giaccone largo, che la guardava con espressione stanca, ma serena. Gli occhi dolci, il sorriso sincero che aveva imparato a fare grazie a lei.

“Ci vediamo tra poco” le aveva detto. Lei aveva annuito e tratto un lungo respiro.

“A tra poco” aveva mormorato, prima che la porta si chiudesse.

 

- Nome? -

Il Commissario, un uomo baffuto e rubizzo, con un paio di acquosi occhi azzurri, sollevò lo sguardo su di lui, osservandolo, ostile.

- Bill – rispose, intrecciando le mani sulle ginocchia.

Un agente più giovane, seduto ad una piccola scrivania sulla sua sinistra, picchiettò sui tasti di un computer.

- Cognome? – domandò di nuovo l’uomo.

- Kaulitz – disse Bill. Pensò che era davvero tantissimo che non diceva il suo cognome a qualcuno.

- Anni? –

- 19 –

- Ha dei documenti che possano confermare la sua identità? – chiese il Commissario, con voce stanca.

Bill esitò per un istante. Cosa dire?

- No – sospirò infine, optando per la cruda verità. L’uomo ridusse gli occhi a due fessure.

- Cosa vuol dire “no”? – disse.

- Non ho documenti con me – disse Bill, alzando le spalle, come se fosse la cosa più naturale del mondo trovarsi in una centrale di polizia e ammettere di essere clandestino.

L’agente più giovane smise di ticchettare sulla tastiera e si voltò verso di loro.

- Lei è in guai seri, Signor Kaulitz. La condizione di clandestinità non è ben vista negli Stati Uniti, presumo che lo sappia – disse il Commissario, con un sorriso serafico.

- Lo so. Ma questa condizione non dipende da me. Sono stato derubato, mi hanno portato via tutto quando sono arrivato a New York – cercò di spiegare, nel tentativo di alleggerire la gravità della sua situazione. L’uomo inarcò le sopracciglia.

- Capisco – disse, ma dalla sua espressione poteva tranquillamente dedursi che non aveva capito nulla – Quindi, non avrà problemi a contattare qualcuno che possa verificare la sua identità – aggiunse, con l’aria gongolante di chi sa perfettamente di aver fatto la domanda giusta.

Bill annuì vigorosamente, mitigando l’espressione trionfale dell’uomo.

- Si, la mia famiglia. In Germania – rispose.

L’uomo sbuffò e diede un colpetto alla scrivania.

- Benjamin, chiama il consolato tedesco. Fatti dare il numero da Corinne – grugnì all’indirizzo del sottoposto, che scattò subito in piedi.

- Il fatto che qualcuno possa identificarla non la scagiona dai reati imputati. Perché si trovava al Magic Moon questa mattina? – lo aggredì subito il Commissario, senza perdere tempo. Bill si agitò un attimo sulla sedia.

- Sono… sono andato ad accompagnarci un amico. Non sapevo che tipo di locale fosse – rispose. L’uomo sorrise, svelando due file di denti giallognoli.

- Oh si, lo conosciamo bene, il suo amico. Michael O’Byrne fa avanti e indietro da questo Distretto da quando aveva sedici anni – disse, e fu evidente che quella informazione non era stata utilizzata a caso.

- Non è proprio mio amico… Cioè, io non lo conosco nemmeno bene, e non ci tengo a conoscerlo. Il fatto è che lo stavo accompagnando al Centro Sociale, visto che è stato condannato ad alcune ore di servizio. Mentre eravamo per strada mi ha chiesto di portarlo a salutare un suo conoscente, e io ho pensato che non ci sarebbe stato niente di male nel… - spiegò Bill, ma l’uomo lo interruppe.

- Lei mi sta dicendo che non è a conoscenza del traffico di cocaina ed hashish che veicolava da quel locale, assiduamente frequentato dal suo “amico”? – domandò, scettico.

- No! Io non lo sapevo! Ero solo stanco e… e gli ho detto di si. Non avevo la più pallida idea di cosa dovesse fare – rispose Bill. L’uomo sembrò soppesare per un attimo le sue parole.

- Bene, verificheremo subito – disse, alzandosi bruscamente ed aprendo la porta del piccolo ufficio – Benjamin, fammi portare O’Byrne – sbraitò.

E Bill ebbe istantaneamente la fugace visione di se stesso, in tuta arancione, intento a sfregare una tazza di latta contro le sbarre di una cella.

 

Michael O’Byrne non era americano. Entrambi i suoi genitori erano irlandesi, ed erano migrati negli Stati Uniti dopo la morte dei nonni paterni. Lui era nato due anni dopo, in un momento poco propizio per la coppia di giovani sposi. Trovare lavoro si era rivelato più difficile di quanto entrambi avevano pensato, sopraffatti dall’ottimismo e dalla voglia di una nuova vita, e una bocca in più da sfamare rappresentava un problema che non erano preparati ad affrontare. Fu così che suo padre cominciò a frequentare gli ambienti sbagliati e la gente sbagliata. Da li al vizio del bere non passò molto, un anno appena. Forse già aveva cominciato ad occuparsi del piccolo spaccio, per conto di uno dei pezzi grossi che risiedeva più a nord, in uno dei quartieri alti, quando Michael festeggiò il suo secondo compleanno. La madre di Michael non era una cattiva persona, era solo stanca di vivere una vita triste e piena di stenti, dove fingeva di non comprendere da dove arrivassero i soldi necessari per superare il mese. Quando Michael compì i sei anni, capì pienamente cosa volesse dire avere due genitori infelici. Sua madre cadde in depressione nel settembre di quello stesso anno. Piangeva o stava in silenzio, a volte si dimenticava di portarlo a scuola o di dargli da mangiare. Suo padre, le ore in cui era sobrio, tornava a casa giusto per raccattare qualche pezzo di pane e scompigliargli i capelli, prima di uscire nuovamente e tornare il giorno successivo.

La sua vita andò avanti in quel modo per un altro anno. Poi accadde l’irreparabile. Suo padre venne arrestato, gli agenti si recarono nella loro casa per perquisire come da istruzioni, e, ad aprire loro la porta, fu Michael, pallido e smunto, ammalato. Aveva l’aspetto di chi non mangiava da diversi giorni e i due trovarono la madre nel letto matrimoniale, morta da almeno ventiquattr’ore, circondata da tubetti di plastica vuoti.

Così, Michael O’Byrne approdò a casa di Joanne, il giorno del sue settimo compleanno. Era un bambino taciturno, per la maggior parte del tempo non proferiva parola, se non in presenza dell’altra piccola ospite di quella casa, la ragazzina dai capelli rossi e il sorriso gentile. Lei e Michael avevano più cose in comune di quanto pensassero.

Il bambino decise di dimenticare, di eliminare tutto ciò che lo aveva legato a quella brutta casa dalla carta da parati gialla e al volto grigiastro di suo padre.

Certi fantasmi però, ti rincorrono negli anni, fino a raggiungerti, e così era stato anche per lui. Michael O’Byrne era diventato, con il tempo, il prodotto naturale della sua famiglia. Ad un certo punto aveva anche smesso di chiedersi perché faceva determinate cose. Si considerava come un predestinato, qualcuno a cui avevano tolto la possibilità di scegliere. Per lui avevano scelto i suoi genitori, e avevano scelto male. Ma ormai era troppo tardi per rimediare.

 

- O’Byrne, alza il culo -

Michael sollevò gli occhi chiari sull’agente, ostentando un sorrisino e alzandosi, in tutta tranquillità. Seguì l’uomo fuori dalla cella, dopo aver salutato il resto degli ospiti, e si lasciò guidare nel corridoio. Conosceva il Quindicesimo Distretto meglio della casa di Joanne.

- Cosa vogliono adesso, Jacky? – chiese, annoiato, strisciando i piedi sul pavimento.

- Il tale che stava con te ha detto che non sapeva dove stavate andando, quando l’hai trascinato al Moon Magic. Il commissario vuole la conferma – rispose acido l’agente, dondolando le due grosse braccia ai lati del corpo.

Michael sorrise tra se e se. Bill si era dimostrato un ingenuo più di una volta, durante la sua permanenza con loro. Ma gli risultava impensabile credere che sul serio riponesse la sua fiducia in lui.

Uscirono nella stanza principale della stazione di polizia, e il suo sguardo fu attirato da un improvviso movimento che notò ai margini del suo campo visivo. Si voltò appena ed incontrò un paio di occhi verdi, sgranati e dannatamente familiari. Rallentò appena, osservando Alex. Aveva i capelli bagnati, appiccati al collo e alle spalle. Completamente fradicia, con la sua solita borsa nera tra le mani, lo osservava smarrita, con l’aria di chi non sa dove si trova. Non l’aveva mai vista con un’espressione del genere sul viso, mai. Nemmeno durante il loro ultimo litigio, quello che aveva sancito la fine di una strana e tormentata  amicizia che forse per un po’ era stata qualcosa di più. Michael non aveva mai capito cosa significasse Alex per lui, ed anche in quel momento non riusciva a comprendere. La ragazza lo seguì con lo sguardo, come chiedendogli aiuto, e poi la superficie bianca di una porta la escluse dal suo mondo.

Michael si immobilizzò per un istante, incerto.

- Signor O’Byrne, ci farebbe la cortesia di rivolgersi a noi utilizzando la sua facciata anteriore? – chiese il Commissario. Michael si voltò, tentando con tutte le sue forze di esibire la solita espressione impassibile. Perché, tutt’un tratto, era diventato così difficile?

- Si sieda, prego – disse l’uomo baffuto, conosciuto altresì come Ethan Miller, il Commissario più rompipalle della storia del Quindicesimo Distretto. Troppo solerte, troppo anticonvenzionale, troppo efficace. Troppo poco newyorkese, come poliziotto.

Il ragazzo prese posto accanto a Bill, che da quando era entrato non gli aveva rivolto nemmeno un’occhiata.

- In cosa posso esservi utile? – domandò, rivolgendo un sorriso a Miller. L’uomo rispose con altrettanta falsa cortesia.

- Il Signore qui presente sostiene di essere stato condotto al Moon Magic con l’inganno da lei, O’Byrne. Conferma? – disse, andando subito al dunque.

Michael aprì bocca immediatamente, certo di quello che avrebbe detto. Ma prima che potesse proferire una sola parola, ciò che voleva dire gli si dissolse sulla lingua, sciogliendosi nel nulla.

Ammutolì, guadagnandosi uno sguardo incuriosito da parte di Bill.

 

- Michael? Michael? – la voce gentile di una bambina lo chiamava. La sentiva, nascosto sotto l’ultima rampa di scale della scuola, tra le ragnatele e la polvere raggrumata in disgustose palline grigie. Doveva esserci anche qualche ragno, qua e la. Ma non gli interessava, meglio li, tra i ragni, che con i suoi compagni. Si asciugò una lacrima disobbediente e tirò appena su con il naso, dimenticandosi che qualcuno lo stava cercando.

- Michael? – la voce di Alex si fece più vicina, nella semioscurità dell’androne. La luce filtrava da un battente semiaperto del portone scuro più vicino, affacciato sul cortile. Il pulviscolo brillava, sospeso nell’aria calda che preannunciava l’arrivo sempre più prossimo dell’estate.

La testa rossa di Alex comparve nel suo campo visivo, assieme agli occhioni verdi della bambina.

- Perché ti sei nascosto qui? – gli chiese, confusa, accucciandosi per guardarlo meglio. Michael nascose il viso tra le ginocchia, coprendosi le orecchie con le braccia, e tacque. Per un po’ Alex non disse niente.

- Ti hanno picchiato di nuovo? – domandò, atterrita. Michael premette ancora di più la fronte contro i jeans un po’ troppo larghi, cercando con tutte le sue forze di non piangere.

Alex gli scivolò accanto, sotto la rampa di scale, tra le ragnatele e la polvere, e lo abbracciò, passandogli un braccio sulla spalla e posandoli una guancia sul capo.

- Mi dispiace – sussurrò. E rimasero li tanto tempo, che ad un certo punto le lacrime si stancarono di scorrere.

 

 

- Che c’è O’Byrne, il simpatico fogliame ha già cominciato a fare effetto sul tuo sistema neurologico? – lo schernì Miller, ridendo della sua stessa battuta.

Michael sollevò gli occhi su di lui. Si sentì improvvisamente stanchissimo, come non lo era da tanto, tantissimo tempo.

 

 

Il telefono non squillò molte volte. Giusto quelle necessarie a farlo svegliare, imprecare nel buio della stanza e maledire Georg di aver lasciato l’ennesima volta la porta aperta, la sera prima, dopo l’ultima visita al cassetto dei suoi calzini.

Si stava domandando molto vagamente se fosse il caso di andare a rispondere, quando sentì sua madre sollevare la cornetta, dal piano inferiore.

La ascoltò mentre parlottava, cercando di carpire il significato della conversazione con risultati pressoché nulli. Stava quasi per riaddormentarsi, quando aveva sentito i passi veloci di sua madre per le scale. Era comparsa sulla soglia della sua porta pochi istanti dopo, il volto pallido come un lenzuolo e una mano sul cuore. Tom era istintivamente scattato a sedere. Quell’espressione gli faceva venire in mente Bill, e non era un bene.

Oddio… gli era successo qualcosa, pensò in pochi istanti.

- Mamma? – fece, allarmato, guardandola respirare a fatica.

- H-hanno… h-hanno… - rantolò la donna, facendolo spaventare ancora di più. Tom si alzò repentinamente in piedi e la raggiunse, prendendola per le spalle.

- Cosa, cosa mamma? – la incoraggiò, impaziente.

Lei gli posò i grandi occhi nocciola addosso e balbettò per un secondo, prima di mettere insieme una frase di senso compiuto.

- Hanno trovato Bill – esalò infine, afflosciandosi contro lo stipite della porta.

 

- Cazzo di valigia, cazzo di cellophane, cazzo di macchina del cazzo. Fanculo! -

Tom sradicò con violenza, dalla bocchetta di plastica della macchina d’imballaggio, l’ultimo pezzo di cellophane, ancora attaccato alla sua valigia, e scaraventò tutto per terra, avventandosi sul bagaglio con ferocia, mentre il telefonino che teneva premuto contro l’orecchio rischiava di cadere. In suo soccorso giunse Saki che, una volta allontanatolo dalla valigia, si occupò di imballarla senza creare troppo scompiglio. Tom si riassettò i vestiti e guardo all’orologio che lampeggiava sul grande tabellone dei voli. Le sei di mattina. Chissà se…

- Pronto? – ringhiò qualcuno dall’altro capo del telefono.

Tom sorrise, aggiustandosi meglio il cappellino da baseball sul capo.

- Buongiorno Schnauz – disse, pimpante. Dall’altra parte calò il silenzio. Sentì Heidi rovistare da qualche parte e poi la sua voce assonnata lo raggiunse di nuovo.

- Di’ un po’… MA SEI COMPLETAMENTE IMPAZZITO? HAI VISTO CHE ORE SONO?! – sbraitò nel suo orecchio, facendolo sussultare.

- Ti prego non urlare, mi mandi in pappa il sistema nervoso. C’è un valido motivo se ti ho chiamato a quest’ora – la interruppe, impedendole di cominciare una noiosa quanto inutile ramanzina.

- Muoviti ad illustrarmi questi motivi, prima che decida di venire ovunque tu sia a prenderti a calci nel reale deretano – gli concesse Heidi, sbadigliando tra una parola e l’altra.

- Alle quattro l’ambasciata tedesca ha chiamato a casa da New York, hanno trovato Bill. Stiamo prendendo il volo proprio adesso – le spiegò, in fretta, mentre Saki lo trascinava quasi di peso verso il ponte d’imbarco. Distinse la chioma di sua madre, David accanto a lei e Gustav e Georg che barcollavano con degli zaini preparati all’ultimo secondo, dietro di loro.

- Oh, cazzo! – disse Heidi, esprimendo perfettamente anche la sua opinione.

- Esatto. Quindi stasera non posso scroccare nessuna cena e non potremo scambiare fluidi corporali, come mi ero augurato – concordò Tom, lanciando la valigia tra le braccia di Tobi e mozzandogli il respiro.

- Mi sto struggendo dal dolore, indefesso distributore illegale di fluidi corporali – fece la ragazza, con tono melodrammatico.

- Dovrebbero darmi una medaglia al valore per tutto il volontariato che faccio. Pensa, io, che mi sforzo di donare la felicità a centinaia di ragazze, sole, impaurite… - la stuzzicò Tom.

- … cerebrolese, spastiche, isteriche – continuò Heidi.

- … tettone, sexy, sculettanti – la interruppe Tom.

- Meretrici! – esclamò la ragazza.

Tom studiò per bene la hostess che gli ritirò il biglietto, soffermandosi sulle rotondità fondamentali.

- Cos’è? Un piatto italiano? – fece, incamminandosi nel ponte, seguito da Tobi e Saki.

- Te lo spiegherò quando torni, ignorante. Ma solo perché ho pietà del tuo patetico stato di rock star fallita – disse Heidi con tono superiore.

- Mio Dio, sto per imbarcarmi, congedami almeno con una frase ad alta temperatura! Così castri la mia passione – si lamentò Tom, sorridendo ad un’altra hostess.

- Castra pure, chissà che non serva. Se non precipiti con bodyguard, Guardia Svizzera, CSI e aereo, fatti vivo quando torni in madrepatria – replicò la ragazza.

- Ti adoro Schnautz – disse Tom con voce strafottente.

- Fottiti Krautiz –

La comunicazione si interruppe e Tom spense il cellulare, prendendo posto nel suo sedile, accanto a Simone, che si torceva le mani dall’angoscia. Le posò un bacio sulla tempia e le sfregò una spalla.

- Stai tranquilla, andrà tutto bene – sussurrò, prima che le hostess invitassero i passeggeri ad allacciare le cinture e l’aereo si mettesse in moto, riempiendo il lungo abitacolo di rombi e cigolii.

Torni a casa, fratellino.

 

***

 

Note di Phan: Buongiorno care donzelle. Eccovi qui, stremate dopo la lettura di questo chilometrico capitolo (che per la cronaca - almeno fino ad ora - è il più lungo di tutta la fan fiction). Vi ringrazio di essere arrivate fino alle ultime parole senza aver dovuto ingurgitare integratori e/o avvalervi di provviste. *Si gratta la barba pensierosa*. Dovevo dirvi qualcosa, ma ho dimenticato cosa, quindi tutti i miei buoni propositi di scrivere delle note decenti vanno alle ortiche. E vabé, pazienza, vorrà dire che seguirò la tradizione delle note nonsense. L'ho fatto fino a questo momento, non vedo perchè cambiare abitudini al ventunesimo capitolo.

Mando una slinguazzata alla mia super beta reader (che in questo capitolo mi ha bacchettata come non mai) e un bacio a tutte le lettrici. Vi ringrazio. Ma le mie attenzioni particolari sono rivolte alle graziose madamigelle che recensiscono sempre i miei deliri, facendomi sbrodolare tutta.

 

susisango: La prima della lista, dunque! Che bello ritrovarti qui, in questi sperduti lidi. Beh voglio dire, se ogni tanto Tom invece di farsi guidare dagli organi riproduttivi mette in moto gli ormoni, ahem, pardon, i neuroni, non muore mica nessuno. Forse qualcuno dovrebbe farglielo presente. Spero che nel frattempo tu ti sia chiarita le idee riguardo a ciò che è successo al povero Bill. Ti ringrazio per la recensione, spero di rivederti presto! Ciao ciao

Dying Atheist: Mia pulzella! Ogni volta che leggo il tuo nick mi brillano gli occhietti. Grazie, sono contenta che il capitolo precedente ti sia piaciuto. Bill sfigato è quanto di più divertente ci sia da scrivere per un'autrice, a mio modesto parere. Un bacione grande grande ^^.

avuzza: Eccotiii! Ah che bello, addirittura tre capitoli consecutivi, o quattro? Grazie per i complimenti sul capitolo precedente. Eheh, temo di si, capitano davvero tutte a Bill. Ciao bella.

Paaola: Mia cara panzerotta-trottolina-amorosa conto di fare un salto a Bari verso fine mese q_q. Spero di farcela, dipende tutto da come si evolveranno le faccende a scuola. Ti adoro mon amour. XD Baci baci.

missmar23: Cara! La tua grassa risata ad inizio recensione è stata veramente piacevole da leggere. Ahahah, si, me l'immagino, vestita da gothic lolita, magari con i capelli un po' punkeggianti, con qualche ciocca verde acido qua e la, e il suo bel paio di anfibi. Ci starebbe troppo bene, per un matrimonio. Nel caso ti prenoto come damigella. Bacini. P.S. E IO AMO TE CHE AMI QUESTA FF.

_Princess_: Che onore accogliere una nuova lettrice! Benvenutissima! Più che lusingata dai tuoi complimenti, veramente. Beh Heidi è un personaggio già utilizzato in diverse altre fan fiction, un "tipo" insomma. Purtroppo non ho mai letto RubyChubb, ma mi sono lanciata in Rette Mich di Lady Vibeke e Heidi sicuramente può essere annoverata nella categoria delle "Leni", anche se è un po' meno "artista". Che nella mia Heidi ci siano dei "retrogusti L_Fy-iani" oh si! E' verissimo! Io mi ci drogo con le sue fan fiction, ed è l'unica autrice a cui mi ispiro in questo sito. Perciò il fatto che Heidi ti abbia ricordato una Verena, una Jude, una Costanza, non può che farmi saltellare in giro! Beh, su Heidi adorabile avrei le mie riserve, ma sono gusti personali XD. Grazie ancora!

GodFather: Ostrichetta, ostrichetta! Le tue recensioni mi fanno sganasciare, ti amo. Le domande che ti sei posta riguardo alla reazione di Alex sono tutte veramente interessanti, ma per avere le risposte dovrai aspettare il prossimo capitolo, temo. Ahahah oddio, Heidi e le tue considerazioni in proposito al suo comportamento. Fantastiche. Ti adoro, con l'ormone impazzito. Ti voLio bene. Un baciozzo.

