Il Lento Danzare delle Stelle Infinite

di Artemisia_Amore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I, nel quale le Stelle appaiono all'orizzonte ***
Capitolo 2: *** Capitolo II, nel quale la Fortuna gioca una piccola parte ***



Capitolo 1
*** Capitolo I, nel quale le Stelle appaiono all'orizzonte ***


Capitolo I,

nel quale le Stelle appaiono all'orizzonte

 
Lo chiffon azzurro frusciò leggero sulle sue caviglie.
 
Mentre camminava, lenta e decisa, pareva una sonnambula. La luce della luna accarezzava le sue guance e, dal modo in cui Sharon inclinava la testa, di tanto in tanto, sembrava quasi che le sussurrasse il da farsi. Ma in fondo, si disse, non aveva bisogno del consiglio della luna. Sapeva perfettamente quali passi compiere – li aveva recitati nella propria mente milioni e milioni di volte. I piedi nudi affondarono l’uno dopo l’altro sul terreno freddo e umido, incontrando a volte l’erba, più raramente qualche sassolino. Poi, d’improvviso, l’acqua.
 
Gelida. Penetrante.
 
Sarebbe stata come una lama, si ritrovò a pensare, reclinando la testa all’indietro, le labbra dischiuse in un sospiro di dolore mentre lentamente si immergeva.
 
Sarebbe stato veloce. Dapprima il panico, poi la pace. Le sarebbe parso che il cuore esplodesse – e in fondo, se anche fosse stato?
 
Mentre avanzava nel lago, attendendo con paura e sollievo il momento in cui i suoi piedi avrebbero mancato il terreno, cadendo nel vuoto, facendola precipitare nell’abisso, le mani di lui comparvero in un ricordo, dietro i suoi occhi.
 
Lo aveva stretto tra le braccia.
 
Ricordava distintamente la sensazione del calore del suo corpo che si affievoliva a ogni respiro, fino a concentrarsi unicamente sul cuore e poi, d’un soffio, svanire. Ricordava distintamente il dolore dilaniante e straziante con cui si sentì trafiggere il petto quando le sue dita ricaddero a terra, prive di vita, abbandonate.
 
Il silenzio.
 
Oh, se ricordava il silenzio. Intorno a lei, forse, qualcuno aveva persino parlato. Reim? Una donna? Che senso aveva? Che le importava? Lei ricordava il silenzio. Quel silenzio ovattato che allora le penetrò le orecchie, il cervello, gli occhi, come schegge di ghiaccio che miravano a uccidere.
 
Morì con lui. Morì lì. Glielo aveva detto il silenzio. Glielo avevano confermato quelle dita fredde, abbandonate, prive di vita sul pavimento.
 
L’acqua gelida del lago le baciò le labbra. Dapprima le sfiorò soltanto. Poi si fece più esigente, più prepotente, più asfissiante. Chiuse gli occhi, abbandonandosi a quel bacio di morte che, pensò, doveva avere lo stesso sapore di qualsiasi altro bacio da parte di qualsiasi altro uomo. Le lacrime si sciolsero nell’acqua. L’unico bacio che avrebbe davvero voluto assaggiare riposava ormai da mesi sulle labbra congelate del suo primo amore.
 
L’acqua invase le sue narici. Sentì il proprio corpo lottare per sopravvivere. Ma si abbracciò. Si strinse tra le sue stesse braccia. Si costrinse ad addormentarsi.
 
A morire.
 
