Sleep Twitch

di Sheep01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Disclaimer: Tutti i personaggi citati non mi appartengono, ma sono proprietà Disney e Marvel.

Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 

Prologo

 

Atlanta, Georgia

 

Erano le ventitré e trenta di un mercoledì di fine aprile.

La serata era fresca e portava il profumo delle rose piantate tutt'intorno al piazzale dei laboratori di ricerca scientifica.

Il dottor Bruce Banner non riuscì a fare a meno di pensare che il suono dello sblocco dell'allarme della sua vecchia Opel si diffondeva come la serena promessa di un rientro, piuttosto che come un'eco che andava a disperdersi nella desolazione di un parcheggio notturno.

Non aveva fatto altro che pensare a Betty per tutto il giorno. Al fatto che avrebbe tardato, di nuovo, per via di quel nuovo progetto governativo.

Non avrebbe avuto particolari problemi ad affrontare straordinari più o meno massacranti, ma dal giorno in cui aveva scoperto che la moglie aspettava un bambino, i suoi ritmi di vita avevano subito una brusca virata e il pensiero di lasciare a casa da sola una donna al sesto mese di gravidanza, adesso gli dava una certa preoccupazione.

Tirò fuori il cellulare e lo fece squillare un paio di volte, prima che, dall'altra parte della cornetta, rispondesse un'assonnata voce femminile.

“Ehi, Bruce...”

“Ti ho svegliata?”

“No... mi ero solo assopita di fronte alla televisione. Dove sei?”

“Sto tornando a casa...”

“Oh, bene... così ceniamo insieme.”

“Non hai mangiato?” si preoccupò immediatamente, un braccio appoggiato al tettuccio della macchina e la mano a massaggiarsi gli occhi stanchi.

“No, lo sai che non mi piace mangiare da sola”

“Farò il prima possibile allora. E' andato tutto bene oggi?”

“Tutto bene...” riuscì a percepire il sorriso di lei dal suo tono di voce e ne fu rassicurato, “a parte le caviglie gonfie e il fatto che sdraiata sul letto sembro una balena spiaggiata.”

“Dovremmo proprio levare quello specchio dalla camera da letto.”

“Perché mai? Lo sai quanto ami l'autocommiserazione.”

Bruce sorrise e si lasciò scivolare di dosso il mal di stomaco che non lo aveva lasciato un solo istante da quella mattina. Come se percepisse un disastro imminente o, nello specifico, che qualcosa andasse storto nella gravidanza. Preoccupazioni più che giustificate, gli avevano assicurato. Lui però non riusciva ancora a farci l'abitudine.

“Dai papino, torna a casa... ho bisogno di un massaggio ai piedi.”

“Sarò lì prima che tu riesca a dire: massaggio ai piedi.”

“Allora dovrai muoverti... ho la lingua veloce.”

Riattaccò la cornetta che ancora stava ridendo, prima di scivolare nella sua macchina, assaporare la comodità del sedile della sua vecchia Opel Corsa e... rendersi conto di aver dimenticato la cartelletta con gli appunti che aveva intenzione di esaminare, quella sera stessa, prima di andare a dormire.

“Merda...” sospirò, accasciandosi per un solo istante per recuperare energie in vista dell'ultimo, inutile sforzo della serata, maledicendosi per la dimenticanza. Avrebbe potuto fregarsene, richiudere la portiera di quella maledetta macchina, ingranare la prima e sgommare lontano da quel luogo che risucchiava le sue giornate come un vampiro. Invece riemerse da quell'auto - che si augurò avrebbero finalmente sostituito con qualcosa di più pratico quando sarebbe nato il piccolo - e tornò sui suoi passi per rientrare nei laboratori.

Salutò di nuovo Ralph, il guardiano di notte, intento a guardarsi la replica di qualche film in bianco e nero in seconda serata e di nuovo su per gli ascensori deserti.

Fece scivolare il badge nel lettore e la porta del suo ufficio si aprì, rivelando una scrivania talmente incasinata da fare concorrenza a quella dei suoi anni del college in periodo d'esami. Non era cambiato poi molto da quegli anni, a parte le striature grigie che avevano preso ad invadergli la testa. Ad altri era andata peggio: erano diventati calvi.

Fece un cenno al tecnico di laboratorio che stava uscendo da una delle porticine adiacenti.

“Straordinari stasera, Bannerino?”

“Non scherziamo, Neil... ho solo dimenticato una cosa.”

“Allora buona serata e saluti alla signora.” con l'aggiunta finale di un colpo di tosse.

“A te...”

Bruce frugò a lungo fra le scartoffie, prima di trovare i suoi appunti e, dopo essersi ripromesso che il giorno dopo avrebbe fatto ordine, fu pronto per tornare veramente a casa.

Richiuse i cassetti rimasti aperti e si infilò la cartellina sotto al braccio quando un rumore sordo simile a quello di un corpo che cade, fuori dal suo ufficio, non catturò la sua attenzione.

“Neil?” indagò allungando il collo. Si sporse nel corridoio trovandolo deserto: il bagliore accecante delle luci artificiali nel candore di due pareti asettiche. Tutt'intorno, il silenzio.

Spense la luce del proprio ufficio e ne uscì non del tutto persuaso di esserselo solo sognato.

“Neil... sei tu?” di nuovo nessuna risposta.

Fu solo quando gli parve di percepire un prolungato lamento, che non riuscì più a catalogare l'episodio come frutto della sua immaginazione.

“Neil? Ti sei fatto male?” andò cauto verso il laboratorio in cui aveva catalogato e esaminato provette per tutto il pomeriggio assieme al suo team di scienziati. Sbirciò attraverso i vetri senza trovare traccia alcuna del collega. Le luci della stanza ancora accese, i macchinari di sperimentazione ancora in esecuzione.

“Dannazione Neil, non ho tempo di stare a giocare...” sibilò, mentre la sua coscienza gli impediva comunque di fregarsene. Avrebbe dovuto chiamare la sorveglianza e fargliela pagare a modo suo a quell'imbecille di Neil, ma qualcosa lo spinse a estrarre di nuovo il badge e aprire la porta del laboratorio senza starci a pensare due volte.

“Non ho voglia di scherzare”, annunciò, la voce che cercava di essere minacciosa o quantomeno di far capire che non era affatto in vena di stupidaggini e di certo neanche di subirne. Neil era una di quelle persone che spesso e volentieri si facevano beffe di lui, solo per rimarcare quanto buona fosse la sua indole. Ma erano finiti gli anni del liceo ed erano finiti gli anni in cui si faceva deridere dai compagni per essere solo colpevole di avere una mente troppo sveglia e una predilezione agli studi. Neil doveva essere dalla sua parte, invece, a quanto pareva, i cazzoni non smettono mai di saltare fuori in qualsiasi fase, in qualsiasi ambiente della tua vita.

Si guardò attorno senza trovare niente di particolarmente anomalo, il nervosismo che risaliva stizzito a tormentarlo come e più di quello stesso pomeriggio. Non aveva veramente tempo per quelle stronzate, doveva accantonare quella sua stupida premura, tornare a casa dalla sua Betty, aiutarla con la cena, farle quel massaggio ai piedi che...

… di nuovo quel lamento.

Un lamento prolungato, innaturale tornò a reclamare prepotentemente la sua attenzione. A infrangere il monotono ronzio dei macchinari, a serpeggiargli lungo la schiena in un brivido d'inquietudine.

Sentì l'agitazione tramutarsi in qualcosa di meno terreno, più viscerale. Un formicolio alla base del collo a scandire il battito improvvisamente inquieto del suo cuore.

“N-Neil... ?”

Dovette aggirare il tavolo di metallo in mezzo alla stanza, per vederlo. Lo trovò riverso al suolo, il camice sparpagliato tutt'intorno.

“Cristo santo!” la razionalità aveva improvvisamente scacciato la paura e in un attimo gli fu accanto, cercando di comprendere quale fosse la natura del suo evidente malore. Erano giorni che gli sembrava afflitto da un gran brutto raffreddore ma da qui a svenire…

“Neil, mi senti? Neil?” cercò di rigirarlo nella sua direzione, con cautela, per capire se ancora stava respirando, quando si sentì afferrare per la gola dalla stretta innaturale della sua mano.

“C-cazzo!” cercò di divincolarsi senza particolare successo. L'uomo sembrava aver acquisito una forza del tutto fuori dal comune. Sentì la gola scricchiolare sotto la sua presa e non parve comprendere lo stato di cose finché non riuscì, finalmente, a scorgere il suo viso.

Sfigurato, pallido, gli occhi arrossati, lo sguardo spento, ma più di tutto furono le sue labbra e lo schiocco di quei denti che battevano mostruosamente, con la chiara intenzione di raggiungerlo per fare Dio solo sapeva cosa.

Bruce riuscì ad assestargli un calcio, proprio alla base del petto, riuscendo a liberarsi.

Si rimise in piedi, solo per rendersi conto che anche quello pseudo Neil lo stava facendo, e con una velocità tale che lo costrinse ad arretrare in rapida sequenza.

“Che cazzo ti prende?!” esclamò irrazionalmente. Aveva compreso, nel momento stesso in cui lo aveva guardato negli occhi che Neil era partito per la tangente.

Cercò di guadagnare la porta, con la chiara intenzione di rinchiuderlo lì dentro e chiamare, finalmente la sicurezza, ma l'uomo lo aveva di nuovo raggiunto. Un colpo sordo alla schiena e Bruce barcollò di lato, aggrappandosi in ultimo a uno dei tavoli da lavoro. Non poté fare altro che trascinarselo dietro in un fracasso di vetri infranti e lo sfrigolio metallico di macchinari elettronici. Gli crollò addosso tutto. E il suo viso, i suoi vestiti, i capelli striati di grigio furono ben presto inzuppati della mistura puzzolente di quel progetto ancora in fase di sperimentazione.

Non capì esattamente la dinamica di ciò che accadde dopo.

Il mondo si era fatto improvvisamente oscuro, il rumore dello schiocco delle ganasce di Neil era troppo vicino e la puzza di fumo aveva preso a invadere la stanza.

Avvertì una lacerazione alla base del collo, qualcosa di così doloroso che invece di farlo gridare gli strappò un silenzioso singulto.

Il suo corpo si irrigidì e quella sensazione allo stomaco divenne improvvisamente il fulcro di tutte le sue preoccupazioni.

Betty.

Casa.

Cena.

Massaggio ai piedi.

Betty.

Il bambino.

L'olezzo marcescente di una carogna che andava a male.

Alzò un braccio e la sua mano andò a stringersi attorno alla testa del fu collega.

Aprì gli occhi, mentre una furia cieca gli ottenebrava la mente.

Le ganasce ancora lì, una voragine oscura che voleva soggiogarlo.

Ma non glielo avrebbe permesso. Doveva tornare a casa.

Tornare dalla sua Betty, tornare dal suo bambino...

Serrò la presa attorno al cranio di Neil che ora sembrava così minuscolo, così misero, fra le sue mani, così fragile...

Si spezzò con uno schiocco liberatorio, lasciando schizzare a terra frammenti di ossa e materia cerebrale.

Bruce si rimise a sedere... e mentre le sirene dei laboratori scandivano l'orrore di quella sera di fine aprile, il ruggito del mostro scacciò l'ultimo stralcio di coscienza a cui lo scienziato si stava tenacemente aggrappando.

 

__

 

 

Note:

Ebbene sì. Mi sono data all'horror (più o meno). Qualcosa che vede coinvolti quegli strani esseri notoriamente chiamati zombie, ma che poi assumono connotazioni diverse a seconda del racconto che si vuole farne. Ed ecco... il mio non è che uno pseudo omaggio al genere. Un po' seguendo l'ispirazione di quel telefilm tanto di moda (e che ricomincia stasera!) sugli zombie. Un po' perché, complici le mie letture estive Stephen Kinghiane mi sono lasciata ispirare (non sono nemmen degna di allacciargli le scarpe, s'intende) da quel suo gran lavoro che è L'Ombra dello Scorpione. Quindi seguendo una mistura esplosiva di pensieri, ecco che è uscito fuori qualcosa che ricalca il tema di un mondo provato da visioni post apocalittiche ma che vede coinvolti i nostri Avengers... perché in questo tipo di storie, più che la dominante horror ci si concentra sulle persone. Su come cambia la visione del mondo e come la razza umana persevera a sopravvivere, a stringere legami, nonostante tutto.

Ringrazio Sere, al solito, perché con i miei deliri su The Walking Dead (e Daryl Dixon ahem), le ho fatto una testa tanta che alla fine l'ho convinta a vederselo. La storia, premetto, ha cominciato a leggersela prima di vedere suddetto telefilm, e quindi tanto di cappello. E un bacione.

Detto ciò, spero apprezzerete lo sforzo, perché è veramente la prima volta che mi cimento con il genere.

Pubblico il primo capitolo come regalo a me stessa. Perché oggi ho finito un lavoro particolarmente impegnativo che ha risucchiato tutte le mie energie del periodo. E una pausa per questo modestissimo hobby, me la volevo concedere. Chiamiamola la mia sigaretta celebrativa. Non fumo, ma pubblico fanfiction (che culo eh?).

Nel prossimo capitolo troveremo il resto della banda. Quindi la smetto di dilungarmi e... alla prossima (se lo vorrete) e che King me la mandi buona e senza mostri sotto al letto.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1

 

Wayne Dullop, patente della Georgia, nato nel 1979. Aveva 28 dollari in tasca quando è morto, e una foto di una bella ragazza: "Con amore, dalla tua Rachel". Un tempo era come noi, si preoccupava delle bollette, dell'affitto, del SuperBowl. Se mai troverò la mia famiglia racconterò loro di Wayne.

(The Walking Dead)

 

*

 

Warren, Maine

Una settimana dopo

 

Di nuovo quel sogno.

Un lungo corridoio, ammiccanti luci al neon, il mugolio sommesso della voce di un essere umano. E poi quello schiocco, continuo, ritmato: clack, clack, clack, del quale non era mai riuscito a comprendere la provenienza. Si svegliava sempre prima di aggirare quel maledetto corridoio. Di trovare l'origine dei lamenti. Di comprendere la natura di quegli schiocchi.

Un ruggito. Devastante. Il terrore nello stomaco e la sensazione di essere stato afferrato per la gola…

Quello... il massimo traguardo a cui riusciva ad arrivare nell'incubo.

Così come era appena successo.

Aveva riaperto gli occhi e fissato il soffitto sopra di sé.

Niente di fatto. Di nuovo un buco nell'acqua.

A volte sperava di poter arrivare almeno alla fine di quella visione onirica. Di cambiare scenario, di svelare il mistero, di godere almeno di un pizzico di adrenalina a spezzare quella devastante monotonia. Ed invece si trovava sempre lì, a fissare il soffitto grigio e il poster di quella donna nuda nella quale trovava ben poca attrattiva.

Doveva averla appesa l'ospite che lo aveva preceduto, per alleviare la solitudine di notti insonni, e non aveva avuto mai cuore, o voglia di levarla da lì.

Non faceva alcun male. E comunque meglio una donna nuda dai seni prosperosi che un paio di crepe a ricordargli che no, da lì dentro non ci sarebbe uscito, non per un bel pezzo almeno.

Si rimise seduto con un sospiro, si scostò un ciuffo di quei capelli corvini dal viso. Erano cresciuti parecchio dall'ultima volta. Si chiese se non avesse dovuto approfittare di quel barbiere che, almeno un volta alla settimana, veniva a far loro visita.

Non che fosse una persona particolarmente vanesia ma era primavera e aveva cominciato a fare caldo, soprattutto il pomeriggio, quando non era impegnato in attività del tutto inutili ed era costretto a rimanere rinchiuso nella sua stanza...

 

stanza.

Gli fiorì una risata spontanea, dritta dallo stomaco.

Da quanto aveva cominciato a pensare alla sua cella come a una... stanza?
Si era per caso rassegnato alla sua temporanea (ma sarebbe stata davvero soltanto temporanea?) dimora?

Insomma, poteva essere solo l'inizio della fine.

Avrebbe ben presto cominciato a parlare di se stesso in terza persona?

Oppure a invocare il nome di un amico immaginario, tipo Bert?

O ancora peggio ad annunciare la fine del mondo, tirandosi fuori l'uccello dai pantaloni per pisciare in giro e delimitare il territorio come uno spostato?

Spostato... lo era già. O così almeno a tutti aveva fatto comodo credere. In fondo anche a lui.

Sebbene il giudice non fosse stato affatto propenso a invocare l'invalidità mentale.

E in un certo senso la sentenza l'aveva quasi inorgoglito. Forse sarebbe stato eccessivo gridare: “no, signori miei, è stato tutto frutto della mia lucidissima iniziativa. È vero, l'ho sgozzato come un maiale ed ho invocato la legittima difesa, ma... è stata una decisione presa dopo un ponderato ragionamento. Non un raptus, signori della giuria.”

L'unica cosa che non aveva digerito, in tutta quella manfrina, erano stati gli sguardi della sua famiglia: accusatori, definitivi. Membri della sua stessa famiglia che, uno dopo l'altro, se ne erano andati e lo avevano lasciato solo, a convivere con il peso delle sue colpe.

 

Si rimise in piedi, lo stomaco in subbuglio gli suggeriva che presto sarebbero venuti a chiamarlo per la colazione. Eppure l'orologio segnava le undici. E le undici era un orario ben strano per i ritmi di quel penitenziario. In effetti... anche quel silenzio gli risultava ben strano, per i ritmi di quel penitenziario.

Che lo avessero lasciato indietro? Mentre tutti erano fuori a celebrare la loro guadagnata ora d'aria?

Si portò alle sbarre della sua cella singola (gli avevano promesso un compagno bello grosso, prima della fine della settimana, ma non si era ancora fatto vivo nessuno), e cercò di sbirciare all'esterno. Che l'orologio biologico di cui andava particolarmente fiero si fosse inceppato?

“Ehi!” gridò una sola volta. L'eco della sua voce a disperdersi nei corridoi. “Ehi, dico a voi! Qualcuno mi sente?” si sarebbe atteso almeno l'arrivo di una guardia ma di nuovo gli rispose il nulla. Anche se... ad un ascolto un po' meno superficiale...

Che diavolo era quel... mugolio? Di sottofondo. Costante, come una nenia. E quello schiocco, continuo, ritmato... una moltitudine di schiocchi, in realtà, a produrre uno scoppiettante concerto, così familiare, così simile al suo...

Sogno.

Si scostò dalla porta della cella come se il metallo fosse diventato improvvisamente incandescente. Che stesse ancora sognando?

Non c'erano altre spiegazioni. Che l'incubo avesse deciso di schiodarsi dalla sua insopportabile empasse?

Eppure...

Eppure le sensazioni erano così reali. Di solito riusciva a distinguerlo quell'effetto del tutto onirico. Riusciva a darsi una certa razionalità per comprendere che niente di tutto quello che stava vivendo era reale.

E allora che cosa diavolo stava succedendo?

I mugolii si fecero più consistenti. Come un coro. E un incedere di passi, sempre più rapidi, sempre più vicini.

Lo stupore di trovarsi di fronte uno dei secondini si mutò in orrore quando mise a fuoco chi o cosa aveva davvero risposto al suo insistente richiamo.

Quello era George la guardia, certo. Eppure non lo era per niente. Non una battuta sarcastica. Non una sola menzione di quel nomignolo, Loki, con cui erano soliti chiamarlo. La differenza sostanziale stava nel fatto che sotto quei lunghi baffi neri e la faccia di quello che, forse, una volta, era davvero stato George, ora si presentava con un viso di morte: occhiaie oscure tutt'intorno agli occhi, il viso scavato, le pupille spente, oscure, prive di luce, prive di calore, occhi apparentemente privi di vita, così simili a quelle degli squali che, da bambino, tanto lo affascinavano nei documentari su Discovery Channel.
E poi quelle mani, le dita ad allungarsi fra le fessure della cella, le ganasce a chiudersi a schiocco.

Clack, clack, clack...

Denti.

Allora erano denti quelli che sentiva nel suo sogno?

Denti.

Udì all'improvviso un grido. Violento, instabile.

Un grido che sembrava nascere dalle voragini di quell'incubo che lo aveva tormentato per giorni.

Un grido che, ci mise un po' ad elaborare, usciva direttamente dalla sua stessa gola.

 

*

 

Pikesville, Maryland

Due settimane dopo

 

Singolare come, nel giro di ventiquattro ore, possa cambiare una prospettiva.

Una convinzione.

Le avevano commissionato un lavoretto facile, una stupida operazione di intimidazione.

Ordinaria amministrazione, di quelle che Natasha Romanoff era destinata ad estinguere nel giro di un quarto d’ora.

Aveva indossato i suoi abiti migliori, acconciato i suoi capelli rossi, come il peccato, in una crocchia severa, assunto il suo più alto tono professionale e si era recata all’officina di Gordon McCallan, spinta dalle migliori intenzioni.

Non era necessario far sputare sangue proprio a nessuno: un avvertimento, di quelli che ti fanno gelare il sangue, così come solo lei sapeva fare, una rinfrescatina alla memoria, nel caso in cui il caro McCallan avesse, per caso, dimenticato a chi andasse la sua fedeltà. Era bastato un ritardo nell'operazione per far scattare il sospetto che il vecchio demonio avesse cominciato a fare il doppio gioco, a tenere il piede in due staffe.

Eppure McCallan lo sapeva bene quanto Ivan ci tenesse... alla fedeltà e alla puntualità.

Si era talmente preoccupato di assecondare l'ingrato sospetto che aveva quasi preteso che Natasha, all'appuntamento (peraltro non consapevole), ci andasse accompagnata. La donna si era rifiutata categoricamente di avere compagnia. O intralci.

Era giovane, maledettamente giovane, da poco maggiorenne secondo gli standard americani, ma aveva già abbondantemente dimostrato le sue qualità, le sue capacità. Non aveva bisogno di una balia. Non di certo di quegli energumeni tutti muscoli e stupidità di cui Ivan sembrava propenso a circondarsi.

 

Voglio un lavoro rapido, pulito.”

Ti ho mai deluso?”

 

No. Non lo aveva fatto. Mai. Si era guadagnata una posizione di spicco nell’organizzazione e non aveva certo intenzione di farsi rovinare la reputazione da un paio di russi dall’aria poco sveglia.

Ci era andata da sola.

E da sola aveva dovuto affrontare… l’incubo.

Non c’era esattamente McCallan ad attenderla. Non una coppia dei suoi, a tenderle un agguato.

Ma un paio di persone che non avrebbe mai saputo riconoscere come tali, se non per la postura eretta, in bilico su due gambe e l’espressione ebete che solo un essere umano privo di grande intelletto è in grado di sfoggiare.

Il resto… bè il resto aveva assunto tinte decisamente fosche, al limite dell’assurdo.

 

Natasha era entrata nell’officina che era ancora mattina. Il sole filtrava dai grossi finestroni della parete orientale a illuminare di foschia dorata i dintorni.

Odore di olio, benzina e fumo a dare un certo tono a quell’ambientino niente male, non adatto a una signora.

Natasha non si era mai considerata… una signora.

Abituata sin da bambina ad atmosfere come quella, allevata da uomini che l'avevano addestrata, forgiata, che ne avevano fatto la loro più fedele alleata. Una delle migliori.

Che aveva imparato ad usare armi e sotterfugi quando ancora i suoi coetanei, nel mondo reale, là fuori, imparavano a far di conto sulle dita. Lei, così come tutti i suoi fratelli. Tutte le sue sorelle. La sua famiglia… la sua… fratellanza.

 

Ben presto Natasha si era convinta che di McCallan, quella mattina, non se ne sarebbe vista traccia (che avesse subodorato qualcosa?), fino a quando non aveva avvertito l’acre ed inconfondibile odore del sangue.

Si era trascinata al centro del casermone e, nascosta dietro un vecchio pick-up Ford Ranger color petrolio, aveva trovato la sua prima sorpresa del giorno: il cadavere di un uomo. Un nugolo di mosche a ronzargli addosso fastidiose e fameliche.

Natasha aveva represso una smorfia di disgusto: a quanto pareva Ivan non erano l'unico ad avere dei conti in sospeso con McCallan. O con la sua famiglia.

A giudicare dalla fisionomia del cadavere, quello doveva essere, se non suo figlio, quantomeno un parente prossimo. Troppo simili i tratti, dal mento prominente alle orecchie a sventola, nonché quella zazzera di capelli rosso cupo.

Aveva serrato le labbra, insospettita, non del tutto certa che fosse una buona idea farsi trovare sul luogo del delitto di un altro killer, quando aveva udito dei passi.

E infine li aveva visti.

La materializzazione oscura dei suoi incubi più ricorrenti.

Non esseri umani, ma cadaveri. Gli stessi che spesso andavano a farle visita nei sogni, a ricordarle i suoi peccati, tutti i suoi peccati.

Eppure adesso non stava dormendo: non poteva essere un sogno. E allora come era possibile che la proiezione onirica delle sue paure fosse lì, di fronte a lei?

Forse si trattava di uno scherzo, un modo come un altro per depistarla, incastrarla.

Da lì... la situazione aveva preso a degenerare.

 

Quali che fossero le motivazioni non ebbe tempo o voglia di starci troppo a ragionare, quel suo atavico istinto di sopravvivenza era emerso, irascibile e prepotente: tirò fuori la pistola dalla fondina, sotto la giacca del tailleur e fece fuoco, centrando ognuno dei due individui, proprio al centro del petto. L’operazione li frenò giusto una frazione di secondo, prima che i loro lamenti e il loro incedere claudicante riprendesse.

Natasha non si fece pregare ulteriormente. Scaricò su di loro l’arma da fuoco, uno, due, dieci, venti colpi e più i proiettili li raggiungevano, rallentando momentaneamente la loro avanzata, più quelli restavano in piedi, animati da uno spirito che li spronava a raggiungerla con maggiore impeto, risvegliando una sottospecie di coscienza che sembravano non possedere… non più almeno.

“Dannazione…” esalò al limite del delirio, quando si rese conto di aver esaurito il caricatore.

Le mani tremanti, per la prima volta dopo tanti anni, a renderle difficili le operazioni.

Perché non morivano? Perché non... morivano?

Arretrò per darsi tempo e inciampò sul corpo del giovane McCallan. Si mantenne in piedi a malapena, portandosi dietro il suo braccio dopo esserci rimasta incastrata, prima di rendersi conto che la mano del ragazzo morto (ma lo era mai stato davvero?) si era indiscutibilmente, inesorabilmente chiusa sulla sua caviglia e stava stringendo la presa con una forza tale da non poter appartenere ad un essere umano.

Si calò sul polso dell'uomo, prendendo slancio con l’altra gamba, calcando il tacco sull'ulna, mentre i lamenti dei due individui si facevano sempre più vicini, sempre più spaventosi.

Il rumore dell’osso spezzato fu una liberazione, psicologica e fisica. Le dita del ragazzo la lasciarono libera e Natasha fu finalmente in grado di allontanarsi abbastanza da recuperare un grosso attrezzo da lavoro: uno di quei martelli che avrebbe visto bene giusto in qualche vecchia pellicola di Stanlio & Ollio.

Adesso, quei cosi che stavano protendendo le mani tentacolari nella sua direzione, erano in tre. Il nipote, parente, figlio illegittimo di McCallan si era rimesso in piedi e stava dando il meglio di sé esibendosi in una stonata sequenza di mugolii.

Di qualsiasi fottutissima allucinazione si trattasse, doveva uscirne alla svelta, possibilmente... viva.

Se ne stava lì, ingabbiata in un angolo, ad aspettare l'ispirazione adatta su dove colpire, quando uno sparo rimbombò per tutta l’officina e un agglomerato informe di ossa, cervello e sangue le schizzò sull’impeccabile tailleur, inondandola come disgustosa gelatina di lamponi. Uno dei tre mostri cadde a terra, finalmente sconfitto.

“Alla testa…”

Una voce, roca, smorzata, alla sua destra.

Avrebbe riconosciuto quella voce ovunque: seduto a pochi metri da lei, nascosto da un cumulo di gomme, completamente ricoperto di sangue e in pessime condizioni, c'era Gordon McCallan.

“Per ucciderli…” sibilò, “… devi colpirli alla testa.”

Il rantolo che ne seguì non fu più affar suo.

La testa, massì, la testa… perché non aveva pensato alla testa?

Alzò il braccio e calò il martello sul cranio di uno dei due putrescenti mostri rimasti, con tutta la forza che aveva in quel minuscolo corpo di donna.

 

*

Waverly, Iowa

Venti giorni dopo

 

Un solo click del caricatore sarebbe stato sufficiente a scatenarli.

Per quello avevano deciso di abbandonare le pistole, i fucili. Armi troppo rumorose.

L'orda di corpi marcescenti che si trascinavano attorno alla chiesa, sarebbe stata sufficiente a procurare una serie di blocchi coronarici per direttissima a chiunque. Per Clint Barton e per suo fratello Barney, quello non era altro che un lavoro.

Uno dei tanti che si erano procurati da quando quella sottospecie di epidemia da cannibali lobotomizzati aveva preso a dilagare, in ondate più o meno massicce, per il paese.

Quella stessa epidemia che in un paio di settimane si era fatta fuori mezza città.

Era toccato per primo al vecchio, scorbutico Logan, che viveva con quel suo cane stonato ai margini del fiume. Un vecchio pazzo che non faceva niente di più che gridare contro i ragazzini che lanciavano palloni nella sua proprietà.

Il virus lo aveva colto durante la lettura della pagina sportiva del giornale locale, dopo un’influenza o presunta tale che proprio non ne voleva sapere di andarsene via. Si era alzato in piedi, lo sguardo spento, vacuo, in preda a delirio da ubriaco, si era trascinato fino alla villetta tutta fiori dei Mitchell e aveva avvicinato i due ragazzini che stavano giocando in giardino. Clint riusciva a figurarsi lo sguardo di puro terrore dei due fratellini che, stavolta no, non se la sarebbero cavata con una sgridata. Non con un: “se trovo di nuovo qui il vostro cazzo di pallone ve lo buco! Stavolta per davvero.”

Riusciva a immaginare, con un vago rimescolio allo stomaco, la maschera di consapevolezza che si era loro dipinta in viso quando avevano sentito le ganasce di Logan scricchiolare pericolosamente accanto a loro per poi nutrirsi delle loro carni.

Era cominciata in quel modo e si era trascinata pigramente, come un olezzo di morte per tutta Waverly. Gli interventi dello sceriffo e sottoposti erano stati confusi, inutili e di un insuccesso epocale. E proprio in virtù di quella confusione e tragedia che Clint e Barney avevano messo la loro particolare... capacità a servizio dell'intera comunità. Dietro lauto compenso.

Sicari a pagamento e, per una volta tanto, di corpi già bell'è che putrefatti.

Gli unici ad aver capito, dopo diversi, frustranti tentativi, che quei mostri non si poteva abbatterli definitivamente se non distruggendo il centro nevralgico della loro ossessione: il cervello. Dovevano averlo intuito anche altri perché i telegiornali davano delle direttive piuttosto specifiche a riguardo.

Gli aveva fatto strano, la prima volta, fare fuori la dolce signora Smith. Che della signora Smith conservava giusto quell'orribile vestito a fiori. O l'invasione di massa dei bambini di quell'asilo nido che... oh, tutti quei piccoli corpi ammassati uno sull'altro a contendersi la moglie del sindaco.

E proprio dal sindaco in persona era scattata, la prima, vera richiesta di aiuto e la prima mazzetta di soldi. Tutti pezzi da cento, mica monetine.

Barney ne aveva riso, ne aveva riso e assicurato che quando quella merda di epidemia si sarebbe estinta come una scoreggia nel vento, avrebbero navigato nell'oro. Sarebbero stati eletti a eroi cittadini, magari addirittura nazionali!

Nazionali, certo... se ancora fosse rimasta una qualche nazione da recuperare, si trovò a pensare Clint, che a tutto mirava fuorché alla gloria. Ancora ce li aveva gli occhi e quei servizi ai telegiornali, proiettati in loop su tutte le tv nazionali, mondiali, davano un'idea piuttosto preoccupante della faccenda.

Molti vociferavano che fosse tutta colpa del governo, che avevano sperimentato un virus per sedare la smisurata crescita demografica degli ultimi anni e che il progetto gli era semplicemente sfuggito dalle mani.

Clint non ci capiva niente, ma se tutto aveva cominciato ad andare storto dopo l'esplosione di quei laboratori di ricerca scientifica, giù ad Atlanta, insomma non poteva essere davvero tutto una coincidenza, no?

Per questo ora si limitava a fare quello che sapeva fare meglio.

Dopo la morte dei loro genitori e una sosta in uno squallido orfanotrofio di provincia, lui e suo fratello erano incappati in un gruppo di saltimbanchi itineranti che li avevano accolti, istruendoli e allenandoli nella fine arte del tiro con l’arco. In pochi anni si erano guadagnati il titolo di stelle di punta del circo Carson. Non avevano pagato tutta quella generosità in modo troppo riconoscente: avevano aspettato di diventare maggiorenni per darsela a gambe con il bottino di un'intera stagione. Una breve, disastrosa formazione nell’esercito e un ritorno poco glorioso in terra natia. Avevano vissuto fino ad allora vivendo di piccole truffe e lavoretti che appena bastavano a mantenere la vecchia catapecchia lasciata loro in eredità dai deceduti genitori.

Barney non era un uomo di grande questioni morali, ma si era sempre preso cura di lui, fin da bambini e gli piaceva pensare di doverlo assecondare un po' per quell'affetto incondizionato che provava nei suoi confronti più che per predilezione alla criminalità.

Ma era ancora di azioni criminali che si andava discutendo? Quello che stavano facendo era un servizio di volontariato bello e buono. I soldi non erano più un problema per nessuno. Pagavano tutti e pagavano bene per assicurarsi almeno una giornata intera di sonni tranquilli.

Barney e Clint Barton avrebbero solo dovuto assicurarsi, per ventiquattro ore, di prendersi cura del loro sgradito committente. Al termine di quelle, a lavoro pagato in anticipo... avrebbero cambiato rotta, abbandonandolo al suo triste destino. A meno che non avesse sganciato cifre più consistenti.

Ed era per quello stesso motivo che ora stava in ginocchio di fronte al muretto della chiesa. Un arco fra le mani e la freccia puntata in direzione di uno di quei corpi che indolenti si trascinavano lì, sul selciato antistante la casa del Signore.

Il reverendo Carson aveva regalato loro due candelabri d'oro affinché la comunità tutta (almeno per quella fetta di fedeli o cittadini neo convertiti che ancora non se l’erano data a gambe per raggiungere chissà quale misteriosa meta) avesse la possibilità di assistere incolume alle funzioni domenicali per ingraziarsi un qualche iracondo Dio.

Un Dio che di sicuro aveva avuto molto di meglio da fare che stare a guardare il disastro umano che andava infestando il mondo. Loro che tanto parlavano di anime... che cosa, in nome di questo Dio, avrebbe potuto permettere un tale abominio?

“Io prendo il terzo a destra... quello con la faccia da scemo”, Barney lo risvegliò dal torpore sordo delle sue elucubrazioni.

“Sii più specifico... hanno tutti la faccia da scemo”, mirò, ad istinto, proprio all'uomo che il fratello gli aveva indicato.

Barney fece schioccare la lingua a rimarcare il suo fastidio.

“Camicia a quadri, budella al vento, faccia da scemo.”

“Ah, Kitt... Kitt Marshall.”

“Il figlio del macellaio?”

“Lui.”

“Cazzo se è dimagrito. Non lo avrei mai riconosciuto. La morte gli ha fatto bene!”

Ironia da quattro soldi, per stemperare la tensione.

“Dimagriresti anche tu se avessi le viscere a sgocciolare sull'asfalto.”

“Quanta soave fottuta poesia, Clinton.”

“Non chiamarmi Clinton.”

“E' il tuo nome. Non vorrai rinnegare il tuo nome… Clinton.”

E Clinton scoccò la freccia senza starci a pensare due volte: Kitt crollò a terra con un dardo conficcato dritto nel cervello.

“Sei una merda! Il ciccione era mio!”

“Avresti dovuto essere più veloce... Bernard.”

“Sei troppo una merda...”

Barney presa la mira e fece anch’egli la sua parte. Un centro bello pieno, una freccia ficcata al centro della nuca di una testa bionda. A farne le spese una ragazzina di cui Clint non ricordava nemmeno il nome.

 

*

 

Malibù, California

Ventiquattro giorni dopo

 

“Pepper! Pepper svegliati, ce ne andiamo...”

La donna aveva appena aperto gli occhi, in quelli l'apatia che da giorni non la faceva muovere, né le permetteva di comprendere la gravità della situazione.

“Ancora... cinque minuti, Tony”, biascicò in quello stato di incoscienza che rendeva le sue palpebre pesanti e i movimenti complicati.

“Non c'è tempo. Happy è qui fuori con la macchina, ce ne dobbiamo andare e dobbiamo muoverci.” Perché quel tono così urgente? Perché tutta quella... fretta?

Si sentì strattonare per un braccio e infine sollevare, un mugolio distorto, sfuggito al suo controllo, le uscì dalle labbra.

“Io... io non ce la faccio Tony... non ci riesco. Lasciami qui, vai tu... me la caverò, mi riprenderò.”

L'uomo le aveva rivolto un sguardo ostile, ma turbato; le aveva preso il viso fra le mani, stringendo la presa come se con quei movimenti brutali, stesse cercando di risvegliarla da quella preoccupante indolenza che da giorni aveva preso possesso della sua compagna.

 

Tony lo aveva sentito al telegiornale. Ci aveva preso familiarità, se lo era appuntato indelebilmente nella mente. Iniziava esattamente così. Era iniziata così per tutti.

Quella che si presentava come una banale influenza, uno stupido raffreddore, che enfatizzava quel senso di spossatezza, quella incredibile apatia... finiva per trasformarti in uno di quegli esseri orribili e totalmente antiestetici che le televisioni di tutto il mondo non si erano fatti scrupoli a mostrare a chi ancora non aveva avuto il (dis)piacere di incontrarne uno dal vivo.

“Ci dobbiamo muovere. E non ti lascio certo qui a trasformarti in uno di quei... mostriciattoli dai denti marci. Sai quanto costa oggigiorno una buona manovra odontoiatrica?”

“Che?” la sentì biascicare. Aveva la fronte bollente. Ancora accesa la speranza che si trattasse solo di una influenza, di quelle vere, di quelle che avevano solo bisogno di qualche giorno di riposo, succo d'arancia e qualche aspirina. Al pensiero di perderla, di vederla trasformarsi così come aveva visto fare al suo maggiordomo (che ora giaceva con la testa massacrata – perché solo così potevi ucciderli davvero – a galleggiare nella piscina di casa) solo qualche giorno prima, si sentiva accartocciare lo stomaco e soffocare dall'ansia che non lo aveva abbandonato un solo istante da quasi un mese a quella parte.

Non la sua Pepper.

Non dopo tutti quegli anni sprecati a giocare al playboy milionario, a dissipare le sue idee per una causa che non aveva mai sentito totalmente sua. Vittima di un'adolescenza incompresa. Dell'eredità di una famiglia troppo potente. Di un padre che era morto troppo alla svelta, senza mai dargli la possibilità di comprendere il vero valore dei sentimenti...

Non la sua Pepper.

Non la sua... Pepper.

Quando la donna gli starnutì in faccia, spargendo muco ovunque, gli sembrò che si stesse riprendendo appena.

“Buon modo per frenare il pathos di una elucubrazione.”

“C-che cosa stai dicendo, Tony?” quel tono di pigro rimprovero a rassicurarlo che era ancora lei, che era lì, presente e cosciente, “Non dovremmo muoverci?” la sentì aggrapparsi alle sue spalle per rimettersi in piedi: doveva aver compreso la gravità della situazione.

“Certo.” liquidò l'argomento, aiutandola ad attraversare la camera da letto, a scansare il disastro di vestiti e bagagli di cui, ormai l'aveva capito, non avrebbero avuto bisogno e a scendere le scale verso l'atrio.

Fu un attimo, prima che la porta d'ingresso si spalancasse con gran fragore.

“Tony!” era Happy, suo autista, guardia del corpo e amico. E per quanto il suo nome fosse presagio di buone novelle, non sembrava affatto felice... di vederlo.

“Che sta succedendo? Non dovevi aspettarci in macchina?” gli ringhiò contro, esasperato, mentre quel rimescolio allo stomaco non faceva altro che procurargli nausee affatto richieste.

“I vicini!” gridò con movimenti convulsi delle braccia.

“I vicini, cosa? Parla!”

“I vicini si stanno mangiando l'un l'altro... è uno spettacolo disgustoso!”

“Per quanto disgustoso sia... non mi pare un buon motivo per abbandonare la nave!”

“Sì che lo è, se li stanno gustando tipo cena da portar via, in processione su per il nostro vialetto di casa!”

Tony sgranò gli occhi, mentre Pepper si stringeva a lui con maggior vigore.

“Immagino che la limousine sia un'ipotesi da scartare allora.”

“Decisamente.”

“La Acura sul retro come sta messa?”

Happy sbarrò la porta d'ingresso per rallentare l'orda di camminatori morti, dandogli così la risposta che sperava di sentir arrivare.

 

*

Albany, Georgia

Ventotto giorni dopo

 

Un colpo al ventilatore e questo riprese a funzionare.

Lo sceriffo Nicholas J. Fury tornò a sbirciare fuori dalla finestra del quartier generale. La strada, fuori, era ancora deserta.

L’occhio gli pulsava, alcuni giorni erano peggio di altri e quello non era decisamente uno di quelli buoni.

Il dolore a volte, gli procurava dei febbrili mal di testa. Era stato fortunato, si diceva. Fortunato che le strutture mediche fossero ancora attive e funzionanti, il giorno dell’incidente.

Probabilmente, per come erano andate a mettersi le cose, non avrebbe recuperato mai più l’uso dell’occhio sinistro.

La cosa che più gli dava sui nervi era il non poter essere di grande utilità in tempi come quelli.

Aveva dovuto affidarsi alla collaborazione di tutte le forze rimaste: impossibile, per lui, uscire di pattuglia. Impossibile anche solo il pensiero di mettersi al volante. Il numero spropositato di farmaci che era costretto a ingerire minavano in qualche modo alla sua attenzione, alla sua lucidità.

E a volte si ritrovava a pensare fosse un bene, forse avrebbe persino dovuto ringraziare per quella straordinaria occasione.

Non era del tutto certo gli sarebbe stato facile gestire quella stracazzo di apocalisse zombie o come diavolo volevano chiamarla, senza un po’ di sano antidolorifico.

E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.

Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti tanti. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.

Il ventilatore smise nuovamente di funzionare. Probabilmente da lì a qualche giorno anche le centrali elettriche avrebbero smesso di fare il loro dovere. Con la crisi del personale che si era andata espandendo in quelle ultime settimane poi…

Dalla curva del vialetto vide finalmente sbucare una macchina. Aveva dovuto lottare contro un misto di senso di colpa e paura quando aveva lasciato partire la sua squadra per una ricognizione sommaria della zona, nondimeno per il recupero di beni di prima necessità e una quantità di medicinali sufficienti a tenere a bada il suo dolore per almeno un’altra settimana (sempre che fossero riusciti a sopravvivere… un’altra settimana).

Si stupì nel veder sgommare la macchina di pattuglia e inchiodare come se avessero il diavolo alle calcagna. Che fossero inseguiti da un'orda di corpi morti? Niente dava l’idea di qualcosa di consistente in corso in prossimità della zona.

Trasse un sospiro di sollievo nel riconoscere entrambi i suoi migliori agenti scendere dalla vettura e correre, letteralmente, verso la porta.

Si grattò appena sotto il cerotto della garza che gli riparava l’occhio in fase di guarigione e andò ad attenderli, mano alla pistola, alla porta… che si spalancò con gran fragore.

“Sceriffo!” l’agente Hill trasportava un borsone carico di roba, probabilmente frutto della razzia; l’agente Coulson, alle sue spalle, non meno affannato.

“Ne stanno arrivando a centinaia.”

Il panico gli serpeggiò nel petto per un lungo, interminabile istante.

“Di che cosa stai parlando?”

“Persone, centinaia di persone… stanno arrivando.”

“Morte… ?”

Coulson scosse la testa per enfatizzare le parole della collega.

“No, signore… i vivi. Sono a centinaia… sembrano una carovana… e stanno attraversando la statale, diretti…”

“Ad Atlanta.” sintetizzò Fury, il cipiglio fattosi improvvisamente serioso.

“Allora è vero...” esalò Coulson, lasciando andare i borsoni, tornando a guardarsi alle spalle, un gesto istintivo.

Quei maledetti telegiornali.

“Solo perché gli Stati Uniti pullulano di creduloni, non significa che la notizia sia vera.” Ringhiò Fury che non aveva voluto dargli credito. E mai lo avrebbe fatto.

Ad Atlanta stavano i militari che avevano messo in quarantena l’intera zona, settimane prima. Ma potevano anche essere tutti morti, per quello che ne sapeva, e di certo non era un centro di accoglienza dove stavano sperimentando una cura a quell’epidemia del cazzo.

Come poteva esserci una cura per un morto marcescente che si trascina, privo di volontà, come in uno di quegli stupidissimi film horror di serie B?

Fosse stato vero si sarebbero alzate tanti di quelle questioni morali da far impallidire un prete.

Quando avevano capito che quei cosi non si avvicinavano ai sani per chiedere aiuto, ma per mangiarseli con gusto, ne avevano fatti fuori in una quantità spropositata; questo cosa avrebbe comportato? Un servizio di pietà nei confronti di quelle anime dannate o un omicidio bello e buono?

Decise che non era qualcosa che lo interessava, non adesso. La dolorosa pulsazione all’occhio reclamava, al momento, tutta la sua più vivida attenzione.

“Avete trovato i farmaci?” domandò.

Coulson si decise, finalmente, a chiudere la porta dell’ufficio.

 

___

 

Note:

Ecco, nel riassunto alla storia avrei dovuto infilarci qualche indizio sui personaggi che popoleranno in modo più o meno attivo la fan fiction. Purtroppo ne potevo inserire cinque e come quinta opzione ho voluto infilarci quel “un po’ tutti” che pare sminuire l’importanza degli altri. Niente di più sbagliato. Come avrete notato ho deciso di parlare per punti di vista. Quelli che ritroveremo più o meno frequentemente saranno, in linea di massima cinque: Loki, Natasha, Clint, Stark e Fury. In linea generica però poi salterà fuori qualche sorpresa qua e là. Ma di base, mi sentirei di dare a questi cinque il compito di portare avanti la trama. Poi chissà. Ancora non ho finito la storia, potrei impazzire e decidere di far narrare il tutto a Coulson che nel frattempo è diventato zombie (no, non è uno spoiler, solo un esempio!).

Non mi resta che ringraziare al solito Sere, per la consulenza e betaggio. E chi mi ha lasciato il suo parere, e tutti coloro che leggono, ovviamente. Alla prossima.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

 

Regola N. 37: Liberatevi pure di tutto ma non del fucile, ma la regola n. 1 è: Trovate un compagno con le palle!

(Zombieland)

 

Paris, Kentucky

Quaranta giorni dopo il contagio

 

“Che posto di merda.”

Il giudizio di Barney era sempre così definitivo che spesso Clint si sentiva in dovere di ribattere aspramente a riguardo. Tipo rispondere, questa volta, che: sì, era un posto di merda, ma solitario e desolato in modo distensivo. Nessuna minaccia presunta o imminente nel raggio di chilometri. Un evento tanto straordinario quanto fortuito sul quale non era esattamente il caso di sputare.

Ma non era ispirato per una diatriba di qualsiasi tipo.

Non quel giorno. Non dopo aver macinato miglia per arrivare a una schifosa cittadina del Kentucky che con la sua parente francese aveva ben poco da spartire. Non che ci fosse mai stato, sia chiaro, gli sarebbe piaciuto, certo; magari se avesse continuato a studiare…

Le recriminazioni di fine giornata gli riuscivano sempre piuttosto bene.

Nessuna sorpresa nello scenario. Campi a non finire, staccionate, basse villette tutte uguali, persino una chiesa battista dall’aria abbandonata. Dovevano essersela data a gambe tutti quanti poco dopo l'inizio dell'epidemia a giudicare dalla difficoltà riscontrata nel trovare mezzi di trasporto... di qualsiasi tipo.

Avevano ucciso un paio di quei mostri che sembrava quasi li stessero aspettando all’ingresso della cittadina, a fauci (letteralmente) spalancate e poi… il deserto, come quelle località nei film di Clint Eastwood dove ci si sarebbe aspettati di veder passare, nella pigra attesa d’inizio estate, una balla d’erba secca, a rotolare solitaria per la via principale.

Avevano lasciato la macchina a qualche miglio a est di Paris. La batteria li aveva abbandonati sul più bello e avevano deciso di proseguire a piedi. In più, girare in macchina stava diventando scomodo… e oltretutto complicato. Le strade principali bloccate dalla statica fuga di tutte quelle persone che avevano sperato di poter fuggire da qualche parte prima di venir investite dall’epidemia di quei morti camminanti. Nessuno di loro, ovviamente, era sopravvissuto.

Come non era sopravvissuto neanche un solo cittadino di Waverly. O almeno quelli che si erano ostinati a rimanerci fino all’ultimo respiro, come quei vecchietti che non avevano alcuna intenzione di schiodarsi dalla loro terra natia, in attesa di una serena morte.

Barney era dovuto scendere a patti con la consapevolezza che non sarebbero diventati ricchi (perché a che servono i soldi quando le cose le trovi in giro gratis?) né tantomeno eroi nazionali (signori delle mosche, al massimo). Usava le banconote per soffiarsi il naso: una sera ne aveva fatto un bel falò… lasciando che i suoi sogni di gloria andassero a disperdersi come cenere nel vento.

A quel punto avevano deciso di spostarsi.

Prima che canali tv e radio tirassero definitivamente le cuoia, qualcuno aveva vaneggiato di un ritorno ad Atlanta. Della possibilità di una cura, di un centro di recupero messo in piedi direttamente dall’esercito.

Clint non si fidava. Aveva sempre creduto poco alle stronzate che raccontavano in televisione, e troppo poco persino nell’esercito, ma tant’è: non è che avessero niente di meglio da fare, comunque. E poi c’erano tutte quelle baggianate filosofiche sugli obiettivi che ti mantengono in vita, che la speranza è l’ultima a morire, che a… caval donato non si guarda in bocca. Insomma una sequela di proverbi che non aveva mai compreso del tutto. E che per l’appunto, probabilmente, usava persino a sproposito.

 

Barney stava armeggiando con i cavi di un vecchio furgone che, verosimilmente, a giudicare dall'aspetto, avrebbe fatto la stessa identica fine del precedente mentre Clint teneva stretto fra le mani il suo arco, proteggendolo da qualsiasi sgradito attacco.

“Se ti dicessi che cosa mi manca di più in tutto questo scenario apocalittico di morte, non ci crederesti.”

Clint scacciò via una mosca che sembrava aver preso in simpatia il suo naso.

“Le donne?”

Nell’aria solo il ronzio degli insetti e il fremito delle foglie, in cima agli alberi.

“Ma che bella risposta…” Barney emerse dal furgone, un po’ congestionato, “… del cazzo!”

Il fatto che Clint non avesse sentito il rassicurante scoppiettio del motore poteva solo voler dire che il furgone era andato a farsi benedire.

“Batteria andata…” la risposta del fratello alla sua espressione confusa, “dai, tenta ancora…”

Lo aveva riavvicinato e recuperato la sacca che custodiva, gelosamente, tutti i loro (pochi, pochissimi) averi. Bisognava viaggiar leggeri.

Clint appoggiò l’arco alla spalla e rinfoderò la freccia.

“Non lo so… le partite di baseball degli Iowa Hawkeyes?”

“Ding, ding, sbagliato”, accompagnando le parole con una fastidiosa botta in fronte, “ritenta, sarai più fortunato.”

Lo scacciò via con un gesto secco della mano. Barney barcollò appena, prima di scoppiare a ridere.

“Da quanto il mondo si è riempito di Ganasce, hai perso tutto il tuo senso dell’umorismo.”

“Che cazzo sono le Ganasce?”

“Denti marci, budella al vento, puzza di vomito e spazzatura? Ganasce.” E nel dirlo aveva imitato, in modo inquietantemente simile, il rumore di denti che preannunciava l’arrivo di quei morti viventi.

“Ganasce…” Clint adesso era perplesso, “chiamarli zombie ti faceva schifo?”

“No. Però è scontato. E poi a me fa venire in mente il genere che s’è inventato Romero… un fottuto veggente del cazzo, se mi passi il francesismo.”

“Te lo permetto Benny, siamo a Paris.”

“Ah! Vedi che quando ti ci impegni…” si rallegrò Barney. In realtà bastava sempre poco a rianimarlo, “Insomma, Romero: immaginatelo lì, seduto alla sua scrivania di sceneggiatore del cazzo, davanti alla sua macchina da scrivere…” del cazzo?

“E’ da un pezzo che gli scrittori non usano più macchine da scrivere, Barney…”

“No? Vabbè lui è uno a cui piacciono le cose antiquate, lo si capisce dalla faccia… e quindi usa una cazzo di macchina da scrivere.” se non si fosse capito a Barney piaceva enfatizzare le cose, “Romero sta seduto davanti alla sua antiquata macchina da scrivere di quel modello che aveva la signorina Richards, te la ricordi la signorina Richards dell’orfanotrofio?”

E come dimenticarla la signorina Richards? Un povera, onesta segretaria, dai vizi un po’ torbidi, invischiata in quel marcio sistema statale. Poi l’avevano beccata con uno dei ragazzi più grandi in uno dei bagni del secondo piano a fare cose... ed era stata licenziata. Era mancata un po’ a tutti, la povera, docile signorina Richards.

Fece quindi cenno di sì con la testa, per permettere a Barney di portare a termine il suo intricatissimo monologo.

“Ecco, di quel modello lì... e immaginati Romero: l'accendino in mano per la sigaretta celebrativa della conclusione della sua ultima sceneggiatura zombie, un bicchiere di brandy nell'altra, quando parte il servizio alla tv che annuncia che in giro è pieno di esseri uguali a quelli di cui ha sempre scritto lui. Immagina la sorpresa. E lo shock. La sigaretta che gli penzola dalle labbra, l'occhio sgranato e l'orrore nello stomaco. Lui quell’apocalisse l’aveva prevista. Da anni. Un po’ come veder realizzato un sogno… o un incubo; cazzo ne so cosa sogna Romero.”

Clint osservava Barney dare la sua versione della reazione di Romero, con un misto di divertimento e ammirazione.

“Avresti dovuto fare lo scrittore.”

“Non prendermi per il culo.”

“No, dico davvero... ne sai inventare un sacco...”

“Bè...” Barney stava gongolando in un sorriso.

“… di stronzate.”

“Ma vaffanculo!” il pugno se lo era meritato. “Parlare con te è come dare le perle ai porci.”

“Guarda che sono tuo fratello, se io sono un porco, questo fa di te…”

“Il porcaro.”

“Non mi hai ancora detto che cosa ti manca di più dall’inizio dell’epidemia.”

Barney aprì la bocca per parlare, quando fu costretto a richiuderla... e tendere l’orecchio, così come aveva fatto Clint.

Da lontano, avevano sentito il rombo di un motore in avvicinamento.

 

*

 

Erano passate quarantotto ore dall’ultima volta che Natasha Romanoff aveva chiuso gli occhi per dormire.

Quarantotto ore di delirio più o meno allucinato.

Aveva finito la sua dose, tutta la sua dose: se non avesse trovato una farmacia al più presto non sarebbe stata in grado di arrivare alla settimana successiva. Come aveva potuto essere così stupida? Così avventata?

Forse quell’inseguimento di morte che l’aveva colta poco dopo aver varcato il confine con il Kentucky? Quel gruppo di zombie che le era, letteralmente, crollato addosso mentre riposava al piano terra di uno studio dentistico che aveva straordinariamente trovato, protetto e deserto?

Il soffitto marcio proprio non lo aveva notato. Nell’oscurità di una notte senza stelle e con la stanchezza che ti piomba addosso come un sudario non aveva proprio avuto modo di controllare anche quel dettaglio. Aveva sparato un paio di colpi in aria per accertarsi che il locale fosse sicuro. Quei mostri tutti denti tendevano a notare uno sparo e ad agire di conseguenza, come uno stormo di uccelli risvegliati dal torpore durante la stagione di caccia. E invece le aveva risposto il rassicurante silenzio della solitudine, una costante in quegli ultimi giorni. La razza umana si stava lentamente assottigliando.

Aveva appena preso sonno quando aveva udito lo schianto. Il soffitto che crollava e quattro di quei cosi che si dimenavano sotto le macerie, imbiancati di calce e mattoni. Non aveva avuto la forza di ucciderli, aveva preferito allontanarsi. Montare sul pick-up che aveva sottratto all’officina di McCallan (ormai un mese prima) e fuggire nella notte, lontano da quella maledetta cittadina.

Le sembrava di essere in viaggio da una vita. Una vita che non riusciva più a riconoscere come propria da quando aveva visto venir meno, una dopo l’altra, tutte le certezze che l’avevano sempre accompagnata. Nemmeno la rassicurazione di Ivan, che sapeva sempre come tranquillizzarla nei momenti più difficili.

Ma Ivan era morto, tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, la sua vera… o presunta famiglia erano morti. Tutti morti. Doveva convivere con l’idea di essere rimasta sola, completamente sola… al mondo. Un pensiero che le faceva accartocciare lo stomaco, un pensiero che un tempo, forse, non avrebbe mai preso in considerazione. Si era sempre vantata di essere una persona dal contegno ineccepibile, dalle reazioni contenute, dallo spirito calcolatore, ma era anche vero che niente l’aveva mai preparata a quello.

Avere a che fare con la gente di malaffare era una cosa, un ambiente con cui aveva avuto a che fare fin dalla più tenera età, ma approcciarsi a un branco di mostri da romanzo horror… no, a quello non era mai stata addestrata. Come non era mai stata addestrata ad uccidere, di nuovo, cadaveri.

Un ossimoro spaventoso.

Forse se lo era meritato. Prima o dopo lo sapeva che sarebbe stata messa di fronte all’orrore che aveva da sempre accompagnato la sua vita, che ne avrebbe dovuto pagare il giusto prezzo ma… di certo non in quel modo. Ne aveva fantasticato, a volte, e le sue peggiori prospettive la vedevano avvolta in qualche sacco della spazzatura a galleggiare per le torbide acque del fiume Hudson, non a rivivere gli incubi che la mettevano davanti alla prospettiva di dover affrontare tutte le persone che aveva sulla coscienza. Da quelle che aveva dovuto raggirare, minacciare… uccidere. Uccidere per conto terzi. Uccidere armandosi di quella freddezza che aveva perso, nei primi visionari attimi di quella sua nuova vita.

Una vita che non le regalava più la protezione o l’anonimato dell’organizzazione, ma la solitudine. E la paura. La paura costante, l’incertezza dietro ogni angolo, l’orrore di avere a che fare con qualcosa che non era abituata a gestire, della loro costante, ineguagliabile imprevedibilità.

Anche se qualcosa l’aveva capita: che l'unica soluzione era quella di trattarli così come si abbatte un nugolo di insetti particolarmente grossi.

Un colpo in testa. Serviva giusto una buona mira e una certa dose di concentrazione o di forza, a seconda dell’arma.

 

Il problema adesso però era un altro. Era rimanere in vita. E non per la minaccia di corpi barcollanti in avvicinamento, ma per la mancata somministrazione della sua… dose.

Aveva solo bisogno di una farmacia.

Una farmacia o qualcuno che, in casa, avesse una cassetta del pronto soccorso particolarmente fornita. Ben… fornita. Dettagliatamente fornita.

La vista aveva preso a farle brutti scherzi, l’arsura a corroderle la gola come se la saliva si fosse fatta di vetro.

Serrò le mani sul volante e sterzò per evitare una macchina con roulotte, ferma proprio in mezzo alla strada. Le porte spalancate e un paio di cadaveri dal cervello spappolato riversi al suolo.

Qualcuno doveva esser passato di lì prima di lei.

Registrò a malapena l’informazione perché il cuore le balzò in gola: un cartello le dava il più caloroso benvenuto a Paris.

Ma Paris… non era in Francia una volta?

Diede un'ultima sgasata al motore e si lasciò guidare dalla strada.

 

*

 

Barney aveva frenato giusto in tempo, appena svoltato l’angolo, per immettersi nella via principale della città, dove avevano sentito il rombo del motore. Si fermò prima di perdere l’equilibrio, la suola degli stivali a scivolare sui sassolini dell’asfalto.

Clint lo seguiva placido, le armi in pugno. Il rumore di un motore non poteva e non doveva fomentare facili entusiasmi, per quanto l’idea di incontrare un essere umano dopo giorni di solitudine fosse piuttosto elettrizzante. Certo, a meno che le Ganasce (ma nemmeno per il cazzo si sarebbe mai fatto sorprendere da Barney a chiamarli così) non avessero imparato improvvisamente e straordinariamente a guidare, scarsamente dotati come erano di lucido intelletto.

Era un vecchio pick-up Ford, color petrolio, quello che si trovarono di fronte. Un bel veicolo – di certo in migliori condizioni di quello che avevano lasciato in mezzo alla statale – anche così, mezzo schiantato contro un palo della luce.

Ottima mira il conducente, niente da dire.

Il fumo che usciva dal motore non era molto rassicurante, comunque.

Barney gli fece capire di volersi avvicinare, Clint annuì appena, prendendo la mira, cercando di rimanere poco esposto.

Sembrava quasi che al posto di guida non ci fosse nessuno. O forse era solo un nano. O un fantasma.

Barney avanzava con passo felpato, ferino. Per quanto fosse massiccio, nel complesso, era sempre stato piuttosto agile nei movimenti e flessuoso, un po’ come un gatto. Si era appena sporto per controllare dai finestrini che qualcuno, qualcosa, aveva aperto la portiera, con una violenza tale che Barney si era letteralmente cappottato all’indietro, con un grido di dolore ad aleggiare per la via.

“Merda!” Clint era scattato tanto velocemente da aver scacciato in un istante l’apatia che aveva accompagnato quell’ultima tappa del viaggio.

Una testa di capelli rossi era balzata giù dal pick-up e avventata sul povero Barney, brandendo qualcosa che alle percezioni di Clint parve una pistola.

“No!” gridò una sola volta, prima di rallentare. Una mano a imbracciare l’arco, l’altra a incoccare una freccia. Mezzo secondo di concentrazione, pura e semplice. Prese la mira e c’entrò, per chissà quale ispirazione divina, la mano di quel demonio rosso fuoco, trapassandogliela da parte a parte. Disarmandola.

“Barney!” l’uomo era rotolato di lato, le mani alla testa, come se avesse paura di essere preso per uno di quei mostri.

“Sono ancora vivo!” un grido stridulo quasi comico nell’esecuzione.

La testa rossa era crollata di lato: sdraiata al suolo, si teneva la mano ferita, gemendo sommessamente.

Clint estrasse una seconda freccia.

“Fermo!” la voce di Barney a ridestarlo dalla concentrazione alla quale sarebbe seguito il colpo, “non è una di loro!”

“Che cazzo stai dicendo? Ti è appena saltato addosso!” e di nuovo a riprender la mira mentre, lentamente, realizzava che quel coso era in realtà una cosa e che più che un demonio sembrava una ragazzina.

“E’ viva! Fin troppo viva… se me lo chiedi.” Il fatto che Barney si fosse rimesso in piedi, giusto un po’ acciaccato dal colpo, il naso che stillava sangue come una fontana, gli diede la giusta persuasione per non ripetere immediatamente l’operazione.

Si era però avvicinato e continuava a tenerla sotto mira.

“Ehi.” Il tono era secco, brusco. Doveva aver dimenticato come ci si relazionava con gente viva.

La risposta fu solo un gemito e poi la cascata di capelli rossi che le scivolava dal viso, scoprendo così i tratti di una ragazzina alquanto sofferente. Pallida e con due occhiaie che non potevano essere solo frutto della freccia scoccata solo pochi attimi prima.

Si sentì in colpa nel momento stesso in cui gli occhi di lei si erano puntati nei suoi, come quelli di un animale braccato, ferito e sofferente.

“Ah, merda…” mormorò abbassando di poco l’arco, non prima di aver intercettato lo sguardo di lei che andava a cercare la pistola a terra.

“Non ti fare strane idee...” aveva fatto cenno a Barney che, tenendosi il naso distrutto era andato a raccogliere l’arma.

“Ha una forza niente male la bambina, mi ha quasi rotto il naso.” Aveva blaterato quello, sputando a terra un misto di saliva e sangue, “e forse anche un dente…”

Clint continuava e tenerla sotto mira, creando una specie di triangolo che, sotto il sole di quel mezzogiorno di fuoco, sì che faceva tanto film di Sergio Leone.

“Bè… mi sembra sia chiaro che nessuno di noi qui sia una di quei…”

“Ganasce.” Aveva decretato Barney, felice di aver appena utilizzato il termine di nuovo conio.

“… schifezze.” Completò per lui Clint, senza levare gli occhi di dosso alla ragazzina che aveva preso a respirare anche in modo preoccupante.

“Sei malata?” le chiese, sperando di ricevere una risposta se non cordiale (dopotutto le aveva appena trafitto una mano con una freccia)… quantomeno presente.

La ragazza digrignò i denti, cercando disperatamente di non lasciarsi andare all’incoscienza.

Era pallida, un po’ troppo pallida.

“Ho chiesto: sei malata?” il fatto che non gli rispondesse poteva voler dire che aveva paura di annunciare ai quattro venti che sì, lo era e che sì, secondo la procedura standard avrebbe dovuto essere uccisa. Era cominciato tutto con un’influenza che, prima o dopo si sarebbe conclusa con la… trasformazione: solo uno dei tanti modi per cambiare look, di quei tempi.

La sentì ringhiare qualcosa in risposta, qualcosa di molto simile a un rigurgito e poi ribaltare gli occhi all’indietro e… svenire.

“Cosa gli farai tu alle donne…” Barney.

Clint l’aveva studiata per qualche istante e quando fu certo che non fingeva le si avvicinò per tastarne il battito e la temperatura corporea.

“Non sembra avere la febbre… è ghiacciata.”

“Per forza l’hai infilzata come uno spiedino.”

“Credevo fosse uno delle Ganasce…”

“Ah!” Barney aveva quasi urlato e Clint fece un sobbalzo, “sapevo che l’avresti usato, prima o poi.”

“M’hai fatto prendere un colpo, vaffanculo…”

“Non sembrava così fragilina mentre mi balzava addosso…”

“Forse ho capito che cos’ha.” Clint aveva trovato le sue braccia e ne sollevò una a favore di Barney.

Sull’avambraccio e un po’ dappertutto c’erano minuscoli lividi e crosticine da punture di aghi. Indiscutibilmente di aghi.

“Ah merda… fra tutti i fottutissimi esseri umani che circolano su questo pianeta… proprio una cazzo di eroinomane in astinenza?”

Clint le lasciò andare il braccio, passandosi una mano sul viso.

“La lasciamo qui, no?” si preoccupò Barney.

“A far da esca a tutti i lobotomizzati che girano qui attorno? Non è uno spettacolo che ho voglia di vedere.”

Non che fosse davvero costretto ad assistere, ma ancora sentiva quel vago senso di colpa, in fondo allo stomaco per aver atterrato una persona ancora viva e potenzialmente sana. Non fosse stato per quel… non ignorabile problema di tossicodipendenza.

“Io non voglio trascinarmi dietro un peso morto.”

“Abbiamo un pick-up nuovo con tanto di chiave.”

“Ha il motore fuoriuso.”

“Stronzate… sono sicuro che sai rimetterlo in sesto.”

Barney aveva stronfiato qualcosa e lui si era rimesso in piedi ad aggirare il mezzo di trasporto, a sbirciare fra le cose della ragazza. Non aveva con sé che uno zaino che non si fece troppi problemi a raccogliere e aprire: dentro, a parte qualche cambio di vestiti e mezzi (pochi) di sopravvivenza, c’era una scatoletta di plastica.

Quando l’aprì sentì il gelo scendergli per lo stomaco, ancor più di quello provocato dal senso di colpa.

“Che hai trovato?”

Clint socchiuse gli occhi e imprecò a mezza bocca.

Forse sarebbe stato meglio si trattasse di una… cazzo di eroinomane.

 

*

 

Si svegliò che aveva ancora la bocca impastata e la gola che le doleva. Ma il senso d’oppressione le arrivava più nitido da un’altra parte: un dolore pulsante, attivo, vivo, alla mano.

Ricordò tutto in una frazione di secondo.

Paris, l’incidente sul pick-up, la paura, la freccia nella mano. La freccia…

Si portò la mano all’altezza del viso solo per rendersi conto che era stava fasciata con una garza pulita. E che se la testa ancora continuava a dolerle non era perché era stesa al suolo ma per via del malessere diffuso dovuto alla mancanza assoluta di farmaci da almeno quarantotto ore.

Si rese conto di essere sdraiata su un letto, nella cameretta che, a giudicare dalle decorazioni infantili su tutte le pareti, doveva essere appartenuta a un bambino. Un maschietto particolarmente attratto dalle macchinine e genere… automobilistico.

Dall’altra parte della porta arrivava un chiacchiericcio sommesso che la mise in allarme. Anche se… quei mostri tutto (ganasce?) denti non sembravano dotati di favella, a meno che, nel frattempo, non avessero imparato a farlo.

La soluzione più semplice che le riuscì di elaborare fu che le voci dall’altra parte della porta non fossero che quelle dei due uomini che aveva incontrato quel pomeriggio.

Non l’avevano uccisa: dunque dovevano aver deciso che non era malata e decisamente non uno zombie (quanto odiava usare quella stupida parola da parodia cinematografica).

Il fatto che si fossero presi cura della sua mano non le diede certo la sicurezza che fossero delle brave persone. Ma dopotutto… lo era forse lei stessa… una brava persona?

Cercò di cambiare posizione, ma tutto quello che guadagnò fu una stilettata di dolore alla mano che aveva inavvertitamente battuto contro lo spigolo della ringhiera di quel letto da bambino. A giudicare dal modo in cui il sangue imbrattava la garza non dovevano aver fatto un buon lavoro di sutura.

La porta si aprì nel momento che seguì al gemito che le era sfuggito di bocca.

Un triangolo di luce filtrò all’interno della stanza e la sagoma di una persona fece il suo ingresso.

“Allora sei viva.” Riconobbe, in qualche modo, la voce dell’uomo che l’aveva atterrata con una freccia.

Cercò di rimettersi seduta, con scarsi risultati.

Un’altra persona attendeva a pochi passi di distanza mentre l’uomo entrava. Non avvertì il pericolo, ma non si concesse alcuna distensione. Aveva avuto a che fare con gente che le aveva fatto credere un sacco di stronzate prima di provare a fotterla, in tanti, diversi modi. Si limitò a fissarlo, gli occhi già abituati alla penombra non fecero fatica a distinguerlo.

Lo vide tenere le distanze, come si aspettasse una reazione azzardata. Se solo avesse potuto immedesimarsi nelle sue condizioni attuali avrebbe capito che non sarebbe stata in grado di arrecargli più danno di un gatto con le unghie consumate.

“Magari non te ne farai un cazzo ma... mi spiace per... la freccia.”

“Ti pare il caso di metterti a novanta in questo modo?”

“Taci Barney…”

Allungò lo sguardo fino all’altro tizio che le scoccò un’occhiata ostile, prima di ritirarsi nel suo cono di luce, nella stanza adiacente. Non fosse stato per il grosso cerotto che l'altro portava sul naso, si somigliavano. Dovevano essere... parenti.

Natasha tornò a guardare il suo interlocutore, non del tutto certa di come avrebbe dovuto comportarsi. Era troppo tempo che non aveva a che fare con una persona… viva. Troppo tempo, comunque, che non conosceva qualcuno a prescindere. A parte aver tentato di abbattere il tizio... per assoluta e legittima autodifesa, non avevano la più pallida idea di chi avessero di fronte: non erano suoi nemici giurati, né avrebbero voluto fargliela pagare per qualche crimine pregresso. Per loro, probabilmente, era solo una ragazza indifesa... con un istinto di sopravvivenza piuttosto sviluppato.

Deglutì a fatica, di nuovo, la nausea che tornava a ondate più o meno preoccupanti.

“Da quanto tempo non prendi le tue medicine?” la domanda era arrivata così brutale e diretta che per un attimo non seppe cosa rispondere. “Ho trovato il tuo… kit per l’insulina.” Fece un cenno con il capo ad indicare il suo zainetto sistemato su un baule in fondo alla stanza.

Si trovò a considerare che una risposta non avrebbe potuto far del male a nessuno, nemmeno a se stessa. Non più di quanto stesse male al momento.

“Quaran…” la voce le uscì roca e vagamente inquietante. Sì, decisamente era troppo tempo che non parlava. O non beveva, per quello che ne poteva sapere.

“Quarantotto ore… forse di più.” biascicò.

“Merda.”

Già, merda. Non avrebbe saputo esprimersi meglio.

“Come cazzo è possibile che una ragazza giovane come te abbia già una malattia così assurda?”

“Mai sentito parlare di diabete giovanile.”

Lui le lanciò uno sguardo fra il sorpreso e l’imbarazzato, prima di mettersi a frugare in una busta di plastica che aveva con sé.

“Questo ti può tornare utile?”

Se Natasha non aveva le traveggole, quella non era altro che insulina. Di quella che serviva a lei. Non riuscì a far altro che sentirsi invadere da uno strano senso di sollievo e di rivolgere al suo… carnefice di un pomeriggio, uno sguardo pseudo riconoscente.

“Come facevi a… ?”

“Avevo un amico… con lo stesso problema.”

Era andato a procurarsi un pacco di insulina... solo per lei? Perché? Non la conosceva nemmeno.

Guardò con sospetto la scatola, ancora intonsa. Lui sembrò intuire il suo pensiero.

“Hai quasi spaccato il naso a mio fratello. Aveva bisogno di antidolorifici e un po' di cerotti e c'era... una farmacia lì vicino”, disse come se fosse poi davvero necessario giustificarsi, “E poi... siamo tutti sulla stessa barca, no? Non sei costretta a fare un bel niente, io ti do questa roba e tu decidi cosa fare. Io e mio fratello prendiamo le nostre cose e ce ne andiamo e se... tu hai intenzione di tornare... da dove sei venuta... da sola, lo fai.”

Logico, lineare... assolutamente... sbagliato?

Il termine sbagliato era la prima che le fosse venuta in mente non appena il tizio aveva detto quell'altra parola. Quella che le faceva paura.

Sola.

Da sola.

Di nuovo.

Lei e un branco di mostri? Lei, da sola... con tutti quegli... incubi improvvisamente fattisi materiali?

La vista tornò torbida.

“Ehi...”

Per un istante fu più che certa che sarebbe svenuta di nuovo.

“Prendi quella roba e riprenditi... alla svelta.” le aveva sistemato accanto la scatolina con il suo kit personale e una scatola di antidolorifici.

“Ancora... scusa per la mano.”

Quel tizio era assurdo. Non aveva esitato un solo istante a brandire un arco per abbattere un presunto zombie e adesso si prodigava in una sequenza imbarazzante di scuse con quella faccia da... cane bastonato?

Forse aveva del tutto sottovalutato la razza umana in tutti quegli anni. O forse era solo quella specie di spirito collettivo unito contro il nemico lobotomizzato e marcescente a far crescere la solidarietà per i suoi simili.

Quali che fossero le ragioni... almeno sarebbe sopravvissuta. Almeno un altro po'.

“Come ti chiami?” le parole le erano uscite di bocca senza che nemmeno ci dovesse stare troppo a pensare.

L'uomo si era indicato, un po' sorpreso dalla domanda, quasi fosse davvero intenzionato a lasciarla lì e tanti saluti, dopo aver fatto il suo dovere.

Invece un mezzo sorriso gli illuminò il volto.

“Mi chiamo Clint...”

“E' Clinton, non Clint!” la voce dell'altro uomo dalla stanza accanto.

“E l'imbecille di là è Bernard!” scandì Clint.

“Clinton, Francis!”

“Vaffanculo Barney.” smozzicò a mezza voce, rimettendosi in piedi.

Natasha che aveva assistito allo scambio di battute perplessa, si trovò a nascondere un sorriso: per un istante, ma solo per un istante, gli avevano ricordato delle persone che conosceva... che conosceva nell'altra vita. Quella prima dell'epidemia.

L'altra vita. Quante volte aveva già ripercorso quel pensiero?

Stava davvero vivendo... un'altra vita?

“E tu... ?” la voce di Clint la scosse dalle sue elucubrazioni.

Lo guardò stranita per un istante, passandosi una mano sul collo umido.

“Natasha. Natasha... Romanoff.”

Clint si limitò ad annuire come ad aver preso coscienza della cosa.

“Che fine ha fatto la mia pistola... ?” anche quella domanda, le era sorta spontanea. Non si sentiva per niente sicura, senza.

L'uomo sembrò incerto sulla risposta da darle: “In un posto affidabile. Finché non ti riprendi. Adesso... fai quello che devi fare.”

Dal modo in cui era schizzato fuori dalla porta, Natasha ebbe come l'impressione che Clint non amasse particolarmente gli aghi.

Assurdo, lo aveva già detto?

 

___

 

Note:

Capitolo incentrato sul primo incontro/scontro della storia. Ovviamente, trattandosi di me, non potevo che iniziare con loro. Niente paura, nel prossimo approfondisco anche gli altri e, senza spoilerare alcunché, anticipo solo che salterà fuori anche uno dei due avengers che ancora non sono stati nominati.
Concluso questo, annuncio che probabilmente il prossimo capitolo subirà un mini ritardo, perché da giovedì a domenica sarò al Lucca Comics & Games, per immergermi in quattro giorni di follia 
a fumetti. A chiunque sarà da quelle parti, se ha voglia si faccia vivo (c'è un modo per trovarmi, come e dove però non lo dico qui). Adesso vado a sbrodolare ancora un po' su quel trailer incomprensibile di Age of Ultron e a coccolare il mio pc a cui, per l'occasione ho trovato finalmente un nome: UltronE. Sì, insomma, è un pc così autonomo che mi apre le pagine web a caso, da solo, come altro avrei potuto chiamarlo?

Insomma, grazie a tutti quanti chi legge, chi commenta, chi supera lo schifo per gli zombie... e alla mia super beta socia Sere, che se non ci fosse bisognerebbe inventarla. No, Tony, giù le mani! Noi ci si risente presto!

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

 

“Dobbiamo agire insieme. Ci vuole uno che mi aiuti a ricaricare e uno che guardi fuori. Io sparerò. Come ha detto Bertrand Russell: L’unica cosa che riscatta l’essere umano è la collaborazione! E adesso so che faremo nostre queste parole!”

“Non erano su un sotto-bicchiere?”

“Sì, della Guiness doppio malto”

(Shaun of the Dead)

 

*

 

Poco fuori Dallas,

Quaranta giorni dopo il contagio

 

Non andava, non andava proprio. Gli mancavano le attrezzature adatte, un buon laboratorio, tutti i suoi gingilli.