BabyzQueeny: Anche tu vai ad unirti alla folta schiera di coloro che vogliono linciare Michael, dunque. Beh ti posso capire. La voglia viene anche a me, in certi momenti. Ho postato con la solita settimana in mezzo q_q. Purtroppo per il momento non riesco ad andare più veloce di così. Un bacione cara.

L_Fy: Oh musa! Eccoti. Segno il suggerimento sulla più lauta distribuzione di particolari, in tema di scene "ehm ehm" (ma anche "coff coff"). Si sono cattiva, questo sicuramente. Sul "una scrittrice assolutamente fantastica" sorvolo leggiadramente. Ti ringrazio (e per la cronaca stavolta mi hai fatto venir su yogurt e biscotti). Besitos.

Vitto_LF: Adorata! Che bello averti fatto svolazzare per mezz'ora. Son contenta! Comunque, no, non ce li avevano i numeri di telefono. Heidi ha chiamato a casa di Tom prendendo il numero dal cellulare dello stesso, ma Tom non aveva il suo numero. Ma no dai, alla fine per Hay un po' mi dispiace... (sono influenzata dalla bontà del tuo Bill mi sa >.<). Vedremo, vedremo XD. Ah no, ma io tornerò... vabé tu già lo sai cosa sto architettando. Grazie tantissime Vitto. Bacio.

EtErNaL_DrEaMEr: Ahahahah. Mia cara, prima di rispondere ad eventuali quesiti devo ringraziarti, perchè ho preso in prestito il tuo "simpatico fogliame" e l'ho messo in bocca a Mr. Miller senza pagarti i diritti d'autore. Spero mi perdonerai. "Erbaiolo" XD. Sono curiosa di sapere cosa penserai di Michael dopo la descrizione della sua infanzia. Proprio curiosa. Heidi è disponibilissima, lo sai che quando c'è bisogno di andar giù con gli anfibi lei non si tira indietro. Grazie mia cara *_*. Un bacione grande grande.

valux91: Tesoro! Eheh, tutte indignate nei confronti di Michael, eh? Ma no... povero erbaiolo (EtErNaL_DrEaMEr docet). Glazie mia cala (per dirlo alla Li maniera). Un bacio.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Incontri ***


Da quanto era li?

Non lo sapeva. Aveva perso la cognizione del tempo. Potevano essere ore, come minuti. Non c’era nessun orologio che potesse aiutarla, e al momento non si sentiva in grado di alzarsi da quella sedia e chiedere informazioni al riguardo. Sembrava che le gambe avessero perso sensibilità. La testa le doleva e il capo le pesava sulle spalle, sovraccaricato da troppe preoccupazioni. Cercava di pensare ad un problema alla volta, ma non c’era verso di concentrarsi a dovere. In men che non si dica a quel problema si aggiungevano tutti gli altri, accavallandosi impietosamente e impedendole di trovare soluzioni in tempo breve. Era una cosa snervante e spossante assecondare tali pensieri, farlo le aveva prosciugato le forze residue.

Appoggiò il capo al muro dietro di lei. Fuori continuava a piovere a dirotto. Magari tutto quello che stava succedendo le sarebbe sembrato sopportabile se solo ci fosse stato il sole.

Mentre stava indugiando per l’ennesima volta sul sorriso di Bill, in un modo che lei stessa avrebbe definito patetico, un gruppo di individui irruppe nella sala d’attesa, guadagnandosi un’occhiata scocciata da parte dell’agente seduta dietro la scrivania.

Gli uomini erano quattro. Il primo era basso, aveva il volto rubizzo e un bel paio di baffoni bianchi a manubrio che gli sfregavano le guance. Gli occhi azzurri erano sormontati da un paio di folte sopracciglia brizzolate, come i capelli. Indossava un completo elegante, nero, che tuttavia lasciava intravedere le fattezze rotonde della sua figura. Aveva un’espressione furiosa e attorno a lui, un uomo giovane con una valigetta rigida in mano e due omoni muscolosi stretti in giacca e cravatta ostentavano un’aria agitata.

L’uomo attraversò la stanza a passi lunghi, impettito, e si fermò di fronte alla scrivania, sotto lo sguardo perplesso dell’agente.

- Buongiorno – disse, in un inglese impeccabile. Tuttavia, sotto quelle erre arrotondate e le enne appena accennate, Alex distinse qualcosa di familiare. Era più che sicura che l’uomo non fosse americano.

- Buongiorno - rispose la donna, chiudendo con malcelato fastidio il giornale che stava sfogliando fino ad un istante prima – Cosa desidera? –

- Sono il console dell’Ambasciata tedesca. Siamo stati richiamati per assistere un nostro concittadino, il Signor Kaulitz – rispose il tale, con tono pomposo. Istantaneamente Alex si drizzò sulla sedia. Consolato tedesco? Si trattenne dall’alzarsi in piedi e mettersi a tempestare di domande l’uomo, riflettendo che non sarebbe stato ne educato, ne intelligente farlo.

- Oh si, prego, le faccio strada – la donna si alzò prontamente e aggirò la scrivania, guidando il drappello oltre la porta dove aveva visto scomparire Michael. Quindi era li che si trovava Bill? La ragazza prese a torcersi le mani in preda al dubbio. Non sapeva come interpretare l’arrivo del console. Era un bene? Era un male? Era il principio di un addio?

 

Michael si voltò verso Bill e gli rivolse un sorriso… strano. Non si sarebbe potuto definire altrimenti. In quel sorriso c’erano tante cose, tutte insieme. Rimorso, forse per aver detto la verità, per averlo tolto dai guai. Incredulità, forse perché non si aspettava di poter essere tanto vulnerabile. Ansia, forse perché un paio di occhi verdi continuavano a perseguitarlo anche in quel momento, ed erano talmente invadenti e dolorosi da fargli pensare che non avrebbe più voluto uscire di li.

- Si. Ha detto la verità. Non sapeva nulla di quello che dovevo fare, l’ho trascinato al Moon Magic con l’inganno –

Oddio, era proprio così che aveva detto. Sentiva la sua stessa voce rimbombargli nelle orecchie, come un disco rotto. Perché? Per quale assurdo motivo l’aveva mai fatto?

E quegli occhi arrivarono di nuovo, crudeli e violenti.

Ed arrivò anche il ricordo di due mani sottili che gli premevano sul petto, spingendolo via.

- TI ODIO -

Non aveva mai urlato così, Alex. E lui se ne era accorto solo in quel momento.

Non l’aveva mai odiato così, Alex.

 

Bill era rimasto in trance per la metà del tempo in cui un uomo baffuto, provvisto di segretario, che si era presentato come il console tedesco chiamato dal Commissario del distretto, aveva recitato la sua arringa relativa al pessimo trattamento inflitto ad Herr Kaulitz, personaggio di tutto rispetto in madre patria e pieno di soldi fino al coppino (ma quella parte era stata velatamente mascherata con parole più che eloquenti). Per un po’ aveva guardato Michael, ancora sorpreso da ciò che aveva fatto il ragazzo. Si era comportato lealmente, ed era l’ultima cosa che Bill si sarebbe aspettato da lui. Una bella coltellata nelle spalle, quello si sarebbe aspettato, ma non che Michael confessasse tanto docilmente la verità. Quell’assurdo avvenimento, unito a tutti gli altri avvenimenti assurdi della giornata, l’aveva lasciato stremato. E quantomeno insofferente di fronte al delirio pomposo del console, che continuava ad additarlo come se stesse parlando di una divinità. Fortunatamente anche il Commissario Miller sembrava non sopportare quell’uomo, perciò il colloquio si svolse in poco tempo e, tra una tiritera e l’altra, firmarono tutte le scartoffie che c’erano da firmare. Una volta che il console parve soddisfatto delle sarcastiche scuse che il Commissario gli rivolse, Bill fu invitato ad alzarsi e seguire il corteo all’Ambasciata. Realizzò ben poco di tutto quello che successe. Balbettò un “buongiorno”, anche se non sapeva che ora fosse e lanciò un’occhiata stravolta a Michael, che non lo guardava. Era rimasto immobile da quando aveva risposto alle domande del Commissario, immobile e ancora più pallido del solito. Non si era nemmeno voltato quando Bill era uscito dalla stanza.

- I suoi parenti hanno chiamato dall’aeroporto di Lipsia ieri, la raggiungeranno stasera Herr Kaulitz – disse il console, rassicurandolo.

Tom. Sua madre.

Ma quel nuovo pensiero, che ancora non aveva avuto il tempo di formulare per intero, venne stroncato sul nascere da ciò che vide non appena sollevò lo sguardo davanti a se.

Alex scattò in piedi come una molla non appena lo riconobbe, circondato dai tirapiedi dell’ambasciatore. Gli corse incontro e Bill fece lo stesso, sotto lo sguardo costernato e appena preoccupato degli uomini attorno a loro.

Gli parve che non fosse successo nulla. Tutto il resto semplicemente si annullò.

Alex respirò contro il suo collo, come cercando calore.

- Come stai? – le chiese Bill senza allontanarla, mentre il console baffuto cercava di riprendersi.

Alex sollevò il volto e gli rivolse uno sguardo tanto spaventato che lo terrorizzò.

- Cosa succede? – domandò, prendendola per le spalle. Lei scosse la testa distrattamente.

- Niente, niente. E’ che ero preoccupata, tutto qui – gli rispose, con voce flebile.

- Mi dispiace. Mi dispiace tantissimo. Sono stato uno stupido. Michael mi ha detto che doveva solo salutare un amico ed io mi sono ritrovato in questo casino. Però io lo sapevo eh, che non dovevo fidarmi. Ma ha detto che ci avrebbe lasciati in pace che non ti avrebbe più tormentata e così mi sono detto “dai, va bene Bill, seguilo, chissà che non sia la volta buona per togliertelo dalle scatole”. Poi volevo tornare in fretta da te e quello si era piantato in mezzo alla strada ero stanco e l’ho assecondato. Sono arrivati gli agenti e mi hanno puntato addosso una pistola senza che io ci capissi nulla e io pensavo che non sarei tornato pensavo che non ti avrei rivista e insomma sono entrato nel panico. In cella c’erano anche Domenico e Carlos che non mi hanno aiutato per niente avessi visto che vestiti che avevano e l’agente guardava le loro tette come se fossero… -

- Bill! Bill basta! Stai diventando cianotico! – esclamò Alex mettendogli una mano sulla bocca, con un sorriso umido. Aveva cominciato a piangere e lui nemmeno se n’era reso conto. Era da parecchio tempo che non si sentiva così lumaca marina.

In preda al delirio la prese di nuovo tra le braccia e la strinse a se, mentre il segretario del console saltellava e l’uomo baffuto batteva il piede per terra. Bill lo vide picchiettare un indice sul Rolex che portava agganciato al polso e scosse la testa scandalizzato. L’ambasciatore alzò gli occhi al cielo.

- Scusami. Scusami tantissimo – continuò a ripetere.

- Bill, così mi soffochi. Ti perdono – disse Alex, e rise di nuovo, in un modo che lo fece sentire improvvisamente meglio. Si guardarono per un lungo momento negli occhi, dicendosi tutto quello che c’era da dire senza utilizzare parole. Era la prima volta che gli accadeva una cosa del genere con una persona che non fosse Tom, e fu in quell’istante che comprese l’entità dei suoi sentimenti per Alex.

- E’ tardi, Herr Kaulitz. Dobbiamo spedire i documenti a Berlino entro un’ora – li interruppe il console, facendo un passo avanti.

- Dove vai? – chiese Alex staccandosi da lui, come rendendosi improvvisamente conto che non erano soli.

- In Ambasciata. Stanno tornando a prendermi – disse con tono tranquillo.

- E… non sei preoccupato? – esitò Alex, guardandosi attorno.

- No, perché dovrei? – chiese Bill, confuso.

- Avevi detto che non volevi tornare nel tuo paese – disse la ragazza, come se fosse ovvio.

- Sono cambiate le cose adesso… adesso posso tornare – rispose lui, rendendosi seduta stante conto di tutte le cose non dette che erano sospese tra loro due.

- Herr Kaulitz, la prego – li interruppe nuovamente il console.

- Ti spiegherò tutto. Te lo prometto. Appena riuscirò a mettere a posto le cose verrò da te. Ok? – disse, ansioso. Lei annuì, seria.

- Ok – disse soltanto.

Bill tacque per un istante, concedendosi di guardarla ancora. Era così bella. Anche bagnata come un pulcino, pallida e con le occhiaie. Una bellezza fragile e dolce. Lei vacillò sotto il suo sguardo, e quell’aria seria parve sfaldarsi per lasciare posto ad un’espressione impaurita. Lanciò uno sguardo di sottecchi all’ambasciatore e al suo seguito, prima di sporgersi verso di lui con gli occhi bassi.

- Mi abbracci l’ultima volta, per favore? – mormorò, quasi vergognandosi della sua richiesta.

Bill sospirò, a metà tra un sorriso e un singulto. La trasse a se e la riscaldò ancora un po’, ritrovando quel calore anche nelle mani di Alex.

- Herr Kaulitz, non possiamo indugiare oltre – intervenne perentorio il console, mentre il segretario continuava ad agitarsi come se si trovasse sui carboni ardenti.

Alex sciolse l’abbraccio e si allontanò, fingendo di scostarsi i capelli dal viso per asciugarsi una lacrima, in un gesto naturale che sapeva d’abitudine. Bill pensò che doveva averlo utilizzato centinaia di volte per nascondere il pianto a Joanne, o Zachary, Kevin, Charlie e Samuel. Il prendere coscienza di ciò gli diede l’impressione che qualcuno gli stesse stritolando il cuore.

- Corro da te appena posso – disse di nuovo, compiendo un passo riluttante verso l’uomo baffuto.

- Ti aspetto – disse Alex, annuendo tranquilla.

- Ti giuro, appena mi lasceranno andare mi fionderò a casa tua. O da Javier. A qualsiasi ora – ripeté.

- Mi terrò pronta – sorrise Alex, ma si vedeva benissimo che era già triste, già malinconica.

Il console, esasperato, lo prese per la manica e lo trascinò lontano da lei, verso l’uscita. Alex non li seguì e Bill pensò che preferisse restare ancora un attimo dentro, per non dover prolungare ancora quell’assurdo saluto.

Si sarebbero rivisti, non era così? Per quale motivo entrambi si sentivano oppressi e ansiosi, allora?

- Ci vediamo… - mimò con le labbra Bill dietro al vetro della porta, ormai chiusa. Ma non sapeva dirle quando, non sapeva dirle come. Perché assieme alla sua famiglia stava arrivando anche Bill Kaulitz.

Alex annuì e poi l’orlo di un ombrello nero la nascose alla sua vista. Provò in tutti i modi a cercarla di nuovo con lo sguardo, ma non ci fu nulla da fare.

Qualcuno lo sospinse dentro un auto dai finestrini oscurati, e quando Bill rivolse nuovamente gli occhi al punto dove sperava di rivedere Alex, incontrò solo la pioggia, che scorreva lenta e inesorabile.


****

 

- Allora?! Arriviamo si o no?! – sbraitò Tom, rivolto all’autista. Saki si voltò verso di lui, dal posto passeggero, e lo fulminò con lo sguardo.

- Siamo arrivati – disse lapidario.

- Si, si. Sono venti minuti che siamo arrivati e intanto continuiamo a imbucarci in una strada diversa – si lamentò il ragazzo, stravaccandosi ancora di più sul sedile.

Fuori il cielo era diventato buio, e finalmente la dannata pioggia che li aveva tartassati all’arrivo al JFK aveva smesso di cadere. Nove ore in aereo tra Gustav e Georg avevano reso Tom più irritabile del solito. Ed era tutto dire.

Quando il chitarrista sentì la macchina rallentare, quasi si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Accanto a lui sua madre stava dritta come un fuso con gli occhi fuori dalle orbite e Georg e Gustav stavano dormendo da un pezzo. Dietro il loro van ce n’era un altro, che trasportava David e le sue due segretarie. Tom non aveva mai capito perché gliene occorressero proprio due.

La macchina si fermò accanto ad un marciapiedi, e Saki smontò, per poi andare ad aprire loro la portiera. Scesero tutti in fila indiana, dopo che Tom ebbe svegliato a calci i due amici.

La carovana di strani individui si fermò di fronte ad un edificio molto elegante. C’era un grande portone di legno scuro a proteggere l’entrata, sormontato da un arco sostenuto da due colonne.

- Beh allora? Vogliamo restare qui in contemplazione per molto? – brontolò, facendo un passo avanti. Accanto al portone c’era un gabbiotto antiproiettile, e dentro, appollaiato su di una sedia, un uomo avvizzito li stava osservando, con uno sguardo annoiato. David si fece avanti prontamente, sfoggiando uno dei suoi sorrisi tirati.

- Buonasera. Siamo qui per essere ricevuti dal console – esordì ammiccante. L’uomo non batté ciglio.

- Nome? – chiese, laconico.

- Jost – rispose prontamente il produttore. Il suo interlocutore sbirciò sul computer che aveva davanti e posò nuovamente gli occhi dalle pesanti palpebre su di lui.

- Non è autorizzato – lo liquidò, semplicemente. David si guardò intorno spaesato.

- Come sarebbe a dire che non sono autorizzato?! – esclamò con indignazione. L’altro non si scompose.

- Non è autorizzato. Il suo cognome non compare nella lista – si limitò a dire, guardandolo come si guarda un insetto molesto e piuttosto repellente.

- Ma… ma non è possibile! E’ una cosa inaudita! Il console in persona ha detto che… - iniziò a blaterare David, inalberandosi.

Tom sollevò gli occhi al cielo, preparandosi mentalmente a dover passare la notte sul marciapiedi. Poi qualcuno lo spostò bruscamente di lato. Vide sua madre raggiungere a passo di carica il gabbiotto, i capelli spettinati e il rossetto rovinato. Scansò David e scaraventò minacciosamente la borsetta sul ripiano di fronte all’uomo.

- E il cognome Kaulitz c’è, in quella stramaledetta lista? – ringhiò. L’altro, improvvisamente pieno di vitalità, scrutò di nuovo lo schermo e poi rispose con un cenno del capo.

- Prego, entrate pure – disse, facendo scattare la serratura del portone.

Sua madre puntò in alto il mento in una perfetta imitazione di Bill ed entrò per prima, seguita da David, che era ancora scioccato e tutti gli altri.

Non appena misero piede sul costosissimo tappeto del sontuoso ingresso, una delegazione li assalì. In particolare, un uomo baffuto dalle guance rosse, sembrava particolarmente contento di vederli.

- Eccovi! Eccovi finalmente! Vi aspettavamo – tuonò, assordandoli – Herr Kaulitz è di la. Prego, prego, seguitemi – disse sgambettando come un ossesso davanti a loro.

E fu in quell’istante che, non senza sorpresa, Tom si rese conto quanto Bill gli era mancato.

 

 

****

 

 

Stava giocherellando con una piuma affilata, appoggiata dentro un antico calamaio, quando aveva sentito la porta aprirsi. Probabilmente, se non fosse stato così intento ad indugiare in altri pensieri, avrebbe avvertito il rumore di passi. Molti passi. Più di quanti se ne aspettasse.

Si alzò di scatto, puntando gli occhi sgranati sulla porta. E loro sfilarono davanti a lui. Gli sembrò di cambiare ad un tratto dimensione.

Sua madre, che si era portata le mani alla bocca; suo fratello che sorrideva; Gustav che annuiva, come a dire che sapeva già tutto; Georg, con le braccia incrociate e l’aria di chi si è svegliato da poco; Saki, dal cipiglio furioso, per un attimo gli fece temere che volesse abbassargli le braghe e percuoterlo con un battipanni; David, i capelli perfettamente in ordine come al solito. Era contento di vedere anche lui. Si, contento. Contento di rivedere tutti quanti, in quel mondo che si era costruito lontano da loro, ma di cui avevano continuato a far parte, anche se sotto forma di pensieri e parole vaghe ed accennate.

Momento catartico. E nella sua mente, il vuoto.

- Mio Dio, sei un disastro –

La voce di David lo raggiunse, seguita da sonore sghignazzate da parte dei suoi due amici.

Sua madre non gli diede il tempo di realizzare molto. Vide solo Tom ridere, e capì che andava tutto bene. Poi sentì cinque dita sulla guancia sinistra.

- Come hai potuto? – gli sibilò sua madre in faccia. Un istante dopo lo stava stringendo a se come se avesse a che fare con un bambino di otto anni, e non con un diciannovenne di un metro e ottanta passato. Bill la udì distintamente singhiozzare sulla sua spalla e restituì l’abbraccio con trasporto.

- Mi dispiace – disse soltanto. Poi tutti gli furono addosso. Passò dalle braccia di Georg a quelle di Gustav, poi Saki gli diede una bella stritolata e David gli strinse la mano, guardando con disgusto i suoi capelli. Alla fine arrivò il turno di Tom, e Bill si accorse di non sapere davvero cosa dire. Rimasero per un attimo uno di fronte all’altro, immobili, a scrutarsi, quasi per cercare di capire se erano sempre gli stessi, o se uno dei due era cambiato nel frattempo. Era come guardarsi davvero nello specchio dopo tanto tempo, una sensazione che a Bill era mancata, senza che se ne rendesse conto ovviamente, per tutto quel lunghissimo mese.

Tom si mosse appena verso sinistra e Bill lo imitò, come a tentare di ristabilire un contatto, di ricucirsi la propria ombra addosso senza che nessuno ci facesse troppo caso.

Si avvicinarono, esitanti.

I piercing c’erano ancora, come anche il cappellino, il sopracciglio, la smorfia strafottente.

Solo quando furono certi che tutto fosse al proprio posto, si azzardarono ad abbracciarsi, concedendosi un momento di fraterna tenerezza.

 

- Così sei anche riuscito a farti arrestare… - disse Tom, come esprimendo un pensiero ad alta voce, affacciandosi alla finestra della stanza. A Bill era stato concesso un salvacondotto valido tre giorni per gli Stati Uniti, per ripristinare i suoi documenti avrebbe dovuto attendere di tornare su suolo tedesco. Così tutti avevano optato per una sana dormita in Hotel quella notte, non poteva esserci nulla di meglio per smaltire la stanchezza e il sovraccarico di tensione accumulata in quella stranissima giornata.