Sognando…
 
Una fioca luce lontana…

 
***
 
Non era insolito che durante simili giornate di sole gli studenti del college si radunassero nei giardini. A dire il vero, non si radunavano: piuttosto, si dividevano in gruppetti estremamente elitari, l’ammissione ai quali dipendeva molto raramente dalla sincera simpatia reciproca, elemento di poca importanza quando a un cognome rinomato corrispondeva un cospicuo conto in banca. Era principalmente questo il motivo per cui rifiutava di unirsi a quelle comitive. Preferiva di gran lunga la compagnia dei suoi libri. I libri, pensò, non badano a dettagli come la famiglia di origine di una persona. Essi amano indiscriminatamente chiunque abbia il desiderio, la curiosità e la pazienza di starli ad ascoltare. E per lei, che nella sua vita non aveva mai avuto un pasto gratis, che aveva dovuto faticare enormemente per essere ammessa in un college che le avrebbe garantito un passaporto per un futuro più brillante, l’amicizia di un libro aveva un valore inestimabile.
 
Mentre percorreva il sentiero di ciottoli, intenta a riflettere sul bizzarro abbigliamento che il professor Higgings aveva sfoggiato durante la lezione di recupero di Storia Naturale, adocchiò un platano non molto lontano. Inclinò la testa, la treccia di capelli ramati oscillò sulle sue spalle, e con un sorriso decretò che l’albero sarebbe stato suo. O almeno, impossessarsi di un comodo, fresco posto all’ombra sarebbe stata la sua intenzione se qualcosa non l’avesse urtata d’improvviso, facendole perdere l’equilibrio. Cadde a terra, e così fecero i libri che si era stretta al petto fino a quel momento: si sparpagliarono sul prato, e il romanzo si aprì, sporcandosi di terra.
 
“Ehi! Stai bene?”
 
Che domanda sciocca. No, sarebbe stata bene. Sarebbe stata bene se la gente avesse imparato un po’ di educazione e – magari – sempre che non fosse chiedere troppo – avesse fatto propria anche l’utile abitudine di guardare dove metteva i piedi. Ma si tenne per sé quei pensieri, e si limitò ad imbronciarsi, sdegnata.
 
“Dai, ti do una mano a rialzarti…”

Di nuovo quella voce, baritonale e disinvolta. Era ancora lì?
 
“Ho imparato a camminare a otto mesi. Direi che dopo diciassette anni dovrei essere in grado di  rimettermi in piedi da sola senza troppi problemi.”
 
Ignorando la mano tesa del ragazzo di fronte a lei, gli diede le spalle per occuparsi di una questione ben più importante: i suoi libri. Dannazione. Era riuscito a farli cadere tutti. Persino il…
 
“…Romanzo? Oh-oh, 'La fortezza di cristallo'. Sembra interessante… Vediamo un po’… ‘La fanciulla dalla diafana pelle un candido piedino scoprì, e ivi Balderu un soffice bacio a suggellare il giuramento depose: «Sarò per sempre il vostro devoto servo, ojou-sama»’. A qualcuno, qui, piacciono le storie d’amore, eh?”
 
Infastidita, si sporse verso il ragazzo, tirandogli via il libro dalle mani, e si strinse il romanzo al petto, proteggendo il suo segreto. Segreto, tuttavia, prontamente tradito dall’intenso rossore delle sue guance.
 
“Non ti hanno insegnato l’educazione? Chi ti ha dato il permesso di aprirlo?”, borbottò, indolente, lanciando a quello che doveva essere evidentemente uno studente dell’ultimo anno uno sguardo velenoso.
 
“Che cos’è ‘ojou-sama’?”, domandò il ragazzo, inclinando la testa, curioso. Ma un istante dopo fece schioccare le dita e schiuse le labbra in un sorriso obliquo di sfida: “Vuol dire forse ‘ragazza scontrosa che preferirebbe morire piuttosto che accettare la cortesia di un galantuomo che si era offerto di aiutarla a rialzarsi?’”
 
Phebe strinse i denti e le dita sui libri, finché le nocche non diventarono bianche. Rimase in silenzio per un breve istante, prima di imbronciarsi e socchiudere gli occhi.
 
“Galantuomo? Spero che l’uso improprio di quest’iperbole non fosse un tuo tentativo grossolano di autodefinirti come tale – non dopo che mi hai spinta a terra, quantomeno!”
 