Cercava di ripercorrere mentalmente la lista dei materiali da reperire, nonostante fosse più che consapevole del fatto che quello, fra tutti i problemi che avevano riscontrato in quell’ultimo mese, doveva proprio essere l’ultimo.

Eppure la sua intuizione si era rivelata buona, per quel poco tempo in cui era riuscito a metterla in atto e…

Il fruscio delle lenzuola alle sue spalle a ridestarlo da tutta una serie di macchinazioni mentali.

“Tony… che stai facendo?” Pepper si era appena svegliata.

“Mi intrattengo con… delle stupidaggini.” Le rispose, cercando di non mostrare quella sorta di afflizione costante che tornava stringergli lo stomaco troppo spesso. Abbandonò il suo pseudo tavolo da lavoro, una scrivania mal messa di una camera di motel di fortuna, altrettanto in cattivo stato.

“Vieni qui…” Un ordine a soffocare quella patina di imbarazzo e persistente incertezza. Protendeva le mani verso di lui, il viso pallido, gli occhi cerchiati di nero.

Cercò di dimenticare momentaneamente ciò che lo stava tormentando per lasciarsi trascinare in un abbraccio stanco, ma mai privo di calore.

“Come ti senti?” ormai una domanda di rito, che probabilmente avrebbe ricevuto la stessa, identica risposta di rito.

“Meglio…”

Sapevano entrambi che non era vero. Se dopo la fuga da Malibù le condizioni di Pepper sembravano essersi avviate sulla via del miglioramento (scarica di adrenalina o sa il cavolo), adesso che la situazione si era stabilizzata in quello squallido motel del Texas, parevano essere tornate quelle di un mese prima. Stabilito che non si trattava di quel pericoloso contagio (che di regola dopo una settimana di tribolazioni fisiche non lasciava scampo, o così almeno avevano detto al telegiornale), la situazione non si presentava comunque granché positiva.

Pepper stava male. Una bronchite trascurata o qualcosa di simile. Tony non era un dottore, Tony era solo uno stupido ingegnere. Un inventore. Uno scienziato. Non un segaossa. Le macchine per lui non avevano segreti. Gli esseri umani... pure troppi.

Se la situazione fosse peggiorata, Pepper avrebbe potuto rimetterci le penne e peggio, magari, ridestarsi trasformata in quelle cose orride a cui non era ancora riuscito a dare un nome. Lui che per carattere affibbiava nomignoli a chiunque pur di minimizzare i rapporti interpersonali, a quelle cose non era stato in grado di associare niente che fosse capace di sminuirne la terribile natura.

Semplicemente non era normale. Non era razionale. Una prova tangibile di un mondo dominato dal caos. E lui, che di caos se ne intendeva abbastanza a causa di trascorsi non troppo gradevoli, non riusciva comunque a riconoscercisi, a empatizzare con quel tipo di caos.

“Harold che fine ha fatto?” invece di preoccuparsi per se stessa…

“E’ andato a cercare qualcosa da mangiare.”

“Siamo praticamente nel deserto… dove… ?”

“Non lo so. Happy è un tipo pieno di risorse, sembrava piuttosto animato quando ha annunciato che ci avrebbe pensato lui alla cena.”

“Cena? Che ore sono… Dio, per quanto ho dormito?”

“Qualcosa come dieci ore, ma è okay, Pepper, devi stare a riposo. O devi andare da qualche parte?” finse un'espressione stranita.

Era per quel motivo che avevano deciso di sostare in un posto tanto isolato, nel bel mezzo del niente.

Fosse stato per lui sarebbe corso spedito verso Atlanta, fatta eccezione per le uniche, doverose pause per evacuare. Ma Pepper era stanca e aveva bisogno di un letto vero, di cibo… vero. Soprattutto di medicinali veri.

Non era sicuro di sapere cosa avrebbero trovato ad Atlanta, ma parlavano di cure, e di qualsiasi cura stessero blaterando avrebbe comunque significato avere a disposizione scienziati, dottori, qualcuno che ci avrebbe capito qualcosa più di lui: avrebbe potuto significare la salvezza della donna.

Avevano provato a cercare un ospedale, nella speranza di qualche centro di raccolta, in qualsiasi città. Ma gli scenari, da qualche tempo a quella parte, erano quelli di un film apocalittico, da l’ultimo uomo sulla terra. Avesse deciso di correre in giro nudo non avrebbe fatto alcuna differenza: non un cane, letteralmente, ad assistere allo spettacolino, se non qualche mostruoso cannibale che in ogni caso si sarebbe preannunciato con un gran lavorio di mascelle.

Le ultime persone vive che avevano incontrato erano una coppia del New Mexico, fratello e sorella. Avevano condiviso provviste e dormitorio per una notte prima di essere attaccati da un gruppo di zombie. Si erano divisi in una fuga confusionaria e frenetica e non avevano la minima idea di dove fossero andati a cacciarsi. Probabilmente erano morti.

Il pensiero gli procurava solo un misero fastidio: l’importante era che non fossero morti loro. Egoistico? Forse. Ma brutalmente pratico.

Qualcuno bussò alla porta.

“Chi è?” la domanda gli sembrò imbecille nel momento stesso in cui l’aveva pronunciata.

“Il lupo mannaro. Chi cavolo vuoi che sia?”

“Che ne so, magari uno che non si è accorto che là fuori stanno girando un film horror.”

“Stark, apri! Si gela qui fuori… ed è buio…”

L’uomo si era già rimesso in piedi a scostare la libreria che avevano messo a protezione della porta, come ulteriore sicurezza. Non avevano trovato mostri in giro, ma potevano sempre arrivare dalle profondità più remote del deserto.

Si vide di fronte il faccione di Happy e si sentì rincuorato: per quanto in quegli ultimi giorni si fossero trovati a condividere anche la più minima, intima funzione vitale, faceva sempre un certo effetto non averlo fra i piedi. In tempi come quelli poi, allontanarsi troppo e troppo a lungo era un lusso che non potevano permettersi.

Lo vide rovesciare a terra lo zaino per aiutarlo a rimettere a posto la libreria davanti alla porta.

“Fatto.”

“Che cosa hai trovato?”

“Un sacco di cose, guarda… ah, Pepper, ti sei svegliata, come stai oggi?”

“Meglio…” di nuovo quella dolorosa bugia.

Tony aveva cominciato a frugare nel suo zaino: “Che diavolo è questa roba?”

“Cibo?” la domanda retorica.

Patatine al formaggio, Mars, Pringles, croccante al miele… Dr. Pepper.

“Un attentato alle coronarie. Praticamente, se non ci sbranano gli zombie…”

“Che cosa ti aspettavi che trovassi nella reception di uno stupido motel?” la voce di Happy non era per niente… happy.

Tony non trattenne una smorfia, non certo destinata a quel pover’uomo del suo autista: da quando era diventato così stronzo? Il problema, forse, era che lo era sempre stato. Dunque riformulando: da quando si preoccupava di quanto fosse stronzo?

La soluzione stava fondamentalmente nel fatto che le due persone presenti in quella stanza erano, al momento, gli esseri umani… più importanti della sua vita. Patetico? No, anche questo realistico.

“A me andrebbero delle patatine al formaggio.” Pepper si era messa seduta sul letto, il cuscino a sostenerla in modo un po’ instabile.

“Ecco qua. Vedi? Qualcuno che apprezza i miei sforzi.”

“Meno male. Allora io posso continuare a insultare te e i fornitori di macchinette degli Stati Obesi d’America.

“Fa' pure, se non vuoi mangiare non sei per niente obbligato.”

“... chessò delle tartine al formaggio, un po’ di caviale…”

“Champagne.” Aveva sottolineato sarcasticamente Pepper mentre apriva la sua bustina di patatine che scricchiolò gioiosa fra le sue mani.

“Finalmente qualcuno sulla mia lunghezza d’onda.”

“Invece di dire stupidaggini perché non guardi meglio nello zaino?” stronfiò Happy, scartando il suo Mars.

Tony parve perplesso. Happy era davvero riuscito a trovare del caviale?

Andò a fondo con il braccio finché le sue dita non si serrarono attorno a qualcosa di piccolo e metallico.

Sgranò gli occhi quando si trovò fra le mani uno dei componenti elettronici che gli servivano per proseguire con la sua… specialissima arma.

“E questo dove diavolo lo hai trovato?”

Happy, finalmente, sfoggiò un sorriso tronfio: “… nelle macchinette, no?”

Tony sentì qualcosa di molto simile alla gratitudine agitarsi nel suo stomaco.

“Pepper, bacialo.”

“Che cosa?”

“Hai sentito benissimo.”

“Guarda che se lo faccio ci metto lo stesso impegno con cui ti mando al diavolo.”

Happy li guardò confuso.

“Okay, lascia stare. Lo bacio io.”

 

*

Qualche miglia al confine del Maine

Quarantuno giorni dopo il contagio

 

Aveva camminato tutta la notte. Forse di più. Le gambe si muovevano come spinte da vita propria.

Non era in grado di dire quante miglia avesse percorso o quante ore fossero trascorse.

Nemmeno di valutare lo stato di degrado fisico e psicologico in cui era precipitato da qualche giorno a quella parte.

La suola delle scarpe consumata al punto di rendere la sua andatura ulteriormente instabile. I vestiti troppo leggeri per far fronte alla pioggerellina insistente che lo tormentava da quella mattina.

Eppure continuava a proseguire, imperterrito, le gocce a scivolargli giù dalle ciocche di capelli, a imbrattargli il viso, le evidenti lacerazioni. Le croste di sangue che faticava a sciogliersi, le mani scorticate in più punti, le unghie saltate via da almeno un paio di dita.

La testa bassa, continuava a fissare la strada sotto di sé. Come se non gli importasse proprio dove fosse diretto o chi… o cosa… avrebbe potuto incrociare sul suo cammino.

 

Ci aveva messo un po’ per comprendere che il grido che aveva sentito arrivava direttamente dalla sua gola.

Realizzarlo lo mise immediatamente nelle condizioni di recuperare almeno un briciolo della lucidità che gli era rimasta.

Aveva di fronte niente di meno che il suo incubo, che invece di proseguire su percorsi prettamente onirici aveva deciso di venirgli a far visita nel mondo reale.

Appurato questo bè, le soluzioni non potevano che essere due: o farsi prendere dal panico, non accettarlo e continuare a gridare fino a farsi partire un embolo… oppure decidere di prenderne atto e… agire di conseguenza.

Optò per la seconda. Del tutto inconsciamente, istintivamente. Fu grato al suo buon senso, per una volta tanto.

Si prese del tempo per valutare la situazione.

Era in una cella... e fin lì, al momento, tanto di guadagnato. Lui non poteva uscire ma, fino a prova contraria, nemmeno quel coso poteva entrare.

Di fronte a lui c’era George, una delle guardie; probabilmente l’ultima rimasta perché… nessuno sembrava intenzionato o nelle condizioni di venire a vedere che diavolo stava succedendo. Presumibilmente, aveva fatto fuori tutti gli altri e nessuno ancora aveva dato l’allarme, o mai lo avrebbe fatto.

George non gli era mai stato particolarmente simpatico, però era uno di quelli che lo trattava con maggior… rispetto. Quando aveva scoperto delle sue origini nordeuropee aveva preso a chiamarlo Loki. Non che fosse davvero il suo nome, ma a lungo andare aveva cominciato a farci l’orecchio: spesso nemmeno si voltava, se cercavano di affibbiargli il suo vero nome.

Al momento, George sembrava del tutto intenzionato a mangiarselo. O così intuì dal modo in cui continuava a protendere verso di lui quelle sue mani grassocce, in cui la bocca continuava ad aprirsi e richiudersi a schiocco, come fanno quegli uccellini appena nati in attesa della madre con il cibo.

Però dal cinturone ciondolava un mazzo di chiavi.

E quel mazzo di chiavi poteva rappresentare l’unica via di fuga per la sopravvivenza o per andare incontro a una rapida morte.

Avrebbe dovuto giocarsela. Giocarsela... molto bene.

Il problema era come fare a procurarsi quel dannato cinturone senza rischiare di lasciarsi strappare una mano nel tentativo.

La soluzione fu così chiara e nitida che si chiese come avesse fatto a non pensarci immediatamente.

Doveva ucciderlo. Insomma, non lo aveva già fatto comunque in passato? E in ogni caso gli avrebbe fatto un favore, doveva… essere andato fuori di cervello, quel George.

Forse un altro punto a proprio vantaggio: non sembrava granché sveglio. O cosciente.

Cercò nella cella qualcosa che potesse fare al caso suo. Non gli permettevano di tenere oggetti contundenti per cui la ricerca non fu semplice.

Un libro.

Ma usare un libro, oltre ad essere poco efficace, sarebbe stato sacrilego.

Quel poster? E che ci avrebbe dovuto fare con un poster? Stordirlo con un paio di tette fuori misura?

Un paio di matite troppo corte per un sano utilizzo. Un taccuino per gli appunti. Qualche articolo di giornale, fazzolettini di carta… la sua branda.

Un pensieri irrazionale gli passò per il cervello: avrebbe potuto usare la branda.

Certo… con l'aiuto della forza bruta di cui si trovava provvisto.

Se non scoppiò a ridere fu solo perché la situazione richiedeva tutta la sua concentrazione e i mugolii di quei cosi, di per sé, non aiutavano granché.

Certo che però… se fosse riuscito a smontarla… quella sua branda…

 

Il rumore di una miriade di motori ebbe il potere di risvegliarlo se non del tutto, almeno in parte da quel torpore esausto che lo aveva sospinto fino ad allora.

Non doveva fermarsi. Era tutto quello che sapeva. Non doveva. Non poteva. O non sarebbe mai più stato in grado di mettere un piede di fronte all’altro e proseguire.
Nel momento stesso in cui si fosse fermato, probabilmente sarebbe crollato al suolo… e sarebbe morto.

No, non poteva morire. Non dopo tutto quello che aveva fatto. Non nel modo… in cui lo aveva fatto.

Era convinto di dover ripagare, in un certo senso, la sua tenacia.

Era riuscito a scappare da una prigione, perdio! Una prigione in cui si supponeva avrebbe dovuto marcire fino alla fine dei suoi patetici giorni e invece…

L’orrore… l’orrore.

 

Non era sicuro di aver capito come ci fosse riuscito ma la gamba di quella stupida branda aveva finalmente ceduto. Ci era saltato su fino a piegarla e poi si era scorticato le mani a furia di far pressione. Era passata una quantità spropositata di tempo, tanto che le luci del mattino che inizialmente venivano proiettate da fuori, adesso si erano tramutate nell'arancio rosato tipico dei tramonti di primavera.

Un'intera giornata. Ah… un’intera giornata per sganciare la stupidissima gamba di una stupidissima branda. Ah. Ma ce l’aveva fatta. Ce l’aveva fatta e… non sentiva più le mani. Non più le unghie.

Non ricordava nemmeno il momento in cui aveva perso quella dell’indice e poi quella del medio.

Le mani erano un ammasso di sangue e ferite. Gli pulsavano tanto da scandire, in modo evidente, il battito del suo cuore, a ricordargli che non era ancora morto, no, ma che presto lo sarebbe stato George. George la guardia.

 

Si trovò circondato ancor prima di realizzare che cosa fossero quelle cose che gli puntavano addosso fasci di luce. Non era sicuro gli importasse più di tanto, anche se quel rumore non poteva che appartenere a delle motociclette. Motociclette piuttosto grosse.

Il problema fu realizzare, con orrore, che lo avevano costretto a fermarsi.

“Chi se lo fa questo?” una voce alla sua destra, profonda, roca.

“Stavolta tocca a te Hogun.” Ora a sinistra.

“Non diciamo stronzate, tocca a me!”

“Ne hai accoppati due questa mattina, Volstagg, non fare l’esoso!”

“Non avevano le gambe, non c’è stato gusto, porco cazzo!”

“Non inventarti scuse!”

“La vogliamo smettere? Che qualcuno tiri fuori una cazzo di pistola e lo faccia fuori!” la voce di una donna.

Si stavano… contendendo le sue sorti? Lo credevano uno di quei così? Non si rendevano conto che… non stava facendo assolutamente niente per attaccarli? Che si stava trattenendo per non battere i denti per il freddo che gli era entrato nelle ossa?

Forse era colpa dei capelli troppo lunghi, a coprirgli il viso.

Forse… avrebbe solo dovuto parlare.

“Ho capito, ci penso io.” Di nuovo la voce profonda, roca di prima.

No. Non sono uno di loro, questo avrebbe voluto dire. L’oscurità non aiutava. La stanchezza nemmeno.

Non sono uno di quei cosi. Io li uccido quei cosi. Ne ho uccisi. Ne ho uccisi diversi. Ne ho uccisi tantissimi. Ho ancora pezzi dei loro cervelli a imbrattarmi la camicia. Non sono uno di loro non sono uno di…

Il rumore del caricatore di una pistola o di un fucile. Non aveva mai imbracciato un'arma in vita sua, non lo sapeva. Non lo sapeva…

“Non… sono…” un sibilo così flebile da venir soffocato dal rombo dei motori.

E poi furono gli stivali del tizio a entrargli nel campo visivo.

“Ehi, questo nemmeno si muove.”

“Magari è una razza nuova. Dovremmo cominciare a catalogarli, ah?”

“Non… sono…”

“Allora che stai aspettando? Fa freddo porca puttana!”

“Sei proprio una femminuccia, Fandral.”

“E tu sei una lumaca. Muoviti cazzo!”

“Non… sono…”

La canna di un fucile che gli premeva alla fronte.

“Non… sono…”

E fu proprio in quel momento che trovò la forza di alzare la testa.

 

Aveva calato la gamba di quella stupida branda sulla testa di George con tutta la forza che ancora gli era rimasta. E gliel’aveva sfondata sì, lo aveva fatto. Di conseguenza, il riverbero delle sue azioni andò a depositarsi come polvere sulla sua coscienza, animandolo, straordinariamente, di una sorta di innata consapevolezza: adesso quello che doveva fare sembrava così chiaro.

Allungò una  mano sul corpo incastrato del povero George e recuperò le chiavi.

Come avesse assorbito i pensieri della guardia, dopo avergli fracassato il cervello, seppe immediatamente dove andare a cercare. Quella della sua cella, risplendeva di una luce più vivida, rispetto alle altre.

Il chiavistello scattò senza alcun problema, liscio come l’olio. Scansò con non poca fatica il corpo accartocciato dell'uomo e fu nel corridoio.

Ad attenderlo, migliaia di braccia che si agitavano nelle proprie celle, a tenderle come rami alla ricerca del lauto pasto della giornata.

 

Il colpo era partito e la canna del fucile aveva vibrato, bollente, a un centimetro dalla sua faccia.

“Che cazzo di mira, ce lo avevi di fronte!” una voce infastidita dalle retrovie.

“Vaffanculo, Volstagg, questo è vivo!”

“Vivo?”

Vivo. Finalmente se ne era reso conto.

Il gigante biondo che gli stava di fronte imbracciava ancora l'arma con un’espressione di puro, statico stupore.

“P-perché te ne sei rimasto lì impalato e zitto?”

Adesso sarebbe pure saltato fuori che era colpa sua, se non aveva parlato. Solo che non ne aveva granché la forza: continuò semplicemente a guardarlo. Gli occhi chiari e animati da un luce vivida, l’unica testimonianza che era ancora indiscutibilmente vivo.

“Sembra tu ne abbia passate parecchie, fratello.”

Fratello?

“Sai parlare? Mi capisci? Tu hablas español? Da dove vieni?” la voce adesso era vagamente incerta. Riuscì a leggerci una sorta di improvvisa impazienza e misurabile dubbio, come se si stesse chiedendo se forse non avrebbe fatto meglio a farlo fuori e tanti saluti. Forse aveva notato il non trascurabile dettaglio del suo abbigliamento (da carcerato), oppure era stato il suo sguardo, puro e semplice.

Improvvisamente ebbe paura di lasciarsi sfuggire l’occasione, di non riuscire a spiegarsi abbastanza. Non sarebbe riuscito a fare tanta più strada di così, nelle sue condizioni.

Non si era trascinato fra corpi marcescenti a sfondar crani di secondini e poi fuori per giorni da solo, a curarsi le ferite e ad evitare i posti troppo affollati, a prevedere le mosse di quei cosi, per morire da solo su una fottutissima strada del Maine.

Aprì e chiuse le labbra, emettendo un flebile suono.

Il biondo tutto tatuaggi e barba incolta aveva aggrottato la fronte come se non avesse inteso.

“Spegnete i motori!” aveva gridato e improvvisamente tutt’intorno fu di nuovo il buio.

Il biondo si era indicato con la mano che non teneva ancora stretto il fucile: “Mi chiamo Donald. Donald Blake. Ma nella squadra mi chiamano Thor…” lo incitò come per spronarlo a parlare con una semplice presentazione.

Thor. Come il… dio del tuono, quel… dio del tuono? Se questa non era una coincidenza…

“E tu chi sei, fratello?”

Di nuovo… fratello.

Deglutì piano e, di colpo rianimato da un bieco sorriso, si lasciò guidare dall’ispirazione di quell’assurdo momento.

“Io sono… Loki.”

 

*

Paris, Kentucky

Quarantuno giorni dopo il contagio

 

“A-ah!” l’urlo di esultanza e la sgasata improvvisa del motore gli fece perdere la concentrazione.

Le lattine di birra che aveva impilato una sopra l’altra a creare una torre etilica sull’asfalto, crollarono miseramente al suolo, trascinandosi dietro il rumore acuto del metallo.

A quanto pareva Barney era uscito vittorioso dalla sua battaglia con il motore del pick-up di Natasha (se fosse suo, ancora era tutto da stabilire).

Le mani annerite dall’olio, era saltato giù dal mezzo che adesso borbottava felice. Una sorta di novello mostro di Frankenstein fatto di lamiere.

“Te lo avevo detto che ci saresti riuscito.”

“Già. E tu…” Barney lo aveva indicato, “non mi hai aiutato per un cazzo.”

“Io ho supervisionato le operazioni.”

“Tu hai cazzeggiato. Cos’è questo schifo? Dove è andato a finire il tuo senso civico?” indicava le lattine sparse tutt’intorno.

“Mai saputo di averne uno.”

“Con tutto quello che ho pagato per farti studiare…” la voce rammaricata, quasi convincente.

Clint si rimise in piedi, spolverandosi il retro dei pantaloni.

“Vado a prendere la roba e ce ne andiamo?” domandò scalciando una lattina che andò ad infilarsi nel buco sotto al marciapiede.

“Che ne facciamo di Testarossa?”

Una domanda a cui Clint non aveva ancora saputo dare una risposta.

Barney, che per tutta la sera precedente si era detto assolutamente contrario a volerla con loro (forse l'umiliazione e il dolore per essere stato atterrato come un pivello), sembrava essersi ridimensionato quella stessa mattina, quando le aveva fatto trovare delle merendine per colazione.

Chi conosceva un minimo Barney sapeva che dietro quell'aria un po' spaventosa e piuttosto grezza si nascondeva un cuore alquanto compassionevole.

I suoi trascorsi non c'entravano assolutamente un cazzo. Le questioni morali di Barney riguardavano esclusivamente i pessimi elementi con cui avevano da sempre avuto a che fare. Ed aveva sempre agito di conseguenza.

Appurato il fatto che Natasha non lo aveva attaccato per sadismo intrinseco o aggressività instabile, doveva aver deciso che andava trattata un po' per quello che era, o che quantomeno sembrava: niente di più che una ragazzina spaventata e malconcia.

Clint però non riusciva a bersela, non del tutto almeno. Non era sicuro di capire cosa non lo convincesse, ma c'era qualcosa di strano nel suo sguardo. Se non avesse avuto paura di azzardare una stronzata, lo avrebbe quasi valutato come... pericoloso.

Ma forse stava diventando troppo paranoico: il fatto che da più di un mese non si fosse accompagnato a nessuno oltre a Barney, lo aveva reso un tantino geloso della situazione, del fatto che avrebbe dovuto condividere la fiducia assoluta che scambiava con il fratello con un terzo elemento del gruppo. E non era certo, in tempi come quelli, di voler consegnare la sua sicurezza a un... perfetto sconosciuto.

Nel caso avesse deciso di seguirli, si ripromise di tenere gli occhi aperti, più di quanto non fosse già abituato a fare.

Natasha, come richiamata da un impalpabile fischio alle orecchie, era appena comparsa sulla soglia della villetta che avevano usato come rifugio notturno.

L'aria un po' stropicciata e pallida di chi sembra aver appena superato una crisi, cosa fin troppo fedele alla realtà, nel suo caso specifico.

“Parli del diavolo...”

Clint si limitò a raccogliere da terra il borsone con tutte le cose che avevano recuperato e a lanciarle sul retro del pick-up.

“Noi ce ne andiamo.” le aveva annunciato come a specificare che, nel caso avesse esitato, loro non avrebbero fatto altrettanto: sarebbero anzi partiti a tavoletta. Dovevano averne avuto abbastanza un po' tutti di quel... come lo aveva chiamato Barney? Posto di merda.

Natasha si limitò a fissarli per un lungo attimo coma a valutare le situazione.

“Avrò bisogno della mia pistola.” la sentì dire con aria asciutta.

Le premesse non sembravano per niente buone e, se da un lato si sentì liberato dall'onere di dover prendere una decisione e dalle sue elucubrazioni sulla sicurezza del gruppo, dall'altro non poté fare a meno di avvertire ancora quella fastidiosa stretta allo stomaco legata a un ridicolo senso di colpa.

Credeva che un mondo come quello, a lungo andare, lo avrebbe reso arido: non una mammoletta al solo pensiero di aver fatto del male, involontario, a un altro essere umano... vivo.

La raggiunse a passo lento, sfilando la pistola infilata nei jeans. La sollevò per fargliela vedere, prima di porgergliela.

“È scarica”, le disse solamente, “lo sapevi?”

Natasha scrollò le spalle. Stando al modo in cui lo aveva guardato doveva saperlo eccome.

“Le scorte di proiettili sono sotto al sedile del furgone.” lo istruì.

“D'accordo. Mi pare di capire che hai deciso di proseguire sola.”

“A me è parso di capire che mi avete appena liquidato.”

Clint le lanciò uno sguardo perplesso.

“No. Io ho solo detto che ce ne saremmo andati.”

“E non l'abbiamo invitata!” Barney si era di nuovo intromesso, stava armeggiando con l'autoradio, a giudicare dai rumori gracchianti che gli arrivavano dal furgone.

“Non credevo ci fosse bisogno di un invito scritto!” rilanciò con uno scatto vagamente innervosito.

“Cos'è, allora vuoi venire con noi?” di nuovo su Natasha. Quella manfrina stava diventando stupidamente lunga.

“Non vado dove non sono gradita.”

“Ho detto per caso che non sei gradita?” adesso aveva allargato le braccia, frustrato. Di che diavolo stavano discutendo?

“Il tuo tono lo ha detto.”

“Il mio tono non dice un cazzo. Vuoi venire con noi oppure no?”

Niente, nello sguardo della ragazza, dava un qualche misero indizio sulle sue intenzioni. Stava per caso cercando di strappargli davvero un invito?

“Senti ragazzina...” I rumori nell'autoradio si erano stabilizzati su frequenze da ultrasuoni, “Barney, ma che cazzo stai facendo?”

“C'è un tizio che sta parlando alla radio!”

“Cosa... ?”

“Mi è parso di aver beccato un tizio. Alla radio! E vieni qui porca puttana!”

Clint aveva fatto cenno a Natasha di aspettarlo con quell'aria un po' impaziente che un padre adotta con un figlioletto particolarmente insistente e si era precipitato al pick-up.

“Sicuro hai le traveggole.” dichiarò arrampicandosi al finestrino per sentire meglio.

“Non ho le traveggole, cazzo, ascolta...”

Clint non avvertiva niente di più che una serie di fruscii piuttosto sgradevoli.

“Te lo sei immaginato.”

“Non l'ho fatto. Ascolta, ho detto.”

Aveva allungato il collo verso l'interno del veicolo e stava ascoltando adesso. Molto attentamente.

Di nuovo una serie di gracidii, uno schiocco, un altro gracidio e poi...

“Da Atlanta... bzzz, qualcuno... bzzz ascolto... ?”

Clint si trovò a tirare su la testa con una velocità tale da fargliela picchiare dolorosamente contro il finestrino.

“Porca merda...”

“Sentito?! Te lo avevo detto! Atlanta. Parlava di Atlanta. Allora è vero che c'è ancora gente laggiù.” il viso di Barney era tutto un sorriso ora.

Clint non era sicuro che fosse una scoperta così grandiosa da alimentare chissà quali speranze, però era anche vero che le trasmissioni si erano interrotte da giorni e quello era il primo vero segnale di vita proveniente da... altrove. La volontà di qualche sperduto utente di riattivare un qualsiasi canale di comunicazione.

Qualcuno ci stava lavorando. Qualcuno si stava attivando. Qualcuno aveva avuto il tempo e la tranquillità necessari per riprendere in mano una radio. Qualcuno stava cercando di raccogliere gente. Che fosse l'esercito o il circolo di polo dei signori di 'sto cazzo... era pur sempre qualcosa di più di tutta quella... desolazione.

Atlanta non gli era mai sembrata così lontana.

Saltò giù dal pick-up e si sporse in direzione di Natasha.

“Allora ti muovi? Prendi la tua roba e andiamo.”

Non dovette insistere ulteriormente: in fondo lo aveva capito che quella era l'unica cosa che la ragazzina aveva bisogno di sentirsi dire. La vide raccogliere la sua sacca appena dietro la porta e, senza nemmeno chiuderla, correre nella loro direzione.

Barney fece partire il furgone, lanciando a Natasha uno sguardo di chi la sapeva lunga.

“Se ti dicessi che cosa mi manca di più in tutto questo scenario apocalittico di morte, non ci crederesti.”

Il pick-up Ford Ranger color petrolio schizzò lungo la via principale di Paris, lasciandosi alla spalle fumo e una scia di lattine di birra vuote.

 

___

 

Note:

Sono ancora così ubriaca da Lucca Comics, che sarò breve: nuovi vendicatori all’orizzonte. Spero che Thor non abbia deluso le aspettative. E, se non ricordo male (rimbambita, la storia l’hai scritta te!), nel prossimo capitolo arriveranno un altro paio di noti personaggi a completare il quadretto Marvel.
Nel frattempo sono uscite clip folli di Age of Ultron (dove scopriamo che Clint ha una fattoria e le parodie si sprecano), spoiler folli su personaggi che non mi sarei attesa di vedere in sto film (due personaggi a caso!) e ho finalmente visto il tanto decantato Guardiani della Galassia. Se mi è piaciuto? Ci sono un procione con un mitra e un albero parlante, che cavolo volete di più dalla vita?!

Come sempre ringrazio i fedeli lettori, recensori, la socia beta Sere che la prossima volta, ti avviso, pretendo che le nostre nuove, luccicanti action figures Clintashose si incontrino per un rendez-vous alla Toy Story e infine… vi rimando al prossimo capitolo con un saluto devastato ed esaurito!

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4

 

Sto trasmettendo su tutte le frequenze in onde medie. Sarò al porto di South Street tutti i giorni a mezzogiorno, quando il sole è più alto nel cielo. Se ci siete, se c'è qualcuno da qualche parte, posso offrire cibo, posso offrire riparo, posso offrire protezione. Se c'è qualcuno, chiunque sia, ti prego, non sei solo.

(Io Sono Leggenda)

 

*

 

Albany, Georgia

 

Maria Hill teneva le mani sulle cuffie, cercando di intuire su che canale dirigere le trasmissioni.

“Prova con il tre…”

Coulson, dietro al mixer, provava a capirci qualcosa, libretto di istruzioni alla mano.

“Se avessi voluto fare il DJ a quest’ora sarei…”

“Morto.” Lo sceriffo Fury sembrava aver raggiunto il limite massimo di pazienza.

Avevano guadagnato la postazione della radio locale quella mattina e adesso, a sera inoltrata, si chiedeva se non fosse il caso di levare le tende e tornare alla loro base operativa.

In quella porzione di città che erano riusciti a ripulire e a proteggere dagli zombie.

Avventurarsi per le vie di Albany non era sicuro di notte, con la scarsa visibilità e tutto il resto.

A meno che non avessero deciso di restare rinchiusi lì dentro fino alla mattina successiva: l’idea non lo allettava. Le scorte d’armi, munizioni e cibo erano dall’altra parte della città. E gli snack alla macchinetta e quella brodaglia che si ostinavano a chiamare caffè, non avrebbe certo sopperito alle loro esigenze.

L’idea di riattivare la radio locale era stata ponderata dopo una marea infinita di discussioni.

E dopo aver riscontrato l’appoggio dell’intera comunità.

Perché sì, lo sceriffo Fury si era trovato per le mani una bella gatta da pelare il giorno in cui almeno una decina di individui diretti ad Atlanta avevano deviato per Albany in cerca di protezione. Vinti dagli stessi legittimi dubbi sulla credibilità delle notizie sparse in giro dai telegiornali, giorni prima.

Se li era visti capitare addosso fra capo e collo, un’intera famiglia, un quartetto di individui solitari e un paio di ragazzi in fuga e, con la loro collaborazione, era riuscito a isolare una porzione della città attorno al commissariato.

 

Il fatto era che di tutte le persone che avevano visto sciamare in esodo di speranza verso Atlanta, non ne avevano vista tornare nessuna, fatta eccezione per loro. E la soluzione a quell’intricato caso poteva essere di molteplici interpretazioni.

Una su tutte che il centro di raccolta avesse avuto un successo straordinario. Che tutti lì vivessero felici, nutriti e al sicuro.

L’altra, che riscontrava molto più facilmente l’appoggio di Fury, era che ad Atlanta fossero tutti morti. E le sue deduzioni non arrivavano certo da un eccessivo pessimismo, ma da una serie di logiche considerazioni.

Se i primi giorni dopo il contagio non avevano fatto altro che registrare un via vai piuttosto consistente di mezzi di trasporto militari, aerei e forze dell’ordine (che si erano persino preoccupati di renderlo partecipe della situazione della zona) in arrivo direttamente da Washigton, da dove, a quanto pareva, avevano preso il via tutte le operazioni, da almeno una ventina di giorni non si era registrata più alcuna visita volante o via terra in quel senso.

Vero era che persino le carovane di persone in viaggio verso la città dei desideri si erano assottigliate di parecchio.

E quindi si interrogò su quante probabilità avesse una così consistente massa di persone di sopravvivere a stretto contatto, senza mezzi di sopravvivenza adeguati. Quanto tempo ci sarebbe voluto per finire tutte le provviste dell’esercito? O di trovarne da altre parti?

Ma questo poteva voler dire tutto e niente, il caso più clamoroso che alimentava la sua incertezza arrivava direttamente dal terrificante episodio della settimana prima.

C’era stata un’esplosione. Un boato che aveva svegliato tutti quanti. Erano usciti a guardare la luce che si riverberava nel cielo notturno, il cuore in tumulto, la paura nelle viscere. Erano rimasti svegli ad attendere qualcosa, qualsiasi cosa… e poi non era successo niente. Fino al giorno successivo.

Quando si erano trovati a dover far fronte a un gruppo consistente di mostri di ritorno dalla statale.

Le prospettive non sembravano più tanto rosee.

Per questo la radio.

Per questo le comunicazioni.
Non avrebbero potuto monitorare la strada verso Atlanta per sempre e il modo più semplice per avvisare la gente, oltre a spargere cartelli in ogni dove, era quello di prendere a trasmettere messaggi più o meno espliciti, nella speranza che qualcuno fosse in ascolto.

Fury si era sentito in dovere di farlo. In dovere di salvare il salvabile.

 

“Sarei morto, ma magari avrei goduto del successo per qualche anno. Una villa, una bella macchina…”

“Ed ora hai un’intera città e un numero spropositato di macchine a disposizione.”

“Non è la stessa cosa, sceriffo…”

“Sono in onda…” la voce di Maria a interromperli, “Se ci fosse qualcuno in ascolto. Sono l’agente Maria Hill di Albany. A tutte le persone dirette ad Atlanta…”

Fury aveva sentito quel messaggio così tante volte da averne la nausea.

“Ancora un paio di tentativi e poi ce ne andiamo.” Si era rimesso in piedi, la mano a grattare la bandana improvvisata per tenere a riparo l’occhio ormai in via di guarigione.

La rabbia ancora mal repressa al ricordo di quello sciocco episodio.

“I ragazzi si staranno preoccupando a non vederci rientrare.”

“Vado fuori a controllare che sia tutto a posto”, Coulson era scattato, senza nemmeno aspettare un cenno d’assenso dello sceriffo.

Maria concluse rapidamente il messaggio per la seconda volta, prima di chiudere definitivamente le trasmissioni.

“Secondo lei qualcuno ci ha sentito?”

Fury si strinse nelle spalle. Non aveva nessuna soluzione a quel tipo di domande.

“Nel caso ci fosse ancora in giro qualcuno per ascoltarlo… lo spero.”

L’espressione di Maria si era fatta cupa.

“Torniamo. Sono sicuro che Bess ha pensato a tenerci in caldo qualcosa per cena.”

“Bess ha un debole per lei, signore…” il sorriso di Maria lo aveva sollevato, ma lo fece altresì stomacare. Non che Bess non fosse un cuore d’oro, ma non era esattamente quella che potresti definire con leggerezza una donna gradevole. Buona a farci due chiacchiere per intrattenere buoni rapporti di vicinato, ma… niente di più.

“Giusto le casalinghe disperate.”

“Di questi tempi…”

“Non mi sono mai sposato per un’ottima ragione. E non vedo come un’epidemia mondiale possa farmi cambiare idea a riguardo.”

“Non si sa mai. Le vie del Signore sono infinite…”

“… e piene di fottutissimi zombie.”

Uno sparo all’esterno richiamò bruscamente la loro attenzione.

“Merda. Coulson”.

Si erano lanciati giù per le scale, le mani che già stringevano le pistole d’ordinanza. Fury un Winchester preso in prestito da qualcuno che non ne aveva più bisogno.

Le porte non avevano ancora finito di sbattere alle loro spalle che individuarono immediatamente la fonte che aveva provocato tutto quel clamore: un gruppo consistente di zombie, rigurgitati direttamente dalle vie circostanti, si stava riversando in piazza e Coulson era l’unico essere umano vivo a tener loro testa là in mezzo. Poco distante dalla loro vettura.

“Non ho fatto in tempo ad avvisarvi, signore!”

Le scuse erano l’ultima cosa di cui lo sceriffo avesse bisogno. Prese a sparare, cercando di limitare i danni e abbatterne un numero sufficiente per garantire loro una rapida fuga.

Maria, al suo fianco, aveva cominciato a scaricare su di loro il caricatore della sua arma. Se li ritrovarono ben presto dappertutto. L'idea di tornare indietro, alla stazione radio, nemmeno da prendere in considerazione. Un gruppetto di zombie aveva già preso posizione di fronte alle porte.

In tre, spalle contro spalle a seminare cervella per le vie di Albany mentre il cerchio attorno a loro cominciava a diventare sempre più stretto, sempre più opprimente.

 

*

Autostrada attraverso il Kentucky

 

Clint aveva preso il posto di guida.

I fari del pick-up a illuminare la strada deserta di fronte a loro. I finestrini leggermente abbassati a far passare un po’ d’aria e la musica appena accennata di un cd ripescato sotto al cruscotto. Qualcosa di country. Clint non apprezzava granché il genere, ma il solo fatto di aver della musica ad alleggerire l'atmosfera lo metteva di buon umore. Era da un sacco che non ne ascoltava. Un po’ per prudenza. Un po’ per scarsità di mezzi.

Barney, alle sue spalle, dormiva della grossa da almeno mezz’ora dopo aver guidato praticamente tutto il pomeriggio. Ogni tanto arrivava qualche sommesso grugnito.

La notizia della radio li aveva animati di una certa fretta. Quale che fosse la verità dietro quella stramba comunicazione, la priorità ora era arrivare ad Atlanta. Cosa fare una volta arrivati… ci avrebbero pensato a tempo debito.

Con la coda dell’occhio vide Natasha allungare le gambe a stiracchiarsi. Doveva essersi svegliata.

“Dove siamo?” Uno sbadiglio mal represso.

“Non ne ho la più pallida idea.”

“Incoraggiante.”

“La strada è tutta dritta. Sarei veramente un coglione a sbagliare.”

Natasha si era voltata nella sua direzione con un’espressione che Clint intuì non essere troppo lusinghiera.

“E’ la direzione giusta.” Rimarcò con un certo fastidio nella voce, “se hai fame c’è qualcosa nella borsa dietro.”

Natasha scosse la testa.

“Sono a posto”, meglio. Non era particolarmente ispirato nell’assistere di nuovo allo spettacolino di un ago nelle parti molli, per quanto minuscolo. “Hai bisogno di un cambio alla guida?”

“No. Non sono stanco. E poi...” la mano. Che ancora perdeva sangue. Barney aveva fatto del suo meglio ma il punto croce non era esattamente il suo forte.

Lei dovette intuire la fine della frase perché rispose con una certa urgenza: “La mano sta bene. Ne ho passate di peggiori...”

Clint stentò a crederlo. Poi gli tornarono alla mente tutti i motivi per cui non era ancora riuscito a inquadrarla.

“Peggio di una freccia conficcata in una mano?”

“Molto peggio.”

Voltò appena la testa per guardarla e poi di nuovo sulla strada per evitare di intercettare il suo sguardo.

“Cosa sei, una teppista? O un poliziotto? Un militare?”

“Al momento non sono niente.”

La risposta sembrava decisamente voler evitare qualsiasi tipo di confronto. Perfetto. Se non aveva intenzione di fare conversazione non sarebbe stato necessario farne. Allungò una mano e alzò l'autoradio su un assolo particolarmente ispirato.

Cosa che Natasha non sembrò gradire: l'istante successivo fu la sua, di mano, ad abbassare la manopola del volume.

“Ehi... stavo ascoltando.”

“Avevi detto che ti faceva schifo il country.”

“Non l'ho mai detto.”

“Lo hai detto a tuo fratello...”

Non se lo ricordava, ma probabilmente era vero. Era solita registrare tutte le conversazioni e riportarle per fargli girare i coglioni?

Serrò le mani sul volante, restando in silenzio. La musica la poteva sentire lo stesso. Magari doveva solo concentrarsi su quella e tanti saluti.

“Non sembrate dotati di un grande arsenale”, l'improvvisa constatazione di Natasha mandò a benedire i suoi buoni propositi di estraniarsi, “perché arco e frecce?”

Clint avvertì una vaga accusa nella voce e la cosa non gli fece granché piacere. Quella conversazione era nata decisamente male.

“Perché sono armi silenziose.”

La risposta sembrò bastarle per una frazione di tempo sufficiente a concludere quella strampalata canzone che raccontava di un amore perduto.

“Ma non abbastanza veloci.”

“Questo lo dici tu.”

“Non sono pratiche a distanza ravvicinata.”

“Le frecce possono essere usate in mille modi anche da sole.”

“Mi sembra comunque una scelta singolare.”

“Non c'è una scelta. Si usa tutto quello che serve.”

Natasha lo guardò di nuovo, ma stavolta sembrò concordare.

“La prima volta ho usato un martello”, la confessione non gli sembrò così strampalata.

“Eri già avanti. Io ho usato una statuetta kitsch di una contadina.”

Ancora lo ricordava con una nitidezza piuttosto sconcertante. La violenza con cui l'aveva abbattuta sul cranio del vicino di casa, il sangue, la puzza di marcio. L'urto di vomito che ne era seguito.

“Ci ho messo un po' a capire che bisognava fracassargli la testa.”

“Io non lo avevo capito”, un'ammissione di debolezza, finalmente? “Me lo hanno suggerito.”

“Chi?”

“Una persona che è morta...”

“Ah. Mi... dispiace.”

“A me no.” quel tono freddo, gelido. Sempre così gelido. La sensazione di non arrivare a comprendere quella ragazzina si moltiplicò all'istante, tornando a fargli girare le palle.

“Hai sempre viaggiato da sola?” il desiderio improvviso di vederci più chiaro. Era abituato a convivere con Barney. Una persona le cui emozioni trasparivano anche dal modo in cui camminava. Tutta quell'ambiguità non riusciva granché a digerirla.

“Sì.”

“E' straordinario come tu sia riuscita a sopravvivere.”

“Grazie per la fiducia.”

“Non sto scherzando. Ha dello straordinario. Ho visto persone grosse il doppio di te, crollare come pugni di mosche.”

“Forse proprio perché erano il doppio di me.”

“Hai un'opinione smisurata di te stessa, mh?”

“Non è un'opinione. E' un dato di fatto.” Fantastico. Persino megalomane: “Sono stata addestrata ad affrontare situazioni del genere.”

“Ad affrontare le Ganasce?”

Natasha si era voltata nella sua direzione.

“Le Ganasce?”

“Sì, insomma...” si maledì all'istante. Dannato Barney, “quei cosi morti.”

“Gli zombie...”

“Sì... gli zombie. Anche se zombie suona peggio di Ganasce se me lo concedi.”

“Te lo concedo”, la sentì sospirare, “No, comunque. Non loro.”

Le diede il tempo per proseguire con la frase, ma non sembrava affatto sul punto di concluderla.

Scrollò le spalle.

“Quanti anni hai, Natasha?”

La sentì muoversi nervosamente sul sedile.

“Ha importanza?”

Forse no, non ne aveva ma... doveva scacciarsi di dosso quella sensazione, immediatamente.

“Sono rimaste poche le cose ad avere davvero importanza di questi tempi”, rispose ancora prima di capire dove volesse andare a parare, “per quanto mi riguarda il mondo aspettava solo una stronzata del genere per fotterci tutti e non riesco a dargli torto sulla decisione”, si prese un istante di pausa per assicurarsi che lo stesse ascoltando.

“Sono stato risparmiato fino ad ora, per non so che grazia divina o extraterrestre... e lo stesso vale per mio fratello. Non siamo mai stati due stinchi di santo e, tanto vale dirlo, forse facevamo parte di quella feccia che avrebbe fatto bene a sparire dal mondo ma... siamo rimasti. E siamo qui, vivi, a farci il culo ogni giorno”, la musica aveva ripreso con una ballata sulle grandi praterie, “Barney è una delle poche cose che per me ha davvero importanza di questi tempi. Siamo stati lui ed io fino ad ora, capisci?” le aveva scoccato un'occhiata significativa. “Sei entrata nel nostro giro. All'improvviso. Non ho voglia di stare a girarci intorno e te lo dico chiaro e tondo: preferirei circondarmi solo di gente di cui posso fidarmi. A maggior ragione in tempi come questi. Quindi... forse no. Non ha davvero importanza sapere la tua età. Ma continuare a viaggiare con noi significa fidarsi. Chiunque tu fossi o tu sia stata prima, nella vita precedente a questo... non mi interessa. Voglio solo sapere se posso fidarmi ora. In questo momento. E se anche avrò solo il minimo sentore di non poterlo fare, mi vedrò costretto a lasciarti andare. Perché non farai parte delle cose che hanno importanza.”

La vide raccogliere le gambe, ed accovacciarvisi contro. Si preparò a una qualsiasi reazione che però tardò ad arrivare. Gli sarebbe persino bastato vederla aprire la portiera e lanciarsi fuori dal furgone in corsa, o gridargli in faccia in modo infantile, tutto, ma non... il silenzio.

Serrò le mani al volante e accelerò per istinto.

“Hai capito quello che ho detto?” smozzicò fra i denti, il nervosismo palpabile.

“Ne ho ventuno”, le parole di Natasha appena soffiate, soffocate dalle labbra a premere sulle ginocchia.

“Come?”

“Ho ventun anni.”

Bene. Aveva ventun anni. Ma di tutto quello che aveva detto che cosa aveva recepito? Solo il latrato di un cane particolarmente rissoso?

“Fantastico... questo significa che...”

“Che potete fidarvi di me.” la voce aveva assunto una sfumatura che non aveva mai colto fino ad allora. Che per un attimo, aveva scalfito il ghiaccio delle sue corde vocali.

“Okay... ma...”

“Nessun ma. Non vuoi sapere cosa facevo prima e mi sta bene non raccontartelo. Ma se mi chiedi se ci si può fidare di me. Sì, ci si può fidare. Non mi sarei unita a voi... se non avessi compreso l'importanza di un... gruppo.”

Le parole erano state pronunciate con una razionalità e logica del tutto ineccepibile.

“E poi mi hai salvato la vita.”

Adesso era perplesso e vagamente in panico.

“Veramente ho tentato di ucciderti.” si affrettò a specificare. Come se poi ce ne fosse stato veramente bisogno.

“Già”, appuntò, “questo smorza un po' il debito che ho nei tuoi confronti allora. Ma per il resto... me l'hai salvata comunque.”

“Non hai nessun debito... nei miei confronti.” di cosa diavolo stava blaterando?

“Come ti pare. In ogni caso non frego le persone di cui sono debitrice.”

Clint decise di prendere quella confessione un po' come veniva. Il dubbio su chi fosse quella ragazzina restava. Quello se fidarsi di lei... si lasciò più di uno spiraglio aperto. E un pizzico di positività, che non faceva mai male.

“Bene... allora... siamo d'accordo, immagino.”

“Siamo d'accordo.”

Tornò a calare il silenzio, misto a un vago disagio a cui non seppe dare un nome. Forse era più facile avere a che fare con persone che non ti dovevano un bel niente. Se non un cazzotto nello stomaco.

“La vuoi sapere qual è la cosa che a me manca di più dal giorno in cui abbiamo cominciato a scappare da quei mostri?” le domandò allora, come a darle un secondo di tregua, ad alleviare quell'attimo di tensione, ripescando il quesito di cui Barney, fra l'altro, non aveva ancora dato soluzione.

“Spara.”

“Il caffè caldo ogni mattina.”

Natasha lo stava fissando e per un attimo si sentì proprio stupido. Forse non era stata una grande idea quella di imitare i disinvolti tentativi di Barney. Finché non la sentì rilassarsi e allungare di nuovo le gambe.

“A me manca il mio cuscino.” la sentì dire.

“Il tuo cuscino?”

“A-ah... non hai mai avuto un cuscino preferito?”

“A dire la verità no, ma... il cuscino.” annuì, come a prenderne atto.

“Caffè e cuscini?” Barney era improvvisamente balzato fra i due sedili anteriori, provocandogli di fatto una sbandata e mezzo infarto “Che scelte del cazzo!”

Clint riportò il pick-up a un'andatura quantomeno decente, il cuore a mille.

“Sei un deficiente...” disse a mezza voce, troppo preso a farsi passare l'attimo di panico, per gridargli in faccia.

Da quanto tempo li stava ascoltando?

“Non è tempo di cambiare quella merda di CD?”

“Ma tu non stavi dormendo?”

“Tu continuavi a parlare...” gli aveva dato una strizzata alla spalla e uno sguardo d'intesa.

“Ehi guardate...” li distrasse per un istante, il braccio puntato dritto di fronte a loro.

Avevano appena superato il confine col Tennessee.

 

*

Albany, Georgia

 

Fury aveva male alla spalla. Il continuo rinculo del Winchester alla lunga aveva minato alle sue giunture già compromesse dall'età.

Aveva tirato fuori la sua pistola e aveva ripreso a far fuoco, non del tutto sicuro che sarebbero riusciti a cavarsela comunque.

Erano tanti. Erano troppi. L'unica cosa di cui si rammaricava (non lo faceva sempre?) era il fatto di aver coinvolto le uniche persone che avrebbe voluto lontano da lì.

“Signore... ho f-finito le munizioni.” la voce di Coulson adesso gli arrivava distorta, disperata.

Abbassò la mano e fece passare la pistola nell'altra.

“Prendi questa.” gli disse solamente.

“Signore ma... è la sua unica pistola.”

“Ho detto prendila.”

“Che sta facendo, sceriffo?” anche Maria non suonava granché padrona della situazione, ormai.

“Vi do una via di fuga.” aveva preso ad arrotolarsi le maniche della camicia. A imbracciare il Winchester scarico come bastone. Nonostante la frescura della sera, aveva cominciato ad avere caldo.

“Non faccia stronzate! Non è armato! E sono in troppi.”

“Appunto per quello. Appena mi avranno preso di mira, dovrete guadagnare la macchina e scappare il più lontano possibile.”

“No!”

“Non è una richiesta, Maria. Questo è un ordine.”

“Forse allora è arrivato il momento di dare le dimissioni, signore, perché non mi sembra in grado di prendere decisioni razionali.”

Fury le lanciò uno sguardo nervoso che venne ricambiato con furore.

“Non ha senso che crepiamo tutti e tre!”

“Non ha senso che crepi lei!”

Coulson aveva sparato un altro paio di colpi che però vennero inghiottiti dal rombo sordo che all'inizio parve loro quello di un tuono.

Eh già, ci mancava solo un temporale del cazzo.

Il cielo però brillava impassibile e sereno sopra le loro teste, mentre quel rombo...

“Che cos'è?” anche gli zombie sembravano disorientati.

“Non lo so. Forse si è finalmente aperta la voragine dell'inferno ad inghiottirci tutti quanti.”

“Occristo, guardate!” Coulson aveva allungato un braccio, non prima di aver fracassato la testa di uno zombie in avvicinamento: l'ombra di un grosso mezzo stava avanzando dalla via principale.

“Ma quello è...”

“Porca puttana.”

Un carro armato.

Un grosso, enorme, massiccio, fottutissimo carro armato. Era dai tempi della guerra che Fury non ne vedeva uno di quelle dimensioni.

Stava venendo verso di loro, facendosi largo fra i corpi di quei cadaveri, senza preoccuparsi di passargli sopra come fossero formiche. Una visione tanto disgustosa, quanto distensiva.

Si fermò proprio in mezzo alla piazza, a pochi centimetri da loro, prima che il portellone si aprisse.

Ne sbucò la testa di un uomo di colore. E poi il corpo di un... militare di colore. Che brandiva un mitra.

“Un po' di rock and roll, gente?” lo sentirono urlare, prima di cominciare a far fuoco tutt'intorno a maciullar cervelli senza discernimento.

Un esaltato del cazzo.

Fury, che non aveva smesso un solo istante di assistere a quella visione del tutto surreale, nemmeno si era reso conto che un altro uomo era uscito dal grosso mezzo e stava loro gridando qualcosa.

“Signore! Signore dobbiamo muoverci!” Maria lo aveva appena scosso mentre una mano si tendeva verso di lui.

Il suo unico occhio andò a fissarsi sul viso del secondo uomo che sembrava esser appena sceso dal cielo per salvarli.

“Sceriffo...” doveva aver riconosciuto... la stella, “Sono il Capitano Steve Rogers.”

Fury scoccò un'occhiata a quel viso rileccato e bonario e solo allora si decise ad allungare una mano per farsi issare sul mezzo: “Ti sembra che in questo momento possa fregarmene qualcosa di come cazzo ti chiami, ragazzo?”

Il ringraziamento migliore che poteva aspettarsi.

 

___

 

Note:

Ecco svelato il mistero dei due nuovi personaggi in arrivo. Il gruppo principale è praticamente al completo, ancora dispersi per gli Stati Uniti ma sulla via di Atlanta. E a parte salvar sceriffi orbi e incazzosi, il Cap avrà il suo ruolo nella storia, quanto prima. Non nascondo però che probabilmente ci saranno ulteriori sviluppi sul fronte personaggi, ma non voglio anticipare niente. Solo metto in guardia, e apro il toto personaggio in arrivo, per chi volesse cimentarsi. No, purtroppo non c'è niente in palio...
Con questo passo agli importanti ringraziamenti di rito. Alla beta socia Sere, sempre presente e utilissima e tutti i lettori e recensori che ringrazio tanto per l'entusiasmo. Ed è tutto. Ora scappo al cinema a vedere Interstellar. E... ci sentiamo alla prossima!

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

 

 

Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c'è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un'origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te.

(La Strada – Cormac McCarthy)

 

*

Pennsylvania

 

Aveva aperto gli occhi al forte profumo di bacon appena arrostito.

Ci mise un po' a focalizzare i dintorni, a capire dove si trovasse.

La sensazione di straniamento e angoscia svanì rapidamente quando la sua memoria allacciò tutti i cavi di connessione, ricordandogli gli eventi di due sere prima.

Aveva navigato in una situazione di dormiveglia costante per più di ventiquattro ore.

La schiena gli doleva, ma per la prima volta, dopo giorni poteva finalmente dirsi... riposato.

Non un solo incubo a tormentarlo.

Non gli schiocchi.

Non quel corridoio.

Non il ruggito.

Non la sensazione di essere preso per la gola.

Cominciò a pensare che fosse la sua situazione di carcerato a ridurlo in quello stato allucinato. Forse il soffocamento aveva dei risvolti inconsci alle condizioni in cui aveva versato solo fino a un mese prima.

I ragazzi delle motociclette erano disposti in circolo fuori dalla strada. Una larga campagna ad accogliere la loro sosta. Una massa di alberi, poco distanti.

Avevano allestito un piccolo accampamento la sera precedente. Non che Loki lo ricordasse. Era troppo esausto anche solo per pensare. Tutto quello che aveva potuto fare era stato affidarsi, totalmente, fiduciosamente a quel gruppo di bestioni tutti barba (per lo più) e tatuaggi e crollare, letteralmente in uno degli ennesimi stati di pseudo incoscienza.

Si rimise seduto, rendendosi conto di essere sdraiato su una coperta di quelle che si usano per i pic-nic. Un attimo dopo aveva un piatto di bacon ancora sfrigolante sotto al naso.

“Ehi! Ti sei svegliato finalmente, fratello, pensavamo fossi finito in coma.”

Loki alzò uno sguardo sul tizio che gli si era rivolto. Lo stesso che gli aveva evitato di finir con la testa spappolata. Il biondone dall'espressione gioviale e forse un po'... tonta.

Non trovò la domanda degna di una risposta.

“Hai fame?” evidentemente nemmeno se l'aspettava, una risposta.

Valutò il piatto di bacon e, a giudicare da come il suo stomaco si contorse al profumo, dovette constatare che sì, aveva decisamente fame.

“Grazie...” recuperò il piatto.

“Spiacente, non abbiamo posate. Di questi tempi ci dobbiamo accontentare delle cose un po' rustiche.”

Loki scrollò le spalle.

“Nessun problema... è più di quanto abbia recuperato in questi... giorni.”

Il biondo gli si era seduto di fianco. Probabilmente si sentiva in vena di chiacchiere. Non era sicuro fosse predisposto lui, però. Nel dubbio cominciò a mangiare, domandandosi dove diavolo avessero trovato del bacon. Un lusso assurdo di quei tempi. Forse li aveva sottovalutati.

“Allora... da quale penitenziario sei sbucato fuori?”

Loki quasi si ingozzò, prima di rialzare uno sguardo ostico e vagamente sospetto su... Thor (quanto gli faceva strano chiamarlo a quel modo, ancora).

Lo sentì scoppiare a ridere. Probabilmente aveva intuito tutta la sua sorpresa. Forse era pure meno tonto di quanto sembrasse. Forse era la barba a dare quell'impressione.

“Non ti preoccupare, qui in mezzo c'è gente che fa dentro e fuori di galera da almeno una decade...”

“Insomma della brava gente...”

“La più affidabile che abbia mai conosciuto.”

Loki gli scoccò uno sguardo rapido e tornò ad addentare il suo bacon.

“Penitenziario statale di Warren”, rispose solamente.

“Crimine... ?”

Loki deglutì lentamente.

“Furto. Con scasso”, mentì.

“Come il nostro Volstagg!” additò il gigante lontano, coinvolto in una fitta conversazione con l’unica donna della brigata, nemmeno avesse appena rivelato una celebrità. Un uomo di facili entusiasmi, questo Thor.

“Insomma, mi sembra di capire che tu sia riuscito a scappare...”

“Così sembra.”

La faceva suonare una cosa da niente, e dal suo stomaco cominciò a ribollire quell'orribile sensazione che associava da sempre a suo padre. Alla sua disarmante capacità di sminuire sempre ogni sua azione, fin da quando non era altro che un ragazzino scostante e pacato.

Suo padre che, al contrario di tutti i cliché che vedevano mitizzare i caduti, sperava fosse morto in malo modo, lentamente, sbranato da quei mostri. Così che avesse potuto assimilare istante dopo istante tutto il dolore necessario.

“Ho dovuto fracassare la testa a un secondino”, gli uscì ancora prima di realizzare cosa volesse veramente rivelargli, “con la gamba di ferro... della mia branda. Le vedi le mie mani?” ne aveva alzata una per portarla all'altezza del suo viso.

“Ho recuperato le chiavi della mia cella... e tutt'intorno non c'erano che... cadaveri. Cadaveri che facevano schioccare quei denti... clack, clack, clack... hai presente il rumore, fratello? Clack, clack, clack... ovunque.”

Il piatto tremava nelle sue mani.

“Clack, clack... clack... un istinto elementare. Come quello del respiro. Clack, clack, clack... la fame. È la fame che li spinge a fare quello che fanno, ma è solo un impulso, non una necessità. Perché sono già morti”, sbuffò una risata vagamente preoccupante, “Sai quanto mi ci è voluto per capirlo? Il tempo di guadagnare l'uscita. Una libertà un po' fittizia perché... non erano tanto quelli rinchiusi nelle loro gabbie che avrebbero dovuto preoccuparmi... ma quelli che stavano fuori. E che reclamavano il loro pranzo... con una certa... urgenza.”

Adesso lo stava guardando, e a giudicare dal modo in cui Thor lo stava fissando dovette proprio ammettere di aver quantomeno catturato la sua attenzione.

“Clack, clack, clack... è così che li senti arrivare. Sì, d'accordo, prima c'è quella specie di formicolio alla base della nuca... quella sensazione di non essere solo. E poi lo senti. Prima solo un vago mugolio... che poi diventa una specie di canzoncina ritmata... clack, clack, clack... e quando sono vicini ti domandi come tu abbia fatto a trascurare il dettaglio tanto facilmente. Perché ti sono addosso. E poco gli importa qualsiasi cosa tu stia facendo... loro devono seguire quella fame... quell'istinto, capisci? Io ci ho messo un po' a comprenderne le dinamiche. Ma meno a capire che per abbatterli definitivamente, era sufficiente centrare la base dove risiedono tutti gli istinti della terra”, sospirò mettendo a terra il piatto, “il cervello.”

Sorrise. Lo aveva capito tutto da solo. Aveva affrontato tutti quei mostri da solo. E ne era uscito vivo.

“Cazzo, fratello, questa storia deve averti proprio fottuto cervello.”

Trasalì a quella constatazione, e ringraziò il cielo di non avere più il piatto fra le mani per non vederlo scivolare a terra, perché gli arrivò una pacca sulla schiena che lo costrinse al silenzio.

“Io ho cominciato a prenderli alla testa perché è il modo più veloce. Non ci ho mica pensato granché. Bam! Un colpo secco. La prima volta con una mazza da baseball che avevo in soggiorno. E bam! Steso. Ho continuato così. Poi ho capito che andava bene... sono stato fortunato.”

Loki lo osservava stranito.

Certo.

Bam.

Perché non ci aveva pensato subito, no? Bastava una mazza da baseball e pensare a quanto fosse più pratico ammazzarli a botte in testa, invece di stenderli a casaccio.

Era così logico.

Cercò di scacciare la sensazione di essere stato liquidato, di nuovo. Minimizzato.

Ma tentò anche di lasciarsi consolare dal fatto che il bestione non sembrasse una cima.

“Insomma... ce l'avevi l'aria di uno che ne ha passate parecchie. Forse ti meriti anche una birra, uh?”

Una birra. L'alcool come soluzione a tutti i mali del mondo, e poi: “Non sarai mica astemio, vero?” Il sospetto tangibile in ogni sfumatura della sua espressione.

“Una birra. Certo.” come avrebbe potuto dargli una delusione rifiutando, dopotutto? “Beviamoci su.”

“Bravo fratello!” la benedizione del gigante biondo non lo consolò affatto. Lo guardò allontanarsi, non senza avvertire, nitida, la sensazione che fosse finito fra le mani di un branco di idioti. Un branco di idioti che però sapevano come procurarsi del cibo. E dell’alcool. A dispetto della crisi più nera in cui era precipitato il mondo.

Si concentrò sul fatto che aveva finalmente messo nello stomaco qualcosa di solido. E che non doveva più preoccuparsi di guardarsi le spalle ogni istante.

Solo quando cercò di tornare all'idillio statico del risveglio, sentì qualcosa prudere alla base della nuca. Dapprima solo un fastidio... come quello di un insetto che risale con le sue zampette a stuzzicar la cute... e poi una sensazione ben più distinta. Da fischio alle orecchie, accelerazione dei palpiti cardiaci, aumento della sudorazione, gelo nello stomaco, come quella che annuncia un calo di pressione, uno svenimento imminente.

Solo che no, non era in procinto di svenire, aveva imparato a conoscerla, quella sensazione, in tutti quei giorni di solitudine, di lotta per la sopravvivenza.

La stessa sensazione che lo attanagliava anche nella sua dimensione onirica. Quella stessa sensazione che precedeva l'avvento di quegli... schiocchi.

Clack, clack, clack, nel cervello.

Clack, clack, clack, trasportati dal vento.

Si rimise in piedi a una velocità tale da urtare il piatto di plastica e rovesciare quel che restava del bacon.

“Stanno arrivando”, un sussurro che poi si tramutò in un grido, “Stanno arrivando!”

“Che ti prende, fratello, chi sta arrivando?” la voce di Thor e la risata di Volstagg.

La campagna tutt'intorno silenziosa e deserta.

Come era possibile che non lo avvertissero anche loro… che non lo sentissero, anche loro?

“Non ti ho nemmeno ancora portato la birra!”

Nemmeno il tempo di registrare la battuta che il fogliame della vegetazione di quel boschetto alle loro spalle prese a muoversi frenetico. Il cinguettio degli uccelli surclassato da quello di mille schiocchi.

Clack, clack, clack... facevano.

Clack, clack, clack.

Così come il rumore dei caricatori delle armi dei motociclisti.

Avevano rapidamente perso la voglia di ridere.

 

*

Tennessee

 

La puzza tossica del bagno di quell'area di servizio le stava dando alla testa.

E non migliorava affatto il suo umore.

Lo specchio rotto le rimandava un'immagine distorta. Il suo viso, spezzato a metà, sembrava ancora più pallido e mal messo di quanto ricordasse.

I capelli non erano che un groviglio sporco e arruffato. Si chiese quando avrebbe avuto la possibilità di farsi una doccia.

Nel dubbio prese a legarsi i capelli con un elastico, trovato in fondo alla tasca dei suoi pantaloni.

Infilò le mani sotto l'acqua che stillava a fatica dal rubinetto e ci si lavò il viso, che ne trasse immediato e rapido benessere.

Decise di proseguire con le operazioni finché gliene sarebbe stata data l'occasione. Lavandosi a pezzi, in modo sommario. Giusto per levarsi di dosso la puzza di sudore, polvere e disinfettante.

E concedersi un attimo di beata solitudine, il tempo per rimettere insieme le idee ed arrivare a tirare le somme di tutto quello che le era successo nel giro di una settimana.

La compagnia dei fratelli Barton si era rivelata più piacevole di quanto si aspettasse.

Nessuno strano comportamento. Nessuna mira particolare nei suoi riguardi. Aveva avuto a che fare con uomini che non ci avevano messo molto più che un pugno di minuti per avanzare richieste specifiche.

Non sembravano afflitti da quell’esigenza di procacciarsi femmine in barba alla loro riluttanza.

Perciò si sentiva tranquilla. Tranquilla abbastanza da poter dormire con un’arma solo per proteggersi dai cadaveri viventi o anche solo… dormire, mentre uno dei due faceva il turno di veglia.

Non era stato facile abituarsi all’idea di non dover tenere sempre un occhio aperto, in allerta. Ma dopo il terzo giorno la spossatezza aveva avuto la meglio e si era fatta una delle dormite più sonore della sua vita.

Sonore e, per una volta tanto, prive di sogni. Perché di tanto in tanto, ancora le capitava di sognare.

Aveva sognato Ivan. I suoi fratelli. Aveva sognato di vederli rialzarsi dal loro tumulo di terra e sangue. Le mani protese nella sua direzione a invocare il suo, di sangue. La sua, di carne. Così come a pagare lo scotto di una vita colpevole, di una sopravvivenza immeritata.

Si era sempre svegliata dopo una manciata di minuti di riposo. A recuperare l’arma, a riprendere il viaggio infinito.

I fratelli Barton erano la sua realtà rassicurante del momento. E per quanto ancora avesse il dubbio che il più giovane, Clint, la stesse valutando, sapeva che avrebbe potuto fidarsi di lui, se si fosse comportata bene.

E poi aveva cominciato a capirli. A stare ai loro giochi. A ridere, in qualche modo, delle loro battute.

Non sarebbe arrivata sola ad Atlanta. E, nel caso, avrebbe saputo da quale parte schierarsi se le cose non fossero andate secondo i piani.

 

Uscì dai bagni che Barney aveva appena finito di fare benzina e di caricare almeno tre taniche sul pick-up. Mangiava un pacchetto di patatine, sgranocchiandole con fragore, poggiato sul cofano, fregandosene del silenzio circostante. La radio gracchiava in lontananza, su quel segnale che avevano disperatamente rincorso dopo Paris.

Uno scenario piuttosto desolante.

Il rumore delle suole delle sue scarpe che sfrigolavano sulla terra smossa dava il tocco finale al quadretto apocalittico.

“Dov’è tuo fratello?” ecco cosa mancava alla scena.

“In alto.”

Natasha gli lanciò uno sguardo perplesso e vagamente irritato. Era troppo infastidita dal suo essere sporca per poter sopportare battute incomprensibili.

Che diavolo significava: in alto? Era la metafora per indicare qualcosa di specifico? Magari solo nell’universo dei Barton Brothers.

Barney, forse intuendo la sua perplessità, aveva semplicemente allungato un braccio e indicato un punto… in alto.

Natasha aveva istintivamente alzato la testa, dimentica del proverbio sullo stolto che non guarda la luna ma il dito e aveva trovato… Clint.

Arrampicato sul palo più alto dell’intera area di servizio, aggrappato a un vecchio cartello della 7even Up.

“Che sta facendo?”

“Guarda la strada.”

“Come?”

“La strada. E’ pieno di statali bloccate. Cerca una via di fuga.”

Se non altro l’affermazione aveva senso. Si era trovata a dover fare retrofront più volte da quando aveva intrapreso il viaggio verso Atlanta. Tutto per colpa delle macchine ferme, in coda, sulla strada. Macchine che per lo più contenevano cadaveri. Molti di essi trasformati in quelle orride creature. Alcuni bloccati da una serratura troppo ostica, altri a vagar fra le vetture in cerca di cibo.

Qualche cadavere vero e definitivamente morto a condire il tutto con un po’ di sana teatralità.

Clint aveva preso a dondolare in modo un po’ bizzarro, prima di lasciarsi andare, aggrapparsi con agilità d’atleta alla trave del cartello pubblicitario, e ricadere con una capriola.

“Esibizionista.” Commentò Barney a mezza voce, affinché potesse sentirlo solo lei. E per sottolineare l’affermazione le aveva rivolto uno sguardo complice.

Si trovò a sorridere senza nemmeno sapere perché.

“Dove ha imparato a farlo?” la domanda sorse più spontanea di quanto avesse preventivato.

“Al circo.”

Natasha si trovò a sollevare un sopracciglio. Cominciò a pensare di non sapere un bel niente sul loro conto. E qualcosa le diceva che avrebbe potuto cavarci qualche informazione interessante, dalle loro storie.

A partire dal fatto che entrambi sapevano usare in modo perfetto arco e frecce. Insomma, non un intrattenimento immediato.

“Allora? Novità?” la distrasse Barney, indirizzando il suo sguardo ben al di là delle sue spalle.

Clint si stava avvicinando, spolverandosi le mani sui jeans stinti.

“A sud è tutto bloccato. Dovremo riprendere la strada e allungarla a est… oppure c’è un’alternativa. Solo che è un po’ rischiosa.” Aveva avvicinato Barney e fregato un paio di patatine, non senza suscitare proteste.

“Rischiosa quanto?” si era ritrovata a chiedere, mentre li osservava. Messi così vicino erano talmente simili... A parte la stazza e il colore dei capelli. Oh, e il naso rotto di Barney.

“Dovremmo attraversare un tunnel ferroviario.” Le rispose con una smorfia che non annunciava niente di buono.

La preoccupazione di Clint le si palesò in un istante. Un tunnel avrebbe potuto rivelarsi una trappola mortale, pick-up o meno.

“Hai paura che passi il treno?”

Barney si guadagnò il furto dell’intero pacchetto di patatine da parte di Clint che ebbe la malaugurata idea di passarglielo.

“Finiscile. Non se le merita.”

“Ma perché?”

“Perché sei un coglione.”

“Non ho detto niente di male, magari a qualcuno è saltato in mente di guidare un treno, no?”

“Mangiale Natasha.”

Non se lo fece ripetere due volte, dopotutto non metteva niente sotto i denti dall’ora di pranzo.

“Dunque che si fa?” chiese a Clint direttamente, mentre Barney ancora si stava domandando cosa avesse sbagliato nel suo intervento.

“Non so. Ci eviterebbe un sacco di strada, quel tunnel.”

Vero, ma forse sarebbe stato il caso di valutare pro e contro, una volta tanto.

Pro: sarebbero arrivati prima dall’altra parte.
Contro: avrebbero potuto arrivarci sotto forma di affamati cadaveri.

Il gioco valeva la candela?

“Magari val la pena tentare. Il serbatoio è pieno. E nel caso trovassimo sgradite sorprese, potremmo sempre tornare indietro… dubito salterebbe fuori un vigile in vena di multe per un’inversione di marcia in un tunnel.”

Anche quella una possibilità.

“Allora proviamoci.” Non sembrava nemmeno il caso di perder tempo.

 

*

 

Albany, Georgia

 

“Non faccia complimenti, ce n’è abbastanza per un esercito.” Bess, cinquant’anni, bassina, corporatura possente e massiccia quanto un blocco di cemento, aveva dato fondo a tutte le sue risorse pur di preparare un lauto pranzo ai nuovi arrivati.

La piccola comunità di Albany, messa in piedi – suo malgrado – dallo sceriffo Fury aveva accolto l’arrivo di un carro armato con un’esultanza degna di una home run degli Atlanta Braves.

Sembrava il giorno di Natale e tutti avevano immediatamente preso in simpatia il Capitano Rogers e quel suo compare un poco esaltato, Sam Wilson.

Quest'ultimo si era crogiolato immediatamente nella fama, mentre l’altro sembrava troppo morigerato anche solo per accettare un complimento.

Un uomo che si sarebbe potuto dire d’altri tempi. Anche dal taglio di capelli.

“Non ne faccio, la ringrazio, signora.”

“Signorina…” cinguettò Bess, versandogli nel piatto un’altra porzione di piselli. Una colazione, se non altro, piuttosto singolare.

“Pare che qualcuno l’abbia appena scaricata, sceriffo…”

Maria Hill si era sporta nella sua direzione con aria complice e divertita.

Fury stronfiò qualcosa, in fondo in fondo appena infastidito da quella patriottica intrusione. Se non erano diventati carne da macello fuori dalla stazione radio, era anche merito loro dopotutto. A mente lucida si trovò a considerare quanto poco ci avesse messo a decidere di sacrificarsi per il gruppo. Una volta forse se la sarebbe data a gambe con egoistico eroismo. Adesso invece... Forse ormai troppo vecchio per avere davvero qualcosa da perdere, forse troppo stanco per poter affrontare davvero tutta quella apocalittica merda.

Credeva che dopo l’avvento degli smartphone, dei social network e del mondo alienante in cui ci si lasciava precipitare non si sarebbe più potuto stupire di niente, non fino al giorno della sua dipartita, e invece…

Un colpo di coda come quello non l’aveva visto arrivare.

Chi avrebbe potuto?

Se non altro nessuno aveva avuto modo e tempo di twittare a riguardo. O forse sì?

“Posso avere una parola con lei, sceriffo?” il capitano Rogers sembrava aver vinto contro l’attacco frontale di Bess e, dopo averle concesso di servirgli almeno un’altra porzione di piselli, era riuscito a districarsi dalle sue amorevoli insistenze. Con la scusa che Rogers le ricordava tanto il suo presunto ex fidanzato, al sicuro, oltreoceano, aveva finito per monopolizzarlo e trattarlo con una familiarità quasi sconveniente.

“Sicuro.” Aveva fatto cenno alla Hill di tenere occupati gli altri, mentre Wilson intratteneva i presenti con aneddoti splatter dai risvolti da action movie.

Lo trascinò in quello che sembrava il suo studio. O quantomeno lo stanzino che avevano deciso di adibire a suo studio. Chiunque si fosse preso la responsabilità di eleggerlo capo di quell’improvvisata comunità, si era persino assicurato che ci stesse fin troppo comodo, in quell’ingrato compito. Si chiese se non fosse solo la divisa ad averne fatto uno pseudo leader da quattro soldi.

“Mi piace come siete riusciti ad organizzarvi qui.” Esordì Rogers, con una franchezza ed educazione che non riuscivano a risultargli insincere.

“Di necessità virtù… non è così che si dice?” Fury non amava parlare per proverbi, ma sembrava il tipo di cose che potevano piacere a quell’uomo dall’acconciatura impeccabile. Come se l’apocalisse non lo avesse sfiorato per niente. Un lieve fastidio. Un inconveniente superabile.

Magari aiutava il fatto di possedere un carro armato.

“Già bè… non mi vergogno nel dire che il vostro è il gruppo più consistente che abbiamo trovato dacché siamo partiti da Washington.”

Fury gli riservò un’occhiata strana. Da quale altra parte poteva arrivare, se non da Washington?

“Non mi dica che faceva parte di uno di quei gruppi diretti ad Atlanta... ?”

La possibilità che il mistero sull’esodo Atlanta potesse dipanarsi, gli si parò di fronte in modo fin troppo evidente, ora.

Rogers osservò per qualche istante il quadro di dubbio gusto sulla natura morta di un casco di banane e scrollò le spalle.

“Non proprio.” Gli rispose con malcelato disappunto, “organizzavo i gruppi in partenza, poco prima che la situazione degenerasse.”

La situazione… degenerasse.

“Un eufemismo carino per dire: prima che vi rendeste conto che sareste stati tutti fottuti.” Ringraziò l’età che gli permetteva anche di dire un po’ quello che gli pareva. L’espressione vagamente infastidita di Rogers, gli provocò, invece che pacata soggezione, una punta di orgoglio.

“Non eravamo in grado di valutare la gravità della situazione da Washington” Si giustificò, “quando i contatti si sono interrotti era ormai troppo tardi.”

“Magari mi puoi chiarire giusto un paio di punti, ragazzo.”

Rogers ora lo osservava con attenzione.