Bill si abbandonò sul letto, con un sospiro stanco.

- Non mi hanno arrestato, mi hanno solo interrogato – lo corresse, puntiglioso.

Tom si voltò verso di lui con un ghigno perfido.

- Taci. Sento l’improvviso bisogno di fare un resoconto di questo ultimo mese – disse, ispirato, alzando gli occhi al cielo e congiungendo le mani. Un cuscino lo colpì in viso e lo convinse ad assumere un’espressione più seria.

- Dunque – iniziò, intrecciando le mani dietro la schiena e cominciando a fare su e giù per la stanza.

- Mentre io ero dall’altra parte del mondo a farmi torturare e a permettere a Gustav, Georg e strane cameriere di attentare alla mia vita, tu eri qui. Correggimi se sbaglierò la collocazione temporale degli eventi, anche se mi sono fatto un’idea piuttosto precisa di quello che hai combinato, perciò credo sia difficile che accada. Ti sei fatto pestare e derubare, ti sei fatto ospitare in una casa di cura per tossicodipendenti… -

- Per i bambini dei tossicodipendenti. Dubito fortemente che Zachary sniffi cocaina… Anche se Kevin… forse… - lo interruppe Bill.

- Va bene, va bene. Sia quel che sia, li dentro c’era un bel giro di fogliame. Ti sei fatto convincere a fare da babysitter con risultati disastrosi, ti sei fatto assumere come cameriere con risultati disastrosi, hai fatto il lavapiatti con risultati… - continuò imperterrito Tom.

- Disastrosi, si! Dio come sei monotono – esalò Bill esasperato.

- Nel frattempo hai addirittura trovato il tempo di mettere su un corteggiamento melenso nei confronti di questa donzella dai capelli rossi, che tra l’altro io devo ancora vedere. Devo aggiungere altro? Appropriazione indebita? Furto con scasso? Effrazione? – domandò il gemello, assottigliando gli occhi.

- Smettila di fare il coglione. Ti viene bene, per carità, ma è tardi. E comunque non ho infranto nessuna legge – disse Bill.

- Si, tranne la clandestinità e il lavoro in nero, credo che tu non abbia fatto niente di dannoso. Ma qui abbiamo saltato un punto importante, il più importante di tutti. Il fulcro di questo tuo viaggio, di questa tua ricerca dell’io – declamò Tom, infervorandosi.

- Di cosa stiamo parlando? Ho perso il filo – mugolò Bill, perplesso.

Tom gli si avvicinò, sedendosi sul letto, e prese la sua solita aria da cospiratore.

- Insomma… - disse, guardandosi intorno come se da un momento all’altro qualcuno dovesse sopraggiungere di soppiatto – Questa Alex… - Bill lo incoraggiò a proseguire con uno sguardo – Te la sei fatta? -

Un secondo cuscino colpì Tom sul naso, facendogli sfuggire un’imprecazione.

- Guai a te se farai mostra della tua natura animale, quando sarà il momento – lo avvisò Bill, con l’indice puntato verso di lui, come una zelante maestrina.

- Il momento di cosa? – chiese confuso Tom, sfregandosi il naso.

- Il momento di andare a parlare con Alex – rispose Bill, come se fosse una cosa più che ovvia.

- E quando hai intenzione di fare questa cosa, esattamente? – domandò Tom dolorante.

- Domani. E tu verrai con me – rispose Bill annuendo deciso.

Guai. Guai, guai, guai e guai.

***

Note di Phan: Tatannn! Non vi aspettavate di vedermi oggi, dite la verità! Vi ho sgamate! Ebbene si, ho deciso di accelerare un po' i tempi, spero di riuscirci sul serio. Sono curiosissima di sapere cosa ne pensate dell'incontro tra Tom e Bill. Lo so... vi aspettavate il solito e collaudato fratricidio, ma non ho resistito a piazzare una delle mie scene melense. In quanto a scene melense anche questo capitolo è messo bene. Allucinante, la parte tra Bill ed Alex, vero? Accetto anche la lapidazione, lo sapete che sono disponibile. Diciamo che ehm... avrei un piccolo problema di spostamento, perciò se volete venire a prendermi a sassate mi sa che vi toccherà fare un salto al mare (com'è che si diceva? Unire l'utile al dilettevole mi pare ). Bene, ho delirato a sufficienza. Ringrazio tutti, anche il tizio che è passato in questo istante da sotto il mio balcone, ma soprattutto ringrazio (oggi) Edward Norton (non chiedetemi perchè, mi sono appena svegliata... però lui ha un certo fascino... mi piace insomma oh) e Alexandre Desplat (che voi direte "ma chi è?". E io vi rispondo: è un compositore di colonne sonore. Un genio).

Ah, ma ovviamente, sopra tutti, ringrazio le donzelle che hanno recensito il precedente capitolo. I love you pulzelles. Naturalmente, nessuno toglie un applausino alla mia beta reader, che oggi, mentre io russavo della grossa, era occupata a correggere il mio testo XD.

Un bascio.

 

Lales: Prima della lista con sommo piacere (mio sicuramente, tuo non lo so, ma ci lavoreremo). Ecco si! Delirante! E' una parola che salta fuori sempre quando si ha a che fare con me. Delirante viaggio è perfetto direi. Ah si? Bill ben descritto *_*. Ohhh ma così mi fai sbrodolare tutta!!! Per curiosità, come avevi prospettato Tom? Ora voglio saperlo! No, niente scene tragiche (oddio mi sa che ne ho appena scritta una... ma spero di non sfiorare Via col Vento. Nel qual caso, dici che una sassata da li a qui arriva se la spedisci con la posta prioritaria?). Già, povera Alex, mi sono divertita anche con lei, è così fortunata a non esistere. ...... No, non posso dire che non esiste, altrimenti mi prende l'ansia. Io soffro di attaccamento morboso verso i miei personaggi, convincermi che non siano reali mi provoca scompensi. Mamma propone sempre il controllo psichiatrico, ma io ho troppo da fare. Spero di vederti in questo capitolo ^^. Baciotti otti.

 

Dying Atheist: q_q Si, ci stiamo avvicinando alla fine. Inesorabilmente. A me mancheranno di certo. Mi abbufferò di gelato. Un bacione mia cara. Au Revoir.

 

Vitto_LF: Stringa pure, ma non troppo altrimenti nelle recensioni mi voli direttamente ai saluti! Oh, che bello sapere che il mio Bill ti piace. Sono veramente contenta. Ecco esaudito il tuo desiderio riguardo all'incontro... anche se le dinamiche non sono esattamente quelle che ti sei augurata. Anche tu, armati di sasso se desideri. Un bacione grande mia adorata. (P.S. Io sui miei risultati glisso bellamente ^^)

 

BabyzQueeny: A quanto pare si, Michael ha aiutato Bill. Che abbia un cuore? Non lo so. Vedi, stavolta ho continuato presto ;). Bacio.

 

valux91: Beh si, in effetti Michael un po' stronzo lo è. Lo siamo tutti, ma lui in particolare. Eheheh, mica posso svelarti tutto. Dovrai attendere il prossimo capitolo per la risposta ai quesiti che hai posto. Un bacio.

 

Paaola: Noooo! Nooo! In Mexico senza di me!!! Come puoi farmi questo?! Odddio, e non ti ho nemmeno salutato a dovere mia panzerotta q_q. Grazie ancora. Un bacione grande. (Mi sa tanto che questa risposta la leggerai il sette luglio ^^'''')

 

missmar23: Eccoti! Puntualissima come sempre. Visto? Questa volta ho aggiornato prima ^^. Il finale che hai descritto mi ha fatto venir voglia di scrivere un'altra fan fiction e terminarla nei modi che hai elencato. Ti ringrazio, mi hai fatta sghignazzare. Complimenti per la fantasia. Ti amo tanto anche io mia cara! A presto.

 

L_Fy: Si... aria di fine. E si, Bill torna a casa. Anche se ce lo metterei volentieri a gorgheggiare Don't Jump tra un piatto e l'altro, nonostante io avrei preferiti farlo ululare con YMCA, magari con un bel coretto di Domenico e Carlos. Già, Alex sempre e comunque bastonata, poveretta. Ti rimando alla parte delirante riguardante i miei personaggi nella risposta a Lales. Ho passato a Tom la comunicazione, dice che se respiri passa da te alle otto di domani sera. Va bene? A presto cara!

 

avuzza: Tormentati, tormentati XD. Ahahah come sono cattiva. Scusami cara, ogni tanto mi prende l'attimo del pazzo. Tutte belle domande. Ad una ho risposto in questo capitolo, all'altra risponderò nel prossimo. Postato presto ^^. Nemmeno io so esattamente quanti capitoli saranno. Quelli che occorrono credo. A plesto (Li mi ha lasciata confusa riguardo alle varie pronunce).

 

EtErNaL_DrEaMEr: Il fogliame è stato usato anche in questo capitolo, con l'amputazione dell'aggettivo "simpatico". Di questo passo dovrò pagarti sul serio. Bene, il tuo "per tutti i numi" direi che va a nozze con il mio "in men che non si dica". Insieme sembriamo uscite da un libro di Jane Austen. Hai visto mica passare il signor Darcy? Siete tutte curiose curiose curiose insomma ^^. Mi fa piacere. Eh si, purtroppo prometto sugli anfibi di Heidi q_q. Mi viene da piangere. Prima di sprofondare in una valle di lacrime ti saluto. Baciozzi ozzi ozzi.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Bentornato, Bill Kaulitz ***


Bill Kaulitz era molto nervoso. Molto, molto nervoso. Gli succedeva sempre, quando le cose non andavano come desiderava.

Quella mattina, David aveva esordito con una delle sue brillanti idee, a colazione, proprio mentre lui e Tom stavano discutendo sull’ora in cui sarebbero andati a trovare Alex. Le parole “conferenza stampa promozionale” avevano scosso talmente Bill che aveva puntato il gomito nel piattino del burro senza rendersene conto.

A nulla erano valse le proteste, le rimostranze. Niente da fare. David era già pronto, con i suoi immancabili occhiali da sole e il palmare in mano, intento a contattare metà studi televisivi di New York e rappresentanti della Universal America. L’unica cosa che l’aveva convinto ad accettare era stata la promessa che la conferenza stampa sarebbe durata appena un’ora, un’ora e trenta al massimo, e si sarebbero limitati a rispondere a qualche domanda e a presentarsi ufficialmente al mondo musicale statunitense, in vista della vera e propria campagna pubblicitaria che sarebbe iniziata nel mese di settembre. La cosa lo infastidiva già di per se, senza contare il forte dubbio che nutriva nei confronti di quell’improvviso cambio di programma. La sua opinione, stranamente condivisa da Tom, era che David avesse organizzato la cosa non appena la notizia del suo ritrovamento gli era giunta alle orecchie. Era piuttosto strano il fatto che dal nulla fossero comparse due stylist complete di chewingum scoppiettante, borsoni di vernice nera e perfetti caschetti biondi. Senza quasi avere il tempo di sbattere le ciglia Bill si era ritrovato sotto le mani curate delle due tizie, che lo avevano torturato per un’ora buona, tirandogli i capelli, aggiungendo, tagliando, truccando. Infine gli era stato intimato di indossare i vestiti preparati nella sua suite entro cinque minuti e di presentarsi nella hall dell’hotel assieme agli altri.

Bentornati Tokio Hotel, in sintesi.

Bill si guardò ancora una volta allo specchio, sbuffando di impazienza, o impotenza, forse. I capelli avevano assunto la consueta forma, un po’ da scoppio di petardo, un po’ da drag queen. Il suo viso era nascosto abilmente sotto uno spesso strato di fondotinta “nature” e gli occhi erano coperti dall’ombretto nero. Il neo sotto il labbro era miracolosamente scomparso, così come le sue unghie corte e rosa, sostituite dalla classica french manicure bianca e nera. Indossava una maglietta bianca, con un disegno gotico sul petto, e un paio di jeans aderenti, tenuti fermi ad altezza inguinale da una bella cintura di pelle e borchie. Il giubbotto di pelle consumata non lo avrebbe coperto a sufficienza, una volta fuori, e Bill già rimpiangeva il deforme giaccone che gli aveva rifilato Joanne diverso tempo prima. Fece appena un passo avanti, percependo l’odore del fondotinta anche a quel minimo movimento. I tacchi degli stivali risuonarono sul parquet della stanza da letto.

Si rimirò per un altro minuto buono, in totale silenzio, squadrandosi da un lato e dall’altro. Con un’occhiata malinconica si arrese all’evidenza: del Bill riflesso in una vetrina non era rimasto nulla. Gli occhi forse. Solo quelli.

Qualcuno bussò forte alla sua porta, facendolo sobbalzare.

- Bill, muoviti. Sono tutti pronti – disse la voce di Tom, arrivandogli attutita dalla superficie liscia e scura.

Lanciò un ultimo sguardo allo specchio e sospirò.

Bentornato, Bill Kaulitz.

 

La conferenza stampa fu noiosa come tutte le conferenze stampa a cui Bill aveva partecipato, con l’aggravante che mentre i giornalisti li tempestavano di domande, lui pensava a tutt’altro, e gli era già capitato un paio di volte di rispondere con frasi sconnesse che non avevano nessuna pertinenza con il discorso. Il trucco gli pizzicava la faccia, proprio come succedeva nei primi tempi in cui aveva cominciato ad usarlo, e una delle stylist era in agguato in fondo alla sala, pronta ad azzannarlo se solo si fosse azzardato a toccarsi la pelle (con il rischio di affondare nel fondotinta e cementarsi un indice). Quando l’ora e mezza fu passata e David non diede segno di voler interrompere la conferenza, Bill si guardò intorno scocciato. Tom e Georg avevano fatto a pezzi dei fazzoletti e si lanciavano palline bianche da sotto il tavolo, mentre Gustav stava tamburellando le dita con uno sguardo assente. Se fosse intervenuto nessuno dei tre avrebbe avuto obiezioni. Si voltò verso la sua sinistra, dove era seduto David, che aveva monopolizzato il suo microfono e lo costringeva a rispondere ogni cinque minuti. Afferrò l’aggeggio approfittando di una pausa del produttore e si chinò in avanti, sfarfallando le ciglia sulla sala.

- Bene, gentili signori, credo che sia ora di tornare tutti quanti alle nostre occupazioni. Voi avrete degli articoli da scrivere, noi dobbiamo organizzarci per la partenza di domani e siamo molto stanchi. Speriamo di incontrarvi di nuovo a settembre, quando torneremo in America per la promozione dei nostri album. Non mancate! Grazie a tutti – disse, in perfetto inglese. Poi si alzò ed abbandonò la sala, lasciando un David in preda ad un attacco apoplettico ancorato alla sedia e Gustav, Tom e Georg ad interrogare la traduttrice su ciò che aveva appena detto il loro vocalist, scomparso misteriosamente dietro una porta di servizio.

 

Bill alzò gli occhi al cielo, spazientito.

- Almeno puoi fermarti qui. Vorrei evitare di fare la figura del deficiente proprio fino alla fine – sbottò, andando quasi a sbattere con il naso contro il largo petto di Saki. L’uomo abbassò gli occhi su di lui ed alzò le sopracciglia, esibendo un’espressione eloquente. Bill si morse le guance per evitare di imprecare a voce alta nel pianerottolo. Sentiva che una crisi di nervi era vicina, molto vicina, e quello era il momento meno opportuno per averne una. La porta che distava pochi centimetri dalla punta del suo stivale era quella della casa di Joanne.

Appena la conferenza stampa era finita, e gli altri lo avevano raggiunto nella sala privata dell’albergo dove l’avevano tenuta, Bill aveva dichiarato tranquillamente di “voler andare a trovare un’amica”. A quella affermazione l’unica persona che non l’aveva guardato come se fosse completamente folle era stato suo fratello, che si era limitato ad annuire con un mezzo sorriso. Gustav e Georg avevano puntato gli occhi da lui a David e viceversa, in un silenzio che sapeva tanto di quiete prima della tempesta. Saki si era riportato gli occhiali sulla punta del naso con un gesto stizzito, che faceva sempre quando secondo il suo parere c’erano guai in vista. David aveva tratto un respiro rantolante da malato terminale e poi aveva dilatato le narici nella perfetta imitazione di un cane rabbioso. Bill si era preparato alla sfuriata incrociando le braccia ed alzando un sopracciglio a mo’ di sfida. Ciò che David aveva detto, anzi, ciò che David aveva sbraitato, fregandosene bellamente del fatto che la porta della sala privata fosse aperta, per Bill non aveva nessuna importanza. Ascoltarlo, comunque, era fuori discussione, perché in ogni caso quello che avrebbe sentito sarebbero state soltanto ammonizioni, minacce e imprecazioni di vario genere. Sapeva già cosa gli avrebbe detto David, perché conosceva da troppo tempo il loro produttore. Ma ormai aveva deciso, e David non avrebbe potuto farci niente. Aveva fatto finta di seguire il suo discorso fin quando si era reso conto che il tempo stava passando, ed anche velocemente. Esattamente un istante dopo che dalla sua bocca furono uscite le parole “Se non mi lasci andare non torno in Germania”, David si era interrotto. Non era stato l’avviso in se ad aver allarmato il produttore, ed anche tutti gli altri presenti nella stanza, ma il tono che Bill aveva usato. Un tono che non aveva nulla a che vedere con quello isterico, nervoso e lamentoso delle solite minacce di Bill. Gelido, fermo, deciso. A tutti fu chiaro nello stesso attimo che il leader dei Tokio Hotel aveva detto sul serio. Non era una vuota minaccia. Dopo un paio di brontolii, utilizzati abilmente per nascondere il timore, David aveva acconsentito, pattuendo però che Saki sarebbe andato con lui. Convincerlo a portare anche Tom non si era rivelato troppo difficile. Tutti e tre, in taxi, erano partiti dall’hotel nemmeno dieci minuti dopo, e, una volta che Bill ebbe indicato all’autista il nome della via che desideravano raggiungere, il resto del tragitto era trascorso tranquillamente. Ognuno dei passeggeri aveva i propri pensieri di cui curarsi. Una volta trovato il portone della casa di Joanne, Bill aveva sperato che Saki li lasciasse proseguire da soli, invece il bodyguard era stato irremovibile. Ma presentarsi da Alex con un armadio a sei ante al fianco, il fratello bianco di Bob Marley vestito da Eminem che gli reggeva il moccolo, e lui truccato come Boy George, era davvero troppo.

- Dai, Saki. Se senti qualcuno urlare o scoppia una sparatoria, sei autorizzato a buttare giù la porta. Ma noi prevediamo solo di scambiare qualche parola – disse Tom, ad un’occhiataccia di Bill.

L’uomo si tolse gli occhiali e li pulì sulla maglietta. Aveva la faccia stanca.

- Va bene, vi aspetterò giù – capitolò.

Tom sorrise e Bill tirò un sospiro di sollievo.

Quando Saki ebbe trascinato la sua consistente mole giù per le scale, i due gemelli puntarono lo sguardo sulla porta chiusa. Calò un silenzio denso e pesante.

- Ehm… forse se suonassi… - suggerì Tom schiarendosi la voce.

Bill non diede segno di aver sentito. Continuò a masticare l’interno delle guance, in preda ad uno strano terrore che gli gelava gli organi interni. Alla fine, esitando, si voltò verso il fratello.

- Si vede che sono Bill? – gli chiese.

Tom alzò le sopracciglia e roteò gli occhi.

- Cominci con le domande criptiche? No eh, non mi pare davvero il momento – brontolò. Quando però vide che Bill continuava a guardarlo come se per lui la risposta fosse molto importante, parve impegnarsi per trovare una replica adeguata.

- Dipende quale Bill – disse alla fine. Forse non era la risposta più diplomatica, ma era di sicuro la più sincera. Bill annuì, come se sapesse già ciò che Tom gli avrebbe detto.

Ingoiò a vuoto ed allungò il dito verso il campanello consumato. Il fratello gli diede una pacca sulla spalla, incoraggiandolo.

E se tutto fosse cambiato? Come aveva potuto pensare che ciò che era non fosse importante? Come aveva potuto pensare che Alex lo avrebbe accettato anche così?

Il trillo del campanello riecheggiò nel pianerottolo silenzioso, soffocando tutte le sue domande. Fece un passo indietro, Tom ancora al suo fianco, l’unico punto sicuro che aveva a disposizione. Si tranquillizzò un po’, pensando che non sarebbe stato da solo, quando avrebbe raccontato la verità.

Poi la porta si aprì.

 

- Charlie abbassa un po’, per carità – disse Alex, intenta a raccogliere con un cucchiaino lo yogurt ai mirtilli spalmato sul mento di Zachary. La ragazzina la ignorò completamente, continuando a tenere gli occhi fissi sullo schermo, apparentemente rapita dal video musicale che stavano trasmettendo su MTV. Alex scosse il capo ed imboccò di nuovo Zachary, che sedeva tranquillo sulle sue ginocchia, ignaro di tutto. Lo invidiava, sotto alcuni punti di vista. Alle sue spalle sentì Kevin gorgogliare con la bocca, e poco dopo il bambino spuntò alla sua sinistra, tenendo in alto un aeroplano di plastica. Nemmeno lui sembrava aver capito quello che era successo. Samuel, in quel momento seduto sul divano assieme a Charlie, aveva di sicuro compreso tutto, ma non dava segni di reazione. Quella ad averla presa peggio era stata Charlie. Alex sapeva che la ragazzina era particolarmente affezionata a Michael. Lo ammirava come un eroe, per motivi che a lei sfuggivano. Supponeva si trattasse di un bisogno psicologico, Michael era l’unico “uomo” in casa e questo l’aveva forse indotta a cercare un punto di riferimento in lui. Alex sospettava che con il tempo quella ricerca si fosse tramutata in coinvolgimento sentimentale, ma non ne aveva mai parlato con nessuno, anche se a suo parere i segnali per capirlo erano diversi. Il modo in cui la ragazzina difendeva a spada tratta Michael, anche quando aveva oggettivamente torto, il modo in cui reagiva quando Michael ne combinava una delle sue, il modo in cui lo guardava e gli parlava. In passato le era capitato di sorprenderla ad osservarli stizzita, mentre loro due scherzavano. Ma in casa sembrava che nessun altro, a parte lei, si fosse accorto della cosa, e l’ultima intenzione di Alex era parlarne con la diretta interessata. Charlie non avrebbe ammesso nulla e si sarebbe chiusa ancora di più. Le dispiaceva non poterla confortare nel modo in cui aveva bisogno. Alla notizia che Michael era stato arrestato, la ragazzina si era ritirata in un ostinato silenzio che durava ormai da un giorno intero.