Il ragazzo sbatté le palpebre, sorpreso. Per qualche istante sembrò non vederla più, assorto nei propri pensieri, la bocca intenta a masticare un chewing-gum alla menta dal profumo fresco. Mentre recuperava le dispense di Storia Naturale, Phebe si ritrovò a notare un dettaglio sciocco come quello. Sollevò la mano. Si allontanò una ciocca ramata dal viso, fermandola dietro l’orecchio. Poi si decise a fronteggiare di nuovo il ragazzo.
 
“Ti serve qualcosa?”, domandò, irritata e perplessa da quel silenzio. Visto che non avevano altro da dirsi, perché accidenti se ne stava lì impalato? Il ragazzo passò la palla da baseball dalla mano destra alla sinistra coperta dal guantone, e si passò le dita tra i capelli corvino, scoprendosi il viso e gli occhi di un luminoso azzurro ghiaccio. Schiuse le labbra per rispondere, ma…
 
“Lloyd! Datti una mossa! Stiamo aspettando te, amico!”
 
Non molto lontano dal platano adocchiato pochi minuti prima, Phebe scorse un gruppetto di studenti dell’ultimo anno. Ne conosceva un paio di nome. Daniel Archery, per esempio, tre volte vincitore della borsa di studio riservata alle eccellenze del college. Perché mai si accompagnava con un tipo come… Quello?
 
Lloyd recuperò la palla da baseball dal guantone e ve la lanciò di nuovo, inclinando la testa per cercare i suoi occhi verde menta.
 
“Ehilà? Mi stai ascoltando?”
 
La ragazza sbatté le palpebre. Che cosa…? Aveva forse parlato? Perché mai si era distratta, pensò. Si rialzò in piedi, i libri di nuovo stretti al petto, e rivolse al ragazzo un’occhiata veloce, squadrandolo, prima di spostare lo sguardo verso un punto indefinito, nel cielo.
 
“E comunque, 'galantuomo'… Che fine ha fatto la giacca della tua divisa?”, commentò, decisa a mostrare tutto il suo più enfatico disinteresse nei confronti delle persone che non rispettano le regole. Persone come lui, come quello. Come un ragazzo col colletto della camicia non abbottonato, che mastica un chewing-gum alla menta, e gioca a baseball nel cortile del college anziché sfruttare la pausa per avvantaggiarsi con gli elaborati scritti, e che – oh! Solo il cielo sa che brutta reputazione può avere.
 
In tutta risposta, Lloyd ghignò.
 
“Mh? Non pensavo ti dispiacesse vedermi svestito…”, mormorò, modulando la voce in un sussurro suadente.
 
Phebe avvampò, gli occhi sgranati per l’indignazione di fronte a tanta sfacciataggine.
 
“Oh, ma smettila! Non ti conosco neanche!”, replicò, e il timbro della sua voce si fece più acuto, sulla difensiva. Lloyd rise tra sé, soddisfatto e vittorioso.
 
“Il che rende il tutto molto più interessante, non trovi?”
 
Gli lanciò un’occhiata truce. Ma lo sguardo di Lloyd, inaspettato, parve attraversarle le iridi, penetrante come ghiaccio. Per un attimo, tutto ciò che vide fu rosso. Rosso, scarlatto, cremisi, un cuore che perde un battito, un sorriso – come quello di una bambola?, una risata. Sentì caldo, sentì freddo. In un attimo venne travolta dalla voglia di piangere e quella di ridere, mentre un centinaio di fiori di loto parvero schiudersi dentro al suo ventre. Una frizzante sensazione di dejà vu le diede le vertigini.
 
“Amico?! Ti serve una mappa per riportare qua la palla?”, gridarono dei ragazzi lontani.
 
Lloyd fece un cenno verso i suoi compagni, poi tornò a guardare Phebe. Si piegò leggermente per intercettare il suo sguardo, in fretta distolto e posato sull’erba. Quando lo incontrò, finalmente, sorrise.
 