“Uno: perché in tv erano così convinti che ad Atlanta ci fosse la risoluzione di tutti i loro problemi, quando ho visto, con i miei stessi” si interruppe, per correggersi, sentendo l’occhio ormai inservibile prudere ancora, sotto quella bandana, “con il mio stesso occhio e sentito con le mie stesse orecchie che laggiù non ci deve essere proprio niente di miracoloso o paradisiaco. Due: sapere che cazzo è stato a provocare tutto questo macello. E non venirmi a dire che l’esercito non ne sa niente, perché sento puzza di stronzate da quando ho scoperto che Santa Claus altri non era che zio Gerald con la barba finta.”

Rogers parve valutare molto seriamente le sue domande, senza manifestare turbamento di sorta.

“Ciò che è stato a provocare questo disastro batteriologico… non è una delle cose di cui sono stato informato, sceriffo”, alzò però una mano quando Fury sembrò in procinto di avanzare una protesta, “tuttavia posso supporre si trattasse di un esperimento del governo… sfuggito al controllo degli scenziati. O manipolato… in modo del tutto arbitrario dagli scienziati stessi.”

“Ah. Il governo. Ma guarda, dopotutto un sano cliché. Sappiamo chi incolpare ancora una volta.”

“Le responsabilità, si sa, derivano da innumerevoli fattori che-”

Ma Fury si rimise in piedi, la necessità quasi fisica di interromperlo, una volta per tutte.

“Perché non la finiamo con queste stronzate diplomatiche, vuoi?”

“Sceriffo, non mi sembra che-”

“E anche con questi titoli del cazzo. Non ho più autorità in questo mondo di quanta ne abbia tu con la tua impeccabile alta uniforme. La razza umana è arrivata al capolinea, mettendoci di fronte alla cruda realtà che tutti i nostri candidi stereotipi sociali sono andati a farsi fottere. Per cui prima arriviamo a parlare da pari, prima riusciremo ad arrivare a un tipo di comunicazione chiara e sincera.”

Rogers parve disorientato e Fury non faticò a credere che stesse elaborando una risposta, ancora una volta, diplomatica e dopotutto razionale. Un uomo ligio alle regole, che non poteva certo far altro che seguirle. In mancanza di quelle, il caos. La sua parvenza di equilibrio minata da un’apocalisse senza spiegazione.

Ne aveva conosciuti, di uomini come lui, nella sua vita. E ne aveva sempre provato ribrezzo. Ora… solo una gran compassione.

“Il mio nome è Nick. Nick Fury, per onor di completezza. E non sono altri che un ospite qui, come tutti gli altri. Questa villa apparteneva ai coniugi Griffith. Un paio di arricchiti spocchiosi che non hanno fatto una bella fine. Ma è pur sempre casa loro. L’unica regola che accetto è quella della buona educazione. Perché me l’hanno insegnata da bambino e ci tengo a essere corretto da questo punto di vista. Ma in quanto a franchezza, vorrei che non avessimo niente da nasconderci, tu ed io… o tu e tutti gli altri.”

Rogers annuì una sola volta, con quell’espressione che raccontava ben altro, come se si fosse aspettato di poter dirigere il discorso in un altro modo e fosse, invece, stato smentito.

“Non mi ha fatto rispondere alla sua prima domanda però…” disse allora, sorprendendolo, in positivo, questa volta, “i media hanno captato una fuga di notizie. L’esercito è stato mandato ad Atlanta non per organizzare un campo di soccorso…”

Adesso Fury lo stava ascoltando, molto attentamente.

“… ma perché, a quanto pare, lì si trova ancora il Paziente Zero.”

Il Paziente Zero. L’uomo da cui era partita quella ignobile epidemia? Una roba da fantascienza. Da quei telefilm che tanto lo facevano sorridere il sabato sera, sul secondo canale.

Nick, a quella rivelazione, aveva dovuto sedersi, lo sguardo incredulo fisso su quell’omone di altri tempi, mentre – a scandire quell’assurdo momento – nella stanza accanto esplodevano sonore risate.

 

*

Atlanta

 

La stanza era improvvisamente diventata fredda, gelida. Un alito di vento a scuotere le tende color malva che, ricordava bene, le aveva regalato zia Josephine quando aveva appreso la lieta notizia.

Un brivido l’aveva svegliata. La pelle ancora accapponata sotto la vestaglia leggera.

Sdraiata su quel letto troppo piccolo, in quella stanza ancora spoglia, ma già ricca di giocattoli di ogni tipo, regali o piccole follie che si era concessa di acquistare ancora prima di conoscere il sesso del nascituro.

Quella bambola era così carina. Quel peluche a forma di rinoceronte sembrava chiamarla dalla vetrina. E poi il carillon con la luce incorporata per le oscure, spaventose notti di Atlanta.

La mano andò a cercare il ventre. Straordinariamente gonfio. A ricordare che era il terzo giorno che il piccolo esserino che le stava crescendo dentro non dava segni di vita.

Ricordò di essersi addormentata in lacrime.

A terra, il piatto ancora colmo di un pasto non consumato. Una scatoletta di carne e dei fagioli in scatola.

Cercò di rimettersi in piedi, di raggiungere la finestra. Faceva freddo. Freddo e la strada di sotto era deserta. Il silenzio regnava sovrano, quel silenzio che avvolgeva come una coperta, che stordiva nella sua indifferenza.

Si sporse quel tanto che bastò per sentire quel vento fresco baciarle le guance. Un'allusione sottile, un invito silenzioso.

Un salto. Sarebbe bastato un salto.

Un salto e tutto sarebbe finito. La sofferenza, il rimpianto, la paura.

Un solo salto. Un po’ di coraggio, nulla più.

A cancellare per sempre quell’appiglio di inutile speranza, quello slancio di disperato affetto.

Il bambino non si muoveva più. Il bambino era morto. Una conclusione brutale, ma realistica. L’unica ancora che le aveva permesso di superare l’orrore di quegli ultimi mesi. Ma adesso che era svanito, che senso aveva insistere? Persistere?

Per chi?

Un ginocchio era già sul davanzale. L’altro sarebbe seguito.

Sarebbe stato rapido. Dolce. Liberatorio.

Socchiuse gli occhi lasciando che fosse il vento a scompigliarle i capelli, carezzevole, suadente.

Ma poi fu il ruggito. Il ruggito a risvegliarla da quel torpore di tragedia.

La porta si spalancò alle sue spalle, facendo vibrare i cardini, le pareti.

Si volse con quell’espressione attonita, da senso di colpa, da bambino che è stato scoperto a rubare dalla scatola dei biscotti.

“No…” esalò solo, andando a ritirarsi nell’angolo più oscuro dello stanzino.

La figura grottesca, gigantesca, che si avvicinava, e annusava l’aria, ferina, predatoria.

Che raggiungeva la finestra e scrutava l’orizzonte, a cercare qualcosa, a cercare qualcuno.

Come tutte le volte, come un mostruoso vigilante.

Andò a cercare la cena che non aveva toccato e nel suo viso deforme, si formò, fra le tante, una ruga di rammarico e forse rimprovero.

“Mangia.” Disse solo, con quella voce baritonale, che sembrava arrivare da oscure profondità, dalle stesse profondità in cui, forse, si nascondeva l’unica persona il cui pensiero le permetteva di reggere il confronto con quell’essere raccapricciante.

“Più tardi…” riuscì ad articolare, la voce che le tremava più per lo sconcerto del disastroso gesto che stava per compiere, che per il terrore che scrutare quel viso ancora, inconsciamente, le suscitava.

Lo vide sospingere con le enormi mani il piatto verso di lei, mani ancora sporche di sangue, le mani di un assassino, ma capaci di gesti che tanto le ricordavano l’altro.

“Non ora, Bruce.” E nel pronunciare quel nome stavolta non c’era incertezza o tremore; focalizzò sui suoi occhi che ancora brillavano di quella scintilla umana e compassionevole. Che ancora, forse, l’amavano.

Lo sentì emettere un suono gutturale, d’approvazione, le grosse gambe che si piegavano e i sensi che tornavano improvvisamente vigili, come a percepire qualcosa di silenzioso a tutti i suoi sensi.

Lo vide spalancare la finestra e spiccare un salto, fuori, ad inseguir altri mostri, a proteggerla in quella gabbia dorata in cui era rinchiusa da settimane.

Raccolse le gambe e si cullò per qualche istante, il ruggito lontano a ricordarle che non era sola.

Fu allora che lo percepì. Quel pizzicore, quel fremito che si concretizzò in un calcio, secco, feroce di protesta, dritto contro il suo stomaco.

Si osservò il pancione come se lo vedesse per la prima volta.

Il bambino era vivo. Era vivo…

E nel realizzarlo cominciò a piangere.

 

___

 

Note:

E quando ormai si era persa la speranza, ecco chi salta fuori di nuovo. Niente da aggiungere se non che, dal prossimo capitolo, le squadre cominceranno ad assemblarsi lentamente. Chi e perché, lo scoprirete.

Piccola nota a parte: ho raggiunto il fatidico periodo di crisi da ispirazione. Tanto che ho quasi esaurito i capitoli da pubblicare in questa storia e non so esattamente come barcamenarmi. Mi piace sempre portarmi un bel po' avanti con la stesura, prima di pubblicare, ma stavolta il tempo mi è scivolato dalle mani. Quindi bè, se gli aggiornamenti diverranno bisettimanali improvvisamente, ecco, saprete perché. Sto anche cercando di scrivere un'altra cosa, molto più breve, che spero si esaurirà in tre capitoli (o qualcosa così), magari riesco a infilarcela per compensazione nelle settimane di buco, ma non garantisco niente... che periodo tristO. Chiedo perdono in anticipo.

Nota aggiuntiva: la citazione iniziale arriva direttamente da un libro: “La strada”, di McCarthy. Che non tratta di zombie, ma che è molto toccante e racconta, in uno scenario desolante, del capolinea dell'umanità. Ci hanno tratto persino un film che a me è piaciuto molto, soprattutto per l'interpretazione di Viggo Mortensen (sì, nutro una profonda stima per Viggo Mortensen).
Come sempre ringrazio la socia et beta Sere che ha recentemente pubblicato una bella fantiction tutta dal sapore Clintasha, proprio QUI. Leggetela. E poi tutti gli altri, perchè i vostri commenti mi fanno sempre tanto ma tanto piacere. Abbracci collettivi e ci sentiamo la prossima settimana!

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6

 

È questo il destino della razza umana. Socievolezza. Vuoi che ti dica che cosa ci insegna la sociologia a proposito della razza umana? Te lo dico in poche parole. Mostrami un uomo o una donna soli e io ti mostrerò un santo o una santa. Dammene due e quelli si innamoreranno. Dammene tre e quelli inventeranno quella cosa affascinante che chiamiamo «società».

(L’Ombra dello Scorpione – Stephen King)

 

*

 

Tennessee

 

 

“Uscire dall’altra parte sarà un po’ come venir fuori dall’utero materno.” Barney scrutava le profondità oscure della voragine, in mano una torcia che non riusciva ad illuminare che pochi metri oltre l’ingresso. Nessuna preoccupante novità all’orizzonte, a meno che le Ganasce non si nascondessero negli anfratti del tunnel, pronte a saltar fuori come un branco di simpatici mattacchioni la notte di Halloween.

Una volta gli era persino capitato di fare uno scherzo simile, durante gli anni di formazione nell’esercito. Uno di quelli che gli erano costati una punizione esemplare. Mai che però gli fosse venuto in mente di pentirsi della decisione: ogni tanto ci sono soddisfazioni che ben valgono il rischio.

Non era sicuro però che quello fosse uno di quei pericoli che valesse la pena correre. Tanto più che a lui, quella faccenda di correre, non era mai piaciuta. Certo, arrivare ad Atlanta, rivedere gente, scoprire che forse ci sarebbe stata la possibilità di una cura o di un qualsivoglia centro di accoglienza era una prospettiva allettante, rassicurante, ma d’altro canto era un uomo con i piedi ancora ben piantati per terra (per quanto potesse esserlo una persona che si è vista precipitare in un filmaccio di fantascienza con tanto di mostri morti, in meno di un mese) e poteva anche dirsi scettico di trovare un’oasi di pace e tranquillità.

Si godeva il momento. Questa era la nuova filosofia di vita di Bernard Charles Barton, adeguata allo scenario di morte in cui erano finiti. Vivere giorno per giorno. Programmare i piccoli traguardi, racimolare abbastanza per poter vivere fino a vedere la prossima alba, il prossimo tramonto. Le prospettive che si estinguevano in piccole porzioni di vita gli permettevano di restare razionale, lucido.

E poi c’era Clint. Clint che lo costringeva a perseverare, a mantenere bassa la sua indole esuberante. A pensare al collettivo. Inizialmente Clint e solo Clint.

E poi era arrivata Natasha.

Una ragazzina ambigua e affascinante. Uno di quei personaggi che probabilmente non ti piacerebbe incontrare in altre circostanze: criptica, silenziosa e dall’aria un po’ letale.

Come se non fosse chiaro che avevano a che fare con un essere uscito direttamente da un inferno di altra natura. Aveva intravisto i suoi tatuaggi, testato la sua abilità con le armi e subito la forza della sua furia.

Natasha non era esattamente rassicurante, ma molto probabilmente l’unica persona di cui, al momento, avessero veramente bisogno.

E l’unica persona a cui avrebbe affidato l’esistenza di suo fratello.

Quanto si erano accorciate le prospettive di vita, in quella terra dimenticata da Dio? Giorni? Probabilmente settimane, ottimisticamente mesi.

Si sarebbe assicurato di mettere in salvo Clint, prima di tutto, e poi avrebbe sperato per il meglio. Saperlo in compagnia di qualcuno di fidato appariva certo meno terrificante di pensarlo solo.

Lo aveva abbandonato una volta. Non avrebbe commesso l’errore di nuovo.

“Perché, tu ricordi quando sei uscito da un utero?” la domanda di Clint, sempre a frenare il suo entusiasmo da quattro soldi.

“No. Però so per certo cosa significhi entrarci”, gli rivolse un sorriso tutto denti, mentre Natasha, dalle retrovie, soffocava una risata.

“Non è una gran battuta.”

“E tu non sei più capace di ridere.”
“Mi chiedo cosa ci sia da ridere…”

“E’ una delle poche cose che ci resta. La risata. Togli quella, che cazzo vivi a fare?”

Clint gli lanciò uno sguardo ambiguo.

Già, bè, forse non c’era niente di divertente in quella specifica battuta, ma era necessario trovare il lato comico delle cose per evitare di farsi opprimere da tutto quel terrore.

Decise che forse sarebbe stato meglio lasciar perdere.

“Ho capito, dai, andiamo.” Spronò il gruppo, rimettendo in moto. Spense la radio e si prepararono all’oscura traversata.

*

 

Tony Stark lanciava a Happy sguardi di sincero compiacimento. Come aspettandosi una reazione, se non entusiastica, quantomeno appagata.

Happy scrutava l’oggetto che aveva fra le mani nemmeno fosse un meteorite silurato sulla terra da un pianeta sconosciuto. Nemmeno fosse il guscio di uovo da cui era sbucato quel bamboccio di Superman.

Era solo un guanto. O presunto tale. Un guantone di metallo. Un guantone che, Tony era certo, sarebbe piaciuto a Happy. Non era forse stato un pugile, una volta? Tanto tempo fa. La vita prima della vita vera. La vita prima di entrare nella sua, di vita, insomma.

“E… quindi?” fu tutto ciò che ebbe da dire, dopo interminabili attimi di profondissime riflessioni.

“Quindi che?” Stark stava perdendo la pazienza.

“Quindi che è?”

“Come che è?”

“Sì, che è un guantone di metallo… lo vedo, ma a che diavolo serve?”

“Serve a… te l’ho già detto a che serve! Non prestavi la dovuta attenzione.”

“La prestavo, ma parli troppo complicato, capo, lo sai che con me devi evitare di raccontare le tue storielle cibernetiche.”

“Non sono storielle cibernetiche, uso solo il linguaggio tecnico.”

“Tecnico, cibernetico, non lo capisco. Parole chiare, concise, terra terra.”

Tony stronfiò qualcosa di incomprensibile, magari un insulto e sospirò.

“Prova a pigiare il pulsante.”

“Quale dei tanti?”

“L’unico che trovi. E fa' attenzione, non è un giocattolo!”

“Non vedo pulsanti.”

“Quello sul dorso.”

“Questo coso luminoso?”

“Quel coso luminoso.”

Happy direzionò quella sottospecie di videogioco virtuale steampunk verso la fine della strada e pigiò il pulsante. Nell’aria riecheggiò solo un sonoro click.

“Non funziona.”

“Certo che funziona. Solo non come credi tu.”

“Ah sì? Hai inventato laser invisibili?”

“In un certo senso… è un dispositivo ad ultrasuoni.”

“Ultra… ?”

“Suoni.” Gli sfilò l’apparecchio di mano per infilarselo lui stesso. “Un potenziamento di un dissuasore ad ultrasuoni... la versione perfezionata di quello che usano per la derattizzazione.”

“Ci sono dei topi qui?!” Happy cominciò a guardarsi attorno in modo piuttosto comico. Buon vecchio Happy. Per i morti viventi non faceva una piega, ma con i topi...

Ricordava ancora chiaramente quella volta che se ne erano trovati uno nella cucina di casa. Happy era intento a costruire una piramide di sandwich al formaggio, mentre Jarvis (che Dio l’avesse in gloria) avvertiva quello squittio così inconfondibile.

Tony li aveva trovati così: maggiordomo a rincorrere quel minuscolo mammifero munito di coda e Happy rattrappito su una sedia a strillar come Farinelli dopo la castrazione.

Meno male che alle guardie del corpo non veniva richiesto di deviare proiettili al topo. Tony aveva dato la colpa al formaggio. Happy aveva smesso di mangiare latticini.

“Non lo so, potrebbe darsi. Ma non è questo il punto, amico mio. Il punto è che questo è un dispositivo anti DM.”

“DM?”
“DM. Sì. Denti Marci.”

“Denti… ?”

“Marci. Sì. Cos’è? C’è l’eco qui? Denti Marci.”

“Gli zombie?” indagò Happy, con aria chiarificatrice.

“Non chiamarli così.”

“Ma è quello che sono!”

“No. Gli zombie stanno nei film horror, o tutt’al più in voga nel voodoo. Questi non sono zombie sono… Denti Marci.”

“Denti marci.”

“Esatto. Ora…” Tony assunse un’aria professionale. “Dicevamo?”

“I topi…”

“Giusto, i topi! No! Gli ultrasuoni. Gli ultrasuoni fanno da deterrente ai DM.”

“Da quando?”

“Da sempre. Ovvero da due mesi a questa parte.”

“E come lo sai?”

“Non lo so. Lo ipotizzo.”

“Lo ipotizzi.”

“Non credevo ti fossi trasformato in un pappagallo, Happy.”

Tony cominciava a registrare un leggero principio di mal di testa. Era da settimane che non soffriva di mal di testa: e chi aveva il tempo di sentirsi male? Chi aveva le energie per rassegnarsi al degrado fisico? Si massaggiò gli occhi e riprese.

“Per arrivare agli ultrasuoni si deve raggiungere una frequenza superiore ai 20000 hertz. Ci sono ancora in atto controversie scientifiche che provano l’efficacia di simili dispositivi sugli animali: insetti, uccelli… ratti. Dunque mi sono chiesto se, con qualche modifica del modello originario si potessero raggiungere dei risultati anche su… un DM.”

“Modello originario? Dunque esistono in commercio dispositivi del genere?”

“Esistono. Ma il mio è un pezzo unico, brevettato specificatamente. E poi la forma è superba.”

“E’ un guantone di metallo.”

“Non lo trovi originale e pratico?”

“Ahm… e… che hai intenzione di farne?”

“Secondo te?”

“Deterrere… deterreggere… de…”

“Allontanare i DM.”

“Oh, dici che è possibile?”

“Una volta ha funzionato. Più o meno. Diciamo che non lo so, dovremmo fare un test.” E nel dirlo direzionò il dispositivo direttamente su Happy che lo guardò terrorizzato per qualche istante, nemmeno fosse un fucile caricato ad acido muriatico, “Sentito niente?”

“N-no! Forse non funziona.”

“Funziona benissimo, ma tu non sei un DM. Appurato ciò…” Tony si guardò attorno, “dovremmo trovarne uno.”

Happy sembrò seguire la direzione del suo sguardo: nell’arco di centinaia di metri, niente altro che strade deserte, boschi e vallate a non finire. Nemmeno l’ombra di un DM.

“E’ proprio vero che quando cerchi qualcosa…”

Tony abbassò l’arma.

“Ragazzi? Che cosa facciamo ancora fermi?” Pepper era sbucata dal finestrino posteriore dell’auto, l’aria stanca, il viso pallido, ma in netto miglioramento.

“Parlavamo di DM.” Rispose Happy con aria consapevole.

“DM? Ma non erano OS?” protestò la donna, un cipiglio contrito a deformarle il bel viso.

“OS?” interrogò Happy, ora guardando Tony con aria perplessa e vagamente delusa.

“Occhi sporgenti.” Suggerì Pepper dalle retrovie, guadagnandosi un sospirone drammatico dall’uomo.

“Una rosa, con un altro nome… puzzerebbe lo stesso di morto.” Sentenziò Tony definitivo, prima di decidersi a rimontare in macchina.

 

*

 

Il pick-up sbandò in modo preoccupante quando le ruote urtarono uno dei binari.

“Merda… mi sento in una cazzo di centrifuga.”

Una cazzo di.

Tipico di Barney e del suo parlar forbito.

“Smettila di lamentarti, farà bene al tuo culone.” Lo redarguì Clint.
“Non ho un culone.”

“Ah, questo lo dici tu. Hai smesso di avere le chiappe sode da quando sei tornato a Waverly.”

“E’ meglio che non dico che cosa ha smesso di essere sodo in te, fratellino, da quando sei tornato a Waverly.”

Clint trattene male una risata. Non era vero che non sapeva più ridere. Solo cercava di evitarlo. Perché aveva compreso quanto le distrazioni potessero essere definitive. E stare in allerta non favoriva certo l’umorismo.

“Non sono sicuro dovresti ridere, Clint.”

“Non sto ridendo.”

“Stai ridendo. La tua voce dice che stai ridendo dentro. Non sta ridendo Natasha?” si rivolse alla ragazza che, per quanto era silenziosa, si sarebbe potuta dire assente dal veicolo traballante e incerto su cui viaggiavano. Il rombo del motore scandiva inquietante i metri macinati attraverso il tunnel e lei si mosse dal sedile posteriore per raggiungerli.

Il viso incuneato fra i due sedili anteriori.

“Mi sembra che abbia la stessa faccia granitica di sempre.” Commentò, definitiva e lapidaria.

Ma in quella sentenza, per la prima volta, Clint ci lesse dell’ironia. Forse, dopo quasi un mese di frequentazione, aveva cominciato a comprendere le dinamiche del gruppo.

“Non cominciare a dargli corda…”

“La bambina sa il fatto suo.”

“Non sono una bambina.”

Una sbandata su quell’ultima sentenza li riportò tutti al silenzio. C’erano momenti che non richiedevano niente altro che quello.

I fari del pick-up illuminavano mano a mano la grotta, la cui fine ancora non si vedeva.

C’erano dei graffiti, sulle pareti. Cose che, ormai, appartenevano a un’altra vita. Un po’ come scoperte di reperti archeologici di un’altra era. Quella delle bombolette spray. Bombolette spray che a nessuno sarebbe più venuto in mente di usare, se non per qualche scopo pratico, di rapido utilizzo.

Ci pensava ogni tanto: gli capitava di incastrarsi in pensieri che riguardavano il passato.

Una specie di malinconia che difficilmente sarebbe riuscito a estinguere. Malinconia per tutto ciò che aveva perso: quelle cose che non sono necessarie alla sopravvivenza, ma che durante un’intera esistenza, aiutano a creare ricordi. Bei ricordi.

Non ci sarebbero state più vacanze estive. Non quelle di Natale. Non ci sarebbero stati più film blockbuster al cinema, non un nuovo disco in uscita dei Rolling Stones. Non l’annuario della scuola. Non un ballo di fine anno. Una partita degli Iowa Hawkeyes. Non i talk show del sabato sera. Non i concerti al palazzetto dello sport.

Forse, in un futuro. Un futuro tanto lontano dalla sua immaginazione, per adesso. Un futuro di cui, sicuramente, non avrebbe fatto parte.

Il pick-up sbandò di nuovo.

“Fa' attenzione.” Suggerì a Barney, che stronfiò qualcosa di poco chiaro.

“Non ci vedo abbastanza.”

“Hai mai pensato che potresti aver bisogno di un paio di occhiali? Cominci a diventar vecchio.”

“Parla per te.”

“Io ho undici decimi. Precisi.”

“Sbruffone.”

“Ragazzi…” la voce di Natasha, improvvisamente tesa, dura.

Lo sguardo andò a dirigersi proprio sulla fine visibile del tunnel. Niente graffiti, solo sagome. Sagome… in movimento.

“Merda.” Barney aveva rallentato e poi fermato il furgoncino, senza spegnere il motore.

“Quanti sono?”

“Dimmelo tu, Undici Decimi.”

Clint focalizzò. A giudicare da ciò che stava emergendo dalle nebbie dell’oscurità avrebbero potuto essere almeno una decina.

Ma poi arrivò il rumore. Quel rumore che preannunciava le ganasce in movimento. L’eco a moltiplicare la sinfonia a percussione.

“Forse una decina… forse di più.”

Barney serrò la presa al volante.

“Una decina gestibili… il forse di più diventa un tantino preoccupante, Clint.”

Natasha, alle loro spalle, aveva già caricato l’arma e passato arco e frecce a Clint.

“Aspettiamo. Se sono più di dieci… metti la retromarcia e usciamo da qui.”

La prospettiva di atterrare una decina di quei mostri non era certo allettante. Ma non avevano certo fatto tutta quella strada per poi essere costretti a una disastrosa ritirata. C'era adesso una flebile luce alla fine del tunnel: quanto poteva mancare?

Assottigliò lo sguardo. Undici. Erano già undici le sagome che riusciva a individuare.

Dodici. Tredici.

Tredici.

Tredici.

Attese.

Tredici.

Definitivo.

“Barney…” lo preparò, mettendolo in allerta, “Parti a tavoletta.”

Il rombo del motore fu così violento che disintegrò come cristallo lo schiocco delle ganasce.

 

*

 

Virginia

 

Non si era fatto domande quando gli avevano gridato di salire a bordo.

Non se ne era fatte quando i motori delle Harley, che inizialmente erano un concerto di almeno cinque strumenti, si era assottigliato a due soli.

Né quando il centauro biondo, massiccio come un carro armato, aveva spento la moto, l’aveva scagliata di lato in mezzo a un gruppo di cespugli ed era scoppiato in lacrime, senza vergogna –  se per lo sfregio alla cromatura o la perdita dell’intera squadra, quello non seppe dirlo. Non subito almeno.

Bè, forse il fatto che si fosse emozionato a veder trascinare a terra, uno dopo l’altro tutti i giganti che lo avevano accompagnato fino a quel momento, non era esattamente uno di quegli spettacoli che ti innescano il buon umore.

Domande su come evitare che i suoi singhiozzi divenissero facile richiamo per altri mostri schioccanti, gli risalirono su per il cervello con una certa insistenza. Ma optò per la diplomatica opzione di lasciare Thor nel suo brodo a smaltire l’amarezza, beandosi, di contro, che il triste fato dei suoi compagni non fosse toccato a lui.

Solo un altro membro del gruppo era riuscito a trascinarsi fuori da quell’imprevisto attacco (imprevisto per loro, branco di ottusi sordi, lui aveva sentito arrivare quei mostri molto prima che potessero anche solo rendersi conto che non stavano partecipando a un rave party campagnolo). L’unica donna. La valchiria acida che non aveva fatto altro che scoccargli occhiate di fuoco dal momento in cui lo avevano accolto nel gruppo. Non aveva nascosto a nessuno il fatto che lo reputasse un peso, inutile e gracilino com'era. Un peso che li avrebbe rallentati, che li avrebbe condotti esattamente a quel punto.

E anche adesso, che la giunonica Sif cercava di raccattare i fragili pezzi dell’immenso, piagnucolosoThor – stringendolo in uno di quegli abbracci che tutto sembravano fuorché meramente consolatori – non si risparmiava di rivolgergli sguardi accusatori e feroci.

Loki pensò bene che restare in disparte sarebbe stata la soluzione più appropriata per evitare qualsiasi tipo di grana. Finché avrebbe fatto parte di quel gruppo, tanto valeva sfruttare la loro protezione.

 

Fu solo tardi, quel pomeriggio, che lo scontro non poté essere rimandato, non più evitato.

Thor, vinto dalla spossatezza di quell’inconsolabile pianto, aveva deciso di scacciare il pensiero fisso del lutto collettivo, andando a cercare di mettere insieme qualcosa per cibarsi: le provviste faticosamente guadagnate, si erano sparpagliate per strada o in balia di cannibali morti, insensibili al fascino del bacon.

Sif, che solo un attimo prima sembrava del tutto presa a fare un inventario delle cose rimaste, lo aveva avvicinato a tradimento, nei pressi di quella misera pozza d’acqua a cui era andato ad abbeverarsi e a tergere le vesciche ai piedi che – ad occhio e croce – ci avrebbero messo almeno una settimana a guarire.

Stava valutando se raccontare che in fondo, in mezzo alla vegetazione, aveva intravisto quella che sembrava una casa, nel bosco (un dettaglio da film horror che faceva un po’ troppo cliché anche per  i suoi gusti), quando avvertì una presenza incombere su di lui, senza nessuna avvisaglia.

“Come facevi a sapere che stavano arrivando?” la voce di quella donna, decisa, accusatoria, lo fece trasalire.

Ma non si voltò, se non all’ultimo minuto, ritrovandosi a scontrarsi con la muscolatura massiccia delle sue cosce, fasciate da un paio di stretti jeans stinti, strappati al ginocchio.

Si prese del tempo per rielaborare una risposta.

“Li ho sentiti.” Rispose, del tutto determinato a rivolgere tutta la sua più vivida attenzione a quella particolare parte anatomica pur di evitare un confronto diretto che, in quel preciso momento, si sentiva più che giustificato ad eludere. La donna sembrava sul piede di guerra e Loki non era incline alla violenza. Non a subirne, più che altro.

“Come è possibile che non ci siamo accorti di niente?” di nuovo una domanda che assomigliava più a un’accusa.

“Magari… non vi foste distratti a cucinare bacon e uova fritte a colazione…” si rese conto di aver azzardato, regalato una scintilla a quella miccia, nel momento in cui il ginocchio sparì dalla sua visuale privilegiata. Un paio di mani, callose, forti, lo strattonarono per la collottola della divisa sgualcita. Il rumore dello strappo a sottolineare drammaticamente il momento: erano gli unici vestiti che possedeva.

Si trovò a specchiarsi negli occhi chiari di quella femmina vendicativa. Occhi che lo puntavano accusatori, carichi di odio e ribrezzo, ma che brillavano ora di lacrime che, era sicuro, non avrebbe pianto.

“Non fosse stato per te, per la tua inutile carcassa… non ci saremmo mai fermati in quella stupida radura.”

Superato il momento di sconcerto, Loki le restituì lo sguardo affilato, affatto disposto a darle un pretesto per usarlo come capro espiatorio a quella sua patetica causa.

“Non fosse stato per me, tu e il tuo fidanzato sareste crepati, esattamente come tutti gli altri.” Le sibilò a un centimetro dal viso, il suo alito caldo a solleticarle la pelle.

Vide gli occhi di lei dilatarsi, fino a diventare bianchi, enormi.

“Tu sei sporco. Sporco dentro…” la sentì rispondere, le mani che tremavano, lo sguardo terribile. A leggere qualcosa che lo stesso Loki non riusciva a identificare. Uno sguardo che arrivava in profondità. A sviscerare l’essenza di quella sua natura perversa che non era ancora preparato ad accogliere.

Li aveva salvati. Li aveva avvisati. Non fosse stato per lui… non fosse stato per lui sarebbero morti proprio tutti quanti. Non c’era perversione in quello, era stata una mossa d’altruismo bella e buona, una mossa d’altruismo dettata da quel dono che…

Dono. La parola gli si era formata nella testa, prima ancora che il suo significato fosse apparso in modo consapevole.

Era un dono, quello di averli sentiti arrivare.

Il formicolio alla nuca, quella pressione alle tempie. Il rimbombo sordo di quel concerto di schiocchi. Qualcosa nel suo cervello reagiva a quei mostri. Non era forse in quel modo che era riuscito a evitarli durante la fuga attraverso il carcere? La capacità di focalizzare sulle loro mosse con una chiarezza disarmante. Al modo in cui aveva capito, immediatamente, quale era la chiave che gli avrebbe restituito la libertà, come se uccidendo la guardia avesse assorbito anche la sua coscienza. O quello che ne era rimasto. Allo stesso modo con cui aveva fatto con tutti gli altri. E più massacrava teste, e più questo istinto, questa consapevolezza, si faceva nitida. La loro presenza diventava parte integrante del suo essere, così come gli schiocchi, così come…

Stronzate.

Non aveva mai creduto a queste stronzate paranormali.
Era però anche vero che non avrebbe mai creduto di potersi trovare ad affrontare quella sottospecie di abominio umano. Gli unici demoni in cui aveva sempre creduto erano quelli sopiti, sussurranti, nelle viscere della sua coscienza.

E adesso era qui a domandarsi se Sif non avesse ragione, se quel suo essere sporco dentro significasse anche essere investito di un dono che lo faceva empatizzare con quei cosi morti.

Perché in fondo, un po’ morto dentro, ci si sentiva anche lui. Da così tanto tempo che… uccidere una persona, un giorno di qualche mese prima, non gli era sembrato poi il peggiore dei peccati.

Si sentì strattonare di nuovo e solo allora tornò a focalizzare sul presente, sulla donna che lo teneva stretto nella sua morsa, sul suo alito caldo, il suo sguardo di disprezzo… e quel pugno che vibrava a un centimetro dal suo viso.

Si preparò al colpo, sperando che non gli facesse troppo male. O che quantomeno minasse alle sue parti molli.

“Che sta succedendo?”

La provvidenza agisce sempre nei modi più inattesi.

Il gigante biondo di ritorno: “Sif… che stai facendo?”

La presa venne meno e Loki fu libero. Libero di distogliere lo sguardo dall’ennesimo abbraccio disperato. Libero di tornare a valutare o meno se raccontare di quella casa… nel bosco.

“Il sole sta tramontando. Dovremmo trovare un posto per dormire…” sentì mormorare al gigante, quando si fu estinto l’ennesimo slancio da tragedia.

La soluzione al suo tormento valutativo gliel’aveva data lui.

“C’è una casa… laggiù.” Disse Loki.

“Una casa?”

“No… una chiesa.”

La croce. Come aveva fatto a non notare… la croce?

La salvezza arrivava proprio dall’alto, stavolta.

 

*

 

Tennessee

 

Avrebbero dovuto saperlo fin dall’inizio che una situazione del genere li avrebbe condotti direttamente attraverso la bocca dell’inferno, eppure non avevano tentennato un solo istante.

I contro della situazione, disintegrati, uno dopo l’altro, da quell’aura da filo del rasoio di cui i Barton sembravano essere circondati.

La stessa identica aura spericolata che l’aveva sempre caratterizzata, dal giorno in cui era cominciato il suo primario addestramento, nella fratellanza.

Uccidere zombie sembrava essere diventato un passatempo. Un po’ come in quei videogiochi in cui l’unico scopo è quello di concludere una missione e portare a casa punti. Senza venire ucciso, possibilmente.

Clint ne aveva contati tredici. E quei tredici si erano schiantati sul cofano del pick-up, fragili e polposi come una manciata di moscerini particolarmente grossi.

Ma mentre Barney spingeva sull’acceleratore e con il tergicristallo lavava via tutta quella merda di denti, cervella e budella, lasciando strisciate nauseabonde sul parabrezza, ne erano comparsi altri.

E stavolta nessuno ebbe tempo o cuore di contarli. Erano troppi e contarli avrebbe voluto dire perdere secondi preziosi per mettere da parte un po’ di quell'istinto di sopravvivenza di cui avevano decisamente bisogno.

Clint, arrampicato sul tetto della macchina, si occupava di quelli a distanza che solo lui riusciva a vedere. Dotato di una mira straordinaria, certo, ma anche di una vista che aveva un che di miracoloso. Sullo sfondo si poteva intravedere la fine del tunnel. Mai era sembrata loro così distante.

Natasha si era sbarazzata facilmente di quelle… Ganasce che avevano azzardato mosse troppo ravvicinate, e Barney – a chiudere il cerchio più vicino – scagliava fendenti feroci e letali a chiunque si estendesse nel raggio di un metro.

Una squadra piuttosto organizzata, doveva proprio ammetterlo. Una familiarità che, in altri contesti, in altri momenti, le sarebbe sembrata del tutto fuori di testa.

“Ce ne sono altri là dietro!” sentì gridare Clint, da sopra la macchina, mentre lei atterrava almeno un paio dei morti rimasti in vista dopo lo scontro frontale con il loro veicolo.

Barney gorgogliò qualcosa in risposta, una frase che decretò improvvisamente la sua imminente sconfitta. Natasha lo vide cadere a terra, sopraffatto da un numero imprecisato di braccia e gambe che si dimenavano senza criterio.

“BARNEY!” aveva gridato Clint, lacerando l’aria, mentre Natasha saltava giù dal retro del pick-up per accorrere al disastro. Un paio di colpi andarono a segno con la pistola. Un altro paio con calci ben assestati alla base della nuca, della fronte. La furia di un paio di gambe tanto efficaci con i vivi quanto con i morti.

Si sentì sibilare accanto il fischio di un dardo che finì per atterrare uno dei mostri che le si stavano scagliando addosso. E poi un altro. E poi Barney emergeva da quel nugolo di corpi marcescenti, boccheggiando come alla ricerca di aria, congestionato dopo la dura lotta per la sopravvivenza.

Si avventò contro quello che ancora masticava un brandello della sua camicia a quadri, che agitava le ganasce, facendo schioccare quel nauseabondo clack, clack, clack. Gli afferrò la testa molle fra le mani. Un colpo secco, definitivo a rigirargli il collo come fosse fatto di burro. Crollò a terra per scendergli con tutto il peso sulla testa, a veder grumi di cervella sparpagliarsi un po’ dappertutto.

Allungò una mano e aiutò Barney a rimettersi in piedi.

“Ti hanno morso?”

“No, non credo, forse ne ho morso uno io…”

Lo sguardo di gratitudine non durò che un secondo. Gli schiocchi. Quella miriade di schiocchi, assordanti più del sibilo delle frecce infinite di Clint Barton.

Uno stupido tunnel.

Una fine, se non altro, appropriata. Una conclusione da stereotipo. La luce alla fine del tunnel a decretare la morte imminente.

Una liberazione.

Certo avrebbe preferito poterselo scegliere, come morire. E quello era l’unico scenario che non aveva mai ipotizzato.
Clint era sceso dal pick-up, a dar manforte al duo.

Schiena contro schiena, in una triade assassina. Non sarebbero durati molto a lungo.

Era stato bello… finché era durato.

Forse persino meglio di quanto non fosse mai stato appartenere al gruppo di Ivan.

Non c’erano mai state pressioni, mai pretese. I compiti non erano obbligatori, la finzione neppure.

Si era sentita parte di una famiglia. Una di quelle vere. Una di quelle che non scegli, ma con le quali ti senti al sicuro.

E anche lì, in mezzo a quell’apocalisse di corpi senz’anima, anche lì, nel flebile confine che separa la vita dalla morte, fra il rumore degli schiocchi e degli spari e del disgustoso rimestio di membra sgocciolanti, si sentiva, in qualche modo… al sicuro.

 

Era talmente concentrata che quando vide cessar improvvisamente gli assalti, dovette farsi violenza per smetterla di sparar cartucce dalla pistola ormai incandescente.

“C-che sta succedendo?”

Le ganasce sembravano improvvisamente disorientate. I loro sguardo vacui, spaventosi, a cercar qualcosa nell’aria, qualcosa di invisibile e silenzioso.

Le mani non si protendevano più nella loro direzione. Le mascelle avevano ricevuto la loro sacrosanta tregua. Alcuni presero a barcollare. Altri ad allontanarsi, a lasciar loro spazio a restituire ai vivi il respiro.

Lentamente, cominciarono a dissiparsi come uno stormo di uccelli allo sparo del cacciatore. Un nugolo di corpi, costretti alla retrocessione forzata. Alla (non era sicura di voler azzardare la parola) fuga.

“Se ne vanno…” Barney, forse più incredulo di lei. La camicia lacerata sul petto, una manica a penzolar inerte al suo fianco, come il costume assurdo di quei Tarzan dei film anni cinquanta.

Natasha abbassò l’arma, confusa e intontita per l’improvviso calo di adrenalina, e si trovò a fissare lo stormo di Ganasce che si davano alla macchia, lasciandosi inghiottire di nuovo dall’oscurità del tunnel da cui erano partiti.

Solo Clint era rimasto fermo. La schiena rigida, il dardo puntato in una qualche direzione, verso la luce.

“Rimanete dietro di me.” Un ordine, perentorio e duro.

Natasha seguì la direzione del suo sguardo, della punta della sua freccia. E dopo essersi abituata alla luce aveva visto.

Due sagome, che avanzano verso di loro. Due sagome che procedevano lentamente, senza tentennamenti. E sembravano tenerli sotto tiro con qualcosa. Un’arma.

Ma un’arma… non avrebbe dovuto essere roba da vivi?

 

___

 

Note:

Eccoci a dover fare i conti con un altro gruppone di schifosissimi zombie, e ahimè, le prime vittime dell’Apocalisse. Loki raggiunge la consapevolezza di avere qualcosa in più degli altri (e scopriremo in che modo poi deciderà di sfruttare la cosa), Natasha apprende quel senso di appartenenza che la lega al gruppo dei Barton, mentre Stark comincia a ingegnarsi per contrastare la follia. Il fatto che usi gli ultrasuoni è una trovata del tutto mia. Io non ne conosco di zombie per chieder loro se è vero che il loro cervello reagisce male agli ultrasuoni, ma ho pensato che potesse essere interessante paragonare l’istinto che li spinge a quello degli animali.

Il blocco ancora non si è estinto del tutto, temo. Sono stata obbligata a scrivere roba per un lavoro e la cosa mi ha un po’ sbloccato il neurone. Spero si estenda anche alle fan fictions. Ringrazio al solito la mia socia e beta Sere, e chiunque mi abbia seguito fin qui, con una nota affettuosa a chi ha espresso la sua solidarietà per il periodo stitico. Alla prossima!

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

 

"Affido questo manoscritto allo spazio, non con la speranza di ottenere soccorso, ma per contribuire, forse, a scongiurare lo spaventoso flagello che minaccia la razza umana. Dio abbia pietà di noi!"

(Il Pianeta delle Scimmie – Pierre Boulle)

 

*

 

Virginia

 

Singolare come le atmosfere sacre non perdono di mordente, nemmeno dopo l’avvento di uno scenario nettamente in contrasto con una qualsivoglia certezza divina.

La piccola chiesa di campagna, in cui Loki e compagnia norrena si erano imbattuti, non aveva niente di strano. Come se l’edificio non fosse stato toccato dal cancro che aveva corroso il mondo o, nella fattispecie, gli Stati Uniti. Perché, per quanto ne sapeva, magari l’intera epidemia era stata circoscritta al loro continente, mentre l’Europa, pacifica e serena, si godeva il definitivo sfacelo di una delle più grandi potenze del mondo.

Un pensiero nemmeno troppo al di fuori della realtà, di certo non così fantascientifico.

Loki aveva passato una mano sulle lunghe panche di legno lucido, coperte di polvere e vittime dei tarli. Tutt’intorno la luce filtrava dalle finestre decorate a immagini religiose, mentre le statue di angeli e santi, dagli occhi ciechi, proiettavano le loro ombre sul pavimento e le pareti circostanti.

Thor vagava nel dedalo di panche a cercar mostri nascosti. Sif, teneva d’occhio il compagno e, di tanto in tanto, persino lui.

Se non aveva ancora accettato il fatto che non li stesse accompagnando per fregarli, erano di certo solo problemi suoi. Una sola cosa aveva compreso: doveva tenere gli occhi aperti.

Sapeva il demonio che cosa sarebbe stata capace di fare se solo si fosse sentita minacciata nuovamente da lui.

Si soffermò a fissare un dipinto di una Madonna in ascensione. Angeli e cherubini ad accompagnare il viaggio verso la luce. L’espressione estatica della madre di Dio che si elevava al cielo. Sotto di lei, uno stuolo di candele consumate. Alcune delle quali spente di recente? L’odore della cera calda e di bruciato. Non ci voleva certo un genio per capire che c’era qualcosa di decisamente sbagliato nell’insieme.

Una sensazione sgradevole a consumargli lo stomaco, (e no, non per il peso della colpa e il giudizio che avrebbe dovuto sentirsi gravar addosso nella casa del Signore, per quel suo insano, dissacrante gesto. Anzi, a dire il vero, provava un certo sollievo nel non aver sentito quella pudica necessità di abbassare lo sguardo e piegarsi ai suoi peccati) ma nessun formicolio, nessuna pressione alle tempie, solo un presentimento, solo un’intuizione.

“Non siamo soli qui.” Disse solo, la sua voce a disperdersi in un’eco fra le pareti spoglie, troppo alte.

“Non ti facevo un tipo religioso…” Thor in avvicinamento, un mesto sorriso a rischiarargli il viso tirato.

Loki gli lanciò uno sguardo perplesso, finché non comprese l’allusione. E per la prima volta provò un po’ di compassione o forse pietà per l’anima semplice del gigante biondo.

“No, parlavo di qualcosa di molto più terreno”, e nel dirlo indicò il candelabro e la condizione di un paio di candele. “Qualcuno è stato qui.”

Forse lo era ancora. Forse era lì da ancora prima che arrivassero, nascosto da qualche parte.

“Stronzate.” La voce di Sif, alle loro spalle.

“No, ha ragione, la cera è ammorbidita…”

Loki alzò lo sguardo nello stesso momento in cui intravide il luccichio della canna di un fucile. Il click del caricatore. Qualcuno li teneva sotto mira.

Bingo.

“Mani in alto!”

Aveva inteso bene? Mani… in alto? Nemmeno nei film lo dicevano più. E quando si trovò a spiare chi aveva pronunciato quell’arcaico avvertimento, non si stupì di trovare un uomo di una certa età: spettinato, tremante, decisamente poco incline alla conversazione, le narici dilatate come un toro, in procinto di attaccare. Si sentì, suo malgrado, molto più che padrone della situazione. Forse essersi trovato nella medesima circostanza per ben due volte, nel giro di un paio di giorni, lo aveva già reso insensibile all’avvenimento. Canne di fucile. Ormai roba da ridere.

Forse sarebbe servita un po' di diplomazia.

“Veniamo in pace.” Eccolo quell'altro, Thor, a dare prova delle sue acute capacità oratorie. Direttamente da un qualche altro film che sarebbe andato a braccetto col poliziesco da cui aveva tratto ispirazione lo zio tremebondo col fucile.

“C-chi siete?”

Loki fece per aprire bocca, onde evitare qualsivoglia fraintendimento. Una parola sbagliata, di troppo e quel dito avrebbe potuto premere il grilletto, in barba ai pronostici che li davano spacciati a causa dei mostri schioccanti.

“Thor, Sif e Loki.” Pronunciò il gigante biondo, prima che potesse prevenirlo.

L’uomo con il fucile sgranò gli occhi, un po’ interdetto.

“Mi stai prendendo per il culo, figliolo?”

… appunto.

“N-no… che motivo avrei?”

“Non lo so. Il f-fatto che vi chiamate come i personaggi di storielle nord europee?”

Storielle. Si trattava di mitologia. Le storielle erano quelle dei fratelli Grimm, non certo le gesta epiche di dei norreni.

“Oh. Sì, sono… sono soprannomi, sa… siamo… s-siamo motociclisti.”

Motociclisti: come se fosse sufficiente a giustificare l’utilizzo di soprannomi tanto singolari. O ancora peggio, come bastasse a ispirare fiducia. Non era del tutto sicuro che dichiararsi motociclisti li facesse prendere sul serio. Una volta, da ragazzino, aveva visto Easy Rider e la storia lo aveva turbato.

“Ah, motociclisti…” il volto dell’uomo si rischiarò appena di una luce consapevole e forse amichevole; di certo meno cerea a terrorizzata. Forse avrebbe dovuto rivedere il suo concetto di fiducia, “d-da giovane avevo una Ducati. Ma sono passati così tanti anni.” Lo zio sprint aveva fatto la sua sorprendente dichiarazione.

“Davvero? E’ stata la mia prima moto, prima di scoprire le Harley!” e Thor dietro a dargli corda.

La conversazione cominciava a diventare un tantino surreale.

“Scusate… ?” Loki avanzò un passo, con cautela. Non avvertiva più alcuna minaccia, ma trovò stupido e inutile istigare l'altrui paura. “Non potremmo continuare questa gradevole discussione, senza puntarci in faccia quel cannone?”

L’ometto sembrò ricordarsi improvvisamente di essere armato e abbassò il fucile, di poco, ancora non del tutto persuaso della situazione. Doveva però aver intuito l’ingenuità e affabilità del gigante biondo. Non era del tutto certo del perché, ma era la stessa identica sensazione che aveva suscitato in lui. Certo, se non lo avessero preso per zombie…
“Ci siamo fermati per avere un riparo. Per la notte.” Lo anticipò Loki, per dissipare ogni possibile dubbio, “Abbiamo perso i nostri compagni, questa mattina. A qualche miglio da qui…” temporeggiò, dando voce alla sua capacità (o al tentativo) di suscitare compassione. “Non abbiamo con noi che un paio di moto e niente altro… i nostri averi si sono sparpagliati lungo tutta la statale, dopo la fuga.” Lo guardò dritto negli occhi, “Abbiamo solo bisogno di dormire, domattina ce ne andremo di nuovo.”

“A qualche miglio, avete detto?”

Loki intuì un barlume di comprensione nel suo sguardo.

“Precisamente…” continuò su quei toni pacati.
“A-allora probabilmente si tratta delle stesse persone che abbiamo trovato, mentre tornavamo indietro un’ora fa… vero Jane?”

Dal vestibolo, comparve una ragazza. Titubante, gracile. I suoi occhi vispi si posarono rapidamente sul trio, prima di degnarsi di fare un cenno d’assenso.

“Sì… riconosco… riconosco la giacca. Avevano due uccelli, forse due corvi… stampati sulla schiena.”

“Sono loro…” confermò Loki, modulando la sua voce affranta che non fece che guadagnarsi l’ennesima occhiataccia di Sif.

Solo dopo qualche secondo di valutazione, l’uomo si decise finalmente a disarmare il fucile e abbassarlo definitivamente.

“Sono… il professor Erik Selvig e questa è mia nipote… Jane Foster.” Si presentò, in quel rituale che sembrava ancora in voga. Come a riconoscere la natura ancora diplomatica dell’essere umano.

“Siamo arrivati in questo posto solo un paio di giorni fa… e un t-tetto sulla testa, e del cibo in scatola è tutto ciò che possiamo offrire.”

“Non chiediamo niente di meglio…” confermò Loki, mentre le occhiate che il gigante biondo e la giovane Foster si scambiarono non passarono affatto inosservate. Nemmeno alla giunonica Sif.

Che, per una volta tanto, sembrò non prestare attenzione al tono che aveva usato per imbonirsi il neo-trovato pubblico.

 

*

 

Georgia

 

“Ganasce? E di chi è stata l’idea di chiamarli così?” Tony Stark, aveva detto di chiamarsi. Conosceva un Anthony Stark, in effetti. Qualche notiziario alla televisione ne aveva riportato le imprese. Dell’ormai fu giovane, esuberante milionario che portava avanti una delle più ricche e fruttuose industrie belliche degli Stati Uniti. Niente che avesse mai voluto approfondire.

Era arrivato nel tunnel con la sua innovativa arma repellente e li aveva tirati fuori dai guai proprio quando ogni speranza sembrava essere miseramente evaporata. Lui e quel suo assistente impacciato che non aveva smesso di puntar loro contro la pistola, nemmeno quando si erano decisi a rinfoderare arco e frecce.

Un trio singolare. La donna che li accompagnava non sembrava essere molto in forma. Ma non era altro che una pessima bronchite, diceva Stark. Niente che un po’ di riposo e tranquillità non sarebbero stati in grado di curare.

Già, pace e tranquillità: un paio di condizioni di non facile reperibilità di quei tempi.

Si stavano dirigendo ad Atlanta, gli avevano confessato.

Ehi, ma guarda un po’, anche noi! Aveva dichiarato Barney. E la squadra si era assemblata, il tempo di decidere come sistemarsi per la notte.

Avevano del cibo: salatini e snack. Che era decisamente più o meno la stessa merce che avevano racimolato al mini market alla stazione di servizio.

Tutto il necessario per un pigiama party, in linea di massima. Più le birre.

“L’idea è stata mia, ovviamente…” Barney non aveva certo tardato a mostrarsi molto più che compatibile con l’ironia da due soldi del milionario, “anche se devo dire che DM ha quel tocco di classe a cui non avevo proprio pensato.”

“Io ero convinta che avessi deciso per OS.” La donna bionda era stesa sul sedile posteriore della Acura, la portiera aperta a darle un po’ d’aria fresca, intabarrata comunque in una calda coperta di lana.

“OS?” domandò Barney, sgranocchiando un salatino.

“Occhi sporgenti.” Spiegò lei, con voce flebile, ancora indebolita dalla febbre.

“Era un acronimo in fase sperimentale. DM mi sembra più d’impatto.” Spiegò Stark ravvivando un po’ la luce della torcia alimentata a dinamo.

“Sì, lo credo anche io.”

Clint aveva appena posato a terra il suo panino. Le macchie bianche di muffa sulla mollica gli suggerivano che era meglio evitare di finirlo: da che mondo e mondo, un attacco intestinale non era del tutto consigliato in quello scenario. Una volta ci si preoccupava della fila infinita alle poste, e dell'impossibilità di trovare un bagno (come la stupidissima pubblicità dell'antipropulsivo intestinale), ora invece dell’arrivo di una Ganascia marcescente a passo di danza. Non una bella immagine mentre sei piegato, sotto sforzo e intenzionato ad evacuare malessere.

Clint si trovò a pensare che Ganasce era molto meglio di DM. Anche perché se pensava a DM gli veniva in mente il nome di una band inglese. Probabilmente erano morti anche loro. Uno spreco.

 

Si limitava ad osservare la scena in disparte, in silenzio, godendosi la ritrovata pace dopo la tempesta. A pensare a come erano riusciti a scamparla e a come fossero circondati da morti viventi  solo poche ore prima, mentre adesso da persone vive. A formare un gruppo. Il più numeroso in cui fossero incappati in quelle ultime settimane. Inutile nascondere quanto la cosa lo sollevasse. E dire che c’era stato un tempo, in cui… era sicuro di poter asserire di non amare la gente. Non più.

Distolse l’attenzione dalla diatriba in corso solo quando intuì dei passi in avvicinamento; passi che ormai aveva imparato a conoscere. Leggeri, quasi inconsistenti. Natasha.

“Ehi…” la vide esitare solo un istante, prima di prendere posto accanto a lui, sul muretto che delimitava una lunga distesa di campagne desolate. Una postazione dalla quale non avrebbero faticato ad identificare sagome di Ganasce in avvicinamento.

“Ciao.” Le rispose, senza accennare a spostarsi, nonostante lo spazio di una mano, a dividerli.

“Te ne stai in disparte.” Una constatazione, al solito, più che una domanda. Se aveva capito qualcosa di Natasha, in quelle settimane, era che le risposte di cui aveva bisogno se le dava da sola dopo un’attenta e silenziosa analisi della situazione. Con una persona così era quasi impossibile non andare d’accordo. Almeno dal punto di vista pratico. Su quello mentale, si era trovato a pensare più di una volta quanto potesse essere snervante avere qualcuno che su di te non si sbaglia mai, nemmeno sulle questioni più scomode.

“Preferisco godermi le cose da una certa distanza.” Le rispose solo.

“Spero non tutte… le cose.”

Clint valutò le sue parole, non del tutto sicuro di cosa volesse dire. Poi sbuffò una risata. In una serata del genere non voleva perdersi in analisi più o meno complicate degli atteggiamenti umani.

“No, non tutte.” e poi uno scoppio d'ilarità nel gruppo poco distante, arrivò a distrarlo dal discorso.

“Che ne pensi… ?” abbozzò solo un cenno del capo, qualcosa che, era sicuro, Natasha avrebbe colto all’istante.

“Sembrano a posto”, la sentì rispondere senza esitazione, “la donna simula bene. Ma non è in forma.”

Clint le rivolse uno sguardo preoccupato. Stark sembrava tener molto a lei, anche se non aveva ancora capito le dinamiche del loro rapporto. Non erano sposati, ma…

“Anche Stark simula bene.” Qualcosa nei suoi occhi dava anche a lui l’idea della grande preoccupazione che lo affliggeva. E della sicurezza che non possedeva affatto, se non per quel suo aggeggio prodigioso con cui aveva allontanato le Ganasce.

Aveva intravisto la propria fine. La loro fine. Per la prima volta dacché erano precipitati in quell’incubo fantascientifico. Una possibilità concreta, dopo giorni di tenace sopravvivenza.

Si era scoperto pronto ad affrontarlo con una lucidità tale da risultare quasi spaventosa.

Era pronto ad affrontare la fine. Assieme a Barney. Assieme a Natasha.

“Devo…” si umettò le labbra, insicuro su come avrebbe voluto dirlo. Le parole che improvvisamente premevano contro il palato per uscire, non preventivate, “devo ringraziarti.”

Sentì su di sé gli occhi curiosi, inquisitori della ragazza.

Si decise a voltarsi dopo una quantità indefinita di tempo. Non era affatto abituato a ringraziare qualcuno. Cominciare con lei, poi, complicava decisamente le cose.

“Per Barney.”

Lei di nuovo non parlò, come aspettandosi la conclusione di un discorso tronco. Stavolta, come il giorno della partenza da Paris, le cose sembrava volerle sentire.

“Per averlo aiutato… nel tunnel.”

Per avergli salvato la vita. Parole che sembravano troppo melodrammatiche, ma che descrivevano abbastanza chiaramente quello che aveva fatto. Con una tenacia, una forza, una determinazione che non aveva visto rivolger loro tanto spesso.

Lo sguardo di lei ancora fermo, puntato nella sua direzione, impassibile, affatto intenzionata a suggerirgli il suo stato d’animo a riguardo. Almeno non del tutto.

“Siamo una squadra”, pronunciò lei infine. Sentirglielo dire lo sorprese più del suo slancio d’altruismo sul fratello. Una sensazione un po' strana alla base dello stomaco, qualcosa che era convinto non sarebbe più stato in grado di provare senza una punta di smarrimento.

“Già.” Non poté far altro che confermare.

La sensazione si era intensificata dopo gli ultimi avvenimenti. Al modo in cui si erano battuti. Spalleggiati. Sostenuti. Pronti alla morte. Insieme.

Del tutto in contrasto con le sue convinzioni di qualche settimana prima, col fatto che lui e Barney –  soli – avrebbero potuto essere invincibili, senza l'aiuto di nessuno.

“Ti avevo detto che potevi fidarti di me.”

A Clint sembrò di poterglielo sentir dire di nuovo, di ricreare le stesse atmosfere del discorso fatto una notte, a bordo del pick-up, con un’unica, sola differenza: che ora ne era consapevole.

“Dunque… dunque i ringraziamenti non sono necessari.” Aggiunse lei, per una volta tanto una simulazione d’indifferenza mal riuscita.

La guardò a lungo, e poi sorrise: “Okay.”

Natasha sembrò soddisfatta di quella risposta e andò a frugarsi nelle tasche laterali dei pantaloni militari che avevano raccattato in un negozio di abbigliamento, svaligiato ormai giorni prima.

Ne tirò fuori il suo kit per l’insulina. Clint non poté fare a meno di distogliere lo sguardo.

“Ti fa paura?” la sua voce stavolta si concretizzò in una domanda. Un po’ retorica, forse.

“La malattia?” le domandò, simulando indifferenza, concentrandosi sulla carta del panino che ancora teneva fra le mani, accartocciata.

“Gli aghi.”

“No.”

“Non si direbbe.”

“Paura è una parola grossa.”

“Ti fanno senso.” Specificò.

“Un po’.”

“Eppure sei un arciere. Le cose appuntite dovrebbero essere il tuo pane quotidiano.”

La vide preparare la siringa.

“Non è esattamente la stessa cosa, se proprio vogliamo dirla tutta.”

“No?”

“Non proprio. Una siringa non ti ammazza.”

“Dipende. Una bolla d'aria dritta in vena e sei morto.” la freddezza di quelle parole, gli suggerirono, ancora una volta, che Natasha nascondeva ben più di un segreto sotto quella corteccia silenziosa.

Non riuscì proprio a fare a meno di notare che la ragazza si stava sollevando la maglia per scoprire lo stomaco.

“Non avrai intenzione di fartela lì.”

Natasha si strinse nelle spalle, con noncuranza: “Un posto vale l’altro.”

“Ma proprio per niente! Nella pancia?”

“In un braccio, in una gamba, nella pancia… se non altro qui nemmeno lo sento.”

“Perché sei dovuta venire fin qui a farlo?”

“Non devi guardare per forza.”

Gli lanciò solo un'occhiata, per un solo istante, con quella sua espressione del tutto illeggibile e poi calò il microscopico ago, proprio lì, nella parte molle del ventre. Senza attendere che distogliesse discretamente lo sguardo. A spregio.

“Cazzo, ma allora sei stronza!” sbottò Clint sentendo i brividi serpeggiargli su per la schiena, i peli delle braccia ritti come quelli di un porcospino. E un principio di nausea non richiesto. Decisamente non richiesto. Non dopo un panino alla muffa.

La vide estrarre l’ago e ricoprirsi lo stomaco. Un sorrisetto appena intuibile a incresparle le labbra. Sì, decisamente si stava prendendo gioco di lui. La stronza.

“Ritratto il ringraziamento di prima.” Dovette specificare burbero, lanciando la carta del panino a bordo del pick-up poco distante.

“Non lo avevo mai accettato. Non mi sembra una gran perdita.”

“Sei stronza.”

Di nuovo, lei sorrise. Un miracolo o uno scherno. La cosa gradevole era che i tratti del suo viso si distendevano fino a renderla ancora più giovane. Molto più che carina.

“E tu sei… strano.”

Un’affermazione che non gli arrivava del tutto nuova, ma che lo costrinse a lanciarle l'ennesimo sguardo perplesso.

“Questa non è una grande offesa.”

“Non voleva essere un’offesa.”

“Non sono…” scrollò le spalle. Strano. “Non più di tanti altri.”

“Uccidi Ganasce da settimane e hai paura di un ago. Perché?”

“Non comincerai a chiamarli così anche tu?”

Si sentì addosso un'occhiata da: non si risponde a una domanda con un’altra domanda.

E capì che con Natasha non si potevano fare giochetti: “E’ una… lunga storia.”

“Tempo ne abbiamo”,  una risposta quasi scontata, “ma posso capirlo se non vuoi raccontarlo.”

Lo poteva capire. Eppure glielo stava chiedendo lo stesso. Ci avrebbe perso qualcosa, parlandogliene? La virile reticenza di un uomo affatto incline a condividere le sue paure.

E comunque paura… era una parola grossa. Enorme.

“Ho avuto a che fare con quegli aggeggi troppo a lungo. Più di quanto un ragazzino di otto anni dovrebbe sperimentare. Non sono mai entusiasta quando ne vedo uno.”

Riaccendevano ricordi per niente piacevoli. Piuttosto molesti. Qualcosa che, a ben guardare, ora gli sembrava arrivare da una realtà così distante da sembrare fasulla. Come fosse appartenuta a qualcun altro.

Avrebbe ancora fatto così male parlarne? Forse no. O forse…

Si rese conto che Natasha si limitava a fissarlo, in quieta attesa. Era sicuro che se avesse smesso di parlare, lei non avrebbe insistito.

E non lo fece.

“Facevano paura anche a me.” Gli confessò in un raro momento di sincerità gratuita. Natasha non era proprio una di quelle persone che si lasciano andare a confessioni, più o meno spinose.

“Mi sembra che tu abbia superato la cosa in modo egregio.”

“Quando le cose sei costretta a farle…”

“Un po’ come uccidere Ganasce.”

“Un po’ come uccidere Ganasce, esatto.”

“Ma merda!”

“Cosa?”

“Barney ci ha proprio deviato con quel suo nomignolo del cazzo.”

E poi successe una di quelle cose che proprio non si aspettava.

Natasha rise. Per la prima volta dacché la conosceva, una risata vera. Affatto simile a quei risolini quieti a una battuta particolarmente divertente o idiota di Barney. O quei sorrisi che stentava a trattenere a uno dei loro battibecchi più tenaci. No, era una risata.

E se prima, con quell’inaspettato sorriso gli era sembrata carina, ora che il riso le rischiarava il viso, la trovava bella. Anche così, spettinata e impolverata, con il sole che ardeva all’orizzonte, pronto a tramontare.

Un’immagine preziosa. Rara di quei tempi.

“A proposito…” distolse lo sguardo, per non abituarcisi, per non doversi fare domande sul perché ne fosse rimasto affascinato, “un paio di quelle mosse con cui hai atterrato Ganasce devi proprio insegnarmele.”

“Non sono sicura…”

“Di che? Non mi dire che è una di quelle robe top secret?”

“… che potresti sopportare uno dei miei allenamenti.”

“Ah!” la fanciulla non era affatto priva di senso dell’umorismo, dopotutto. “Perché ancora non sai con chi hai a che fare, lavoravo in un circo, bella. Tu che facevi?”

Natasha smise di ridere, e quando la consapevolezza che forse, questa volta, avrebbe potuto rispondergli per davvero, su quel misterioso passato di cui non aveva ancora fatto mai menzione, la voce di Barney venne a interrompere l’aspettativa.

“Ehi! Voi due, piccioncini! Avete finito di fare gli asociali? Dobbiamo decidere chi si fa il primo turno di guardia!”

Clint sbuffò qualcosa in risposta e guardò Natasha. Bastò un’occhiata e entrambi furono in piedi, in un salto sincronizzato, pronti ad affrontare la prima notte di gruppo.

 

*

Albany, Georgia

 

Un boato lo destò dal suo sonno precario.

Si mise a sedere sul letto, sbirciando il suo compare che sembrava non aver risentito di quel rumore molesto. Lo vide agitarsi appena sotto le lenzuola e mugugnare qualcosa in protesta.

Il Capitano Rogers si mise in piedi rapidamente, andando a sbirciare oltre le finestre, oltre le assi di legno sapientemente posizionate per limitare gli attacchi.

Fuori, la vita scorreva apparentemente impassibile. Il solo fruscio del vento, ad alimentare l’esistenza, la fuori, nell’oscurità.
“Che fai?” la voce di Sam. Doveva aver deciso che dopotutto poteva ben dare un po’ di attenzione a quell’inconveniente. Steve aveva cominciato a pensare che Wilson si fosse accomodato un po’ troppo facilmente a quella nuova quotidianità.

“Lo hai sentito anche tu, il boato?” Si limitò a rispondergli, continuando a scansionare la zona come un segugio. Non una sola avvisaglia di mutanti la fuori.

“Credevo fosse un tuono.”

“No, sembrava… più un’esplosione.” Apparentemente molto lontana. Come quella di una bomba. Forse era esplosa qualche centrale. Corto circuiti imprevisti.

E poi quando sembrò arrendersi all’evidenza che il fenomeno non si sarebbe ripresentato, ecco che un secondo boato deflagrò l’aria e uno scalpiccio di piedi cominciò a serpeggiare all’unisono, fuori, nei corridoi.

Albany, una cittadina che sulla mappa sembrava priva di spunti strategici interessanti. Il fatto che avessero captato il segnale radio, aveva dato loro il suggerimento per deviare da Atlanta. Per proseguire più a sud. Alla ricerca disperata di uomini. Di persone.

Dopo lo scenario desolante che aveva trovato lungo il percorso, le sue speranze stavano cominciando ad assottigliarsi inesorabilmente. I militari in cui era incappato per strada regalavano un agghiacciante ritratto della caduta dell’esercito e delle sue forze sul campo.

Dopo le perdite… numerose, dolorose, che aveva relegato in un angolo della sua coscienza, trovare lo sceriffo Fury e la sua squadra gli aveva restituito uno spiraglio di positività. Lui che razionalmente ne era sempre stato provvisto ma che aveva dovuto raggranellarne in modo sempre più difficoltoso per tirare avanti, per proseguire in quella sua assurda crociata.

Nel momento in cui era partito da Washington, la sua missione era sempre rimasta la stessa: quella di arrivare ad Atlanta. Constatare di persona la situazione e individuare questo presunto paziente zero. Posto che fosse ancora vivo. Nel qual caso arrivare ai laboratori di ricerca e raggranellare quante più informazioni possibili per…

Ci avrebbe pensato sul momento.

Solo che il gruppo di Fury tutto sembrava pronto fuorché all’eventualità di una gita di piacere ad Atlanta.

Certo, lo sceriffo sembrava un tipo determinato e coriaceo e ancora abbastanza in forma da poter affrontare una prova simile. Non fosse stato per quel suo occhio… un handicap non indifferente.

Se fosse riuscito però a convincere lui, senza ombra di dubbio sarebbe riuscito ad ottenere anche la collaborazione dei due agenti che sembravano essergli fedeli abbastanza da non abbandonarlo. E lanciarsi nella spedizione con fede incrollabile.

Gli altri… gli altri erano solo civili. Civili che, per quanto accoglienti, erano pressoché inservibili.

Il gruppo era ancora troppo scarno. Ma dubitava che la fortuna di essere incappato nello sceriffo e la sua quadra potesse arridergli una seconda volta, tanto rapidamente.

Avrebbe dovuto accontentarsi. E prepararsi. Prepararsi all’unico obiettivo che si era prefissato dal giorno in cui quella bestialità era esplosa negli Stati Uniti.

Focalizzare. E concentrarsi, un passo alla volta. Per restare razionali, non perdere la testa, così come aveva visto fare a molte delle persone che poi aveva visto cadere.

Un obiettivo è ciò che ti mantiene lucido e reattivo abbastanza a lungo. Che soffoca quel dolore che è sempre lì, latente, pronto a piegarti, sconfiggerti.

I suoi pensieri vennero interrotti dal brusio e da un paio di colpi alla porta della stanza in cui erano stati sistemati, Sam e lui.

“Avanti…” si era voltato appena in tempo per vedere il viso dell’agente Coulson fare capolino dall’uscio, con aria preoccupata e vagamente titubante.

“Capitano… credo dobbiate raccogliere le vostre cose.”

Rogers era entrato rapidamente in assetto d’allerta. Si era allontanato dalla finestra, mentre Sam stronfiando qualcosa, era emerso dal suo giaciglio improvvisato.

“Che sta succedendo?”

“Abbiamo motivo di pensare che la città verrà invasa a breve.”

Steve inarcò un sopracciglio, scambiando uno sguardo con il suo compare, che si limitò a raccogliere i pantaloni da terra per rivestirsi.

“Quanto tempo abbiamo?”

“Non ne siamo sicuri. Ma la statale si è già riempita di…”

“Quei fottutisimi marcioni.” Sam completò la frase per lui, evidentemente contrariato all’idea di dover rinunciare al suo meritato riposo.

“Già e… credo ci farebbe molto comodo quel vostro… carro armato.”

Steve si concesse un profondo respiro.

“Da che parte siamo diretti?”

“Lo sceriffo dice che… dovremmo dirigersi a nord di Atlanta.”

A nord di Atlanta.

Annuì una sola volta, trattenendosi dal sorridere.

Per una volta tanto, non avrebbe nemmeno dovuto chiedere.

 

___

 

Note:

Altro capitolo di raccordo. I gruppi (con le new entry) si stanno formando e dirigendo, finalmente, tutti quanti nella stessa direzione. Nel prossimo capitolo (che sarà un po’ particolare)  verrà chiarito qualche dubbio. Non tutti però…
Chiudo rapida e indolore ringraziando i lettori, la mia socia e beta Sere e augurandovi una buona settimana. Forse ci sentiamo prima di Natale con un’altra cosa. Roba senza zombie, eh. Alla prossima.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

Forse siamo sempre indotti a pensare che ciò che è perduto era il meglio... o lo sarebbe stato. Non ne sono sicuro.

(Mucchio d'Ossa – Stephen King)

 

*

Albany, Georgia

tre mesi prima

 

Si trovò a stringere in mano il foglio che la gentile segretaria allo sportello gli aveva consegnato.

La data non dava adito a dubbi: 1 agosto.

Il primo di agosto, avrebbe potuto dire addio al distintivo. Per sempre.

Quarant’anni di carriera. Eppure erano volati. O così, improvvisamente, gli era sembrato.

Sul groppone li sentiva tutti, uno dopo l’altro, ma si trovò improvvisamente turbato nel constatare che l’unica, vaga sensazione che gli regalava quella notizia, era di panico.

Una routine che si era costruito lentamente, la quotidianità di volti che aveva visto per anni, tutti i giorni, e che improvvisamente non avrebbe visto più. Senza scadere nel facile melodramma, ovviamente.

Sarebbe tornato a trovarli, ma avrebbe fatto fatica a empatizzare con la loro abitudinaria frenesia, paragonata alla neo-guadagnata… nullafacenza.

Lui, Nicholas J. Fury, che nella vita aveva fatto di tutto, presto si sarebbe trovato a dover riempire le sue giornate con qualcosa di altrettanto ingegnoso per macinare le ore in lenta processione. Possibilmente senza ritrovarsi a guardar cantieri per dar giudizi più o meno attendibili sul lavoro degli operai.

Non avrebbe fatto quella fine.

Avrebbe potuto dedicarsi a tutti quegli hobby che…

Ma a chi voleva darla a bere? Per Nick Fury il lavoro era un hobby. Una sottospecie almeno. Un lavoro a cui aveva partecipato con entusiasmo e dedizione, fino a raggiungere una carica di tutto rispetto.

Il distintivo di sceriffo se lo era guadagnato. Era frutto del sudore della sua fronte, di straordinari, turni massacranti, notti insonni, appostamenti lunghi ore.

Gli hobby erano per persone che avevano bisogno di estraniarsi da lavori logoranti che non avevano chiesto, che non avevano desiderato.

A Fury piaceva il suo lavoro.

Come diceva il saggio? Scegli un lavoro che ami e non dovrai mai lavorare un giorno della tua vita.
Certo, con le dovute eccezioni. Anche a lui piaceva dormire, la mattina… (ovviamente quando era più giovane. Ora doveva sforzarsi di rimanere a letto dopo le sette). O anelava le vacanze dopo un periodo particolarmente intenso (a breve ne avrebbe avute a tempo indeterminato).

Ma le soddisfazioni che aveva accumulato, raggiungevano un numero abbastanza sufficiente per impedirgli di lamentarsi del tempo speso alla centrale.

 

Fece un passo fuori dal palazzo. Il sole di maggio scaldava l’aria profumata; si perse ad osservare i dintorni con una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco.

Quando improvvisamente avvertì uno strattone e un ragazzotto dall’aria confusa gli fu addosso.

M-mi scusi…” disse solo, prima di allontanarsi con quello che aveva tutta l’aria di essere il suo portafoglio.

I tempi di reazione furono certo prolungati dalla sorpresa. Mica dall'età.

Figlio di…”

Se era pur vero che Nick Fury aveva in mano un foglio di via per la sospirata pensione, le sue giunture non sembravano dello stesso parere. Lo scatto che produssero i muscoli delle sue gambe gli permisero di coprire svariati metri all’inseguimento di quel cazzo di ladruncolo da quattro soldi. O cinquanta dollari. Il corrispettivo di quello che aveva attualmente nel portafoglio.

Aveva decisamente preso di mira il soggetto sbagliato per una rapina.

Fermo! Polizia!” aveva gridato, tirando fuori il distintivo, ancora lucido come il primo giorno di servizio.

Prese una scorciatoia: la città aveva smesso di avere segreti per lui, dopo averla percorsa palmo a palmo per quasi trent’anni.

Si trovò a sbucare nella via adiacente, con il ragazzino che gli veniva incontro, guardandosi le spalle, già disteso dall’improbabile certezza di averla fatta franca.

Gli franò addosso senza alcuna avvisaglia e Nick fu pronto ad accoglierlo e stringerlo in quelle sue grosse mani da lottatore.

No!” gridò il ragazzo, lo sguardo di puro panico a lampeggiargli negli occhi.

Cosa credevi di fare, ragazzo? Ridammi il portafoglio e magari te la cavi con poco.”

No!” Continuava a ripetere, dimenandosi con una furia che faticò a reprimere.

Fury estrasse – non con poca fatica – le manette, ben sprofondate nella tasca dell’impermeabile e fece per agganciarle attorno ai suoi polsi, quando vide qualcosa di lucido vibrare poco lontano dal suo viso.

Una lama.

La lama di un coltello.

Non riuscì a fare niente per evitarla.

E quando sentì il dolore lacerante che gli spense la vista e sembrò penetrargli a fondo, nel cervello, pensò che forse, dopotutto, quel panico ingiustificato per la pensione, non sarebbe stato più affar suo.

 

*

 

Rockland, Maine

tre mesi prima

 

Si era ritrovato a fissarsi le mani insanguinate senza realizzare del tutto ciò che era appena successo.

Nelle vene ancora scorreva l’adrenalina che lo aveva spinto a quel gesto.

Il corpo del segretario steso al suolo, una pozzanghera di un rosso così intenso da sembrare nero. O forse era solo la vista appannata. Residui della patina di incoscienza che si era impossessata di lui, che gli aveva permesso di afferrare quel maledetto fermacarte e di calarlo con forza sul cranio dell’uomo.

Non lo aveva fatto apposta.

Lo aveva provocato.

Lo aveva deriso.

Non era stata colpa sua.

Non era stato… lui.

Non lo ricordava nemmeno.

Che cosa hai fatto?” la voce di suo padre, chiara, nitida come se gli stesse parlando in quello stesso momento. Nello sguardo, la consapevolezza finale di tutto ciò che aveva sempre sospettato, di cui lo aveva sempre, tacitamente accusato.

Non sei degno di essere mio figlio. Ti ho cresciuto. Istruito. Protetto. E questa è tutta la riconoscenza con cui sai ripagarmi?”

Un omicidio.

Non avrei mai creduto potessi cadere tanto in basso.”

Padre.

Non sono stato io.

Ho reagito a una provocazione. Un momento di debolezza. Legittima difesa.

Ho sempre cercato di soddisfarti, compiacerti. Ho sempre cercato di essere alla tua altezza. Di guadagnarmi la tua attenzione, il tuo affetto.

E’ stata solo una debolezza.

Mi ha solo provocato.

E' stato promosso, mi ha detto. Per tua decisione. Ma quel posto era mio. Non era così? Non era sempre stato mio? Ho marcito anni dietro quella scrivania per rendermi degno, pronto per quel compito.

E con quel sorriso beffardo è venuto ad annunciarmi, tronfio, di quella tua assurda decisione.