Alex sospirò, cercando di convincersi che prima o poi le cose si sarebbero sistemate definitivamente. Diede un altro cucchiaino di yogurt a Zachary, la mente persa altrove. Bill le aveva detto che sarebbe andato a trovarla, ma non aveva più ricevuto sue notizie da quando era stato portato all’Ambasciata. Aveva deliberatamente ignorato il senso di vuoto che l’aveva pervasa in quel lasso di tempo, e continuava ad impegnarsi per non riconoscerlo e chiamarlo con il suo nome. Ma era così difficile… E se non fosse più tornato? Se gli fosse successo qualcosa, o semplicemente se si fosse dimenticato di lei? No, non riusciva nemmeno a contemplare quella possibilità, eppure poteva essere concreta. Il solo pensarci la faceva sentire male.

Fece scivolare a terra Zachary e raccolse il barattolo vuoto, avvicinandosi al ripiano della cucina con le spalle curve. Si sentiva molto più vecchia di ciò che era e la testa le doleva penosamente. Abbandonò tutto nel lavandino e si accasciò su una sedia, socchiudendo gli occhi.

- Ma guarda questi… - ridacchiò Charlie senza allegria, rivolta al televisore. Alex sollevò stancamente le palpebre e posò lo sguardo sullo schermo, dove stavano trasmettendo quelli che sembravano gli spezzoni di un’intervista. Ad un lungo tavolo erano seduti degli individui dall’aspetto curioso. A dire il vero, ce n’erano un paio anonimi, ma altri due erano veramente singolari, uno in particolare. Il tizio in questione aveva un enorme massa di capelli corvini sparati in tutte le direzioni, che gli circondavano la testa come la criniera di un leone. Gesticolava in un modo strano, che gli ricordò qualcosa, rievocando in qualche angolo della sua mente delle immagini confuse. Gli occhi truccati pesantemente di nero percorrevano la sala in un modo piuttosto nervoso. Sembrava essere vestito come una specie di rockstar glam. Accanto a lui, alla sua destra, sedeva un ragazzo con un cappellino e lunghe dreadlocks bionde, che gli cadevano sulle spalle.

- Tokio Hotel… Patetico – sentenziò acidamente Charlie, incrociando le braccia. Anche Zachary si fermò davanti allo schermo, ad ammirare quelli che ai suoi occhi dovevano probabilmente sembrare animali da circo. Il bambino infatti sollevò un dito indicando il tipo dai capelli sparati e scoppiò a ridere, trascinando dietro di se anche Samuel. Alex sorrise guardandoli. Quando poi la risata si calmò, il bimbo si voltò verso di lei, mostrandole i dentini piccoli e bianchi.

- Ill – gorgogliò.

Alex e Charlie si guardarono, senza riuscire a comprendere cosa volesse dire Zachary.

- Ill – ripeté lui, molleggiando sulle gambette e continuando ad indicare lo schermo.

In quel momento il campanello suonò. Alex si sollevò a fatica, pensando che probabilmente doveva essere Joanne, di ritorno dalla spesa.

Aprì la porta.

Per un attimo le parve di non aver scostato affatto lo sguardo dal monitor.

Poi di avere un’allucinazione.

Poi che coloro che cinque secondi prima stavano tranquillamente seduti dentro allo schermo, fossero usciti.

Poi di nuovo di avere un’allucinazione.

Poi Zachary sbucò tra le sue gambe e puntò un dito contro quello strano ragazzo dai capelli allucinanti, ridendo come un pazzo.

- Ill – disse, cacciando un urletto.

Alex incrociò gli occhi del tale. Il suo viso si distese in un sorriso incerto, timido… inconfondibile. All’improvviso i versetti di Zachary presero forma nella sua mente, collegandosi in un modo più che inaspettato.

- Bill – riuscì finalmente a gorgogliare il bambino.

Lui sorrise all’indirizzo del pargolo e poi sollevò nuovamente lo sguardo su di lei.

- Dobbiamo parlare –

 

Nemmeno in uno dei suoi sogni più assurdi Bill avrebbe potuto immaginare la scena che in quel momento gli si parava davanti agli occhi. Tom era seduto accanto a lui, occupato a tenere Kevin lontano dal suo cappello, visto che né Alex né Charlie sembrava avessero intenzione di controllare il bambino. Zachary si era arrampicato sulla sua gamba, e in quell’esatto istante gli stava sbavando sulla maglietta. Charlie continuava a guardare dalla televisione a loro due, nonostante ormai lo schermo fosse spento, con l’espressione di chi si chiede dove si trova. Samuel sembrava non aver ancora compreso bene la situazione, e lanciava occhiate interrogative ai suoi capelli. Alex era seduta all’altro capo del tavolo, più pallida del solito e con lo sguardo totalmente perso. Bill ne ebbe quasi pena. La responsabilità di tutta quella confusione era unicamente sua, e solo in quegli attimi cominciò a realizzare la mole di cose da spiegare. Troppe, davvero troppe. Ma prima o poi avrebbe dovuto farlo.

Sistemò meglio Zachary sulle ginocchia e pensò che quel bambino era davvero fortunato a non essere personalmente coinvolto in tutto quel casino.

Alzò gli occhi su Alex, sperando che lei riuscisse ancora a riconoscerlo, sotto quella maschera. Prese un profondo respiro, e cominciò.

Raccontò tutto con un tono monocorde, impegnandosi per sostenere lo sguardo di Alex, che si faceva più imperscrutabile ogni minuto. Non era per nulla semplice. Sembrava che la ragazza non lo ascoltasse. La sua espressione non cambiò per tutta la durata del monologo. Non intervenne nelle pause, non mostrò di essere arrabbiata o stupita. Sembrava di parlare con una statua di pietra. Solo la presenza di Tom lo aiutò a continuare, e gli diede anche la forza per concludere il discorso.

- Mi dispiace di averti mentito… ma non potevo dirti la verità. Lo capisci, no? Non sapevo che persona fossi, quando ti ho incontrata. Non sapevo se avresti sfruttato la verità a tuo vantaggio… - Bill abbassò gli occhi a mo’ di scusa, anche se non pronunciò mai quella parola – Hai… hai qualcosa da chiedermi? – aggiunse poi. Di nuovo Alex non si mosse e non rispose, si limitò a guardarlo, laconica.

Bill prese un altro respiro e si preparò a fare la proposta che avrebbe cambiato… tutto? Niente? Qualcosa?

Dipendeva tutto dalla risposta.

- Bene. Visto che non hai nulla da chiedermi – si schiarì la voce – voglio farti io una domanda – sollevò deciso il volto – Domani mattina partiremo, dal JFK di New York. Il volo è alle dieci. Volevo chiederti di venire con me. Puoi fermarti per una settimana, magari, e darmi la possibilità di restituirti tutti i favori che mi hai fatto – terminò, con un sorriso incerto.

Per un paio di secondi Alex rimase immobile, poi sembrò capire di botto tutto quello che Bill gli aveva raccontato nel quarto d’ora precedente. Rispose al suo sorriso con uno amaro, che fece gelare inconsapevolmente il sangue nelle vene al ragazzo.

- Restituirmi tutti i favori che ti ho fatto… - ripeté, come parlando con se stessa. Poi piantò gli occhi verdi sul suo volto e lo osservò, come cercando di trovarci qualcosa che non c’era.

- No – disse poi, fredda. Bill fu preso per un istante alla sprovvista. Certo, si era aspettato che Alex facesse delle resistenze, vista la situazione, ma non pensava che l’avrebbe liquidato in quel modo. E poi la sua espressione continuava a fargli paura, una paura sottile, infilata sottopelle. Una sensazione diffusa di disagio, inadeguatezza.

- Solo per una settimana – disse. Di nuovo Alex lo guardò, come se fosse uno stupido. Si alzò lentamente, e Bill avrebbe preferito che rimanesse seduta. Stava dritta come un fuso ed era pallidissima. Pallida come il giorno del litigio con Michael.

- Non voglio venire con te, Bill Kaulitz – sibilò il suo nome come se fosse qualcosa di immensamente sconveniente da pronunciare – io non ti conosco – aggiunse poi. Bill avvertì Tom voltarsi verso di lui. Avevano parlato anche di quello, la sera prima. Il suo gemello lo aveva avvertito che Alex avrebbe potuto reagire così. Sarebbe stato più che normale. Ma Bill l’aveva vista sempre così gentile, incline a perdonare tutto e tutti.

- Si che mi conosci, sono sempre Bill. Non è cambiato niente – disse, ascoltando la sua voce da molto, molto lontano.

- No, non so chi sei. Non so quante bugie mi hai raccontato su di te, tutto il tempo che siamo stati insieme. Io… - Alex sembrò vacillare per un istante sotto il suo sguardo, poi puntò gli occhi in basso e si avvicinò a lui. Bill sentì distintamente il suo profumo, mentre si chinava per prendere in braccio Zachary dalle sue ginocchia. Il bambino si lamentò un po’, tendendo le due manine paffute verso di lui. Bill gli rivolse un sorriso malinconico e si alzò. Certo, non era il momento più adatto per dichiarazioni d’amore o cose del genere, ma forse Alex avrebbe capito comunque cosa voleva dirle.

- Non ti ho raccontato delle bugie. Ho solo omesso una parte della verità. Non aveva importanza, qui. Tutto ciò che ti ho detto su di me, è vero. Non ti ho mai mentito – disse a bassa voce. Alex evase ancora dal suo sguardo, con la scusa di sistemare la magliettina a Zachary. Una donna adulta che si proteggeva utilizzando un bambino. Gli fece una tenerezza immensa.

Poi Alex sollevò di nuovo gli occhi su di lui. Fu come ricevere un pugno allo stomaco. Erano pieni di lacrime, liquidi, anche se nessuna goccia le attraversava le guance.

- Tu mi hai illusa, Bill. Non si tratta di semplici bugie. Mi hai illusa di aver trovato finalmente la persona di cui avevo bisogno. Mi hai fatto credere che ci saresti stato sempre, per me. Mi hai fatto tornare un’adolescente stupida e ingenua, e forse dovrei ringraziarti per questo – la ragazza sorrise appena, stringendo un po’ di più Zachary a se – Invece non è così. Ora sei qui, a sventolarmi in faccia vestiti che costano come il mio stipendio di due mesi, truccato, acconciato come un divo, e ti ostini davvero a credere che ai miei occhi tu possa sembrare sempre lo stesso? Non sei lo stesso. Non lo sei fuori, e non lo sei nemmeno dentro – Alex scosse la testa, ma non abbassò lo sguardo, nonostante un paio di lacrime le stessero colando lungo il viso – Ti ho visto in televisione, e io quel Bill non lo conosco, con tutti quei sorrisi… orribili. Hai ricominciato a sorridere come sorridevi quando sei arrivato. Davvero, Bill, non posso venire con te, non concluderei nulla. Forse riuscirei ad illudermi ancora di più, e non ne ho bisogno. Sei riuscito a farmi innamorare di te, e oggi vieni a dirmi che domani te ne andrai. Non credi basti questo? –

Bill rimase immobile. Non sentiva nemmeno più il cuore battere. Tutt’un tratto l’ipotesi di poter portare Alex con lui si era trasformata in un addio. E lui non era pronto. Da qualche parte, nella sua mente, era sempre stato convinto che Alex avrebbe accettato, seppure con qualche riserva, di seguirlo. Che stupido… che grandissimo idiota…

- Scusami… io… io non volevo. Ma non è così. Io sono sempre… - tentò di replicare. Alex alzò una mano.

- Ti prego, Bill. Non dire nient’altro. Vai via – mormorò.

- Ma Alex… - tentò di avvicinarsi a lei, ma la ragazza indietreggiò con un passo veloce, quasi fosse terrorizzata.

- No! – esclamò, circondando Zachary con le braccia – Ti scongiuro, vattene adesso. Non voglio stare qui a guardarti un attimo di più. Devi scomparire – aggiunse. E nel suo viso non c’era rabbia, rancore, ma solo paura. Una paura che Bill non comprese e che lo trafisse.

Calò il silenzio, e Tom gli circondò il braccio con una mano, tirandolo verso di se.

- Andiamo Bill – sussurrò soltanto, guidandolo verso la porta.

Tutti gli sguardi, erano puntati su di lui. Quello torvo di Charlie, che si era alzata in piedi e si era avvicinata ad Alex con fare protettivo. Samuel lo scrutava con gli occhi scuri, incolpandolo silenziosamente. Kevin continuava a puntare i grandi fari nocciola da lui ad Alex, senza riuscire ad afferrare cosa stesse succedendo. Zachary teneva ancora una manina tesa verso di lui.

La porta si chiuse davanti al suo naso, con un click sommesso che vergò l’inattesa parola “fine”, beffandosi della sua espressione stordita.

 

 

***

 

Note di Phan: No, non è il capitolo finale. No, non è il penultimo capitolo. E voi direte: per quanto la tirerai in lungo? Beh, fin quando non vi avrò raccontato tutto, ma proprio tutto, non vi mollerò, perciò rassegnatevi. Mancano quasi sicuramente tre capitoli, ad ogni modo. Dopo una lunga gestazione finalmente sono riuscita a partorire questo. Perdonate eventuali errori sfuggiti all'occhio vigile della mia amatissima beta reader (<3 ti amo donna). Ringrazio tutte le menti che apprezzano questo mio delirio e che continuano a leggermi. Sono contenta che siate in 47 ad avere questa storia nei preferiti ^^. Però se vi sforzaste almeno di lasciare un commentino... q_q. Confido che almeno all'epilogo mi farete sapere cosa ne pensate di questa storia.

Ora corro a ringraziare le gentili donzelle che hanno lasciato una recensione al capitolo precedente. I love youuuu.

 

Lales: Noo, piangere?! Non ci credo! Si, Alex se lo merita... o forse no? Mah. Grazie, contentissima che ti sia piaciuto! In effetti Tom è uscito un po' troppo intelligente... forse ci andava un bel OOC nelle note XD. Besitos.

valux91: Tu! Mia cara, sempre puntuale, non manchi mai. Uh, hai capito te, la settimanina in Francia, addirittura. Spero tu ti sia divertita! Adoro la Francia. Ogni volta che ci torno mi vien voglia di rivederla di nuovo e di nuovo e di nuovo. Basi.

EtErNaL_DrEaMEr: Darcy (<3) io amo quell'uomo. Ohhh Darcy. Beh, finiamola. Si, forse Michael ha capito. Lo rivedremo ancora, comunque. Ahah, si era solo la tristezza del momento, tranquilla! Bacione grande e grazie.

BabyzQueeny: ^^ Grazie cara! Baci.

Dying Atheist: ^^ Grazie, così mi fai arrossire *-*. Eheh, mi sa mi sa, altrimenti vado in astinenza. Baciottoli.

L_Fy: Buahahah XD. Oh, stupenda e celestiale visione quella che hai descritto. In realtà anche io preferisco Tom... non lo so, ha quel non so che di intrinsecamente demente che mi attira. XD Ti spiegherò poi come mi vengono. Au revoir!

Paaola: Beh? E come stai? Ti diverti? *_*. Confido di si. Grazie mia cara, anche in vacanza mi leggi *_*. Io ti amo! Bacini.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Verrai con me? ***


Una notte insonne, trascorsa con quelle ultime parole ancora nella mente.

Avevano continuato a scorrere senza freno di fronte ai suoi occhi chiusi, nel buio, luminose, incandescenti.

“Io sono sempre… “

Sempre cosa? Cos’era “sempre”? Non c’era stato il tempo di spiegarlo, o anche solo di provarci.

“Alex”… Sembrava che non se ne fosse andato, che fosse ancora li, chino su di lei, intento a sussurrarle il suo nome nell’orecchio. Ma se avesse teso la mano nell’oscurità non avrebbe toccato altro che il nulla.

Le lenzuola le sembravano ancora troppo fredde, come se il suo corpo non emanasse il calore necessario a creare quel piacevole tepore che la faceva sentire sempre al sicuro. Tutto giaceva immobile, immutato. I soprammobili al loro posto, il libro posato sul comodino, i dischi che luccicavano alla poca luce che filtrava dai buchi nella persiana. Le faceva male agli occhi, tutta quella tranquillità, per questo aveva deciso di chiuderli e non riaprirli, in nessun caso. Non li aveva aperti nemmeno quando Joanne era entrata nella sua stanza e l’aveva sentita sedersi sul suo letto.

 

- Sei sicura di star bene qui? –     

- Si –

- Non posso credere che tu mi dica la verità –

- Ma è così –

- No, non penso. La tua bocca dice una cosa, i tuoi occhi ne dicono un’altra, anche chiusi, Alex –

- Non parlarmi con quel tono, non sono una bambina –

- Eppure ti comporti come tale. Perché non vuoi ammettere che sei sofferente, che non stai bene? –

- Io sto bene –

- Continuare a ripeterlo non ti servirà a nulla. Tutti possiamo permetterci la debolezza di essere infelici –

- Io non sono infelice. Ho tanti motivi per non esserlo –

- Ma ne hai anche molti per esserlo, soprattutto in questo momento. Charlie mi ha detto tutto –

- Non è un problema. Starò meglio domattina –

- Non è vero, e lo sai meglio di me. Perché ti ostini ad ostentare freddezza quando in realtà stai più male di chiunque altro? Ti consumerai prima o poi. E’ questo che vuoi? Passare la vita a soffrire sola con te stessa? –

- E’ il modo migliore di soffrire. Non voglio nessuno accanto a me –

- Perché? Perché, Alex? –

- Perché siamo esseri umani, e gli esseri umani hanno limiti. Possono amarti, possono provare affetto per te, ma prima o poi ti deluderanno, ti spezzeranno il cuore, e allora avrà ben poca importanza pensare al bene che ti hanno voluto, ai momenti felici. Quando arriva il dolore siamo sempre soli. Tanto vale godersi questa condizione –

- Spero che un giorno tu possa pensarla in modo diverso. A volte sembri molto più vecchia di me –

- Oh, ma non lo sono. Se davvero lo fossi avrei anche quella saggezza che mi permetterebbe di non sperare, di non credere più. Io invece continuo ad illudermi e a cadere nelle stesse trappole –

- Quel ragazzo prova qualcosa per te… è innegabile. Basta guardarlo. Che importanza ha chi realmente sia? Se il suo sentimento è vero, tangibile, perché devi preoccuparti del resto? Non è soltanto un contorno inutile? –

- La penserei così se fossi romantica… ma non lo sono –

- Di nuovo non ti credo… Penso che tu voglia convincerti di non esserlo, per non soffrire più. Ma te lo dico da ora, bambina mia. Per non soffrire mai più dovresti diventare arida, priva di qualunque emozione. E’ questo che vuoi diventare? Per tutto paghiamo un prezzo –

- Vorrei non pagarne più –

- Se potessi, ti accontenterei. Ma non ho ancora scoperto un modo per riuscirci –

- Quando lo scoprirai, sai dove trovarmi –

- E tu sai dove trovare me. Buonanotte, Alex –

- Ti voglio bene, Joanne –

 

Il fuoco nel petto si era acceso poco dopo, quando quelle frasi avevano cominciato a mischiarsi nella sua mente, assieme ad immagini nitide, colorate. Assieme agli odori, ai sapori.

 

Troppo magro, troppo alto per un lettino piccolo come quello di Samuel, troppo pallido, troppo impaurito.

 

La sensazione di violare i pensieri di quel ragazzo, guardandolo negli occhi. Quell’accento ridicolo, l’improvvisa simpatia che aveva provato nei suoi confronti.

 

Minuti passati ad osservarlo di nascosto, cercando di comprendere cosa possedesse in più rispetto agli altri.

 

L’incertezza, il piacere di lasciarsi andare.

 

Un bacio. La paura. La felicità, densa, solida.

 

 

Si può credere una volta in più?

 

***

 

I tavolini erano pieni di graffi e ammaccature. Traballavano, come le sedie. La luce al neon era  accesa, nonostante fosse mattina. Ma il cielo restava grigio, coperto da nuvole gravide di pioggia.

Turno di visita straordinario, prima che tutti gli arrestati venissero trasferiti nel carcere fuori città. Pietà per mogli e fidanzate prive di mezzi e oberate dal lavoro. Uomini dediti allo spaccio in piccola scala, perlopiù persone che non avevano idea di come arrivare alla fine del mese o che avevano iniziato troppo presto a fare uso di stupefacenti. Sfilavano tutti di fronte ai tavolini, ammanettati, scortati, anche se a giudicare dall’andatura strascicata e le spalle curve nessuno di loro pensava nemmeno lontanamente alla fuga. Espressioni pentite, addolorate. Richieste mute di perdono.

Matthew Anderson aveva assistito ad una moltitudine di scene come quella. Si ripetevano nella sua mente sempre con gli stessi colori, gli stessi odori, le stesse parole che si riuscivano ad afferrare nel brusio. Ma nonostante ormai la sorveglianza ai colloqui fosse routine, almeno fin quando ai piani alti non si fossero decisi a dargli una meritata promozione, era sempre un sollievo percepire le differenze tra lui e gli uomini ammanettati seduti di fronte a coloro che li amavano. Sua moglie non avrebbe mai dovuto sopportare il dolore e l’umiliazione di avere un marito del genere.

Passò una mano sul cranio rasato e strizzò un paio di volte gli occhi, tentando di svegliarsi del tutto. Il turno di notte era stato protratto fino alle nove di quella mattina e grazie a Dio mancava soltanto mezz’ora al termine di quella tortura.