“Beh, allora ci si becca in giro… Ojou-sama…”.



 
Nota dell'Autore.
Se il mondo de
Il Lento Danzare delle Stelle Infinite vi incuriosisce, venite a trovarci nel blog ufficiale della storia (his-soul-has-returned.tumblr.com), dove abbiamo ricreato l'ambientazione dell'Atleas College!
Indossate la divisa e diventate studenti della prestigiosa scuola, o fate domanda per essere scelti come chef o professori! Cerchiamo volontari  e illustratori che vogliano aiutarci a dipingere questo mondo di fantasia!

 
Dedica
Grazie con tutto il mio cuore per aver letto questa storia. La scintilla di questo racconto ha preso vita un mese fa e, animata dalla gioia di esistere, ha bruciato intensamente fino a poche righe dal finale, quando nuvole oscure si sono posate sulla mia voglia di continuare a scrivere, dando il via a una lunga pausa.
Tuttavia, sono finalmente riuscita a completare le poche venti frasi che mi separavano dalla parola "fine". E spero che ciò che ho raccontato possa avervi raggiunto e fatto sognare.
Fatemi sapere la vostra opinione. Lo adorerei.

Dedicata a mia sorella, modella di questa storia.

Dedicata a Serena, vivida luce.
Dedicata a thyandra, compagna tessitrice di parole. A te il mio tributo, tra le righe.

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Capitolo 2
*** Capitolo II, nel quale la Fortuna gioca una piccola parte ***


Capitolo II,

nel quale la Fortuna gioca una piccola parte



Ne sentiva tutto il dolore.

Mentre la fiamma della candela consumava silenziosamente lo stoppino, emanando una luce fioca che a stento riusciva a illuminare l’ampia scrivania, la mano si bloccò. La guardò, soffermandosi per qualche istante sulla punta delle tre dita che reggevano la penna. Stava succedendo di nuovo. Fece un respiro profondo, rassegnato e al tempo stesso frustrato, e si decise a sbattere le palpebre, allontanando dagli occhi quella patina tipica degli scrittori ispirati - la lente che permette agli artisti di sbirciare i segreti di mondi ignoti. Posò la penna sul foglio, congiunse le mani e si stiracchiò lentamente. Nonostante gli sforzi che da notti lo tenevano sveglio, incapace di ignorare l’arcana musica che risuonava e danzava incontrastata nella sua mente, non riusciva a imprimere sulla carta quella visione, quei colori, quegli odori così intensi. Perché?

Si lasciò ricadere contro lo schienale della sedia e si concesse qualche breve attimo di riposo. Allontanò gli occhiali dal viso e li posò sulla scrivania, fissandone distrattamente la montatura di tartaruga. Era scheggiata. Lo era sempre stata, da che aveva memoria: un piccolo graffio sul contorno della lente sinistra, proprio prima dell’attaccatura della stanghetta. Quella scheggiatura lo rassicurava. Quella scheggiatura faceva di lui un Archery. Lo spettro di un sorriso si dipinse sul suo volto pallido, su cui svettavano le labbra intensamente rosse: doveva essersi inavvertitamente morso in preda al processo creativo. Inclinò lievemente la testa, gli occhi pesanti di un sonno che per mesi non aveva contato più di quattro ore a notte, e tamburellò i polpastrelli della mano destra sugli occhiali. Lo stavano fissando, rotondi e russet, e gli parve quasi di intravedere gli occhi vivaci, verde scuro e sagaci di suo padre dietro le lenti. Quegli occhiali erano stati suoi. Li aveva avuti indosso, quando quella caduta dalla motocicletta si rivelò fatale, strappandolo alla vita dopo due giorni di intensa agonia. Ma fu solo dopo le seconde nozze di sua madre che Daniel, fino ad allora fin troppo preoccupato di mascherare la difficoltà con cui distingueva le parole stampate sui libri, cominciò a indossare gli occhiali per quella deliziosa attività che era leggere. E scrivere.