Ho protestato, solo protestato. Ho alzato la voce. E lui ha minacciato di chiamare la sicurezza. E poi tutti quegli insulti, quell’aria sbeffeggiante. E’ stato un raptus.

Niente di più.

Solo un raptus.

 

Lasciò il fermacarte, che cadde, con un tonfo attutito, sul tappeto, sotto la scrivania. Rotolò per qualche metro fino a scontrarsi con la chiazza che andava espandendosi.

Quell’odore, gravido di morte, a riportarlo alla realtà.

Gli occhi spenti dell'uomo, le labbra dischiuse, ferme sull’ultimo respiro.

Avevo ucciso un uomo. Lo aveva fatto lui.

Il pensiero fulmineo che l’ostacolo fosse stato eliminato, fu rapidamente sostituito dall’angoscia. Ma no, non per il senso di colpa, ma perché quell’angolo di coscienza destinato alle aspirazioni, lo proiettò in un futuro dove non c’era carriera o gloria, ma quattro pareti spoglie di una cella.

Poi sentì quel gorgoglio, inconsistente. E la voce, flebile, che stentava ad uscire.

Forse era ancora vivo. Forse avrebbe ancora potuto salvarlo.

Quando le labbra dell’uomo pronunciarono il suo nome, comprese, con un brivido d’orrore, che la salvezza di quell'uomo avrebbe decretato la sua, di fine. In ogni caso. Un testimone era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.

Mentre, se fosse stato rapido e avesse studiato la faccenda da una prospettiva razionale, calcolatrice… forse. Forse.

La lucida follia prese il sopravvento sulla compassione.

Raccolse di nuovo il fermacarte.

La televisione, alle sue spalle, lanciava la presentazione di un nuovo progetto scientifico ai laboratori di Atlanta.

 

*

Pikesville, Maryland

due mesi e mezzo prima

 

Si passò un mano sulle labbra. Il rossetto ancora sbavato e il labbro gonfio.

Allo stronzo piaceva menar le mani. Nel darle istruzioni le avevano risparmiato il dettaglio. Pensò che, in fondo, non sarebbe cambiato niente, ma di certo non avrebbe rischiato di rispondere a quel primo manrovescio che le aveva riservato appena chiusa a chiave la porta della camera da letto.

Uno stanzino di lusso, niente da dire, ma impregnato del tanfo di quel sigaro. Se lo sarebbe sentito addosso per tutto il giorno successivo, di questo era sicura.

Si levò dal letto, ribaltando le lenzuola di cotone.

Accennò appena a voltarsi: il ventre gonfio dell’uomo nudo fu la prima cosa che si svelò al suo sguardo. La testa, preferì non guardarla nemmeno.

Raccattò da terra il vestito e nell’infilarlo frettolosamente si rese conto che, nella foga, il bastardo le aveva strappato una spallina. Fece un nodo approssimativo, sperando reggesse, giusto il tempo per uscire dall'hotel e sparire nella notte. Nessuno avrebbe fatto domande. Nessuno ne faceva mai.

Il giorno dopo sarebbero stati polizia e giornalisti a farla da padrone, ma lei sarebbe svanita. La sua identità cancellata, con un colpo di spugna.

Si guardò allo specchio per sistemare la crocchia complicata in cui aveva annodato i capelli. Il nero le dava un'aria cupa. Tamponò la ferita al labbro, la ripulì dal sangue; con qualche difficoltà ravvivò il rossetto. Il mascara colato lo nascose dietro un paio di lenti scure. Quando si infilò la giacca si era data una parvenza d’ordine. Sufficiente ad ingannare un osservatore poco attento.

Recuperò i documenti sparpagliati sullo scrittoio, sistemandoli nella borsetta. E solo quando fu sulla soglia si voltò a guardarlo.

Aveva, se non altro, smesso di dimenarsi da un pezzo. Di gorgogliare: odiava quando lo facevano.

Lo sguardo vitreo, il corpo che andava irrigidendosi. Sulla gola, una ferita aperta, come un secondo sorriso. Il cuscino che aveva assunto una tinta scura, scarlatta.

Un autografo in bella vista. Che si sapesse in giro che quello non era stato altro che un pareggio di conti. Chi di dovere ne sarebbe stato informato. E avrebbe abbassato la cresta. Discreto nell’esecuzione, ma plateale nella presentazione, come piaceva a lei. O come… piaceva a Ivan.

Aprì la porta poco prima che il telefono cominciasse a vibrarle nella tasca della giacca.

Sì.” Rispose solo, proprio la voce di Ivan dall’altra parte della cornetta, “E’ tutto finito.”

Lo rassicurò stringata, prendendo l’ascensore. Uno sguardo allo specchio, di nuovo, le rimandò l’immagine di una sconosciuta.

Sarò di ritorno entro un paio d’ore.” Raggiunse la hall e il ragazzotto al bancone alzò appena la testa per guardarla passare. Gli fece solo un cenno col capo prima di spingere con la mano libera la porta girevole e uscire nella notte.

No… non ho bisogno che mi veniate a prendere.”

Riattaccò, affrettandosi lungo il marciapiede, prima di deviare per uno dei vicoli adiacenti.

Gettò a terra il cellulare, saltandoci sopra, disintegrandolo con un colpo di tacco.

Infilò tutto in una busta di plastica, riversò la giacca scura e se l’infilò al contrario, avendo cura di allacciare i bottoni. Si sciolse i capelli, si sfilò gli occhiali e abbandonò tutto lì, nel bidone della spazzatura, proprio mentre il camion della nettezza urbana passava per portarsi via qualsiasi prova.
L’odore del marciume e del gas di scarico le produsse un inaspettato conato di vomito.

Aveva accumulato troppo stress… e non aveva cenato. In più, ancora non aveva assunto la sua dose di insulina. O almeno questa era la scusa che le piaceva raccontarsi ogni santa volta.

Per non dover ricordare di avere ancora una coscienza. Per rammentare che lo stava facendo per Ivan. Per la sua organizzazione. Per qualcosa che stava al sopra di lei e qualsiasi senso di moralità.

Se non altro, nemmeno stavolta, il porco era riuscito a lordarla. Si era guadagnato la fine con qualche schiaffo e uno sguardo di troppo. Quando violavano il suo corpo, una gola sgozzata, un lavoro pulito, era un lusso che non potevano permettersi.

La Vedova Nera sapeva essere più teatrale di così. A discapito della sua umanità che veniva asportata, pezzo per pezzo.

A volte anelava l’annullamento.

Sulla strada isolata, appena illuminata dai lampioni, allungò un braccio, all’arrivo di un taxi.

Tutto bene, signorina?” intervenne il tassista appena fu a bordo. Uno sguardo al retrovisore e doveva aver notato i lividi, il labbro rotto, il trucco colato dal viso.

Adesso sì.” Rispose stringata, prendendo a guardare insistentemente fuori dal finestrino.

A recitare, per l’ennesima volta, la parte della vittima.

 

*

 

Waverly, Iowa

due mesi prima

 

Ma che cazzo stai facendo?”

La voce di Barney gli rimbombò nelle orecchie, fastidiosa, ad alimentare spirali di emicrania.

Si sentì strappare dalle mani la bottiglia di whisky, senza riuscire ad avere la prontezza di impedirglielo.

Clint rialzò su di lui uno sguardo appannato, ma improvvisamente iroso.

Ridammela.”

Non ti ridò un cazzo… questa merda ti fotte il fegato e il cervello. Che cazzo hai in testa?” nemmeno il colpo secco alla nuca aveva visto arrivare.

Il mal di testa prese coscienza di sé, per comprimere il suo cranio in una morsa dolorosa.

Non sono affari tuoi, faccio il cazzo che mi pare!”

Non a casa mia! Finché vivi qui sei affar mio.”

Non è casa tua… è casa nostra.” Aveva fatto per alzarsi in piedi, ma lo stordimento di quell’acqua di fuoco lo fece barcollare pericolosamente verso la parete. Riuscì ad aggrapparsi per miracolo alla mensola del camino, prima di rovinare pateticamente a terra.

Ma guardati, nemmeno riesci a stare in piedi. E tutto questo per cosa? Ah? Per cosa?”

Non ebbe nemmeno la forza di rispondere. Il dolore sordo alla base dello stomaco, che no, stavolta non era provocato dall’alcool.

Aveva mandato tutto a puttane. Il lavoro al cantiere, il matrimonio con Bobbi. Era stato costretto a tornare a vivere con Barney, che ci aveva messo meno di mezzo secondo a spalancargli la porta ed accoglierlo come il figliol prodigo. Tutto a puttane, in meno di un mese. E aveva trovato la soluzione più semplice per dimenticarlo.

Te lo ricordi che cosa faceva fare a nostro padre questo?” gli sventolò di fronte la bottiglia, scintillante sotto la luce del sole che attraversava la finestra, accecandolo, “visto che siamo a casa nostra sai esattamente che cazzo succedeva fra le quattro mura di questa casa! Vuoi emularlo? Vuoi diventare come lui? Perché mi sembra tu sia sulla buona strada per trasformarti in quel lurido pezzo di merda.”

Io non sono come papà…”

No? E allora dimostralo. Rimetti insieme la carcassa e tira fuori le palle. La tua vita non finisce qui. Ti sei rialzato dopo sciagure più gravi di queste stronzate.”

Stronzate che però, da qualche mese, gli avevano permesso di credere che avrebbe potuto vivere una vita normale. Ordinaria. Una vita che evidentemente… ancora non meritava.

Lo vide muoversi rapidamente verso la cucina. Il rumore del liquore che gorgogliava giù per lo scarico del lavandino.

Vestiti.” Lo sentì dire mentre tornava, asciugandosi le mani sui jeans. Le scarpe che scricchiolavano, minacciose, sul pavimento. E dire che c’era stato un tempo in cui era convinto che fosse Barney quello che più somigliava ad Harold. Lo stesso colore di capelli, la stessa corporatura rozza, massiccia. Lo stesso tono di voce e la stessa implacabile risata.

E invece aveva finito lui per assomigliare al vecchio, contro ogni previsione. Affrontare le difficoltà, annebbiandole con l'alcool… da quando era caduto così in basso?

Ho detto vestiti, sistemati i capelli…”

Perché?”

Ci ho trovato un lavoro.” Lo aveva raccolto da terra e trascinato verso il bagno.

Se è come quello dell’altra volta…”

No. E’ un lavoro onesto. Con una buona paga. Perciò datti una parvenza di dignità. Gli ubriaconi non li vuole nessuno.”

Non…” nemmeno il tempo di protestare o registrare la spinta di Barney che gli infilava la testa sotto al lavandino e apriva l’acqua, inondandogli la testa.

Che cazzo fai?!”

Ti riporto in vita, fratellino, ti riporto in vita.”

 

*

 

Malibù, California

due mesi prima

 

Quando aprì la porta del suo ufficio, furono un paio di lunghe gambe ad entrare immediatamente nel suo campo visivo.

Una sorpresa inaspettata per un rientro altrettanto inaspettato.

Signor Stark.”

Pepper. Che ci fa nel mio ufficio?” esordì con aria tutt’altro che accusatoria. Vagamente allegra, alleggerita da quel paio di Martini che aveva bevuto poco prima di salire in macchina. Una pessima abitudine. Avrebbe dovuto rivederne qualcuna, prima o poi. O usufruire più spesso di Happy. Che cosa lo pagava a fare, altrimenti?

Sto lavorando.” Fu la risposta vagamente perplessa della donna.

A quest’ora?” raggiunse la scrivania senza toglierle gli occhi di dosso.

Solo un paio d’ore di straordinari. Le avevo detto di averne bisogno per-”

Sì, sì, sì… ricordo.” In realtà non ricordava affatto. Ma gliela dava per buona. Dopotutto era lei la sua assistente. Lei quella che doveva ricordarsi le cose. Se avesse voluto affidarsi alla sua memoria, avrebbe evitato di assumerne una.

Esalò un sospiro esausto, quando riuscì a sprofondare nella comodità della sua poltrona da lavoro. Per nulla pentito di non aver presenziato a una di quelle stupide cerimonie tanto in voga in quel periodo. Evidentemente, la primavera, non solo risvegliava istinti primordiali ma anche la malsana necessità di organizzare feste per boriosi rompicoglioni. Categoria della quale faceva orgogliosamente parte. Anche perché, la celebrazione, in quel caso specifico, l’aveva organizzata proprio lui.

Sentiva su di sé lo sguardo di Pepper. Gli trapanava il cranio dall’intensità.

Ha bisogno di qualcosa, signor Stark?”

Io?” fece ruotare la sedia per poterla fronteggiare. Aveva afferrato fra le mani il suo scacciapensieri a forma di rana. Ostentò la sua espressione più innocente.

Sì… visto che sono qui…”

Posso approfittare di lei?”

In termini del tutto professionali.” La postura si era fatta rigida.

Adorava quando riusciva a metterla in imbarazzo. Doveva ammettere che la cosa cominciava a risultargli sempre più complicata. Ormai erano tre anni che lavoravano insieme, che lo conosceva meglio di sua madre (che Dio l'avesse in gloria) e, purtroppo o per fortuna, la sua presenza gli era diventata necessaria. Indispensabile.

Familiare.

Più di un parente.

Più di una sorella.

Non che la vedesse come una sorella ma…

Nessuna sorella aveva polpacci come quelli.

Mai trovati così sensuali un paio di polpacci.

In realtà può terminare quello che stava facendo, io qui posso cavarmela da solo.”

La vide abbandonare gli archivi e portarsi via un paio di cartelline colme di documenti.

Non ha l’aria di qualcuno che è venuto qui per lavorare. Credevo avesse una cerimonia di premiazione, questa sera.”

L’avevo.”

E’ stata rimandata?” l’espressione attonita di chi si è lasciato sfuggire un dettaglio importante.

No. Affatto. Sono io che mi sentivo di rimandarla.”

Credevo fosse uno degli ospiti d’onore.”

L’onore di chi?”

Della festa.”

Oh, della festa… non mi piacciono le feste.”

Tutti sanno quanto le piacciano le feste.”

Tutti chi? I giornalisti?”

La vide stringersi nelle spalle, come se non avesse una risposta a quella domanda.

Organizzo sempre feste piuttosto divertenti, mh?”

Non saprei. Non ho mai partecipato a nessuna delle sue feste.”

Davvero non l'ho mai invitata?” adesso era confuso. E offeso. Da se stesso.

Direi di no. O se lo ha fatto è stato molto sottile.”

Stark soppesò la situazione. Non gli andava di andare a quella barbosa celebrazione.

E poi capì che non gli andava di andarci... da solo.

Quando stacca?” le domandò a sorpresa, dopo un breve, brevissimo ragionamento.

Pepper guardò l'orologio: “Fra un'ora. Ho bisogno degli straordinari per...”

Un'ora è troppo”, non le fece nemmeno finire la frase. “Le do un aumento. Posi quella roba.”

Come prego?”

Preferisce fare altri straordinari?”

No ma...”

E allora indossi il cappotto. E venga a una delle mie feste. Questo è un invito esplicito.”

Signor Stark non sono nemmeno vestita...”

Se fosse nuda me ne sarei accorto.”

... per una festa.”

Stark si rimise in piedi lanciando la rana scacciapensieri da qualche parte, alle sue spalle.

Non avrebbe accettato rifiuti.

 

 

*

Washington

un mese e mezzo prima

 

Avevano raggruppato un buon numero di militari. Li vedeva marciare attraverso il piazzale, diretti ai mezzi che li avrebbero condotti ad Atlanta.

L’emergenza era scattata quella notte stessa. In una manciata di ore avevano organizzato le squadre e messo in quarantena la zona.

L’esodo aveva avuto inizio.

Presto sarebbe partito anche lui, ma non quella mattina. Avevano bisogno di qualcuno che fosse in grado di mantenere la calma, dirigere le operazioni.

Problemi di regolare amministrazione. Non fosse stato per quel terribile mal di testa che aveva preso a martellargli le tempie…

Ehi… stai bene?” il tempo di voltarsi un istante e il sorriso di James a restituirgli in parte, un vago senso di sollievo.

Sì. Sì, sono solo un po’ stanco.”

Non hai dormito. Persino una roccia avrebbe problemi a restare lucida dopo una notte in bianco.”

Nemmeno tu sembri essere granché in forma.”

Conosceva James... Bucky da quando erano ragazzini. Avevano condiviso la stessa identica passione per gli action movie e il sogno americano. Avevano intrapreso la carriera militare quasi per sfida e quella, poi, aveva finito per diventare un lavoro vero. Uno di quelli che ti paga le bollette, e che, nel migliore dei casi, riesce persino a infonderti una nota affatto stonata di sano patriottismo.

Steve, di quello, ne aveva sempre avute a palate. Bucky… scherzava sul fatto di essere abbastanza soddisfatto che la divisa facesse almeno colpo sulle donne.

Chi io?” un istante solo e il suo viso si deformò fino a produrre un magistrale starnuto.

Scoppiò a ridere subito dopo, nonostante il viso congestionato.

Un raffreddore così non lo ricordo nemmeno ai tempi dei vaccini prima dell’addestramento.”

Steve gli rivolse un sorriso comprensivo.

Se non ti conoscessi così bene, direi quasi che tu e Peggy avete avuto incontri ravvicinati per passarvi i bacilli.”

Bucky gli lanciò uno sguardo che era tutto un programma.

Cazzo, ci hai beccati. E adesso chi glielo spiega alla tua ragazza?”

Non è la mia ragazza…” scosse la testa, “dovresti andare a casa a riposare. Qui è tutto sotto controllo, per il momento.”
“Per il momento.” Sottolineò l’uomo guardando fuori dalla finestra, la processione militare che andava estinguendosi. E poi l’ennesimo starnuto ad animar l’atmosfera.

Sai che ti dico? Mi sa che seguo il tuo suggerimento.”

Bravo.”

Da’ un bacio a Peggy da parte mia.” Gli batté una mano sulla spalla, con affettuoso cameratismo.

Nemmeno per sogno. I bacilli li lascio a voi. Ci vediamo domani.”

Lo seguì con lo sguardo, finché non fu sparito dietro la pesante porta dell’atrio.

Steve ancora non sapeva di aver salutato per l’ultima volta, il suo miglior amico.

 

*

New Mexico

un mese e mezzo prima

 

Si slacciò la cravatta troppo stretta: aveva sempre avuto un’allergia tutta particolare per i vestiti eleganti. In particolar modo se scuri, come il completo che indossava.

Gli avevano detto che era un modo per omaggiare i morti. Non era sicuro che sua madre avrebbe apprezzato quel tipo di funerale.

Facce contrite, canti depressi, l’omelia di padre David che aveva strappato più di un ululato d’agonia.

Quell’uomo massiccio che era suo padre, si era semplicemente inginocchiato sul prato umido del cimitero per non rialzarsi più. Un uomo che si sarebbe potuto dire incrollabile, pronto a piegarsi certo, ma mai a spezzarsi. Eppure quella perdita sembrava averlo sconfitto. E per la prima volta da quando Donald era tornato a casa, gli era sembrato improvvisamente così vecchio e così solo.

Del funerale aveva dovuto occuparsene lui. Aveva scelto la bara, il monumento funerario, aveva preso accordi con le pompe funebri, il prete, la chiesa, aveva avvisato i familiari, organizzato la cerimonia di ringraziamento.

Si era preso carico di tutte quelle responsabilità che nessuno mai avrebbe avuto il coraggio di affidargli. Delle stesse identiche critiche che gli avevano rivolto il giorno che se ne era andato di casa. Che aveva voltato le spalle alla famiglia per inseguire una strada che ancora aveva difficoltà ad appianare.

Si era scoperto molto meno arrabbiato di quando era partito. Molto più compassionevole, molto più accomodante. Aveva deciso di restare, per un po’. La sua squadra non lo avrebbe mollato, concedendogli tutto il tempo necessario.

Forse il lutto cambia le persone. O forse è solo il tempo a farlo.

Raccolse da terra un paio di tovaglioli caduti dal buffet. Sembravano essere passate le cavallette. Tutto quel tempo per sistemare il vecchio salotto di casa e meno di un’ora per ridurlo a un mucchio di avanzi tutt’altro che invitanti.

Ti aiuto a sistemare?” Sif gli era venuta incontro. Faceva strano vederla indossare un abito. Il colore mitigava un po’ l’evento. Gli faceva persino strano vederla aggirarsi per le quattro mura della casa della sua infanzia, così come assistere alla dolente processione della squadra di motociclisti arrivati direttamente per omaggiare la dipartita di sua madre.

No… non ti preoccupare. Posso farlo domani. Non c’è fretta.” Le disse con sincerità. Era esausto. E improvvisamente sistemare casa gli sembrò un evento trascurabile. Suo padre di certo non avrebbe protestato.

Anzi, perché non porti via qualcosa? Nessuno si mangerà tutta questa roba, domani.”

La vide annuire e aiutarlo a sistemare tartine, panini, quel che restava di un’insalata di patate, che si affrettò a coprire con una carta di giornale, scovato sul tavolino da caffè del salotto.

I ragazzi?” le consegnò il pacchetto, guardandosi attorno, come cercando qualcos’altro da fare per non affrontare ulteriori argomenti.

Sono qui fuori. Non volevano andarsene senza essere sicuri che andasse… tutto bene.”

Tutto bene. Un eufemismo. Andava. Ed era sufficiente.

Si limitò a scrollare le spalle.

E’ tutto okay. Il peggio è passato.” Le sorrise, o si sforzò di farlo. Non era granché bravo a simulare qualcosa che non gli apparteneva.

Lei lo guardò con l'aria di chi non poteva essere ingannato.

Thor… ci sono passata anche io. So che significa. Non c’è bisogno che…”

Ho detto che è tutto okay.” Si trovò a replicare, più duramente del previsto. Per poi pentirsene l’istante successivo. Il suo orgoglio però, non gli consentì di scusarsi.

D’accordo”, gli rispose, più remissiva del solito. Conosceva Sif, ne conosceva la sua indole e vederla reagire a quel modo gli fece prendere coscienza di quanto le dovesse sembrare a pezzi. “Allora vado. Sai dove siamo, nel caso… avessi bisogno di noi.”

Non le rispose nemmeno, stringendo fra le mani il resto del giornale, tormentandolo come fosse uno scacciapensieri mal riuscito. La guardò allontanarsi prima di avvertire di nuovo il senso di colpa stringergli lo stomaco in una morsa dolorosa.

Sif…” la richiamò, preparandosi a ricevere uno sguardo spiacevole. Di quelli compassionevoli che non era in grado di sostenere. Invece lei gli venne incontro di nuovo e prima di andarsene gli piazzò un bacio così vicino alle labbra, che quasi riuscì a sentirne il sapore.

Seppe che non avrebbe osato di più. Sif era molto più orgogliosa di così, non avrebbe approfittato di un suo momento di debolezza per ottenere ciò che non si erano mai concessi. E che forse non sarebbe accaduto mai.

Grazie…” le disse solo, mentre lei gli rivolgeva un cenno di duro assenso.

La guardò uscire di casa, lasciando che il silenzio gli desse la possibilità di metabolizzare, finalmente, la perdita.

 

 

Che facciamo?” Volstagg si era voltato non appena la porta si era aperta sul giardino antistante la villa.

Un quartetto di Harley ad attendere un verdetto di fine giornata.

Ce ne andiamo.” Fu la stringata risposta di Sif che veniva verso di loro con un ben poco invitante pacchetto fra le mani.

Il testone, là dentro, non ha bisogno di nulla?”

Solo di riposare, credo.”

Gli sganciò fra le mani il bottino, passandosi una mano sulla guancia. Thor non era l’unico ad essere rimasto provato dalla giornata.

Che cosa abbiamo qui?” Fandral aveva sollevato l’incartamento per scoprire le gioie nascoste del piatto.

La cena!” gioì Hogun, servendosi molto poco galantemente con le mani.

Ehi quella è per tutti. Non fate i maiali.”

Sif si vide recapitare in mano il foglio di giornale tutto spiegazzato, mentre i ragazzi banchettavano con gli ultimi avanzi del rinfresco funebre. Una dissonanza decisamente macabra.

Tu non mangi, Sif?”

A vedere voi mi è venuto il voltastomaco.” Li prese in giro andando a sedersi di sbieco sulla moto leggendo distrattamente la pagina di giornale tutta stropicciata.

Un articolo che parlava di un laboratorio esploso ad Atlanta. E un trafiletto dedicato ad un grottesco omicidio, su, nel Maine.

Pensò che il volto dell’uomo nella foto tutto corrispondeva tranne alla sua idea di killer.

Scorse distrattamente la notizia, prima di appallottolare la carta e gettarla in testa a Volstagg che aveva ruttato vivacemente.

Non ti hanno sentito su in Alaska!”

Lo scoppio di risa le strappò un sorriso. Sperò che Thor li avesse sentiti.

 

 

___

 

Note:

Con un po' di ritardo sulla tabella di marcia, ecco il nuovo capitolo. Un po' particolare nella forma. Un flashback che mi sentivo di dover raccontare. La spiegazione sta tutta là: nella citazione dell'incipit. Direi che non c'è bisogno d'altro.

E dato che ci sono, ne approfitto per fare a tutti, in ritardo, auguri di buon Natale, ma soprattutto, visto che sono in tempo, di buon anno e di buone feste in generale (per chi ha ferie e per chi, come me, non ne ha). Anche perché poi emigro per qualche giorno e chissà quando mi farò viva di nuovo. Ringraziamenti vari alle sclerosocia, così come lei mi definisce, a tutti i lettori e chi recensisce. Alla prossima!

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

 

Ma inseguendo quei misteri che popolano i nostri sogni, o torturandoci a dar la caccia a quello spettro diabolico che prima o poi nuota innanzi a tutti i cuori umani; andando così a caccia intorno a questo globo, queste cose o ci trascinano in sterili labirinti o ci lasciano, sommersi, a mezza strada.

(Moby Dick – Herman Melville)

 

* 

 

Atlanta, Georgia

 

Tornò ad accendere la radio su quell’unica frequenza attiva.

Le rispose, per l’ennesima volta, solo il fruscio della linea interrotta.

Erano passati giorni da quando aveva captato quel segnale radio. La voce di una donna che sconsigliava, a chiunque fosse in ascolto, di dirigersi ad Atlanta.

Le reazioni alla scoperta erano state da subito contrastanti.
Se da una parte la consapevolezza di non essere rimasta l’unico essere umano in vita sulla faccia della terra le accendeva speranza, dall’altra c’era la minaccia che, con quell’annuncio, nessun si sarebbe mai avventurato in città per scoprire se ci fossero dei sopravvissuti.

L’abbandono era una di quelle sensazioni che ormai erano parte attiva del suo essere.

Solo il bambino a renderla forte della sua presenza con manifestazioni d’affetto piuttosto vigorose.

Scalciava. Forse consapevole del fatto che, ben presto, sarebbe stato il suo turno di venire al mondo.

Il solo pensiero lanciava Betty nel terrore.

Era sola. In compagnia di un mostro (di Bruce) che si occupava di lei, certo, ma che non sarebbe mai stato in grado di darle l’aiuto necessario.

Mentre là fuori c’era qualcuno. Qualcuno che stava tentando disperatamente di salvare i reduci di quella silenziosa guerra.

Il mugolio dei non morti si stava facendo meno nitido.

Stava nascendo l’alba e per quello che aveva potuto constatare nel loro andirivieni, il giorno li rallentava, ammorbidiva, intorpidiva quei sensi smarriti. Li vedeva trascinarsi attorno storditi, sciamare in anfratti che non avrebbe saputo trovare.

La borsa era pronta da giorni, ma non aveva mai avuto il coraggio di portare a termine quella folle intenzione.

Anche adesso era lì, ferma a sbirciare fuori dalla finestra, indecisa sul da farsi.

Stavolta una scelta che avrebbe richiesto una forte determinazione.

Si ritrovò a pensare che nell’altra vita Betty Ross non era il tipo da lasciarsi sconfiggere dagli ostacoli. Aveva deciso di sposare un uomo che non incontrava l’approvazione della sua famiglia, di quel suo rigido padre che aveva ostacolato il legame con Bruce fin dalle prime battute.

Eppure aveva perseverato nella sua scelta. Scegliendo di essere felice.

E stavolta non era solo della sua vita che stava parlando. Non l’unica ad aver bisogno di essere salvata, preservata.

Accarezzò quel ventre gonfio come a darsi coraggio o a darne al bambino. A prepararlo a qualcosa dagli esiti incerti e recuperò la borsa per il neonato. Azzurra, piena di stupidi orsetti colorati, terribilmente stonata nel contesto. Infarcita di tutti i generi di sopravvivenza necessari. Che aveva accantonato, conservato, per settimane.

Recuperò il bastone della tenda che aveva sganciato solo qualche ora prima, privandosi di quel velo di protezione che la teneva nascosta ai non morti e avvicinato la porta della stanza.

Una soglia che non aveva mai osato varcare.

Lui non c’era.

Ne aveva sentito il ruggito solo qualche minuto prima, lo aveva sentito allontanarsi verso lidi sconosciuti, a proteggere il forte come un guerriero d’altri tempi.

Non poteva certo dire quando sarebbe tornato, ma avrebbe trovato il tempo per uscire da lì se si fosse sbrigata.

Ci aveva provato a scappare i primi tempi, passato il folle terrore che le attanagliava le viscere al solo guardare negli occhi quell’essere deforme. Ma le speranze che le dava quell’universo infernale non le regalava la spinta sufficiente a provarci. Provarci sul serio. Adesso invece…

La porta cigolò sui cardini e si aprì.

Il corridoio: un tunnel oscuro a indirizzarla verso l’uscita. Il cuore a batterle nel petto, fin nelle tempie a scandire i suoi passi incerti come il ticchettio di un orologio.

La mano stringeva quel bastone come se ne andasse della propria vita.

Avrebbe dovuto fare appello a tutta la sua forza. Tutta quanta… la sua forza.

Quando aprì il portone d’ingresso, il sole stava ormai sorgendo.
Un solo passo verso l’esterno decretò la fine della sua prigionia.

Il bambino, nel suo ventre, scalciò di gioia.

 

*

 

Sulla strada verso Atlanta, Georgia

 

Un fottutissimo carro armato era il mezzo di trasporto più sicuro ma certo non il più comodo.

“Ehi, sceriffo, un po’ di mal di mare?” quel Sam non sembrava il tipo di persona capace di fare silenzio. Da quando erano partiti non aveva fatto altro che parlare. Delle sue mirabolanti avventure prima di arrivare ad Albany, delle sue fantasmagoriche esperienze di vita prima dell’inizio dell’apocalisse dei marcioni, della sua famiglia, degli anni della sua adolescenza, i dettagli culinari della torta natalizia di nonna Jo e quelli meno aggraziati della perdita della sua verginità.

Se Rogers sembrava accettare le chiacchiere con una sorta di placida rassegnazione, e Coulson cercava persino di rendersi partecipe di quel monologo, interessandosi garbatamente di fare le domande giuste, Maria sembrava sul punto di esplodere o di farlo esplodere ma, cercando l’approvazione dello sceriffo Fury, non aveva fatto altro che trovare un muro fatto di rigidi silenzi e inespressività.

“Credo che stia solo cercando di progettare un omicidio”, fu l’aspra risposta di Maria che sembrava aver raggiunto il limite massimo di sopportazione.

“Woah, è ostilità quella che avverto? Ne sento le vibrazioni fin qui. Che sferzata d’eccitazione.”

“Le uniche vibrazioni che sentirai se non taci saranno quelle delle mie mani sulla tua faccia...” mormorò affinché solo Fury potesse sentirla.

L’uomo si ritrovò, suo malgrado, a sorridere.

In realtà quella scatola fatta di metallo e polvere da sparo proiettava, nella sua mente, una serie di déjà-vu piuttosto fastidiosi. Che avevano popolato sufficientemente i suoi sogni, per diversi anni, dopo la guerra.

“Non credo di aver sentito quello che hai detto agente Hill…”

“Sam…” la voce placida del Capitano Rogers alla guida del colosso, interrupe una discussione sul nascere, “perché non mi ragguagli sulla situazione della carovana?”

L’uomo, riluttante, si arrampicò su per la scaletta con il boccaporto e andò a sbirciare fuori, dove la fila di macchine e il camper che i pochi abitanti di Albany si portavano appresso, li seguiva in processione.

“Dio sia lodato…” l’espressione fu così esasperata e liberatoria che quando si resero conto che era stata niente meno che Coulson a pronunciarla, catalizzò l’attenzione.

“Gli hai imboccato il discorso per tutto il tempo e hai anche il coraggio di lamentarti?” protestò Maria guardandolo con aria stranita.

“E’ che non pensavo andasse avanti così a lungo. Speravo smettesse da solo a un certo punto.”

“Non riesco a capacitarmi di come il Capitano Rogers possa averlo sopportato da solo per tutto questo tempo…”

Rogers sorrise, nonostante tutto.

“Non siate così definitivi nei suoi confronti…” pronunciò a mezza voce, come se avesse paura di offendere la sua sensibilità, anche ora che se ne stava lassù e di lui non si vedevano che gli stivali.

“Le chiacchiere sono un ottimo diversivo alla solitudine. E mi pare che qui ce ne sia  già a sufficienza.”

Fury osservò il profilo dell’uomo. Non era sicuro di averlo ancora inquadrato del tutto, ma di una cosa era certo: da quando erano partiti da Albany il suo umore sembrava migliorato.

Decisamente più di quello di tutto l’equipaggio. Sciorinava anche lezioni di vita da due soldi.

Fury scosse la testa, tornando a guardare i suoi agenti. Grato, se non altro, del fatto che sarebbero arrivato ad Atlanta prima di sera, di quel passo.

Il carro armato a spianare la strada. Un guscio sicuro, traballante, che puzzava di ruggine.

Che cosa avrebbero fatto una volta arrivati? Non ne aveva la più pallida idea. Però aveva fatto un sogno la notte dell’esplosione. Uno di quei sogni che stranamente non aveva dimenticato. Una carovana di persone, ferma, alle porte di Atlanta. Una donna veniva verso di loro, coperta di luce. Una sciocchezza a cui non avrebbe dato la minima importanza solo un paio di mesi prima, ma che adesso sembrava permeata di aura fatale. E poi Atlanta sembrava il tema ricorrente di quella assurda epopea. Dunque perché non spingersi fin laggiù? Dare retta allo stomaco, per una volta tanto? Al peggio avrebbero potuto spostarsi al nord e sperare di trovare un posto abbastanza accogliente da contrastare tutta quella morte.

“Definitivi o meno, sono del parere che a certe persone dovrebbero mettere un interruttore dalla nascita”, commentò Maria, riavviandosi i capelli dal viso.

Ai difetti del carro armato andava aggiunto il fatto che faceva dannatamente caldo, là sotto.

“L’interruttore a chi?” Sam era tornato indietro. La silenziosa tregua già terminata. “Abbiate fede gente, mancano meno di tot miglia ad Atlanta. E la carovana procede rapida e gioiosa sotto il sole della Georgia.”

“Adesso fa anche il poeta.”

“E te la dedico tutta.”

 

*

 

Sulla strada verso Atlanta, Georgia

 

Nuvole all’orizzonte anticipavano la rinfrescante promessa per la fine di quell’afa infernale.

Le lamiere del pick-up sembravano essersi fatte di fuoco. I finestrini abbassati lasciavano filtrare solo bolle d’aria calda che, esplodendo, si condensavano in sudore salato, sulla pelle.

Clint si passò una mano fra i capelli, già scompigliati dal vento.

“Ricordami perché non accendiamo il condizionatore.”

“Perché consuma troppo”, Natasha, al suo fianco al posto di guida, non sembrava cavarsela poi così male. Dopo lo schianto da cui l’avevano recuperata il giorno del loro primo incontro, era convinto fosse una pessima autista.

“Non mi sembra che Stark e compagnia si facciano problemi a riguardo.”

La Acura nera sfrecciava al loro fianco, i finestrini alzati, a dare refrigerio ai passeggeri. Barney, che tanto aveva insistito per poter fare loro da autista (con tanto di vibranti proteste dello spodestato Happy) lo salutò con aria rilassata dall’altra parte del finestrino.

“Stronzo”, gli rispose Clint con tanto di medio alzato, mentre venivano superati senza riserbo per l’autostrada deserta.

Dalla parte opposta, le macchine in fuga da Atlanta bloccavano ogni corsia. Sprazzi di isolate Ganasce a dar vita allo scenario desolante.

“Se loro sono degli sciocchi non significa che devi emularli per non sentirti diverso.” La risposta definitiva di Natasha che non schiodava gli occhi dalla strada.

“No, però almeno non dovresti permettergli di superarci.”

“Non sapevo fosse una gara.”

Clint si infossò nel sedile, allungando una mano fuori dal finestrino.

“Oh andiamo, la strada è deserta, potresti spingere su quell’acceleratore.”

“Già viaggi senza cintura, non vorrai anche trasgredire sul limite di velocità.”

Per un attimo Clint la guardò come se fosse appena uscita di senno. Poi lei gli rivolse uno sguardo che non poteva far altro che confermare quanto fosse stato stupido per esserci cascato.

“Nat, lasciatelo dire, stai peggiorando.”

“Nat?”

“Natasha.” Si corresse, per un istante, convinto avesse fatto una gaffe. Se era pur vero che in quegli ultimi giorni sembrano essere crollati diversi muri, magari quello era un passo un po’ troppo azzardato.

“Non mi ci aveva chiamata mai nessuno così.”

“Sul serio… ?” indagò, prima di poterselo impedire, “ambiente rigido quello in cui sei cresciuta.”

Lei non rispose, e si chiese se non avesse esagerato davvero stavolta.

“Non usavamo diminutivi. Solo nomi in codice, a volte.”

“Nomi in… ?” si tiro su a sedere, voltandosi quasi completamente nella sua direzione, come si aspettasse una spiegazione.

Improvvisamente i sospetti che nascondesse qualcosa di molto complicato si fecero concreti, tangibili.

Se prima non aveva notato alcun mutamento nella sua espressione ora le dita si stringevano con più tenacia al volante.

“Avevi detto che non ti interessava sapere cosa sono stata… prima.”

Clint si trovò a serrare le labbra, colto in flagrante. Non gli interessava? Improvvisamente non ne era poi così tanto sicuro.

“Per fidarmi di te non mi serve di certo…” ci andò cauto, “ma non posso negare che… mi incuriosisce.”

Decise di essere sincero, così come era abituato a fare da sempre. Un atteggiamento che molti trovavano coraggioso, altri solo irritante. Che spesso lo faceva finire nei guai.

“Molte persone tendono a perdere fiducia nei miei confronti quando vengono a sapere determinate cose.” La voce le era uscita ferma e fredda come sempre, ma nel modo in cui seguitava a restare irrigidita al volante e tenere lo sguardo tenacemente puntato alla strada, si rese conto che tranquilla non lo era per niente.

“Io non sono molte persone.”

Il suo ostinato silenzio lo mise a disagio. Tornò silenzioso, deciso a non insistere, guardando fuori dal finestrino, cercando di non cedere alla frustrazione di quella bollente giornata di fine primavera.

“Uccidevo la gente. Per lavoro.”

Clint dovette fare uno sforzo immane per focalizzare su quell’affermazione lanciata nel silenzio. Una strana reazione chimica, sul fondo nello stomaco. Che non sapeva come definire. In bilico fra la paura e il sollievo.

Non si volse però, restò a fissare la strada che si dispiegava di fronte a loro, seguendo con gli occhi il percorso della macchina di Stark e compagnia.

Uccideva la gente. Fantastico. Insomma, chi era lui per giudicare una scelta di vita del genere? Soprattutto se si guardava alle spalle e andava a frugare fra le pieghe dei suoi stessi trascorsi, del suo stesso passato.

Aveva fatto cose di cui non era affatto orgoglioso, altre… che invece gli avevano dato immense soddisfazioni per quanto poco lecite o salubri fossero.

Uccideva la gente… viva. Era un sicario? Lavorava per qualche organizzazione criminale? Aveva davvero importanza, in quel momento?

Insomma, cos’era cambiato? Continuavano ad uccidere gente. Tutti loro adesso.

Gente morta, certo, ma che continuava a camminare sulla terra come se se ne fosse dimenticata.

Alcuni di loro era sicuro che vivi non lo fossero mai stati, nemmeno prima. Si chiese da quando fosse diventato così cinico. Si rispose che forse lo era sempre stato.

“Stavo scherzando…” la voce di Natasha lo raggiunse, per risvegliarlo da quel torpore che lo aveva avvolto, mentre cercava di preparare una reazione degna di questo nome. Una reazione, che stranamente non riusciva a collocare, secondo convenzione. Razionalizzare. Elaborare.

“Oh…” fu tutto quello che riuscì a produrre, non del tutto certo che le parole di Natasha fossero sincere. Forse solo un modo per smorzare i toni di quell’affermazione secca, brutale. La paura di essere giudicata.

“Io sono stato sposato”, non le diede il tempo di confermare o smentire di nuovo. Come se non volesse sentirlo o non gli importasse più. Come se avesse incanalato l’informazione e avesse deciso di accantonarla. Caso chiuso.

Natasha si voltò a guardarlo, l’espressione perplessa di chi non ha colto il paragone o forse lo ha fatto, ma non riesce a elaborarlo a collocarlo in un contesto coerente.

“Che c’è? Sono entrambi cose abbastanza scomode da confessare, no?”

Si trovò a minimizzare l’argomento. E non era nemmeno così certo che lo avesse davvero sconvolto così tanto.

Cinismo aveva detto? Desensibilizzazione, più che altro. E pensare che una volta quella reazione gliela regalava l’alcool. Adesso le Ganasce svolgevano egregiamente quella funzione.

“Non stai scherzando, vero?” le chiese e lui si strinse nelle spalle.

“Assolutamente sì.”

Assolutamente no, per sua sfortuna.

Natasha si infossò un po’ nel sedile, prima di produrre uno strano suono con le labbra.

Stava ridendo. Di nuovo.

“Fantastico, vedo che il cervello non si è fottuto solo al sottoscritto.”

La pressione che avvertì all’improvvisa accelerazione dell’auto, lo mandò a sbattere contro il sedile.

“Wo!” esclamò, tenendosi al finestrino, lanciandole uno sguardo assurdo, “ti assicuro che posso essere una persona seria! Non è necessario che ci fai fuori entrambi!”

“Mi avevi chiesto di andare più veloce ed è quello che sto facendo”, gli arrivò in tutta risposta, mentre affiancavano la macchina di Stark e Barney li guardava dal finestrino, perplesso.

Li superarono l’istante successivo con l’ennesima sgasata, avvolgendo la Acura di fumo nero.

“Beccati questo, Barney!” gridò prima di poterselo impedire.

E improvvisamente realizzò che quello sfogo, fu un po’ come lasciarsi definitivamente quello scomodo passato alle spalle.

 

*

Strada verso Atlanta, Georgia

 

Non era sicuro di aver capito come fosse finito in quella situazione. A bordo di una mustang scassata che sicuramente aveva visto giorni migliori… negli anni 70, però.

Spalla a spalla con quel professore dall’aria tutt’altro che lucida e dietro di loro una ragazza tutta capelli fluenti che vantava una brillante carriera scientifica.

Cosa le servisse ora, in quel contesto apocalittico, non gli era risultato del tutto chiaro. Non finché il professor Selvig, quella stessa mattina, durante una colazione a base di bacche e cereali raffermi, aveva esordito con una frase ambigua e terrificante al tempo stesso.

“Stiamo cercando di scoprire una cura a questa… epidemia.”

Una cura.

Una cura a un’epidemia di morti viventi.

Certo averlo saputo prima, un nobel non glielo avrebbe negato nessuno. A conti fatti, Loki si chiese che cosa avrebbero potuto salvare ormai.

“Potremmo curare le persone che vengono morse.”

La risposta aveva un che di commovente.

“O cercare di capire come guarire chi è già stato infettato.”

Questa aveva il sapore della fantascienza da quattro soldi.

“Cerchiamo si essere razionali”, non era riuscito a non esordire, fissando il professore con aria scettica, “avete visto anche voi cosa fa alla gente, questo… virus. Non c’è modo di far rinsavire queste persone. Tanto più che, considerando l’ipotesi della guarigione… questo farebbe di noi solo un branco di feroci assassini.”

La frase aveva avuto il potere di far cedere persino la mastodontica carcassa di Thor. Certo un omone più sensibile di quanto si sarebbe potuto dire, guardando attraverso quelle iridi e pupille, apparentemente prive di sano intelletto.

Mentre era riuscita a smuovere qualcosa di inquietante in Sif, che adesso aveva preso a fissarlo, se possibile, con il doppio della ferocia che gli aveva riservato fino a quella stessa mattina.

Si chiese se non fosse connesso al fatto di aver spaventato il suo povero fidanzato.

Bene. Il problema adesso - posto che si credesse a quella inquietante panzana - era fare i conti con la possibilità di tornare a vivere in un mondo… normale.

Con il piccolo, non trascurabile problema, di dover convivere con pochi, selezionati esseri umani. Senza possibilità di scelta.

In realtà era ben consapevole di avere ben più di una possibilità di scegliere. Una su tutte l’esilio volontario. La solitudine.

Ma aveva rinunciato a quella il giorno stesso in cui si era affidato a quel branco di centauri ignoranti. Dopo giorni passati a spinte di solitudine e spirito di sopravvivenza.

Ipotesi da scartare.

Si chiese dunque cosa avrebbe potuto fare, se non cedere a quella forzata convivenza, sperando di essere abbastanza credibile da mantenere la facciata.

Aveva pensato molte volte a quella specie di capacità empatica che aveva scoperto di avere…

Un pensiero fisso, al quale non riusciva ad abituarsi. Ma che aveva preso a considerare secondo un’altra prospettiva.

Insomma… un essere umano in grado di prevedere l’arrivo di quei morti viventi.

Una possibilità di salvezza, certo, ma anche un’opportunità da sfruttare.

Chi non avrebbe pagato per una capacità simile?

Un dono… simile.

Dei soldi non se ne sarebbe fatto niente di quei tempi, ma avrebbe potuto attirare a sé sempre un più nutrito gruppo di… seguaci, adepti.

Sarebbero dipesi da lui. Dalle sue intuizioni.

Pur di non perderlo avrebbero fatto di tutto per mantenerlo in forze, vivo. Avrebbero provveduto al suo benessere fisico e mentale.

Non è così che si comportano i sudditi con un… leader?

Il pensiero era via via diventato più forte, più vivido. Inebriante.

E se anche continuava ad essere scettico a riguardo, sembrava prendere forma e divenire quasi concreto. Come qualcosa che in futuro gli avrebbe dato tutto il riconoscimento meritato in passato. Con altre forme, modalità, ma pur sempre per un valore acquisito.

E adesso quel professore confuso veniva a promettere una cura. Una cura al mondo.

Che se ne sarebbe fatto di quel suo dono se gli avessero tolto i morti viventi?

Il pensiero non aveva fatto altro che tormentarlo da quando erano partiti per Atlanta.

E improvvisamente si era reso conto di tenere a quel suo dono più di quanto avesse mai tenuto a qualcosa in vita sua. E il pensiero di esserne defraudato cominciò a divenire un tormento nebuloso in grado di spingere contro le pareti del suo stomaco. Una sensazione che gli ricordò quella stessa impotenza che aveva provato il giorno dell’omicidio.

Qualcosa di feroce, inspiegabile, ferino.

Guardare il professore e quella sua scienziata era un po’ come osservare nuovamente nelle voragini di un fallimento imminente. E l’idea di accompagnarli nella riuscita di questa promettente impresa suonava come spingere nella direzione opposta a quella che si era prefisso.

“Cos’hai detto che facevi, prima di finire in questa situazione?” furono le parole della ragazza, quella Jane, a risvegliarlo dal macchinare qualcosa che ancora non era che un embrione, nella sua mente.

Si volse a guardare verso i sedili posteriori, dove la ragazza sedeva. I capelli scompigliati dal vento, le danzavano attorno al viso. Per un attimo la trovò gradevole.

“Non l’ho detto.” Rispose solo, prima di voltarsi di nuovo. L’aria di chi non ha alcuna intenzione di sbottonarsi.

“E quel Donald e la sua… fidanzata… che facevano?”

La sua fidanzata. Se aveva capito le dinamiche dei due individui, sebbene la tensione sessuale fosse palesemente alle stelle, sembrava improbabile esplodesse in qualcosa di concreto.

Volse la testa al finestrino a cercare con lo sguardo i due su quelle grosse moto che si portavano appresso. Le mire della ragazza Jane avevano puntato lì sin dall’inizio. Non aveva intenzione di assecondare una conversazione che non le interessava più di quanto non interessasse a lui.

“Non sono fidanzati, dottoressa Jane…” disse solo, sentendo qualcosa aprirsi nella sua testa.

Un gruppo non è solido se si instaurano dubbi e rivalità.

E per quanto non ne capisse di intrighi sentimentali, non aveva intenzione di rendere facile quel viaggio. Sempre meglio di una decisione troppo drastica.

 

*

 

Atlanta, Georgia

 

Betty sentì le gambe cedere.

Il sudore le imbrattava la fronte, il viso, la schiena. Il battito del cuore era accelerato. Il suono del suo respiro sovrastava quello dei ruggiti del mostro che, lo sapeva, le era alle calcagna.

Continuò a camminare, tenendo la mano su quella pancia prominente.

Pochi passi. Pochi passi ancora e sarebbe arrivata alla statale.

Per una coincidenza divina o terrena era riuscita ad evitare qualsiasi ostacolo.

Gli occhi fermi all’obiettivo. A pararsi dagli orrori, dalla desolazione. Per non cedere alla tentazione di guardarsi attorno e scoprire che tutto quello che aveva sempre conosciuto era ormai mutato, per sempre.

La mano stringeva ancora quel bastone, sapeva non sarebbe arrivata troppo distante. Ma non mollava, non poteva permetterselo. Sarebbe arrivata finché le forze glielo avrebbero concesso. Senza pensare a un futuro più lontano del suo passo successivo.

Quando sentì aprirsi le acque, credette di aver solo freddo.

Quando la prima contrazione spinse per guadagnarsi la sua attenzione, comprese freddamente, lucidamente che la sua fuga era giunta al termine.

L’accettazione arrivò così rapida e brutale, da non darle nemmeno il tempo di pensare alle conseguenze.

Si piegò sulle ginocchia e tutto quello che le venne in mente furono tutti quei corsi pre parto che Bruce aveva insistito per farle frequentare.

Non devi avere paura – le aveva detto – ci saranno infermiere e dottori, pronti ad aiutarti a far andare tutto per il meglio.

Infermieri e dottori.

Infermieri... e zombie.

Dottori e... grida.

La seconda contrazione la scosse dalle fondamenta. Il bambino voleva conoscere quel mondo che a lei faceva tanta paura.

E mentre l'angoscia, la desolazione di non potergli permettere tutto il meglio che si era sempre augurata di potergli regalare si faceva strada come un cancro nella sua testa...

Infermieri, dottori... e rombi di motori.

Infermieri... e fumo.

Dottori e... grida.

Quando alzò lo sguardo, con le lacrime che le affioravano dagli occhi in una supplica, di fronte a lei si dispiegò la scena più assurda, che per un attimo volle pensare come alla definitiva conquista di uno stato di follia: un pick-up, una Acura, due Harley, una mustang... e quello che aveva tutta l'aria di essere un... carro armato.

___

 

Note:

Mi sembra passato un secolo da quando ho aggiornato l’ultima volta questa storia. E prima di dire qualsiasi altra cosa, voglio soprattutto fare le mie scuse ai lettori che la seguivano. Vicissitudini di vita vissuta, cali d’ispirazioni che mi impedivano di portare avanti una storia simile mi hanno frenata per un bel po’. Diciamo che la mia intenzione è quella di non lasciarla a metà. Odio lasciare le cose a metà. Perciò non assicuro aggiornamenti costanti, ma per chi avesse intenzione di continuare a seguirmi, insomma, abbiate fede. Sarò una metafora della storia della lepre e la tartaruga. Arriverò al traguardo. Con i miei tempi. Ringrazio chiunque sia ancora là fuori all’ascolto. E chiunque ancora sia interessato a seguire quello che accadrà (beta socia compresa). Io… speriamo che me la cavo. A presto.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10

 

Il sangue e il coraggio s'infiammano di più a risvegliar un leone, cha a dar la caccia a un timido daino.

(Enrico IV – William Shakespeare)

 

 

*

 

Atlanta

 

“Pigia su quell’acceleratore!”

La voce di Clint cominciava a darle sui nervi. Non fosse stato per la gravità della situazione, Natasha non ci avrebbe messo molto a mandarlo al diavolo.

Solo che si trovava a fare i conti con un paio di non trascurabili priorità: una donna in procinto di partorire seduta sul retro del pick-up. E un mostruoso essere all’inseguimento.

No, non una di quelle Ganasce che ormai aveva imparato conoscere. Ma qualcosa che sembrava essere spuntato direttamente dalle profondità dell’inferno. Enorme, mostruoso, irreale. Verde.

Sommare rigorosamente gli avvenimenti di quegli ultimi minuti, avrebbe fatto vacillare le menti più audaci.

Per questo aveva deciso di razionalizzare. E di agire.

Di accantonare per un momento l’idea di essere circondata da persone. Vive. Dopo settimane di solitudine.

Di scendere dal pick-up per raccogliere da terra la donna sola, spaurita.

Un paio di uomini dal carro armato avevano gridato che avrebbero loro coperto le spalle.

Le altre macchine e le due motociclette avevano preso a seguirli a formare una barriera apparentemente inespugnabile.

Come se si fosse creata una sorta di magica empatia capace di suggerire a tutti cosa fare per portare a termine l’impresa.

Mentre i ruggiti di quel mostro…

Alzò il volume dell’autoradio.

Le note di una ballata riempirono l’abitacolo, rendendo il tutto ancor più surreale.

“Natasha!” se Clint non avesse smesso di urlare…

Serrò le labbra, mentre lo stomaco aveva preso a tamburellare come avesse in pancia un nano malefico e dispettoso.

Sicura, in parte, che fosse solo il rimbombo dei grossi piedi di quel gigante verde a scandire l’accelerazione.


*

 

Spingi… quando senti la prossima contrazione, devi spingere.”

 

*

 

Forse era solo qualcosa che aveva mangiato per colazione.

O almeno era quello che si augurava.

Peccato che quel mostro gigantesco fosse reale tanto quanto il fatto che aveva perso il suo occhio sinistro.

O forse era solo un’allucinazione dovuta a un infarto imminente.

Perché era certo di aver sentito vacillare il suo cuore, quando si era trovato di fronte quella donna.

La stessa identica donna del suo sogno.

Certo non veniva verso di loro circondata d’aura mistica, ma di sicuro era un’immagine che non si poteva ignorare.

Sorprendersi di essersi trovato circondato da auto era solo una postilla conclusiva a quella giornata pazzesca. Che non arrivassero da Atlanta o da qualche oasi miracolosa era ormai appurato.

Atlanta era l’inferno. E il demonio si presentava dinnanzi ai loro occhi nella forma peggiore.

Rogers stava spingendo il carro armato a tutta velocità sulla statale, cercando di evitare l’attacco di quel titano dalla pelle verde.

Un altro pessimo esperimento a seguito del lancio di quel virus nocivo o un’evoluzione dei morti viventi?

Non era sicuro lo interessasse. Ciò di cui era assolutamente certo, era il sollievo di essere ancora in grado di stupirsi, nonostante tutto.

 

*

 

B-Bruce… che fine ha f-fatto Bruce?”

Chi è Bruce?”

Bruce non è qui. Spingi!” 

*


Loki si trovò a pensare che non avrebbe retto al dolore che aveva preso a riverberarsi dalla testa ai piedi.

Ondate senza tregua gli procuravano spasmi incontrollabili.

Jane cercava di tenerlo fermo, mentre il professor Selvig guidava a tutta birra quella sua Mustang da due soldi, tenendo testa al pick-up che portava la donna.

Quel mostro. Quel mostro spaventoso. Aveva appena avuto il tempo di gridare a tutti di scappare, prima che lo vedessero correr loro incontro con rapidità e ferocia.

Eppure in quel volto raccapricciante, la sua empatia gli suggeriva che non c’era niente di prettamente selvaggio in quell’attacco.

Il viso della donna, sofferente e docile, gli aveva regalato sensazioni che non provava da tempo. Qualcosa che riusciva a calmare l’ira irrazionale che aveva preso a stringergli lo sterno.

Come sentisse, profondamente, le stesse identiche sensazioni di quell’essere ingestibile.

“La donna…” esalò, sentendo qualcosa muoversi nelle sue viscere, i muscoli contratti, come pronti a esplodere, uno dopo l’altro, a trasformarsi.

“E’ la donna che vuole.”

“Che dice? Che sta dicendo?” quello stupido Selvig. Cosa diavolo c’era da capire?

“Dice che vuole la donna. Delira.”

La professoressa Jane non sembrava comprendere nemmeno lei la portata delle sue parole.

Sciocchi. Sciocchi scienziati. Geniali sulle intuizioni scientifiche, disastrosi su quelle sovrannaturali.

Il mostro verde avrebbe dato di tutto pur di riavere la donna. Disposto a spazzare via l’intera razza umana, pur di riprenderla.

“Fermatevi. Fermatevi…” un sussurro appena abbozzato che nessuno, in quella macchina era disposto ad assecondare.

Fu solo quando Stark si affacciò alla sua Acura con quello che sembrava un guantone di metallo, che Loki sentì i timpani lacerarsi.

 

*


Vedo la testa!”

Fuori, tutti fuori! Non ha bisogno di tutto questo pubblico!”

 

*

 

“Si sta fermando!” gridò Tony, osservando la retrocessione del gigante verde, nemmeno stesse assistendo a una partita di football durante il Super Bowl.

Quel suo guantone, doveva ammetterlo, era un portento. E dire che lo aveva creato su un’intuizione. Nessuna riprova scientifica prima di sperimentarlo.

Dunque… anche quel mostro verde faceva parte della categoria dei DM. O… come era solito chiamarli Barney?

Ganasce?

Un nomignolo che, si trovò a pensare, avrebbe voluto inventare lui stesso.

Non che la cosa gli avrebbe dato un qualsivoglia riconoscimento, ma una gran bella soddisfazione personale però sì.

Rimase con mezzo busto fuori dal finestrino il tempo di rendersi conto che il gigante era inginocchiato a terra, le mani sulle orecchie, a contrastare quell’insopportabile ultrasuono.

Un gesto tanto umano, quanto inconcepibile.

I DM del tunnel erano semplicemente scappati come un’orda di armenti impazziti; non si erano comportati in quel modo.

Che fosse un’evoluzione più intelligente di quel branco di cervelli di gallina?

Se per un attimo sembrò preoccuparsi della cosa, mentre nella sua mente si aprivano mille e più spaventose alternative a quell’epidemia, la accantonò nell’attimo esatto in cui realizzò, suo malgrado, che non vi era alcun centro di recupero ad Atlanta. Nessun campo di cura.

Niente di niente.

Rientrò nell’abitacolo affiancando Pepper che sbirciava atterrita dal lunotto posteriore.

“Lo hai fermato?” la sentì mormorare, indebolita e fragile come mai l’aveva percepita in quegli ultimi giorni.

“Sì.” Disse solo, prima di avvolgerla in un abbraccio che sapeva di sconforto.

 

*

 

Un’ultima spinta. Sei bravissima.”

E’… è una femmina!”

 

*

 

 

“Dove hai imparato ad aiutare le donne a mettere al mondo bambini?”

La domanda non era esattamente una di quelle che era solito sentirsi rivolgere.

Clint si volse in direzione di Natasha che sembrava abbastanza provata da quella rocambolesca fuga. Più di quanto fosse abituato a vederla. Forse come l’aveva vista il giorno in cui, al limite fisico di sopportazione, l’avevano estratta dal suo pick-up incidentato.

“Vivevo in una fattoria. Ho aiutato mio padre a far nascere vitelli da quando ero un ragazzino.”

“Wow… lusinghiero come paragone.”

Alzarono lo sguardo entrambi, quando una delle donne del gruppo sul carro armato venne verso di loro.

Erano fuggiti da Atlanta per trovarsi, dopo mezz’ora di viaggio, in quello che sembrava un villaggio abbastanza sicuro da conceder loro una tregua.

Una fattoria ai limiti della città aveva catalizzato l’attenzione di tutti. Nessuno sembrava aver niente in contrario a una sosta. Non dopo quell’adrenalinica fuga, comunque.

Il tempo di verificare che non ci fossero spiacevoli sorprese e si erano tutti attivati per rendere confortevole il parto della donna. Che, da quanto urlava, sembrava in procinto di esplodere.

Era troppo debole. Clint se ne era reso conto immediatamente.

Eppure non c’era altro modo che spingerla a concludere con meno danni possibili quell’impresa.

Clint, in prima fila fin dall’inizio, più perché ci si era trovato nella situazione che non per esplicita richiesta di partecipazione. Affiancato da una ragazza che si diceva una scienziata. Che ne capiva certo più di formule chimiche che duro lavoro sul campo, ma che, se non altro, sembrava comprendere le esigenze della gestante.

E dare direttive giuste alla donna.

Betty. Così aveva detto di chiamarsi. Chi fosse, che ci facesse da sola ad Atlanta, come avesse fatto a sopravvivere in quelle condizioni in una città morta come i suoi abitanti… spiegazioni che avrebbero dovuto attendere il loro turno.

Il parto era avvenuto con una rapidità quasi sconcertante. E Clint fu certo di non voler più guardare fra le gambe di una donna per molto… moltissimo tempo.

“Come sta Betty?” si interessò immediatamente, asciugandosi le mani. L’acqua del pozzo della proprietà era il primo vero contatto che aveva da giorni con la pulizia. E ne fu veramente grato dopo quell'incontro ravvicinato con quello che sembrava un film splatter anni novanta.

“Sta riposando.”

“La bambina?”

“Anche.”

Natasha sembrava studiare la donna con aria calcolatrice. Il fatto che l’incontro con quel nutrito gruppo di persone fosse avvenuto in circostanze tanto singolari aveva permesso loro di mettere da parte tutte quelle stronzate sulla fiducia. Il modo in cui si erano raccolti attorno alla donna incinta, metteva in chiaro, praticamente da subito, gli intenti affatto bellici di quella variegata fauna.

Avrebbero avuto tempo e modo di conoscersi e prendere le dovute… precauzioni.

Riorganizzarsi.

“Comunque mi chiamo Maria.” Si presentò questa, allungando una mano, apparentemente per nulla disgustata di sapere dove fossero state infilate le sue, fino a qualche minuto prima.

“Clint… Clint Barton. E lei è Natasha.”

La donna sembrò registrare i nomi, prima di tornare seria, come se quella fosse l’unica espressione sincera che riuscisse a sfoggiare.

“Ha parlato di nuovo di un certo Bruce…” li mise al corrente, un guizzo di vago turbamento nello sguardo.

“Il marito?”

“Sì. E… non solo.”

“Che significa: non solo?”

“Significa che… dio, non lo so se si tratta solo delle parole deliranti date dalla stanchezza ma… sembrava piuttosto decisa a farci capire che il gigante verde è Bruce.”

“Si è accoppiata con un gigante verde?!” Clint si volse giusto il tempo di vedere Barney raggiungere l’approssimativo trio.

Non si vergognò a pensare che uno strappo alla tensione fosse tutto ciò che gli serviva in quel momento.

“No. Dice che… era uno scienziato ai laboratori di Atlanta. Ha parlato di una trasformazione. Ha parlato di… credo sia meglio interrogarla quando sarà più lucida.”

“Interrogarla? Come si vede che sei un’agente di polizia, bellezza.”

Maria scoccò a Barney uno sguardo che aveva un che di assassino.

Interrogarla o meno, il quesito si faceva quantomeno interessante. Uno scienziato? Dei laboratori di Atlanta? Quindi era qualcuno che lavorava al progetto astruso che aveva creato quel delirio mondiale?

“Il segalino carcerato è ancora svenuto…” intervenne di nuovo Barney a interrompere le sue elucubrazioni.

“Il tizio che viaggiava con gli scienziati?”

“Proprio. Non sembrava in forma nemmeno prima, a sentir loro, ma woah, è pallido come un lenzuolo e continua a mormorare frasi sconnesse.”

Natasha fece una smorfia e Clint capì che c’era qualcosa che non le tornava.

“Dovremmo organizzare questo posto. Siamo abbastanza per poterci permettere una buona protezione.”

“Ho già parlato con lo sceriffo Fury…”

“Il tizio con la benda da pirata?” di nuovo Barney.

Maria si limitò ad annuire. A giudicare dal modo in cui non lo guardava sembrava averlo già preso in antipatia.

“Ha chiesto di trovarci tutti in cortile fra poco… per… una riunione.”

Clint non riuscì a trattenere un sorriso strano all’allusione.

Una riunione era una di quelle parole che credeva non avrebbe più sentito per un bel pezzo.

Era cambiato tutto nell’arco di una manciata di ore e ancora faceva fatica a realizzarlo.

Eppure era sicuro di non essersi sentito a disagio un solo istante dacché era entrato in contatto con altri esseri… umani.

Quella strampalata connessione che li aveva guidati senza indugio nella stessa direzione. A seguire l’istinto che diceva loro di scappare, assicurando l’incolumità della donna.

Inspiegabile, eppure così dannatamente distensivo.

Un po’ come tornare ad una prospettiva più umana. Corale.

Quando Maria li congedò nuovamente pensò bene che quella fattoria, se sfruttata a dovere, avrebbe potuto essere un buon punto per… cominciare qualcosa.

Atlanta, per quanto lo riguardava, ormai era un sogno demolito. C’era solo da approfondire… in modo pratico quell’informazione sul gigante verde.

“Stark mi ha chiesto se andiamo a dargli una mano con l’impianto idraulico.” Barney lo riportò a una dimensione ancora più quotidiana.

“Pensa di poterlo sistemare?”

“Perché no? Ha inventato un sistema repellente per Ganasce da un guantone di metallo… se quello decide di farci cagare banconote da cento, io gli credo.”

“Avevo dimenticato quanto potessero essere poetiche le tue metafore.”

Barney rise, una di quelle risate liberatorie come non gliene sentiva fare da tempo. L’idea di essere di nuovo circondato da gente, o anche solo da un potenziale pubblico lo metteva di buon umore. Aveva sempre amato la compagnia. Più di lui sicuramente.

“Adesso arrivo. Dammi il tempo di rimettermi in sesto.”

“Lo capisco. Non sei più abituato a stare fra le cosce di una donna, ah?” gli diede una manata sulla schiena e strizzò l’occhio a Natasha, “io dico dovremmo aiutarlo con una rinfrescatina.”

L’allusione gli procurò un sospiro non richiesto e allungò una gamba per tirargli un calcio che Barney evitò, fuggendo alla grande.

“Coglione”, commentò solo, schiarendosi la voce alla sola sensazione di avere lo sguardo di Natasha puntato addosso. “Non voleva dire niente…” aggiunse a una domanda mai posta. Come ad assicurarsi che non la prendesse a male.

La ragazza si limitò a superarlo.

“Non è il suo parere che mi interessa…” disse cripticamente, lanciandogli un’unica, diretta occhiata.

Se Clint avvertì un bizzarro rimescolio allo stomaco, decise di associarlo al fatto che forse erano successe un po’ troppe cose per una singola giornata di sole.

 

___

 

Note:

E il nostro Bruce Banner è diventato papà! Viva Bruce e viva Betty. Mai come in questo periodo sento di amare questa coppia che nell'MCU (e in Age of Ultron in particolare) è stata annientata, dimenticata e rimpiazzata.

Se sembro arrabbiata è perché lo sono. STUPIDOJOSSWHEDON.

Ma andiamo oltre. Che cosa succederà adesso? Bè, ora che sono tutti uniti comincerà la vera interazione collettiva. E ne vedremo delle belle. O delle brutte.
A tutti quanti ancora mi seguono e commentano sin dall'inizio li ringrazio. E li rincuoro. Ho ripreso a scrivere a un ritmo decente. Alla mia beta sclero socia, dico grazie (per questo e per il supporto psicologico di questi giorni. Stupidojosswhedon e l'hashtag del momento). A tutti gli altri (che magari si infilano solo a leggere le “interessantissime” note finali) sappiate che tartasserò la storia infilandoci Clint Barton, ovunque. Me lo lasciano indietro dalle promozioni dei film, ci penso io a rompere le palle. Ed è tutto. A prestissimo!

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11

 

“Sarei curioso di sapere che cosa gli uomini temono più di tutto. Fare un passo nuovo, dire una parola propria li spaventa al massimo grado.”

(Delitto e Castigo - Fëdor Dostoevskij)

 

*

 

Nick Fury non si era mai definito uno da sguardo benevolo sull’universo.

Ma doveva ammettere che aveva un che di rilassante stare ad osservare tutto il fermento che si era attivato in quei giorni, alla fattoria.

La piccola comunità di Albany in trasferta si era guadagnata un certo numero di nuovi elementi. Tutti piuttosto attivi e desiderosi di donare il proprio contributo al benessere generale.

La riunione che tanto si era raccomandato di fare non era stata altro che un’idea del buon Coulson, che sembrava aver bisogno di inquadrare la faccenda nel modo più pratico e meno doloroso possibile.

Il fatto che proprio lui, Nicholas J. Fury, fosse stato eletto all’unanimità nuovo padre spirituale della comunità tutta, lo attribuì solamente a un fattore d’età. E la cosa, nonostante gli facesse girare le palle, per motivi inutili persino da spiegare, dall’altra lo toglieva dall’impiccio di doversi sorbire le potenziali lotte interne tra quei quattro galletti che gli era sembrato di individuare fra le file estranee.

Un tipo come Stark per esempio, che quando prendeva la parola sembrava sentisse la necessità fisica di infilarci dentro qualche scettica battuta di dubbio gusto. Il Capitano Rogers pareva a malapena tollerarlo, così come sembrava esser d’accordo con lui il gigante biondo con la moto che si era accompagnato a quella donna dallo sguardo truce.

Nessuno di loro però gli aveva dato l’energia negativa sufficiente a preoccuparlo.

Nemmeno i due fratelli e la ragazza tutta muscoli che, a parte qualche slancio di goliardia del grossolano fratello rosso, stavano sulle loro e lavoravano sodo.

Non quanta ne aveva percepita al cospetto dell’unico elemento del gruppo che fuggiva alle attività collettive della neonata comunità. Loki, come lo aveva chiamato il centauro biondo. A letto da due giorni, steso da lancinanti mal di testa. Parlava nel sonno e blaterava di morti viventi.

Lo avevano relegato in un’ala della casa lontano dal resto del gruppo.

Appurato che non fosse affetto dallo stato febbrile che precedeva l’atroce trasformazione, non restava che sperare che riuscisse a superare il disagio che lo teneva disancorato dalla realtà. Fury si era persino stupito di non aver trovato un numero più consistente di esseri umani sull’orlo della follia dopo l’avvento di quell’approssimativa fine del mondo. Un caso isolato che quasi lo rincuorava.

 

Un vagito alle sue spalle lo costrinse a distogliere lo sguardo – benevolo o meno – dal cortile dove si stavano affaccendando alcuni vecchi membri della comunità di Albany.

Betty usciva dalla porticina laterale, che dava sul portico sgangherato, in parte sradicato da qualche passata tempesta estiva.

“Non sono sicuro dovresti essere già in piedi.” La rimproverò bonariamente, ritrovandosi a scrutarla  intensamente, ancora incredulo per quanto il suo sogno fosse stato accurato nel descrivergli la donna.

I lunghi capelli castani, gli occhi grigi, vivaci e le labbra carnose. L’incarnato pallido dall’aria così pura da sembrare una di quelle nobildonne nei quadri rinascimentali. La bambina si agitava fra le sue braccia, le manine ad afferrare l’aria.

Incredibile come fosse riuscita a superare il parto senza incidenti. Come se l’avvenimento fosse stato previsto per quel tempo e in quel luogo. E che loro tutti avessero finito per ritrovarsi ad Atlanta, nello stesso identico momento, per portare a termine quell’inconsapevole missione.

La bambina rappresentava, di fatto, un piccolo miracolo. Non che Fury fosse incline a credere ai miracoli, ma gli avvenimenti di quegli ultimi giorni erano stati sufficienti a far crollare giusto un paio di granitiche convinzioni.

A partire da quella di credere che i sogni premonitori fossero solo stronzate.

Non si era però azzardato a raccontarlo ad anima viva. Aveva ancora una parvenza di serietà da mantenere intatta, dopotutto.

“Volevo provare a fare due passi… c’è ancora odore di muffa, dentro…” gli rispose la donna con un sorriso tutt’altro che incline ad essere smorzato, “pensavo alla bambina avrebbe fatto bene respirare un po’ d’aria buona.”

Fury non ebbe nulla da obiettare ma si vide costretto a farle spazio, come riflesso incondizionato, permettendole di godere della sua stessa vista.

 

Avevano finito per organizzarsi ad una velocità che aveva dello straordinario.

Attorno al grande cortile, delimitato da staccionate in parte divelte, erano state posizionate le macchine come a formare una sorta di recinzione al limite del viale alberato. Abbastanza raggiungibili per guadagnare una rapida fuga, ma sufficientemente lontane per permettere di organizzare la vita all’interno del confine.

Alcuni vestiti erano stati appesi a lunghe funi sistemate fra un albero e l'altro, un grosso barbecue in fase di restauro trovava il suo spazio in mezzo a un’improvvisata cucina all’aperto.

Nel fienile, su uno dei lati della grossa abitazione, avevano finito per trovare scorte che avrebbero consentito a tutti di tirare avanti per un paio di settimane almeno. E una buona dose di armi da fuoco e munizioni.

Come se i vecchi proprietari della fattoria si fossero preparati all’evento. Pronti a barricarsi all’interno di quel loro fortino all’apparenza inespugnabile. Che fine avessero fatto tutti, però, non era dato saperlo. Non ancora almeno.

Sembrava quasi la fattoria fosse stata abbandonata in gran fretta, da un giorno all’altro. Forse per seguire quel fasullo segnale dei media che decantavano le lodi Atlanta. E le sue prodigiose promesse di… nulla.

Atlanta. Non una gran delusione la scoperta che non si trattava di quell’oasi paradisiaca che tutti si erano attesi.

“Mi piace questo posto.” La sentì commentare. Il colorito roseo delle sue guance andava a disperdersi sulle gote, restituendole un’aria decisamente più sana di quella di un paio di giorni prima.

“Meglio questo buco di Atlanta, suppongo.” Si trovò a commentare decisamente fuori tempo, per poi costringersi a guardarla con aria di scuse che però, vista da fuori, sembrava più promettere una minaccia.

“Qualsiasi posto è meglio di Atlanta al momento.”

Si trovò a pensare alle settimane di assoluta solitudine cui doveva esser stata costretta prima di decidersi a progettare una fuga di fortuna. E di nuovo quel prodigio che li aveva visti unirsi per portarla in salvo.

“Ho sentito dire che il Capitano Rogers vorrebbe tornarci…”

Fury si trovò a inarcare un sopracciglio, perplesso da quella fuga di informazioni.

“E’ una delle ipotesi”, non si sentì però di smentirla o peggio tacerle la cosa. “A quanto pare il professor Selvig sarebbe pronto a seguirlo per raggiungere i laboratori di ricerca… dove… si suppone che questa epidemia sia cominciata.”

Betty gli rivolse uno sguardo fra l’atterrito e il consapevole. Come fosse combattuta sul convincerli a lasciar perdere l’intento e al contempo spingerli esattamente in quella direzione.

Aveva raccontato loro tutto quanto sapeva sui laboratori.

Del progetto del governo che suo marito stava portando avanti da qualche mese a quella parte, prima dell’inizio dell'epidemia. Di come, straordinariamente, si fosse poi trasformato in quel gigante verde che niente sembrava aver a che fare con i… come li chiamavano adesso gli sconosciuti? Galosce. DB. OG…

In qualsiasi modo li volessero definire sempre di morti marcescenti si trattava. Niente a che vedere con la trasformazione mostruosa del presunto marito della povera ragazza.

“Quel posto è maledetto.” La sentì pronunciare con un tale fervore che quasi si sentì in colpa a pensare che purtroppo non si trattava di una sciocca superstizione, ma di un abominio reale.

“Pensate davvero che possa esistere una… cura?”

Fury non era sicuro di avere un'opinione a riguardo. Ma il modo in cui la donna stringeva a sé la bambina e improvvisamente lo fissava come alla ricerca di un assenso, lo costrinse per la prima volta in vita sua a tessere una frase di consolazione e speranza.

“Penso che la questione valga almeno il tentativo.”

“Tornerò anche io ad Atlanta.”

“Con tutto il rispetto ma… non credo sia una buona idea.” La dovette interrompere, certo che fossero ancora gli ormoni a dettare legge.

Stavolta non c’era supplica o timore nello sguardo di lei, ma una rispettosa determinazione: “Ci vivevo laggiù”, esalò definitiva, come se fosse sufficiente a spiegare la sua decisione, “so come muovermi in città. E conosco i laboratori meglio di chiunque altro qui.”

“Questo non lo metto in dubbio ma se ci dovessimo di nuovo trovare faccia a faccia con…” quel mostro verde dall’aria distruttrice, “tuo marito?”

Betty per la prima volta gli rivolse un sorriso.

“Sarei la vostra assicurazione sulla vita.”

Fury non seppe esattamente come mai avesse accettato così a cuor leggero quella giustificazione, ma di fatto fu un po’ quello che si trovò a fare. Scosse la testa, le mani ancorate al decadente parapetto della veranda, a guardare l’autista di Stark che appendeva calzini e mutande a uno dei fili in mezzo al giardino, come una buona massaia.

“La questione non verrà nemmeno discussa, finché non ti sarai ripresa del tutto.” Le concesse, non seppe se per tranquillizzarla o solo per rimandare davvero la faccenda.

La bambina emise un versetto che sembrò approvare quella decisione.

“Hai deciso che nome darle?” deviò l’argomento, anche se di nomi in giro ne aveva sentiti tanti da procurargli solo un gran mal di testa. A partire da quelli di Stark e del maggiore dei Barton che sembravano averne fatta quasi una questione personale.

Ma Betty scosse il capo.

“Bruce era sicuro che ci sarebbe venuto in mente qualcosa il giorno in cui l’avremmo vista nascere…”

Fury non insistette.

A giudicare dal  modo in cui aveva evitato di rispondere direttamente, sembrava del tutto intenzionata ad aspettare il marito per prendere quella definitiva decisione.

Non ebbe cuore di provare a smentire quella speranza.

Anche perché improvvisamente un grido smorzò la tranquillità di quel pomeriggio di fine primavera.

 

*

 

“Funziona! Cazzo, funziona!” Barney non si era risparmiato di manifestare in modo più o meno vocale il suo più vivido entusiasmo per l’evento della settimana.

Stark era riuscito a sistemare le tubature che tutti davano per spacciate, con quella sua genialità che cadeva a fagiolo in uno scenario tanto desolante.

Gli zampilli del lavandino avevano preso a scintillar gioiosi per la stanza da bagno e nessuno dei presenti si lamentò degli schizzi sul pavimento.