Percorse con gli occhi la saletta e la sua attenzione fu catturata da una ragazza molto vicina a lui. Era seduta all’ultimo tavolo, le mani posate in grembo e la schiena dritta. I capelli di un rosso scuro la facevano apparire ancora più pallida di quello che già doveva essere. Attendeva, senza muoversi. Matt scrutò gli ultimi uomini che entrarono, cercando di prevedere chi si sarebbe seduto di fronte a lei. Un ragazzo snello, dagli occhi verde pallido e i capelli scuri e disordinati non gli permise di indovinare in tempo. Fece pochi passi in direzione del tavolino, che era il più vicino alla porta, e si sedette di fronte alla ragazza.

La sala cominciò ad accendersi del solito fitto mormorio, di chi tentava di non far udire le proprie parole. Rimproveri, minacce, lacrime. Ma i due rimasero in silenzio, ad osservarsi con una tale intensità che sembrava stessero comunicando telepaticamente. Matt riuscì a scrollarsi di dosso le ultime tracce di stanchezza, incuriosito dalla coppia. Constatò che dalla sua posizione avrebbe probabilmente potuto ascoltare ogni parola del loro discorso, senza farsi notare troppo. E così fu.

- Perché sei venuta? – il ragazzo ruppe il silenzio, posando le mani sul tavolino. Lei rimase a contemplare i polsi bianchi circondati dal metallo luccicante per un lungo istante. Poi sollevò di nuovo lo sguardo, e il ragazzo sembrò soffrirne. Spostò i suoi occhi, quasi cercando di ripararsi da un raggio di sole troppo forte, sopraggiunto dopo una lunga fuga nell’oscurità.

- Dovevo – rispose lei, con tono tranquillo. Non sembrava turbata dallo strano comportamento di lui.

- No, non dovevi, nessuno ti obbliga. Cosa vuoi? – chiese brusco il ragazzo, sempre guardando altrove. A terra, sul soffitto, lungo la superficie della finestra chiusa che si apriva nella parete di fronte a lui.

- Parlarti – disse semplicemente lei, ancora rilassata, come se entrambi si trovassero in tutt’altro luogo.

- E parlami allora, vediamo di finire in fretta questa farsa, così ognuno di noi potrà tornare al suo posto – fece lui, lanciando un’occhiata alle sbarre che chiudevano l’accesso alle piccole celle del Distretto.

La ragazza annuì e posò le braccia sul tavolo. Lui ritrasse le sue, come temendo un contatto.

Matt si accorse di essere tremendamente curioso di ciò che i due dovevano dirsi.

- Michael… - iniziò lei, pacata, continuando a fissarlo – io ho tentato di farti capire che stavi sbagliando, ma a quanto pare ho fallito. Forse non riuscivo ad essere completamente sincera con te, perché ti ero affezionata. Ma adesso ho capito che ho commesso un errore. Avrei dovuto dimostrarti il mio affetto condannando apertamente ciò che credevo fosse ingiusto, pur sapendo che farlo ti avrebbe allontanato da me – la ragazza fece una pausa – Non ci sono riuscita. La paura di perderti era troppo grande, non accettavo di potermi privare di te. Sono stata egoista, ed entrambi ne abbiamo pagato le conseguenze –

Il ragazzo continuava a non guardarla. Aveva abbassato gli occhi, osservava qualcosa sopra il tavolo.

- Forse adesso è troppo tardi, ma voglio comunque provare ad essere finalmente sincera. A dirti la verità, sperando che serva ancora a qualcosa. Non riuscirei a fare quello che intendo fare trascinandomi dietro il rimorso di non aver fatto qualcosa per aiutarti –

- Io non ho bisogno di aiuto –

Il ragazzo finalmente parlò, sollevando gli occhi ed incrociandoli di nuovo con lei. Aveva una determinazione gelida dipinta sul volto, e dimostrava una tale assenza di emozioni da sembrare quasi scolpito nella pietra.

- Si che ne hai, ma non lo ammetti, perché hai paura che non ci sia qualcuno che ti ami abbastanza per donarti tutto l’aiuto di cui hai bisogno – disse lei.

- Se sei venuta qui a propinarmi cazzate puoi benissimo alzarti ed andartene. Niente di ciò che dirai mi toccherà, Alex – sibilò il ragazzo.

Matt si mosse appena, cercando di scacciare quella fastidiosa sensazione di irritazione nei confronti dello sconosciuto. Non sortì alcun effetto. Sentire con quanta cattiveria quel delinquente si era rivolto alla ragazza gli faceva prudere le mani. Thelma, sua moglie, lo diceva sempre che si lasciava coinvolgere troppo.

- Ascoltami, Michael. Ti prego. Poi scomparirò definitivamente dalla tua vita, ma ascoltami almeno quest’ultima volta – il tono della ragazza si fece più accorato – Noi NON siamo i nostri genitori. Noi NON DOBBIAMO pagare le conseguenze delle loro azioni. Perché non ci hai mai creduto? Perché hai sempre pensato che non ci fosse scampo, che la tua unica possibilità fosse ricalcare la strada di tuo padre? –

Improvvisamente Michael sembrò sciogliersi. Si afflosciò contro la sedia, guardandosi intorno come un animale braccato.

- Perché vieni qui a parlarmi di lui quando sai che non lo voglio sentir nominare? Ti odio – mormorò. Ma le sue parole sembravano vuote, prive di consistenza.

- Tu non mi odi. Tu non odi nessuno, né tantomeno dovresti essere qui. Io continuo a credere che tu sia una persona buona, che tu sia diverso da lui. Perché non ci credi anche tu? – insistette la ragazza.

Michael sollevò gli occhi. Era ancora più pallido di ciò che gli era sembrato. Qualcosa gli brillava negli occhi, alla luce del neon.

- Perché è una bugia. Io sono come lui. Io non posso fare niente all’infuori di questo. Sai dirmi che qualità ho, Alex? Sai dirmi una cazzo di capacità che ho? Mi immagineresti, vestito da avvocato, o da impiegato? – disse, interrompendosi per ridere amaramente – Certe cose non si possono cambiare. Hanno già deciso per me. Avevano deciso per me mio padre, i miei insegnanti, gli assistenti sociali e i datori di lavoro, no? Tanto vale diventare quello che pensano io sia –

- Fino ad ora ho sentito solo giustificazioni uscire dalla tua bocca. Non hanno importanza per me, queste parole. Se davvero ti sei arreso in questo modo, tanto da arrivare qui… allora per te non c’è nessuna speranza, e non c’è bisogno che te lo dica nessuno, tantomeno io. Lo sai già. Ma tutti hanno una seconda possibilità… in questo almeno speri? – disse la ragazza, sporgendosi in avanti.

Michael abbassò di nuovo gli occhi.

- No – sussurrò.

Cadde di nuovo il silenzio. Matt osservò lei inclinare il capo da un lato e allungare un braccio verso il ragazzo. Gli posò una mano sulla guancia con un tale affetto che l’agente quasi ne fu commosso. Michael parve tentare di ritrarsi in un primo momento, ma poi rimase li, immobile, a lasciarsi confortare da quelle dita sottili.

La ragazza gli sollevò delicatamente il viso, obbligandolo a guardarla negli occhi.

- Pagherai per gli errori che hai fatto, ma la tua seconda possibilità arriverà, vedrai. E tu hai tutte le qualità, tutte le capacità per afferrarla, se lo vorrai. Spero riuscirai a crederci come ci credo io – mormorò.

Lui sollevò le mani ammanettate e le chiuse a fatica su quella di lei.

Non le disse nulla, si limitò a guardarla, e l’agente Matthew Anderson non poteva sapere che in quello sguardo si stava chiudendo una fase delle vite di entrambi.

- Ricordi quando ti ho detto che ti odiavo? – chiese la ragazza un attimo dopo.

Lui annuì, come se parlare gli costasse fatica.

- Non era vero. Ti voglio bene, Michael –

- Anche io –

E il colloquio si concluse con lo stesso silenzio intenso con il quale era cominciato. Poi la ragazza si alzò e rivolse un sorriso a Michael, un sorriso pieno di fiducia. Quando se ne andò la stanza parve meno luminosa di prima.

Matt rimase a guardare il ragazzo, ancora seduto al tavolino, con un sorriso malinconico che gli curvava le labbra, pensando che quel colloquio gli sarebbe rimasto impresso nella mente per molto, molto tempo. Forse ne avrebbe parlato anche a Thelma, chissà, magari di fronte ad una bella tazza di caffè caldo.

 

Michael contemplò ancora per un istante la curva morbida di una delle ciocche color fuoco di Alex. Ondeggiava nell’aria che la ragazza muoveva, attraversando la stanza. Ne aveva già nostalgia. Perché lui sapeva… si, lui sapeva. Aveva letto tutto il necessario nei suoi occhi. Poi lei scomparve. Forse per sempre? Quant’è lungo sempre? Sempre non sarebbe mai esistito. Sempre sarebbero stati i sorrisi di Alex, il suo tono accorato, la sua risata argentina, miracolo raro e per questo prezioso. Sarebbero state le parole che non avrebbe mai trovato il coraggio di dirle. Sarebbe stata quella carezza, di cui ancora sentiva il calore sul viso.

 

 

You could be happy and I won't know
But you were happy the day I watched you go

And all the things that I wished I had not said
Are played in loops 'till it's madness in my head

Is it too late to remind you how we were
But not our last days of silence, screaming, blur

Most of what I remember makes me sure
I should have stopped you from walking out the door

You could be happy, I hope you are
You made me happier than I'd been by far

Somehow everything I own smells of you
And for the tiniest moment it's all not true

Do the things that you always wanted to
Without me there to hold you back, don't think, just do

More than anything I want to see you go
Take a glorious bite out of the whole world

 

 

 

Potresti essere felice e io non lo saprei
Ma lo eri il giorno che ti ho vista andartene

E tutte le cose che ho desiderato non aver mai detto
Sono rappresentate nella mia testa ciclicamente finché ci sarà follia nella mia testa

E' troppo tardi per ricordarti come stavamo
Ma non nei nostri ultimi giorni, di silenzio, urla, confusione

La maggior parte di ciò che ricordo mi rende sicuro
che avrei dovuto impedirti di uscire dalla porta

Potresti essere felice, spero che tu lo sia
Mi hai reso più felice di quanto non lo fossi mai stato prima

In qualche modo, tutto ciò che ho profuma di te
E per un attimo mi sembra tutto ciò non sia accaduto sul serio

Fai ciò che hai sempre voluto fare
Senza di me che ti trattengo, non pensare, fallo e basta

Più di ogni altra cosa voglio vederti andare
Staccati un morso di gloria dal mondo intero

 

 

***

 

 

- Bill –

Tom posò una mano sulla spalla del fratello, ma quello non diede segno di aver sentito. Era la seconda volta che lo chiamava e non rispondeva. Continuava a far scorrere gli occhi sulla folla, mordicchiando l’angolo del suo biglietto aereo e sollevandosi sulle punte per vedere meglio.

- Bill – ripeté Tom tentando di esercitare la dimenticata arte della pazienza – Sono le dieci meno dieci, non credo verrà –

Di nuovo suo fratello non si voltò. Abbassò le spalle e gli occhi, rimanendo immobile a contemplare il secondo biglietto aereo che stringeva tra le dita, facendolo combaciare perfettamente con il suo. Tom lo capiva. Dubitava che Bill si perdesse completamente d’animo. Da un lato quella parte del carattere del gemello, che non condividevano, suscitava in lui una malinconica invidia, dall’altro lo intristiva. Bill non rinunciava mai a sperare, e quel suo continuo credere che le cose sarebbero andate sempre per il meglio lo esponeva al dolore, quando doveva arrendersi ed affrontare la realtà.

Suo fratello finalmente incrociò il suo sguardo.

- Voglio aspettare ancora cinque minuti –

Non si era ancora rassegnato. Tom soffocò appena in tempo un sorriso compassionevole. Non c’era nulla da fare, suo fratello riusciva sempre a risvegliare in lui un’odiosissima tenerezza.

- Se vuoi puoi cominciare ad andare, non sei costretto ad aspettarmi – aggiunse Bill, con tono di scuse.

- Non ci penso nemmeno. Resterò qui con te, tanto lo sappiamo benissimo tutti e due che l’aereo senza di noi non andrà da nessuna parte – ribatté Tom, incrociando le braccia con aria altezzosa.

Il gemello si lasciò sfuggire una risatina nervosa e poi tornò a scrutare la folla.

Diversi membri dello staff tentarono di trascinarli dentro, ma Tom fu molto eloquente quando intimò loro di “togliersi dalle palle”. Almeno lo fu abbastanza da persuaderli che entro cinque minuti entrambi avrebbero raggiunto il resto della band in prima classe.

Fu quando annunciarono l’ultima chiamata per l’aereo con meta Lipsia che Bill ingoiò l’amara verità: Alex non sarebbe venuta. Fece ricadere le braccia lungo il corpo esile e si voltò in fretta, con un movimento veloce che dava tanto l’idea di una fuga.

Tom fece finta di non essersi accorto dell’aria torva del fratello e prima di seguirlo si piegò un istante per domare i lacci delle sue scarpe, che strisciavano per terra da quando erano usciti dall’Hotel. Si sollevò con uno sbuffo e diede un colpetto alla visiera del cappello. Proprio mentre si stava voltando per raggiungere Bill, qualcosa attirò la sua attenzione.

Un bagliore rosso, luminoso, inconfondibile nel mare di teste che si muovevano in tutte le direzioni seguendo i proprietari. Il chitarrista si immobilizzò, tenendo gli occhi fermi sul punto in cui gli sembrava di aver visto…

- Oh, cazzo – mormorò inconsapevolmente.

Alex sbucò fuori dalla fiumana di gente e gli fu al fianco in pochi secondi. Portava uno zaino da campeggio in spalla e un piccolo trolley appeso alla mano destra. Era piuttosto pallida, ma sembrava piena di una determinazione che il giorno prima Tom non avrebbe pensato potesse possedere.

Lo superò senza dar segno di averlo visto, concentrata su qualcosa alle sue spalle. Tom la seguì, raggiungendola pochi secondi prima che lei pronunciasse il nome di Bill.

Lo sussurrò, quasi, ma il suo gemello si voltò ugualmente, di scatto, come temendo di aver immaginato quella voce. Quando si accorse che evidentemente non si trattava di un miraggio, rimase gelato sul posto, a guardare Alex come temendo che si volatilizzasse sotto i suoi occhi da un momento all’altro. Rimase a guardarla tanto a lungo che la hostess dovette dargli due colpetti sulla spalla, tentando di ridestare la sua attenzione mentre lanciava occhiate allarmate all’aereo dai motori ormai accesi.

All’improvviso Bill sorrise. In altre circostanze Tom si sarebbe sganasciato dalle risate di fronte a quella smorfia ebete, ma il suo buon senso sembrava essere notevolmente aumentato dopo l’ultimo mese passato nel campo di battaglia conosciuto come “casa Kaulitz”. Si lasciò sfuggire un sospiro liberatorio, percependo concretamente che l’angoscia del fratello era scomparsa.

 

- Verrai con me? –

- Si –

 

***

 

Scostò con un gesto lento le tende ruvide. Il sole del primo pomeriggio le illuminò il viso, costringendola a strizzare gli occhi.

Posò una mano sulla maniglia gelida della finestra e l’aprì. L’aria era fresca, le accarezzava il viso in modo diverso rispetto a quella di New York, che era pesante e il più delle volte sapeva del gas dei tubi di scappamento. Le si posava discreta sulle guance e profumava d’inverno.

Appoggiò i gomiti sul davanzale e socchiuse le palpebre, godendosi i raggi dorati.

Difficile credere che in poco più di nove ore la sua vita avesse subito uno scossone così violento. Dov’era appena undici ore prima? Correva tra la folla. E quasi tredici ore prima? Di fronte agli occhi di Michael. Il suo pensiero si posò di nuovo sulle immagini di quel breve colloquio. Sul luccichio inquietante delle manette, sui ciuffi di capelli scuri che sfioravano la fronte del ragazzo. Le aveva lasciato in bocca il sapore di addio, quel saluto. Ne scacciò l’amarezza con il pensiero di Bill, che aveva scombinato tutti i programmi, tutte le tabelle di marcia, tutti, solo per sederle il più vicino possibile. Avevano continuato a parlare per tutta la durata del viaggio, senza fermarsi mai, sporgendo le teste nel corridoio che passava tra le loro file di sedili e ritraendole quando le hostess passavano avanti e indietro, pregandoli di parlare a volume più basso. Se solo ci pensava per un istante, faticava a credere che appena un quarto d’ora prima Bill l’avesse salutata, sulla soglia della porta di quella camera d’albergo, promettendole che la sera stessa si sarebbero visti di nuovo.

Tutto aveva il dolce retrogusto di un sogno. Aveva cominciato a temere di risvegliarsi di soprassalto nel suo letto non appena aveva posato il piede destro a terra, sulla pedana metallica che collegava l’aereo al tunnel di vetro che l’avrebbe portata un’eternità più lontana dalla sua vera vita. Ogni qual volta apriva gli occhi aveva paura di posarli sul soffitto bianco della sua camera. Su quella crepa che aveva fissato tante volte. Quando era piccola, quando la mattina sentiva un vuoto nello stomaco e non sapeva ancora da dove veniva, non sapeva che quel vuoto con il tempo avrebbe preso la forma di una parola. Mamma. Quando era notte, e aveva ripassato per la prima volta il contorno del viso di quella donna, il giorno del sedicesimo compleanno di Michael. Non poteva credere che fosse davvero sua madre, non voleva crederlo. Aveva sperato che sua madre fosse qualcos’altro, l’aveva sperato fino alla fine. Quando aveva sentito il cuore battere senza controllo senza voler accettare il perché. Quando era fuggita via da quello che non voleva ascoltare, sentire, dalle parole di Michael, dai suoi ultimi guai. Guai su guai. E la sua vita aveva cominciato ad assumere le sembianze di quella crepa. Si apriva in un punto, e continuava a penetrare nella parete, nera, profonda. Non finiva mai. Attraversava tutto il soffitto, fino all’angolo della finestra, e poi scompariva fuori. Aveva provato a vedere dove terminasse, un giorno. Aveva seguito a fatica quella linea scura per metri e metri. Non finiva mai. Si univa ad altre crepe, ad altri squarci nei muri delle case di periferia. Ma forse una fine c’era, forse lei non si era mai spinta così in la da riuscire a vederla, ma c’era.

Sentiva il cuore gonfio come mai le era successo. Faticava a rimanerle in corpo, non si sarebbe stupita di vederne la linfa vitale scivolare via dalla punta delle sue dita e librarsi nella stanza e poi fuori, sospesa a mezz’aria tra terra e cielo.

Trasse un sospiro a lungo soffocato. Succedeva davvero, succedeva tutto davvero. Comprese in pochi istanti che se nella sua vita non avesse dovuto sopportare diverse sofferenze, non avesse dovuto chinare il capo più volte, ingoiare lacrime e dolore, non sarebbe riuscita ad apprezzare tanto intensamente quella felicità che le albergava dentro, senza chiedere nulla in cambio. Finalmente.

 

 

 

 

 

Scusate l’immenso ritardo. Non dovrei nemmeno essere qui a pubblicare questo nuovo capitolo, in realtà. In teoria avrei dovuto ricominciare a pubblicare a settembre… ma non ce l’ho fatta. Può essere che la pubblicazione del prossimo capitolo subisca il medesimo ritardo.

Com’è che avevo detto? Terzultimo capitolo, vero? Ebbene… si, lo è (a meno che non accadano imprevisti di qualsivoglia genere e natura). Dopo averlo scritto mi sento… un po’ vuota. Non sarò loquace come al solito.

Vi lascio il link alla canzone riportata nel testo “You could be happy” degli Snow Patrol: http://youtube.com/watch?v=kzn8UjhxM-M . Spero perdonerete la piccola licenza poetica che mi sono permessa, trasformando la frase da “Ma non lo eri il giorno che ti ho vista andartene” a “Ma lo eri il giorno che ti ho vista andartene”. Non ho potuto farne a meno, e spero che voi riuscirete ad intenderla come io ho voluto modificarla.

Un bacio e un grazie enorme a tutti coloro che seguono la mia storia.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Verità ***


Bill sentì qualcuno che lo afferrava per la cintura e lo trascinava con se nel corridoio. Prese a dibattersi freneticamente.

- Tom! Non ho ancora finito!!! – disse, prendendo con se le due magliette posate sul letto.

- Cazzate. E’ tardi. Non me ne frega un cazzo della tua incertezza su cosa metterti. Dobbiamo andare – ringhiò ad alta voce Tom, facendolo trotterellare goffamente all’indietro giù dagli scalini.

- Ma sono nudo! Sono NUDO! – urlò Bill, e una delle magliette gli scivolò dalla mano destra, mentre tentava di afferrare il passamano per interrompere la folle corsa giù dalle scale. – NON HO LA MATITA – continuò a sbraitare. Ma suo fratello sembrava deciso a non lasciarlo andare, vista la violenza con la quale continuava a trascinarlo sul parquet dell’ingresso. Afferrò con un dito le chiavi della macchina dal mobile e si specchiò, prima di uscire. Dall’uscio della cucina si affacciò sua madre, che si limitò a squadrarlo con uno sguardo di profonda riprovazione.

- MAMMA AIUTAMI!!! FERMALO!!! – esclamò Bill tentando di conficcare le unghie nello stipite – MORIRO’ ASSIDERATO! –

- Ma’ torniamo tardi. Vai a dormire. Ho preso le chiavi di casa – disse Tom alzando una mano come segno di saluto. Simone scomparve nuovamente. Bill emise un mugolio esterrefatto e vide la porta di casa chiudersi di fronte al suo naso.

Cinque minuti dopo era seduto nella macchina di Tom, e tentava di infilarsi una maglietta dal foro concepito per la manica. Il gemello prese una curva in modo piuttosto brusco e Bill andò a sbattere la testa contro il finestrino, con un tonfo sordo.

- Tom! La finisci di guidare come se avessi tra le mani una macchina per rally?! – gridò istericamente, sbucando fuori dalla sua maglietta, finalmente dal foro giusto. Emise uno sbuffo e si toccò i capelli.