Oh, scrivere.

Spostò la mano sul foglio che la notte prima aveva riempito d’inchiostro. Lo rilesse avidamente, gli occhi socchiusi nello sforzo di mettere a fuoco le lettere, e quando raggiunse la metà della pagina, avvertì il cuore prendersi una pausa e, come lui, tirare un respiro di sollievo.

Ne sentiva tutto il dolore…

“Qual è il problema, stavolta?”

Sussultò, richiamato alla realtà dalla voce del suo compagno di stanza. Si voltò e rivolse a un Lloyd più spettinato del necessario un sorriso mortificato. Doveva averlo svegliato per l’ennesima volta. Ah, ma quei capelli fin troppo in disordine non lo ingannavano. Socchiuse gli occhi, e finse di non aver colto le avvisaglie di qualsiasi sciocca trovata gli stesse attraversando il cervello in quel momento. Dopo anni di convivenza, aveva imparato a leggere i segni della ribellione dell’amico nel linguaggio del suo corpo. E quelle ciocche corvino che gli oscuravano gli occhi erano una chiara dichiarazione d’intenti. 

“Niente di serio," rispose dopo qualche istante, voltandosi di nuovo verso la scrivania. Raggruppò i vari fogli sparsi, deciso a interrompere, per quella notte, il canto dell’oscura musica che gli riempiva costantemente le orecchie. Sentì le molle del materasso di Lloyd scricchiolare, e si affrettò a minimizzare la questione: non era dell’umore adatto per mostrare all’amico gli sfortunati tentativi delle ultime notti. “Solo un problema di rime…”, mormorò, riponendo i fogli nel secondo cassetto, sotto una pila di lettere ancora sigillate.

“Rime? Alquanto prevedibile, Archery. Che cosa diavolo fa rima con ‘Xerxes’?”, replicò Lloyd da sopra la sua spalla. Si era evidentemente alzato, e, a un passo da lui, lo fissava, divertito. Poi cambiò posizione, e appoggiò i fianchi alla scrivania, le caviglie e le braccia incrociate mentre la vestaglia da camera malamente annodata in vita poco si curava di coprirgli il petto. “Come accidenti ti è venuto in mente un nome così improbabile?”, domandò, sollevando entrambe le sopracciglia, un istante prima di ridurre gli occhi a due fessure e far schioccare la lingua, trionfante: “Che sia qualcuno che conosci? Poesie per un amico? Ti piacciono i maschi, Danny?”

“Non più di quanto mi piaccia tu, Lloyd,” rispose l’altro con scarso interesse. Recuperò gli occhiali e li ripose nel primo cassetto, dopodiché si diede una lieve spinta per dondolare sulle gambe della sedia. Rivolse all’amico uno sguardo più attento, e ripagò la vista del suo disinvolto petto nudo alla quale lo obbligava con un’osservazione tanto argentina quanto indelicata: “Dovresti farti una doccia, lo sai?”

“E tu dovresti farti una dormita. Sembri più malaticcio del solito. Andiamo nel dormitorio delle femmine?”

“Sei scemo, Fowles?”

Lloyd socchiuse gli occhi e sollevò l’indice della mano destra in aria, come per imporre il silenzio all’amico. Assunse l’aria di chi la sa lunga, e, mentre un sopracciglio si arcuava con sarcasmo, proferì: “Ah, avrei dovuto immaginarlo. Hai paura di incontrare Amelia, vero?". Ghignò, e il suo sorriso riuscì a evocare uno sguardo perplesso sul volto di Daniel.

“Chi?"