Clint si era seduto sulla tazza del water con un’espressione di pura beatitudine dipinta in viso.

Felice di constatare, per una volta tanto, che allora era servito a qualcosa arrangiarsi per tutta una vita fra lavori manuali di varia natura prima di approdare alla pseudo criminalità.

L’entusiasmo si era prolungato tanto a lungo che persino Benda Nera Fury e Banda Carro Armato tutta erano venuti ad assistere al miracolo.

Quello che chiamavano Capitano si era persino avventurato allegramente sulle mattonelle scivolose, più che determinato a stringere la mano ai fautori di quel prodigio che, nella vita passata, si era sempre dato troppo per scontato.

 

La fila per la doccia fu lunga ma esaustiva. Non ricordava nemmeno quando era stata l’ultima volta che aveva visto gente tanto pulita e profumata tutta assieme.

Clint si godeva la processione di sorrisi e soddisfazione, in bilico sul parapetto del portico mezzo scardinato dal vento o da qualche uragano che, straordinariamente, aveva lasciato in piedi il resto dell'enorme fattoria.

Non ci aveva mai sperato. Ma inconsciamente si era di certo augurato di trovare altra gente. E si era accorto di quanto quello fosse stato – in misure diverse – il desiderio di tutti i presenti. Tutti, tranne quel tizio segalino e ancora convalescente che se ne stava chiuso in una delle stanze del primo piano, adiacente alla stanza di Betty.

Non aveva ancora avuto modo di parlarci in quei tre giorni di convivenza, ma gli era bastato uno sguardo per capire che non era sicuro gli piacesse poi tanto.

Si poggiò a una delle travi che si aggrappavano tenacemente a ciò che restava del portico. A godere del tepore pomeridiano che lentamente gli stava asciugando i capelli umidi.

Erano settimane che non si sentiva tanto bene. E sebbene non fosse la sua indole quella di abbassare la guardia o elargire facile fiducia a chicchessia, per un attimo si sentì abbastanza tranquillo che l’idea di schiacciare un pisolino, lì in bella vista, non gli sembrò un’idea così malvagia.

Non chiuse gli occhi solo quando si rese conto che la ragazza che stava attraversando il cortile sotto una fila di alberi, doveva essere Natasha. I suoi capelli rossi, ora sciolti, resi di nuovo vivi e luminosi dopo quella provvidenziale doccia, erano pressoché inconfondibili.

La seguì con lo sguardo, finché non la vide sistemarsi all’ombra frondosa di uno degli alberi da frutta. Accanto ai panni stesi.

Teneva fra le mani quello che sembrava un libro. Probabilmente dono della fornita biblioteca del salotto della fattoria.

La vide sfogliare distrattamente le prima pagine e addentrarsi nella lettura con una concentrazione tale che non riuscì nemmeno a farle un cenno.

Restò ad osservarla forse più a lungo di quanto si sarebbe mai concesso, in altri contesti. Ma in virtù di quella neo guadagnata tranquillità, rimase immobile, in silenzio a godersi quella insperata visione, deciso a restare in disparte, silente spettatore. A cercare di dare un nome concreto a quella sensazione che gli faceva formicolare lo stomaco da qualche giorno a quella parte.

“Sei andato in fissa?” trasalì in modo anomalo alla voce che si era improvvisamente materializzata alle sue spalle.

Barney. Ovviamente. Chi altri?

Cercò un punto d’appoggio meno comodo per poter deviare il punto del suo interesse, ma per quanto facesse non poteva certo darla a bere al fratello che aveva già individuato l'obiettivo.

“Oooh, adesso capisco.” Lo sentì pronunciare affiancandolo, un’espressione di quelle che non lasciano scampo. Come avesse compreso da tempo, ben prima di lui, quello che stava succedendo.

“Che cazzo capisci? Che nemmeno ti sei allacciato giusti i bottoni della camicia?”

“Ah, merda…” lo vide porre rapidamente rimedio a quello sfacelo. Barney si era tirato talmente a lucido da essersi concesso persino una toelettatura di tutto rispetto. La barba ormai lunga di giorni era andata, restituendogli un po’ di quegli anni che gli erano stati rubati da quanto era cominciato il contagio.

“Perché non la raggiungi?” insistette, affatto dimentico dell’argomento principale della conversazione.

“Sta leggendo.”

“Per te smetterebbe.”

“Ma che cazzo ti sei messo in testa, Barney?”

Lo vide sistemarsi la camicia nei jeans e guardarlo come fosse un ritardato.

“Finiscila di fare il cacasotto”, sbuffò riavviandosi i capelli vaporosi sulla fronte. “Speravo che questa storia delle Ganasce ti avesse messo un po’ di pepe al culo.”

“Il pepe al culo per cosa?”

“Anche il finto tonto… quanto mi stai sul cazzo quando fai così, fratellino, non te lo puoi nemmeno immaginare.”

Clint rimase in silenzio e lo guardò storto per tutto il tempo che ci mise a ridarsi una parvenza di ordine.

“Voilà. Come sto?” lo interrogò facendo anche un mezzo giro su se stesso.

“Una favola. Sembri appena uscito da una centrifuga.”

“Vaffanculo. Ho un appuntamento.”

Clint si trovò adesso a fissarlo davvero, come fosse un ritardato: “Guarda che con il sapone ti ci dovevi lavare, non te lo dovevi mangiare…”

“Ma quanto sei simpatico? Non scherzo. Ho un appuntamento.”

“E il club apre a che ora, esattamente?” Il pugno fra i reni un po’ se l’era meritato. Ma non era certo colpa sua se Barney parlava per enigmi e in modo anche piuttosto comico per giunta.

“Chi dovrebbe essere la fortunata?” ritrattò allora, massaggiandosi dove possibile, pentendosi amaramente della domanda per il modo in cui adesso lo stava fissando con aria predatoria.

Solo grazie a quella specifica espressione Clint si rese conto che non stava scherzando affatto.

Il suo assetto da guerra ancora lo ricordava. Le delusioni che aveva incassato nel corso degli anni, anche.

“Quell’ardente ghiacciolo dell’agente Hill.”

Bam. Un fulmine a ciel sereno. Un po’ come lo sguardo assolutamente perplesso e sull’orlo della risata isterica che adesso gli stava tanto elegantemente elargendo.

“Mi stai prendendo per il culo.”

“Per niente. Abbiamo un appuntamento.”

“E lei lo sa… o deve ancora ricevere un promemoria?”

Barney minacciò un secondo affondo alle sue reni, che però, stavolta, Clint prevenne con un salto oltre la staccionata.

“Mi sono offerto di prendere turno di vedetta con lei… il primo pomeriggio.”

“Aaah, adesso capisco perché se ne andava in giro borbottando e inveendo contro Fury.”

“Di' pure quello che vuoi, ma dopo questo pomeriggio si troverà a capitolare come la più languida delle geishe…”

Clint sorrise scuotendo il capo. Che credesse pure ciò che più gli aggradava. Era convinto che Maria non fosse molto incline ad approfondire la conoscenza di Barney, ma di certo non poteva non ammirare la tenacia con cui il fratello era del tutto determinato a persuaderla del contrario.

“In bocca al lupo, allora.”

“Se crepa spero resti morto almeno lui.” Gli rispose, tornando a sistemarsi quel ciuffo ribelle ormai un po’ troppo lungo.

Lo superò solo per raggiungere la fine della veranda. Ed emettere un fischio tanto potente da risvegliare tutti gli uccelli placidamente appollaiati sui rami degli alberi circostanti.

“Ciao Natasha! Clinton ti stava cercando!” la richiamò all’attenzione, mentre Clint gli rivolgeva il suo peggior sguardo d’odio. L’augurio che almeno gli calassero i calzoni lì dove era, glielo rivolse con tutto il cuore.

Quando però non avvenne, e tutto ciò che guadagnò fu solo ricevere lo sguardo incuriosito della ragazza, non poté far altro che piegarsi alla realtà che Barney lo aveva costretto ad affrontare.

Si guardò attorno come se dovesse passare per una strada particolarmente trafficata, prima di attraversare svogliatamente il cortile.

“Avevi bisogno di me?” gli domandò la ragazza che non si era mossa di una virgola, avendo però la premura di richiudere il libro e tenere il segno con un dito.

“In realtà è Barney che fa lo scemo…” si trovò a rispondere ancora prima di poter elaborare una replica meno imbecille. Il problema era il non essere abituato a dire bugie.

“Ne avevo avuto il sospetto”, aggiunse dunque lei, tenendo lo sguardo su di lui, “te ne stavi sul portico a fissarmi.”

La postilla finale fece crollare quel misero brandello di gratitudine che aveva provato nei suoi confronti alla concessione.

“Non ti fissavo.”

Lo sguardo di lei fu abbastanza eloquente da smentirlo. Come aveva detto prima, non era affatto abituato a dire bugie.

“Che stai leggendo?”

Natasha abbassò lo sguardo come dovesse ricordare cosa teneva fra le mani. Alzò il libro affinché potesse leggere da solo di che si trattava.

La copertina con l’illustrazione minimal di una bara.

“Mentre morivo…”

Faulkner. Doveva aver letto qualcosa di Faulkner da ragazzo. Niente che gli fosse però rimasto impresso.

“Lo conosci?” indagò lei, sistemandosi meglio sulla grossa radice che le faceva da sgabello.

“A dire la verità no. La copertina però non sembra incoraggiante.”

“Per la bara?”

Clint si strinse nelle spalle.

“Con quello che sta succedendo, una bara è qualcosa che trovo quasi consolante…” gli disse.

La vide passarsi una mano fra i capelli, cercando di impedire a un alito di vento più insistente degli altri di darle un pretesto per rabbrividire.

“Forse farebbe bene a tutti quanti pensare più ai vivi che ai morti.”

“Ti stai già abituando all’idea di questo posto, non è così?”

Abbassò lo sguardo per poterla vedere meglio e scoprì di avere straordinariamente una risposta positiva a quella domanda.

“Non lo so…” mentì però, “manca la piscina.”

Natasha si guardò attorno.

“L’acqua l’abbiamo. Sono sicura che Stark potrebbe fare qualcosa a riguardo.”

“Bè, in questo caso allora, forse potrei abituarmi all’idea di questo posto.”

Il fatto che si sentisse tranquillo come non lo era da settimane, faticava a crederlo. Ad ammetterlo persino a se stesso.

“Tuo fratello non farebbe altro che guardare le signore in bikini.”

Clint rise e trovò posto al suo fianco, senza quasi registrarlo.

“Mi inquieta di come tu sia riuscita a inquadrarlo così rapidamente.”

“Ho avuto quasi un mese per farlo… di solito ci metto una manciata di minuti.”

Si volse a guardarla per capire se diceva sul serio. Ma persino senza doverlo fare, la risposta già era sicuro di averla. Natasha gli aveva sempre dato quell’impressione.

“Questo dovrebbe ricordarmi che ti sei anche fatta un’idea piuttosto precisa di me.” Le disse, cercando di mantenere i toni leggeri di una conversazione che, fosse stato per lui, non sarebbe mai avvenuta.

Si trovò però addosso i suoi occhi, come se stesse decidendo in quel preciso istante come rispondere a una domanda simile.

E ci mise talmente tanto tempo a deciderlo, da metterlo a disagio.

“Che c’è?” dovette proprio distruggere il silenzio per evitare di venirne schiacciato.

La vide rilassarsi e scrollare le spalle in un gesto di noncuranza.

“Un promemoria su cosa si prova a venir fissati a lungo.” Ribatté e l’idea che tutta quella manfrina fosse solo un modo per vendicarsi dello sgradito evento, lo costrinse a rimettersi in piedi.

“Ho capito…” disse solo, decidendo che forse sarebbe stato opportuno andare a sfogare la sua frustrazione da qualche altra parte. Tipo qualcosa di virile come spaccare legna. O spostare mobili.

Barney e le sue idee del cazzo. Quali che fossero, le sue idee del cazzo.

Che cosa pensava che dovesse farci con quel suo incoraggiamento? A che diavolo pensava avrebbe condotto? Pensavo forse che Natasha gli piacesse? Piacesse in quel senso?

Un pensiero poteva anche avercelo fatto, insomma, non era mica morto. Non ancora almeno. E nel caso fosse successo di sicuro il suo primo pensiero da rediviva Ganascia non sarebbe certo stato il rimorso di non aver mai tentato un approccio esplicito con lei.

Ma non era mai arrivato all’idea di concretizzarlo in qualcosa. Lo scenario non glielo aveva permesso. La situazione. Il clima.

Certo e il traffico in tangenziale, un attacco di diarrea e gli impegni che capitano sempre il giorno in cui ci si deve lavare i capelli.

La realtà era che non si era mai rilassato abbastanza per pensarci. E ora che il suo cervello e il suo fisico si stavano concedendo una pausa… Barney aveva capito esattamente ciò che stava succedendo. Prima di lui.

E lo maledisse, per questo.

“Guarda che puoi restare.” La voce di Natasha ad interrompere i suoi turbolenti pensieri. Che una volta non lo avrebbero turbato poi così tanto.

“Magari non voglio restare.” Gli uscì più rapido e brusco del previsto, come a seguire il fastidio che quella simultanea realizzazione gli aveva procurato.

“Se è così allora l’idea che mi ero fatta di te è tutta sbagliata.”

Stavolta dovette abbassare lo sguardo solo per trovare quello di lei, serio e diretto.

“Forse è così.” Mentì di nuovo, ma questa volta nessun tentennamento venne a svelar la maschera. Il suo orgoglio (era seriamente il caso di parlare d'orgoglio?) aveva reagito esattamente come sempre faceva quando in difficoltà. E sebbene fosse in lotta con se stesso per tacciare un simile comportamento come quello di uno stupido, arrogante, vigliacco, non si impedì di allontanarsi.

Sentì lo sguardo di Natasha seguirlo finché non fu sparito oltre l’angolo cieco della fattoria.

Avrebbe avuto tempo e modo per capire che cazzo gli stava gridando la sua coscienza.

 

*

 

Loki sapeva per certo di aver bisogno di acqua.

Allungò la mano oltre il materasso del letto, scomodo e cigolante. Non afferrò che aria.

Ma quando sentì su di sé la mano calda di qualcuno deciso ad aiutarlo nell’impresa capì di non essere solo. Di non essere mai stato… solo.

Mise a fuoco solo la sagoma di quello che identificò rapidamente come il gigante biondo.

Nel delirio in cui era precipitato da qualche giorno a quella parte, aveva sempre avuto poche possibilità di capire che diavolo gli stesse succedendo attorno.

“Hai sete?” gli fece ballare di fronte un bicchiere colmo di un liquido chiaro che tutto sembrava fuorché acqua.

Si limitò ad annuire, certo che se avesse cercato di parlare sarebbero usciti una serie di suoni disarticolati e tutt’altro che lusinghieri.

Si fece aiutare a rimettersi seduto e bevve quello che si dimostrò essere un dolciastro succo di frutta al gusto di mela. Che della mela doveva di certo aver visto giusto il torsolo.

“Grazie…” articolò a stento, la sua gola già grata della concessione.

“Figurati. Stava lì da ieri sera… mi chiedevo quando avresti avuto bisogno di bere.”

Il commento gli fece appena ribaltare lo stomaco. Se ciò che aveva bevuto non si fosse trasformato in acido puro, sarebbe stato un miracolo.

“Dove siamo?”

“Davvero non lo sai?” il gigante biondo sembrava seriamente sorpreso di sentirglielo chiedere. Doveva aver delirato più del previsto. L’alternanza di stati di coscienza a quelli di incoscienza gli aveva decisamente fatto perdere il contatto con la realtà.

Si trovò a scuotere il capo per fargli capire che no, non aveva granché chiara la situazione attuale.

“Siamo in una fattoria. A qualche chilometro da Atlanta. Il posto non è male. Uno dei tizi nuovi è riuscito a sistemare le tubature e abbiamo acqua corrente, ci crederesti?”

Acqua corrente. Come fosse quello il problema.

“Acqua corrente e tutto quello che mi avete portato è del succo di frutta?” si limitò a dire a stento, ma chiaro abbastanza da arrivare alle orecchie dell’uomo.

Che se per un attimo lo osservò, cogliendo il bagliore di irriconoscenza che Loki gli aveva lanciato, scoppiò poi a ridere come se fosse stato vittima di una battuta particolarmente divertente.

“Bè, è successo stamattina. E comunque Jane ha ritenuto opportuno farti assimilare degli zuccheri.”

Jane. Jane la scienziata? Quella che non era riuscita a capire un bel niente di tutte le indicazioni che stava dando loro riguardo quel gigante… verde?

Il gigante verde.

L’empatia.

Il sibilo di quegli ultrasuoni che lo avevano steso.

Improvvisamente tutto gli tornò alla mente e la testa riprese a girare vorticosamente.

Si piegò verso l’esterno del letto e vomitò bile insieme a quel sorso di succo di frutta che gli aveva sedato la sete.

“Ommerda, fratello, non sei ancora in forma tu.”

“Sto bene…” simulò, senza riuscire a risparmiarsi l’ironia.

“Chiamo Jane, forse hai bisogno di un’aspirina o…”

“Non ho bisogno di niente.”

“Ma hai appena vomitato sul tappeto.”

“E' tuo?” si asciugò le labbra, mettendolo a fuoco.

“No, però...”

“E allora lascia perdere.”

Si sistemò ancora tra i cuscini, prendendo ampie boccate d'aria. La netta sensazione che quella scia negativa di eventi non si fosse esaurita per niente.

Guardò fuori dalla finestra. La giornata sembrava buona. Il sole, il vento, il cinguettio degli uccelli. Per un attimo si chiese se non avesse sognato tutto. Poi si diede mentalmente dello stupido anche solo per averci fantasticato un istante.

Abbassò lo sguardo cercando di concretizzare i dubbi, concentrandosi sulla divisa che indossava dal giorno della sua fuga. Quella... tremenda casacca a fiori rosa?

“Ma che diavolo mi avete messo addosso?” si interrogò improvvisamente inorridito dalla camicia da notte con cui lo avevano vestito. Dove era finita la sua divisa da carcerato?

“Scusa, fratello, l'armadio era pieno di questa roba. Ci doveva vivere qualche vecchia o qualcosa del genere. E' provvisoria. Ti abbiamo trovato dei vestiti per quando ti rimetterai in piedi.”

Loki doveva aver preso a fissarlo con un odio quasi viscerale, perché Thor si rimise in piedi e andò a prendergli i vestiti per mostrarglieli.

“Un paio di jeans, che ti dovrebbero pure andare e una camicia.”

“Lasciali. Ho bisogno di un attimo di privacy.”

“Ma...”

“Ho detto di lasciarli... e se per favore puoi lasciarmi solo... per un po'.”

“Va bene... va bene.” vide Thor fare retro front e prendere la porta della stanza.

Rimase fermo a macinare risentimento, finché non decise fosse arrivato il momento di rimettersi in piedi e riprendere in mano le redini della sua esistenza.

Si aggrappò alla testiera del letto facendo leva sulle braccia ancora deboli.

Il suo potere non si era mai manifestato in modo tanto forte e forse era arrivato il momento di affrontare la situazione e decidere concretamente come sfruttarla.

Non avrebbe potuto fare granché, restando fermo in un letto con addosso una ridicola camicia da notte a fiori.

Si affacciò alla finestra, osservando le persone che in cortile si alternavano in attività più o meno quotidiane.

Andò a cercare oltre le fronde degli alberi e oltre i campi, che si disperdevano in un mare di verde smeraldo.

La città di Atlanta doveva essere da qualche parte, là in fondo, dove non si riusciva ad arrivare con lo sguardo. Ricordava a malapena la fuga. E il volto della donna incinta.

La donna... incinta.

La sola idea di lei gli contrasse lo stomaco in modo del tutto inusuale. Se per un attimo pensò di dover rimettere di nuovo, si trovò a dover fare i conti con il battito improvvisamente accelerato del proprio cuore.

Le tempie ripresero però a pulsare nuovamente, quando, da qualche parte della grossa abitazione, riecheggiò il pianto di un neonato.

 

___

 

Note:

Nuovo capitolo che mette giusto qualche considerazione sul piatto, trasportando i protagonisti in una dimensione di stallo, di ripresa. Il riposo dei guerrieri, prima della riorganizzazione.

Una fase che durerà un paio di capitoli, prima di rientrare di prepotenza nell’azione.

Poco da dire, se non i soliti sentiti ringraziamenti a chi ancora segue la storia e la commenta, alla sclerobetasocia, a Callum che ormai è tipo fantasmino onnipresente nel nostro universo Marvel e a Quicksilver, che NON è il nostro nuovo personaggio preferito. Pietro, a cuccia.
Alla prossima!

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12

 

“Non possiamo tornare indietro. Ecco perché è così difficile scegliere. Dobbiamo fare la scelta giusta. Finché non si sceglie, tutto resta possibile.”

(Mr. Nobody)

 

* 

 

“Io proporrei una votazione.”

Tony Stark era convinto di non riuscire proprio a empatizzare con quel militare tutto muscoli.

Carica di buone intenzioni la sua idea di tornare ad Atlanta per recuperare tutte le informazioni possibili sugli esperimenti che avevano creato il caos. Ottimo lo slancio emotivo che lo spingeva a mettere in moto il proponimento.

Peccato che la sua idea di squadrone d’assalto fosse tutt’altro che vicina alla realtà dei fatti.

Insomma, probabilmente un gruppo che avrebbe potuto funzionare alla grande in un albo a fumetti, ma in concreto, l’idea generale, non era delle più incoraggianti.

Andando ad elencare, dalla sua destra: uno sceriffo orbo da un occhio, due agenti di polizia con evidenti problemi di paresi facciale. Un capitano dell’esercito degli Stati Uniti d’America che sembrava forgiato nel ghiaccio, il suo collega un tantinello esaltato e dal sorriso impostato, un motociclista dall’aria poco sveglia che sembrava aver un gran bisogno di una tosatura e compagna, due fratelli usciti da un circo e una ragazzina diabetica dallo sguardo intimidatorio.

Se ci si aggiungeva il non trascurabile dettaglio che avrebbero dovuto trascinare con loro uno spaurito professore dall’aria flaccida e la sua geniale nipote, che di difesa personale sembravano conoscere giusto il significato, il quadro diventava complicato.

Affrontare direttamente la bocca dell’inferno in quattro gatti era sempre stato il suo sogno proibito.

Vero era che però… l’idea di poter trovare una cura o quantomeno avvicinarsi a farlo, lo metteva nelle condizioni di riaprire quello spiraglio di speranza per… Pepper.

Perché di fatto l’obiettivo Atlanta era strettamente connesso alla malattia di lei.

Malattia della cui natura nessuno sapeva dare spiegazioni; tuttavia il professor Selvig non aveva avuto alcuna remora a spiegare (dopo aver analizzato dei campioni di sangue con strumenti di fortuna che si portava appresso da quando era scappato dalla sua città natale) che era, di fatto, lo stesso identico virus che aveva decimato la popolazione ma che, per qualche assurda anomalia, non l’aveva uccisa, non espandeva il contagio e la manteneva in uno stato di febbricitante attesa. In bilico sul baratro da un mese.

Avevano deciso di tenerla isolata dal resto del gruppo. Nonostante le proteste che si era preoccupato di esprimere più o meno elegantemente. Nonostante avesse spiegato che ormai erano di certo stati tutti esposti. Lui, Happy, i fratelli e Natasha. E non di meno il gigante biondo e compagnia tutta in seguito.

Se nessuno di loro era morto fino a quel momento, poteva ben significare che erano immuni a quel diavolo di virus, no?

L’unica cosa che l’aveva trattenuto dal dar fuori di matto era stata la scusante della bambina.

La bambina nata nel cuore dell’epidemia. Nessuna esposizione al contagio. Ancora tutta da stabilire la sua immunità.

Perciò sì, l’idea di andare ad Atlanta per recuperare documenti e strumentazione necessaria a comprendere quel disastro batteriologico era allettante. Della compagnia… non era del tutto sicuro.

Non che avesse grandi possibilità di scelta.

Vero era che adesso la discussione verteva sull’organizzazione di tale impresa.

“Una votazione per cosa, di grazia? Non si è ancora deciso niente.” Quella Hill doveva avere dei problemi a livello relazionale.

“Per decidere chi sarà investito del titolo di gran capo delle operazioni.”

“Credevo fosse evidente il compito sarebbe stato affidato al capitano Rogers.”

Tony si sporse per poter guardare il militare. Seduto sulla sua sedia, un’espressione che non mostrava nessuna brama di potere. Forse persino un po’ sorpreso dell’elezione del tutto spontanea della donna.

“Davvero? Credevo fosse necessario una votazione. Tipo per… democrazia. O abbiamo deciso di fondare un altro tipo di società?” si trovò a dire, intrecciando le braccia al petto, “non mi oppongo a nessuna proposta, dopotutto possiamo ben decidere di stravolgere tutte le regole dell’umana convivenza. Chi dice che non sarebbe un bene?”

“Stark. Per favore.” La voce del pirata con la benda era arrivata a sedare quella sua inesauribile necessità di ciarlare. Si teneva occupato. E gli impediva di pensare. Il fatto che parlasse più rapidamente di quanto pensasse a volte stordiva persino lui stesso.

“Bè, credevo che...”

“Io penso che il problema principale qui… sia quello di decidere come muoverci e come organizzarci, prima di andare a incastrarci in un’operazione senza uscita.”

“Credevo avessimo appena finito di discuterne.” Si oppose.

Era tutta la mattina che erano rinchiusi in quello stanzino a blaterare di piani che avrebbero fatto concorrenza a Risiko. Non riusciva a comprendere cos’altro ci fosse da decidere. Come se si potesse davvero pianificare un attacco per affrontare uno stormo di Ganasce (diavolo, aveva davvero pensato a Ganasce?) e un mostro verde senza coscienza!

A parte quel suo guantone e qualche arma non c’era proprio nessun’altra capacità specifica, se non buoni riflessi e buone gambe.

“La donna, Betty, si è offerta di venire con noi.” Disse lo sceriffo.

Non fu solo da Tony, stavolta, che si elevarono proteste.

“Lo escluderei.” La voce del capitano America, lì presente, fu l’unica ad esprimerlo chiaramente.

“Dice di conoscere i laboratori di Atlanta. Potrebbe condurci direttamente all’obiettivo senza perdere tempo.”

“Potrebbe descriverci minuziosamente il percorso e evitare di esserci d’intralcio.”

“Ha detto che sarebbe stata la nostra unica possibilità di salvezza contro il mostro verde.” Concluse Fury.

“Con una paio di dolci parole d’amore?” si intromise allora Tony. “Abbiamo il mio guantone per questo. O vi siete dimenticati di quello che è stato in grado di fare?” lo avevano visto tutti. Il guantone aveva frenato il mostro. Non fosse stato per gli ultrasuoni sarebbero stati raggiunti e probabilmente annientati dalla sua forza distruttiva.

“Potrebbe comunque non esserci d’aiuto con le tempistiche. Il tempo è tutto ciò che abbiamo.” Obiettò Fury.

“Il tempo e un carro armato”, rilanciò di nuovo, “il tempo e un guantone ad ultrasuoni anti Ganasce…” l’esclamazione entusiasta di Barney all’uso della sua parola fu la colonna sonora del monologo di Stark, “… e un paio di arcieri con la vista di un falco. Mi chiedo perché mettere in pericolo una neo mamma. Ci sono già abbastanza orfani qui dentro.”

“Sono d’accordo con Stark”, l’approvazione di Rogers mai fu più accolta con calore.

“Anche io…” alzò una mano il motociclista e a seguire fecero lo stesso Sif e Wilson.

“Io pure.” Persino gli arcieri e la ragazzina.

Tony si strinse nelle spalle. Sembravano aver raggiunto, se non altro, una specie di unanimità.

Sorrise in direzione di Fury che non espresse altro che un cupo silenzio.

“Posso prendere io il posto della ragazza…”

Una voce, alle loro spalle, costrinse tutti a voltarsi nella direzione della porta socchiusa.

Lo pseudo fratello malaticcio di Thor si era appena fatto avanti sulla soglia.

Da quando era in piedi? E perché diavolo non indossava più quella deliziosa camicia da notte a fiori rosa?

“Tanto vale portarci dietro Pepper, allora.” Non riuscì a farsi sfuggire Tony, guadagnandosi uno sguardo di rimprovero dalla Hill.

“Posso dimostrarvi che posso esservi utile.”

“Ma ci stavi spiando da dietro la porta da… quanto?” lo interrupe scettico, prima che Thor si rimettesse in piedi per andargli incontro.

“Non credo tu sia nelle condizioni di esserci d’aiuto. Ma sicuro apprezziamo la disponibilità.”

“No. Voi non capite… posso davvero aiutarvi.”

“Non mi fiderei di lui…” stavolta fu la donna nerboruta a parlare. Si subodorava un po’ di maretta nell’aria?

“Riesco a sentirli.” La ignorò per continuare il suo discorso.

“Sentire cosa?” indagò qualcuno nelle retrovie.

“I morti. I morti viventi… riesco a sentirli.”

“Sta delirando. Io direi che sarebbe meglio riportarlo a letto…”

“No, ascoltatemi”, lo vide guardare Thor in cerca di aiuto, “non sono forse stato l’unico a capire in anticipo dell’arrivo dell’orda il giorno che i vostri compagni sono morti?”

L’uomo ora lo stava guardando con un misto di rabbia e angoscia.

“Non ti sei stupita tu stessa, Sif, di come io sia riuscito a percepirli, quando nessuno di voi aveva la minima idea di cosa stesse succedendo?”

La donna, straordinariamente, sembrò voler tacere.

“Riesco a percepire la loro presenza, molto prima che si facciano vivi.” Si espose allora, con un’espressione che, per quanto riguardava Tony, sfiorava una lucida follia.

“Ragazzo, credo che tu stia…” cercò di interromperlo Rogers.

“No! Ascoltatemi. Posso dimostrarvelo. Posso farlo. Datemene la possibilità.”

“Sì, lasciatelo provare.” Si intromise Sif, “portatelo nel bosco ai limiti della fattoria e lasciatelo lì senza armi per vedere se riesce a cavarsela.”

Tony scambiò con Barney uno sguardo che aveva del perplesso.

“Potrei farlo. Sopravvivrei. Come sono riuscito a cavarmela il giorno che sono evaso… da un carcere di massima sicurezza.”

“Eri un carcerato?”

“E’ un assassino!” ruggì Sif, rimettendosi in piedi, come colpita da improvvisa folgore.

Il rumore delle sedie che venivano spostate a sedare una discussione che avrebbe potuto degenerare da un momento all’altro.

“Credo che dovremmo calmarci, tutti quanti.” Fury era intervenuto pacatamente a evitare il disastro.

“Ma è vero che è un assassino”, sibilò di nuovo la donna, additandolo con ferocia, “non riuscivo a capire perché non mi fidassi di te, ma poi l’ho capito, l’ho ricordato. Era tutto scritto in un articolo di giornale.”

L’atmosfera si era fatta improvvisamente calda, pastosa.

“E’ così facile giudicare senza conoscere un bel niente… dei fatti.” Lo sentirono rispondere, arrabbiato e indignato insieme. E quel pallore spettrale che divenne improvvisamente l’anticamera di un evidente malore. Thor, al suo fianco dovette prenderlo sotto braccio per evitargli una rovinosa caduta.

Tony era convinto di avvertire in qualche modo l’elettricità dei pensieri di ognuno dei presenti. Chi più chi meno indignato dalla scoperta. Natasha aveva assunto un colorito tanto pallido da far pensare anch’ella a un mancamento. Ma forse era solo in carenza da insulina e quel Clint le si era fatto vicino, osservandola con un’espressione del tutto indecifrabile.

“D’accordo, d’accordo. Lo sceriffo qui ha ragione… è il caso di calmarci tutti quanti.” Intervenne allora Stark, alzando le mani, come a sottolineare un time-out.

“Non sono del tutto sicuro che rivangare scomode storie passate possa essere di giovamento a questa comunità, non trovate? Insomma, non voglio dire che non sarebbe carino metterci attorno a un tavolo a discutere dei nostri traumi – e sono più che sicuro che siano in gran bel numero – e cercare di conoscerci meglio… ma direi che la questione da discutere al momento sia di altra natura. E tutto quello che mi sembra di capire è che qui vogliamo tutti arrivare a una pacifica risoluzione della storia. Da chi mette a disposizione le sue capacità organizzative”, indicò Steve, “a chi le sue bizzarre armi paleolitiche”, e qui si voltò verso i fratelli Barton, “chi il suo spiccato senso dello stile…” ironizzò su Thor che non sembrò capire l’allusione, “chi la sua saggezza secolare”, si fermò su Fury che ricambiò con una strana, scettica occhiata, “e chi i suoi effetti speciali…” concluse, chiudendo il cerchio su Loki che dal modo in cui si reggeva allo stipite della porta dovette constatare quando gli risultasse ancora faticoso restare in piedi.

“Io direi che possiamo prenderci… qualche giorno per definire questo piano d’attacco. E magari permettere a chiunque voglia offrirsi per questa spedizione di avere qualche giorno di riflessione. Non sono del tutto sicuro che partire tutti insieme, in una squadra massiccia, ci aiuterà a passare poi così inosservati. Dimmi se sbaglio Capitan America?”

“No… non sbagli. Ma non mi chiamare Capitan Am-”

“Bene”, lo interruppe, “perciò direi che… la seduta è tolta, e che tutti ci ritiriamo per deliberare.”

Nessuno sembrò essere in disaccordo con l’unica vera buona decisione presa in quelle tre ore di infinita riunione.

Per quanto lo riguardava, era solo più che ansioso di raggiungere Pepper e decidere di ignorare l’agitazione che gli aveva stretto lo stomaco per tutta quanta quella inutile assemblea.

 

*

 

Le riunioni non gli erano mai piaciute.

Certo quella a cui Barney aveva appena partecipato faceva categoria a parte, ma ricordava ancora con un certo fastidio quel breve periodo in cui aveva trovato impiego presso un ufficio di legali.

Aveva partecipato a intense riunioni, provvedendo al benessere generale, portando caffè.

Quando lo avevano licenziato perché, chissà come, aveva fatto letteralmente esplodere la fotocopiatrice, si portò via la macchinetta del caffè. E da quel giorno in poi, poco più che ventenne, si era ripromesso di rifiutare qualsiasi impiego lo obbligasse all’abbigliamento elegante. Era entrato nell’esercito.
Non aveva mai più indossato una cravatta. Nemmeno quando quel disgraziato di Clint lo aveva invitato al suo matrimonio. Erano quattro gatti, nessuno se ne era lamentato comunque.

Per quello uscire da quella stanza ancora carica di elettricità (e non per via della presenza del presunto Thor, dio del tuono), era stata una liberazione.

Come il suono della campanella alla fine delle lezioni.

Si affrettò a tallonare Maria che lo precedeva, ben decisa a tornare alle sue attività quotidiane. Quali che fossero.

“Sbarellato parecchio, quel Loki, ah?”

Non si stupì nemmeno quando si rifiutò di rispondere. Sembrava un tipo sofisticato, Maria. Ma non era certo deciso a lasciarsi scoraggiare dalla sua freddezza. Non lo aveva fatto nemmeno il giorno prima, quando avevano condiviso un glorioso pomeriggio a chiacchierare. Lui a chiacchierare, lei probabilmente intenta a mandarlo al diavolo mentalmente.

“Non sono sicuro di sapere perché, ma qualcosa mi dice che dovremmo dargli una possibilità”, aggiunse.

“La situazione mi sembra già abbastanza assurda senza doverci aggiungere anche questo tipo di stronzate.”

“Assurdo per assurdo…” dovette affrettare il passo per starle dietro, “ancora di vedetta oggi?”

“Mi sono fatta cambiare il turno.”

“Oh…” rallentò appena, “così mi spezzi il cuore.”

“Sono sicura abbiano della colla per quell’inconveniente.”

Barney lasciò che proseguisse sola.

“Ci vediamo domani?”

Se non altro Maria ebbe il buon gusto di alzare una mano in segno di saluto.

Scosse la testa prendendo per buona la prospettiva di passare un noioso pomeriggio ad osservare i campi verdeggianti dalla sua posizione soprelevata, quando si sentì battere una mano sulla spalla.

“Coraggio, il mare è pieno di pesci...” Clint stava sfoggiando la sua miglior espressione sarcastica.

“… morti.” Concluse per lui la frase, facendo schioccare la lingua, “prima o poi quella donna mi cadrà ai piedi.”

“Giusto se inciampa.” Lo prese in giro sistemandosi sulla spalla l’arco che probabilmente era appena andato a recuperare in previsione di una qualche spedizione.

“Dove te ne vai?” glissò agilmente sull’argomento. Persino il suo ego, di tanto in tanto, doveva concedersi una pausa per leccarsi le ferite.

“In giro. Pensavo di andare a caccia. O qualcosa del genere.”

“Vengo anche io.”

Clint si limitò ad annuire e concedergli di aspettarlo, mentre andava a rifornirsi del giusto armamentario.

 

Camminarono fuori dai confini della proprietà per una buona mezz’ora prima di decretare che non c’era niente da cacciare, né vivo, né morto, nel raggio di miglia.

“Sembra che questo posto si sia desertificato spontaneamente di qualsiasi forma di vita.” Commentò Barney, fermandosi ad osservare la distesa di verde tutt’intorno e il campo di grano che si estendeva pigramente ad est, verso la città di Atlanta.

“Tranne noi.”

“Tranne noi e qualche uccello.”

“Uccelli, teste di cazzo, sinonimi per ricordare che siamo tutti della stessa famiglia.”

Barney sorrise.

“Credevo avessi preso in simpatia quelli nuovi.” Commentò solo a quella manifestazione non richiesta di disagio.

“Sono ancora in fase di valutazione.”

Chissà come, Barney non si era atteso niente di diverso. Se da un lato si era sempre ritenuto affine al fratello, dall’altro possedeva dei tratti del tutto differenti. E l’ approccio alla vita e alle persone, era una di quelle differenze che difficilmente sarebbero riusciti ad appianare. Non che Barney fosse un ingenuo, ma si riteneva certo più socievole. E non per una sconsiderata fiducia nei confronti del prossimo, ma più incline a tentare un approccio amichevole, per ottenere fiducia, prima di poterla dare.

“Non è necessario che mi stiano simpatici…”

“Clint…”

“... ma che mi facciano sentire al sicuro.”

Barney si fermò di nuovo cercando di valutare il peso di quell’affermazione.

“E’ dal giorno in cui siamo finiti qui… che ci penso.” Lo lasciò proseguire, non era così facile che Clint si lasciasse andare a una qualsivoglia intima confessione, ma improvvisamente si trovò curioso di sapere cosa ne pensasse dell’intera faccenda.

L’idea appena sopita di poterlo “affidare” a qualcuno nel caso la situazione fosse di nuovo precipitata, tornò a colpirlo come una stilettata al cuore.

“A come ci siamo trovati tutti al crocevia. Ad Atlanta. Di come abbiamo aiutato quella donna, che nemmeno conoscevamo… di come sembra così semplice arrivare a delle soluzioni, a delle decisioni.” Lo vide distogliere lo sguardo e scrollare le spalle, “non credo al fato o a tutte quelle stronzate, ma penso che questa storia abbia preso una… direzione. E che sia sciocco non seguirla, ovunque abbia deciso di condurci. Nemmeno devo pensarci se voglio accompagnare Rogers ad Atlanta. Ci vado perché è giusto… farlo.”

Barney annuì, se visto o meno, quello non seppe dirlo.

“E’ la stessa sensazione che ho provato io.” Confessò. L’idea di seguire estranei in un'impresa dagli esiti incerti non gli sarebbe mai passata per l’anticamera del cervello, prima di arrivare ad Atlanta. Per quanto cercasse di restare positivo, l’idea di mettere in pericolo l’incolumità dell’unico essere umano di cui gli fosse mai fregato veramente qualcosa, aveva sempre avuto la priorità.
L’assurdo era il sentire di poter arrivare a concedere a quelle persone il privilegio di entrare nelle loro vite, senza dover chiedere spiegazioni. Un’idea folle ma che profumava di qualcosa di giusto.

Forse non era solo Loki ad essersi giocato la zucca. Forse erano tutti finiti in una specie di circolo dove la sopravvivenza ti porta a elaborare concetti del tutto estranei alla logica.

“Adesso ci vorrebbe un abbraccio.” Finì col dire, però. Giusto per non tradire la sua, di logica.

“Se ci provi ti infilzo.”

“Come se non lo avessimo mai fatto…” lo riavvicinò, passandogli una mano sulla spalla “vieni qui, fratellino.”

“Levati o ti ammazzo!”

“Bellino, fratellino, piccino…”

“Barney!”

Ne approfittò per schioccargli davvero un bacio sulla testa, quando un rumore soffocato colse la sua attenzione.

Clint ne approfittò per levarselo di dosso con uno spintone.

“Ascolta…” entrò subito in allerta.

“E’ il tuo stomaco.” Contribuì Barney, senza però impedirsi di guardarsi attorno, oltre il sentiero.

“No… a me sembrano più…”

“Rane.” Si volse a guardare il fratello e l’espressione di puro stupore si tramutò rapidamente in qualcosa di molto simile alla complicità.

“Dimmi che possiamo evitare i fagioli in scatola, stasera.”

“A chi ne prende di più?”

“Al mio tre. Uno…”

Barney scattò ancora prima che Clint potesse raggiungere il secondo numero. Lo sentì scattare dietro di lui, ricoprendolo di insulti.

L’erba alta gli sferzava le caviglie, il vento nei capelli, il sole sulla pelle, in corsa a caccia di rane.

Improvvisamente Barney tornò ad avere dodici anni. E così impegnato com’era a mantenere vivida quella sensazione, si dimenticò senza rimorsi dell’ora cruciale della sua vedetta giornaliera.

 

*

 

Il cielo si stava ormai tingendo di rosso quando le lunghe ombre degli alberi arrivarono a sfiorargli i piedi.

Li ritirò cautamente, come volendo scacciare le tenebre per qualche minuto ancora.

Il malessere non si era placato.

Si chiese per quanto tempo ancora sarebbe perdurato quello stato di cose. E quando avrebbe potuto risultare credibile al gruppo, come membro rilevante per la comunità tutta.

Loki non lo aveva preventivato. Non aveva previsto di svelare così il suo segreto. Il segreto dei suoi poteri. Aveva certo valutato la possibilità, riprovato il discorso per ore, nella sua testa, affinché risultasse convincente, ma mai si sarebbe atteso di promuoverlo come supplica.

Solo che quando si era trovato, suo malgrado, a spiare quella riunione da cui era stato escluso (poco importava che fosse successo perché ancora semi bloccato a letto), non era più riuscito a trattenersi.

L’irrazionale istinto di dimostrare di avere qualcosa di importante da mostrare… no, da… condividere (era quella la parola giusta, no? Condividere. Per il collettivo… pensare al collettivo), con gli altri… aveva prevalso. A discapito della forma con cui avrebbe esposti i fatti. Avrebbe cercato in tutti i modi di conquistare credibilità.

I risultati non erano stati esattamente soddisfacenti, però.

Si era guadagnato occhiate compassionevoli. E la compassione era l’ultimo dei sentimenti di cui aveva bisogno. Non gli credevano. Pensavano fossero solo le deliranti parole di un folle che ha perso sanità e ragione a causa di quell’apocalisse.

Possibile che non esistesse modo alcuno per dimostrare cosa sapeva fare?

Da giorni il malessere che gli offuscava i sensi gli impediva di percepire alcunché. Possibile avessero davvero raggiunto un’oasi di pseudo pace? Quel gruppo strampalato, dal ritrovamento della donna incinta in poi, si era circondato di un’aura quasi benevola. Come se qualcuno con la sua mano si stesse prodigando a mantenere la pace, a preservare ciò che restava di quella razza umana ormai decimata, martoriata.

Doveva esserci un modo. Non poteva sul serio aver ereditato un dono tanto folle, quanto vantaggioso, solo per poi doverlo mettere da parte.

Si rimise in piedi, barcollante su quelle sue gambe ancora indebolite.

L’empatia col mostro verde lo aveva debilitato a tal punto da impedirgli di ragionare con lucidità.

E poi un pensiero fulmineo arrivò a tormentarlo.

Se da una parte riusciva davvero a entrare in una sorta di connessione mentale con quegli esseri, di capirne e prevederne le mosse, dall’altra cominciò a pensare se non sarebbe stato tanto folle credere che anche lui, in qualche modo, potesse influire sui pensieri… o per meglio dire sull’istinto di quelle creature.

Sulla scia di quell’intuizione chiuse gli occhi.

E cominciò a concentrarsi su quella sensazione, cercando di dissipare in qualche modo la patina che gli obnubilava la mente. Richiamò a sé tutta la concentrazione di cui aveva bisogno. Cercando di entrare in una connessione più con l’ambiente che con i suoi pensieri ancora tormentanti.

Gli venne più facile del previsto.

Focalizzò sui rumori circostanti. Sulle voci ovattate delle persone che gli giravano attorno, fuori in cortile, o dentro, fra le quattro mura di quella vecchia fattoria. Il passo pesante sulle travi di legno in soggiorno, il rumore della doccia nella stanza da bagno, il fischiettio lieve di qualcuno che amava le vecchie ballate. Uscì di casa per trascinarsi di nuovo all’esterno. Ad ascoltare il cinguettio degli uccelli, il fruscio del vento che scompigliava le fronde degli alberi.

Spinse il suo pensiero più lontano, a richiamare il gracidio delle rane, nascoste in qualche acquitrino dimenticato. E poi ancora più giù… verso il rumore del ruscello di cui nemmeno conosceva l’esistenza. Avvertì il ronzio degli insetti, che si muovevano in stormi compatti e poi il frullio delle ali di una… farfalla.

Fu solo quando i suoni tutti si concentrarono in un brusio indefinito a cui non riusciva a dare un nome, lì avvertì.

Il suono formicolava sulla sua pelle come se il sangue avesse ripreso a circolare improvvisamente. Quella sensazione alla base della nuca, uguale e però così diversa da come l’aveva percepita fino a quel momento.
Li sentiva.
Li sentiva dappertutto. Nel sangue, nello stomaco, nel petto… nella testa.

Un mormorio che non si concretizzava nell'assordante concerto di mascelle in movimento. Qualcosa che andava a stuzzicare quei cervelli compromessi, vinti dall’istinto di un'incontenibile necessità di cibo.

Andò allora a scavare ancora più a fondo, a disintegrare quella barriera per poter penetrare nella marcescente materia cerebrale.

Sentì il formicolio aumentare d’intensità, il mormorio tutto che diveniva più robusto. A una voce se ne univa un’altra e poi ancora, a creare un coro.

Voci di fantasmi del passato. Di ricordi estrapolati da menti danneggiate.

Li richiamò a sé, uno ad uno. Le labbra che si muovevano, mute e frenetiche.

Seguì quella sensazione finché non fu certo di averli agganciati senza possibilità di ritorno. L’essenza di tutte quelle anime perse che si allacciavano alla sua. Il mormorio che diveniva un’unica voce, un grido collettivo.

Sentì il sangue prendere a bruciare nelle vene, il cuore scandire i battiti con una frenesia tale da sembrare in grado di lacerare la cassa toracica, la testa pulsare, impregnandosi come spugna.

Quando fu sazia, quando fu al culmine, il dolore divenne così intenso da strappargli un gemito.

Cercò di divincolarsi, di retrocedere. Di ritrattare quella connessione.

Le tempie pulsavano e, se per un attimo di disse sicuro che gli sarebbe esploso il cranio così come erano soliti fare con gli zombie, quando non riuscì più a sopportarlo, la coscienza sembrò concedergli una tregua rapida e improvvisa come uno schiocco.

Le grida cessarono di colpo. I suoi occhi si riaprirono di scatto.

Ansante, sudato come dopo un lungo incubo.

Se per un terribile istante pensò di essere diventato cieco, fu solo perché la notte ormai aveva avvolto quella porzione di mondo.

Per quanto tempo era rimasto in quelle condizioni?

La mano, tremante, andò a raccogliere qualcosa di caldo e pastoso che gli era scivolato già per il mento.

Inorridì appena, quando si rese conto si trattava di sangue.
Forse non era stata una buona idea. Ma quel potere che si era sentito scorrere dentro, come avesse fatto parte di qualcosa di enorme, di ancestrale, lo spinse a cercare di capire che cosa era appena successo.

Non riuscì però a concretizzare una sola ipotesi. Non appena alzò lo sguardo per ricordare a se stesso dove si trovasse, sagome nere si insinuavano fra le ombre notturne come vapore. A penetrare in quell’oasi di pace, lacerando l’aura benevola e quella mano protettrice.

Un unico suono, nella notte: un concerto di ganasce in movimento.

 

___

 

Note:

Temo che i tempi tranquilli si siano già esauriti, sennò che gusto c’è? Un capitolo prima di Pasqua, soprattutto per fare gli auguri. A chi avrà qualche giorno di riposo e a chi… no.
Ringraziamenti e affetto a palate a chi mi segue sempre, alla mia beta e socia (viva le Audi!) e a tutti gli altri. Mangiate tanta cioccolata! A presto!

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13

 

“Perché le persone che cercano di far diventare peggiore questo mondo non si concedono un giorno libero. Come potrei farlo io? Illumina l'oscurità.”

(Io Sono Leggenda)

 

* 

 

Si fermò a guardare di nuovo fuori dalla finestra. Le tendine di pizzo ingiallite dal tempo, sventolavano alla brezza serale.

Era inquieta. I Barton erano fuori da poco prima di pranzo e ancora non erano rientrati. Un intero pomeriggio era arrivato e passato. E sebbene Natasha fosse stata impegnata tutto il giorno a sgomberare stanze per renderle abitabili, funzionali e prive di punti ciechi, adesso l’inquietudine latente cominciava a concretizzarsi in qualcosa che dovette faticare molto per rassegnarsi a identificare con la paura.

Aveva iniziato con i fratelli quel viaggio. Lo aveva portato avanti, cominciando ad intrecciare con loro un legame che aveva richiesto pazienza e adesso era circondata da individui che, sebbene le restituissero una sensazione tutt’altro che spiacevole, di fatto non conosceva abbastanza per dirsi a suo agio.

Quando Maria entrò nella stanza, finse di non averla sentita immediatamente. Forse per non dover intavolare una conversazione che non le interessava. Lo sguardo ostinatamente puntato verso l’esterno. Oltre il cortile, alla campagna sconfinata.

“Ti ho portato un paio di coperte”, le disse solo. Il fruscio accanto a quel cassettone ancora colmo di vecchi vestiti dei precedenti proprietari.

Le fece solo un cenno del capo, come a prendere atto del suo gesto, per poi voltarsi a rivolgerle una muta, inconsapevole richiesta.

“I Barton non sono ancora rientrati”, rispose senza aver bisogno di specifiche. E Natasha le restituì uno sguardo tutt’altro che grato.

“Probabilmente si sono attardati a caccia di qualche lepre. Barney ieri non faceva che blaterare delle sue fondamentali abilità di caccia.”

“Barney blatera di un sacco di cose.”

“Non me ne fossi accorta…” l’affiancò per godere di quella straordinaria vista serale. Il cielo sembrava bruciare all’orizzonte.

“State insieme da molto?” si sentì rivolgere una domanda che la prese in contropiede. E il suo sguardo perplesso Maria dovette coglierlo molto bene.

“Tu e i fratelli. Vi conoscete… da molto?”

“Un paio di mesi.” Le rispose allora, chiarita la faccenda.

“Solo… ? Sembrate un gruppo piuttosto compatto.”

“Abbiamo lavorato bene insieme.” Lavorare forse non era esattamente la prima parola che ci si aspetterebbe di sentire quando si parla di rapporti interpersonali, ma di fatto, era sempre stata abituata a pensare in termini di quel tipo.

Amici non ne aveva avuti mai. Compagni di lavoro invece…

“Si vede che siete affiatati.”

“Mi hanno salvato la vita.”

Maria le rivolse uno sguardo rapido e fu probabilmente sul punto di aggiungere altro all’inconsapevole interrogatorio a cui la stava sottoponendo. Barney non sbagliava di certo quando alludeva alla sua natura di poliziotta. Forse, dal canto suo, stava solo cercando di tutelare se stessa e il suo gruppo. Non faceva lei altrettanto, analizzando e studiando tutti i santi giorni quelle persone?

Qualcosa però sembrò distrarla dai suoi intenti.

“Che diavolo sta facendo Loki?”

Loki. Il tizio che era intervenuto alla riunione con quella sua strampalata uscita sulle sue capacità ricettive.

Spinse lo sguardo oltre il portico, vedendolo avanzare con aria trafelata dal retro del fienile.

Lo vide infine fermarsi e puntare lo sguardo in una qualche direzione, mentre andava lei stessa a cercare con gli occhi quell’invisibile rivelazione. Forse aspettandosi di trovare Clint e Barney o forse…
“STANNO ARRIVANDO!” il gridò di Loki lacerò il silenzio della sera. Uno stormo di uccelli andò a levarsi in volo da un paio di alberi. I grilli cessarono la loro nenia serale.

Arrivando? Chi?

Il pensiero corse rapidamente a quelle sue dichiarazioni, ma nel raggio di miglia non si vedeva niente, non si sentiva… niente.

Vide Thor correre fuori dalla fattoria, seguito dal Sif. Di nuovo l’uomo urlò qualcosa e solo allora, quando ormai l’idea che fosse completamente impazzito si andò formando nella sua mente, un brivido glaciale cominciò a serpeggiarle su per la schiena.

Una sensazione come d’orrore andò a stringerle le viscere, il battito accelerato, la velatura di sudore sulla fronte.

Quando si volse in direzione di Maria, fu certa di leggerle addosso il suo identico sconcerto.

“Cazzo…” la sentì pronunciare, mentre i suoi occhi si ingrandivano come lune piene in direzione della campagna.

Natasha colse solo l’ultimo bagliore di luce, prima di rendersi conto che l’erba alta della campagna circostante non era più mossa solo dal vento. Un percorso invisibile, una processione lenta e irremovibile e quel rumore, soffocato e molesto di mascelle in movimento.

Lo stomaco sprofondò nuovamente e si rese conto che non dieci ma forse cento di quegli esseri si stava spingendo nella loro direzione. E arrivavano da tutte le parti, come serpi striscianti pronti ad attaccare e avvolgerli nelle loro spire.

L’ultima cosa che udì, dopo aver recuperato entrambe le pistole che aveva con sé, fu il pianto del neonato di Betty.

 

*

 

“Dobbiamo chiudere tutto!” la voce di Fury cercò di sovrastare l’inutile e sbigottito chiacchiericcio di tutte quelle persone costrette a richiudersi in casa.

Il grido di Loki aveva azionato un meccanismo impossibile da frenare e la sua anticipazione, da qualsiasi intuizione gli fosse arrivata (Nick si rifiutava ancora di credere a qualsivoglia potere), aveva permesso loro di raccogliersi e fare opposizione a quell’attacco del tutto inatteso.

Avevano sbarrato le tre porte attorno all’abitazione e adesso si stavano affannando ad agganciare travi alle finestre.

Le ombre dei morti si affollavano attorno alla fattoria, filtrando attraverso le assi di legno, in un andirivieni famelico, come di leoni ingabbiati. Il suono assordante delle loro mascelle in un clack clack clack senza fine.

“Stark! Stark!” gridò all’uomo che gli veniva incontro trafelato. Ma del guantone repellente, nemmeno una traccia.

“Non c’è! Non c’è più!”

“Come cazzo è possibile che tu l’abbia perso?”

“Non l’ho perso! Me l’hanno rubato!”

“Rubato? E a chi diavolo verrebbe mai in mente di fare una cosa simile?”

“Non lo so, magari uno di quei tuoi uomini! O forse i due arcieri, com’è che sono gli unici due a mancare all’appello?”

La rossa che aveva appena finito di inchiodare una gamba del tavolo distrutto alla finestra, si era avvicinata al gruppo, con aria tutt’altro che amichevole.

“Non dare la colpa agli altri. L’unico da biasimare sei tu. Che non hai cura delle tue cose.”

“Ragazzina, bada a come parli.”

“Altrimenti?”

“Altrimenti…”

“Volete, per favore, tacere?” intervenne il Capitano Rogers dalle retrovie. Un aiuto in quel frangente, Fury non lo disegnava affatto. “Faremo in modo diverso. Siamo armati.”

“Parzialmente”, Coulson lo aveva affiancato, “le munizioni e le armi sono rimaste nel fienile.”

“State scherzando spero!” si intromise Fury che ne aveva già abbastanza di inconvenienti. La triste realtà era che erano stati avventati. Si erano rilassati un po’ troppo facilmente per i suoi gusti. Quell’illusoria oasi di pace si era frantumata in modo piuttosto brutale. E non riuscì a far altro che rimproverarsi per quell’assurda mancanza di prudenza.

Certo nessuno avrebbe potuto prevedere un attacco tanto massiccio. Un attacco che senza alcun preavviso si era abbattuto su di loro come un uragano.

“Dovremo dunque arrangiarci con quello che abbiamo.”

“Come no? Qualche munizione, un paio di fucili e un forcone. Perché non aggiungerci anche dell’olio bollente?” Ironizzò Stark che però dall’espressione sembrava tutto fuorché allegro. Tolto tutto quel suo armamentario tecnologico, la sua ostentata sicurezza prendeva a vacillare miseramente.

“Cecchini”, lo mise a tacere Rogers, “abbiamo bisogno di cecchini.”

“Non siamo i tuoi soldatini, non siano nel tuo sfavillante esercito.”

Rogers se diventò livido di rabbia o vergogna non si riusciva a dire, certo la sua antipatia per Stark adesso diveniva evidente.

“Io ho una buona mira”, si fece avanti la ragazzina dai capelli rossi. Il modo in cui guardava Rogers e da quello che avevano appreso in quei pochi giorni di convivenza, sapeva esattamente quello che stava chiedendo di fare. Data la sua espressione, Fury non si sentì di dubitare.

“Perfetto. Sam, anche tu, con lei…” ordinò Rogers, “non possiamo permetterci di sprecare munizioni, ma dobbiamo assicurarci di farne fuori un numero sufficiente a permetterci di affrontarli in modo meno massiccio.”

“Hai intenzione di andare là in mezzo e farli fuori a badilate?” di nuovo Stark.

“Se non hai soluzioni al problema faresti meglio a tacere.” Stavolta Fury si sentì in diritto di intervenire, prevenendo Rogers, che probabilmente aveva in serbo per lui una risposta altrettanto tagliente. Il tono duro e lo sguardo severo ebbero il potere di mettere un freno alla lingua del milionario.

“Rogers”, aggiunse poi, distogliendo l’attenzione, “Coulson e Hill sono altrettanto allenati. Siamo a quattro. Sono sufficienti?”

“Non è importante il numero, ma la mira, sceriffo”.

Si ritrovò ad annuire. Un solo cenno del capo, scatenò l'azione.

 

*

 

La sacca era ormai colma. Il gracidio delle rane tutt’intorno a ricordar loro che ci sarebbe stato tempo e luogo per un bis.

La sferzata di libertà che aveva provato in quel glorioso pomeriggio li aveva presi a tal punto da assorbire qualsiasi altro tipo di pensiero. Di attività.

Come se davvero Clint e Barney fossero tornati ragazzini. Complici in quelle ore rubate di assoluto sollievo dall’orrore.

“Dodici contro venti? Non esiste alcun universo in cui puoi ribaltare l’incontrovertibile verità che ti ho battuto!” Barney sventolava la sacca dove si agitava la sua ventina di ranocchi.

“Incontrovertibile. Non esiste alcun universo in cui tu possa usare una parola simile senza risultar ridicolo.” Gli rispose Clint, facendosi strada fra l’erba alta, per raggiungere il sentiero sterrato che li avrebbe ricondotti a casa.

Casa… o qualsiasi connotazione avrebbe assunto quella fattoria che fungeva loro da rifugio.

L’atmosfera era cambiata a tal punto, in quella misera manciata di ore, che una sensazione che non provava da tempo gli si era irradiata dal petto fino a stuzzicare le sinapsi del cervello: era sereno.

Sereno come poteva esserlo quando, da ragazzino, si trovava ad affrontare un lungo fine settimana, privo della presenza del manesco padre, in trasferta per lavoro.

C’erano solo lui, mamma e Barney.

A volte mamma cucinava loro delle torte. A volte cantava, persino. E sul fare della sera, cullati dalla tranquillità che nessun passo pesante si sarebbe fatto strada per le scale scricchiolanti dell’ingresso, riuscivano persino a raccontarsi storie paurose e restare svegli fino a tardi a sprecar parole su stupidaggini da ragazzini.

L’orrore accantonato.
Così come quel pomeriggio avevano, per un attimo, scordato del marciume che aveva invaso il mondo.

E poi pensò a Natasha. Che li aspettava alla fattoria. Probabilmente ancora indispettita da quella sua mancanza assoluta di sincerità.

Si sentiva abbastanza in pace con se stesso per pensare di affrontarla. E magari scusarsi. E aggiungere che sì, forse lei non si sbagliava e non si sbagliava Barney. Ma che non era mai più stato facile, dopo Bobbi, insomma…

Ma la mano sul petto a frenarlo, diede un brusco segnale di arresto anche ai suoi pensieri.

Restò in ascolto e improvvisamente l’ammonimento di Barney si fece concreto e terrificante.

“Ganasce…” mormorò, senza nemmeno aver bisogno di vederle. Il macinio costante di quelle mascelle e i lamenti sommessi prodotti da quelle corde vocali ormai compromesse.

“Alla fattoria.” Aggiunse Barney la mano già all’arco, lo sguardo vigile.

“Cazzo.” L’esclamazione corale che diede inizio alla corsa, come se potessero anche solo pensare di poter contrastare da soli una simile sciagura.

Se le Ganasce fossero state poche, probabilmente il gruppo se ne sarebbe occupato senza troppi problemi. Con quel prodigioso guantone di Stark, come era successo nella galleria. O con la tenacia infallibile dei militari e poliziotti tutti.

Ma forse non avevano avuta alcuna avvisaglia del loro arrivo e magari venir presi alla provvista era una variabile piuttosto complicata da affrontare.

Corsero a lungo, incrociando di tanto in tanto qualche sporadica Ganascia sfuggita al gruppo, atterrandola con colpi calibrati e rapidi.

Recuperare le frecce, una dopo l’altra, per non restare a secco. E arrivare infine al limite della proprietà e rendersi conto che quel formicaio attorno alle mura dell’abitazione non era uno stormo di uccelli, ma un groviglio di corpi marcescenti.

Le mani che graffiavano le pareti di legno, che andavano a cercare le finestre.

Attorno a loro non un essere umano… vivo.

Quando l’orrore di essere arrivati troppo tardi cominciava appena a farsi sentire ecco che uno sparo, due spari... e poi un terzo gli regalò quel granello di speranza.

Da una delle finestre al piano di sopra, qualcuno cercava di decimare Ganasce con precisione.

Una di quelle persone, per quello che gli era concesso cogliere, sembrava avere i capelli rossi.

Il sollievo temporaneo lo pervase.

“Si sono sbarrati nella fattoria.”

“Che scelta del cazzo…” Barney teneva l’arco in mano senza riuscire a pensare a un obiettivo reale in quel marasma di morti viventi.

“Perché  non usano il repellente di Stark?”

“Perché non li schiacciano con il carro armato, vorrai dire.”

“Forse non ne hanno avuto il tempo.”

“Forse sono degli imbecilli.”

Clint gli scoccò un’occhiata severa. Non poteva certo essere colpa loro di esser stati investiti da una simile invasione. Sicuro nessuno avrebbe potuto prevederlo. E se proprio doveva dirla tutta… Barney aveva saltato la vedetta pomeridiana.

Il gelo gli scese nello stomaco alla realizzazione, ma Barney non sembrò ricordarsene e decise di restare in silenzio per mantenerlo reattivo abbastanza.

“Che facciamo?” lo sentì però pronunciare, come se fosse già entrato nella modalità giusta d’attacco. Una volta lavoravano per mantenere pulita Waverly da quello zozzume, non avrebbe potuto essere tanto diverso. La sola differenza è che stavolta nessuno li avrebbe pagati per il servizio.

“Devono avere una sottospecie di piano. Diamo una mano ai cecchini alle finestre”, gli rispose, “abbiamo due pistole a testa, arco e frecce…”

“E un carro armato”, continuò per lui il fratello parecchio convinto della sua dichiarazione.

“Hai imparato a guidare il carro armato?”, gli rispose perplesso. I giorni dell’esercito erano lontani e nebulosi, ma non poteva certo escludere a priori la possibilità che Barney gli nascondesse qualcosa.

“No”, appunto, “ma quanto mai potrà essere difficile?”

“Non saprei… quanto pilotare un aereo?”

“Macché. Piuttosto speriamo che abbiano dimenticato dentro le chiavi, no?”

Clint dovette concentrarsi per non imprecare.

E adesso chi glielo spiegava che i carri armati non hanno… chiavi?

 

*

 

Loki era rimasto rintanato in uno degli anfratti del soggiorno a seguire con lo sguardo l’andirivieni sgomento di quel gruppo di prigionieri.

Sì, prigionieri, non c’era proprio altro modo di definirli.

Imprigionati in quattro mura, il disastro all’esterno.

Si trovò a pensare che quella situazione l’aveva già vissuta, che avesse già dato abbastanza a riguardo.

Vista da un’altra prospettiva, però, la familiarità della faccenda lo rendeva, in qualche modo, tranquillo.

Era davvero riuscito a richiamarli. Lo aveva fatto lui.

Il fatto che non provasse nemmeno una misera briciola di senso di colpa lo attribuiva al fatto che finalmente aveva avuto modo di dimostrare ciò di cui era capace.

Certo non gli avevano dato nessuna particolare gratificazione a riguardo, presi com’erano a contrastare l’orda, ma era sicuro che, se fossero sopravvissuti abbastanza a lungo, forse…

Ma a chi voleva darla a bere? Se ne sarebbero fregati comunque. Accantonando l’avvenimento come l’ennesima coincidenza. Perché l’aveva visto lo sguardo di Fury e del capitano militare. Lo sguardo compassionevole di Thor e quello ostile di quel Tony Stark.

L’amarezza di quella realizzazione, venne però spazzata via rapidamente dall’idea di portare avanti il cosiddetto piano di riserva.

In previsione di quello era riuscito a impossessarsi del grottesco guantone dell’eccentrico milionario, di lanciarlo a far compagnia ai non morti, prima che gli ospiti, vivi, della fattoria, si potessero rendere conto della portata di quella processione marcescente. E di lasciar tutti in balia del caos e dei pochi, pochissimi mezzi a disposizione.

Decise che forse, era allora arrivato il momento di farsi avanti e dare il suo apporto alla faccenda.

Ci era riuscito non una… ma ben due volte.

Aveva contattato mentalmente quegli esseri, era riuscito a farsi riconoscere come eguale, a entrare in empatia con i loro istinti. E se la prima volta era riuscito a convincerli di non essere solo cibo per le loro ganasce, a scappare dalla prigione e sopravvivere per giorni solo in quel deserto di anime, adesso era invece riuscito a incoraggiarli a seguirlo, a richiamarli, con la voce di quella sua coscienza, inaspettatamente sintonizzata con le loro.

Erano arrivati perché lui li aveva richiamati.

Erano giunti a frotte compatte perché così lui aveva deciso che fosse.

Per un istante, un misero, glorioso istante, si sentì intoccabile, immortale, potente.

Il solo fatto di poter decidere coscientemente della vita di tutte quelle persone, lo riempì di quell’entusiasmo frenetico che forse aveva raggiunto solo una volta, prima, nella sua vita precedente.

Si issò barcollante su quelle gambe ancora indebolite dai giorni di fermo.

Individuò quell’unica persona che avrebbe dovuto persuadere per rendere tutta la sua impresa degna di attenzione. Una volta convinto lui, sarebbe stata solo una strada in discesa.

“Sceriffo…” tentò un approccio, prima di vedersi oscurare la visuale da una delle ultime persone che avrebbe voluto avere sulla sua strada.

“Dove credi di andare?” Sif ancora una volta. Per quanto ancora lo avrebbe tormentato?

“Devo parlare con lo sceriffo.”

“Credi che non me ne sia accorta?” la domanda aveva un che di ambiguo ma qualcosa di molto simile al timore andò a stuzzicargli la coscienza.
“Che vuoi dire?” mantenne un tono casuale ma annoiato, come qualcuno che non ha tempo per le stronzate.

“Non so a che gioco stai giocando… ma mi sembra chiaro che qui tu sia l’unico che non sembra per niente preoccupato di quello che sta succedendo.”

“Non lo sono, infatti…”

“Perché?”

Le rivolse uno sguardo provocatorio.

“Non credo di essere interessato a condividere con una persona che sta facendo di tutto per impedirmi di salvar la vita a questa gente.”

“Salvare la vita…” rise, “chi? Tu e quale strabiliante idea?”

“Posso fermarli.”

“Fermarli?” gli domandò, “non sai nemmeno tenere in mano una pistola.”

“Non con un’arma. Ma con la mia testa…”

Adesso era il turno di lei di dimostrare tutta la perplessità che fino a quel momento non aveva avuto l’ardire di sfoggiare.

“La tua... ?” di nuovo quell’odiosa risata. Per quanto tempo gli avrebbe messo i bastoni fra le ruote quella donna terribile? Fu in quel momento che un pensiero spaventoso andò a formarglisi nella mente.

Così come era successo anni prima, quella furiosa scintilla di incoscienza che aveva acceso la miccia inarrestabile dell’omicidio.

Sarebbe stato capace di uccidere di nuovo? Per mantenere salde le sue apparenze probabilmente sì.

Per evitare di nuovo ostacoli.

Ma qualcosa stavolta sembrò decidere per lui. Quella mano benevola che sembrava aleggiare su quel luogo.

“Che state facendo?”

Fury si era avvicinato, attratto da quella malsana risata.

“Sceriffo. Loki crede…”

“Posso provare a scacciarli. Così come sono riuscito a percepirli quando si stavano avvicinando”, così come era riuscito a richiamarli… per farli avvicinare, “lasciatemi fare un tentativo.”

La interruppe per impedirle di lasciarsi rubare la scena, di minimizzare. Agganciò lo sguardo a quello di lui, di quel suo unico occhio. Per provargli che non aveva paura di esporsi, per dimostrargli che era lucido e non folle, non illuso.

“Puoi provare quello che ti pare, ragazzo”, la concessione arrivò più rapida di quanto pensasse, “se riesci a farli smettere, non me ne frega proprio un cazzo della tecnica che usi. Fosse anche un gioco di prestigio dove caghi colombe.”

Se Loki non trovò granché divertente il paragone, fu mitigato dal sollievo provato dall’autorizzazione che aveva raggiunto. Non che gli servisse, ma quantomeno era riuscito ad avere l’attenzione di cui necessitava per provare a qualcuno, alla massima autorità di quella neo nata comunità, il suo valore.

Annuì una sola volta e si volse in direzione di Sif che l’osservava perplessa, ma forse non così sicura di sé da poter sfoggiare quel suo odioso sorriso di scherno. Forse preoccupata da quell’idea tutta sbagliata che si era fatta di lui e delle sue intenzioni negative.

Che lo credesse pure… non si sentiva certo di smentirla.

Si avvicinò a una delle finestre. Osservò l’andirivieni di quelle ombre che si insinuavano dappertutto, così come il suono delle ganasce.

Si concentrò, così come aveva fatto prima, sul suono, sul rumore degli spari al piano di sopra, sullo scalpiccio dei piedi, delle mascelle in movimento. Fino a spingersi a cercare quel brusio di neuroni impazziti…

Si sentì spingere di nuovo in quella assurda dimensione. Cominciò a lasciarsi indietro qualsiasi pensiero, per potersi agganciare a quello delle ganasce e poi…

E poi… il rombo di un motore lo strappò con violenza dall’empatia creatasi.

Si trovò a boccheggiare, sentendo il petto lacerarsi di dolore, le tempie esplodere così come mai gli era successo.

“Che cazzo sta succedendo la fuori?!” un grido, una voce.

E Loki cadeva a terra, tenendosi la testa fra le mani, lacerato, distrutto.

“Il carro armato! Qualcuno sta guidando il carro armato!”

Il disgustoso rumore di membra sventrate, e corpi divelti, andò a confondersi con il dolore sordo che ormai aveva preso a riverberarsi per tutto il corpo.

Li stavano uccidendo. Tutti quanti. Li stavano uccidendo tutti.

E poi fu di nuovo il pianto del bambino a chiudere il cerchio, prima di spingerlo verso l’incoscienza.

 

*

 

“Te l’avevo detto che non poteva essere così difficile!” Barney si era fermato solo quando si era reso conto che non c’era praticamente più niente da spiaccicare.

Clint provava un senso di nausea così potente che quasi si domandò come avesse anche solo potuto godere di giochi come GTA, gli anni addietro.

Emerse dal boccaporto che aveva un disperato bisogno d’aria. L’odore del marciume attorno alla fattoria non migliorò la sensazione claustrofobica di quando era rinchiuso la sotto.

Si guardò attorno solo per constatare dello sfacelo color interiora e merda e di rendersi conto che le poche Ganasce superstiti si stavano allontanando come se la questione fattoria avesse perso di qualsiasi attrattiva.

Un fenomeno se non altro singolare. Nessuna Ganascia era dotata di coscienza pensante, o valutativa.

Qualcosa doveva averli spaventati. E di certo non era stato il carro armato. Forse il guantone di Stark che aveva avuto il buon gusto di utilizzarlo dopo non si poteva sapere bene quale guaio.

Saltò fuori, aggrappandosi a una delle cinghie di trasporto, prima di atterrare al suolo.

Non attese nemmeno che Barney lo raggiungesse, quando vide la porta della fattoria aprirsi cautamente e un gruppo di uomini armati fra cui Maria Hill e Coulson, uscire di nuovo. Come in avanscoperta per decretare che tutto fosse finito.

“Wooo, che macello, ragazzi!” la voce di Barney arrivò dalle retrovie.

“Li avete fatti fuori tutti con la nostra fantastica Gilda!” esclamò quel Sam Wilson che adesso correva loro incontro solo per superarlo e andare a constatare lo stato del suo carro armato.

“Gilda? Il carro armato si chiama Gilda?”

“Non lo hai letto il nome sul boccaporto, razza di irlandese dell’Iowa?”

Li lasciò ai loro deliri andando a cercare con lo sguardo una qualsiasi rassicurazione che stessero tutti bene.

“Non l’ho letto il nome, ma ehi, è una bomba!”

Vide Lo sceriffo. Thor e Sif.

“Lo credo bene, me ne sono preso cura io, per tutto questo tempo.”

Il professor Selvig. Sua nipote Jane.

“Sapevo io che avrei dovuto continuare nell’esercito.”

Il gruppo di Fury, affacciato a una delle finestre del primo piano.

“Eri nell’esercito?”

Pepper e Tony a sbucare da quella di fianco.

“Diavolo sì. Ma prima ancora di capire che avrei potuto aver successo con un carro armato. A proposito chi ha allontanato le ultime Ganasce? Stark?”

Il capitano Rogers. Betty e la bambina con gli occhi ancora piedi di lacrime.

“Stark? Macchè, si è perso il repellente!”

E infine l’ansia andò a dissolversi come neve al sole, quando fuori da quella porta uscì Natasha.

“Come ha fatto a perdersi il repellente?”

Gli ci vollero meno di tre secondi per raggiungerla.

“Dice che glielo avete rubato voi.”

E ritrovarsela di fronte con il fiato ancora corto. Per lo sforzo o la paura.

“Noi? E che me ne faccio di un guantone? Al massimo le Ganasce ce le prendo a sberle.”

“Stai bene?” le domandò mentre il dialogo alle sue spalle, andava a dissolversi in un mugolio di proteste più o meno velate.

La vide annuire una sola volta.

L'istante dopo la stava abbracciando.

 

___

 

Note:

Un po’ di azione non fa mai male. Che poi i pipponi infiniti pieni di dialoghi annoiano.

I nostri eroi sembrano essersela cavata con poco stavolta. Ma sicuro non è finita qui. Presto o tardi i guai se li andranno a cercare da soli. Ma questo lo lasciamo per i prossimi capitoli.

Niente da aggiungere se non i soliti ringraziamenti ai lettori, silenti e non e alla socia Sere (guarisci alla svelta, mi raccomando). A tutti quanti: siete pronti per Age of Ultron? Io no. Mi ci è voluto supporto morale per digerire pessimi spoiler e probabilmente mi servirà un gruppo di recupero, dopo. Meno male esistono i fumetti. E i press tour con il cast del film che è, e rimane adorabile. Quelli sì che danno soddisfazione. Sono indispettita? Sì, perché a me pare che mezzo mondo abbia vissuto un’allucinazione collettiva per tre anni per poi approdare a soluzioni discutibili. Magari siamo tutti stati posseduti da Wanda. Grazie Wanda, la prossima volta basta una cartolina.

Alla prossima!

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14

 

Non tutti quelli che vagano sono senza meta, soprattutto non coloro che cercano la verità, oltre la tradizione, oltre la definizione, oltre l'apparenza.”

(Mona Lisa Smile)

 

*

 

Si era svegliata con un gran mal di testa.

Non era sicura fosse per l’odore del terribile deodorante con cui avevano cercato di arginare l’olezzo di morto che arrivava da fuori o per altri motivi.

Sentire le voci, all’esterno, le diede un segnale piuttosto chiaro del fatto che qualcuno si era già messo in moto.

Il giorno prima era stato un disastro. Fury aveva messo in piedi una squadra per ripulire almeno il cortile da tutte quelle carcasse marcescenti. Per dare una parvenza d’ordine e stabilità alla violata tranquillità della loro oasi.

Il cielo era rimasto stitico per tutto il giorno, gonfio di nuvole che promettevano un temporale, ma non li aveva graziati di quella pioggia rinnovatrice che tutti si aspettavano.

L’aria fredda che filtrava dalla finestra di quello stanzino del secondo piano, però, le regalava la sensazione che presto o tardi sarebbero stati salvati da quell’evento meteorologico.

Maria si mise seduta. Oltre la testa anche la schiena le doleva. Aveva dormito a terra, su una pila di coperte. I materassi erano destinati a malati e puerpera ma non le sembrava il caso di lamentarsi: dopotutto si riteneva già abbastanza fortunata ad avere ancora un tetto sopra la testa.

E un cuscino in condivisione.

Si volse solo per trovare Barney ancora steso al suo fianco. Respirava regolarmente, ancora assopito. Intravedeva appena un quarto del suo viso, ma l’espressione risultava abbastanza rilassata da concederle la sicurezza che aveva riposato certo meglio di quanto non avesse fatto lei.

Si levò cautamente, determinata a non svegliarlo. Il freddo del primo mattino la fece rabbrividire abbastanza da metterle fretta di trovare i suoi indumenti sparsi per la stanza.

Non era ancora del tutto sicura di sapere come fosse successo.

Il trovarsi a letto con Barney Barton.

In realtà lo sapeva, ma non era giunta ancora alla concreta realizzazione dell’intera faccenda.