- Siamo in ritardo – si limitò a rispondere il gemello, continuando ad aumentare la velocità.

- Non è vero! Siamo in perfetto orario – urlò Bill indicando l’orologio analogico che lampeggiava dallo schermo del piccolo televisore incastrato sotto la radio.

Tom lanciò una vaga occhiata all’ora e alzò le spalle.

- Beh, saremmo in ritardo se non ti avessi preso di peso – disse, come se la questione fosse finita li.

- Stavo solo scegliendo una maglietta!!! – disse Bill, gesticolando come un pazzo.

- “Stavo solo scegliendo una maglietta” – lo scimmiottò Tom togliendo le mani dal volante per farle vorticare davanti al viso – Ossia, stavi progettando il piano per farci arrivare in ritardo. Ed oggi non ho nessuna intenzione di permettertelo. Non hai la cognizione del tempo, quindi devo garantire io, che sono di gran lunga più affidabile – tagliò corto.

- Signor Affidabile, potrebbe gentilmente rimettere le mani sul volante? Non vorrei che la sua innata affidabilità ci conducesse al primo pronto soccorso sulla strada. In quel caso si, che arriveremmo in ritardo – ribatté acido Bill allungando il collo per studiare il suo riflesso nello specchietto.

Si sentiva seduto su una coperta di spilli. Era nervoso, eccitato, assurdamente emozionato. Emozioni associabili a qualcosa che non gli accadeva da tempo. Non si ricordava nemmeno più da quando, a pensarci bene. Cercò di tranquillizzarsi, anche se la guida da Niki Lauda di suo fratello non favoriva pensieri karmici.

Il programma prevedeva l’andare a prendere Alex e portarla da Heidi. Tom aveva suggerito un hotel a tre stelle poco distante dal pub dove lavorava la ragazza, e Bill si era stupito di trovare l’idea intelligente. Dopotutto se Alex avesse avuto bisogno, avrebbe trovato Heidi come punto di riferimento a portata di mano. Tutto era stato sistemato a dovere. David era stato liquidato, assieme alle sue raccomandazioni, ed anche Saki si era ritirato in buon ordine, provato dal viaggio. Sua madre non aveva detto nulla. Da quando avevano messo piede a Lipsia si era rinchiusa in un silenzio ostinato, con l’idea di punirlo severamente per ciò che aveva fatto, ma Bill sapeva che entro due giorni avrebbe ricominciato ad urlargli dietro come al solito. Tutto scorreva liscio come l’olio. Allora perché gli sembrava di aver ingoiato una manciata di sassi? E belli grossi anche. Sentiva sassi ovunque. Nello stomaco, in gola. Continuava a pensare a cosa dire, cosa fare, senza nessun motivo apparente. O forse i motivi erano talmente tanti che non riusciva più a numerarli.

- Bill, mi stai bloccando la circolazione –

Bill si riscosse dai suoi pensieri e vide la sua mano avvinghiata al braccio di Tom. Lasciò lentamente la presa e tornò al suo posto, appoggiando la fronte al finestrino. Dopo alcuni attimi di silenzio Tom sbuffò.

- Smettila. Sento tutte le tue seghe mentali da qui, e non è una cosa piacevole – disse burbero. Bill non si diede la pena di rispondere. Trascorsero altri secondi di silenzio, poi suo fratello parlò di nuovo, dopo un sospiro che diceva “devo fare sempre tutto io”.

- Bill, mi spieghi cosa stai facendo? – gli chiese, con tono sinceramente interessato. Bill si voltò confuso.

- Non sto facendo niente… - rispose, alzando le spalle con aria innocente.

- No, intendo li, nella tua testa. In quella steppa desolata, scossa dal vento… hai presente? – disse Tom, tenendo lo sguardo fisso sulla strada.

- Ah ah ah – rise amaramente Bill, spingendo la schiena contro il sedile imbottito dell’auto.

- Smettila di fare la suocera. Intendo… Dio, Bill. Hai ottenuto tutto quello che volevi. Sei riuscito a stare lontano da qui per più di un mese, hai fatto tutte le belle esperienze che volevi. So che ti serviva, so che dovevo appoggiarti ed ora so che finalmente stai bene. E sono contento con te. L’unica cosa che pensavi di non poter ottenere, l’hai ricevuta. Quella ragazza ti è caduta tra le braccia. E’ salita su un aereo e ti ha seguito fin qui. Hai idea dell’enormità di quello che ha fatto? E tu stai li con il broncio a tormentarti come una quindicenne al suo primo appuntamento, non sai che maglietta mettere, ti specchi… - Tom scosse la testa, sotto lo sguardo sconcertato di Bill – Devo ammettere che, nonostante fossi pienamente consapevole della tua deficienza, mi hai stupito di nuovo –

Bill avrebbe potuto rispondere a tono, ma non lo fece. Rise, con il cuore leggero, e poco dopo il suo gemello lo seguì.

 

- Si, e poi gli ho ficcato la testa nel cesso –

- Da quel che ricordo io, le cose sono andate in modo completamente diverso! -

- Sciocchezze. Eri troppo occupato a tracannare l’acqua dello scarico per mettere insieme pensieri logici. Non che tu riesca a farlo in condizioni normali, non mi fraintendere –

Alex rise quando Bill diede un elegante calcio nello stinco a Tom, che si piegò in avanti, saltellando su una gamba. In meno di dieci minuti l’avevano fatta ridere si e no una quindicina di volte, e Alex sperava continuassero a farlo. Nessuno poteva sapere quanto le facesse bene ridere. Nessuno poteva comprenderlo fino in fondo.

Stavano camminando in una viuzza deserta. Bill e Tom erano arrivati al suo hotel con un gran strombazzamento di clacson, l’avevano “caricata”, come aveva detto il gemello biondo, sulla macchina e l’avevano fatta scendere poco lontano, una volta parcheggiata l’auto. La meta, a quanto pareva, era un pub dove lavorava un’amica di Tom.

In quel breve lasso di tempo l’avevano seppellita di racconti d’infanzia. Tutto era nato dall’incauta affermazione di Bill: “io sono il gemello a cui è andato il gene dell’intelligenza”. Al che Tom aveva risposto con una decantazione delle sue capacità “fisiche” tale da far arrossire qualunque ragazza, ma non Alex che, per sua sfortuna, si era abituata a quel genere di discorsi molto tempo prima. Da li era stata un’escalation. In pochi minuti aveva imparato ad adorare quel modo crudele di scambiarsi l’affetto reciproco.

Tom si fermò all’improvviso, aprendo la porta di un piccolo pub alla loro destra. Bill le cedette il passo.

- Scusami, ma Tom non ha incluso la parola “educazione” nel suo “Manuale del piccolo erotomane” – disse, strizzandole un occhio. Alex sentì qualcosa all’altezza dello sterno capovolgersi e poi tornare al suo posto con velocità allarmante.

Precedette Bill nel locale semivuoto, ad eccezione di un cassiere in apparente stato vegetativo e una ragazza occupata a pulire un tavolo in fondo alla stanza.

Quando la loro rumorosa presenza attirò la sua attenzione la ragazza si voltò, rivelando un bel viso dolce. Sorrise perfidamente e mise le mani sui fianchi.

- Ecco che arriva Mister Testa Fallica accompagnato dal delizioso fratellino – disse, con un tedesco aspro ma piacevole.

Tom finse di ignorarla e si voltò verso di lei, parlando la stessa lingua.

- Ti presento la delicatissima Heidi – disse, indicandola con un gesto teatrale. Heidi grugnì contro di lui e poi li raggiunse, guardandola con un bel sorriso affabile. Alex notò che aveva delle simpatiche lentiggini sul naso, quando si avvicinò di quel tanto da stringerle la mano.

- Piacere Alex – disse continuando a muoverle la mano su e giù con vigore – Tom mi ha parlato di te –

Alex lanciò uno sguardo interrogativo a Tom, che alzò le spalle.

- Bill mi ha parlato di te – disse, alzando un dito contro il fratello. Bill fece un sorriso tirato, grattandosi la testa. Farfugliò qualcosa riguardo all’internet point e Alex capì.

- Bene, non so voi, ma io ho fame. Quindi, dopo questi piacevolissimi convenevoli direi che è ora di mangiare qualcosa – li interruppe Heidi con voce squillante. Lasciò la sua mano e si diresse verso la cucina a grandi passi. Tom le corse dietro ridacchiando ed entrambi sparirono oltre le porte.

- Vieni, sediamoci li – disse Bill indicando il tavolo in fondo. Le posò una mano sulla schiena e la guidò gentilmente.

Si sedettero uno accanto all’altra. Alex osservò per un attimo la strada che si trovava appena fuori dal vetro. I palazzi erano tutti molto più bassi di quelli che era abituata a vedere. Le piaceva quel posto.

Quando si voltò ritrovò Bill più vicino. Troppo vicino. Il cuore si fermò, poi fece un curioso avvitamento nel petto e riprese a battere impazzito.

- Non mi sembra vero che tu sia qui - sussurrò, portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio, proprio come aveva fatto lei molte, moltissime sere prima, sere di un tempo che non le sembrava lontano come tutto ciò che aveva lasciato a New York, ma era di fronte a lei, brillava nello sguardo di Bill.

Lui si avvicinò ancora, chinandosi su di lei. Avrebbe saputo dire il numero esatto di ciglia che aveva per ciascun occhio.

- ECCO QUI! LA CENA! -

Entrambi trasalirono visibilmente, tornando immediatamente ai loro posti. Alex sentì le orecchie in fiamme, e si sforzò di sorridere ad Heidi, che si stava avvicinando con due vassoi in mano. Dietro di lei Tom ne portava altri due.

- Ah, che bello – disse Bill schiarendosi la voce. Alex prese un bel respiro.

- Sto morendo di fame – aggiunse, e non si stupì di scoprire che era effettivamente vero.

Tom ed Heidi si sedettero di fronte a loro ed iniziarono a prendersi a gomitate per conquistare centimetri in più sul tavolo.

- Vedo che avete la stessa natura elementare – disse Bill, con il tono di un ricercatore dedito allo studio dei gorilla. I due ragazzi si fermarono immediatamente.

- Taci deficiente –

- Taci spauracchio –

- Ma come cazzo parli? –

- Io parlo come si dovrebbe parlare, sei tu che ti limiti a grugnire –

Heidi raccolse un panino di dimensioni notevoli dal piatto e cominciò a sbocconcellarlo. Ad Alex parve che fosse leggermente nervosa. Continuava a lanciare occhiate in tralice a Tom, che ridacchiava di nuovo. All’improvviso capì.

Bill parve decidere che era ora di mangiare ed imitò l’esempio di Heidi, seguito da Tom. Alex rubò una patatina dal suo panino e la rosicchiò lentamente.

- Quindi tu saresti di New York… - esordì Heidi dopo pochi minuti di religioso silenzio.

- Si, esatto… - rispose Alex sorridendole.

- Quanti anni hai? – le domandò, attendendo la sua risposta mentre sorseggiava dalla sua lattina di coca.

- Diciannove – disse Alex. Tom allungò una mano verso il polso di Heidi e le abbassò il braccio. La ragazza riportò la lattina alla bocca, e lui ripeté il gesto. Ma lei continuò a parlare tranquillamente, come se fosse abituata a quel genere di fastidi.

- Ne dimostri di meno… sembra che tu abbia la mia età – disse Heidi.

- Quanti anni hai? –

- Ne compie sei a luglio – disse Tom posandole una mano sul capo con fare paterno – Non è una bambina deliziosa? – aggiunse rivolgendosi a lei con aria sognante. Bill rise ed Alex non riuscì a soffocare la stessa reazione.

- Vai a fare in culo Tom – replicò Heidi rivolgendogli un sorriso accecante.

- Le bambine deliziose non parlano come gli scaricatori di porto, Heidi – disse Tom, sporgendo in fuori il labbro inferiore.

- Vediamo se le bambine deliziose infilano i colli di bottiglia nel retto di coloro che le insidiano? Ti va? – propose Heidi, continuando a sorridere.

- Hai una foglia enorme di insalata tra i denti – concluse Tom, alzando il mento e voltandosi dall’altra parte.

- Non mi lascio toccare dalle tue menzogne – ribatté solennemente Heidi. Quando Bill e Tom presero a discutere nuovamente, la ragazza si avvicinò a lei, allungandosi sul tavolo.

- Ho una foglia enorme di insalata tra i denti? – sussurrò.

Alex le sorrise e scosse la testa.

- Comunque ho diciotto anni –

Da quel momento in poi trovarono molte cose da dirsi.

 

- Facciamo due passi, ti va’?- le sussurrò Bill nell’orecchio.

Alex sollevò lo sguardo su Tom ed Heidi, che stavano litigando in modo incoerente, utilizzando frasi prive di senso apparente. Era da più di dieci minuti che andavano avanti così. Tirò un sospiro di sollievo ed annuì.

- Si, grazie –

Bill sgusciò fuori ed Alex lo seguì.

- Ehi, voi due. Dove andate? – chiese Tom, interrompendo la discussione.

- Facciamo due passi, vieni a recuperarmi da Alex quando hai finito – disse Bill sbrigativo, prendendola per mano e trascinandola verso la porta.

- E’ stato un piacere conoscerti, Heidi – farfugliò lei agitando una mano nella direzione della ragazza. Lei le sorrise, perdendo l’aria corrucciata che aveva avuto fino a quel momento.

- Piacere mio. Stai attenta, i Kaulitz sono bestie pericolose – le urlò dietro, un secondo prima che la porta del pub si chiudesse.

- Oh. Finalmente. Non li sopportavo più – esalò Bill, lasciandole la mano. Alex rise e scoprì di essere perfettamente d’accordo.

Cominciarono a camminare lentamente, percorrendo a ritroso la strada che avevano fatto in macchina.

 - Che ne pensi di Heidi? –

Bill infilò le mani in tasca, lasciandosi sfuggire un brivido di freddo. Alex nascose il mento nel colletto del giubbotto.

- E’ simpaticissima. Una forza della natura – disse.

- Sono contento che la pensi così –

Continuarono a parlare di cose senza importanza fin quando Bill non cambiò tono.

- Alex… –

Si fermò, a metà del vicolo fiocamente illuminato che stavano attraversando. Tacquero per qualche istante, rimanendo immobili, con i nasi gelati, impegnati a fingere di guardare altrove.

- Si? – si decise infine a dire Alex, con la voce meno acuta che riuscì a trovare. Perché tutt’un tratto sentiva di poter avere una crisi isterica da un minuto all’altro? Tentò di respirare più lentamente, e parve servire.

- Volevo ringraziarti – disse lui, voltandosi completamente nella sua direzione. Aveva i capelli che gli scendevano lisci sulle spalle, corvini, più curati di come lo erano stati a New York. Gli occhi non erano truccati, e sembravano ancora più grandi.

- Di cosa? – domandò Alex confusa. Lo stomaco riprese la sua forma consueta e le sembrò che intorno cominciasse ad esserci più aria.

- Di tutto. Di essere venuta, di avermi perdonato nonostante non ti abbia detto la verità… di questo – rispose, e si avvicinò, proprio come aveva fatto nel pub. E come era successo nel pub il cuore prima si fermò, poi riprese a battere, facendole pulsare il sangue nelle orecchie.

Tutto era immerso nel silenzio assoluto. Non c’era un filo di vento, nulla si muoveva, ad eccezione dei loro respiri, che volteggiavano a mezz’aria, condensandosi in sottili nuvole argentate. Qualcosa di freddo e soffice si posò sul labbro di Alex.

Entrambi sollevarono lo sguardo al cielo. Altri fiocchi di neve seguirono quello che si era adagiato sulla bocca della ragazza. Prese a nevicare,  fiocchi cominciarono a cadere discretamente sul suolo.

Bill sorrise. Si avvicinò a lei senza esitazioni, le prese il viso tra le mani sorprendentemente calde e la baciò. Un bacio che non aveva nulla del timore che c’era stato su quel ponte tanto lontano, un bacio che esprimeva tutta la gioia di averla li, e il desiderio di non lasciarla andare.

Mai, mai, mai era successo ad Alex di avvertire così concretamente l’indispensabilità di un gesto. Si abbandonò completamente a lui. Poteva essere solo quella la ricompensa per dei sentimenti che andavano tanto oltre ciò che era concesso loro di esprimere con le parole.

 

***

 

Perché le certezze impiegano molto meno tempo a sbriciolarsi, rispetto ai dubbi?

Alex supponeva che la risposta a quella domanda fosse piuttosto importante, ma non riusciva ad afferrarla. Era stanca di domande senza risposta. Era anche stanca di rimanere immobile sul letto dalle lenzuola intatte, a fissare il soffitto bianco e anonimo. Ma non riusciva a fare altro. Usciva solo per mangiare, si alzava solo per andare in bagno.

Erano passati sei giorni dall’ultima volta che aveva visto Bill. Una settimana, o quasi. Ma non aveva molta importanza quanti in realtà fossero i giorni. La cosa più importante era che non l’aveva più visto. Certo, l’aveva sentito. Avevano parlato tanto, ma… al telefono. Lui e gli altri ragazzi della band erano completamente presi da interviste e impegni mondani. Da quanto le aveva spiegato Bill tutti aspettavano di sapere qualcosa su un album che non esisteva.

“Certo. Capisco benissimo. Non ti preoccupare, sto bene qui” non faceva altro che ripetere ad ogni telefonata. Era diventato un obbligo. Doveva dire a Bill ciò che lui desiderava sentirsi dire. Era giusto così… vero? Dopotutto le cose si sarebbero sistemate con il passare delle settimane, sarebbe passato anche quel periodo di fuoco, e tutto avrebbe assunto un aspetto un po’ più… normale. Era quello che continuava a sperare. Quando aveva trascorso la sua prima sera con Bill, quella speranza era una certezza. Non riusciva a capire quando fosse avvenuta la trasformazione da “sapere” a “sperare”, ma sentiva che continuando a rimuginarci su non avrebbe ottenuto nulla. Durante quelle sere grigie non aveva fatto altro che continuare a chiedersi dove fosse Bill, cosa facesse, con un’insistenza quasi ossessionante. Non riusciva a pensare ad altro. Forse perché era l’unica cosa a cui poteva pensare. Non aveva amici, non aveva parenti, in quella cittadina ordinata. Non aveva un lavoro, non aveva lo sforzo fisico a distrarla, a stremarla. L’unica a rendere meno piatte le sue giornate era Heidi, per il poco tempo che condividevano quando Alex andava a trovarla al pub. Le prima volte aveva tentato di pagare, ma Heidi si era mostrata irremovibile, e Alex sospettava ci fosse lo zampino dei due fratelli Kaulitz. La follia di Heidi era piacevole, la alleggeriva. Ma c’era anche il resto… non poteva far finta di ignorare il suo buon senso. Proprio non ci riusciva.

Lanciò un’occhiata alla sveglia posata sul suo comodino. 23.57. Solitamente Bill chiamava intorno alla mezzanotte.

Come in risposta al suo pensiero il cellulare abbandonato sul lenzuolo vibrò, facendola trasalire. Allungò una mano e lo afferrò.

- Pronto? – disse, e un sorriso spontaneo e totalmente non previsto le increspò le labbra.

- Prontoooo – rispose dall’altra parte Bill. Aveva la voce piuttosto stanca, ma non si lasciava scappare l’occasione di apparirle pimpante e giulivo. Capirlo le diede una forte fitta di tristezza e allo stesso tempo la voglia di abbracciarlo stretto. Sospirò silenziosamente.

- Come stai? – gli chiese, sollevando le gambe sul materasso.

- Tutto ok. Certo, penso che esattamente… domani mattina, mi sporcherò le mani con il sangue di David, ma è una cosa trascurabile tutto sommato. Oggi ci hanno trascinato prima ad un’intervista con Viva Live, e poi con Bravo. Abbiamo dovuto rifare il servizio fotografico che avevano rimandato per la mia partenza a Gennaio, sai, le foto verranno usate per la promozione negli Stati Uniti. Il fotografo era semplicemente insopportabile, un incompetente. Non sapeva affatto che luci usare con noi… figurati, ha fatto andare fuori di matto anche Natalie, e lei di solito è un angelo… -

- Chi è Natalie? – lo interruppe Alex, traendo un respiro profondo. In pochi secondi Bill l’aveva seppellita di informazioni, senza darle il tempo di assimilarne nemmeno una.

- La mia truccatrice. Cioè, la nostra truccatrice, ma è più mia che degli altri. Sai, io necessito di maggiori attenzioni, non che sia brutto, ma semplicemente perché gli strati di fondotinta da sovrapporre sulla mia faccia sono notevoli, e solo io uso l’ombretto. E’ una ragazza d’oro, te la voglio far conoscere. Andreste sicuramente d’accordo, è certo. Te la presenterò domani sera! – rispose Bill, di nuovo mitragliandola di parole. Alex quasi sobbalzò, quando Bill disse “te la presenterò domani sera”. Cosa voleva dire? Si sarebbero visti? Cercò di formulare una domanda che non la facesse passare per una disperata.

- Domani sera? – fu tutto quello che riuscì a raccattare nella sua mente, mentre si metteva a sedere al centro del letto.

- Si. Ho una buona notizia – quasi le sembrò di vedere Bill sorridere all’altro capo del telefono – Domani sera daremo un party in un locale di Lipsia. Una cosa molto carina. Inviteremo la stampa, solo i giornalisti fidati e i loro fotografi. Poi ci saranno i pezzi grossi della Universal, parecchi raccomandati sparsi qua e la, le varie porno bimbe di Tom e Georg, e tutti i nostri amici. Ci sarà anche la ragazza di Gustav! E’ assolutamente brillante! DEVI conoscerla. Verrà anche Heidi, Tom l’ha chiamata poco fa e sono riuscito ad origliare la telefonata. Quei due sono terribili, non oso pensare a cosa combineranno. Ti va di venire? –

“No, sai Bill, la mia vita mondana ultimamente mi sta davvero stremando. Ho da fare dalla mattina alla sera. Darò un’occhiata alla mia agenda e ti richiamerò”. Alex sorrise sarcasticamente pensando di rispondergli veramente così. Alzò gli occhi al cielo.