“Oh, avanti. Quella del gruppo di lavoro di Garland…”

“Non ho idea di cos—"

“L’ha assegnata a te per la presentazione di due mesi fa. Capelli castani, lunghi, lisci, carnagione calda, occhi neri, leggermente strabici. E’ Teridueña? Ha riso quando le hai detto qualcosa, e mezzora dopo avete…”

Daniel guardò Lloyd con fare divertito. Eccolo che ricominciava. Si chiese come accidenti facesse a notare tutti quei dettagli nelle persone, considerando la soglia di attenzione decisamente esigua dell’amico che lo rendeva, in genere, il principale elemento di disturbo delle lezioni.

“Ripeto, non ricordo nessuna—," replicò Daniel con scarso successo, visto che Lloyd non lo stava ascoltando.

“…in parole povere, quella a cui non mi hai presentato."

Ah, svelato l’arcano. Daniel sorrise e scosse la testa. Come aveva potuto credere che Lloyd fosse in grado di notare qualcosa - o qualcuno - senza covare per esso un secondo fine in quel labirinto di celie e joie de vivre che era la sua mente? Lo guardò scarabocchiare distrattamente la propria accigliata caricatura, completa di due gigantesche lenti rotonde, sul frontespizio del manuale di Letteratura, prima di passare la matita alla mano sinistra e aggiungere la didascalia: “Raro esemplare di Daniel Archery, supposta eccellenza dell’Atleas College, nel suo habitat naturale”.

“Mi stai dando del topo di biblioteca? Davvero originale…”

“No, Danny," Lloyd ghignò, rendendo all’amico la matita prima di allontanarsi dalla scrivania e raggiungere la porta della loro camera, “Ti sto dando dello sfigato."

Daniel scosse di nuovo la testa, poi si voltò lentamente, curioso, per studiare la posa improbabile del compagno di stanza, il cui orecchio era posato sulla porta e il cui sguardo pareva assorto.

“Che cosa ti ronza in testa, Fowles? Rendimi partecipe dei tuoi oscuri pensieri."

“Sto progettando un furto," rispose quegli, premendosi sempre di più contro la porta per accertarsi del silenzio che sperava regnasse nel corridoio. Speranza che, con sua immensa soddisfazione, non fu disattesa. 

“Un furto? Ai danni di…?”

“Mrs. Kittleson. Croissant al miele appena sfornati. Albeggerà a minuti, la prima infornata dovrebbe essere pronta…”

Daniel sorrise e si alzò dalla sedia, avvicinandola subito dopo alla scrivania per lasciare, come sempre, tutto in ordine. Indossò a sua volta la veste da camera, puro cashmere e seta color bronzo dagli intricati arabeschi borgogna, e raggiunse l’amico, un sorriso compiaciuto sulle labbra.

“Come non mi stancherò mai di ripetere, Fowles, hai l’impagabile dono di una mente brillante…”

Osservò l’amico abbassare la maniglia della porta, uscire nel corridoio e guardarsi intorno. Fece per seguirlo, ma si arrestò quando la veste da camera di Lloyd volò davanti ai suoi occhi, tornando dentro la stanza, un attimo prima che il ragazzo iniziasse a passeggiare, disinvolto e divertito, lungo il corridoio, vestito solo della biancheria. Daniel sospirò.

“E’ la stravaganza il tuo solo problema."

***

Non esisteva veramente nulla al mondo in grado di ritemprare il suo spirito e rilassarlo quanto l’allenamento di canottaggio del Venerdì. L’aria pungente del primo mattino che gli scompigliava i capelli, gli schizzi d’acqua gelida che gli sferzavano le guance, la sensazione pura e semplice di ogni muscolo del proprio corpo che si contraeva e rilassava, dapprima vivace ed entusiasta e poi via via sempre più stanco, fino a diventare stravolto e dolorante, lo facevano sentire vivo. Vivo, parte e particella di un mondo nel quale non svolgeva il semplice ruolo di pedina nelle mani del fato, ma del quale succhiava e beveva l’essenza a gran sorsi: dal vento che profumava di luoghi che non aveva mai visto; dal sole che splendeva senza sosta, identico, invariabile, giusto, sul viso di tutti, dal più povero al più ricco; dall’erba che verdeggiava, ebbra del suo colore di libertà; dai sorrisi dei suoi amici e compagni, che con lui si impegnavano duramente, e remavano fino a sentir male alle mani, alla schiena, alle ossa. Sorrise, Lloyd, e annusò l’aria di primavera. Era un bel momento, pensò, per essere vivo.