Chi la conosceva bene sapeva che non era una di quelle persone che prendono il sesso alla leggera.
O qualsiasi altra cosa alla leggera.

Ma non era nemmeno propensa a pensare che Barney fosse qualcosa che andasse oltre… quello.

Era successo. Dopo un intero pomeriggio a smantellare macerie e corpi. Sporchi e stanchi. Ancora scossi, in tensione per lo scampato pericolo.

Lo aveva difeso dalle accuse di Stark senza quasi registrare il gesto.

E poi c’era stata la cena frugale. L’offerta di pace. La ricerca di caffè nel fienile.

Uno scambio di battute, di quelle che erano in grado di mandarla su tutte le furie e che però, stavolta, avevano avuto l’effetto contrario.

L’aveva fatta ridere, a dispetto di tutto l’orrore del giorno precedente. A ricordarle che erano ancora vivi. Nonostante tutto.

E poi era successo. Si era lasciata andare alla temporanea alchimia, alla lusinga perpetrata per giorni a discapito del suo pessimo carattere, scaraventandosi alle spalle, per una manciata di minuti, tutto quello che l’aveva oppressa in quei due mesi.

La paura, la perdita, l’angoscia.

La cosa straordinaria era non sentire alcun senso di colpa per aver contravvenuto a una delle sue regole fondamentali, nella vita precedente.

In un mondo senza regole… era ancora sensato mantenere determinati valori, determinate precauzioni?

Un evento tanto ordinario che non riusciva nemmeno a catalogarlo come qualcosa su cui dover davvero riflettere. Era successo, era passato e si sentiva viva. Ancora.

Fece scorrere la zip dei pantaloni sistemando la camicia che le scivolava enorme sulle spalle. Raccolse i capelli in una coda e si affacciò alla finestra solo per sbirciare il gruppo di Rogers che stava ripulendo il carro armato, preparandolo per la spedizione verso Atlanta.

L’urgenza di risolvere quel problema si era fatta pressante dopo l’evento di due notti prima e avevano deciso che sarebbero partiti, probabilmente l’indomani, alle prime luci dell’alba. Per evitare di dover affrontare l’orrore della città al buio. Per avere ampi margini d’azione.

Lei aveva deciso di restare alla fattoria. Ultimo baluardo a protezione delle persone che sarebbero rimaste ad attenderli. Sapeva di non avere la stessa preparazione militare di Rogers o di Sam Wilson. Conosceva i suoi limiti e la sua audacia preferiva tenerla per chi non era in grado di difendersi abbastanza. Così come aveva sempre fatto. Come il giorno che aveva scelto di entrare nel corpo di polizia.

Per fare ciò che era giusto. Per prevenire utopicamente le ingiustizie.

Una scelta che nessuno, nella sua famiglia, aveva approvato. Ma che aveva portato avanti senza guardarsi indietro, alla quale aveva dedicato la sua intera esistenza. Che l’aveva portata a raggiungere un buon grado nella carriera che si era prefissata, che le aveva affiancato lo sceriffo Fury dal quale aveva imparato più cose di quanto si fosse mai attesa di imparare da un solo essere umano. Sacrificando, di contro, alcune delle scelte che per tanti non facevano di lei una… vera donna. Un marito, dei figli. Un rimpianto che nonostante tutto non aveva mai avuto, non fosse stato per quel flebile senso di colpa nei confronti dei suoi genitori che si erano augurati per lei tutto ciò che anche la sorella aveva avuto. Poco importava se a poco più di trent’anni Helena si era trovata con due figli a carico e la separazione da un marito che la picchiava. Che Maria aveva dovuto correrle in aiuto nel bel mezzo della notte per evitare che Richard la massacrasse. Che aveva caricato lei e i bambini a bordo della sua auto di pattuglia, poi metterli sotto controllo cautelare prima di accertare la violenza domestica.

Non era sufficiente fosse felice? Evidentemente la sua idea di felicità non coincideva con quella del pensiero collettivo. Ma niente di più si era mai aspettata dalle convinzioni di una piccola città di provincia.

Si era costruita una corazza. Nella quale si era rinchiusa e con la quale aveva sempre finito per scontrarsi contro chiunque le fosse franato addosso con le sue malsane condizioni, uscendone sempre… mediamente vincitrice.

“Ehi…” una voce arrochita dal sonno le segnalò che l’uomo si era svegliato, “ma che ore sono?”

Si voltò a guardarlo mentre si rimetteva seduto, stropicciato e con i capelli all’aria. La barba stava lentamente ricrescendo. Si scoprì a pensare di preferirlo in quella maniera. Si addiceva di più al carattere del personaggio. Sorrise al pensiero che in parte se la fosse tagliata per attirare positivamente la sua attenzione.

“Non saprei. Il mio orologio è rotto”, gli rispose, poggiandosi al davanzale della finestra. Si accorse del suo sguardo, ma lo sostenne con serietà finché le fu concesso di farlo.

“Aw, ma ti sei già rivestita?” la lamentela del tutto spontanea quasi le strappò l’ennesimo, straordinario sorriso.

“Faceva freddo.”

“Potevi stringerti a me.”

“Avevo mal di schiena.”

“Posso farti un massaggio.”

“Stai spingendo un po’ troppo sull’acceleratore, Barton. Fa' attenzione.”

“Pardon, milady…” lo vide alzare le braccia per stiracchiarle e rimettersi in piedi. Apparentemente affatto disturbato della sua stessa nudità.

Maria si trovò a squadrarlo senza remore, rendendosi conto di quanto massiccio fosse rispetto a come lo aveva percepito la notte precedente.

Registrò una lunga cicatrice sul fianco e si trovò a pensare che forse le sarebbe piaciuto, essere stordita dalle sue chiacchiere per capire che razza di individuo si trovasse di fronte. Non che non ne avesse già avuto delle anticipazioni piuttosto interessanti. Su di lui… e sul fratello.

“Ti sei goduta lo spettacolo o devo aspettare ancora un po’ per rivestirmi?”

Venne scossa dai suoi pensieri. E prima di poterlo registrare gli lanciò addosso la sua stessa maglia.

“Ti conviene muoverti. Gli altri sono in piedi da un pezzo. Penseranno che sei uno scansafatiche.”

“Se solo sapessero di tutta la ginnastica che ho fatto stanotte ci penserebbero due volte a dirlo…”

Maria fece roteare gli occhi e senza nemmeno salutarlo uscì dalla stanza.

“Ehi aspetta! Vengo anche io!”

Nemmeno da dire che si affrettò a raggiungere il pianterreno. Ma stavolta il sorriso che le premeva sulle labbra, lo lasciò fiorire liberamente.

 

*

 

“E’ solo un lieve raffreddamento, niente di preoccupante.” Jane stava sorridendo alla bambina, fra le braccia di Betty.

Le passò le dita sulle gote rosee, vagamente accaldate.

“Sei sicura?”

“Sicura. Ha solo qualche linea di febbre, ma i bambini l’hanno più spesso di quanto si possa immaginare, i primi mesi di vita.”

Betty si rimise seduta ad osservare la piccola, tenendola stretta al petto come restia a restituirla alla sua improvvisata culla.

C’era un’alta probabilità che la neonata nel grembo materno avesse sviluppato gli stessi anticorpi della madre alla malattia che divorava il mondo, ma dall’altro lato ancora non potevano saperlo con certezza.

Erano riusciti a tenerla lontana dalla compagna di Stark per giorni, l’intera durata della loro permanenza lì, ma dopo l’invasione di zombie e l’obbligo di convivenza forzata per contrastarne l’attacco, la paura che avesse potuto contrarre quello stesso, letale virus, aveva rafforzato i dubbi e le paure della madre e dei due scienziati che la tenevano in cura.

Ma cercava di essere positiva. Immersa nel suo mondo fatto di formule ed esperimenti, di calcoli delle probabilità e delle certezze, a volte tendeva a dimenticare di come la vita non potesse essere tenuta monitorata come in provetta.

Ci provava comunque, a tenere tutto sotto controllo. A dare spiegazioni, logiche e razionali a un mondo che aveva mandato all’aria diversi secoli di studi scientifici.

L’orrore delle prime avvisaglie era stato immediatamente affiancato dallo stupore della scoperta. E delle mille possibilità a cui le nuove ricerche avrebbero potuto condurre.

Lasciò Betty e la bambina a riposare e godere dell’aria fresca che lentamente andava coprendo l'odore osceno che sembrava essersi insinuato nelle pareti della vecchia fattoria.

Si fermò fuori, sotto al portico, ad osservare Rogers e una squadra di volontari che stavano sistemando il carro armato per la spedizione verso Atlanta.

Intravide Donald… o Thor come a lui piaceva essere chiamato, che dopo aver rovesciato un intero secchio d’acqua fra le cinghie del carro armato, adesso stava tornando indietro a recuperarne altra per il secondo round.

“Buongiorno, Jane.” La accolse e lei si trovò a sorridere del suo buonumore, nonostante quel cupo mattino di inizio estate.

“Buongiorno”, si poggiò leggera al parapetto, trovandosi in una posizione un poco rialzata, quando se lo ritrovò di fronte. Persino con quel dislivello era molto più alto di lei.

“Per quando avete deciso la partenza?”

“Domattina, al più presto”, le rispose, con un velo di preoccupazione a incupirgli lo sguardo, “non sarai dei nostri, mi hanno detto.”

“Oh, no… sono una ricercatrice, non una combattente”, gli spiegò, “probabilmente sarei solo d’intralcio.”

“Nemmeno Selvig sembra granché a suo agio con la situazione.”

“Già, ma conto che lo teniate al sicuro”. Il tempo di permettergli di recuperare ciò di cui aveva bisogno.

“A costo della vita.” Le rispose con una solennità che aveva del commovente. Come vederlo, guerriero d’altri tempi, stringato in un’armatura lucente, imbracciando le sue armi migliori.

“Spero non dovrete arrivare a tanto.” Ammise, guardandolo a distanza ravvicinata.

Per quanto si fosse impedita fino a quel giorno di ammetterlo, la prima vera attrazione che aveva provato per lui arrivava direttamente da quel bel viso. Le spalle possenti, la schiena dritta. E quelle mani enormi, callose, abituate a lavori manuali.

Un rossore adolescenziale andò a colorirle il viso e per un attimo si chiese se non fosse impazzita del tutto a pensare a certe stupidaggini in un simile contesto.

E comunque c’era Sif. Quella donna che orbitava attorno a Thor da quando li avevano incontrati. E per quanto si sforzasse di ricordare le parole di Loki sulla natura del rapporto fra i due motociclisti, non riusciva a non percepire l’ostilità che la donna le riservava ogni volta che si trovava a scambiare due parole con lui.

L’ultima cosa di cui avevano bisogno in una comunità tanto piccola e precaria era quella di fomentare dissapori.

“Vedrai che andrà tutto bene”, la mano di lui coprì la sua e il calore che irradiò fu sufficiente a dissipare i buoni propositi.

Si trovò a sorridergli e se vinse l’istinto irrazionale di chinarsi e baciarlo, nettamente in contrasto con la sua natura riservata, fu solo per un rumore sordo alle sue spalle. Turbata dai suoi stessi pensieri si riscosse e dopo avergli elargito un sorriso stentato si sottrasse docilmente alla sua presa.

“Credo sia il caso che rientri a dare un’occhiata alla bambina di Betty.”

“Ci vediamo più tardi”, le disse. E, in quella promessa, finì per sperare con un po' troppo ardore.

 

*

 

Sif aveva quasi terminato il giro di ronda, circumnavigando il perimetro dell'intera fattoria.

Si era fermata però ai limiti della veranda, quando aveva intravisto Thor in compagnia della giovane scienziata.

Il dolore sordo, irragionevole, alla base del petto, l'aveva frenata dall'uscire allo scoperto. Nascosta come una ladra a sbirciare quello scambio di battute, a sperare di cogliere definitivamente qualcosa che la spingesse a desistere, rinunciare una volta per tutte a quell'assurda affezione per l'uomo.

La solitudine e la perdita l'avevano spinta di nuovo nella sua direzione, come un vento tiepido di ricongiungimento. Non era tanto la delusione di veder crollare nuovamente, definitivamente l'occasione di averlo vicino, ma la realizzazione che Thor, nonostante tutto, fosse riuscito ad andare avanti.

Lei ancora si svegliava nel cuore della notte. Convinta di essere circondata da tutti i compagni e amici che aveva perso per strada. L’isolamento, reale e feroce, nonostante fosse circondata da gente.

Nonostante, in un modo o nell’altro, fosse sempre stata abituata… alla solitudine. Figlia unica di un padre che non le aveva mai dato la giusta attenzione, l’affetto sufficiente. Aveva stabilito, fin da ragazzina, che per il suo futuro avrebbe dovuto contare solo su stessa. Eppure sempre inconsapevolmente alla ricerca di qualcosa che le era sempre mancato: una famiglia. Thor era l’ultimo effettivo legame con quel gruppo di persone che avevano sempre rappresentato il suo mondo.

E il fatto che Thor si fosse abituato all’idea di vivere senza Volstagg e compagnia, cercando approvazione e affetto per un gruppo così estraneo e lontano, la metteva in difficoltà.

Avrebbe perso anche lui? Come aveva perso suo padre? Come aveva perso tutte le persone per cui poteva davvero valer la pena lottare.

Si sentì un’egoista. Ma recalcitrante ad abbracciare il senso di colpa per orgoglio. Forse, in parte, credendosi nel giusto.

Si ritrasse di nuovo quando li vide separarsi. Decisa a lasciar passare ancora un po’ di tempo, prima di uscire allo scoperto e ricominciare il suo giro di perlustrazione.

Si poggiò a una delle pareti della fattoria e socchiuse gli occhi. Come a riprendere fiato. A ridimensionare i pensieri.

Un paio di passi nella sua direzione la costrinsero a rinunciare al momento: occhi verdi, ora, la stavano fissando.

Natasha. O qualcosa di simile. Si vide costretta a darsi di nuovo un contegno, ad imbracciare di nuovo il machete che teneva fra le mani come arma d’offesa.

“Credevo fossi una di quelle cose…” giustificò il gesto inconsulto.

“Le Ganasce?” la sentì dire, venendole incontro, senza però rinunciare a quel senso d’allerta.

“Ganasce… sì… penso”, incerto il tono, l’approccio. Non era ancora propensa a concedere fiducia o scambiare più di qualche frase di convenienza con quella gente.

“Ho trovato qualcosa che penso dovresti vedere.” Le disse solo, con quello sguardo che non svelava null’altro che una fredda osservazione.

Le lanciò un'occhiata perplessa e poi sospetta. Non avevano mai scambiato più che qualche frase ed ora si rivolgeva a lei, direttamente, come se la stesse cercando.

Si strinse nelle spalle e, guardandosi attorno come a decretare di essere mediamente al sicuro, si apprestò a seguirla, a farle cenno di precederla per mostrarle ciò che le aveva annunciato.

Percorsero un breve tratto, appena fuori dal perimetro di ronda che si erano prefissati. Proprio dietro al fienile.

Vide Natasha scostare con il piede una cassetta accatastata accanto ad altre, franate per l'urto della processione di morti viventi, una sera di due giorni prima.

Si scostò appena per poter guardare anch’ella e, a terra, nascosto in una sacca di cellophane, le sembrò di riconoscere qualcosa. Dovette avvicinarsi per accertarsene per bene.

Si chinò accanto al cumulo di oggetti inutili, e scostò un lembo del sacco con la lama del machete: al suo interno non vi era altro che il guantone di Stark.

La sensazione che ne ebbe di primo acchito fu di puro sconcerto e poi sollevò lo sguardo su Natasha per ricevere spiegazioni.

“Credevo lo avesse perso”, le disse, rimettendosi in piedi, decisa a lasciarlo lì dove era, determinata a non toccarlo.

“Stark credeva glielo avessero rubato. Forse aveva ragione.”

“Perché non hai avvisato lo sceriffo? O Stark stesso?”

Natasha le rivolse uno sguardo che sembrava chiedere se dovesse davvero darle spiegazioni. Quella ragazza era piuttosto criptica.

“Perché volevo conoscere prima la tua opinione a riguardo.”

“La mia… credi che sia stata io a…?” se provò una punta d’indignazione svanì immediatamente al diniego della donna.

E poi un pensiero andò a stuzzicarle la mente. Lo sguardo finì lungo la facciata della fattoria, alla finestra di una delle stanze adibite al riposo dei malati o convalescenti.

“Loki.”

Natasha non disse niente, i suoi occhi la stavano però scrutando, come a spronarla a continuare.

“Credi che sia stato Loki?” le chiese allora, mentre qualcosa andava a depositarsi sugli strati di diffidenza che già provava nei confronti dell’uomo.

“Volevo prima sapere se qualcun altro fosse pronto a sostenere la mia teoria.”

“Non mi sono mai fidata di lui.”

“Era quello che volevo sapere.”

“Ma hai delle prove? O credi che fidarsi delle mie sensazioni sia sufficiente?”

“Ho delle prove. Credo di averlo visto arrivare dalla direzione del fienile, la sera dell’invasione di Ganasce.”

“Perché non lo hai detto subito?”

“Perché non sapevo cosa stesse facendo. Il guantone l’ho trovato stamattina.”

Sif sentì qualcosa di profondo scuoterle lo stomaco. Rabbia e frustrazione, forse.

“Perché credi che lo abbia fatto?” le domandò.

“Non lo so. Vorrei chiederlo a te. Viaggi con lui da molto più tempo. E sembri sapere più cose di quante non ne sappiamo noi. O Thor.”

Si guardò attorno, non del tutto certa di voler condividere tutto con Natasha. Ma se Loki, da subito e a ragione, le aveva restituito sensazioni negative, al limite della ferocia, Natasha e il suo piccolo gruppo le regalavano le sensazioni opposte. E in ogni caso, era stufa di essere l’unica a sostenere che quell’uomo fosse pericoloso. Omicidio o meno.

“Io non so niente di lui”, e in parte era vero.

“E dei suoi poteri che mi dici?”

“Di quelli so ancora meno…” anche se non poteva certo dire che le sue intuizioni sulle Ganasce non si fossero mai concretizzate in qualcosa di… vero. “Ma sono sicura che sia successo qualcosa ieri. Sono sicura che ci nasconda qualcosa. Un piano che non riesco a comprendere.”

Natasha si limitò ad annuire sulle prime.

“Dobbiamo tenerlo d’occhio.”

“Al momento non credo possa andare da nessuna parte.”

Guardò di nuovo in direzione della finestra.

“No, però possiamo scoprire se è stato davvero lui a nascondere il guantone di Stark. Cominciamo da quello.”

“Hai intenzione di chiederglielo?”

“No, ma se è come penso, appena si sarà ripreso tornerà a cercarlo. Aspettandosi di trovarlo esattamente nel posto in cui l’ha nascosto…”

Sif le scoccò uno sguardo sorpreso.

“Cos’eri nella vita precedente, una specie di detective?” le venne spontaneo domandarle, ricevendo in risposta il solito, freddo sguardo.

“A volte.” Fu la sua criptica risposta.

Scosse la testa, in parte divertita, in parte intrigata da quella sorta di nuova, clandestina collaborazione.

“Domani ad Atlanta, però, quel guantone servirà a Stark. Servirà alla spedizione.” Le ricordò, a prescindere o meno dalla preparazione che il gruppo di volontari era in grado di esibire.

“Troveremo un modo per restituirglielo”, le rispose, “e in ogni caso non è necessario che Loki lo trovi. Basta coglierlo in flagrante mentre sta cercando di recuperarlo.”

E improvvisamente il piano più o meno elaborato della donna divenne chiaro.

“Ci penso io. Lo terrò d’occhio.” Si offrì senza avere nemmeno mezza esitazione.

“Credevo volessi venire ad Atlanta con noi.”

Sif scosse la testa.

“Vado dove posso essere utile”.

E all'istante capì che comprendere le dinamiche dell’uomo di cui non si era mai fidata era il compito che le era stato affidato in quella storia.

Come se le trame del destino si fossero improvvisamente messe in moto il giorno in cui tutti si erano incontrati ad Atlanta e adesso dovessero solo seguirle per vedere dove li avrebbero condotti.

Un tuono lontano scandì quella decisione.

Pochi minuti dopo, cominciò a piovere.

 

___

 

Note:

Un capitolo tutto femminile, perché sì. Perché avevo come la sensazione di dover dare voce anche a loro. Perché nei film della Marvel... direi che abbiamo un problema.

Nel prossimo capitolo si ritorna in battaglia.

Ho avuto un periodo di defaillance. Non ero sicura di tornare a scrivere in questa sezione. Poi però sono andata a vedere Age of Ultron. E... insomma, mi è piaciuto così poco che ho detto: okay, adesso posso andare avanti per la mia strada. Sopratutto con il Clintasha. Dopo la sua completa disfatta cinematografica, la sensazione è quella di essere finalmente libera. Libera dai vincoli dell'MCU. Libera di interpretare tutti i fumetti che leggo e rielaborarli come meglio credo. Libera soprattutto da quella fanfiction scritta male di Joss Whedon. Perchè per quanto mi riguarda Age of Ultron non esiste (concedo solo l'esistenza di Visione perché è un figo). E non mi piegherò certo al povero e tristo canon che ci ha ficcato in gola a forza, rovinando più di un personaggio. Ma questa è opinione personale. Insomma... grazie come sempre a chi si è fermato a leggere, a chi continua a farlo, a chi recensisce e alla mia socia e beta Sere, che... senza di lei, ora non sarei qui... viva. Ce l'abbiamo fatta comunque, hai visto?
A tutti gli altri... ci si risente presto e sì, anche con una fanfiction Clintasha nuova nuova. Tutta dedicata a loro e quasi finita. Perciò sì... insomma... non smetto di scrivere. Per niente. So cavoli vostri, mo'. 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


CAPITOLO 15

 

 

“La mancanza di umiltà di fronte alla natura che si dimostra qui... mi sconvolge. Lei non vede il pericolo che è insito in quello che fa? La potenza genetica è la forza più dirompente che esista e lei se ne serve come un... un bambino che gioca con la pistola del padre.”

(Jurassic Park)

*

 

Era stato ad Atlanta. Un giorno di tanti, troppi anni prima.

Prima di diventare sceriffo. Prima ancora che la morte diventasse un pensiero fisso.
Certo, alla morte ci aveva pensato tanto, in Vietnam. Il confronto incessante, diretto, con la Nera Signora.

Poi era tornato a casa. E la morte l’aveva accantonata.

Ora era di nuovo un pensiero fisso. Costante. E pensare che, ancora una volta, spingeva sull’acceleratore per andargli incontro, consapevolmente, volontariamente, un po’ gli faceva girare i coglioni.

Non tanto per se stesso, che se quel Signore che sta nei cieli gli avesse concesso ancora qualche mese di vita, a conti fatti, non avrebbe proprio avuto niente di cui lamentarsi.

Ma quei ragazzi, tutti quei ragazzi. Alcuni troppo giovani anche solo per avere dei rimpianti.

Pensieri negativi scatenati da quel cazzo di tempaccio che aveva presto ad avvinghiarli in forti scariche di vento e pioggia.

Che stesse diventando meteoropatico? Oltre che cieco anche depresso. Non avrebbe mai chiesto modo migliore per concludere i suoi giorni.

La città si estendeva gloriosamente all’orizzonte con la fila di quegli alti palazzi tutto vetro e cemento.

In quello scenario, una sottospecie di Gotham City dove al massimo trovi i frutti della distruzione del Joker, più che la salvezza di un vendicatore mascherato.

Il carro armato dava tutti loro un senso di sicurezza. Ingabbiati in lamine di ferraglia arrugginita, se non altro avrebbero evitato un primi contatto diretto con… le Ganasce.

Il rumore attutito dai tuoni di quell’imprevisto temporale.

Non erano stati sicuri fino all’ultimo, di partire. Poi s’era decretato che pioggia, vento e tuoni, avrebbero dato loro una sottospecie di grata copertura. Se non altro da quel mostro verde che doveva essere ancora nascosto, da qualche parte. Colmo d’odio e risentimento nei loro confronti ma… avevano se  non altro, ritrovato il guantone di Stark.

“Prenderemo la strada che costeggia la città per arrivare ai laboratori.” Sam Wilson stava scrutando la cartina di zona cercando i punti strategici d’azione.

“Sempre che le strade siano libere”, commentò Rogers, osservando perplesso i dintorni, “altrimenti saremo costretti a proseguire a piedi.”

“E sarebbe anche l’ora”, fu la democratica risposta di Stark che veniva avanti barcollando verso i comandi, livido, congestionato dall’aria rarefatta di quella bolla di metallo “tanto non credo che il bestione verde ci metterebbe comunque molto a ribaltarci come fossimo macchinine giocattolo.”

“Lo so ma…”

“Preferisco affrontare a muso duro le Ganasce. Mi fido più del mio guantone e della mira dei due fratelli serafini, che di questa trappola.”

“Questa trappola…” lo interruppe Sam, guardandolo stralunato, “ha salvato il culo a tutti in più di un’occasione.”

“Non mi interessano le sterili polemiche, Stark”, li zittì Rogers, lanciandogli uno sguardo rapido per poi tornare sulla strada, “ed è inutile fasciarsi la testa, prima del tempo. Se dovremo proseguire a piedi lo faremo. Non mi pare il caso di sprecare tempo ed energie giocando a Rambo”.

“Wow, conosci Rambo, capitano? Credevo avessi vissuto su un altro pianeta fino ad oggi.”

Nick sbuffò qualcosa, prima di voltarsi in direzione del professor Selvig che tutto sembrava, fuorchè interessato alla diatriba in corso.
“Tutto bene, professore?” gli chiese per deviare l’attenzione dallo sguardo fisso.

Si riscosse come punto da qualcosa di acuminato.

“S-sì, credo di sì. E’ solo che questa… tensione… non…”

“Andrà tutto bene. Siamo tutti qui per lei.” Si sentì di rassicurarlo, sebbene non fosse proprio del tutto sicuro che la squadra potesse funzionare veramente. Le incomprensioni a livello caratteriale ben più abissali di quanto si fosse aspettato.

Stark era un buon elemento di disturbo. Che nessuno sembrava in grado di tollerare oltre misura.

Si rimise in piedi, deciso ad andare a chiedere delucidazioni sul percorso, quando il carro armato si fermò bruscamente con uno stridulo rumore di cingoli.

“Che succede?” interrogò, prima di guardare Rogers che contraeva le mascelle nervosamente.

“Volevi andare a piedi, Stark? Bè, adesso ti accontentiamo.” Disse solo.

Nick prese la palla al balzo e si issò su per la scaletta che dava sul boccaporto. Lo aprì per sbucare solo con la testa, e poi su, fino alle spalle e il busto, frustato dalla pioggia battente: di fronte a loro una massa di cadaveri a terra e una serie di macchine disposte in fila.

Come se la fuga di tutti gli abitanti di Atlanta fosse stata ghiacciata, bloccata nel tempo e nello spazio.

“Ah, merda…” esalò solo, prima di pensare che fosse meglio armarsi fino ai denti.

Non aveva nemmeno portato l’ombrello.

 

*

 

Clint aveva lanciato a Natasha sguardi preoccupati per tutta la mattina.

Era innaturalmente pallida per stare bene. Bene davvero. Si chiese se non fosse in calo d’insulina o qualcosa del genere. Non ne capiva abbastanza per darne un’analisi clinica. Ma capiva abbastanza lei per sapere che, se glielo avesse chiesto, gli avrebbe risposto che andava tutto bene.

Come da manuale.

Forse puntando i piedi sulla necessità di essere in gran forma per la riuscita della missione e l’incolumità del gruppo, sarebbe stato quantomeno in grado di farla desistere, tornare indietro o qualcosa di altrettanto valido.

Peccato che le parole non gli uscissero di bocca. E seguitò solo a camminarle accanto, tipo cane da guardia, armi sguainate per ogni evenienza.
“Se non la smetti di fissarmi in quella maniera ti sparo direttamente in testa.”

Se non altro non sembrava aver perso di mordente.

“Non ti sto fissando.”

“Raccontala a qualcun altro, Barton.”

Forse era l’unico suggerimento valido. Si passò una mano sul viso fradicio di pioggia, che straordinariamente sembrava essersi vagamente placata.

“La racconto a Barney se vuoi, così ci preoccupiamo in due…”

“Preoccuparsi per cosa?” nella voce, adesso, un vago sospetto.

“Sei pallida.” Le lanciò un suggerimento, una spinta alla confessione.

“Sono sempre pallida.”

“Più del solito.” Una seconda spinta.

“Fa freddo.”

“Non stai bene, dì la verità.” La scoccata finale.

Lei gli puntò addosso uno sguardo ostico, esattamente come se lo era aspettato.

“E che cosa conti di fare a riguardo?”

“Chiederti di tornare indietro.”

“Chiedere è lecito.”

“Sì, e rispondere è cortesia… Natasha, non stiamo giocando.”

“Credi che non lo sappia?” adesso sembrava infastidita, “so cosa sto facendo. So quali sono i miei limiti. E se vi vengo ancora dietro, so che posso farcela.”

“Se permetti, ne dubito.”

La vide fermarsi, in coda alla comitiva, ora fissandolo con uno sguardo ben più che infastidito, quasi furente.

“Ne dubiti?” la domanda era retorica, e risuonò vibrante di furia repressa, “tu non sai un bel niente di me.”

“So quello che mi serve sapere.”

“Ovvero abbastanza per rompere i coglioni”, adesso lo aveva riavvicinato, “non sono una ragazzina sciocca. Mettitelo bene in testa. Non ho bisogno della tue stupide apprensioni. Perciò rimettiti in pista e cammina. So badare a me stessa.”

Serrò le labbra per tenere per sé la risposta tagliente che aveva sulla punta della lingua. E la guardò superarlo senza aggiungere altro.

Solo Barney sembrò accorgersi della loro momentanea assenza e si fermò per aspettare il fratello, rivolgendo a Natasha in recupero uno sguardo perplesso.

“Volete anche tè e pasticcini?” gli disse, affiancandolo per proseguire la marcia spalla a spalla.

“Non ti ci mettere anche tu.” Fu la brusca risposta mentre, di nuovo, scacciava le moleste gocce di pioggia dal viso. Quel cazzo di cappuccio in testa non lo proteggeva da un bel niente.

“Che le hai fatto?”

“Io? Non le ho fatto un cazzo”, si giustificò immediatamente, “ma sono convinto che non stia bene e che dovrebbe tornare indietro.”

“E’ un po’ pallida, me ne sono accorto anche io, ma se continua a seguirci...”

“Dovrebbe tornare indietro”, fece definitivo, solo per trovarsi lo sguardo di Barney addosso, adesso più molesto di quello che gli aveva rivolto Natasha.

“Clint… lo stai facendo di nuovo.”

“Di nuovo che?” la sensazione di sapere esattamente dove Barney volesse andare a parare lo costrinse aumentare il passo, come se potesse seminare anche le insinuazioni.

“Preoccuparti. E pretendere di decidere per la gente”, esattamente il discorso che voleva evitare di sentire.

“Non voglio decidere per nessuno. Se sta male potrebbe compromettere la sicurezza del gruppo e…”

“Stronzate Clint. E lo sai anche tu, almeno non raccontare palle. Non a me.”

“Io non…”

“Tu invece”, lo interruppe di nuovo, mandandolo su tutte le furie, “devo ricordarti perché il tuo matrimonio con Bobbi è franato? Oppure preferisci che ti ricordi di come si è conclusa la nostra avventura al circo di Carson? Chi avevi cercato di redimere? O come hai fatto con me, pretendendo di sapere cosa fosse meglio per la mia vita, prima di tornare a capo chino e chiedere scusa.”

“Questo non c’entra niente.”

“Questo c’entra tutto”, bloccò l’avanzata, portandogli una mano al petto per frenarlo. Il gruppo di fronte a loro proseguiva sicuro, “ogni volta che prendi a cuore una persona pretendi di sapere esattamente di cosa ha bisogno. Con la presunzione di credere che le sue necessità si pieghino al tuo volere.”

“Questo non é vero! Che cazzo stai dicendo?”

“Fatti un esame di coscienza e rifletti. E vedrai che ho ragione. Da vendere.”

“Tu non sai un cazzo, tu non…”

“Io so tutto di te Clint. Che ti piaccia o meno. So che quando tieni a qualcuno, lo fai in modo così totale da annullare quasi te stesso pur di entrare nell’ottica di salvare la persona a cui stai rivolgendo le tue attenzioni. Hai una paura così fottuta di perderle le persone che ami, che cerchi di importi sulle loro vite, sperando di salvarle nemmeno tu sai bene da cosa. E finisci comunque per allontanarle con questo atteggiamento.”

La rabbia ora ribolliva così forte nello stomaco da bruciare, a discapito del freddo che vento e pioggia portavano con sé. Il non sapere se la furia fosse perché le parole di Barney erano vere o meno lo fece solo innervosire di più.

“Vaffanculo Barney.” Definitivo e secco il suo giudizio.

“Non voglio che tu finisca di nuovo per stare solo.”

“Io solo ci sto bene”, ribatté, superandolo, ricominciando a camminare per tener dietro al gruppo.

“Non è vero, e lo sai”, si sentì tallonato e cercò di ignorare il fratello, fissando lo sguardo sulla schiena di Natasha che procedeva sicura a qualche metro, dando loro le spalle.

Era vero? Lo sapeva?

Quello che sapeva per certo è che meno si affezionava alle persone, meno doveva avere paura di perderle. Questo aveva imparato. E se si imponeva sulla vita di chi amava sul serio era solo per non vederle capitolare così come aveva visto fare ai suoi genitori. Certe catastrofi si potevano prevenire. All’epoca era solo un bambino ma adesso…

Una bella analisi psicologica del cazzo, ecco cosa stava cercando di costringerlo a fare Barney.

Fece per dire qualcosa, per zittirlo definitivamente, non del tutto certo di sapere cosa, quando uno schianto alle loro spalle costrinse il gruppo a voltarsi, quasi in contemporanea.

La porta già scardinata di uno dei palazzi, era caduta di schianto sul marciapiede.

Attesero per un intero minuto, come aspettandosi che vomitasse loro incontro un’orda di morti viventi, ma non successe niente del genere.

Non subito almeno.

Avvertirono un secondo schianto, preceduto da un sinistro sibilo.

Quando si voltarono, alle loro spalle, qualcosa era caduto a qualche metro di distanza.

“E’ uno dei marcioni!” esclamò la voce di Wilson.

“Attenti!” li avvertì la voce di Rogers.

Clint alzò lo sguardo, spingendosi oltre a uno dei tetti del palazzo di fronte a loro. Fece appena in tempo a scansarsi, prima che un'altra Ganascia si schiantasse al suolo, spiaccicandosi con un suono disgustoso, alle sue spalle.

“Ma che cazzo sta succedendo?” Barney, l’arco sguainato, condivideva il suo stesso pensiero. Lo stesso pensiero di tutti, probabilmente.

Poi tutto accadde in rapida successione: uno schianto dietro l’altro, un volo planare di corpi, uno dopo l’altro, come scagliati dal cielo, da un dio particolarmente vendicatore.

“Piovono Ganasce!” osò gridare qualcun altro, dando voce all’orrore di tutti.

In pochi istanti vennero investiti da una grandinata di corpi che si schiantavano al suolo, confondendoli, disorientandoli.

“Via da qui!” la voce di Fury.

“Scappate, scappate!” Thor.

Clint sentì le gambe bloccate, i piedi inchiodati al suolo, mentre con lo sguardo cercava ancora, sui tetti dei palazzi, la natura di quel fenomeno. Inconsciamente.

La curiosità e lo sconcerto si concretizzarono in un ruggito piuttosto eloquente. Quando il suo sguardo intravide quella sagoma verde che brandiva Ganasce come fossero ramoscelli secchi, improvvisamente tutto divenne chiaro, quasi banale.

Banner li aveva stanati. E aveva trovato anche un modo piuttosto scenografico di rendere nota la sua presenza.

Improvvisamente si rese conto di quanto molto poco potesse avere a che fare con le Ganasce. Il fatto che potesse essere di tutt’altra natura la sua trasformazione lo affascinava e atterriva alla stessa maniera.

“Barton! Barton! Clint!” una mano si agganciò alla sua e lo strattono via, dalle sue riflessioni e dallo schianto di un altro cadavere in volo.

Prese a correre dietro Natasha, mentre il mostro manifestava il suo disappunto con ruggiti più o meno furenti.

 

*

 

Stark aveva azionato quel suo guantone. E se per un attimo sembrò sortire lo stesso effetto dell’ultima volta su quel mostro smeraldino, dall’altro fu sicuro che stesse cercando di contrastarne l’effetto.

Lo aveva visto arrampicarsi giù per la parete liscia di quel palazzo, nemmeno stesse facendo snowboarding e calarsi giù, finendo a terra, a tenersi tenacemente i lati della testa, come se l’ultrasuono lo stesse lacerando dall’interno.

Ma al contrario dell’ultima volta, si era reso conto che non si era inginocchiato, non aveva gridato la sua ira, al contrario aveva puntato su di lui uno sguardo carico di furia e Stark non aveva potuto far altro che ritirare l’arma e ricominciare a correre dietro ai compagni.

Non era un eroe, non aveva certo mai chiesto di esserlo, ci si era trovato e in realtà quel guantone era solo l’ultima difesa contro le Ganasce. Nel contratto era certo non ci fosse scritto che presto o tardi avrebbe dovuto confrontarsi con un tale abominio. E se c’era era scritto talmente in piccolo che non era riuscito a leggerlo. Postille del cavolo.

Rogers era quello che correva più veloce di tutti. Il pargolo aveva dei quadricipiti da spavento. Ma capitano coraggioso quale era avrebbe dovuto chiuderla quella stracazzo di fila, non aprirla.

“Si sta riprendendo!” urlò lo sceriffo che sudato com’era si chiese se non gli avrebbe preso un infarto nel frattempo, al suo fianco quello scienziato, Selvig, non sembrava stare tanto meglio.

“Stark fa qualcosa!” Barney alle sue spalle, incoccava l’arco per stendere alcune delle sporadiche Ganasce che sbucavano all’improvviso da qualche anfratto, sfuggiti agli ultrasuoni del suo guantone.

“Ho già fatto qualcosa! Non funziona come dovrebbe! Non con lui!”

Rogers si era improvvisamente fermato, il fiatone appena accennato, il viso appena acceso dallo sforzo.

“Dividiamoci.” Decretò, conquistandosi lo sconcerto generico.

“Certo bella mossa, già siamo fragili come carta velina e dobbiamo dividerci.”

“Non potrà certo inseguirci tutti. Dovrà fare una scelta.”

E chi glielo spiegava a uno come Rogers che sperava ardentemente che la scelta non ricadesse proprio su di lui.

“Va’ con Selvig. Portalo ai laboratori.”

La richiesta di capitan Findus arrivava decisamente inattesa.

“E chi lo distrae il bestione?”

“Ci penso io.”

Per un istante, ma solo per un istante, il senso di colpa gorgogliò ferocemente nel suo stomaco.

“Senza guantone non avrai nemmeno la possibilità di stordirlo.”

“Non ho mai avuto bisogno di armi per confondere il nemico. Sam, va con Stark e Selvig.”

“Se non hai niente in contrario Rogers, andrei con loro.” La voce di Fury si unì al coro.

Il ruggito del mostro tornò a farsi sentire.

“Io sto con Rogers”, dalle retrovie la voce di uno dei Barton. Quale dei due non seppe dirlo. Troppo simili nei toni. Diede per scontato che lo avrebbero seguito entrambi.

Thor sembrò schierarsi con Rogers, mentre Coulson affiancò il suo inseparabile sceriffo.

“Natasha?” la voce di Rogers a chiederle quale schieramento avesse intenzione di seguire.

“Accompagno il professore.” Disse, facendo scattare la sicura della pistola.

Quando furono separati, Stark si rese conto che no, non aveva certo chiesto di essere un eroe, ma che improvvisamente aveva in mano le sorti dell’intera operazione.

“Professore, stia al passo, mi raccomando.” Si sentì di esortarlo, mentre si spingevano verso il piazzale del laboratorio di ricerca scientifica.

 

*

 

Rogers non era stato sicuro fino all’ultimo di puntare il Winchester e fare fuoco.

La sua mente militare aveva, in un certo senso, la freddezza sufficiente a farlo, ma aveva sottovalutato il fattore psicologico che quella scelta avrebbe comportato.

Betty, la moglie di Banner, attendeva un riscontro, al loro ritorno. Già abbastanza infastidita dal fatto che avessero deciso di lasciarla a casa, ignorando la sua richiesta.

Non che fosse certo che una pallottola avrebbe potuto fare qualcosa contro quel macigno d’uomo, ma l’idea di potergli nuocere fu, per un attimo, difficile da gestire.

Poi però la furia e il rimbombo di quei passi, la ferocia di quegli occhi, il ruggito disperato (sì, disperato) che scaturiva dalle sue labbra gli diedero la spinta sufficiente a farlo.

Lo colpì una, dieci, venti volte, con tutti i proiettili di cui sembrava disporre.

Lo rallentò certo, lo vide cadere e rialzarsi almeno una decina di volte, ma niente sembrava essere in grado di fermarlo definitivamente.

“E’ inarrestabile!” pronunciò mentre quel Thor gli scaricava addosso tutta una serie di proiettili. All’apparenza spilli nel contrastare la sua furia.

“Non riusciremo mai ad abbatterlo!” esclamò, ricaricando l’arma, senza discernimento. Tutti quei proiettili sprecati, se mai fossero sopravvissuti avrebbero avuto tempo e modo per pentirsi di averli fatti fuori a quella maniera.

“Non dobbiamo abbatterlo, dobbiamo depistarlo!” l’obiettivo era quello di tenerlo il più lontano possibile dai laboratori.

La missione di Selvig ben più importante.

“Sì, ma questo ci viene addosso!”

“E allora vediamo di ubriacarlo! Dividiamoci!”

“Ancora?” esclamò il tizio rosso di capelli che aveva risparmiato sulle frecce, dandosi anch’egli, come il fratello, all’arte delle pistole.

Li vide disperdersi, seguendo ciecamente le sue istruzioni. Percorse buona parte di quella strada principale, prima di rendersi conto che il bestione, fra tutti, aveva deciso di seguire proprio lui.

Che idea dai risvolti così dannatamente eroici.

Virò bruscamente, andando a incunearsi in una viuzza laterale, sperando di sparire dal suo campo visivo il tempo sufficiente di pensare a una contromossa o un riparo più consistente di uno schieramento di inutili pallottole.

Ma il bestione gli teneva dietro nemmeno fosse un toro infuriato. Avvertì i suoi passi e il rantolo feroce del suo rauco respiro.

Corse fino a quando le gambe non gli ressero e poi… si trovò improvvisamente ad affrontare un vicolo cieco. Un muro di cemento a sbarrargli la strada come nella più classica, patetica, ingiusta tradizione cinematografico-letteraria.

Si volse giusto il tempo di vederselo arrivare incontro.

Per un istante, fu come guardare in faccia la propria morte.

Una serie di pensieri disarticolati, i nervi tesi, pronti all’impatto di qualsiasi tipo e quando ormai gli sembrò di poter sentire il calore del suo alito mefitico… un ruggito infastidito riempì l’aria.

“Fermalo!”

Se quella non era la voce di uno dei Barton, si sarebbe giocato la divisa.

Quando riaprì gli occhi, la scena con cui si trovò a confrontarsi, non l’avrebbe scordata mai, nemmeno fosse campato un centinaio di anni. Clint era letteralmente montato in groppa al bestione verde. Le gambe a serrarsi attorno al collo granitico, enorme di Banner. Suo fratello, a terra, lo stava punzecchiando con una serie di frecce, distraendolo, innervosendolo.

“Che state facendo?” gridò Rogers, cercando di nuovo freneticamente il caricatore di una delle sue pistole.

“Tranquillo, capitano! Clinton era un asso d’equilibrista!” gridò Barton senior prima che il fratello si prodigasse in un lungo grido liberatorio recuperando una freccia per sganciarla, letteralmente al centro del cranio del gigante verde.

“No!” si trovò a gridare Rogers, che nello stesso istante in cui lo aveva visto determinato a farlo, aveva subodorato l’errore madornale.

La freccia non lo uccise, ma ebbe il potere di scatenarlo in modo definitivo.
Cominciò a dimenarsi in preda a spasmi incontrollati, sbandando distruggendo tutto ciò che riusciva ad agganciare con le mani, le braccia muscolose.

I muri del palazzi attorno cominciarono a scricchiolare in modo innaturale, e solo quando Rogers individuò uno spiraglio per passare oltre il mostro e tornare ad essere libero, prese il coraggio a due mani e cominciò a correre.

“Via da qui!” gridò con tutto il fiato in gola, vedendo solo con la coda dell’occhio Clint saltare giù da quel toro infuriato, per seguirlo, dietro al fratello, e lontano da quella prigione di mura di cemento.

Il rombo dell’architettura che si sfaldava, disintegrava. Il fragore del palazzo che crollava alle loro spalle, calcinacci e polvere che presero a inseguirli lungo tutta la via, mentre il ruggito del mostro, come quello di un animale braccato, ferito, si concluse con lo sfrigolio di quello che restava dei muri esterni delle palazzine distrutte.

Si fermarono solo quando furono certi di essere fuori pericolo.

Uno spaesato Thor che venne loro incontro, fissandoli incredulo con l’aria di chi non ha capito un accidenti di niente di cosa fosse appena accaduto.

“Che avete fatto?” esalò, affiancando il trio completamente imbiancato dai calcinacci.

Rogers si volse con aria totalmente seria.

“Abbiamo atterrato il mostro.”

Barney che aveva preso a tossire con violenza, cominciò a ridere.

“Io direi che più che altro si è atterrato da solo!” esclamò, cercando di spazzare via un po’ di bianco dalle spalle di Clint che continuava a sfregarsi gli occhi arrossati.

“Io non credo che dovremmo cantare vittoria tanto presto…” assicurò questi, abbassando le mani che ancora stringevano l’arco.

“Oh, andiamo, per una volta tanto che possiamo vantare un gran successo!”

“No, io dico che non dovremmo…” ribadì, puntando il dito in un punto lontano.

Rogers si trovò ad arretrare colto totalmente alla sprovvista.

Il rumore dei due palazzi crollati avevano richiamato tutte le Ganasce del circondario.

Adesso almeno un centinaio di quei mostri, si stava riversando sulle strade.

“Bella mossa, ragazzi.” Esalò inorridito Thor.

Dacché si conoscevano, Steve Rogers non aveva mai imprecato una volta, ma in questo caso specifico, un “Porca puttana…” fu l’unica cosa sensata che riuscì a pronunciare.

 

___

 

Note:

Per chi pensava avessi abbandonato la storia… no, non l’ho fatto. Il capitolo era pronto da un po’, ma volevo essere sicura di avere altre pagine dopo queste, per garantire il proseguimento della storia nel futuro. Sì, Age of Ultron mi ha un po’ ammosciato l’entusiasmo Avengers. O magari sono solo stanca e necessito una vacanza. Comunque rileggere queste righe mi ha fatto bene e mi ha ricordato che avevo già in mente come proseguire la fan fiction.

Per chi si chiedesse come Stark ha riavuto il suo guantone, prima o dopo lo spiego. Nessuno sa che probabilmente è stato Loki a nasconderlo, comunque. Che resti tutto nebuloso per adesso. Ce la faranno i nostri eroi a recuperare tutto quello che serve a Selvig? Banner sarà ancora vivo? O si sveglia incazzato il doppio? Ringrazio come sempre i fedelissimi che mi invogliano a continuare. La mia beta e socia, che ultimamente sta betando poco perché c’è poco materiale, ma che ringrazio sempre… e a coloro che leggono, non perdete la speranza!
Alla prossima.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


CAPITOLO 16

 

“Quando non ci sarà più posto all'inferno... i morti cammineranno sulla terra.”

(L’alba dei morti viventi)

 

*

 

Laboratori di ricerca scientifica di Atlanta

 

Natasha corse a una delle ampie finestre di vetro che davano sul grosso parcheggio antistante i laboratori.

Il boato lo aveva sentito. E se spingeva lo sguardo più in là, oltre il viale alberato, riusciva persino a vedere una scia di fumo salire al cielo.

“Che cazzo è successo?” lo sceriffo Fury l’aveva affiancata, controllando insistentemente oltre i vetri sporchi.

“Un’esplosione. O qualcosa di simile. Dobbiamo muoverci.” Pronunciò rapidamente, mentre si voltava in direzione di Selvig che stava chiudendo l’ennesimo borsone carico di materiale.

“Abbiamo finito?” domandò, avviandosi lungo il corridoio che li avrebbe ricondotti fuori.

“Ci sono quasi!” esalò Selvig, mentre Sam, Stark e Fury lo aiutavano, prendendo in carico parte del suo peso.

Si ritrasse, scansando un po’ del macello sparso al suolo.

Quello che restava dell’ormai ex ufficio del dottor Bruce Banner era un cumulo di fogli sparsi e tavoli rovesciati. Come se un circoscritto uragano avesse spazzato via il lavoro di una vita, mandandolo nel caos.

Il paragone con quello che sembrava essere accaduto allo scienziato era quasi palpabile.

Una cartellina colorata a terra, scivolata fuori dalla porta del laboratorio, catturò la sua attenzione: sotto di essa, quella che sembrava essere la cornice di una fotografia. I vetri tutt’attorno consolidarono la sua teoria.

Non seppe perché decise di chinarsi per raccoglierla, ma quando lo fece si ritrovò a stringere fra le mani la fotografia di quella che riconobbe immediatamente come Betty Ross. Al suo fianco un uomo dai folti capelli scuri, striati di sfumature grigiastre. La stava abbracciando e sorrideva. Non fece fatica a intuire che quell’uomo dall’aria docile doveva essere proprio Banner. Lo stesso mostro che solo qualche minuto prima stava loro lanciando addosso zombie come fossero palle da tennis.

L’immagine divenne improvvisamente sfocata e dovette appoggiarsi alla parete per evitare di barcollare in modo del tutto fuori controllo.

Le tornarono alla mente le parole di Clint. Odiava doverlo ammettere ma la situazione stava peggiorando da qualche minuto a quella parte.

Erano giorni che centellinava la dose di insulina. Il lavoro alla fattoria aveva assorbito tutto il loro tempo. Il fatto che i viveri per il sostentamento non mancassero, non aveva dato a nessuno lo spunto di avventurarsi in cittadine vicine per procacciarsi qualsivoglia farmaco. E Natasha non aveva fatto altro che cercare di cavarsela da sola.

Solo che forse aveva sottovalutato la situazione. Per quello aveva deciso di accompagnare Selvig e compagnia. Un lavoro meno adrenalinico le avrebbe permesso di lavorare in modo più metodico e meno frenetico. Risparmiare le energie era la parola d’ordine.

Vide Stark uscire dal laboratorio puntando quel suo guantone verso il corridoio deserto.

“Ce ne andiamo?” domandò nervosamente aprendo la fila, senza che nessuno obiettasse.

Natasha si infilò in tasca la foto, senza preoccuparsi di spiegazzarla.

Puntò la pistola verso il corridoio e si affrettò a uscire da lì.

Quando guardò fuori dalla finestra il fumo si era estinto. Cercò di non lasciar vincere quell’improvviso senso di irrequietezza.

 

*

 

Fattoria fuori Atlanta

 

Sif non aveva fatto altro che camminare avanti e indietro per il portico per tutta la mattina. Qualcuno avrebbe potuto associarlo alla sua preoccupazione per la partenza del gruppo verso Atlanta, ma in realtà il suo sguardo andava insistentemente a posarsi sulla finestra aperta del primo piano. Le tendine appena mosse dal vento estivo.

Loki non si era ancora svegliato. O quantomeno questo era quello che stava cercando di far credere al mondo.

Di fatto era convinta di aver intuito la sua sinistra figura sbirciare da quella stessa finestra solo un paio di ore prima. Come stesse cercando di monitorare la situazione. Doveva essersi reso conto della mancanza del carro armato e sperò ardentemente che la cosa lo avesse almeno un po’ preoccupato.

Quali che fossero i suoi piani, di certo nessuno sembrava intenzionato a restare impassibile di fronte a quegli eventi.

Aveva intenzione di non perderlo di vista. Sperò di avere sviluppi interessanti per quando la rossa del gruppo degli arcieri sarebbe tornata dalla spedizione ad Atlanta.

Ancora persa in quelle sue elucubrazioni non si rese immediatamente conto di non essere più sola, nel portico.

Si fermò di botto solo quando, voltandosi, si trovò di fronte, a pochi passi di distanza, niente meno che la dottoressa Jane Foster.

Inebetita dall’essere stata strappata dai suoi ragionamenti, non riuscì nemmeno a farle un cenno di saluto. La Foster sembrò registrare quella pseudo scortesia, ma piuttosto che abbassare lo sguardo e levare le tende le rivolse un sorriso un po’ freddo.

“Ci chiedevamo se avessi intenzione di raggiungerci per il pranzo”, le chiese invece. Sif intrecciò le braccia al petto solo dopo essersi resa conto di averle lasciate ciondolare un po’ troppo a lungo in una posa indifesa.

“Non ho fame”, rispose solo.

Jane sembrò produrre una smorfia affatto compiaciuta e se per un attimo si chiese perché quelli dovessero essere affari suoi, si rese poi conto di essere stata pizzicata da un leggero senso di colpa, “ma grazie.” Si affrettò quindi ad aggiungere, senza particolare calore.

“Sei sicura? Perché è scesa persino Pepper, sembra sentirsi meglio oggi… sarebbe carino riuscire a sedersi tutti insieme per…”

“Ho detto che non ho fame.” Un movimento rapido e indefinito dietro le tende della finestra del piano di sopra, la spinse a direzionare lo sguardo di nuovo verso la stanza dove riposava Loki, troncando bruscamente quella conversazione di circostanza.

Jane dovette intuirne la traiettoria perché fece lo stesso.

“Oh, capisco…” sospirò, con un tono che a Sif risultò un po’ troppo ambiguo.

“Cosa?”

“Bè… Loki.”

“Loki, cosa?” incalzò Sif, avanzando di mezzo passo. Che avesse intuito anche lei l’ambiguità di quell’individuo? E avesse qualcosa da raccontarle in proposito?

“Sei… sei preoccupata.” Fu la risposta un po’ sofferta che riuscì a ottenere.

“Perché, tu no?”

“A dire il vero credo che sia in buone mani… e oggi sembrava stare meglio anche lui.”

Improvvisamente Sif si rese conto che non stavano affrontando l’argomento dalla stessa prospettiva.

“Non mi importa niente del fatto che sia in buone mani.”

“Credevo foste… amici.”

“Amici? Ah!” esclamò Sif, con tono divertito, “Non ho niente a che spartire con un individuo simile. Credevo che Thor ti avesse raccontato di come ci siamo incontrati.”

“A dire il vero… Donald non mi ha detto niente. Ma dal modo in cui si è sempre preoccupato per lui, credevo che…”

“Credevi male. E forse dovresti prestare più attenzione a quello che ti succede attorno prima di trarre le tue conclusioni.” Si rese conto di aver usato un tono assolutamente sgarbato, ma stavolta si lasciò scivolare di dosso il disagio per abbracciare quell’antipatia che da subito aveva provato nei confronti della bella dottoressa. E magari incalzare sull’argomento per farle capire che si stava inoltrando in un terreno che non le era congeniale.

“Non volevo trarre conclusioni affrettate.”

“Tipo quella di credere di aver capito Thor?”

“Non credo un bel niente… io… non capisco che cosa tu voglia dire.”
“Non capisci… o non lo vuoi capire?”

Jane sembrò affranta per un istante, quasi arresa a lasciar perdere una conversazione tanto complicata, ma poi si rianimò puntandole addosso quel suo sguardo tutt’altro che spento.

“Tu e Donald state insieme?”

Sif sentì i muscoli del collo irrigidirsi tutti. Di tutte le reazioni che aveva previsto, quella, così diretta, non se l’era proprio aspettata. E poi per quale motivo si prendeva la confidenza di chiamarlo con il suo nome di battesimo?

“No. Ma questo cosa c’entra?”

“Siete stati insieme?” incalzò la ragazza, affrontandola senza nemmeno uno schermo protettivo. Per la prima volta le sembrò di vederla. Oltre quel velo di avversione che da subito aveva provato nei suoi confronti.

“No… ma continuo a non capire, cosa… ?”

“Allora sei innamorata di lui.”

“No! E non sarebbero in ogni caso cazzi tuoi.”

“Perfetto. In ogni caso sappi che non ho intenzione di sentirmi in colpa per quello che potrei… provare per lui. O in colpa nei tuoi confronti.”

Il modo in cui lo aveva detto, il tono secco e diretto, l’espressione seria e la rivelazione, fu per Sif come uno schiaffo in pieno viso.

“Questa conversazione non ha proprio senso d’esistere.”

“No? Invece credo sia il caso di chiarirla una volta per tutte”, proseguì Jane facendo persino un passo nella sua direzione, come a sottolineare quanto non fosse intimorita da lei, non più, “che ti piaccia o meno qui si è formata una comunità che sta in piedi solo grazie alla collaborazione di molti. Non è necessario né credibile che ci andiamo tutti a genio, ma non ho intenzione di incrinare gli equilibri conquistati per una stupida diatriba sentimentale.”

“Non c’è nessuna diatriba sentimentale, che cazzo vai dicendo?”

“A me pare che invece il punto sia questo. Sei gelosa di Donald. Di Donald e me? Di Donald e tutti gli altri? Nessuno ha intenzione di farlo soffrire. E nessuno ha intenzione di allontanarlo da te.”

“Thor può fare quello che gli pare… non viviamo in simbiosi.”

“Sì? Bene.”

Sif si trovò a stringere i pugni, per nulla soddisfatta della piega che la conversazione aveva preso, e se provò qualcosa più del mero nervosismo fu sicuramente una punta di umiliazione per essere stata scoperta in modo così plateale, forse dall’ultima persona con cui avrebbe voluto avere un confronto diretto. E poi che ne poteva sapere una stupida ragazzina dall’aria incantata? Non aveva la più pallida idea di quali fossero i trascorsi fra lei e Thor. Di quello che avevano passato assieme. Non aveva il diritto di parlarle in quella maniera.

“Vorrei solo che se ci fosse qualcosa che non ci va a genio che la si buttasse fuori immediatamente e non ci si ostinasse a stare soli per forza.” Continuò quella, con l’aria così diplomatica da farle venire voglia di schiaffeggiarla solo per crearle addosso un po’ di caos.

“Tu non mi vai a genio.” Le uscì allora con più facilità di quanto avesse preventivato.

Jane si irrigidì appena, ma sembrò assorbire il colpo. Annuì solo, stringendosi nelle spalle.

“Quello lo avevo capito”, inspirò a fondo e guardò verso l’interno dell’abitazione da cui stava arrivando un vago profumo di cibo, “è già un inizio, se non altro.”

“Non ho bisogno di stupide paternali.”

“No, però sicuro hai bisogno di mangiare. Spero gli altri ti vadano a genio perché ti stanno aspettando per il pranzo.”

Lo stomaco di Sif fece un rumore sospetto ma Jane ebbe il buon gusto di non sottolinearlo con qualche occhiatina allusiva. Si limitò a lanciarle un ultimo sguardo, prima di sparire di nuovo all’interno della fattoria.

Sif rilasciò i pugni che aveva tenuto stretti fino a quel momento, soffocando malamente quella stramba sensazione di essere appena stata sgridata come una ragazzina sciocca e capricciosa.

Non si rese conto che, dalla finestra del primo piano, alle sue spalle, Loki la stava fissando.

 

*

 

Atlanta

 

La situazione in cui si erano andati a cacciare era, come dire, proprio una situazione di merda.

Zombie da tutte le parti, polmoni pieni della polvere delle macerie e il dottor Banner, o meglio il mostro che se lo era mangiato, che pareva svanito nel nulla.

Barney pensò che dopotutto forse se lo erano meritato. In fondo erano partiti un po’ alla cazzo di cane, senza un vero piano. Si erano affidati alla fretta quando invece avrebbero dovuto dar retta alla giovane mamma Betty che voleva seguirli a tutti i costi. Se non altro per lasciarsi guidare più agevolmente all’interno della città. O per sedare davvero il gigante verde incazzato. Di certo non sarebbero stati rallentati; non più che dal trascinarsi dietro quel cervellone flaccido del dottor Selvig che sembrava più pratico a manovrare una penna a sfera che non un fucile a canne mozze.

Gli giravano persino le palle al solo pensiero di dover sprecare frecce su quei quattro mostri schifosi che gli si stavano riversando addosso.

Sembravano quattro deficienti, lui, Clint, il capitano Rogers e Thor. Al centro della piazza, spalla contro spalla a consumar cartucce e frecce, come nella più classica tradizione di un qualsiasi film in cui… un’orda di qualcosa ti si ammassa addosso, famelica.

Non era sicuro di essere pronto a diventare il pranzo fresco di Ganascia. Non adesso che sembravano essere arrivati a iniziare qualcosa di… promettente. Era persino preoccupato per quelli dell’altro gruppo, sperando che se la stessero cavando un po’ meglio di loro. Non che ci volesse poi molto, dopotutto.

Erano cambiate un po’ di cose da quando lui e Clint, da soli, si trascinavano disperatamente da una parte all’altra degli Stati Uniti. Se prima il suo unico pensiero era diretto al fratello, adesso sembrava che la sua soglia d’attenzione si fosse leggermente ampliata. Certo avrebbe sempre messo Clint al vertice delle sue preoccupazioni ma… doveva ammettere che mettere in pericolo la vita di qualsiasi altra persona di quel gruppo di pazzoidi… gli avrebbe fatto girare proprio i coglioni. A voler essere poco volgare, s’intende.

E poi c’era Natasha, la piccola (ma poi nemmeno troppo) e letale Natasha. Che sì, effettivamente nemmeno lui aveva visto troppo bene quella mattina. Ma era sicuro fosse ben più che consapevole delle sue condizioni, data la sua determinazione nel prendere la via meno avventurosa con il gruppo di Stark. Doveva ammettere che un po’ gli mancava, averla lì, pronta a menar calci e fendenti. Dopotutto l’ultima volta gli aveva praticamente salvato la vita.

Sparò a una Ganascia senza quasi registrarlo e si rese conto che il cadavere che gli era appena caduto ai piedi aveva i capelli neri. E il macabro paragone lo condusse a Maria Hill.

Ecco un’altra cosa che gli aggrovigliava lo stomaco al pensiero. Finire così la sua avventura post apocalittica non gli avrebbe più permesso di rivederla. Certo si era preoccupato di salutarla con tutto il calore e la… lingua del caso, ma non era sicuro avesse ancora goduto abbastanza delle attenzioni di quella donna, per rinunciarci tanto presto. E sicuro ancora non era riuscito a dare il meglio di sé. Un po’ sotto tutti i punti di vista.

Perciò sparò con più attenzione, centellinando i proiettili, pensando al calore della sua pelle, il profumo di quei suoi lunghi capelli, sempre troppo sacrificati in una rigida acconciatura, meditando alla frase più d’effetto da dirle, nel momento in cui si sarebbero rivisti.

La mira ce l’aveva buona quanto il fratello. Ne atterrò almeno un quintetto.

“Vediamo di portarci a casa la pagnotta anche oggi, ah?”

Centro.

“Ti stai prendendo tutti quelli lenti.” La voce di Clint alla sua sinistra a dargli il ritmo.

“Ma quali lenti? Sono quelli grossi, dovresti ringraziare che faccio fuori quelli ingombranti, no? Sono sicuro quelli che mangiano di più.”

“Di che cosa state parlando voi due? Concentratevi!” se quello che aveva parlato non era Rogers, allora non si chiamava più Barney Barton. Aveva sempre voluto cambiare nome, ma non sembrava quella l’occasione.

“Stai tranquillo Capitano, Clinton ed io ci concentriamo meglio quando spariamo cazzate.”

“Parla per te, fratello. Sei tu quello che dice cazzate, io solo solide verità!”

“Ma lo sai che sembravi proprio il tizio delle televendite dei materassi? Come si chiamava?”

“Chi?”

Centro, e ancora centro.

“Dai che te lo ricordi! Quello che vendeva materassi sul quinto canale, prima dei programmi delle hotline!”

Un altro paio di centri. I cervelli si spappolavano che era una bellezza. Dovevano essere proprio vecchiume d’annata.

“Lo chef Tony?” la voce nelle retrovie stavolta era quella di Thor.

“Ma che cazzo c’entra?” rise Barney, mentre Clint faceva fuori un altro ostinato gruppetto.

“Quello vendeva i coltelli.” Precisò il Capitano, apparentemente appena entrato a gamba tesa nella colta conversazione.

“Esattamente. Io parlo del tizio abbronzato che parla a macchinetta. Dai, come cazzo si chiamava?”

“Frank Miller.” Thor.

“Sono piuttosto sicuro che quello si occupasse di fumetti.” Clint.

“Jack Sparrow.”

“No, quello era Johnny Depp.”

“E allora io non me lo ricordo.”

“George Mann, era George Mann!” il capitano Rogers aveva sorpreso tutti. E nel frattempo fatto fuori almeno una decina di Ganasce.

“Grande Cap. Vedi quanto favorisce la conversazione?” esultò Barney che come al solito sembrava aver appena dato una sferzata di ottimismo al gruppo. “Oh, Cap… però poi te le guardavi anche tu le donnine nude, vero?”

“Barton, più proiettili e meno chiacchiere.”

“Sì, Capitano.”

Centro, centro.

Centro.

 

*

 

Fattoria poco fuori Atlanta

 

Loki aveva ripreso a camminare. Un piede di fronte all’altro. Un po’ come fanno i bambini piccoli, ma in modo decisamente più patetico.

Si era allontanato dalla finestra un attimo prima che Sif potesse accorgersi di lui.

Quel penoso gruppo sembrava aver più falle di uno scolapasta. O forse solo Sif aveva dei gravissimi problemi di fiducia. Qualcosa con cui, suo malgrado, dovette constatare di essere affine.

Certo più il gruppo sarebbe rimasto diviso, più ampie avrebbero potuto essere le sue possibilità di riprendere in mano il discorso esattamente dove lo aveva lasciato. Convincerli che invece di tutte quelle stronzate sull’unione che fa la forza, avrebbero benissimo potuto affidarsi a un solo elemento: lui stesso.

Lui e la sua capacità di prevedere (o attirare all’occorrenza) il pericolo. Possibile che ancora non se ne fossero resi conto? Di quanto potesse essere importante per la sicurezza? Che quella sua connessione con le… Ganasce (nome che per principio trovata un tantino offensivo) avrebbe potuto essere determinante un giorno?

Doveva solo entrare nel giro e far loro comprendere definitivamente quanto fosse più saggio affidarsi a lui. A trattarlo come la persona che meritava di essere.

Nascondere il guantone di Stark e attirare l’orda aggressiva di corpi morti era stata una mossa un po’ azzardata. Ma aveva cominciato a funzionare, a dare i suoi frutti. Si era guadagnato, se non altro, l’attenzione del leader senza un occhio. Se solo i Barton si fossero risparmiati quella loro entrata ad effetto.

A quanto pareva facevano parte del gruppo in esplorazione ad Atlanta. Sperò ardentemente che non tornassero più. Avrebbe avuto meno difficoltà a convincere un gruppo di donne e deboli villici senza abilità che non il nerboruto gruppo d’assalto che era partito in una spedizione suicida, in uno sfoggio non richiesto di testosterone.

Prima però doveva andare a riprendere il guanto di Stark. E nasconderlo in un posto un po’ meno… compromettente. Qualcuno avrebbe potuto trovarlo.

Sbirciò fuori dalla porta della sua stanza, nel corridoio deserto.

Dal piano di sotto arrivava odore di cibo. Forse fagioli. Forse verdure. Sebbene non mangiasse da almeno quarantotto ore, il profumo invece di invogliarlo, gli fece venire la nausea.

Cercò di ignorarlo e concentrarsi sui propri passi. Uno dopo l’altro. Se non altro, i piedi nudi non facevano rumore, non troppo almeno, sulle assi scricchiolanti di quella catapecchia di volgari contadini.

Il chiacchiericcio animato che arrivava dalle scale gli dette un quadro piuttosto chiaro del fatto che dovevano essere tutti riuniti di sotto, forse nella sala da pranzo. Persino Sif era rientrata in casa.

Apparentemente nessun cane da guardia.

Ancora indeciso su come intraprendere la discesa nel modo più silenzioso possibile, fu un rumore alla sua sinistra ad attirare la sua attenzione.

Un verso indistinto. Che somigliava vagamente a un… vagito.

“La bambina…” si trovò a mormorare e i suoi piedi si fermarono, in bilico sul primo scalino, bloccati nel movimento, mentre tutta la concentrazione veniva ora incuneata su quell’unico particolare.

Nemmeno si rese conto di aver iniziato un lento e cauto retro-front. Di aver accantonato l’idea di recuperare il guantone, per spingersi invece a far visita a quell’essere che, con il suo sgraziato pianto, non aveva fatto altro che tormentarlo, dal giorno in cui era venuta al mondo.

Più che curiosità si rese immediatamente conto essere qualcosa di molto più empatico ad attrarlo. Qualcosa che aveva pizzicato tutte le corde delle sue percezioni. Man mano che si avvicinava alla piccola stanza dall’aria curata, che profumava vagamente di talco rancido e latte, la sensazione che quelle corde si muovessero in modo sempre più frenetico, fino a creare un concerto d’archi, divenne palpabile.

L’aria era pressoché immobile, ma il refolo di vento che entrava dalla finestra e muoveva le tende della stanzina, sembrava non disturbare il sonno dell’infante.

Loki si sporse appena su quella culla improvvisata. Un numero imprecisato di cuscini attorno a un materasso sul letto, per impedire che la bimba cadesse sul pavimento. Un foulard di cotone leggero appeso a un chiodo alla parete, che si agganciava con dello spago dalla parte opposta dell’intelaiatura del letto a far da parasole alla creaturina dormiente.

Le mani cominciarono a pizzicargli. Le braccia, le spalle. La nuca sembrava percorsa da brividi più o meno fastidiosi. Le orecchie ronzavano sinistramente e non per l'orchestra di cicale all’esterno.

Non seppe di aver allungato istintivamente una mano nella sua direzione finché non invase il campo visivo. La ritrasse come scottato, prima di rendersi conto che la bambina aveva improvvisamente aperto gli occhi… e lo stava fissando.

Un paio di occhi dal colore ancora indefinito. Quel grigio azzurro tipico dei bambini di poche settimane di vita. Si erano piantati nei suoi e per un attimo si perse in quella visione del tutto inaspettata, come fosse scivolato in una pozza dalla quale non riusciva a liberarsi.

Il pizzicore alle braccia si era fatto bollente, la testa sembrava essersi appesantita in modo innaturale, eppure, in tutto quell’apparente disagio, gli sembrò per la prima volta dacché quell’incubo era cominciato, di sentirsi in pace.

“Che cosa sei… tu?” domandò, ben consapevole che non avrebbe potuto ricevere risposta. Forse era solo un modo per scuotere la realtà e restarci ancorato, prima di finire per perdersi in quella strana connessione.

Allungò di nuovo una mano e la bimba fece altrettanto. Le sfiorò le dita e prima ancora che potesse ritrarle, lei gli aveva afferrato un dito. Con quella prodigiosa forza che solo i neonati sanno esercitare.

Accadde tutto così in fretta.

Lampi di luce compatta, come bolle di fuoco gli cominciarono a vibrare attorno alla testa. Il calore si fece insopportabile e non riuscì più a riprendersi la mano quando cominciò a percepire la bambina come quelle stesse creature che sembrava riuscire a domare, come qualcosa di assolutamente affine eppure… diverso.

Invece di sentire l’odore marcio e il rumore di ganasce in movimento, riconosceva lo scambio di un fluido caldo e vitale. Un balsamo benefico e puro. Caldo e rassicurante.

 

Non un virus.

Ma una cura.

 

Le parole gli si erano materializzate nel cervello nello stesso istante in cui riusciva a liberarsi della presa. Nel momento in cui la connessione veniva spezzata, così bruscamente da lasciarlo senza fiato.

Si trovò inginocchiato accanto al letto, accaldato e gemente, come in preghiera di fronte a un vero e proprio miracolo. La bambina agitava le gambe grassocce ed emetteva dei versetti di gioia. Come lei stessa consapevole di essere portatrice di qualcosa di straordinario, come entusiasta finalmente di essere riuscita a condividere con qualcuno la portata di quel suo prodigio.

Loki avvertì in lei la forza di qualcosa di potente. Qualcosa che avrebbe potuto cambiare per sempre le sorti di quel mondo ormai marcio.

Ma anziché farsi invadere dalla gioia e dalla commozione di quella scoperta, i tremiti che presero ad animargli le membra erano carichi di puro terrore.

 

*

 

Atlanta

 

Natasha aveva ingranato la prima ed era partita.

Una delle poche macchine che era riuscita a far funzionare per raggiungere più rapidamente il punto in cui aveva visto elevarsi il fumo scuro.

Il gruppo di Stark si era diviso. Di nuovo. Il professor Selvig era stato scortato via da Fury, Sam e Coulson, che assicurava di aver trovato una via rapida per tornare al carro armato, mentre Stark aveva insistito con l’andare a riprendersi Capitano e compagnia: con quel suo guantone avrebbero potuto liberarsi più agilmente degli ostacoli e riportare la squadra alla fattoria. Dimenticare quell’incubo di città… almeno per un po’.

A Natasha importava solo ritrovare Clint e Barney. Non negava che le sarebbe dispiaciuto apprendere della scomparsa del Capitano e del motociclista biondo, ma tendeva a ragionare ancora per priorità. Un difetto del quale avrebbe fatto fatica a sbarazzarsi, un difetto del quale forse non era nemmeno interessata… a liberarsi. Certe cose che aveva imparato della sua vita precedente le erano risultate fin troppo utili in questa. Per questo preferiva tenersele strette. Il timore che rilassarsi troppo –  come non era mai comunque stata abituata a fare –  avrebbe potuto risultarle fatale era una delle motivazioni che ancora le impedivano di sciogliersi del tutto. O a credere nella favoletta che tutto si sarebbe risolto per il meglio.

“Sei sicura che questa sia la strada giusta, Romanoff?” Stark non aveva smesso un solo istante di parlare da quando erano montati in macchina. Ma aveva già avuto modo di pentirsi della scelta e lanciarlo fuori dalla macchina alla velocità di cinquanta miglia orarie sembrava un po’ troppo violento anche per una come lei.

“E’ la stessa strada che abbiamo percorso per arrivare ai laboratori di ricerca”, gli rispose fredda e placida come un lago.

“Abbiamo fatto tante deviazioni, come puoi ricordarla con questa chiarezza?”

“Memoria fotografica.”

“Una donna piena di pregi. Dopo le intuizioni magiche sul guantone, adesso la memoria fotografica.”

“Ti ho già spiegato del guantone.”

“A dire il vero non mi hai spiegato un bel niente. Te ne sei arrivata ieri sera riportandomelo come un dono dei Re Magi. Se è per qualcuno che devi proteggere io sono una persona disposta al perdono. Non è-”

“Non proteggo nessuno. A tempo debito avrai le tue risposte. Per adesso accontentati di averlo riavuto. E smettila di fare domande.”

“Mamma mia, quanto siamo permalose. Vorrei solamente sottolineare che qui quello indispettito dovrei essere io. E… EHI!”

Natasha aveva appena effettuato una brusca sterzata che li portò a fare un repentino testacoda: sulla strada un corpo steso a terra che aveva evitato per un soffio.

“Va bene essere offese, ma tentare di ucciderci non mi sembra la vendetta più sensata…”

Natasha non era sicura del perché non fosse passata direttamente sul presunto corpo putrescente, tirando dritto per la sua strada, ma qualcosa di indefinito le aveva suggerito di premere il freno ed evitarlo. Nel disagio di quell’assurdo momento si trovò a fissare la figura stesa al suolo a pochi metri dalla loro vettura con un misto di terrore e preoccupazione.

Non era uno dei ragazzi. Ma non era nemmeno una Ganascia. Come poteva esserne così sicura? Non lo era, certo, eppure…

“Scendi.” Disse solo, rivolta a Stark ancora in preda a un possibile attacco di cuore.

“Ah? Dove? Qui? Perché?” Stark aveva allungato il collo e passato una mano sulla porzione appannata del suo parabrezza.

“Prepara il guantone e scendi.”

“Ma perché?! Gradirei una spiegazione un tantino più dettagliata, tante grazie!”

Natasha cominciò a spazientirsi.

“Lo vedi quello?” indicò il corpo steso al suolo, vestito solo di brandelli di vestiti. Una camicia lacerata, un paio di pantaloni praticamente da buttare.

“Lo vedo: è una Ganascia.”

“Non è una Ganascia.”

“Bè, magari non ancora, ma lo diventerà presto.”

“Non è una Ganascia”, insistette piuttosto sicura di ciò che asseriva, “è vivo.”

“Vivo?” Stark di nuovo allungò il collo, e fece per aprire il finestrino. “È uno dei nostri? Un po’ troppo tozzo per essere Rogers. E poi figuriamoci se siamo tanto fortunati.”

“Vuoi scendere o ti devo spingere fuori a calci nel culo?”

“Sono molto colpito dalla lodevole delicatezza delle tue alternative.” Disse, azionando però finalmente il guantone che aveva con sé. Lo vide aprire lo sportello e scendere dall’auto.

A lei ci volle qualche istante di più per farlo. Impensierita dall’idea di aver dato credito a un istinto, a un’intuizione. Ma quella non era una Ganascia. E se non era uno del suo gruppo… allora doveva essere qualcuno che era miracolosamente sopravvissuto alla città infernale.

Seguì Stark dopo quello che le parve il minuto più lungo della sua vita. Avvicinò lentamente l’uomo sdraiato a terra e solo quando non furono che a un passo – con quel guantone in azione che non sembrava dare alcun riscontro per definire quel corpo come una Ganascia – dovette fermarsi, sorpresa come poche volte in vita sua.

“Ehi, è vivo questo qui.” Decretò Stark non meno colpito da quella rivelazione, “diamine stavolta mi sa che mi tocca darti ragione Romanoff.”

Il dubbio di Natasha andava man mano vaporizzandosi. Aveva già le mani nelle tasche e le dita strette attorno alla fotografia che aveva raccolto pochi istanti prima, ai laboratori di ricerca.

Quell’uomo steso a terra, vestiti stracciati e aria malaticcia e innocua, non era altri che il dottor Bruce Banner.

 

*

 

Fattoria

 

Betty Ross alzò di scatto la testa verso il soffitto della sala da pranzo.

“Che succede?” Pepper, al suo fianco, aveva notato il movimento nervoso della donna e aveva abbandonato il boccone che stava per consumare.

“Credo di… non lo so, forse ho solo sentito piangere la bambina.”

“Io non ho sentito nulla.”

Betty si alzò in piedi comunque e l’istante successivo, senza una parola, aveva abbandonato il tavolo da pranzo e preso le scale per il piano superiore.

Alle sue spalle i mormorii dei commensali e, forse, il fruscio di qualcuno che aveva deciso di seguirla, preso in contropiede dalla modalità dall’erta con cui la donna se ne era andata.