- Certo – disse.

- Perfetto! Domani mattina mettiti d’accordo con Heidi, purtroppo noi arriveremo un po’ in ritardo, come al solito. Abbiamo un sacco di cose da sbrigare. Magari potete venire insieme alla festa, lei sa dov’è il locale – ribatté lui. Senza sapere perché, Alex si sentì improvvisamente triste. Una strana sensazione di malinconia le chiuse lo stomaco.

- Ok – mormorò, accoccolandosi contro lo schienale del letto. La stanza le parve immensa e vuota.

- Ci vediamo domani allora. Un bacio. Buonanotte – disse Bill, senza perdere nulla del suo tono pimpante. Ma era stanco. Si? Era stanco? Si era immaginata anche quello?

- A domani. Notte – rispose lei, e chiuse prima che lo facesse lui. Quel piccolo gesto la fece sentire meglio.

Si raggomitolò sotto le coperte e tentò di prendere sonno.

 

***

 

- Mi sento una deficiente – borbottò Heidi affianco a lei.

Alex avrebbe voluto dire la stessa cosa, ma il vestito che indossava le bloccava le vie respiratorie, perciò optò per il silenzio. Non era stata un’idea geniale chiedere ad Heidi se aveva qualcosa di adatto alla festa. Dopotutto lei non aveva mai avuto vestiti congeniali a quelle occasioni, le era sembrata la soluzione migliore. Ma quando si era vista proporre un vestitino nero, tagliato sopra il ginocchio, completamente rigido dalla vita in su, aveva capito che avrebbe fatto meglio a presentarsi in jeans e maglietta. Il corpetto del vestito era una trappola infernale. Le riduceva la vita, si, ma al costo di comprimerle completamente i polmoni. Per non parlare del seno. Sentiva che da un momento all’altro qualcosa che non doveva sarebbe fuoriuscito dal bordo del corsetto, sbucando tra il macabro pizzo nero cucito intorno. I nastri che chiudevano il corpetto sulla schiena erano la punta di diamante. Heidi li aveva stretti talmente tanto che per alcuni minuti aveva pensato di dover vomitare.

- Questi tacchi mi stanno ammazzando – ringhiò di nuovo Heidi, attirandosi addosso l’occhiata sprezzante di una bionda alta un metro e ottanta, tacchi esclusi. Erano in fila da meno di un quarto d’ora e già si erano guadagnate una buona dose di sguardi compassionevoli o disgustati. Alex guardò la sua compagna. Heidi era costretta in un vestito simile al suo, color carminio, e barcollava su un paio di scarpe nere, dal tacco vertiginoso e paurosamente sottile. Si chiese se anche lei sentiva di poter perdere le facoltà respiratorie da un momento all’altro.

Quando finalmente riuscirono ad entrare nel locale sovraffollato, dopo aver indicato al bodyguard addetto il loro nome sulla lista degli invitati, entrambe cercarono di raggiungere un buon punto d’osservazione.

- Ecco, li – disse Heidi prendendola per mano e trascinandola nella folla. Alex sentiva corpi premerle contro ovunque. Riuscirono a raggiungere una pedana circondata da un lungo corrimano dorato. Alex vi si aggrappò, imitata da Heidi.

- Io la sotto non ci torno – esalò la ragazza. Alex era assolutamente d’accordo, ma non trovò le forze per esprimersi.

Ovunque volti sconosciuti. Incombevano su di lei, vestiti alla moda, sorridenti, perfettamente a loro agio. La musica le pulsava nelle orecchie. Per un momento ebbe il desiderio di fuggire da li, il prima possibile. Ma Bill l’aspettava. Non poteva andarsene, Bill sarebbe venuto e sarebbe venuto per lei. Si guardò intorno ancora una volta, smarrita.

Le persone erano troppe. Bill sarebbe venuto anche per lei. Non era la stessa cosa.

 

- Non ce la faccio più – Heidi le afferrò un braccio – Sono passate due ore. Due ore! Da un momento all’altro penso che avrò un attacco isterico e conficcherò un tacco nel primo bulbo oculare che mi passerà accanto – disse. Un uomo in ascolto si allontanò in gran fretta.

- Sono stanca anche io… - replicò Alex.

Ma nessuna delle due si mosse. Si guardarono negli occhi e sorrisero stancamente. Non se ne sarebbero andate, ed entrambe si compativano per lo stesso motivo. Heidi sospirò e scosse la testa.

- Sono proprio fuori di testa… - mormorò. Alex non sentì il bisogno di aggiungere altro. Si avvicinò ancora un po’ ad Heidi, le caviglie che le dolevano e la schiena rigida.

Dopo una buona mezz’ora avvertirono un cambiamento nell’aria. Tutti si voltarono nella stessa direzione. Ci fu un attimo di silenzio, poi un applauso rumoroso le investì. Alex si sporse oltre la balaustra e distinse due figure familiari.

Bill e Tom, affiancati da altri due ragazzi, probabilmente il resto della band, avevano fatto il loro ingresso.

Bill svettava sul pubblico, i capelli corvini e lisci che gli ricadevano sul giubbotto di pelle nera. Era completamente truccato, come il giorno in cui le aveva raccontato la verità a New York.

Sperò di incrociarne lo sguardo, ma non ci riuscì. Sempre più persone si lanciavano sui quattro ragazzi, per salutarli, per scambiare qualche parola. I flash dei fotografi invasero l’ingresso del locale, facendo brillare la collana pacchiana che Bill portava appesa al collo.

Quando l’entusiasmo sembrò smorzarsi la band prese ad attraversare la sala. Alex pensò che Bill l’avrebbe cercata con lo sguardo prima o poi, ma non accadde. Ad ogni passo qualcuno lo fermava per dirgli qualcosa, per chiedergli dichiarazioni, per scattargli una foto. La maggior parte delle persone erano concentrare solo e soltanto su di lui. E Bill sorrideva. Sorrideva in un modo strano, vuoto, un modo che le ricordò le prime serate al Rojo con Javier.

Abbandonò la balaustra, le mani improvvisamente gelide.

- Andiamo, prima o poi dovremo raggiungerli – disse Heidi brusca, notando un gruppo di bionde che si dirigeva verso i componenti della band, tutte risolini e paillettes.

La trascinò di nuovo con sé nella folla. Alex si lasciò trasportare, un improvviso senso di oppressione che le occupava lo stomaco. Profumi dolciastri le entrarono nelle narici. Qualcuno le diede uno spintone. Ovunque risate costruite e musica, volti ricoperti di trucco, odore di vodka. Tutto le dava la nausea. Era chiaro… così chiaro… perché continuava a camminare?

Arrivarono a poca distanza dai quattro, grazie alle gomitate e alle minacce di Heidi.

- Aspetta – Alex diede uno strattone alla ragazza, interrompendo la loro corsa attraverso il mare di corpi. Heidi si fermò e si voltò verso di lei, perplessa.

- Cosa c’è? – chiese, sinceramente preoccupata – Sei pallida. Non ti senti bene? Soffri di claustrofobia? – le posò le mani sulle spalle e ad Alex sfuggì un sorriso triste.

- No, sto bene – rispose.

Si voltò nella direzione di Bill, tornando seria.

Riusciva a vederne il viso.

Era così vicino a lei. Sarebbero bastati pochi passi e l’avrebbe raggiunto. Ma non era la distanza fisica che contava. In quel momento Bill era lontanissimo, ed era qualcun altro. Un estraneo.

Come le era sempre successo, la verità la colpì in tutta la sua interezza all’improvviso, senza darle il tempo di capire gradualmente.

Joanne si sbagliava. Importava. Tutto era importante. Non avrebbe mai potuto amare completamente Bill, come lui non poteva amare completamente lei. Ne aveva amato una parte, una parte di lui che in quel momento avrebbe desiderato rivedere, e che non sarebbe ricomparsa. Ma c’era anche qualcun altro in Bill. Il qualcun altro che tutti condividevano, che tutti pensavano di amare. E lei non voleva far parte di quei tutti. Non voleva dividerlo con nessuno, non voleva essere amata solo da una sua metà.

Abbassò lo sguardo, sconfitta. Ciò che aveva pensato di poter ottenere, si era sgretolato sotto i suoi piedi. Che sciocca, che ingenua. Sorrise tra sé e sé tristemente. Fu sorpresa di non ritrovare in quel sorriso amarezza o rabbia, ma solo rassegnazione e dolore. Dolore per se stessa, per i ricordi sui quali avrebbe indugiato, ma soprattutto dolore per Bill. Per quel Bill che quando avrebbe riconquistato tutto se stesso si sarebbe chiesto chi era, chi aveva dimenticato lungo il suo cammino e chi avrebbe ricordato. Per quel Bill che sarebbe stato lontano, ma mai quanto in quel momento. In quel momento una voragine li divideva, e li avrebbe divisi quel tanto che bastava per non farli incontrare. Non più.

- Non è il posto giusto per me – disse, prendendo le mani di Heidi. La ragazza sgranò gli occhi per un secondo, poi parve capire.

- Alex, stai scherzando… ma… - farfugliò, confusa. Lei scosse la testa. Il sorriso resisteva ancora sulle sue labbra, e si stupì della sensazione di pace che la pervadeva.

- E’ così, Heidi – continuò – Grazie di tutto. Mi ha fatto davvero piacere conoscerti. Magari qualche volta vieni a trovarmi? Si? – sapeva benissimo che erano parole vuote, ma tanto valeva lasciarsi qualche speranza dietro le spalle.

Heidi rimase in silenzio. Si lasciò abbracciare, e ad Alex lo strano profumo intenso dei suoi capelli piacque.

- Corri da Tom – disse.

Si voltò e sparì tra la folla.

 

***

Eccomi eccomi eccomiii. Dopo aver superato tranquillamente gli esami di recupero devo dire che è un sollievo ritrovarmi qui a pubblicare il penultimo capitolo della mia storia. Nel prossimo mi sbrodolerò tutta e vi ringrazierò una per una, ma in questo i miei ringraziamenti vanno alla mia amata beta reader, che purtroppo per impegni improrogabili non ha potuto mettere mano nella correzione del capitolo (ho fatto tutto da sola, quindi se troverete qualche castroneria, perdonatemi), a coloro che hanno aggiunto questa storia nei preferiti, e alle belle figliole che hanno commentato il capitolo precedente. Ossia:

BabyzQueeny: grazie per i complimenti ^^.

Paaola: panzerotta preferita della schiera delle panzerotte, sia ben chiaro! Grazie *_* :*

valux91: Purtroppo ho mantenuto fede alla mia promessa, ho pubblicato a settembre, spero che non ce l'avrai troppo con me XD, ma chi glielo spiegava a mamma se mi bocciavano che dovevo pubblicare una Fan Fiction? Bacione.

Dying Atheist: grazie cara... q_q E' un sacco di tempo che non ci sentiamo, spero che tu sia a goderti una qualche vacanza *_*. Bacione.

Chamelion_: Come vedi, continua. Quando sarà terminato ve ne accorgerete. Grazie di tutto, grazie di esserci sempre.

EtErNaL_DrEaMEr: Grazie della recensione *_*. Spero che ci sia abbastanza "Heidi" in questo capitolo. Amo quella ragazza (peccato che non esista... O_O). Un bacione e grazie.

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Fine ***


Heidi rimase immobile per un lungo momento. Non sapeva cosa fare. Dubitava che seguendo Alex ci avrebbe capito di più riguardo alla sua scelta, e ancor più dubitava che seguirla sarebbe servito a farle cambiare idea. Le era sembrata così determinata… così tranquilla… Rabbrividì inconsapevolmente quando si rese conto che sarebbe stata lei a dover dire a Bill cos’era successo. Chi altri? C’era solo lei li con Alex.

Riprese a sgomitare tra la folla, l’espressione corrucciata. Che immenso, gigantesco casino. Perché doveva essere proprio lei a comunicare a quel cerbiatto allampanato la fuga della sua amata? Le capitavano sempre ruoli di quel genere. Non era un caso che nelle recite scolastiche lei interpretasse sempre il cacciatore della fiaba di Biancaneve, o la nonna mangiata dal lupo. Tutti presagi. Scosse la testa come usava fare di solito quando qualcosa la infastidiva e raggiunse i quattro bellimbusti. Dei quattro in realtà ne vide solo uno a portata di mano, l’ultimo che desiderava incontrare.

Bill sfarfallò le ciglia su di lei, salutandola con un sorriso da fata madrina, e poi guardò oltre le sue spalle, frugando tra la folla alla ricerca di qualcuno. Peccato che quel qualcuno probabilmente ora sarà troppo lontano, pensò Heidi, cercando di sorridere. Per un istante pregò che Bill non le facesse quella domanda, ma il quesito le arrivò ugualmente tra capo e collo.

- Dov’è Alex? – chiese, sbattendo le ciglia degli occhioni nocciola. Heidi non tentò più di sorridere, lasciò che le sue espressioni facciali venissero guidate dallo stato d’animo.

- Bill… - disse, appoggiandogli una mano sul braccio, cercando di farsi sentire sopra il brusio incessante della folla e sul battere ritmico della musica – Alex non c’è. Se n’è andata –

Bill aggrottò la fronte, stranito.

- Cos’è successo, si è sentita male? – chiese.

Dannazione, dannazione, dannazione! Maledetto cerbiatto inutilmente grazioso!

Heidi scosse la testa, non trovò il coraggio per dire altro. Finalmente Bill parve capire. Lo sentì irrigidirsi sotto la sua mano e raddrizzarsi di scatto. Riprese a frugare tra la folla, lo sguardo febbrile.

- Da quanto? Da quanto Heidi? – le chiese, le pupille dilatate, le mani sulle sue spalle. Aveva perso molto della sua grazia sottile.

- Cinque, dieci minuti forse… - rispose la ragazza confusa. Bill la lasciò andare e si immerse nella folla, creando un vuoto attorno a lui. Tutti si spostavano quando lo vedevano passare.

- Ma Bill… - sussurrò Heidi. Troppo tardi, troppo lontano. Avrebbe dovuto scoprire da solo che Alex non era fuori ad aspettarlo. La ragazza sospirò rabbiosamente.

Si portò le dita alle tempie e tentò di tranquillizzarsi prima di proseguire la ricerca dell’altro gemello. Respirò profondamente un paio di volte e poi riprese a guardarsi intorno, cercando un cappellino familiare.

Passò in rassegna volti sconosciuti, uomini eleganti, giornaliste travestite da pin-up, una bionda avvinghiata ad un tipo…

Una bionda avvinghiata ad un tipo?

Ritornò indietro con gli occhi e studiò l’immagine con un po’ più di concentrazione.

Riconobbe la ragazza bionda e alta che in fila non aveva fatto altro che guardarla schifata ad ogni occasione che le si era presentata. Dritta come un fuso sui suoi sandali dorati e splendenti, in tinta con il vestitino inguinale che era un tripudio di riflessi abbacinanti, era intenta a coprire ogni centimetro libero del corpo che aveva davanti, allungando le braccia come tentacoli. Teneva il viso premuto contro quello del tizio in questione, che Heidi non riusciva a vedere in viso. Poi all’improvviso la ragazza si staccò ed Heidi vide… qualcosa che non doveva vedere. Qualcosa che non avrebbe voluto vedere.

Tom quella sera non portava il cappellino, aveva solo una bandana annodata sotto la coda, che in altri momenti l’avrebbe fatta ridere, e anche tanto. Ma chissà perché l’unica cosa che le veniva da fare in quell’istante era scoppiare a piangere. Sarebbe stata una cosa patetica e molto poco nelle sue corde, ma pensandoci in modo irrazionale ed infantile, le sembrava la soluzione migliore. Ma non lo fece. No, non lo fece.

Tom posò gli occhi su di lei. Aveva sperato non si accorgesse della sua presenza fin quando non avesse riacquistato le capacità motorie e si fosse allontanata di corsa da quel posto orribile, ma non accadde. Improbabile che accadesse in effetti, visto che si trovava a pochi centimetri da lui e dalla sua stangona bionda, e che li stava guardando con espressione ebete da cinque minuti.

Il viso di Tom si contrasse in una smorfia strana… ma non ebbe il tempo di identificarla.

- B-bei… bei sandali… - balbettò, senza nemmeno sapere perché. Poi l’unico pensiero che le invase la mente fu di andarsene. Uscire da li al più presto e senza ulteriori incidenti.

Si voltò e si immerse nuovamente nella folla, facendosi largo a stento.

- Heidi! – sentì chiamare dietro di lei. E la voce la conosceva bene. O se la conosceva bene.

Sgusciò sotto il braccio di un cameriere ed urtò una donna. I tacchi la facevano barcollare. Spinse e sgomitò fin quando non sentì l’aria fredda sul viso.

Alla sua destra le persone si accalcavano le une sulle altre, in fila, per poter raggiungere l’interno del locale. Taxi si fermavano e poi sgommavano via, in un miscuglio di suoni, odori, voci, luci. Avvertì una lacrima scenderle lungo la guancia destra, inesorabile, imperterrita.

Stupida, stupida, stupida!

Si guardò intorno cercando un taxi libero.

- Ehi! Ehi! – urlò al primo che le sfrecciò davanti, ma l’autista non si fermò. Forse lei non era abbastanza VIP per poter pagare una corsa in modo decente.

- Razza di stronzo! – sbraitò attirandosi addosso gli sguardi schifati della gente in fila – Beh? Cosa avete da guardare?! – aggiunse rivolgendosi nella loro direzione. Li odiava tutti, dal primo all’ultimo. Odiava quel vestito e quelle scarpe da deficiente che si era messa. Se le sfilò con violenza dai piedi e le lanciò sul marciapiede con furia. Un tacco si spezzò. Erano costate metà del suo stipendio, quelle scarpe. Quel pensiero la calmò, trasformando la sua crisi isterica in fitte di dolore al petto. Le faceva male dappertutto, come se qualcuno l’avesse presa a calci. Un’altra lacrima seguì la prima, e poi ne scesero giù altre, silenziose, salate. Con lo sguardo basso vedeva i suoi piccoli piedi, bianchi come il latte, gelati sulle mattonelle grigie e sporche del marciapiede.

Che ingenua che era stata. Immatura, sciocca. Si era fidata davvero… e non lo conosceva nemmeno così bene. Ma le piaceva, o se le piaceva. Testimoni di quello stupido istinto erano la gola che bruciava e i singhiozzi che cercava di reprimere, trattenendo il respiro con ostinazione.

Che ingenua.

 

Tom trovò finalmente il tempo di guardarsi intorno. Era riuscito a togliersi dalle scatole un paio di giornalisti fastidiosi senza troppe cerimonie. Un lato piacevole della vita da star era che poteva mandare a fare in culo chi voleva senza preoccuparsi che si offendesse o meno. Del resto conosceva appena il cinque per cento della gente che li circondava quella sera.

Non c’erano evidenti tracce di Heidi nei paraggi, ma con tutta quella gente sarebbe stata un’impresa riuscire ad individuarla. Adocchiò un punto sopraelevato: una pedana sospesa su un fianco della pista da ballo.

- Georg, io salgo un attimo su – disse dando una gomitata all’amico. Quello annuì e continuò a parlare con una brunetta che aveva raccattato pochi minuti prima.

Proprio mentre stava per avviarsi qualcuno lo afferrò per un braccio. Si voltò sperando di aver finalmente trovato Heidi, ma le sue speranze sfumarono molto velocemente.

- Ciaoo! – esclamò la ragazza di fronte a lui. Era alta, molto alta, con le due gambe chilometriche in bella vista e un vestitino simbolico che brillava come un albero di natale. Sbatté le lunghe ciglia degli occhi azzurri per un paio di volte, guardandolo come se fosse un pollo arrosto, e non diede segno di voler staccare la mano dal suo braccio. Stava evidentemente aspettando qualcosa…

Tom studiò meglio i lineamenti del viso… e poi l’illuminazione. O almeno, sperava che lo fosse.

- Monia… ? – disse, incerto.

Lei sorrise. Aveva indovinato. Ma non era sicuro che fosse una cosa buona.

- Ti ricordi di me! – trillò, avvicinandosi in modo imbarazzante.

Tom ricordava. Non era successo troppo tempo prima. Due, forse tre mesi al massimo. Ricordava un vestito molto simile a quello che indossava, varie effusioni nel privè di un locale e poi una serata finita come tante altre. E nient’altro.

In meno di un secondo si ritrovò con le braccia della semi-sconosciuta al collo.

- Sono così contenta di rivederti! Ci speravo proprio sai? Che ne dici, dopo facciamo un salto in albergo? – disse ad un centimetro dal suo naso. Tom sgranò gli occhi e fece per aprire bocca, ma la ragazza parve interpretare quel gesto come un invito a baciarlo, e fu proprio quello che fece. Lo incastrò in una stretta da lottatore e lo baciò senza dargli possibilità di scampo.

Quando riuscì a spingerla via sentiva di poter morire soffocato da un momento all’altro.

- Ma che caz… - esalò.

Poi vide qualcosa che non avrebbe voluto vedere.

Heidi era di fronte a lui, i grandi occhi nocciola spalancati e la bocca semiaperta. La trovò bella e… scioccata. Comprensibilmente scioccata. L’aveva visto mentre era avvinghiato ad una ragazza, era logico che avrebbe reagito. Sentì il panico attorcigliargli le budella.

Oddio no. No, no, no…

- B-bei… bei sandali… - la sentì balbettare, e non capì cosa c’entrassero dei sandali in quella circostanza.

Poi Heidi si voltò e si immerse nella folla. Tom ebbe un istante di esitazione e poi si lanciò dietro di lei, divincolandosi dalle spire della bionda.

La perse quasi subito. Provò a chiamarla ma lei non si voltò. Continuò la sua ricerca puntando verso l’uscita, unico luogo verso il quale sapeva che Heidi si sarebbe diretta. Una paura folle gli gelò il sangue. La sola idea che Heidi potesse andarsene senza che lui le avesse spiegato tutto, gli incuteva terrore.

Raggiunse l’uscita senza troppe difficoltà, ma una volta che fu sull’uscio davanti a lui si parò Tobi.