Scese dalla barca, che oscillò dolcemente dietro di lui, e si posò le mani sui fianchi, guardando il fiume alle proprie spalle, gli occhi azzurri resi ancor più brillanti dalla luce dell’orgoglio. Daniel e il suo gruppo erano ancora lontani. La barca capitanata da Maurice li precedeva di poco. Delle altre due ciurme ancora nessun segnale. Si allontanò due ciocche corvino dagli occhi, ragionando. Aveva tempo per un veloce spuntino. Pane e formaggio, magari? Oh, sì. Sarebbe stato perfetto. Il pane non avrebbe dato troppi problemi, non era mai sorvegliato, ma per il formaggio… Beh, per quello avrebbe escogitato qualcosa.

Approfittando della distrazione dei suoi compagni di voga intenti a scambiarsi figurine e fotografie non esattamente ammesse dal regolamento del college, risalì velocemente la prima collina, fino a raggiungere il sentiero sterrato che conduceva all’imponente edificio. Pensò distrattamente ai secoli di storia che dovevano aver percorso quello stesso sentiero, lasciando come lui orme leggere sulla terra color oro vecchio. Si domandò quali sogni avessero, quelle ombre del passato, e se si fossero mai sentite così vive, così disperatamente giovani e felici, così follemente certe di avere in pugno le redini del mondo intero. 

Si scostò leggermente la maglietta fradicia di sudore dal petto. Cominciava a sentire freddo. Aveva poco tempo, si disse, per divorare lo spuntino e correre alle docce prima dell’arrivo degli altri. Avrebbe dovuto fingere di non essersi mai mosso di lì. Svoltò a sinistra e fiancheggiò il perimetro del college per vari metri. Ah, Danny non gli avrebbe creduto, ne era certo. Forse avrebbe dovuto rubare del formaggio anche per lui? Sollevò lo sguardo da terra per posarlo lontano, verso il boschetto che nascondeva l’acqua allegra e scintillante del fiume. Poi, d’un tratto, si bloccò.

Una musica.

Una musica come due dita sensuali che afferrano e fanno vibrare le corde del cuore. Si portò una mano sul petto, spalancò gli occhi. E quella musica gli risuonò dentro, utilizzando la sua cassa toracica per propagarsi, ancora e ancora, insinuandosi sempre più a fondo nella sua mente, avvolgendogli l’anima.

Che cos’era?

Sollevò il mento, fiutando l’aria come se potesse intercettare la scia di quel suono così seducente e così crudele, che lo invitava a sé e tuttavia si faceva beffe di lui. Chiuse gli occhi, e sbatté contro un muro. La seconda volta fu più cauto, e si premurò di allungare un braccio di fronte a sé per evitare gli ostacoli che non poteva vedere. Finché la musica non si fece più intensa, più penetrante, più esigente.

Aprì gli occhi, sollevò le braccia per aggrapparsi al davanzale della finestra sopra la sua testa e fece leva sul piede sinistro, che premette contro il muro. Si tirò su senza troppa fatica e, finalmente, fu libero di sbirciare dentro la stanza dalla quale proveniva quel suono ammaliante.

E ciò che vide lo lasciò senza fiato.

 

 

Nota dell'Autore.
Se il mondo de
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Indossate la divisa e diventate studenti della prestigiosa scuola, o fate domanda per essere scelti come chef o professori! Cerchiamo volontari  e illustratori che vogliano aiutarci a dipingere questo mondo di fantasia!

 

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