Non era stato un vagito a catturare la sua attenzione. E nemmeno un pianto, un grido, un verso. Più una sensazione, qualcosa che era arrivato a pizzicarle la nuca.

Le sentinelle non avevano segnalato alcun pericolo dalle loro posizioni privilegiate e allora perché era proprio quella sensazione a prevalere improvvisamente?

Entrò nella stanza dove la bambina riposava, con aria quasi trafelata, per la sola rapidità con cui aveva scalato a due a due i gradini delle scale.

Un refolo di vento, la tenda appena smossa. Il profumo di talco rancido e latte.

Il silenzio più assoluto.

La culla era vuota.

La bambina era sparita.

 

___

 

Note:

Sul capitolo niente da dire. Ci si prepara al rientro alla fattoria, con qualche sgradevole sorpresa. Ma la strada sarà lunga e perigliosa, sennò che divertimento c’è. Per sapere qualcosa di più su Banner, tocca aspettare.

Niente da aggiungere se non i soliti ringraziamenti a tutti coloro che leggono e commentano, all’immancabile e preziosa beta reader, e mentre vado a dissetarmi che qui già si crepa di caldo, saluto tutti e ci si sente la prossima settimana!

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


CAPITOLO 17

 

Siamo sull'orlo di un mutamento climatico radicale.

(The day after tomorrow) 

 

*

 

Quando l’orda di Ganasce cominciò a disperdersi in modo più o meno disordinato, Clint e i suoi combattivi compagni capirono di essere salvi.

Abbassarono le armi, esausti e storditi, mentre l’eco delle ultime mascelle in movimento andava disperdendosi per le polverose vie di Atlanta.

“Ce ne avete messo di tempo!” la protesta di Barney fu liberatoria come un grido di vittoria. Mentre Stark, guantone rosso alla mano, ancora fresco di cromatura, veniva loro incontro con aria spavalda.

“Non credevo sarei mai arrivato a dirlo, ma non sono mai stato così contento di vederti.” Persino il Capitano sembrava aver abbassato le difese per celebrare quel giorno in più che gli era stato concesso sulla terra.

“Ohi capitano, frena l’eccitazione, non sono sicuro che Pepper approverebbe tutte queste avances.”

“Tipico Stark.”

Clint si guardò attorno alla ricerca del resto del gruppo, sullo sfondo solo una macchina dal motore acceso, e la testa rossa di Natasha che usciva per accoglierli. Se non altro lei stava bene.

Ma le parole di Barney tornarono a colpirlo un po’ più bruscamente di quanto si fosse atteso e cercò di soffocare la preoccupazione latente: doveva imparare a fidarsi di più di lei. Come di tutti gli altri. Il lavoro di squadra aveva straordinariamente funzionato stavolta. Tutti sembravano sapere quale fosse il proprio ruolo.

“Dove sono tutti gli altri?” domandò curandosi di andare a recuperare tutte le frecce ancora agganciate alla carne putrescente delle Ganasce abbattute.

“Sono tornati al carro armato prendendo un’altra strada”, Stark, “la Romanoff  ha visto del fumo nero e ha deciso di portare quello più in gamba del gruppo a recuperarvi.”

“Se ci fosse un campionato di modestia, Stark, lo vinceresti su tutta la linea.” Thor lo aveva raggiunto per mollargli una sonora pacca di ringraziamento sulla spalla.

“Ohi, ragazzone, sono un ingegnere, non un lottatore di sumo, giù quelle padelle.”

“Allora adesso ce ne andiamo, no?” Barney aveva passato le sue frecce a Clint affinché le sistemasse nella faretra.

“Ahm sì, direi di sì… anche se… credo ci sia una cosa di cui dovremmo… discutere prima.”

“Cosa c’è da discutere? Avete avuto dei problemi ai laboratori?” il Capitano aveva immediatamente assunto un’aria contrita.

“Oh no, ai laboratori è andato tutto alla grande, ma…”

“Abbiamo trovato Banner.” Natasha era intervenuta a dare voce alla titubanza di Stark.

Clint e Barney si scambiarono uno sguardo perplesso.

“Io direi che è stato più lui a trovare noi… ma dovrebbe essere ancora sotto le macerie intento a schiacciare un pisolino.” Asserì Clint, indicando uno dei palazzi crollati dopo la titanica impresa di abbattimento.

“E’ in macchina.” Ribatté Natasha, sollevando sguardi e mormorii piuttosto confusi.

“Che vuol dire che è in macchina?” Clint era avanzato e aveva passato la faretra al fratello, come se l’argomento fosse troppo delicato per affrontarlo con un peso fra le mani.

“Significa che lo abbiamo trovato svenuto per strada, mentre venivamo qui. Sembra sia regredito… a una forma più… umana.”

“Come fate a sapere che è Banner?”

“Ho una sua foto.” E nel dirlo Natasha aveva sollevato un pezzetto di carta stropicciata sulla quale riconobbe immediatamente Betty, ma non l’uomo al suo fianco.

“Ma… ma è vivo?”

“Vivo e vegeto.” Aggiunse Stark dalle retrovie, “russa persino. Qualcosa mi dice che aveva bisogno di una sonora dormita.”

“Questo non ha senso…” si trovò a mormorare e riscuotere l’approvazione del gruppo intero.

“Ve lo siete portati dietro?”  Rogers aveva deciso di prendere in mano la conversazione, “Ma potrebbe essere pericoloso.”

“Al momento non lo sembra per niente.”

Clint li lasciò alle discussioni, ma qualcosa lo spinse alla macchina, incuriosito dalla piega del tutto inaspettata di quella loro spedizione.

Solo qualche ora prima stavano scappando dalla furia di un mostro verde e distruttivo ed ora chi diavolo era quell’uomo che sembrava riposare placido sui sedili posteriori di una vecchia Panda?

Sbirciò la figura addormentata dal finestrino dell’auto. Aveva l’aria esausta e l’aspetto di chi è sopravvissuto a un campo di lavoro: profonde occhiaie gli coloravano il viso scavato. Risultava evidentemente malnutrito, le costole ben in evidenza, come se il mostro che lo aveva tenuto prigioniero per tutto quel tempo ne avesse totalmente assorbito la linfa vitale, svuotandolo. I capelli erano sporchi e quasi del tutto ingrigiti, ma nonostante tutto si poteva ancora intuire l’aspetto di quello che era stato il dottor Banner. Lo stesso identico uomo della foto.

“Non sembra pericoloso.” Natasha lo aveva affiancato e dal tono in cui aveva parlato, intuì che probabilmente sarebbe stata lei la prima sostenitrice del dilemma se portarlo o meno con loro.

“Solo un’ora fa lo stavo cavalcando come in un rodeo.” Gli uscì del tutto spontaneamente e lo sguardo perplesso della donna non gli sfuggì, “lunga storia. Niente di troppo sconcio comunque.”

In realtà si stava chiedendo come avesse fatto a sopravvivere a una freccia conficcata nel cervello e al crollo di due interi palazzi. Non sembrava aver riportato gravi danni fisici, a parte quelli relativi alla straordinaria magrezza. Come se già non fosse abbastanza straordinaria la mutazione di cui l’uomo si era reso protagonista.

“Pensi che potrebbe trasformarsi di nuovo?”  le chiese allora, senza riuscire a distogliere lo sguardo.

“Non lo so. Credo nessuno possa saperlo.”

“E pensi che dovremmo portarlo con noi.”

“Te la sentiresti di lasciarlo qui in queste condizioni?”

Clint si volse per poterla finalmente guardare. Per un attimo gli sembrò ancora più pallida di quanto ricordasse. Ma aveva centrato il punto. Il suo punto, quantomeno.

“Io… no”, dovette ammettere, “ma potrebbe essere un pericolo per gli altri, alla fattoria. Se desse fuori di matto potrebbe mandare all’aria il tetto del fienile con uno sputo. Credevo fosse una tua prerogativa analizzare le cose da tutte le prospettive.”

“L’ho fatto.” Gli confermò senza sorprenderlo.

“Ma… ?

“Ho pensato a Betty.”

La risposta gli sembrò così straordinaria che si trovò a osservarla come uno scemo.

La vide stringersi nelle spalle.

“Hai paura che potrebbe cavarci gli occhi uno ad uno se scoprisse che lo abbiamo abbandonato qui?”

“Io lo farei.” Confermò Natasha.

“Ci caveresti gli occhi per aver lasciato qui Banner?”

“Li caverei se al posto di Banner ci fosse qualcuno che mi interessa.”

Clint avvertì appena una stretta allo stomaco. Intrecciò le braccia al petto per non mostrarsi colpito dal commento. In fondo non era mica detto che stesse parlando di lui.

“Parlo di Thor, ovviamente.” Aggiunse lei, intuendo il suo improvviso disagio, “sarebbe uno spreco.”

All’arciere non sfuggì una mezza risata.

“A chiunque sembrerebbe uno spreco lasciare qui Thor.” Confermò, felice di aver smorzato l’atmosfera in quel modo.

“Oh, finalmente qualcosa su cui andiamo d’accordo.”

Ma tornò lentamente serio, indeciso o meno se prendere la palla al balzo al commento affatto casuale.

“Mi… spiace per quello che ho detto prima. Non volevo offenderti.”

“No, lo so. Volevi solo farmi girare le palle.”

“Sì, bè. No, no che non volevo.”

“Non fa niente.” Sembrò voler liquidare l’argomento, “Devo trovare dell’insulina.”

La guardò solo per un istante ancora prima di capire che quello non era altri che un tentativo di dire che in qualche modo aveva avuto ragione. Dunque era l’insulina il problema. Soluzione semplice, ma tutt’altro che trascurabile.

“Bè, siamo ad Atlanta. La capitale della Georgia. Non credo faremo fatica a trovare una farmacia. E dubito che la gente si lanci sulle svendite di medicinali di questi tempi.”

Natasha sembrò essergli grata per non averle elargito uno sgradevole: te lo avevo detto.

Non era una delle frasi che preferiva lui stesso. Forse perché se l’era sentita rivolgere tante di quelle volte...

“Ehi Clinton!” Barney veniva verso di loro, e fu solo per un riflesso ancestrale che riuscì a prendere al volo la faretra con le frecce, senza lasciarle rovinare al suolo.

“Ma ti pare?” protestò solo, prima di rendersi conto che la squadra di ricognizione sembrava essere arrivata a un accordo.

“Torniamo al carro armato. Rogers e Stark si portano via il dottore con la macchina. Suona ragionevole?”

Clint guardò Natasha che si limitò ad annuire una sola volta. Apparentemente soddisfatta della decisione.

“Suona ragionevole.” Concordò, “ma prima Natasha ed io dobbiamo fare una cosa.”

“Ti pare il momento, Clinton? Con tutto il tempo che avrete più tardi?”

La faretra fece di nuovo, violentemente ritorno al suo proprietario. Che non ebbe la prontezza di afferrarla come lui aveva fatto prima.

 

*

 

“Che cazzo significa che Rogers e Stark hanno Banner?”

Fury stava dando il meglio di sé per rendere onore al proprio nome.

“Credevo fossi orbo, capo, non anche sordo.” E di certo Barney non stava migliorando la situazione, “hanno già deciso dove portarlo. Non alla fattoria, questo è certo, ma abbastanza lontano da Atlanta, in un posto sicuro.”

“Nessun posto è al sicuro con quel mostro verde.”

“Non è più un mostro verde.”

“Ma tecnicamente potrebbe non essere sano comunque…”

“Per quello niente fattoria. Il Cap sembrava piuttosto sicuro della soluzione.”

“Chi cazzo è Il Cap?”

“Carino, lo chiamavo anche io a quel modo”, Sam aveva affiancato Barney, a quanto pareva con lo spirito di chi ha decisamente meno problemi ad accettare la decisione del suo superiore.

“Sceriffo”, la voce pacata di Coulson era intervenuta a sedare gli animi. Sbucato fuori dal boccaporto del carro armato che avevano tenuto in caldo per il rientro, “credo sarebbe più saggio tornare e decidere il da farsi una volta al sicuro. Presto il sole tramonterà.”

Fury alzò lo sguardo al cielo dove il sole ancora splendeva tenace, ma dovette ammettere con suo grande rammarico che le ore si erano susseguite un po’ troppo rapidamente, e che da un momento all’altro avrebbe potuto scendere la sera. Avevano già deciso all’unanimità di non potersi permettere di affrontare una città come quella, con le tenebre.

Emise un grugnito che parve un consenso. Coulson doveva esserci abituato perché rientrò nel carro armato lasciando spazio ai compagni.

“Tuo fratello e Natasha?”

“Hanno trovato una vettura. Stanno facendo scorta di medicinali. Rogers e Stark li proteggeranno per un po’.”

Fury sperò ardentemente che Rogers e Stark sapessero anche come proteggere loro stessi… per molto più che un po’.

Già il fatto che non avessero perso nessun membro della squadra in quella spedizione che odorava di tragedia gli sembrava un miracolo. Ma forse era solo la fortuna dei principianti. Un team così affiatato è frutto di fiducia guadagnata e consolidata dopo anni di addestramento. Questo lo aveva imparato dopo una lunga carriera di onorato servizio.

Eppure. Eppure sembrava che avessero cominciato a funzionare. Da subito.

Un esempio pratico: quello che era successo solo due giorni prima, alla fattoria. Avevano lavorato tenacemente tutti insieme per evitare di essere sopraffatti dall’attacco delle Ganasce e il risultato era stato straordinario. Stupefacente. Ancora una volta… la parola miracolo tornò a stuzzicargli la mente. Stava cominciando a diventare un vizio.

Non era stato una strabiliante coincidenza anche solo trovarsi tutti insieme allo svicolo per Atlanta, ad accogliere Betty Ross? E non era strano come ogni membro della squadra sembrava occupare un posto ben preciso nel gruppo?

Forse erano ancora una volta i deliri di un vecchio che avrebbe dovuto passare gli ultimi giorni della sua vita tra un bicchiere di vino e un quiz televisivo di basso livello, che non affrontare un incubo da videogiochi per ragazzi.

Eppure quella parola: miracolo

Aveva sognato Betty Ross ancora prima di sapere che cazzo di faccia avesse.

E aveva, da subito, sentito la necessità di tenere al sicuro quella sua creaturina, come se il solo fatto che una nuova vita fosse fiorita, proprio nel bel mezzo della fine del mondo, fosse un evento di portata straordinaria.

Ai miracoli ci credeva sua madre. Che collezionava santini e statuine di madonne, in un assortimento in odore di santità. Ai miracoli credeva il pastore che ogni domenica recitava spaventosi sermoni sulla dannazione degli inferi e la vita eterna per gli uomini di buona volontà. Non lui.

Eppure… eppure…

Un rumore attutito catturò la sua attenzione, da qualche parte verso nord.

Si rese improvvisamente conto che il vento stava cambiando.

Socchiuse gli occhi notando un’onda di scuri nuvoloni provenire dalla parte opposta da cui erano arrivati. Come aveva fatto a non accorgersene prima?

Improvvisamente le nubi gli apparvero ben più nere di quanto non fossero realmente, ben più minacciose, ben più vicine. Una sensazione di sorda inquietudine prese ad aggrovigliargli lo stomaco. Comprese del tutto irrazionalmente di dover tornare alla fattoria.

Il più rapidamente possibile. Come se solo quel cambiamento atmosferico fosse portatore di future sventure.

Eppure la missione era stata un successo. Cosa avrebbe potuto andare storto, ancora?

Non si fece ulteriori domande. All’ennesimo richiamo di Coulson, Fury si arrampicò sul carro armato.

“Muoviamoci”, disse, prima che i motori venissero accesi.

 

*

 

Natasha aveva trovato quasi subito la sua amata insulina. Ci aveva riempito un intero cestino e non contenta stava continuando a infarcirlo di farmaci generici che avrebbero potuto servire a chiunque, alla fattoria.

Adesso che avevano avuto la fortuna di trovare una farmacia tanto fornita sembrava quasi un peccato non svaligiarla.

Persino Clint aveva avuto la stessa idea. Vagava di scaffale in scaffale attirando a sé tutti i beni di prima necessità: garze, compresse per il mal di testa, antibiotici e una buona dose di quelli che sembravano prodotti per bambini.

“Non dovevamo limitarci alle cose necessarie?” non riuscì a non domandargli vagamente divertita, trascinandosi dietro il cestino, stracolmo.

“A me qui sembra tutto necessario.” Allargò le braccia e Natasha si rese conto di quanto stesse fissando un po’ troppo intensamente una pila di pannolini.

“Betty se la sta cavando alla grande con le fasce…”

“Già bè, ma sarebbe più comodo se avesse questa roba”, lo vide raccogliere una scatola e scrutarla incuriosito.

“Non credevo avessi così a cuore la sorte di quella bambina…”

“Ma dai, questi sono addirittura lavabili!” lo sentì esultare prima di voltarsi di nuovo nella sua direzione, “dicevi?”

Natasha scosse la testa: “Prendine quanti ne vuoi e poi andiamocene.”

Ne recuperò un paio di scatole e trasportandole sottobraccio la seguì istintivamente verso le casse. Pura abitudine: “E comunque certo che ho a cuore le sue sorti, l’ho fatta nascere dopotutto.”

“Buffo, credevo che fosse stata Betty a partorire.”

“Bè, sono stato uno delle sue ostetriche. Ho partecipato attivamente all’evento.”

“Sono felice di constatare che sei riuscito a superare il trauma… sembravi piuttosto impressionato.”

“Chi ti dice che lo abbia superato? Una cosa è certa: non partorirò mai.”

Natasha soffocò un sorriso, prima di lanciargli a sorpresa una scatola di preservativi adocchiati in uno degli scaffali vicini: “con questi non correrai il rischio.”

Clint per non lasciarli cadere si lasciò sfuggire di mano entrambe le scatole di pannolini, che urtando uno scaffale laterale fecero rovinare rumorosamente a terra diverse scatole di farmaci.

“Merda…” esalò sull’ultimo cigolio, mentre l’imprecazione andava a perdersi nell’eco del locale vuoto.

Si guardarono attorno entrambi, come aspettandosi che qualcosa uscisse allo scoperto, ma nulla accadde. Dopotutto avevano esplorato la farmacia da cima a fondo prima di decidersi a congedare Stark e procedere con il recupero dei medicinali.

“Bè… almeno abbiamo avuto la conferma definitiva di essere soli.” Natasha si rese conto immediatamente di quanto fosse improvvisamente nervoso. Se per la tensione appena accumulata o altro, questo non seppe dirlo immediatamente.

E poi la realizzazione che la parola soli, in quel momento aveva assunto dei toni un po’ diversi.

Soli. Forse davvero per la prima volta dacché si erano incontrati.

Non soli nello stesso modo in cui era stata dopo l’inizio dell’epidemia, colma di frustrazione, paura, angoscia. Soli ma con la prospettiva di avere qualcuno ad attenderli da qualche parte, ad aspettare il loro ritorno.

E quindi che razza di implicazioni comportava quella parola e perché improvvisamente sembrava così carica di agitazione?

Clint, in mezzo al corridoio, con una scatola di preservativi in mano e un disastro di farmaci ai suoi piedi.

“Sembri la pubblicità della Durex.” Commentò solo, senza volersi interrogare sul perché avesse di nuovo sentito il bisogno di smorzare quell’insulsa tensione. Eppure rimproverava continuamente a Clint di farlo. Proprio per quello non lo sopportava… la maggior parte delle volte.

“Dubito che la Durex assumerebbe un tipo come me come testimonial.” Si era fatto largo tra i farmaci caduti per risistemare la scatola sullo scaffale, come se avesse importanza.

“Perché i loro prodotti non sono all’altezza delle tue aspettative?”

“Magari sono io a non essere all’altezza delle loro…”

“Ma come, non eri sposato?”

“Appunto. Ero.”

Le fece uno strano effetto nominare il suo matrimonio. Nemmeno sapeva perché. L’improvvisa concretizzazione del pensiero che fosse stato con una donna, dio solo sapeva quanti anni prima, le fece scorrere un fremito dritto nello stomaco. O in qualche regione un po’ più a sud.

Anche questa era una di quelle cose che ultimamente odiava. Il dover fantasticare su un uomo che non era sicura di volersi azzardare a toccare.

Non le era mai successo di farsi grossi scrupoli a riguardo. Sia che il sesso se lo andasse a cercare come sfogo, sia che fosse un diversivo imposto sul lavoro.

Si era resa conto di aver paura di superare la linea di demarcazione solo dopo aver realizzato che Clint le piaceva. Le piaceva anche Barney, certo, ma non nello stesso modo.

Barney le suscitava un sentimento fraterno, protettivo. Clint era in grado di sconvolgere in qualche modo i suoi equilibri.

Lo aveva fatto da subito. Da quando le aveva praticamente salvato la vita, al modo in cui l’aveva accettata nel suo circolo di fiducia facendole capire quanto avrebbe rischiato aprendo quello spiraglio d’accoglienza.

Al solo modo in cui si preoccupava costantemente per lei. Nessuno lo aveva fatto mai. Non così… a tratti fastidioso, a tratti ossessivo.

Si rese conto di non avere più molta voglia di parlare. O di raccogliere farmaci. O anche solo di tornare in tutta fretta alla fattoria.

Lui la stava guardando e aveva conosciuto il desiderio negli occhi di troppi uomini per confonderlo con qualcos’altro. Lo avvicinò quel tanto che bastava a farle percepire il suo odore ormai familiare. Non le ci vollero lusinghe per invitarlo a fare la prima mossa. Socchiuse gli occhi quando sentì la mano di lui scivolarle sul viso, sul collo, tentativamente sull’apertura della maglietta ormai logora.

Lei gliela spinse in basso, ad offrirle il proprio seno ad alimentare quell’improvvisa urgenza. Quando lo attirò a sé, per costringerlo a capire di spingere finalmente sull’acceleratore, trovare le sue labbra fu solo una questione di incastri.

Clint aveva le labbra umide e il viso ispido di barba.

Aveva sempre odiato gli uomini con la barba, ma per quanto pungesse, per tutto il tempo che si furono addosso, i suoi graffi sulla pelle furono solo l’innesco di un centinaio di micce bollenti.

 

*

 

Il rumore dei cingoli del carro armato avevano preso a confondersi con quello dei tuoni in lontananza.

Il cielo si era fatto di cenere dorata, mentre un incauto vento scuoteva le fronde degli alberi. Il campo che costeggiava la strada verso la fattoria sembrava un mare di verde in piena, scosso da cavalloni di erba.

“Cazzo, stavolta arriva potente.” Barney si era già arrampicato sul portello per avere una visuale migliore di quell’annunciata apocalisse meteorologica.

“I temporali estivi sono tutti così.” Dichiarò pigramente Coulson, seduto accanto a Selvig che neanche se avesse intrapreso l’intera maratona di New York di corsa, senza barare, sarebbe apparso tanto provato.

“Il cielo non è così inquietante nemmeno quando annuncia un temporale.”

Barney ne aveva visti di temporali, da ragazzino, da adolescente, da uomo adulto, ma quel cielo, fatto esattamente in quella maniera, era sicuro di averlo visto solo in un’occasione prima di allora. Un cielo che non preannunciava niente di buono. Né tantomeno niente di così innocuo come un classico temporale estivo.

Era passato diverso tempo, talmente tanto tempo che aveva dovuto tornare agli anni della sua infanzia. Agli anni in cui lui e Clint erano ancora due ragazzetti con il sapore di latte materno sulle labbra.

Il cielo si era tinto delle stesse identiche sfumature un giorno di più di trent'anni fa. Il vento faceva tremare i vetri delle finestre e fischiare le assi su, nella soffitta.

Harold e Edith Barton non erano in casa. Fuori per commissioni che non li volevano coinvolti. Cosa di cui di solito si trovavano entrambi a gioire. Soli in una casa enorme, liberi di avere il tempo di fare ciò che più preferivano, senza il timore di essere rimproverati o… peggio.

Quando il vento però aveva cominciato a far scricchiolare le assi delle pareti e il rombo all’esterno aveva preso a divenir tremendo, avevano capito che forse era il momento buono di sfoggiare gli insegnamenti che la signorina Richards, alle scuole elementari di Waverly, aveva elencato loro in caso di uragano.

Si erano andati a nascondere in cantina. Per quella che a loro sembrò tutta la notte ma che in realtà non fu che poco più di un'ora.

Quando furono certi che il vento si fosse placato ne erano usciti, ancora tremanti e forse un po' più eccitati di quanto avrebbero dovuto.

La casa era rimasta in piedi. Il giardino era un disastro e alberi, pali della luce sradicati e macchine ribaltate occupavano gran parte della via. La luce era saltata un po' dappertutto. Le persone del vicinato si aggiravano nei dintorni come fantasmi a contare i danni.

Ricordò di come Clint fosse affranto dall'apprendere che la sua bicicletta in giardino era sparita. E di come aveva tentato di consolarlo dicendo che magari era solo finita nel magico regno di Oz.

Qualche ora più tardi, due poliziotti in divisa vennero a raccontar loro che Harold e Edith Barton dovevano aver deciso di seguire la bicicletta nel regno di Oz. Se a far compagnia a Dorothy o al potente mago bugiardo, quello non lo avrebbero scoperto mai.

Certo... mai, a meno che quello che Coulson si ostinava a etichettare solo come uno spiacevole temporale estivo non fosse un uragano.

Barney seguì con lo sguardo la campagna tutt'intorno e il punto in cui la fattoria avrebbe dovuto cominciare a fare capolino a breve.

Cominciò a pregare di arrivarci prima che l'ondata distruttiva li raggiungesse.

 

___

Note:

Se le cose andassero come desideriamo noi, non avremmo sorprese. Io mi sono lasciata trascinare… e questo capitolo, con il prossimo sono due piccole deviazioni dalla trama che mi hanno permesso di sbloccarmi definitivamente. Conclusi questi partirà la maratona per arrivare al gran finale.
Come sempre ringrazio tutti quelli che ancora seguono la storia, la mia beta socia con cui ancora blatero di Avengers, anche se prima di andare in ferie avevo detto che non mi interessavano più molto, e tutti gli altri… che passano per caso di qui.

Ci sentiamo presto.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


CAPITOLO 18

 

“Che stai facendo,inverti la rotta,ti stai cacciando dritto in bocca a quella mostruosità!”

(La Tempesta Perfetta)

 

*

 

Il pianto della bambina sembrava amplificato.

Il tunnel fognario in cui Loki l’aveva trascinata non sembrò più un’idea intelligente. Probabilmente li avrebbe protetti dall’imminente tempesta, ma non avrebbe risparmiato i suoi timpani. Ringraziò solo che il rumore del vento e dei tuoni coprissero in modo egregio gli strepiti di quell’ugola metal.

La guardava dalla parete opposta. Dopo averla sistemata su un materasso di lenzuola e coperte si era rifiutato di toccarla di nuovo.

Il perché avesse architettato una fuga tanto rapida quanto sconsiderata era ancora un mistero. Non aveva realizzato di averla stappata dalla sua culla, fino a quando non si era trovato a correre per i campi di grano, lontano dalla fattoria dove ancora sembrava non si fossero accorti di niente. L’istinto aveva preso il sopravvento. E l’unico pensiero che gli martellava nelle tempie era quello di portarla via da lì. Il perché lo avesse fatto, cosa farne di lei, non erano domande che aveva preso in considerazione.

Sapeva solo di aver percepito la sua presenza come una minaccia. Una minaccia a tutto quello che stava cercando di costruire, di certo non alla neonata comunità che sembrava sciogliersi in brodo di giuggiole ad ogni sorriso di quella marmocchia calva.

Cominciava a fare freddo e si rammaricò di non aver portato con sé qualcosa di più adatto per coprirsi.

Dovevano essersi ormai accorti della sua fuga e lui arrendersi al fatto che il suo sconsiderato gesto non era stata la sua mossa più brillante.

Quel fottuto bastardo dell’impulso lo aveva già reso prigioniero una volta: probabilmente dopo questa bravata non se la sarebbe cavata con una misera reclusione. Si immaginò braccato come in una caccia alle streghe. Circondato, impalato, bruciato sul rogo in pubblica piazza.

Smorzò una risata nervosa all’idea di come solo qualche settimana prima erano i morti gli unici esseri da cui guardarsi. Da quel giorno in poi, forse, avrebbe dovuto temere di più i vivi.

Ruotò gli occhi verso l’alto ad un nuovo attacco di strida.

“Taci!” gridò all’indirizzo della bambina senza avere la più pallida idea di come placarla, ancora una volta.

L’ennesimo brivido lo percorse da capo a piedi.

“Ho freddo anche io, cosa credi?” volse il capo verso l’esterno dove il tunnel mostrava porzioni di mondo sconvolto dal vento.

“Prima imparerai ad accettare il fatto che nella vita bisogna sapersi adattare, meglio sarà per te…”

Una sagoma oscura si materializzò improvvisamente all’imboccatura del tunnel, un’altra ancora la seguì. Il suo stomaco si contrasse in una morsa ansiolitica.

Lo avevano già trovato?

Prima che potesse rendersene conto, Loki aveva preso in braccio la bambina. Ignorò il pizzicorio che lo pervase di nuovo non appena entrò in contatto con lei (connessione che, in realtà, non se ne era mai andata del tutto), senza lasciarla andare. Chiunque fosse appena entrato, magari si sarebbe fatto qualche scrupolo ad atterrarlo con lei in braccio.

“C-chi siete?”

In risposta non gli arrivò niente altro che un vago rumore di mascelle in accesso di masticazione.

Represse un moto di disgusto e di rabbia alla realizzazione che quelle due non erano altro che Ganasce in cerca di cibo. Era davvero così confuso da non aver avvertito il loro arrivo? A non averli addirittura riconosciuti? Forse era per via della tempesta. Forse della… bambina.

“No.” Disse solo, accennando a rimettersi in piedi.

Le due sagome fermarono la loro avanzata, osservandoli con occhi vitrei, instupiditi. Barcollavano sul posto come due marionette senza fili.

“No…” ripeté Loki, tenendo stretta la bimba che, finalmente, sembrava aver se non altro smorzato il suo pianto.

Vide le Ganasce voltare loro le spalle, riprendere la via verso l’uscita. E poi invece che andarsene, restare lì all’ingresso del tunnel che puzzava di muffa e dio solo sapeva che altre schifezze, come due solide sentinelle. A protezione di quell’improvvisato rifugio.

Loki tornò a sedersi, fissando stranito la strana piega che avevano preso gli eventi.

Quando abbassò lo sguardo sulla bambina, si era addormentata.

 

*

 

“Non possiamo proseguire…” Rogers aveva delle serie difficoltà a mantenersi fermo sulla macchina che continuava a sbandare miserevolmente.

Il vento sembrava frustarne le lamiere, ben deciso a farli uscire di strada.

Stark, dal canto suo, ce la stava mettendo tutta per mantenere saldo il veicolo, incontrando grossi ostacoli a riguardo.

“Bella intuizione Cap, dimmi qualcosa che ancora non so.”

“Dobbiamo trovare un riparo sicuro.” Lo sguardo andò di nuovo ai sedili posteriori, dove il loro silenzioso ospite ancora se la dormiva della grossa. Fu grato del fatto che sembrasse tanto esausto.

“Di nuovo una risposta degna di nota.”

“Senti, che vuoi che ti dica? Se magari fossi un po’ più propositivo…”

“Propongo che il Capitano Rogers la smetta di dire ovvietà.”

Steve serrò le labbra, per non dare a quell’odioso individuo l’ennesimo pretesto per stuzzicarlo.

Avrebbero dovuto aspettare Barton e la Romanoff invece di riprendere il viaggio da soli.

Avrebbe avuto supporto morale, se non altro.

O… ancora meglio, forse avrebbe fatto a meno di preoccuparsi per loro.

Perché dal momento in cui quel vento malefico e quelle spesse nubi avevano preso a oscurare il cielo, aveva cominciato a indirizzare pensieri più o meno inquieti a tutti i suoi compagni. Non di meno a tutte le persone rimaste alla fattoria.

Era sicuro ci fosse qualcosa di molto più potente di un semplice temporale in atto. Lo si percepiva nell’atmosfera. In quel cielo giallognolo da tempesta. Nell’aria che si era fatta pesante, pastosa.

E dire che era convinto di aver già passato la sua dose di guai per quella mattina.

Era ripartito da Atlanta con un carico di positività non prevista. Il successo della missione era riuscito a scatenargli dentro un sentimento che non provava più da molto tempo: speranza.

Era sicuro non sarebbe mai più riuscito a racimolare abbastanza fiducia per provare qualcosa che una volta… gli rimproveravano di avere in abbondanza.

Si era sbriciolata il giorno stesso in cui aveva appreso che non avrebbe mai più rivisto Bucky. Che non avrebbe mai più rivisto Peggy.

Il pensiero era ancora un dolore sordo, attutito in fondo al petto. Non era mai riuscito a versare una sola lacrima. Forse perché  non ce ne era mai stato il tempo, forse perché in una parte recondita della sua coscienza si era spinta la convinzione latente che potessero essere ancora vivi.

Poi però ricordava il viso di Bucky. E l’aggressiva influenza di Peggy. Non aveva visto nessuno sopravvivere a quella febbre. E quella flebile speranza tornava a farsi in pezzi ancora più microscopici.

Quella mattina però era successa una cosa buona. Una cosa che lo aveva spinto a credere… a sperare che quello schifo avrebbe potuto migliorare. Che ci fosse più di una buona ragione per perseverare se un gruppo di individui – fondamentalmente sconosciuti fra loro – si era spinto fin nella bocca dell’inferno e ne stava facendo ritorno con quella che avrebbe potuto tramutarsi in salvezza. Se non per chi era stato meno fortunato di loro, per il mondo che sarebbe giunto… dopo di loro.

Aveva sempre cercato uno scopo. Lo aveva inseguito con tenacia dopo l’inizio di quell’apocalisse. E adesso, a un passo dal riuscire a sfiorarlo… una tempesta veniva a minacciare quell’aspettativa.

Non lo avrebbe permesso.

“Esci dalla strada, Stark.”

“Cosa?”

“Dalla strada. C’è un canale vuoto lì. Infilatici.”

“Sei impazzito? Non riusciremo più a venirne fuori!”

“Preferisci essere spazzato via dall’uragano?”

Stark strinse le mani sul volante. Riuscì quasi a sentire gli ingranaggi del suo cervello mettersi in funzione. Steve sapeva che non era uno stupido. Un fastidioso ostinato, sì, ma non uno stupido.

La macchina sbandò una sola volta prima che l’uomo seguisse la sterzata.

Il rinculo della macchina fu doloroso, brusca la discesa, ma l’istante successivo erano incastrati nel canale, fra due alti muri di terra ed erba putrida.

“Cazzo, che dolore…” si lamentò Stark posando la fronte sul volante.

Steve rilasciò piano il fiato, ignorando la botta alla schiena, prima di voltarsi per accertarsi delle condizioni del dottor Banner.

“Quello sta meglio di noi…” commentò Stark, slacciandosi la cintura di sicurezza.

L’uomo giaceva giusto un po’ più scomposto di prima, ma ancora sembrava dormire, semplicemente, come una batteria in carica.

“Rogers… lo sai vero che dovremo uscire dai finestrini dopo?”

Il Capitano gli rivolse uno sguardo perplesso. Il vento, sopra le loro teste fischiava violento. Ma la macchina era stabile e cementificata sul fondo di quell’improvvisato rifugio.

 

*

 

L’intera comunità alla fattoria sembrava impazzita, un po’ come il tempo.

Invece di rinchiudersi in casa come un qualsiasi disastro meteorologico imminente avrebbe suggerito, sembravano tutti aver optato per un insensato party all’aria aperta.

Fury fu uno dei primi a scendere dal carro armato, ma quando vide tutta quella gente correre loro incontro capì immediatamente che non si trattava di una calorosa accoglienza.

L’espressione sul viso di Betty fu quella che riconobbe con più nitidezza fra tutte le altre.

Non gridava come faceva Bess, che da quanto strepitava sembrava esprimersi in un incomprensibile idioma alieno, ma gli stava correndo incontro, gli occhi fissi nei suoi in una muta, stordita, disperata richiesta d’aiuto.

“La bambina…” gli parve di sentirla pronunciare.

“Che cazzo sta succedendo?” sentì chiedere qualcuno, forse Barney o Sam nelle retrovie.

“Si è portato via la bambina.”

Betty ora gli era a un passo e gli aveva afferrato un braccio, come a dare enfasi alla sua affermazione.

Ma non c’era terrore, non rassegnazione, più una sorta di determinata follia. E Fury sentì lo stomaco raggrinzire come carta straccia. Una sensazione alla quale non era più abituato.

“Dobbiamo andare a cercarli.”

“Di cosa… di chi stai parlando?” dovette chiederle, anche se la sola menzione della bambina gli aveva attivato tutti i ricettori e instillato addosso un fremito d’inquietudine.

“Loki. Loki si è portato via la bambina”, pronunciò Betty e nel momento in cui lo fece, Nick si rese conto in cuor suo di averlo sempre saputo. Certo, non dell’evento in sé, ma di quella sensazione di pericolo imminente. Mai per un solo istante aveva pensato di essere in apprensione per la tempesta in arrivo: “dobbiamo andare a cercarli.”

“Adesso?”

“E’ stata colpa mia, avrei dovuto tenerlo d’occhio…” Sif, poco distante, li aveva raggiunti. Nello sguardo la stessa identica determinata follia, mista a una furia ancora repressa, “mi offro volontaria.”

“Volontaria? Ma di che diavolo state parlando! Quando è successo?” protestò l’uomo che ancora non riusciva a inquadrare del tutto l’avvenimento.

“Lo abbiamo scoperto meno di mezz’ora fa. Ma potrebbe averla presa con sé molto prima. Eravamo… tutti in sala da pranzo.” Sif continuava a parlare con voce strozzata, senza riuscire a sollevare lo sguardo sulla madre della piccola. Come fosse stata davvero colpa sua.

“Dunque Loki potrebbe essere ovunque, in questo momento.” Constatò, affatto certo di capire perché il ragazzo avrebbe mai dovuto fare una cosa simile.

“Non alla fattoria”, stavolta era stata Maria Hill a intervenire. L’aria non meno sconvolta delle altre, ma certo più controllata, razionale, “l’abbiamo perlustrata da cima a fondo. Ma non c’è traccia di Loki o della bambina. Deve essersi allontanato per i campi…”

Entrambi, lui e Maria, diressero lo sguardo lontano, verso quella distesa d’erba in agitazione.

“Non può essere comunque andato troppo lontano. Non si era ancora ripreso del tutto. E con questo vento…”

Fury concordò con la sua rapida analisi.

“Probabilmente è andato a cercar rifugio da qualche parte”.

Loki era potenzialmente folle, lucidamente folle – il gesto di cui si era appena macchiato ne sembrava la triste riprova – ma non avrebbe messo a rischio la sua stessa vita per una fuga in mezzo a una tempesta.

Sentiva su di sé ancora il silenzioso sguardo di Betty. Come se aspettasse solo un ordine, un suggerimento, per scatenare la sua folle ricerca. Non poteva certo darle torto, eppure… eppure improvvisamente si rese conto di non essere in pena per la bambina, non quanto avrebbe dovuto. La sensazione di allarme si era andata placando man mano che l’avvenimento veniva svelato.

Fu sicuro, ad un certo punto, che la bambina non fosse affatto in pericolo. Non ancora.

Si decise a ricambiare lo sguardo.

“Nessuno va da nessuna parte. Sta per arrivare una tempesta.”

“E mia figlia è la fuori con uno psicopatico.” Le parole sferzanti che gli aveva rivolto ebbero il potere di far vacillare solo per un istante la sua risolutezza.

“Sono sicuro che Loki abbia pensato a mettere al sicuro entrambi.”

“Oppure a lasciare mia figlia in balia del vento per mettersi in salvo. Potrebbe averle fatto qualsiasi cosa, potrebbe…”

“Se avesse voluto farle qualcosa l’avrebbe già fatto. E noi non potremmo fare niente comunque. Ma sono sicuro, Betty, che tua figlia non è in pericolo.”

“Come fai a dirlo? Come diavolo fai a dirlo?”, aveva preso a urlare. “Io devo andare a riprendermi mia figlia!”

“E morire nel tentativo?” le scaraventò addosso Fury, senza preavviso, mentre gli ululati del vento si facevano orribili, “perché è quello che accadrà se la tempesta ti coglierà di sorpresa nelle operazioni di ricerca. Sarebbe tutto vano comunque.”

Betty sembrò assorbire il colpo, ma a giudicare dalla sua espressione sembrava rifiutarsi categoricamente di versare una sola lacrima, ancora ben determinata a non mollare il colpo.

“Ce la andremo a riprendere. La andremo a cercare. Ma prima dobbiamo metterci al sicuro. Lasciare che si sfoghi la tempesta. Appena terminata sarò il primo a lanciarmi all’inseguimento. Dovesse essere l’ultima cosa che faccio in questa vita.”

I due si scambiarono un lungo sguardo; negli occhi di Betty ancora una muta, ma questa volta rassegnata, accusa.

Se Fury si sentì in colpa, seppe comunque in cuor suo di aver fatto la scelta giusta. Con quelle premesse le operazioni di ricerca sarebbero risultate vane e inutilmente pericolose. Ci teneva anche lui alla bambina, solo poche ore prima stava pensando a quanto avesse sempre cercato di tenerla al sicuro. Come avevano potuto precipitare fino a quel punto le cose?

Avrebbe dovuto invocare uno di quegli improbabili miracoli?

“Sceriffo, non possiamo più restare qui!” la voce di Coulson alle sue spalle.

In quel momento l’unica cosa di cui avevano bisogno, però, era un riparo sicuro.

 

*

 

I vetri presero a tremare all’unisono.

Uno scricchiolio spaventoso che sembrò preannunciare un’esplosione imminente.

“Fermati, Clint…” il sussurro di Natasha però era riuscito a percepirlo ben distinto. Le labbra così vicine alle sue orecchie. Il respiro caldo che ancora gli solleticava il collo.

Si scostò appena il tempo di leggere nei suoi occhi la sua stessa inquietudine, la stessa identica allerta. A un passo dal lasciarsi andare sul serio, in bilico fra la lucidità e la perdizione, il fragore di un tuono mastodontico.

Come avevano fatto a non accorgersi di un temporale in arrivo?

Quanto tempo erano rimasti in quel cazzo di negozio? Avrebbero già dovuto essere in viaggio; gli altri forse erano già rientrati.

Si scostò dalla donna che aveva sollevato di peso sul bancone della farmacia, per andare a cercare indizi sulle vetrate del locale. Fuori l’aria si era fatta di cenere. Polvere e cartacce vorticavano senza cognizione per le strade deserte di Atlanta.

“Che succede? D-Dobbiamo andarcene?” la voce di Natasha di nuovo a spezzare il silenzio. La vide saltare in piedi e recuperare la maglia abbandonata sul pavimento, ancora sconvolta da quella parentesi accalorata: i capelli sconvolti, la pelle arrossata, ma rapidamente in assetto da missione.

“Io credo di no.” Rispose lui.

Sgranò gli occhi quando si trovò ad osservare di come la furia del vento si stesse scatenando con tutto ciò che di inanimato c’era all’esterno. Arretrò d’istinto dalla vetrina, alla seconda, violenta protesta del cielo. I vetri adesso proiettavano una luce sinistra all’interno del locale.

Scorse un palo della luce barcollare in modo preoccupante, prima di vederlo abbattersi al suolo, proprio accanto alla macchina che avevano parcheggiato poco distante dall’ingresso.

L’istante successivo uno dei vetri sul retro andò in mille pezzi.

“Un uragano.” Le parole gli erano scivolate di bocca senza troppi ragionamenti. Un ricordo d’infanzia che non aveva mai dimenticato. Nitido, palpabile, come fosse successo solo una manciata di giorni prima.

Natasha non fece domande, si limitò ad affiancarlo.

“Dobbiamo trovare un riparo”, le disse solo, e lei lo prese per mano. E sebbene non lo espresse ad alta voce, gliene fu grato. Improvvisamente si era riscoperto bloccato in quell’istante. Le gambe immobilizzate in un giorno di almeno una trentina di anni fa.

“C’era una stanza senza finestre, sul retro del locale.” Le suggerì, ricordando esattamente ciò che doveva fare. Le parole della signorina Richards, la sua vecchia insegnante delle elementari, ancora ben impresse nella mente. In caso di uragano, di terremoto, di qualsiasi disastro naturale le venisse in mente di mettere in guardia ignari ragazzini troppo eccitabili.

Una seconda finestra esplose in un tintinnio cristallino di vetri infranti.

Condusse la donna in quello che sembrava un magazzino. Tre, forse quattro scalini in discesa. Non era nemmeno riusciti a contarli. Si accertò che non vi fossero amare sorprese, nascoste dietro vecchi scatoloni e armadi.

Un boato all’esterno dello sgabuzzino lo informò che il vento doveva aver abbattuto qualcuno degli espositori della farmacia, facendosi largo fra le finestre frantumate.

Quando fu certo di non avere altro da fare, poggiò la schiena al muro, lasciandosi scivolare a terra, lentamente. Avvertì quasi immediatamente un tremolio impercettibile. Le pareti si muovevano scosse da tutto ciò che stava infuriando all’esterno.

Socchiuse gli occhi, concentrandosi su quella soffusa sensazione e improvvisamente fu di nuovo un ragazzino che ascoltava il rumore della tempesta, pregando affinché la casa non crollasse.

“Dovremmo essere al sicuro qui dentro. Dopotutto siamo ancora in città. I palazzi placheranno la forza del vento”, Natasha gli si era seduta di fianco, un occhio ancora sulla porta, nella speranza che le sue previsioni fossero buone.

“Clint.” Lo richiamò di nuovo un istante successivo, forse impensierita dalla sua muta reazione.

Riaprì gli occhi solo quando avvertì il delicato tocco della sua mano.

“Come facevi a sapere che si trattava di un uragano?” gli domandò e Clint si rese immediatamente conto che la domanda fungeva solo da diversivo. Una distrazione a quel soffocante, atterrito silenzio.

“Ne ho visto uno, da ragazzino…”

Natasha seguitava a guardarlo come fosse pronta ad ascoltare tutta la spiegazione, ma non era sicuro di aver intenzione di condividere  sgradevoli ricordi proprio in quell’istante.

“Provvidenziale… se cercavamo un segno che ci dicesse che quello che stavamo facendo fosse sbagliato…” aggiunse con aria meno lugubre, la sensazione di aver interrotto qualcosa sul più bello ancora abbastanza vivida, lì, al cavallo dei pantaloni.

“Credi che fosse sbagliato?” la domanda di Natasha.

Lui si volse, rendendosi conto che non doveva aver colto l’ironia.

“Dio, no. Certo che no.” Si affrettò a rassicurarla. Era certo di non aver mai desiderato tanto a lungo qualcosa. “Ma in quanto a tempistiche facciamo veramente schifo.”

“Possiamo riprovarci più tardi.”

“Come… ?”

Natasha gli lanciò uno sguardo eloquente, ma non aggiunse altro. Forse troppo impegnata a decifrare i rumori del vento la fuori.

Clint non indagò ulteriormente.

“Credi che gli altri stiano bene?” le domandò invece. Sapevano entrambi che per altri si riferiva in particolar modo a suo fratello Barney. Che se tanto gli dava tanto, avrebbe dovuto riconoscere lui stesso la natura di quell’improvviso cambio climatico.

“Dovrebbero già essere arrivati alla fattoria.”

“Hai tenuto il tempo?” si trovò a domandarle stupito.

“Saranno passati cinquanta minuti da quando li abbiamo lasciati al carro armato. Considerato il fatto che loro sono partiti subito mentre noi abbiamo deviato per questo posto… quelli sorpresi per strada dall’uragano potrebbero essere al massimo Stark e Rogers.”

L’analisi non faceva una piega.

“Impressionante”, commentò con una punta di sarcasmo.

“Sei stato tu a chiedermelo”, gli lasciò andare la mano.

“Lo so, lo so…” cercò di raddrizzare il tiro, “se non altro qualcuno era lucido là fuori.”

Natasha sollevò su di lui uno sguardo di finto rimprovero: “Avremmo potuto trovarci in mezzo alla tempesta in questo momento.”

Non ci aveva pensato, ma la considerazione gli fece correre un vago brivido lungo la schiena.

Una macchina in corsa lungo la statale.

Una raffica di vento.

Una sbandata.

Lamiere contorte, fumo e sangue.

Si riscosse per miracolo, prima di arrivare a immaginare chi occupava quella vettura. Era sicuro che se avesse spinto oltre quella vivida fantasia, non si sarebbe trovato di fronte Harold e Edith Barton.

Natasha preferiva immaginarla così come la stava guardando. O al limite a come appariva solo qualche minuto prima, accaldata, pulsante e viva, fra le sue braccia.

“Allora magari baciarti ci ha portato fortuna, dopotutto.” Dovette proprio dirle, seguendo quella linea di pensiero del tutto positiva. Del tutto incredibile perché, per come si erano messe le cose fino a quella mattina, un avvicinamento simile non lo aveva nemmeno ipotizzato.

“Non credo nella fortuna.”

“Potevi almeno concedermi la licenza poetica…” fortuna o meno, doveva ammettere che il gioco delle coincidenze questa volta aveva agito in loro favore. E per una volta tanto non si lamentò dell’alternativa. Di solito le odiava, le maledette coincidenze.

L’unica cosa che invece lei sembrò volergli concedere fu un altro di quei suoi lunghi baci – se per scuoterlo da quella sua ormai evidente inquietudine o meno non gli interessò – che per il momento potevano anche bastargli. Più di un frettoloso amplesso, arrampicati sul bancone di una farmacia nella città più infestata della Georgia.

Per certe cose, forse, valeva la pena aspettare. Frustrazione a parte.

“Raccontami dell’uragano…” gli chiese scostandosi, dopo aver deciso di avergli concesso abbastanza o di averlo tranquillizzato a sufficienza.

Clint inspirò a fondo e ignorando il fischio del vento e il fremito delle pareti scosse, cominciò a ricordare.

 

*

 

Sembrava di stare al cinema. Seduto uno accanto all’altro, in una stanza buia.

Il braccio attorno alle spalle di Maria, Barney era sicuro non sarebbe riuscito a infilarcelo a cose normali.

A cose normali una donna come Maria Hill, probabilmente non lo avrebbe mai nemmeno degnato di uno sguardo.

In ogni caso non erano in uno stracazzo di cinema. Non ad un appuntamento.

Pigiati come animali pronti per il macello forse. Chiusi nello scantinato accanto al granaio. Una pallida copia di un bunker anti atomico o una qualche stronzata simile. Se i proprietari della fattoria fossero stati un tantino più furbi è lì che avrebbero dovuto nascondersi all’inizio di quell’indegna epidemia. Forse si sarebbero risparmiati la morte. E quantomeno avrebbero avuto i fagioli. Scatole e scatole di fagioli. Fagioli a colazione, pranzo e cena.

A lui invece nemmeno piacevano i fagioli. A Clint tantissimo. C’era una ragione per cui lui era il fratello maggiore. Quello più saggio insomma…

“Barton, puoi anche lasciarmi andare ora.”

Maria lo stava fissando con aria cupa.

“Ti dà fastidio?”

“No…” aggiunse con titubanza, “ma comincia a far caldo qui sotto.”

“Lo spazio è un po’ quello che è, sai? Ma se preferisci vado ad abbracciare Sif.”

“Sif ti farebbe saltare la testa…”

“Oh, puoi dirlo forte…” intese con aria sorniona, allentando la presa. Maria non gli risparmiò uno spintone.

Sembrava un modo ovattato la sotto: i rumori in superficie però non parevano troppo magnanimi con la fattoria. Si chiese se avrebbe resistito così come aveva fatto casa sua, nell’Iowa trent’anni prima, o se si sarebbero trovati di nuovo senza riparo. Era sicuro di non voler tornare ad affrontare la strada. Non tanti quanti erano.

Posò un rapido sguardo su Betty seduta accanto a Pepper dall’altra parte dello scantinato. Silenziosa in quella sua fremente disperazione. Fury non le aveva voluto dire del marito per non affliggerla con l'ennesima preoccupazione. Il dottore Banner era là fuori, da qualche parte, ma non più al sicuro di loro.

L’ululato del vento adesso sembrava un continuo lamento e si trovò a sperare che Clint almeno fosse al sicuro.

Che non fosse per strada. Perché avevano avuto modo entrambi di scoprire cosa voleva dire affrontare un uragano nel bel mezzo di una marcia. Si trovò a rabbrividire nonostante il caldo.

Maria lo aveva riavvicinato senza che lui le dicesse una sola parola. Forse intuendo i suoi pensieri, forse provandone lei stessa di spaventosi e contrastanti.

Sollevò il braccio con un mezzo sorriso e glielo passò di nuovo sulle spalle.

Rimasero così tutti quanti, ad aspettare che l’universo fosse così magnanimo dal risparmiare tutto ciò che, fino a quel momento, erano riusciti a costruire.

 

*

 

Note:

Si conclude così anche questa fase. La tempesta inibitrice o quello che è.

Un guaio dietro l’altro sennò che gusto c’è? Mi rendo conto della mancanza di azione, nel vero senso della parola, ma questa storia ho detto fin dall’inizio che si sarebbe basata più sui personaggi e le loro storie che altro… anche se, sì, prometto che nella corsa verso il finale farò del mio meglio per dare una spinta di adrenalina al tutto.

Ne approfitto come sempre per ringraziare chi legge, chi commenta (pochi, sicuro siete tutti in vacanza, bravi, bravi), e la mia beta e socia, sempre presente, che ringrazio per gli incoraggiamenti costanti. Noi ci si sente alla prossima, magari pure prima di quanto crediate.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


CAPITOLO 19

 

“Danzano solenni, allontanandosi lentamente nel chiarore dell'alba, verso un altro mondo ignoto…”

(Il Settimo Sigillo)

 

*

 

“Clint! Forse ho trovato una macchina che funziona!”

Il motore aveva tossito solo un paio di volte prima di emettere il suo rasposo grido di vittoria.

La tempesta si era placata. Ma ci era voluta più di un’ora buona per decidersi ad abbandonare quell’improvvisato rifugio ed uscire all’aria aperta.

Il cielo adesso era terso. Della tempesta  non era rimasto niente altro che un gruppo di spessi nuvoloni che si dirigevano a sud, lontano.

Come aveva previsto, la città non aveva subito grossi danni. Frenato dagli alti palazzi, il vento sembrava non aver avuto modo di scatenarsi alla sua massima potenza. Dopotutto se l’erano cavata con poco.

Persino le Ganasce sembravano essersi rintanate da qualche parte a cercar riparo dal vento o, più probabilmente, spazzate via dallo stesso, in qualche anfratto di strada. Sarebbero tornate a infestare le strade della città comunque, di lì a poco. Le tenebre stavano calando come un velo morbido sulla città. Meglio muoversi.

E poi Clint era irrequieto. Forse più preoccupato di tornare alla fattoria per accertarsi che Barney stesse bene che non per se stesso.

Aveva percepito l’odore della sua paura. E il suo racconto su quell’uragano le aveva chiarito il perché.

Dai traumi non ci si libera mai, dicono. Tornano a tormentarti nei momenti meno opportuni.

Guidò la macchina fino alla vetrina ormai divelta della farmacia. Clint aveva riempito un paio di borse di medicinali. Il motivo per cui erano finiti lì, affatto dimenticato. Nemmeno dopo quella sottospecie di intervallo in cui non erano riusciti a levarsi le mani di dosso. Non era ancora sicura di riuscire a credere fosse successo davvero. Non che lo avesse preventivato, ma improvvisamente avevano varcato quella scomoda linea di confine che sembrava allontanarli più che tenerli vicini. Se anche fosse stata praticamente sicura che fosse ciò che anche Clint desiderava, non avrebbe certo forzato la mano. Non con lui. Cercò di non pensarci, di rimandare la questione a un altro momento. Quando quell'ennesima crisi sarebbe stata superata.

Lo vide lanciare tutto sul sedile posteriore e poi montare in macchina, sedendo al suo fianco.

“Benzina ce n’è?” domandò.

“Abbastanza per rientrare.”

“E tu ce la fai?” era evidente che si riferiva a qualcosa di molto specifico.

“Sì.” Stavolta senza tentennamenti. Aveva già provveduto a darsi sollievo con la giusta dose di insulina.

“Bene.” il silenzio che ne seguì decretò la fine di quel frettoloso scambio di battute.

Natasha ripartì lungo la strada, deviando un paio di pali della luce ceduti alla forza del vento.

Sgommò sulla strada deserta, illuminando la strada con i fari ammiccanti, finalmente fuori da Atlanta.

 

*

 

La fattoria non c’era più. O meglio, il piano superiore della fattoria non c’era più. Il tetto doveva essere entrato in orbita o finito nel magico regno di Oz, perché per quanto si sforzasse di guardar lontano, Barney non riusciva a scovarlo accartocciato da nessuna parte. Forse con un po’ più di luce, l’indomani, l’impresa sarebbe stata più semplice.

Però il granaio era rimasto in piedi. E a parte un paio di alberi letteralmente divelti, uno dei quali nei giorni precedenti era servito da palo di vedetta… sembrava tutto meno disastrato di quanto si aspettassero.

Erano usciti tutti, più o meno cauti, storditi come lo si può essere dopo aver temuto per la propria incolumità. Ma in modo diverso da come era successo dopo l’attacco delle Ganasce, meno di quattro giorni prima. Lì tutti avevano lottato per la propria vita. Con armi e tenacia. Le Ganasce erano qualcosa di concreto contro cui combattere, qualcosa che nonostante tutto avevano imparato a conoscere, ma il vento? Come puoi combattere il vento? Ci aveva persino provato quello spostato di Don Chisciotte della Mancia, qualcosa come secoli prima: però era matto. La differenza stava tutta lì.

Betty Ross sembrava essere ripartita all’attacco con la storia della bambina e per quanto nessuno sembrasse entusiasta di intraprendere una simile ricerca, dopo un’intera giornata di fatiche, Fury pareva averglielo promesso.

Sembrava che la squadra dovesse essere formata quantomeno da un gruppo che non avesse sprecato tempo ed energie ad Atlanta.

Sif, Maria e lo stesso Fury, si offrirono volontari. A quanto pareva il vecchio sceriffo aveva fegato da vendere e ancora diverse energie da sprecare.

Anche Wilson sembrava voler seguire il gruppo; a suo parere non aveva fatto molto, quel pomeriggio.

Coulson preferì restare per dare una mano alla fattoria.

Barney aveva già avanzato un passo per dire la sua.

“Dove credi di andare?” lo fermò Maria, quando lo vide un po’ troppo determinato.

“Vengo con voi”, disse come se la risposta fosse stata piuttosto ovvia, “più siamo meglio è.”

“Tu sei stato ad Atlanta. E poi qui servirà qualcuno di vedetta. Nel caso Loki tornasse o… qualche Ganascia sentisse il bisogno di venire a rompere le scatole.”

“Anche Sam è stato ad Atlanta. Persino Fury.”

“Ma loro non si sono fatti inseguire da un mostro verde per tutto il pomeriggio.”

Dannata la sua boccaccia. Se non gli fosse venuto in mente di bullarsi della sua impresa...

“Ti assicuro che ho ancora energie da vendere.”

“Lo vedo. Meglio che le risparmi per loro…” gli rispose indicando il gruppetto attorno a Bess, “e poi dovresti essere qui per quando tuo fratello tornerà, non credi?”

Maria sapeva quali tasti pigiare per stimolare le sue reazioni. In altri contesti poteva risultar piacevole, ma così si sentiva giocato.

“Fa’ attenzione là fuori”, le disse solo, apparentemente arreso. Le tenebre avevano ormai quasi del tutto inghiottito la campagna circostante. L’impresa sarebbe stata più complicata e pericolosa. Si chiese se non fosse un assoluto azzardo uscirsene a quell’ora; magari nemmeno quel pazzoide di Loki avrebbe voluto avventurarsi di notte in giro per quelle zone.

“Non ho mai avuto bisogno di incoraggiamenti.”

“Bè, volevo solo…”

“Ma ti ringrazio.”

Sentì qualcosa di stupido risalirgli su per il collo e cercò di scacciarlo il più rapidamente possibile.

“Vedrai come mi ringrazierai dopo, con il benvenuto che ho in serbo per te al tuo rientro.”

“Attento a quello che prometti, potrebbe essere al di sotto delle aspettative.”

“Abbi fiducia, donna, ti troverai a gridare dalla sorpresa.”

Maria lo aveva avvicinato e puntatogli un dito sul petto: “Chiamami donna un’altra volta, e quello che si troverà a gridare per la sorpresa sarai tu. Ma non sarà piacevole.”

“Ti sembrerà strano ma la cosa sta cominciando ad eccitarmi.”

Maria lo strattonò per la collottola fino a farselo finire a pochi centimetri dal viso. Gli rivolse uno sguardo terribile, prima di baciarlo rapidamente sulle labbra.

“Ci vediamo più tardi”, disse solo, lasciandolo andare.

La seguì con lo sguardo fino a che non ebbero radunato il gruppo con l’attrezzatura del caso. Betty salì in moto con Sif mentre gli altri decisero di proseguire a piedi.

Li stava ancora guardando, quando sparirono inghiottiti nella notte.

“Bene ragazzi!” batté le mani una sull’altra, cercando di catturare l’attenzione, “vediamo di organizzarci per andare a nanna!” Annunciò un minuto prima che un grido non squarciasse l’aria.

“Ganasce!” gridò Happy... o era stato Coulson? Thor? Di certo non si trattava di uno scherzo di pessimo gusto.

Barney sentì qualcuno corrergli accanto e cercò istintivamente arco e frecce senza trovarle: le aveva dimenticate nel rifugio sotterraneo.

“Merda.” Imprecò, cominciando a correre.

In tutta quell’oscurità, cominciò a intuire che c’erano un po’ troppe sagome attorno a loro per trattarsi di persone… vive.

 

*

 

Stark era convinto che con tutti i muscoli di cui si trovava provvisto, Rogers fosse una sorta di Ercole risolutore di problemi. Non aveva però messo in conto di quanto fossero ingombranti. Di quanto fosse ingombrante lui in toto.

Affossati in quella disgustosa macchina color merda secca (una vecchia familiare che mai si sarebbe azzardato a comprare) sembrava di giocare a Twister.

E Twister era un gioco che trovava divertente solo a capodanno, per dire, e circondato da un mucchio sudato di bellissime donne. Non un mastodontico capitano dall’aria da scolaretto del nord.

“Lascia… sposta… mi stai toccando il culo, Rogers?”

“E’ il cambio, imbecille!”

“Woah, grazie al cielo, pensavo stessi cominciando a eccitarti un po’ troppo per i miei gusti.”

“Sta zitto e muoviti a uscire!”

Si sentì spingere sempre più fuori dal finestrino, le mani ormai affondate nella terra del canale.

“Lo avevo detto che era un’idea stupida, quella di lanciarci qui dentro!”

“Sei ancora vivo mi pare! Smettila di lamentarti e agevolami.”

“Ti agevolerei se fossi una contorsionista del circo russo, ma sono solo un ingegnere senza stacco di coscia.”

Una gamba era ormai fuori dal finestrino, l’altra ancora incastrata dentro. Sentirsi tirare proprio sul cavallo dei pantaloni non era una gran bella sensazione. Un passo falso e si sarebbe trovato a cantare come un'aquila.

Sentì improvvisamente l’equilibrio che andava a farsi benedire. Avvertì la presa di Rogers venir meno e in un attimo fu fuori, cadendo malamente a terra, incastrato come un deficiente fra la macchina e la parete di terra.

“Sono quasi sicuro di averci messo meno tempo a scivolare fuori dalle cosce di mia madre…” constatò rimettendosi faticosamente in piedi, spolverandosi inutilmente la maglietta ormai zozza.

Fece per spronare Rogers a fare altrettanto, quando lo sguardo cadde sul finestrino posteriore.

Il dottor Banner fece uno strano movimento e l’istante successivo aveva aperto gli occhi.

“Oh… merda. Rogers…”

“Sì, un momento, mi sistemo…”

“No, Rogers…”

“Ho detto che sto arrivando, un attimo.”

“Rogers!”

“Cosa? Ma che cazzo ti prende?”

“Banner! Guarda Banner!”

“Banner cosa? Di che diavolo stai… ? Oh… dottor Banner?”

L’uomo stava cercando di rimettersi seduto, le sue braccia tremavano a tal punto che per un attimo Stark fu sicuro che sarebbe ricaduto come una pera cotta. Ma in quel corpo martoriato dalla fame o dal mostro che lo aveva divorato fino a poche ore prima, sembrò esserci più forza di quanto non dimostrasse.

“Dottor Banner… va tutto bene, non si agiti.” Rogers aveva già preso in mano la situazione e Tony gliene fu grato. Non era pronto a sfuggire di nuovo a un mostro dall’aria distruttiva.

Questi lo osservò stranito, evidentemente disorientato. L’aria spaurita, ma piuttosto lucida. Cosciente.

Ecco una parola che apprezzava: cosciente.

Stark allungò però un braccio per recuperare preventivamente il suo guantone. Non si poteva mai essere abbastanza prudenti.

“D-dove… c-chi siete?” la voce dell’uomo non era che un sussurro flebile e rauco, ma se non altro sembrava dotato di lucida favella.

“Siamo il Capitano Steve Rogers e… Tony Stark.”

“Ingegner… Stark”, ci tenne a precisare, guadagnandosi un’occhiataccia da Rogers. Se lui si era sentito in dovere di specificare un titolo tanto pomposo, non vedeva perché lui stesso non potesse farlo.

“I l-laboratori? E… m-mia moglie… i-io…”

“Abbiamo lasciato i laboratori. Non siamo più ad Atlanta, dottore. La stiamo…” lanciò uno sguardo a Stark, “riportando a casa. Da sua moglie Betty.”

“B-Betty? Come sta Betty?” lo vide agitarsi un po’ troppo per i suoi gusti.

“Betty sta bene. Benissimo. Lei e la bambina.”

“Bambina?”

Bel colpo Rogers, che diavolo gli veniva in mente di aggiungerci un dettaglio così emozionante? Quello non sembrava in grado di reggere notizie elementari, figuriamoci una news di quella portata.

“Sì… avete una bambina ora. E stanno entrambe benissimo. Le potrà rivedere a breve…”

“Sempre che riusciamo a uscire da questo canale schifoso.” Analizzò Stark, guardando verso l'altro, verso il cielo, verso le stelle che adesso ammiccavano spavalde. Brutte stronze.

“Ci riusciremo”, il capitano e quella sua positività non richiesta. Certo, se non altro compensava, “Dottore le do una mano io, ce la fa ad arrampicarsi fino al finestrino?”

“Non l-lo so... mi fa... male tutto.”

“Sarebbe stato strabiliante il contrario...” commentò Stark con ironia, guadagnandosi l'ennesima occhiataccia da Rogers. Deviò lo sguardo solo quando si rese conto di avvertire un rumore ovattato, appena sopra le loro teste. Il guantone, prima puntato in direzione di Banner adesso andava verso il cielo.

Non era pronto ad affrontare Ganasce o la furia degli elementi una seconda volta, e per di più in quelle condizioni ridicole.

La notte improvvisamente si illuminò a giorno. Trasalì appena, prima di dover chiudere gli occhi accecato da quelli che... sembravano due fanali.

“Stark?” una voce sopra le loro teste. E due sagome. Erano due sagome, no?

“Barton?” una sensazione di sollievo lo riempì tutto, forse dopotutto la sfiga aveva deciso di voltare la testa da un'altra parte. Qualsiasi parte fosse, sperò solamente non alla fattoria. Pepper non se l'era certo dimenticata. Sperò avessero avuto più buonsenso di loro a rintanarsi senza dover correre nei canali.

“State bene?” si sentì domandare.

“Staremo meglio una volta fuori da qui!” rispose.

“Strano, eppure sembrate star comodi.”

“Barton non devi per forza far le veci di tuo fratello, quando non c'è.”

“Ti stupiresti nel constatare che io e mio fratello siamo due unità ben distinte, Stark.”

Touché.

“Ci fai uscire lo stesso, vero?”

L'istante successivo si trovò a stringere fra le mani una lunga corda.

 

*

Li aveva sentiti, percepiti.

I richiami fuori, nella notte.

Loki, Loki: un'invocazione, un'eco lontana.

Ma non si mosse. Le due Ganasce ancora ferme all'inizio del tunnel.

Lo stavano cercando. Certo, come non aspettarselo?

La bambina aveva aperto gli occhi solo una volta. Pregò non si svegliasse, pregò non ricominciasse a urlare.

Chi o cosa pregò non lo seppe. Non ci credeva nemmeno, a Dio. A nessun Dio, sebbene avesse cominciato a rivedere un po' tutti quei preconcetti su ciò che di sovrannaturale governa il mondo.

Eppure qualcuno doveva averlo ascoltato. Perché le voci si allontanarono. Le grida si chetarono, nella notte.

Socchiuse gli occhi, esausto. Forse avrebbe potuto riposare ancora un po' prima che sorgesse il sole.

 

*

 

Il buio non gli era mai piaciuto: le cose preferiva vederle alla luce del giorno. Quando non hai paura di dove metti i piedi, quando non hai paura dei rumori che ti sibilano tutt'intorno.

Non era una vera e propria paura in realtà. Più quell'inquietudine che avvertivi da bambino, con il timore che sotto al letto, dentro l'armadio, si annidassero mostri della peggior specie e natura... che nel suo caso avrebbe preferito di gran lunga a quel terrore di quei passi veri, pesanti sul pavimento, che speravi sempre non si fermassero di fronte alla porta della tua camera.

I veri mostri, Barney, aveva sempre saputo individuarli nelle cose vive. Non nelle stupide fantasie fanciullesche.

Quindi adesso era combattuto se avere paura di quelle cose che si annidavano nell'oscurità, senza nemmeno avere il buonsenso di sedare quel rumore di ganasce o – dato che si trattava di cose tutt'altro che vive – catalogarli come quei mostri fantastici delle storie dell'orrore dei campeggi estivi.

Il quesito non era se abbatterli o meno, ma se farsi vincere dalla paura... o meno.

Di ignorare le grida che permeavano i dintorni.

Cercare di non riconoscere nessuna di quelle voci che invocavano aiuto o semplicemente innalzavano il loro più disperato urlo di battaglia.

Chi era riuscito a recuperare una torcia doveva essersi disperso chissà dove perché era da un po' che Barney aveva dovuto barcamenarsi in livelli più o meno profondi di oscurità.

Se non altro la vista sembrava essersi abituata all'assenza di luce. Solo le stelle, ammiccanti sopra le loro teste, a dar chiarore a una notte senza luna.

Menava fendenti, per quanto potesse capire a cosa li stesse indirizzando. Aveva optato per un bastone. Forse un'asse di legno del tetto divelto, finito chissà dove.

Ogni volta che sentiva odore di putridume e rumore di denti schioccanti, affondava il colpo. Per allontanarli o abbatterli, non gli sembrava il caso di fare lo schizzinoso.

Una danza macabra e faticosa. Non voleva ammetterlo, ma la fatica di quel pomeriggio ad Atlanta adesso cominciava a segargli le gambe, il fiato... la speranza.

“Barney!” era la voce di Bess, alle sue spalle. Si volse giusto il tempo per abbattere quella sua asse, sulla testa di una Ganascia che aveva costretto alla parete la donna.

Ormai aveva persino cominciato a ignorare tutte le schegge che gli si infilavano nelle mani. Il dolore era talmente diffuso che focalizzarsi su quello sarebbe stato sciocco e sfiancante.

“Rimettiti in piedi!”

“Non ci r-riesco, non ci riesco!”

“Ti hanno morso?” le aveva preso una mano per costringerla a farlo.

“No, no, mie le gambe, le mie gambe non si muovono.”

“Si muovono eccome, alzati! Alzati ed entra in casa!” le aveva gridato contro, spingendola alla bell'è meglio verso una qualche via di fuga sicura.

La seguì con lo sguardo solo per vederla barcollare verso l'abitazione o quello che gli sembrò essere il suo ingresso e poi tornò di nuovo a dirigere lo sguardo verso la notte, verso quel brulichio di corpi in movimento, dove non si riusciva più a distinguere un corpo vivo da quelli morti.

E poi lo vide: Coulson, circondato da un gruppo di Ganasce, a combattere tenace come un cervo circondato dai bracconieri.

Non dovette pensarci un solo attimo prima di correre in suo aiuto. Non lo aveva sentito gridare, non lo aveva sentito invocare aiuto, la sua personale, silenziosa e tenace battaglia. Ultimo bastione a protezione di tutto ciò che ancora restava di quella stupida fattoria.

E poi si rese conto che Coulson non stava solo combattendo per se stesso. Seduti a terra i due fratelli, quelli che avevano trovato con il gruppo di Fury, il giorno che si erano tutti incrociati ad Atlanta. Coulson li conosceva certo meglio di lui. Ai loro piedi una pozza scura di qualcosa che sembrava pece, ma che Barney non fece fatica a riconoscere come sangue.

Sangue.

Gridò qualcosa. Un verso disarticolato di distrazione. Che per quanto avesse cercato di far suonare neutro, era risuonato come un vecchio Kawabonga dei tempi andati.

Le Ganasce sembrarono apprezzare. Metà del gruppo che stava assalendo Coulson, decise di rivolgere a lui, le sue attenzioni. Cominciò a correre dalla parte opposta. Portandoseli dietro. Una grottesco gioco a guardie e ladri, che con la luce del giorno si sarebbe anche divertito a giocare, ma che ora puzzava fin troppo distintamente di disperazione.

Il rumore degli spari riecheggiò un paio di volte, prima che cessassero. Un grido squarciò il cielo notturno e con la coda dell'occhio vide sparire la figura di Coulson.

L'orrore prese a ribollirgli nello stomaco come cera bollente. Qualcosa di macabro e furibondo si impossessò di lui e lo costrinse a fermarsi.

A tornare sui suoi passi. Ad abbattere a suon di randellate tutte le Ganasce che si era portato dietro, una dopo l'altra, con violenza, furia, raggranellando tutte le forze che gli erano rimaste.

“Coulson!” gridò una sola volta, forzandosi a non realizzare come quei mostri marcescenti avessero formato un capannello, dove prima c'era l'uomo.

E di nuovo si abbatté su di loro. Il volto, le mani, le braccia coperte di sangue di Ganascia, gli occhi vividi di rabbia, come un Berserker consacrato da Odino stesso, pronto a dar sfogo a tutto il suo incontenibile furore.

Li sbaragliò, traendo forza inaudita. Il rumore disgustoso di carne macellata. Schizzi di ossa in frantumi e cervelli in decomposizione, finché non ci fu più nulla da distruggere, più nulla da abbattere.

Si inginocchiò solo per raccogliere da terra Philip, ancora vivo, ancora presente. Appena sotto al collo, vicino alla clavicola uno squarcio che aveva già preso a odorare di putrescenza.

“No...” si trovò a biascicare, sollevandolo di peso, fino a rimetterlo seduto.

“Volevo... aiutarli. Non ci sono...” riuscito.

Barney nemmeno volle voltarsi a guardare lo scempio dei due ragazzi ormai ridotti in brandelli alle sue spalle, per una volta tanto, nemmeno si rammaricò di non ricordare nemmeno i loro... nomi.

E, per una volta tanto, non era nemmeno in grado di pronunciare una mezza frase di conforto per smorzare quella tensione come solo lui sapeva fare in contesti tanto disperati. Sempre la battuta pronta, che ora restava bloccata in fondo alla gola, cementata nello sconcerto, nell'incredulità.

Si riscosse solo quando si vide allungare la pistola. La stessa che Coulson aveva stretto fra le mani solo qualche istante prima, centellinando proiettili, per abbattere Ganasce solo quando si fossero avvicinate troppo. Non era servito a niente.

“Che... cosa dovrei farci con questa?” ebbe la forza di chiedere, nonostante l'idea di cosa stava per succedere fosse già presente nella sua testa. Solo non gli sembrava reale.

Coulson la teneva nella mano tremante, spingendogliela contro il petto.

“Lo sai cosa devi fare.”

“Non posso.” anche quella una frase di circostanza che gli era uscita ancora prima che potesse anche solo considerare la possibilità di non dirla. Di risparmiare anche quel patetico teatrino.

“Devi. Se non lo farai tu... lo f-farò da solo.”

Adesso la pistola era accanto alla sua tempia, pronto a portare coraggiosamente a termine quel suo intento.

Maledisse le Ganasce, per la prima volta dacché quell'apocalisse era cominciata. La sfida era sempre stata difficile, ma per quanto avesse dovuto affrontare per non affondare in quel mondo ormai in decadenza, non aveva mai sentito così profondo e vivo l'odio che provava nei loro confronti. Per quanto privi di colpa o coscienza.

L'inconveniente si era improvvisamente trasformato in dolore, vero e tangibile. Per la prima volta stava guardando morire una persona di cui gli importava qualcosa.

La compassione non era nel suo animo. Ma la pistola gliela sfilò comunque dalle mani.

Lesse nello sguardo di Coulson un frammento di gratitudine, ma in fondo, in quelle pozze oscure appena puntellate dal pallido bagliore delle stelle, avvertì il fremito della sua paura.

Si era immaginato scene simili un milione di volte. Un modo come un altro per esorcizzare l'avvenimento, lui che era costretto ad abbattere qualcuno, come quegli stupidissimi film sui contagi.

Si era immaginato la perfetta frase da dire. Il perfetto commiato. Qualcosa di epico, risolutore.

Ma niente di tutto quello che aveva immaginato fu più crudo della realtà.

Non disse niente Barney. Non disse niente altro Coulson.

Fu solo uno sparo nella notte.

Gli ultimi fremiti del corpo ancora caldo dell'uomo fra le sue braccia. Gli ultimi spasmi. Riflessi incondizionati. La consistenza vischiosa del sangue che gli era schizzato in faccia e tutt'intorno.

Niente di romantico. Niente di epico.

Si sentiva sporco e viscido. E vuoto. Assolutamente vuoto.

Quando lo lasciò andare e si rimise in piedi, nemmeno si stupì troppo nel constatare che gli faceva male un braccio.

 

Il rumore di un motore.

 

La camicia era strappata.

 

I fari di un macchina.

 

Non se ne era nemmeno accorto.

 

Lo stridio dei freni.

 

Odore dolciastro di sangue.

 

“Ma che cazzo è successo qui?”

 

Era stato morso.

 

___

 

Note:

Aggiornamento doppio questa settimana, perché… boh, mi andava.

Il momento è solenne perché… finalmente ci è scappato il morto. E ormai è una tradizione che il morto sia un tormentone (almeno nelle mie ff) tipo: hanno ucciso Kenny! Qui alla Marvel è: Hanno ucciso Coulson!
E ammetto di essere stata prevedibile, ma spero non me ne vogliate. In ogni caso i guai andranno peggiorando e cercherò di stupirvi con effetti speciali.
Bene, la smetto con le stupidaggini e passo come sempre ai ringraziamenti sentiti a chi continua a seguire la storia, la aggiunge ai preferiti, seguiti, la stampa e la usa come carta igienica e chi più ne ha più ne metta. Alla mia beta e socia che è sempre con me nel momento del bisogno (Lenny è con noi anche, almeno con me), e rimando tutti alla prossima settimana.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


CAPITOLO 20

 

È così che va nella vita. Sei lì a scivolare via sul velluto, con tutto quanto che quadra secondo il manuale, poi commetti un piccolo errore e trac! Ti casca addosso il cielo.