- Dove stai andando? – chiese, con voce inespressiva.

- Esco un attimo – rispose lui, come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo.

- David ha detto di non farvi uscire per nessun motivo – replicò l’uomo, incrociando le braccia.

- Tobi, non è davvero il momento – disse Tom. Sudava freddo e gli sembrava assurdo.

- Non posso farti uscire, Tom – ribadì il bodyguard.

- Tobi per favore. Te lo chiedo per favore. Lo sai che non lo faccio mai. Ti prego, devo uscire adesso – disse, lanciando occhiate dietro le spalle dell’uomo.

La vide. Ferma sul bordo del marciapiede. La vide togliersi le scarpe e lanciarle per terra, vide la gente guardarla come se fosse pazza. Ma lei era pazza. E anche lui. Tom sorrise.

- Guarda c’è Nena! – esclamò d’un tratto. Tobi si distrasse e liberò l’uscita. Tom sgusciò sotto il suo braccio appena un secondo prima che il gigante lo afferrasse per la felpa.

Si sollevarono gridolini e brusio dalla fila, quando raggiunse il marciapiede. Tutti gli occhi di coloro che erano presenti in quel momento erano posati su di lui. Cercò di dimenticarsene, di eliminare tutti e tutto. C’era solo Heidi. Immobile, tremante, con i piedi scalzi.

- Heidi – mormorò.

 

Heidi si voltò.

Qualcosa di ghiacciato le bloccò il respiro.

Tom era davanti a lei, stralunato, la felpa di traverso su una spalla.

- Non te ne andare, ti prego. Fatti spiegare – disse, alzando le mani in segno di resa.

Una fitta intensa la lacerò internamente. Non riuscì a parlare, ma riuscì a sollevare una mano e ad abbatterla sulla guancia destra di Tom. Qualcuno urlò, molti trattennero il respiro, da qualche parte alla sua sinistra. Ma non ci fece caso.

Tom non reagì, raddrizzò il viso e fece finta che non fosse successo nulla.

- Non volevo baciarla! Mi è praticamente saltata addosso, ti giuro! Te lo giuro su mio fratello, su mia madre, su quello che vuoi! – prese a dire, sputando una parola dietro l’altra, in una perfetta imitazione del suo gemello.

Heidi finalmente riuscì a riacquistare il dono della parola. Ed anche quello della rabbia, purtroppo.

Lo spinse indietro. Altri urletti, alcuni flash invadenti.

- Sei un bugiardo! – ringhiò – Ho sbagliato tutto – disse poi, parlando più con se stessa che con lui. Sentiva le lacrime asciugarsi sulle guance, e il freddo penetrarle nelle ossa.

- Non sono un bugiardo. Puoi dire quello che vuoi di me. Sono uno stronzo, un bastardo, una persona superficiale, uno stupido, un ignorante, un insensibile, ma non un bugiardo. Ascoltami Heidi – le posò le mani sulle spalle e lei cercò di divincolarsi. Ma lui la strinse finché non si fermò, finché non le fece male – Ascoltami – le ordinò, serio, quasi arrabbiato.

Heidi sollevò gli occhi ed incrociò i suoi.

Cosa c’era stato tra loro? Niente. Un bel niente. Solo qualche bacio, tanti insulti, e tenerezza di troppo l’ultima volta che si erano visti. Non significava niente per Tom Kaulitz una come lei. Lei non ci era andata a letto dopotutto… quella bionda sicuramente si. All’improvviso si sentì avvampare, e si diede della stupida una volta in più. Ma continuò a sostenere lo sguardo.

- Devo dirti una cosa importante… - mormorò Tom.

Heidi fu sicura di vedere con la coda dell’occhio un insieme di teste sporgersi verso l’esterno per ascoltare. Era caduto un silenzio innaturale sulla fila. Si sentivano solo le auto passare, il vento chiudersi dietro di loro.

Tom passò una mano dalla sua spalla sinistra alla nuca. Le accarezzò i capelli ed Heidi lo odiò con tutta se stessa. Lo odiò talmente tanto che smise di odiarlo due secondi dopo.

- Ti amo -

Fu certa che il cuore si fosse fermato.

Fu certa di essere diventata bordò.

Fu certa di aver sentito male.

Fu certa del contrario quando tutta la fila trattenne il respiro all’unisono.

Poi Tom la trasse a sé e la baciò, in un tripudio di flash.

 

Vedeva le persone osservarlo. Sguardi famelici, sguardi perplessi, sguardi invidiosi, sguardi morbosamente curiosi. Ovunque c’erano occhi che non guardavano altro che lui. Il vuoto attorno al suo corpo gli dava fastidio, per un folle istante ebbe il desiderio di dover lottare anche lui contro una moltitudine di individui per raggiungere la sua meta. Continuò a camminare in fretta, ripetendosi che era meglio così, che avrebbe fatto prima, che avrebbe raggiunto in tempo Alex. Perché sapeva che lei non era semplicemente uscita per una boccata d’aria. Sapeva che c’era molto di più.

Raggiunse l’entrata, e decise di prendere l’uscita di destra, dato che a sinistra Tobi controllava il flusso di gente con l’espressione da mastino.

Le mani erano fredde, gli sudavano. Tutte quelle luci gli facevano dolere le tempie. Ma era la paura che spezzava una ad una le sue speranze. Una ad una, crudelmente, con metodicità.

Appena mise piede all’esterno un coro di grida isteriche lo raggiunse, i flash lo accecarono. Aveva sbagliato uscita, da li entravano i giornalisti.

Qualcuno gli afferrò un braccio, strattonandolo indietro.

Gli giunsero voci alle orecchie, ma per lui era tutto estremamente lontano. Si divincolò e continuò a camminare nello spiazzo, gli occhi che percorrevano ogni centimetro di tappeto rosso, ogni transenna, ogni taxi, ogni metro di cemento.

Un’altra mano lo afferrò, tirandogli la manica del giubbotto di pelle. Qualcuno gli infilò un microfono sotto la bocca. Di nuovo cercò di sfuggire dalla presa, ma non ci riuscì. Trascinò con se la mano sconosciuta, accompagnata da un corpo altrettanto sconosciuto, e raggiunse il bordo del marciapiede. Destra. Sinistra. Non c’era nessuno. Non c’era nessuno.

Non c’era più.

Si immobilizzò. Le mani ne approfittarono. Comparvero altri microfoni, altri registratori. Tutti urlavano domande, tutti volevano un pezzo di lui. Lo strattonavano da una parte all’altra per ottenere la sua attenzione. I flash tornarono ad accecarlo, la notte si perse in un mare di baluginii argentati.

E la sua mente era lontana.

 

 

Era ancora in preda al panico quando nella stanza entrò qualcun’altro. Bill puntò lo sguardo su di lei. O meglio, su di loro.

Sulla porta sostavano tre persone. La prima che notò fu la ragazza. Era alta, magra, con fluenti capelli rossi. Un rosso scuro, purpureo. Aveva un bel viso. Pallido. Tratti regolari. Bocca morbida, dall’incarnato rosa acceso. Ma gli occhi, gli occhi erano forse la cosa più bella. Erano grandi, di un verde luminoso. Tanto luminoso che sembravano rischiarare la stanza. Non ricordava di aver mai visto occhi del genere. Ne rimase aggrappato fin quando il buonsenso o la dignità, non sapeva esattamente quale delle due, gli impose di distogliere lo sguardo.

 

 

- Vediamo… se ti dicessi che… ci sono delle persone, delle persone che… non devono assolutamente sapere che sono qui… - cominciò, torturandosi le mani.

Stava dicendo la verità!

- Delle persone da cui sei scappato? – chiese Alex. Altra domanda diretta.

- Si… si può dire anche così – rispose Bill. La ragazza inclinò la testa di lato, una ciocca di capelli rossi le scivolò dal collo e le percorse il braccio, fino ad adagiarsi sul gomito.

 

Non aveva mai preso in braccio un bambino. Come si faceva?

Impacciato, lo afferrò appena sotto le braccine e lo sollevò cautamente. Era leggero… e morbido. I capelli ricci gli sfiorarono il naso, solleticandoglielo. Aveva un buon odore… un misto tra latte e shampoo per bambini. Non fece una piega quando lo prese in braccio, e si lasciò appollaiare sulla sedia come nulla fosse. Continuò pero a seguire ogni suo movimento, fin quando non si risedette al suo posto.

Bill lanciò uno sguardo in tralice a Joanne, che gli sorrise incoraggiante, poi guardò di nuovo il bambino. Zachary sollevò un piccolo indice verso di lui e dopo un attimo di suspense, scoppiò a ridere.

 

 

- Non ci riesco – disse Bill abbandonando le mani lungo i fianchi con aria disperata. Alex si rassegnò e gli passò le mani attorno al collo, legandogli il grembiule dietro la nuca. Bill sentì la pelle del coppino arricciarsi mentre guardava il lobo di Alex vicinissimo alla sua bocca. La sua maglietta profumava di panni puliti, un odore che aveva sempre adorato.

 

 

Qualcosa si mosse sotto le sue dita. Il ragazzo abbassò lo sguardo sulla testolina castana di Kevin. Non lo guardava, ma continuava a tenergli stretta la mano. Pensò che non gli era mai capitato di tenere per mano un bambino. Aveva tenuto per mano ragazze belle o solo carine, mezze nude o trasandate, adoranti… ma mai un bambino. Ed era stato un immenso peccato, pensò. Perché era bello sentire di poter proteggere qualcuno, solo tenendolo per mano. Serrò ancora un po’ le dita attorno a quelle del nano malefico, stando attento a non fargli male.

Era quella, la pace?

 

 

Vide Samuel abbracciare Alex, inginocchiandosi a terra come loro, e lo stesso fece Kevin, cingendo la vita della ragazza. Zachary rimase in piedi, ed allungò una manina paffuta sul capo di Alex, accarezzandole i capelli ed emettendo strani gorgoglii sconnessi.

Rimasero li per un po’, interpretando una goffa imitazione di famiglia.

Bill rifletté in pochi minuti che non aveva mai visto niente di più vero in vita sua. Tutto era autentico, reale, scevro da ogni tipo di patinatura. E non era bello, non era felice, non era positivo, ma la preziosità di quel momento stava proprio li. Tutti si comportavano in modo naturale e spontaneo. Abbracci teneri, pianti disperati e sinceri, conforto disinteressato. E gli parve di ritornare alla vita, quella normale, quella che aveva abbandonato appena dopo i quattordici anni. La vita che gli era venuta a mancare, senza che lui se ne accorgesse.

 

 

- Ma così non ti concedi nulla. Sei talmente immersa nella tua realtà da non poter nemmeno… fingere, sognare – si lasciò sfuggire, scosso di nuovo dal desiderio di aiutarla, di sganciarla da quelle sofferenze che non meritava.

Alex di nuovo fissò le iridi verdi, che nell’oscurità continuavano a brillare per conto proprio, nei suoi occhi. Si avvicinò a lui ed allungò una mano, portandogli una ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio. Poi si soffermò a guardarlo, regalandogli un sorriso. Un sorriso compassionevole e tristemente complice allo stesso tempo. Gli passò un dito sulla guancia, accarezzandolo dolcemente.

- E tu puoi sognare? –

 

 

Ritornò a vedere il mondo senza di lei.

Ed era il solito mondo. Il mondo conosciuto, dove non c’era più nulla da sognare.

Focalizzò il viso della giornalista davanti a lui.

Raddrizzò la schiena, scosse leggermente la testa.

Sorrise, nel solito modo.

“Punta e sorridi, Bill. Punta e sorridi” gli ripeteva sempre il fotografo del primo photoshoot che aveva fatto. E lui aveva imparato.

- Si, io e mio fratello ci stiamo divertendo molto – rispose alla prima domanda che riuscì ad identificare – è una festa magnifica -

Qualcuno gli chiese delle indiscrezioni sull’album.

- Non possiamo rivelarvi nulla al momento, posso solo dirvi che sarà dedicato a delle persone molto speciali… - abbassò lo sguardo, e vacillò sotto il peso delle sua immagine, per un fugace istante – una persona molto speciale – mormorò, ma nessuno sentì quell’ultima parte della frase.

E nessuno vide una lacrima trasparente e pulita sgorgare dall’occhio di Bill Kaulitz, sporcarsi sulla guancia coperta di trucco, tracciare una linea precisa sul suo mento e cadere sul colletto del giubbotto.

Bill Kaulitz sorrideva. Bill Kaulitz era una star. Bill Kaulitz aveva avverato il suo sogno.

Era ragionevolmente impossibile pensare che fosse un ragazzo triste.

 

 

EPILOGO

 

 

Tre mesi dopo

 

 

 

La mattina sapeva di caffè e latte.

Aprì gli occhi e sopra di lei fece capolino il familiare soffitto bianco.

Dove prima c’era una crepa adesso era disegnato un lungo stelo verde. Il disegno culminava in un grosso fiore dai petali arancioni. Charlie l’aveva aiutata a dipingerlo pochi giorni dopo che era tornata a New York, impietosita dalle sue preghiere.

Si alzò, i capelli spettinati che le scendevano lungo le spalle, i piedi nudi che calpestavano il grande tappeto della stanza.

Già dal corridoio cominciò a sentire il cicaleccio della prima colazione. Era piacevole ascoltar parlare coloro che le volevano bene di cose stupide, leggere. Delle loro vite, di quello che non avevano voglia di fare, del numero di cereali da dividere.

Quando entrò in cucina ad accoglierla per primo fu Zachary. Le rivolse un sorrisino sdentato.

Joanne era alle prese con Kevin. Tentava di fargli ingoiare un cucchiaio di sciroppo senza che se lo spalmasse di nuovo sul maglione. Il bambino aveva preso l’influenza a scuola ed era ancora più incontrollabile del solito.

- Buongiorno – disse Samuel vedendola. Charlie era seduta accanto a lui ed usava tre smalti di colore diverso per dipingersi le unghie, uno dei pupazzi ricuciti di Zachary sulle ginocchia.

Prese posto di fronte alla porta, come al solito.

La sua tazza preferita era già pronta, piccole volute di fumo si sollevavano dal latte caldo.

- Oggi devo lasciarti con Kevin. Porto io gli altri bambini a scuola – disse Joanne, ripulendo la bocca di Kevin. Il bambino aveva la faccia contratta in una smorfia ridicola che la fece sorridere.

- Ok, vedrò di fare quello che posso con questo demonio tra i piedi – rispose Alex facendo una linguaccia a Kevin.

- Quando la smetterete di includermi nella categoria “bambini”, ve ne sarò così grata che smetterò di produrre bamboline woodoo, lo giuro! – disse con voce zuccherosa Charlie, dipingendo meticolosamente il mignolo della mano destra.

Alex rise e lasciò che il resto della famiglia proseguisse la conversazione senza di lei. Ascoltare era piacevole quanto partecipare.

Lasciò cadere una piccola ciambellina nel latte. La guardò galleggiare, giocando a farla sobbalzare con il cucchiaio.

All’improvviso sentì il bisogno di alzare gli occhi.

Nella sedia di fronte alla sua era seduto Samuel.

Non troppo tempo prima al suo posto c’era stato qualcun altro.

 

Alex osservò ancora per un minuto la porta ormai chiusa, mordicchiandosi il labbro pensierosa.

Che tipo strano… beh, non tantissimo in effetti. Convivere con Michael le aveva insegnato cos’era l’autentica “stranezza”. Vedere l’amico che si era steso su un cornicione all’ottavo piano di un palazzo, quello era stato strano. Oppure essersi fatta convincere a lanciarsi in una corsa giù dalla discesa della 5th Avenue in un carrello della spesa, quello era stato strano. Bill era forse… misterioso. Non esattamente strano. Anche se qualcosa di strano, nello smalto nero un po’ rovinato che portava sulle mani come fosse una cosa naturale, e nelle meches bionde che aveva, forse c’era. Scosse la testa e ritornò alla sua scrivania. Dopotutto la stranezza era una cosa molto soggettiva.

 

Era di nuovo di fronte a lei, con il dito di Kevin a mollo nella tazza del latte, una smorfia disgustata sul viso. Le parve di vederlo sollevare la testa e sorriderle dolcemente, come gli aveva insegnato a fare. Adorava quel sorriso, era uno dei ricordi più belli in assoluto che conservava dentro di sé, con cura.

Le capitava spesso di pensare a lui. Ci pensava in relazione a piccoli gesti quotidiani. Il modo in cui prendeva la forchetta in mano a pranzo, il modo in cui si annodava il grembiule al pub, quella strana abitudine di inarcare un sopracciglio quando qualcosa gli sembrava inconcepibile. Ricordare la rendeva malinconica, e a volte la spaventava rendersi conto di poter riportare davanti ai suoi occhi ogni più insignificante particolare, ogni attimo passato insieme.

- Alex, ne vuoi? -

Alex sobbalzò e guardò Samuel, che le porgeva un pacco di biscotti al cioccolato. Aveva ricominciato a parlare normalmente da un mese, e sembrava non avesse intenzione di smettere. Lui e Charlie erano diventati inseparabili.

- Si, grazie – disse.

Si guardò intorno, convinta che mancasse qualcosa. Sarebbe sempre mancato qualcosa, ma forse il tempo l’avrebbe guarita.

Nel frattempo, lei avrebbe ricordato.

 

 

If I could fly I'd come to see you wherever you are
I would lie down beside you while you're sleeping
and with simplicity ... I'd spend a little time
just a little time with you

With simplicity, I'd listen to your breath
listen to your heart beat
I would be so near, we could push away the fear
I'd come to see all of your tears
I'd come to see all of your smiles
with butterfly eyes ...

And you would know who I am
and I would know who you are

 

 

 

 

Se potessi volare verrei a trovarti ovunque sei
Mi sdraierei accanto a te mentre dormi
E con semplicità… passerei un po' di tempo con te


Con semplicità… ascolterei i tuoi sogni
Ascolterei il battito del tuo cuore
Sarei così vicina
Che potremo spingere via la paura
Verrei a vedere tutte le tue lacrime
Verrei a vedere tutti i tuoi sorrisi
Con occhi di farfalla


E tu sapresti chi sono
E io saprei chi sei.

 

 

THE END

 

 

 

 

RINGRAZIAMENTI

 

Siamo arrivati alla fine. Mi sembra una cosa stranissima…

Come al solito, la mia speranza è che questo capitolo vi sia piaciuto. Spero non troviate orrori di grammatica (sarebbe a dir poco imbarazzante, visto che è l’ultimo capitolo XD), ma se per caso mi fossi dimenticata qualche castroneria, vi prego di perdonarmi (ero emotivamente scossa XD).

Ho un’ultima richiesta da farvi, prima di lasciar posto ai ringraziamenti ad personam.

Vorrei che coloro che hanno letto questa storia, e che mai hanno recensito, mi facessero sapere cosa ne pensano, ora che è conclusa. Mi piacerebbe davvero avere un’opinione sulla totalità della fan fiction, in modo da imparare cose nuove, trarre le mie conclusioni e migliorarmi nella prossima che scriverò, visto che è già in cantiere.

Sul serio, almeno ora che è finita, fatemi sapere cosa ne pensate q_q. Anche due parole vanno bene ^^.

Finita la parte patetica, passo a quella allegra.

Grazie alle cinquantotto persone che hanno inserito questa FF nei loro preferiti. Un bacio grande a:

 

avuzza
BabyzQueeny
betta94_th
bluebutterfly
CAMiL92
Chamelion_
Ciuly
dark_irina
Dying Atheist
ElianaTitti
Eowyn 21 10
erikucciola
EtErNaL_DrEaMEr
Fee17
fragolina92
Frehieit489
Freiheit
FuckedUpGirl
GodFather
go_ila_go
Ihateyou
joey_ms_86
kashino
Kheth_el
Kimiko Kaulitz
Lales
lebdiesekunde
lilistar
lipsia8
Lithia del Sud
Lola__x
lovelylory
L_Fy
Mademoiselle Coquelicot
madine87
Miss SunShine
nihal_chan
noirfabi
Paaola
pervancablue
picchia
satanina
simmyListing
sole a mezzanotte
susisango
Temperance_Booth
tokiohotellina95
tokitoki
valux91
Vitto_LF
Vladimia
_Ellie_
_emosoul_
_IllusioN_
_midnight_
_Princess_
_PuCiA_
_xXtokiettaXx_

 

Un abbraccio stretto a tutte quelle bellissime ragazze che mi hanno seguita passo passo nella pubblicazione dei capitoli, prendendo un po’ del loro prezioso tempo ed utilizzandolo per lasciarmi una recensione. Vi ringrazio di cuore. :***

 

Un ringraziamento speciale alla mia beta reader, che altri non è se non: bluebutterfly. Ti voglio bene *_*.

Un pensiero a Margherita, che per prima ha sentito questa storia, quando non era altro che parole senza ne capo ne coda.

Un bacio a mia sorella, a cui è ispirato il personaggio di Charlie. Lei E’ Charlie. Ti voglio bene budazza (XD lo so che ti arrabbierai quando leggerai questa cosa, ma tanto non ti conosce nessuno XD ti amo :*).

 

Ringrazio i Muse, i Marlene Kuntz, i Radiohead, gli Strokes, Elisa, i Verdena, i Baustelle, i Massive Attack, gli Oasis, i Placebo, Erik Satie, Ludovico Einaudi e gli Arctic Monkeys per avermi fornito un notevole aiuto in quanto ad ispirazione. A tal proposito, la canzone riportata in termine di capitolo è: Simplicity, di Elisa. Potete ascoltarla qui se desiderate: http://www.youtube.com/watch?v=OFz2Rnkxm9Q.

 

Bene, credo di aver ringraziato tutti.

Se questo finale vi avrà deluso, mi dispiace, ma non sono riuscita a terminare la storia in modo diverso. Per me esisteva solo questo termine. Pur avendo tentato di cambiare idea, alla fine ho scelto di seguire l’istinto.

 

Un bacio a quei quattro debosciati teutonici che prendo in prestito per dare sfogo alla mia frustrazione folle ^^.

 

Alla prossima!

 

Claudia.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=209184