(S. King - Il Miglio Verde)

 

*

 

E' strano come a volte ti rendi conto di avere un cuore pulsante nel petto.

Perché di solito non lo senti. Lo dai per scontato. Un organo interno che se ne sta lì, pompa sangue e lo fa scorrere nelle tue vene.

Di solito la sua presenza si fa concreta e rumorosa quando stai facendo fatica. Reclama la tua attenzione. E ti ricorda che sta lì. Che stai facendo uno sforzo che va oltre le tue possibilità.

Eppure Clint non aveva corso.

Era fermo. Immobile. Ma il cuore rimbombava nel suo petto, nelle sue orecchie... assordante.

Pum pum, faceva.

I ventricoli, le coronarie. Tutto quell'ammasso di muscoli... involontari, in movimento.

La fattoria era distrutta. Ma non era preoccupato per quello.

Le Ganasce rimaste erano state abbattute. Ma nemmeno quello lo preoccupava. Non più.

Coulson era morto. E per morto non voleva dire che sarebbe tornato da lì a breve a sbattere i denti, in cerca di cibo. Morto voleva dire che era... morto. La testa completamente spappolata. A far compagnia ai resti di quelle che erano state anch'esse persone, una volta.

Ma nemmeno quella, per quanto scioccante e orribile... era la cosa che lo preoccupava di più al momento.

Barney lo aveva abbracciato. Si era assicurato che stesse bene e poi, come se gli stesse comunicando che il latte era scaduto nel frigorifero, gli aveva annunciato di essere stato morso.

Morso. Che stronzata.

Chissà quanti altri morsi si era beccato da bambino, alle elementari da quei ragazzini cannibali dei loro compagni di classe, e non era mai stata una notizia tanto eclatante.

Quindi perché avrebbe dovuto rappresentare, ora, motivo di preoccupazione?

E poi si sapeva che Barney era un burlone, ne sparava di cazzate. Da sempre. Gli aveva fatto credere le più incredibili fandonie, per poi deriderlo per esserci cascato come un allocco.

E allora perché il cuore gli stava facendo quello scherzo inutile? Battere così forsennatamente come se gli avesse appena detto che... non lo so, stava per morire.

Non stava per morire, no. Solo, forse, da lì a breve avrebbe finito per diventare una...

“Non dire cazzate.” interruppe il pensiero, imponendosi di frenare quell'assurdo ammasso di stronzate.

Barney non gli rispose. Si limitò a fissarlo così conciato com'era, tutto cosparso di sangue non suo e brandelli di cervella e chissà che altra schifezza di Ganascia.

“Deve essere sangue di qualcun altro. Sangue di Coulson. Ti diamo una ripulita...” lo aveva afferrato per un braccio, stavolta trovando tutta la resistenza del fratello che con uno strattone aveva evitato di essere trattato come un disabile.

“Clint... finiscila.”

“No finiscila tu! Che cazzo ti viene in mente proprio adesso, ah? Puoi prendermi per il culo quanto vuoi, ma non oggi. Non adesso.”

Natasha li aveva affiancati e li vide scambiarsi uno sguardo che non gli piacque per nulla.

“No.”

“Clint...”

“Ho detto: no.” indietreggiò in modo da non dover sentire più quell'odore nauseabondo di sangue.

Pum, pum.

Sapeva cosa stava per dirgli Natasha, sapeva cosa stava per aggiungere Barney, ma improvvisamente non aveva voglia di sentirlo. Non era necessario. Non serviva farlo diventare reale. Ne aveva avuta abbastanza, di realtà, per una sola giornata.

“Ti fa male... ?” sentì la voce di Natasha che stava scostando la camicia di Barney a rivelare l'orrore di un morso, di quelli veri, di quelli profondi.

“Non più di quanto... non faccia male tutto il resto.” un sorriso? Era un sorriso quella cazzo di smorfia che Barney stava tentando di soffocare?

Pum, pum.

“Dobbiamo fare qualcosa.” intervenne, riprendendo in mano la situazione. Se Barney sorrideva, se provava a restare ancora positivo allora forse non era tutto perduto no?

No, no... non avrebbe permesso che suo fratello si trasformasse in una di quelle schifezze. Quelle schifezze che si abbattono con un colpo in testa.

“Dove cazzo sono finiti tutti gli altri?”

“Sono andati a cercare Loki, te l'ho già detto.”

“E perchè cazzo se ne sono andati a quest'ora? Con questo buio! Lasciandovi soli!”

Il capitano Rogers cercava di tranquillizzare Banner, da qualche parte, mentre Stark era già schizzato all'interno della fattoria a cercare Pepper, a cercare Happy. Thor sembrava essere appena uscito da un film horror ma quella sua Jane e il professor Selvig, se non altro, sembravano essere ancora tutti interi.

Ma a Clint non importava di Banner, non di Pepper, non di Selvig, non di qualsiasi altro stronzo che per caso si trovava lì in quel momento.

L'attenzione focalizzata sul braccio e sul viso di Barney che si faceva via via più pallido, più esausto. E l'incredulità che lentamente si tramutava in panico.

Pum, pum.

Pum, pum.

“Che vuoi fare, Clint... dovreste occuparvi degli altri. Bess è terrorizzata e gli altri...”

“Occuparci dei morti? Di cosa altro dovrei occuparmi se non di mio fratello?”

“Sono stato morso... lo sappiamo tutti e due che cazzo succede a qualcuno che viene morso! Smettila di fare il bambino!”

“Non faccio il bambino! Dobbiamo fare qualcosa!”

Pum, pum.

“Il braccio...” era stata Natasha a parlare, a gran fatica, con l'aria di chi non ha alcuna intenzione di entrare in una diatriba familiare, ma che non può farne a meno, “dovremmo eliminare il braccio. L'infezione delle Ganasce potrebbe non essersi ancora sparsa, ma... ma dobbiamo fare in fretta.”

“Eliminare... il braccio?” se Clint non comprese da subito le sue intenzioni, Barney sembrò perfettamente consapevole del tentativo che Natasha voleva fare. E improvvisamente lo vide crollare, seduto sotto uno degli alberi per evitare di cadere, schiacciato dal peso insopportabile della piega che avevano preso gli eventi.

“Dovrebbe esserci un'ascia, nel granaio...” aveva detto, e Clint ora sì che capì esattamente cosa stava per succedere.

“Vado io”, si offrì, cercando di ignorare la stupida razionalità che gli diceva che avrebbe potuto non sopravvivere comunque, che avrebbero dovuto evitare un'emorragia, che avrebbero potuto fare peggio ed espandere più rapidamente il contagio delle cellule.

C'era sempre il suo cuore a scandire il tempo. Tempo che non poteva essere sprecato. Non un solo attimo a perdersi in inutili ragionamenti.

Corse rapido verso il granaio, sicuro che Natasha sapesse esattamente cosa fare. Non fece fatica a trovare l'ascia, cercando di focalizzare tutta la sua preoccupazione sulla ricerca e quello che sarebbe avvenuto da lì a poco. Perchè se si fosse fermato anche solo per un istante a pensare a quello che avrebbe potuto succedere o alle probabilità di riuscita, gli si rivoltava lo stomaco.

E se Barney si dimostrava forte, allora anche lui... anche lui avrebbe dovuto dimostrarsi forte. Perché glielo doveva. Per tutte le volte che lo aveva raccattato dal terra e lo aveva spronato a non arrendersi.

Barney avrebbe continuato e rompergli le palle, ancora per molto tempo.

A che cazzo sarebbe servito battersi per sopravvivere a un'apocalisse zombie, senza uno come... Barney?

“E' la più grande che ho trovato.” disse solo, tornando verso il duo. Li aveva raggiunti anche Rogers, che a quanto pareva aveva intuito il pericolo o la gravità della situazione.

“Avremo bisogno di qualcuno in grado di suturare la ferita una volta che avremo...” non completò la frase, ma non ce ne fu granché bisogno.

“Posso farlo io.” Natasha non aveva esitato un solo istante. Dove mai lo avesse imparato, non era una domanda che era necessario fare.

“Okay... chi lo fa?” domandò Rogers, che sembrava quasi sul punto di offrirsi. Clint immaginò che dovesse aver assistito a qualcosa di simile, durante la guerra. Magari era il più esperto e il meno impressionabile lì in mezzo. Per quello si stupì lui stesso quando strinse a sé l'ascia.

“Io...” disse solo, la voce che non era che un flebile sospiro, mentre gli occhi di Barney vagavano nei suoi come a cercare di comprendere se ne fosse sicuro o meno. Se se la sentisse davvero.

“A-allora...” Natasha gli fu vicino e prese Barney per le spalle dopo averlo aiutato a sfilarsi la camicia, mentre Rogers lo afferrava per le gambe.

“Credo dovresti... tagliare alla spalla...”

“Ma è stato morso sull'avambraccio...” protestò Clint guardandola con un misto di terrore e determinazione.

“Lo so, ma è per essere più sicuri.”

Barney guardò di nuovo il fratello.

“S-se devo perdere un braccio... tanto vale... f-farlo per bene, non trovi?”

Quell'ironia, sempre quella sua... stupida... ironia.

Clint serrò le labbra. E lo prese per un polso.

“Un colpo secco. All'attaccatura delle ossa. D-devi recidere i muscoli. E' più facile se incidi in quella posizione.” gli suggerì Natasha.

“Lo so...” esalò allora Clint, senza togliere gli occhi dal fratello, che ora stringeva la sua mano.

“Nostro padre faceva il macellaio.”

“Ironia d-della sorte, fratellino. Ci sarebbe stato utile un po' del suo alcool, in questo momento.”

Ironia della sorte, già. Non gli diede modo di aspettare una risposta. Nè di rammaricarsi del fatto che non avrebbero potuto cercare uno stracazzo di sedativo per risparmiagli il dolore. Rogers strinse la presa alle sue gambe per evitare scalciasse. Natasha alle spalle.

Pum, pum.

Clint sollevò l'ascia e fece ricadere la mano, con forza, fra l'osso della spalla e quello del braccio, prima che venisse colto da qualche ripensamento, dall'angoscia, dal disgusto, dal terrore. Per non avere più quella folle lucidità che lo stava accompagnando ormai da qualche minuto.

Il rumore disgustoso del metallo che si conficcava nella carne. L'odore del sangue. Non un grido uscì dalle labbra di Barney.

Pum, pum.

Represse un moto di nausea e il sapore rancido che gli era risalito su per la gola.

Pum, pum.

Prima ancora di sollevare l'ascia per un secondo colpo, il fratello aveva perso conoscenza.

 

*

 

Non ci volle molto a Fury per capire che quella notte le ricerche non avrebbero dato i frutti sperati.

Loki avrebbe potuto essere ovunque e, a meno che la bambina non esprimesse a gran voce la sua protesta, non lo avrebbero trovato, non con quelle tenebre.

Per quel motivo aveva deciso di tornare indietro. Era certo che Betty non glielo avrebbe perdonato, ma sembrava assurdo continuare e probabilmente rischiare inutilmente, con tanto che le Ganasce con l'oscurità ci andavano a nozze.

Ne avevano atterrate almeno una dozzina da quando erano partiti e persino un tipo goliardico come Wilson adesso sembrava dare segni di cedimento: aveva smesso di parlare.

“Dovremmo rientrare, sceriffo...”

Fu grato a Maria Hill, quando espresse ad alta voce il pensiero di tutti. Se non altro non avrebbe fatto la figura del vecchio rincoglionito che non riesce a fare tardi la sera.

“Dubito che riusciremo a fare molto di più stanotte. Domattina forse avremo più fortuna, con la luce del giorno.”

Fury annuì e Sam sembrò molto d'accordo con la proposta.

“Credevo avrei dovuto dire addio alla mia vescica, fossimo andati avanti ancora per molto.”

“Avresti potuto fermarti...”

“E rischiare che qualche Marcione uscisse a farmi la festa? No, grazie.”

Maria non protestò ma sorrise appena, lanciando uno sguardo d'intesa a Fury, prima che un rumore lontano, lontanissimo di pistole non arrivasse, trasportato dal vento, alle loro orecchie.

“Cosa è stato?”

“Spari.”

“Dalla fattoria? Da quella parte c'è la fattoria.”

“Avranno dovuto difendersi...” liquidò Fury, ma un'altra scarica arrivò distinta ed esagerata pochi istanti dopo.

Dovevano esser stati attaccati. E improvvisamente ricordò che il gruppo era rimasto allo scuro. Niente più elettricità. Niente Stark con quel suo guantone a proteggerli, niente porte alla fattoria. Dimezzati in forza e numero.

“Muoviamoci!” disse, facendo ben attenzione a non farsi vincere dall'impulso di avventurarsi nell'erba alta per tagliare la strada. Le Ganasce avrebbero potuto essere nascoste lì in mezzo

Nessuna strada gli era sembrata mai tanto lunga.

E di certo... niente lo aveva preparato allo scenario che gli si presentò di fronte al suo rientro.

Non alla notizia di aver perso uno dei suoi uomini... migliori.

Si era avvicinato a quello che doveva essere Coulson, freddato nell'ultimo istante della sua vita. Una vecchia coperta lisa ora copriva il suo corpo o quello che ne restava.

Riuscì solo a riconoscerne gli stivali e improvvisamente sentì qualcosa risalirgli su per lo stomaco, vivace e disgustoso come solo un conato di vomito può essere.

“Sceriffo...” Rogers lo aveva affiancato, pronto a sorreggerlo per qualsiasi eventualità. Ma Fury restò fermo, immobile a contemplare quell'orrore senza voler dare al suo dolore la soddisfazione di avere il sopravvento.

Aveva visto morire gente. Durante la guerra e un paio di volte in servizio... il lavoro non era stato magnanimo con lui... ma adesso che per assurdo avrebbe dovuto essere pronto all'eventualità di perdere qualcuno, in quell'ignobile modo... non era certo di credere che proprio Coulson fosse uno di quelli. Il primo...

Ricordò di essersi lanciato in mezzo all'orda di mostri ad Albany pur di andare a riprenderselo.

Ricordò nitidamente... di essere stato pronto a morire per lui. Per Maria. Senza ripensamenti, senza rimpianti.

Il cerchio della vita prevede che funzioni in questo modo. Che siano i vecchi ad andarsene per primi. E invece... invece...

“Non possiamo lasciarlo qui così.” riuscì solo a dire. La voce ben più ferma di quanto si fosse aspettato lui stesso.

“Lo so... pensavamo di seppellirlo... domattina all'alba...” lo rassicurò Rogers, come avesse già programmato tutto. E improvvisamente gliene fu grato. Non era sicuro di poter prendere in mano le redini del comando. Non in quel momento. Non adesso che gli sembrava quasi di ricordare perché avesse emarginato il dolore con tanta tenacia, anni orsono.

“Grazie.” disse solo. E se Rogers sgranò gli occhi per la sorpresa, finse di non vederlo.

“Dov'è? Dov'è?”

Fury si volse appena in tempo per vedere Maria camminare rapida nella sua direzione.

Si scostò dal corpo martoriato di Coulson, convinto che risparmiarle almeno quello spettacolo fosse il suo unico dovere in quel momento.

Ma Maria, sebbene già messa al corrente della tragica notizia, sembrava non essere interessata a partecipare a quel macabro spettacolo.

“Rogers... dov'è Barney?” la vide avvicinare il Capitano che ora la guardava in modo ben più dolente di quando aveva comunicato loro le perdite.

“Nel fienile. Con gli altri.”

“Che è successo a Barton?” si interessò Fury, non del tutto sicuro di poter sopportare un'altra cattiva notizia.

“Barton... è stato morso.”

“Morso?”

“Abbiamo dovuto amputargli un braccio... ma non siamo sicuri che...”

Maria non attese ulteriori spiegazioni, li superò senza nemmeno degnare Fury di uno sguardo.

Improvvisamente si rese conto di quanto si dovesse dare spazio alle priorità, in un mondo come quello. E Coulson non era... la priorità. I morti... non erano più una priorità sui vivi.  I pochi vivi rimasti.

Con lo stomaco ancora stretto in una morsa incredibilmente tenace, Fury deglutì a fatica e si costrinse a maledirsi per quell'attimo di debolezza. Ci sarebbe stato tempo più tardi, per la disperazione. Ma forse nemmeno.

“Dobbiamo mettere al sicuro la zona.”

“Certo, ho appena finito di organizzare i primi turni di guardia, e... sistemato il Dottor Banner in un'ala isolata della fattoria. Una di quelle non del tutto disastrate dell'uragano, ma è solo una soluzione temporanea... almeno finché non si sarà ripreso.”

“Andrà benissimo Rogers.” gli batté una mano sulla spalla e improvvisamente si sentì incredibilmente vecchio, incredibilmente stanco.

“Sapere che abbiamo qui suo marito, forse impedirà a Betty di cavarmi anche l'altro occhio sano per aver rinunciato alle ricerche di sua figlia tanto presto...”

“Sceriffo lei ha fatto tutto quello che...”

“No. Non ho fatto proprio un bel niente, ragazzo, è questo il problema.”

Aveva dato retta all'istinto troppo tardi. E aveva preso tutta una serie di decisioni totalmente sconsiderate. Il risultato era lì, di fronte ai suoi occhi.

Razionalmente sapeva che sarebbe stato impossibile prevedere l'arrivo delle Ganasce e tutta quella serie di sfortunate coincidenze, ma d'altro canto, sapeva di essersi mosso in modo goffo ed emozionale.

Rogers sembrò voler aggiungere qualcosa, intuito il suo rammarico, ma preferì tacere.
Fury tornò a guardare la coperta appena smossa dal vento che copriva quello che era stato uno dei suoi migliori uomini.

E – solo in quel momento si rese conto – uno dei suoi ultimi amici.

 

*

 

Natasha si era svegliata di soprassalto.

Qualcuno doveva aver urtato una qualche stoviglia, perché il rumore metallico arrivava da fuori. Il chiacchiericcio soffuso e la luce tenue che filtrava dalle assi del fienile le suggerì che doveva ormai essere mattina.

Rapidamente andò a cercare Barney con lo sguardo.

Era ancora steso nel suo giaciglio improvvisato, fatto di stracci e cuscini. Clint, ancora seduto al suo fianco, appariva pallido e stremato, ma mai per un solo istante si era voluto allontanare dal fratello ancora incosciente, eppure... apparentemente vivo.

Maria doveva essersi allontanata. Sembrava che Barney, quella notte, si era guadagnato ben più di tre leali sentinelle a vegliare sul suo sonno.

Si rammaricò di aver ceduto, a un certo punto, ma il suo fisico sembrava aver deciso di chiudere le comunicazioni per qualche ora. Non si fosse arresa al sonno, Clint probabilmente l'avrebbe usata come fantoccio per il tiro con l'arco.

Però adesso era lui a sembrare un fantasma. E magari avrebbe dovuto minacciarlo come aveva fatto lui, per convincerlo a farsi dare il cambio.

“Ehi...” gli si arrampicò vicino, schiarendosi la voce ancora arrochita.

“Ehi...” le occhiaie di Clint erano ancora più spaventose, viste da vicino.

“Come sta?” si interessò rapidamente, andando a tastargli il viso: era bollente. La febbre non sembrava essersi ancora placata.

“Si è un po' agitato nel sonno... ma... la ferita sembra aver smesso di sanguinare.”

L'orribile mutilazione alla luce del giorno, sembrava essere anche più terribile.

Aveva ammirato il modo in cui Clint era riuscito ad affrontare la cosa.

Non lo aveva seguito quando, liquidato il moncherino del braccio ormai infetto di Barney, si era allontanato per vomitare. Forse piangere... non aveva voluto farsi vedere, ma gli occhi arrossati con cui era tornato, dopo che lei stessa aveva applicato i punti di sutura, li aveva notati.

Non che si fosse azzardata a farglielo notare.

Lei stessa aveva fatto fatica a reprimere qualcosa di ben più potente del disgusto, mentre cercava di fare al meglio ciò che era stata addestrata a fare, una delle tante terribili cose che le avevano insegnato... a fare.

Le era capitato di ricucire un sacco di gente. I suoi fratelli, se stessa all'occorrenza, ma mai... qualcuno per cui provasse un sentimento tanto... leale, sincero... e rassicurante. Forse più fraterno di quanto non si fosse mai azzardata a provare per quella sua famiglia acquisita... nella sua vita precedente.

Non aveva pianto. Non piangeva quasi mai, Natasha, ma quel groppo alla gola non se ne era andato per un solo istante. Nemmeno adesso che lo stava guardando dormire. Se provasse più pena per Barney o per Clint che non si dava pace... quello però non seppe davvero dirlo.

Sapeva solo che quel tipo di dolore faceva schifo. E non si stupì del perché le avessero insegnato a reprimerlo... a spingerlo il più lontano possibile. Diventava un chiodo fisso. E i chiodi fissi sono solo punti deboli.

Scacciò i ricordi della sua vita passata: non voleva intaccare niente di tutto ciò che in qualche modo la facesse sentire reale, in quel momento. Doveva essere lucida e presente. Per Barney. Per Clint.

“Bene...” sorrise appena, “appena si sveglia dobbiamo convincerlo a mangiare qualcosa. Più tardi gli facciamo un'altra puntura d'antibiotico”

“Sì...” lo vide cercare nella sacca dalla quale non si era separato un solo istante, come dentro ci fosse la soluzione miracolosa al contagio.

“Lascia, per ora non serve...”

“Sicura?”

Annuì solamente.

“Dovresti andare a riposare Clint. Qui ci sto io.”

“No... posso farcela.”

“Non mi pare. Sembra tu debba partire per un lungo viaggio...”

“In che senso?”

“Le borse... sotto agli occhi.”

Clint le rivolse uno sguardo stranito. E ci mise un bel po' a capire a cosa si riferisse.

“Nat... non sono sicuro dovresti cercare di fare battute, appena sveglia.”

In ogni caso, intanto, riuscì a leggergli sulle labbra un'ombra di sorriso che però non arrivò agli occhi.

“Ci riproverò questo pomeriggio.”

“Facciamo che lasci perdere...”

“Comunque non scherzavo sul fatto che dovresti andare a riposare. Barney da qui non si muove. E qualsiasi cosa dovesse succedere... ti sveglierei.” decise che essere sincera, forse un poco brutale, lo avrebbe aiutato a capire quanto fosse inutile ostinarsi.

Il suo stomaco però decise di intromettersi nella conversazione. Dacché ricordava... era praticamente un giorno intero che non metteva qualcosa sotto ai denti. E forse nemmeno Clint.

“Prima dovresti mangiare qualcosa.” suggerì lui.

“Io devo mangiare e tu devi dormire. Mi pare un buono scambio, no?”

Vide Clint annuire controvoglia, fece roteare gli occhi ma sembrò concorde, finalmente.

Lo vide rimettersi in piedi e stiracchiarsi.

“Vedo se anche Maria mangia qualcosa. Era andata a dare una mano con... le sepolture...” pronunciò quell'ultima frase in un sussurro. Direzionando lo sguardo turbato al fratello.

Le sepolture. Coulson e i due fratelli. O quello che ne restava.

Non erano nemmeno riusciti a disperarsi in modo concreto per chi avevano perso.

Dacché si erano riuniti, nessuno ancora aveva perso la vita.

Non in quel modo brutale. E tutto perché per una giornata si erano separati.

Lei che era sempre stata abituata a lavorare sola... si era appena trovata a considerare l'importanza del gruppo.

Qualcosa doveva essersi modificato per sempre, in quella sua strana testa.

Però, possibile che la morte... la morte fosse entrata a far parte delle loro vite a tal punto da non essere in grado di darle la giusta tragica priorità?

Se non per lei, che aveva dovuto conviverci da quando non era altri che una gracile ragazzina, per tutti gli altri. Gli equilibri erano mutati per sempre. Il mondo... era mutato per sempre.

Si chiese se anche la possibile morte di Barney, avrebbe dovuto essere accolta in modo tanto composto.

Si ritrovò a rabbrividire al pensiero.

“Natasha... ?” Clint doveva averle fatto una domanda che non aveva colto.

“Scusa... devo essere ancora...”

“Tranquilla. Dicevo che torno subito.”

“D'accordo...” rispose, prima di seguirlo con lo sguardo mentre usciva dal fienile.

Un progresso, se non altro, quello di essere riuscita ad allontanarlo da lì.

Quando tornò su Barney si rese conto che aveva preso a respirare in modo strano.

E se per un istante fu tentata di richiamare Clint, quello successivo si rese solo conto che l'uomo si era svegliato.

Si maledì per aver permesso a un attimo di insensato panico di prendere il sopravvento sulla razionalità.

Il cuore in tumulto però, quello adesso lo avvertiva fin troppo distintamente per ignorarlo.

“N-Natasha?”

“In carne ed ossa...” gli rispose. Il viso era ancora pallido. Molto del sangue era stato lavato via, ma c'erano ancora crosticine più o meno evidenti sparse un po' ovunque. Non una cosa di cui preoccuparsi realmente.

“Sono ancora vivo... a quanto pare...”

“A quanto pare...”

Lo vide muovere la testa, come a cercare quel suo braccio ormai andato per sempre.

“Clint?”

Sorrise nel constatare che fu quello, il suo primo vero pensiero.

“Clint torna subito. E' andato a prendere qualcosa da mettere sotto i denti.”

“S-scommetto che non ha dormito un cazzo, il coglione.”

Natasha non se la sentì di alimentare il suo ego, o anche solo dargli un motivo per preoccuparsi del fratello. Però sorrise, giusto per permettergli di capirlo senza allarmarlo.

“E' strano che... che... mi sembri ancora di sentirlo... ?”

“Che cosa?”

“Il braccio... prude...”

Natasha annuì.

“Può succedere. O così dicono.”

“Allora è andato davvero. Speravo che mi d-dicessi di aver sognato.”

“Non hai sognato.”

Barney la guardò dritta negli occhi per un lungo istante e, solo quando Natasha cominciò a sentirsi vagamente a disagio, lo sentì sbuffare una risata un po' stanca.

“Sai perché mi sei sempre piaciuta?”

Si ritrovò a trasalire appena a quella frase. Piacere? Lei non piaceva a nessuno. O meglio. Non... era sempre piaciuta... a qualcuno. Di certo non era quello il primo sentimento che suscitava nella gente.

Nemmeno a Clint era piaciuta da subito. O forse... sì?

Si trovò però a scuotere la testa. Adesso curiosa di capire dove Barney volesse andare a parare.

“Perché non racconti palle.” lo sentì proseguire, una volta ricevuto il benestare. “Non ne racconti e non indori la pillola... e arrivi... dritta al punto. Senza preamboli. N-nessuno ha bisogno di cose di questo tipo... in un mondo come questo...”

Nonostante il discorso fosse un po' fuori dal contesto, si ritrovò ad essere d'accordo con lui.

Ma di certo non poteva dire che quella fosse una delle sue caratteristiche che la facevano prendere in simpatia. Semmai tutto il contrario.

“Ed è per questo che... che voglio chiederti una cosa. Un favore.”

Natasha reclinò il capo di lato, solo un vago pizzicore alla base della nuca. Fastidioso. Forse solo il preambolo di un'intuizione.

Non disse nulla, ma gli fece capire di continuare.

“Se qualcosa dovesse andare storto... q-qualsiasi cosa. S-se non dovessi f-farcela, se dovessi peggiorare se... dovessi... trasformarmi...” lo vide deglutire a fatica, come se dovesse trovare un'enorme forza per non cedere al peso di quello che stava per dirle, “non lasciare che sia Clint a farlo.”

A farlo. A ucciderlo? A toglierlo di mezzo prima o dopo la trasformazione?

“Se non sarò in grado di farlo io stesso prima dell’irreparabile. Non lasciare che sia Clint a farlo.”

In quella domanda, non del tutto specifica, gli stava forse chiedendo di essere lei... quella che avrebbe dovuto premere il grilletto? Così come lui aveva dovuto fare con Coulson?

Sentì su di sé il suo sguardo, lungo e penetrante. Serio così, Barney, non lo aveva visto mai.

Non era una richiesta complicata e neanche stupida. Ma frutto di una considerazione fredda e reale. Il pericolo non si era ancora allontanato. E se c'era una cosa che lei sapeva fare bene, era uccidere la gente. Viva o morta... che fosse.

Non se la sentì di fare altro che annuire, una sola volta, a sancire quel patto segreto. Nella gola ancora quel groppo che adesso premeva in modo quasi pulsante, opprimente.

Quando Clint tornò, trovò il fratello ancora sveglio.

Lo rimproverarono entrambi sul fatto che dovesse dormire.

Natasha, però, non riuscì più a sorridere quella mattina.

 

___

 

Note:

E trac… adesso tocca fare i conti con le prime perdite.

Diciamo addio a Coulson e diciamo addio al braccio di Barney. E poi vedremo.

Annuncio che la storia ho quasi finito di scriverla. Sto riscontrando un paio di difficoltà sul finale, ma a parte qualche aggiustamento qui e lì, un taglio su e un aggiunta giù, dovrei praticamente essere a fine di quest’epopea. Sleep Twitch, se tutto va bene, dovrebbe avere meno di 30 capitoli. E in ogni caso è la fanfiction più lunga che abbia mai scritto, che Odissea! Ma per voi è ancora presto, perciò godetevi i lambiccamenti pre finale. Per chi seguisse anche l’altro mio AU, Dark Rain, tranzolli (come so’ giovane… dentro), quella la continuo con costanza appena mi libero di questa, alla quale ho voluto dare priorità per questione di correttezza. Dovevo finirla. E basta.
Come sempre ringraziamenti a chi mi segue, commenta, aggiunge, pensa, manda cioccolatini, caramelle e maledizioni. Alla mia socia e beta che menzionerò nei secoli dei secoli e… basta.

See you soon.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


CAPITOLO 21

 

Spesso il piacere è un ospite passeggero; ma il dolore ci avvinghia crudelmente.

(John Keats)

 

 

*

 

Betty era scesa dalla motocicletta.

Sif aveva insistito a rientrare quando aveva sentito venir meno la sua presa. E adesso che il mattino si era affacciato pigramente all’orizzonte era evidente quanto fosse esausta, sfinita. Distrutta nel corpo e nella mente.

Ma davanti alla tenacia con cui si era rifiutata di tornare indietro, Sif non aveva potuto far altro che lasciarla scendere per proseguire a piedi.

La donna aveva raggiunto il limite della strada che avevano percorso avanti e indietro per tutta la notte. Osservava i dintorni, l’erba alta, le radure e i boschi che puntellavano il paesaggio, come nella speranza che le arrivasse un segno, un indizio su quale direzione imboccare.

Sapeva che la sua bambina era là fuori, da qualche parte. Non si era estinta, nemmeno per un istante, la speranza di ritrovarla. E di ritrovarla viva.

Queste cose una madre le sente, aveva continuato a ripetersi per tutta la notte, anche quando la disperazione più cupa spingeva per prendere il sopravvento.

La bambina era viva.

La bambina era viva.

Una sensazione tanto vivida, tanto presente che aveva deciso di assecondarla a tutti i costi.

“Betty…” ignorò per l’ennesima volta il richiamo di Sif, “Dovremmo rientrare.”

Non le rispose nemmeno, lo sguardo continuava a vagare insistentemente su quei prati verdi, l’orizzonte rosa e azzurro.

“Può darsi che Fury e gli altri abbiano avuto più fortuna di noi”, la voce sempre più vicina, “potrebbero averli trovati.”

Sapeva che lo diceva solo per convincerla a fare quello che voleva lei. Ma Betty in cuor suo era convinta che non ci fosse stato nessuno sviluppo nemmeno dall’altra parte del gruppo.

“Siamo esauste… non possiamo reggere ancora per molto.”

“Torna indietro allora.”

“Betty…”

Si voltò solo per seguire la direzione del vento. I capelli scomposti che le solleticavano il viso, trasportati verso est.

“E’ qui vicino. Lo sento.”

Sif aveva seguito il suo sguardo, indecisa se crederle o meno. Il modo in cui la guardava però rivelava quanto fosse preoccupata per lei. Forse per la sua salute mentale, oltre che fisica.

“Magari possiamo fare un altro giro… ma…”

Non le lasciò nemmeno finire la frase, prese a incamminarsi lungo il sentiero al lato della strada asfaltata. Quello sterrato che si addentrava nei campi.

“Betty?”

Cominciò a seguire la direzione del vento ancora fresco. Quel vento profumato e frizzante che nel pomeriggio sarebbe diventato bollente. Un vento che le sembrò stesse cercando di dirle qualcosa, di raccontarle qualcosa.

“Betty!” la voce di Sif era lontana; si rese conto solo da come le dolevano i piedi di aver preso a camminare velocemente.

La sensazione di aver ormai delineato una traiettoria divenne consapevole e dominante.

E infine la certezza che quella sensazione non era altri che la consapevolezza di non essere sola. Si trattasse di Ganasce o qualche grosso animale nelle vicinanze, Betty capì che lei e Sif non erano gli unici esseri viventi nei dintorni, non più. Che qualcuno si era accorto di loro. Che qualcuno le aveva osservate e ora si nascondeva, da qualche parte, in quell’erba alta.

“Betty!” la voce di Sif alle sue spalle le suggerì che la donna le era corsa dietro. Non si fermò certo ad aspettarla, deviò al contrario, uscendo dal sentiero, per immergersi in quel mare d’erba spessa.

Ignorò i fili che le frustavano le gambe, le braccia, il viso. Ignorò il timore che qualcosa di mostruoso si celasse dietro a quel velo di grano: la sensazione che ci fosse qualcosa oltre quel muro d’erba era adesso insistente, opprimente.

Solo quando sentì il fruscio scomposto di passi in corsa, non alle sue spalle, ma a qualche metro avanti a lei, capì di aver preso la direzione giusta.

Spinse i muscoli, ignorando il dolore delle gambe martoriate, la stanchezza, la mancanza di sonno.

Poteva sentire il rumore delle scarpe dell’uomo in fuga sul sentiero, poteva vedere… le impronte lasciate dal passaggio dello sconosciuto di fronte a lei; seguì la scia d’erba schiacciata, convinta che non avrebbe più potuto nascondersi, che in un modo o nell’altro lo avrebbe raggiunto.

Improvvisamente intravide una sagoma che man mano diveniva sempre più nitida, corporea.

Prendeva terreno Betty –  prendeva terreno e prendeva coscienza del fatto che, per quanto lei stessa potesse essere esausta, quell’uomo lo era di certo più di lei.

E non si chiese nemmeno se fosse un povero sventurato che stava scappando con il timore di essere braccato da una Ganascia. Non si pose quella domanda.

Era sicura – adesso che ne poteva quasi sentire il respiro mozzato dalla folle corsa, adesso che riusciva a distinguerne i contorni, a percepire quasi l’odore della sua paura – che quello fosse lui.

Niente altro che…

“LOKI!” la forza del suo stesso grido squarciò l’aria di quel mattino di inizio estate. Un gruppo di corvi si elevò in cielo, portando con sé un concerto gracchiante.

Lo vide lanciarsi di lato, come se deviare improvvisamente il percorso potesse fare una qualsiasi differenza.
Betty gli fu dietro in un istante e quando ormai non fu che a un passo, le sarebbe bastato allungare una mano per toccarlo. Ma Loki inciampò e cadde a terra. Betty non riuscì a fermarsi in tempo e gli franò letteralmente addosso.

L’uomo sentendosi attaccato, rotolò su se stesso trascinandosela dietro.

Betty, improvvisamente conscia della possibilità di averlo fra le mani, si aggrappò con tenacia alla sua camicia sudicia, decisa a non lasciarlo andare.

Fece forza sulle gambe per poterlo sovrastare. Strinse le ginocchia ai suoi fianchi e solo quando gli fu praticamente seduta sopra ebbe la forza di spingerlo di nuovo al suolo, fissando finalmente i suoi occhi in quelli di lui.

Era un Loki diverso, quello che si trovò a guardare.

Il volto aveva perso parte di quella sua luce torva ma sicura di sé. Sembrava spaurito, sembrava confuso.

“Dov’è mia figlia?” dapprima un sibilo, l’unica domanda che contava, l’unica cosa che le interessava sapere.

Loki non rispose, ma si limitò a continuare a fissarla con quell’aria allarmata, come se non riuscisse a capire ciò che gli stava chiedendo.

Poi fu il rumore di un grilletto a scattare e non dovette voltarsi per capire che Sif li aveva raggiunti e stava tenendo sotto mira l’uomo.

“Ti ho chiesto: dov’è mia figlia? Cosa le hai fatto?” Gli sibilò a un soffio dal viso, come cercando di carpire la risposta da quelle sue iridi chiare, quegli occhi venati di rosso. Ma di non farsi vincere dalla collera, dal terrore che si fosse anche solo azzardato ad alzare un dito su di lei.

“Al sicuro. Tua figlia… sta bene.”

“Portami da lei. Ora.”

“Non posso.”

“Che cosa vuol dire che non puoi? Portami da mia figlia!” lo scosse di nuovo e il movimento diede a Loki il pretesto per scrollarsela di dosso. Betty si trovò a rotolare nella terra, prima di arpionarsi al suolo e rimettersi rapidamente in piedi.

L’istante successivo Sif fece partire un colpo. Sul viso pallido dell’uomo la strisciata della pallottola che non era riuscito a colpirlo.

“Pessima mossa… Sif…” lo sentì rantolare, mentre si rimetteva in piedi. Faceva fatica a rimanere stabile, ma non cadde di nuovo.

“Dove hai portato la bambina, figlio di puttana? Rispondi!”

“Sennò cosa fai? Mi spari? Mi uccidi?” improvvisamente l’espressione spaurita si era fatta sfrontata. E Betty comprese in un istante che l’uomo aveva il coltello dalla parte del manico.

“Puoi scommetterci. Se credi che mi faccia scrupoli a fare fuori una feccia come te…” e a dare forza alla sua affermazione ricaricò la pistola.

Ma improvvisamente l’aria si fece di piombo. L’atmosfera cambiò in modo radicale.

Loki aveva preso a sorridere in modo sinistro, non stava guardando lei, ma Sif. Uno sguardo di sfida che le fece scorrere un brivido di irrazionale paura.

Il respiro le rimase bloccato in gola quando il rumore dell’erba smossa attorno a loro non fu più causato del vento.

Passi, dapprima lontani, impercettibili. E poi sempre più presenti, vicini.

Betty mise mano alla pistola che aveva con sé e la impugnò puntandola in un punto a caso, nei dintorni.

“Che cazzo sta succedendo?” Sif aveva distolto l’attenzione da Loki solo per un istante, prima di tornare a puntargli contro l’arma.

Il rumore di schiocchi, di mascelle in movimento.
Ganasce. Ganasce ovunque.

“Io risparmierei i proiettili, fossi in voi.” Lo sentì pronunciare. E si sorprese di non scorgere in lui una sola scintilla di paura o di apprensione.

Aveva solo allargato le braccia, come ad accogliere, come un vecchio amico, l’orda in avvicinamento.

Una Ganascia emerse dall’erba, alle spalle dell’uomo, la sua grottesca figura, i lunghi capelli sudici, le coprivano la porzione di faccia marcescente. La mascella era praticamente assente.

Sif puntò la pistola, indecisa fino all’ultimo se sparare o meno. Ma quando si rese conto che aveva ignorato completamente Loki per venire loro incontro, si decise a colpirla dritta in fronte. Questa cadde al suolo, il cervello ormai andato.

Loki si limitò ad osservare lo scempio con espressione neutra.

“Non vi faranno niente.”

“Ma che cazzo stai dicendo, razza di pazzo squilibrato?”

Un altro paio di Ganasce affiorarono ai lati di quel triangolo.

E poi un altro gruppo alle spalle di Loki.

Betty caricò la pistola e fece fuoco, mancando il primo bersaglio. Appena accennata la consapevolezza che di Ganasce, lei, non ne aveva praticamente abbattute mai. Sif ne eliminò almeno quattro, prima di rendersi conto che più ne colpiva, più quelle si moltiplicavano, come teste d’idra.

Loki non si era mosso e fu scioccante apprendere come tutti quei morti viventi sembrassero ignorare completamente la sua presenza. Ne sembrava al contrario lieto. Ne sembrava sfrontatamente consapevole.

“Dovreste smetterla di agitarvi tanto…”

“Non ascoltarlo, spara Betty, spara!”

E Betty lo fece. Fece fuoco. Una, due, tre volte, cercando inutilmente di prendere la mira, arretrando per quanto le fosse possibile. Ma lo spazio si fece sempre più ristretto, i morti viventi si erano ormai stretti intorno a loro, agitando quelle loro lunghe, magrissime braccia.

L’olezzo di morte si era portato via tutto il profumo dell’erba fresca di rugiada, chiuse gli occhi e sparò un’ultima volta, sentendo l’ennesima eco dei proiettili disperdersi nel vuoto. Pronta a qualsiasi cosa dovesse accaderle.

Pensò a sua figlia. A come non fosse riuscita a salvarla. Pensò a Bruce al fatto che non lo avrebbe mai più rivisto, a come lui non avrebbe mai visto il volto della sua bambina…

Ripensò al giorno in cui aveva scoperto di essere incinta. Della sorpresa del marito, del fatto che qualche dottore di una clinica privata aveva detto loro che sarebbe stato difficile – molto improbabile – che potessero essere investiti di una tale grazia. Eppure era successo. Poco dopo che Bruce aveva iniziato a lavorare a quell’insano progetto ad Atlanta. Ricordò la gioia, l’inverosimile scelta di nomi, il dubbio amletico del colore delle pareti della stanza del bambino. E di come Bruce le aveva promesso che una volta nata si sarebbe preso una lunga vacanza. Che avrebbe lavorato il doppio per concludere il progetto e godersi la sua famiglia, il giorno in cui Erin sarebbe nata.

Erin.

Come aveva potuto dimenticarlo?

 

“Come hai detto, Betty?”

“La mia bisnonna si chiamava Erin.”

“La tua bisnonna irlandese?”

“Già…”

“Mi piace. E’ corto. Erin Banner.”

“O Erin Ross?”

“Erin Ross Banner?”

“Sapevo di aver fatto bene a sposare un uomo intelligente.”

 

Buffo le tornasse in mente proprio adesso.

Solo adesso. Dolorosamente certa che di lì a poco anche quei pochi, preziosi ricordi le sarebbero stati strappati via.

Pronta alla lacerazione. Pronta all’attacco che però non venne. Si rese conto improvvisamente che il rumore di mascelle era rimasto sospeso, a un passo da loro, meno frenetico, meno famelico.

Gli occhi erano ancora chiusi quando le sembrò di sentire il mormorio di Loki a qualche passo di distanza. Quando aprì le palpebre le Ganasce le avevano circondate. Ma parevano inebetite, frastornate. Docili e ferme sul posto… mentre Loki veniva verso di loro, senza timore.

“Ve lo avevo detto che non vi avrebbero fatto nulla”, disse, “Se non farete resistenza… e abbassate le armi, vi porterò dalla bambina.”

“Erin”, pronunciò Betty quasi del tutto inconsapevole, disorientata e interdetta dal modo in cui si era conclusa la vicenda, ma focalizzata ora sull’unico obiettivo per cui era arrivata fino a quel punto, “la bambina… si chiama Erin.”

 

*

 

“È straordinario. Veramente straordinario.”

Il dottor Selvig andava pronunciando quella frase da almeno dieci minuti buoni.

In uno dei capannoni rimasti intatti, Stark e la nipote Jane lo avevano aiutato a sistemare tutti gli aggeggi che aveva racimolato da Atlanta e allestito quello che aveva tutta l’aria di essere un piccolo laboratorio. Certo piuttosto spartano e che puzzava quanto una macelleria, ma non era il caso di fare tanto gli schizzinosi.

Motivo dell’entusiasmo di Selvig era stato analizzare il sangue del dottor Banner.

Che per la cronaca ancora dormiva della grossa sempre in quell’ala isolata della fattoria. Monitorato costantemente e tenuto sotto osservazione, con una buona dose di ricostituenti e punture di sali minerali. E fu un bene. Perché doverlo mettere al corrente della sparizione della moglie e della figlia (dopo che l’ingenuo Cap lo aveva rassicurato in tal senso) non era una notizia da dare tanto alla leggera. Soprattutto a qualcuno che, solo il giorno prima, aveva l'aspetto di un mostro verde dalla potenza distruttiva di un carro armato.

Ovviamente Stark avrebbe voluto fare tante di quelle domande… al dottor Banner.

Per ora si rassegnò a doversi accontentare di Selvig.

E a quanto pareva Selvig aveva riscontrato delle anomalie nel sangue del Dottore. Qualcosa appunto di… straordinario.

Qualcosa che aveva a che fare con la genetica.

“Conosce solo quella parola, professore, o posso suggerire una variante? Strabiliante, eccezionale, sorprendente.”

“Mi perdoni, Stark, è che non avevo mai visto le cellule comportarsi in questa maniera.”

“Stanno facendo le maleducate? Perché in questo caso…”

“Sono in continua mutazione.”

“E questo che significa?”
“Che la trasformazione nel corpo di Banner non si è ancora estinta probabilmente…”

“E questo dovrebbe essere una buona notizia perché… ?” l’idea che l’uomo potesse di nuovo prendere l’aspetto di quel mostro verde non lo allettava per niente. “La spiegazione rapida e semplice per favore”

“L’analisi è incompleta. Ma sembra che parte del sangue di Banner sia mutato. Probabilmente il dottore è stato morso, ha ricevuto il virus, ma qualcosa deve aver bloccato la trasformazione, modificandola. Magari c’entrano quegli esperimenti che stavano facendo ad Atlanta. I globuli bianchi sono eccezionalmente potenziati.”

“Quindi è una specie di ibrido?”

“Quando le cellule vengono sottoposte a sollecitazioni.”

“Tipo se lo fai incazzare?”

“Qualcosa del genere.”

“Altrimenti?

“Altrimenti è solo… il dottor Banner, suppongo.”

Ora tutto aveva senso. Anche se… non ce l’aveva proprio per niente.

“Alle volte ringrazio il cielo di avermi fatto più incline a capire le macchine che le persone. Comunque, ottimo lavoro Selvig.”

“Bè, siamo solo all’inizio. E la faccenda è molto più complessa di come l’ho spiegata.”

Inizio o meno, complessa o meno, Stark per la prima volta cominciava a vederci qualcosa di positivo.

Il professore e la nipote sembravano piuttosto motivati e oltremodo entusiasti di prendersi in carico lo sviluppo delle ricerche.

E magari, quando Banner fosse stato capace di intendere di volere, avrebbe potuto dar loro una mano più consistente in tal senso.

La verità è che tutto ciò in cui Stark sperava era di trovare un vaccino. O quantomeno qualcosa che li mettesse al sicuro dalle infezioni, dai morsi, che evitasse loro amputazioni di fortuna (tipo Barton). O che facesse passare quell’assurda febbre a Pepper.

Per tutte le Ganasce che ancora si aggiravano per il mondo, invece… bè, per loro non era sicuro di poter fare ancora qualcosa.

Ma a tenerle a bada ci avrebbe pensato lui. Il progetto di potenziare e produrre in serie quel suo guantone repellente era già nella sua testa da diverso tempo. Doveva solo trovare il materiale. E uno spazio sicuro dove poter svolgere tutti i suoi lavori.

Lasciò lavorare Selvig e Jane in pace.

Quando uscì di nuovo all’aria aperta, i pochi rimasti alla fattoria stavano lavorando alacremente per sistemare tutto ciò che era possibile.

“Tutto a posto là dentro?” Il capitano lo aveva raggiunto. Si stava asciugando le mani e cercando di ripulire le unghie da quella che doveva essere terra. Improvvisamente ricordò perché aveva preferito andare a sincerarsi delle situazioni di Selvig e compagnia piuttosto che restare là fuori.

Assistere alle sepolture non era uno spettacolo a cui voleva partecipare. L’ultimo funerale a cui era stato costretto ad assistere, dopo un ritardo inaccettabile e una sbornia da capogiro, era stato quello di suo padre. Da quel giorno preferì ricordare le persone quando ancora respiravano. Possibilmente fuori da una bara… o da un tumulo di terra.

“Certo, certo. Il piccolo chimico e famiglia si stanno divertendo con la scienza.” Indicò l’improvvisato laboratorio senza dare ulteriori spiegazioni. Lo sguardo seguì Pepper che stava abbracciando Maria Hill. Una flebile sensazione di senso di colpa per non averla accompagnata. Ma lei nemmeno glielo aveva dovuto chiedere. Conosceva la sua politica sui funerali.

“E Banner?”

Inspirò a fondo, cercando di non pensarci: “Dorme. Ringraziamo che lo stia facendo. Selvig mi ha detto che le sorprese con lui potrebbero non essere finite.”

Il Capitano fece una smorfia tutt’altro che rassicurante.

“Potrebbe tornare a trasformarsi?”

“Qualcosa del genere. Ma a quanto pare solo se lo facciamo incazzare.”

Rogers non sembrò comprendere immediatamente quelle parole, ma le assorbì, facendosele bastare per il momento.

“Allora speriamo continui a dormire per molto tempo: Betty e Sif ancora non sono tornate.”

Ormai era mattina inoltrata e, per quanto si potesse essere positivi, quando qualcuno mancava per così tante ore all’appello non poteva mai essere qualcosa di buono.

“Abbiamo intenzione di fare qualcosa a riguardo?” domandò, sentendosi un egoista bastardo anche solo per aver formulato a quel modo la domanda.

“Lo sceriffo Fury si è dimostrato riluttante… nel dividere di nuovo il gruppo. Sembra che non funzioni troppo bene, quando non siamo insieme.”

“Di questo me ne sono accorto anche io…”

“Ma siamo giunti alla conclusione che dovremmo formare una squadra di recupero. Il tempo di constatare quanti e quali armi ci sono rimaste. E rimanere possibilmente compatti.”

“A parole sembra un ottimo piano.”

“Siamo solo stati sfortunati. Di tutte le cose contro cui potevamo attrezzarci, un uragano era qualcosa che andava oltre la nostra più fervida immaginazione.”

“E se dovesse succedere qualcosa al gruppo di recupero?”

Il capitano si strinse nelle spalle.

Stark inspirò a fondo e fece schioccare la lingua in modo teatrale.

“Se mi concedete il pomeriggio, caro il mio capitano, penso che potrei trovare il modo per mettere insieme un paio di ricetrasmittenti.”

“Dici sul serio? E usando cosa?”

Stark adesso lo stava guardando con una sorta di stanca indignazione.

“Mi stai prendendo per il culo Rogers? Ho costruito un dannato guanto repellente, usando i circuiti di una vecchia macchinetta del caffè. Quanto pensi che possa metterci a sistemare due ricetrasmittenti?”

Si maledì, al contrario, di non averci pensato prima. Ma questo non gli sembrò il caso di ricordarlo a Rogers.

 

*

 

La fronte di Barney scottava.

Clint si vide costretto a ritrarre la mano quando scorse gli occhi del fratello muoversi appena, sotto le palpebre. Non voleva svegliarlo. Non dopo quella mattinata d’inferno.

L’antibiotico che avrebbe dovuto placare l’infezione non poteva niente contro i dolori dovuti alla ferita ancora fresca. E gli antidolorifici che avevano racimolato il giorno prima erano troppo blandi per riuscire ad arginare efficacemente la sofferenza di un certo tipo di intervento.

Se non altro sperò che nel sonno Barney avrebbe trovato un po’ di pace.

Però quella febbre non se ne voleva andare. E i momenti di lucidità erano diventati sempre meno frequenti, forse un po’ per via dei farmaci, un po’ per aver perso troppo sangue.

Selvig aveva detto che non sarebbe stata necessaria una trasfusione. Clint si sarebbe detto disposto a regalargli tutto il sangue di cui aveva bisogno.

Perché Barney così vulnerabile non lo aveva visto mai. Nemmeno il giorno del funerale dei suoi genitori. Nemmeno quando lo aveva visto piangere. Perché esibiva quelle lacrime con orgoglio, senza vergognarsene. Ben più coraggioso lasciarsi travolgere dal dolore per potersene liberare, che non ingoiarlo e permettergli di logorarti… dall’interno.

Ma era una lezione che non aveva imparato. Clint non aveva mai imparato a smaltire il dolore, non come faceva Barney.

E adesso, come in ogni altra dolorosa fase della sua vita, si trovava a soffocarlo, ricacciarlo da qualche parte, ignorandolo. Sapeva in cuor suo che sarebbe tornato a scuoterlo un giorno o l’altro. Che sarebbe venuto a riscattare il suo debito. Devastandolo con la sua deflagrazione invisibile. Ma non era quello il momento. Barney non era morto. Barney stava combattendo. Avrebbero combattuto insieme.

Si mise rapidamente in piedi quando si rese conto di non essere più solo: Maria era rientrata.

“Credevo fossi ancora fuori con gli altri…”

Clint si volse solo per lasciarle spazio.

“Mi sono preso una pausa solo per vedere come stava.”

“Puoi restare, non volevo disturbarti.”

“Non disturbi, che dici? Quando dorme russa come un trattore. Me ne stavo per andare comunque, non è un bello spettacolo.” Cercò di infilarci a forza un po’ d’ironia. Non gli riuscì granché bene.

“Allora ti do il cambio…”

Clint la guardò sedersi accanto al fratello. Considerato il tempo in cui si conoscevano, Maria sembrava aver sviluppato per l’uomo dell’affetto sincero. Aveva abbandonato il suo giaciglio solo per officiare quello che doveva essere stato una sottospecie di funerale. Quello dell’amico e collega Coulson e dei due fratelli che erano morti con lui. Ma per il resto era sempre stata presente. Ad aiutare Natasha, a cambiargli le bende. A disinfettare la ferita. A somministrargli gli antibiotici.

Barney era in buone mani. E improvvisamente si rese conto di quanto avesse bisogno di respirare aria fresca. Di soffocare quell’immagine e distrarsi il più possibile per ricacciare indietro ancora una volta il dolore. A lasciare che si accumulasse, da qualche parte, per un secondo momento.

“Hai visto Natasha?” le domandò solo, passandosi una mano sul viso.

“Mi pare fosse andata ad aiutare Wilson a sistemare le assi in uno dei capanni degli attrezzi.”

“Grazie.” Disse, prima di lanciare un ultimo sguardo a Barney ed uscire all’aria aperta.

Il sole pomeridiano irradiava i suoi caldi raggi, ma per quanto potesse sembrare afoso quel pomeriggio, gli sembrò di poter finalmente respirare lì fuori. Che l’aria fosse più leggera.

Vide Wilson venirgli incontro con un’espressione totalmente soddisfatta.

“Non c’è niente di meglio per una calda giornata di sole che trascinare assi e costruire fortini di protezione. Che fai Barton, riposi?”

“Veramente mi chiedevo se potessi darvi una mano.”

“Naaa, Natasha sembra aver deciso di fare da sola tutto il lavoro.”

“Credevo la stessi aiutando.”

“Amico, io ci ho provato, ma ai suoi ritmi potrebbe venirmi una sincope. E poi sono curioso di vedere che diavolo sta combinando Stark. A quanto pare a breve avremo delle ricetrasmittenti.”

Clint si sentì dare una pacca sulla spalla, senza capire un accidenti di niente di quello che aveva appena detto. A parte che Stark stava giocando all’inventore.

Si guardò attorno un solo istante, rendendosi conto di come tutti, con vari gradi di intensità, si stessero dando da fare.

La vita continuava a scorrere nonostante l’orrore della sera precedente. Nonostante Betty, la bambina e Sif, fossero ancora là fuori, forse vive, forse già nello stomaco di qualche Ganascia. Nonostante Barney. Si continuava a vivere e non sapeva decidere se la cosa lo riempisse di speranza o ci trovasse una sorta di ingiustizia cosmica.

Entrò nel capanno degli attrezzi senza faticare a ritrovare Natasha. Sollevava le assi di legno strappate alla fattoria dall’uragano e le stava impilando una sull’altra per un utilizzo futuro.

Indossava solo un paio di shorts e una canotta che mostrava chiazze di sudore più o meno evidenti, che svelava altri tatuaggi che non aveva ancora notato sulla porzione di schiena, sulle spalle. I capelli tenuti insieme in qualche modo da una corta coda alta.

“Mi hanno detto che stai cercando di ricostruire da sola la fattoria.” Esordì, avvicinandola con cautela. Il fatto che nemmeno si fosse voltata a guardarlo non gli aveva dato buone sensazioni.

Di solito Natasha era in grado di percepire quando qualcuno era in avvicinamento...

“Qualcuno deve pur farlo.” La sentì rispondere, tornando sui suoi passi per raccogliere un’altra asse e sistemarla assieme alle altre, in fondo alla parete.

“Sembrano tutti impazziti all’idea che Stark stia costruendo un non so che… per fare… non so cosa.”

Proseguì, sperando di attirare la sua attenzione. Ma Natasha non sembrava intenzionata a fermarsi, nemmeno per fare due chiacchiere.

Improvvisamente comprese che c’era qualcosa che non andava.

“Barney sta ancora dormendo.” Disse allora. Aveva fatto un gioco un po’ sporco, ma a quanto pareva efficace. Gli sembrò di cogliere un fremito di esitazione nei suoi movimenti, finché non la vide fermarsi del tutto.

“La febbre?” la sentì domandare. Gli dava le spalle e respirava in modo affaticato, fingendo di contemplare il lavoro fatto fino a quel momento.

“Alta…” mormorò a mezza voce. “Ma sono passate poche ore… immagino che…”

“Più tardi vengo a cambiargli la fasciatura.” Disse e in quelle parole e nel modo in cui era stato bruscamente interrotto Clint lesse un rapido congedo.

“Non credo che serva… ma… okay.” Esitò un solo istante ma si pentì anche solo di essere andato a cercarla. “Ti lascio finire quello che devi, se non hai bisogno di una mano.”

Probabilmente era quello il modo di Natasha di reagire alla situazione, alla preoccupazione. Probabilmente era quello il suo modo di non pensare a Barney. Poteva fargliene una colpa? Poteva giudicarla? Qualcosa gli suggeriva che c’era dell’altro, ma poteva sbagliarsi. Natasha, forse, non l’avrebbe capita mai del tutto. E forse nemmeno voleva farlo.

Solo che qualcosa di indefinito andò a prendergli lo stomaco. Non era nemmeno sicuro del perché fosse andato a cercare proprio lei, ma non si era certo atteso di essere liquidato tanto facilmente.

Forse avrebbe fatto meglio ad andare a interessarsi ai gingilli elettronici di Stark, a pensare a quelli pur di trovare una distrazione.

“Clint…” era già sulla soglia del capanno, quando Natasha lo richiamò. Si volse solo per rendersi conto che la sua postura si era fatta meno rigida e che si era finalmente voltata nella sua direzione.

Negli occhi qualcosa di indefinito. Esausto ma tormentato. In modo del tutto sottile, incerto. Ma Clint ormai certi atteggiamenti aveva imparato a registrarli, ben al di sotto di quella lastra di ostentata freddezza.

Non seppe però cogliere la natura di quel dubbio. Voleva forse consolarlo? Pensava fosse andato lì per essere… compatito? Per sfogarsi sullo sventurato destino di Barney? No. Il dolore lo stava gestendo. Lo avrebbe gestito ancora meglio se non ne avessero parlato affatto.

“Posso fare qualcosa?” le domandò invece, facendo un passo nella sua direzione.

La vide guardarsi attorno, come a suggerirgli che ormai il lavoro era praticamente finito. Poi gli piantò addosso di nuovo quel suo sguardo.

“Chiudi la porta.”

“Come?”

La vide umettarsi le labbra, e poi passarsi una mano sulla fronte umida di sudore. Non sembrava intenzionata a ripetere la richiesta.

E inaspettatamente Clint si trovò ad assecondarla. La porta del capanno si chiuse con un arrugginito rumore di cardini e il suo stomaco si contrasse con essa.

Distrazione e conforto.

Patetico come Natasha ci fosse arrivata prima di lui.

Ma nel modo in cui gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, nel modo in cui gli aveva preso la mano per trascinarlo in un angolo meno esposto del capanno che sapeva di ruggine e polvere e nel modo in cui lo guardava, capì che forse anche lei aveva bisogno esattamente delle stesse cose.

Il non aver dovuto dire una sola parola gli rese più facile tutto il resto.

La baciò raccogliendo il sudore dalle sue labbra, ignorando la cappa di indolente afa che permeava quelle quattro mura. Si concentrò sul suo respiro, sul tocco bollente della sua pelle accaldata.

Il pensiero di Barney veniva spinto sempre più a fondo. Nascosto temporaneamente da qualche parte.

Ad ogni bacio, ogni impudica carezza, fino a ridurlo a un puntino minuscolo nell’universo della sua mente. Per concentrarsi solo su quel momento, in quel luogo. Su di lei.

La sentì armeggiare con i suoi pantaloni con rapidità. Insinuare le sue piccole ma robuste dita oltre la debole soglia dei suoi boxer, a toccarlo senza disagio, a liberarlo.

Per quanto si sforzasse di godersi il momento, fu sicuro che lei volesse andare dritta al punto. E improvvisamente scoprì di non voler indugiare oltre, nemmeno lui.

Le strattonò gli shorts facendoli scivolare lungo le sue gambe muscolose e ora vagamente abbronzate e la spinse su uno di quei tavoli stracolmi di oggetti di dubbia provenienza.

A quel punto ci erano già arrivati. Superare quella soglia sarebbe stata la vera incognita adesso.

Si sentì prendere per la nuca. Natasha lo aveva voluto vicino, stretto i fianchi attorno alle sue gambe. Baciato con un impeto sconosciuto, selvaggio: il sapore della sua lingua fra le labbra, l’arroganza e l’urgenza con cui pretendeva di sentirlo.

Scostò la testa quel tanto che bastò a fargli percepire il suo respiro caldo sul viso.

“Scopami…” disse. E con quell’unica parola ebbe finalmente la chiave per la sua totale perdizione.

Non fu dolce, non fu estasi di sensi in lenta risalita. Si mosse rapido e brutale su di lei, dentro di lei. Natasha andava incontro alle sue spinte senza dargli nessuna soddisfazione vocale, solo respiri infranti, solo un’affannata, disordinata, rabbiosa ricerca di piacere. A rincorrere il culmine di quell’eccitazione che minacciava di esplodere fin troppo rapidamente.

Si guardarono negli occhi, per quasi tutto il tempo.

Quando cercò di rallentare fu lei a impedirglielo, quando si chiese, annebbiato e confuso, se dovesse interrompersi prima di combinare l’irreparabile, fu sempre lei a trattenerlo.

“C-continua. Non devi… preoccuparti.”

La sentì gemere una sola volta, prima di esploderle dentro. La sentì fremere fra le sue braccia, mentre lui stesso tremava, vinto dalla scossa di quell’inatteso, violento, rapido orgasmo.

Le gambe cedettero appena e fu lei a trattenerlo. Le braccia, le gambe aggrovigliate a lui, incurante del calore, del sudore che velava entrambi i loro corpi.

Lo baciò sulla spalla, il respiro affannato che andava a infrangersi su di lui. Abbassò per la prima volta il capo, esausta, soddisfatta, placata.

Clint si concentrò sul profumo di quel suo corpo solido, della placida calma dopo quella violenta tempesta.

Il pensiero di Barney era improvvisamente svanito.

Se lo sarebbe goduto fino a quando quella tregua glielo avrebbe concesso.

 

___

 

Note:

Tante cose sono successe in questo capitolo. Almeno, cose di una certa rilevanza (almeno per me: priorità).

La figlia di Betty ha finalmente un nome, Banner è meglio non farlo incazzare, presto ci saranno delle ricetrasmittenti (e saranno importantissime nel futuro, perché…), e Clint e Natasha sono esplosi. Non veramente, ma ci siamo capiti. Mentre ancora impazzisco sui capitoli finali, vi lascio qui, con i miei più sentiti ringraziamenti. Ai lettori, alla socia e beta e a Lenny Kravitz (il perché è meglio tacerlo).

Alla prossima.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


CAPITOLO 22

 

“La vita è piacevole. La morte è pacifica. È la transizione che crea dei problemi.”

(Destinazione Cervello – Isaac Asimov) 

 

*

 

“Un, due, tre… prova. Prova.”

Fury a braccia conserte, osservava l’improbabile scambio di battute fra Happy Hogan e Steve Rogers.

Entrambi – uno da un lato del cortile, l’altro a bordo del carro armato – cercavano di far funzionare quelle scatole che Stark si ostinava a chiamare ricetrasmittenti.

Un prototipo piuttosto raffazzonato costruito con l’apporto di elementi elettronici recuperati dalle autoradio delle macchine che avevano rubato ad Atlanta e sistemando quella che aveva smesso di funzionare da tempo sul carro armato.

In risposta non arrivavano altro che patetici ronzii incomprensibili.

“La frequenza, dovete far coincidere la frequenza!”

Lo sceriffo scosse la testa e preferì evitar loro di opprimerli con il peso del suo stanco giudizio.

Sperò solo che quella perdita di tempo di sarebbe rivelata più fruttuosa di quanto sembrasse.

Il pensiero tornò alle campagne circostanti. A Betty Ross. A Sif. A Loki e la bambina.

Avrebbe già potuto non esserci più niente da recuperare ormai.

Un brivido di paura e senso di colpa a scuotergli la schiena e le membra tutte.

Era troppo vecchio per quelle stronzate. Era vecchio e la sola idea di essersi lasciato sfuggire dalle mani la vita di coloro che si era ripromesso di proteggere lo fece sentire anche inutile.

Il rimpianto non era un sentimento che apprezzava sugli altri. Su se stesso la sensazione diventava antipatica.

Intanto un altro giorno se ne era andato. Il cielo si era ormai tinto di rosso e il sole stava andando a nascondersi, ricordando loro l’inesorabile scorrere del tempo.

Fra poco avrebbe fatto notte. E per quanto tentasse di restare positivo, cominciava per la prima volta a perdere la speranza.

La perdita di Coulson ancora troppo vivida e pulsante nella coscienza per permettergli di accogliere con positività determinati dati di fatto.

Camminò fino ad aggirare l’intero perimetro della fattoria. Fino ad arrivare a quell’ala che d’improvviso si era fatta proibita. Che accoglieva quell’essere incomprensibile che rispondeva al nome di Bruce Banner.

Si affacciò sulla soglia, individuandone rapidamente la sagoma.

Ancora dormiva. O così solo sembrava perché, quando percepì la presenza dello sceriffo, voltò il capo e si trovò il suo sguardo stanco puntato addosso.

“Merda…” sussurrò Fury, indeciso se allontanarsi il più rapidamente possibile o dare la possibilità all’uomo di avere un qualsiasi contatto umano consapevole.

Sembrava ancora abbastanza placido da non destare timori.

Si decise quindi ad avanzare.

“Buongiorno dottore…” lo accolse con voce moderata, pacata. Stark gli aveva accennato qualcosa sul non farlo incazzare. Per quanto si considerasse un uomo abbastanza brusco, non avrebbe mai tentato di infierire su un poveraccio che aveva passato almeno ventiquattr’ore in coma semi cosciente. Per chi diavolo lo avevano preso?

Vide l’uomo voltare la testa a destra e a sinistra, come a cercare di distinguere i dintorni: si rilassò l’istante successivo. Doveva aver riconosciuto la stanza in cui gli avevano prestato le prime cure dopo l’uragano.

“Tu sei… ?”

“Fury. Nicholas Fury.” Si presentò preferendo tenere per sé il titolo che tutti sembravano ancora riconoscergli, sebbene ormai non valesse più un cazzo.

Lo vide guardare il tubicino che usciva dal polso assicurato con dello scotch adesivo.

“Le abbiamo somministrato dei ricostituenti. Era piuttosto debilitato. Lo ricorda, vero?” decise di prevenire qualsiasi domanda, dando delle risposte rassicuranti.

Lo vide lasciar ricadere il braccio e osservarlo a lungo.

“Mi avevano detto che qui avrei trovato…” ancora prima che Banner potesse pronunciare quel nome, Fury sapeva a chi si stava riferendo, “… Betty.”

Si limitò ad annuire, maledicendo lo stupido istinto o l’ancor più idiota curiosità che lo aveva trascinato fin lì, fino a ritrovarlo sveglio.

Non doveva farlo incazzare. Provarci con una notizia di quella portata sarebbe stato quantomeno arduo.

E poi improvvisamente sentì la risposta affiorargli dalle labbra con facilità quasi sconcertante.

“Abbiamo pensato non fosse ancora sicuro… portarla qui da lei. Lo capisce?”

Per un attimo ebbe il timore di dover raccontare a Banner tutto quello che era successo prima di trovarlo mezzo nudo e macilento per le strade di Atlanta, ma una scintilla di consapevolezza gli animò lo sguardo e una quieta vergogna andò a colorargli il viso, a costringerlo a distogliere lo sguardo.

“Non sembrava molto in sé la prima volta che l’abbiamo incontrata.” Insistette, senza preoccuparsi di sembrare indelicato. Aveva bisogno di capire. Soprattutto sapere con che diavolo di personaggio avessero a che fare. Che si occupasse Selvig delle analisi da laboratorio, Fury voleva risposte immediate.

Banner ci mise qualche istante a elaborare una risposta, ma poi annuì.

“Non lo ero da molto tempo…” disse.

“Le era già capitato di… trovarsi nelle condizioni in cui è ora?”

Lo vide scrollare le spalle: “Non che io… ricordi.” La voce gli usciva debole ma abbastanza sicura. Se aveva un qualche dubbio sulla sua ripresa, Fury lo accantonò subito, “l’ultimo ricordo veramente cosciente è stato al laboratorio per cui lavoravo. Ad… Atlanta.”

“Prima o dopo l’esplosione?”

“Q-quale esplosione?”

“Allora prima.”

Non ricordava l’esplosione. Presumibilmente non ricordava proprio nient'altro di sensato. Forse solo che se n'era andato in giro per Atlanta in calzoncini e camicia strappata, lanciando Ganasce. Figurarsi se aveva idea dei danni causati da quell’esperimento del governo ricco di misteriosi intenti.

“Credo che dovremo farci una lunga chiacchierata, lei ed io. Magari quando si sentirà meglio. Ha fame?”

“Non… forse un po’.”

“Allora le prepareremo qualcosa…”

“Signor Fury…” si sentì richiamare, prima di potersi allontanare.

Signor Fury. A quanto pareva non era libero dagli appellativi.

Si fermò a guardarlo, in aspettativa: “mi hanno detto che ho… avuto una figlia.”

Glielo avevano detto? Chi era stato? Stark? Rogers?

“Sì, una bambina…” il pensiero del neonato disperso chissà dove nelle grinfie di Loki tornò a colpirlo con ferocia. Fece di tutto per reprimere una smorfia, “poco meno di un mese fa.”

“Un mese…” lo vide piegare le labbra in un’espressione pensierosa. Era evidente che aveva perso totalmente il senso del tempo.

“Come l'ha chiamata?” indagò ulteriormente. E stavolta Fury non seppe davvero cosa rispondere.

“Erin.” mentì d'impulso, e nemmeno seppe perché lo aveva fatto. Sapeva solo che aveva avuto una ragazza con quel nome, secoli prima che l'apocalisse avesse inizio.

Vide Banner sembrare pacificato con l'universo e questo per il momento gli impedì di rivelare la stupida menzogna. Perché lo aveva fatto?

“Le vado a recuperare qualcosa da mangiare.” Disse, pur di non dover a tutti i costi restare e rispondere a domande più scomode di quella.

Non sembrava così pericoloso come lo avevano descritto, ma lo sguardo che gli si era acceso alla fine, alla scintilla che sembrò avergli rischiarato lo sguardo, Nick aveva provato una sensazione di disastro imminente.

 

*

 

Barney cercò di alzarsi.

Il mondo girava e la testa sembrava un concerto di tamburi. La febbre non era scesa, se la poteva sentire addosso, sotto pelle, nel calore che si aspettava di veder risalire compatto dalla sua epidermide. Come lo avessero cotto al forno.

Ma si guardò il braccio sano, bucherellato come un punto croce e non trovò niente di diverso visivamente.

Però gli strascichi di quell’incubo che lo aveva infine svegliato erano ancora presenti. Quasi tangibili. Dolorosi come quelli della ferita del moncherino che si rifiutava di guardare.

Ormai il dolore era così diffuso da essere diventato sopportabile. Quasi anestetico.

Il suo corpo gli restituiva stimoli leggeri, ma nessuna difficoltà di movimento.

Per questo dopo un paio di tentativi andati a male riuscì a rimettersi seduto.

E per un attimo furono ancora le immagini che avevano popolato i suoi sogni a prendere il sopravvento.

Carne.

Sangue.

Schiocchi di denti.

Clint. Clint che lo guardava terrorizzato.

E le sue braccia, lunghe e scheletriche che si allungavano per afferrarlo.

Insensata forse… ma la paura che potesse non essere in salvo dal contagio era ancora più presente di prima. Ancora più vivida.

Non ci aveva mai veramente creduto alla stronzata dell’amputazione. Ma il volto del fratello e la speranza vagamente riaccesasi nel suo sguardo lo avevano convinto a tentare. A dare un'aspettativa futura più a Clint che a se stesso.

Qualcosa in quel ronzio ovattato che sentiva nella testa, gli suggeriva che non era solo la febbre a stordirlo.

Era una sensazione latente, una questione di percezioni, il modo in cui si trovava ad osservare e registrare quel posto in modo diverso da come lo aveva conosciuto. Era questo a dargli la certezza che qualcosa sarebbe successo.

E l’incubo gli aveva chiarito le idee sulle conseguenze di una decisione sbagliata. Di una reazione tardiva.

E poi improvvisamente aveva fame. L’acqua fresca, al suo fianco, che avrebbe dovuto sedare l’arsura non aveva niente di invitante. Mentre la sola idea, il solo ricordo di quella carne, di quel sangue...

Forse erano solo i deliri di un uomo febbricitante.

“Barney.” La voce di Clint al suo capezzale, “che diavolo fai? Non dovresti stare seduto.”

Non lo guardò nemmeno, ma gli impedì quietamente di toccarlo.

“Sto bene.” Gli uscì un po’ forzato ma sincero. La sua stessa voce risuonava ovattata “mi verranno le piaghe da decubito a stare sempre fermo… nella stessa posizione.”

“Nessuno rischia il decubito dopo solo ventiquattro ore…” lo sentì rispondere ma non sembrò voler insistere.

Restò così, fermo in silenzio, finché la testa non gli si fu un po’ snebbiata. E poi finalmente riuscì a focalizzare sul fratello.

“Che… cazzo hai fatto… ai c-capelli?” fu la prima cosa che gli venne in mente di dire. Deviare l’attenzione era qualcosa che gli riusciva sempre straordinariamente bene.

Clint sembrò accorgersene solo in quel momento perché lo vide sistemarseli alla bell’è meglio. Scompigliati e sfatti come dopo una corsa particolarmente movimentata.

“Perché non hai visto i tuoi.”

“I-io sono convalescente, non rompere… i coglioni.” E poi l’ennesimo capogiro quasi lo piegò in due.

Sangue.

Carne.

“Barney”, si sentì accompagnare di nuovo al suolo. Ancora sdraiato sulla schiena, ad osservare il soffitto di quel dannatissimo fienile.

L’idea che forse sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto in vita sua quasi lo divertì. Quasi.

“Dov’è Natasha?” la domanda voleva essere casuale, ma il pensiero era corso a lei, nello stesso istante in cui aveva pensato alla morte. Sperò non si fosse dimenticata della sua promessa.

Quando gliel’aveva strappata? Il giorno precedente? O solo qualche minuto prima?

“Che ore sono?” disse poi.

“È sera. Quasi le nove, credo.” E non aggiunse altro.

“E Natasha?” si voltò a guardarlo, insistendo su quel punto, perché era evidente che anche Clint doveva aver imparato a eludere le domande.

Lo vide esitare e qualcosa nel suo sguardo gli suggerì che c’era qualcosa che non gli voleva dire. O che stava cercando di nascondere.

“Che cavolo è quella f-faccia? Te la sei mangiata?”

“Certo”, stronfiò lui, “Era buona. Sapeva di gulash.”

Carne.

Barney represse una smorfia e si concentrò sulla conversazione.

“C-coglione…” lo apostrofò senza ritegno per poi guardarlo di nuovo, “che è successo? Avete litigato? D-di nuovo?”

“Non abbiamo litigato. È fuori… se vuoi te la chiamo.”

“Non voglio che la chiami. V-voglio che mi spieghi che cosa stai cercando di non dirmi.”

“Niente.”

“Clint, per favore… sono malato.”

“Non sei malato, sei scemo.”

“Sei... sicuro di... voler... infierire... in questo... modo?” la voce ora la stava strascicando apposta.

Lo vide trattenere un sorriso e scuotere la testa, rassegnato. E poi passarsi di nuovo una mano fra i capelli.

C'erano stati solo un altro paio di momenti in cui si era comportato allo stesso identico modo. Restio e a disagio.

Quando gli aveva dovuto comunicare che si sarebbe sposato. Quando gli aveva chiesto aiuto ad uscire dal suo problema con l'alcool. Entrambi argomenti piuttosto spinosi.

“Finalmente… vi siete dichiarati!” si espresse allora, cercando di metterci il giusto entusiasmo. Gli riuscì un po’ forzato ma sincero.

“Non siamo due ragazzini, Barney.”

“No, però ho ragione... vero?” Clint scosse la testa, ma non per negare la sua domanda. “Te la sei scopata?”

“Barney!” la protesta era indignata e vagamente imbarazzata.

“Giusto, scusa… avete fatto l’amore… beata gioventù.”

“Credevo che con un braccio in meno sarebbe calata anche un po’ della tua pessima verve.”

Barney si trovò a sorridere. Se non altro più sereno riguardo la situazione mentale del fratello.

“C’è solo un’amputazione che potrebbe farmi perdere del tutto… la verve. E non sto… parlando di una gamba.”

Clint di nuovo sorrise e quel suo pacato buonumore riuscì a contagiarlo per un misero istante.

Socchiuse appena gli occhi, sperando di uscirne pacificato. Ma di nuovo quelle immagini.

Carne.

Sangue.

Li riaprì di scatto, i denti serrati per impedir loro di schioccare, uno sull’altro, e Clint aveva smesso di sorridere.

“Dovresti mangiare qualcosa Barney.”

“Non ho… fame. Sto bene.”

Carne.

Allungò una mano, quella del braccio ancora presente, ancora sano e lo afferrò per un polso.

Improvvisamente colto da un terribile dubbio.

“Quanto ci tieni a lei, Clint?” stavolta non c’era divertimento nel suo tono, men che meno nel suo sguardo.

Clint dovette intuirlo, ma non sembrò del tutto incline a rispondere immediatamente.

“Molto…” ammise infine.

E Barney annuì pensieroso.

“Ti fidi di… lei?” insistette. E stavolta fu Clint quello ad annuire lentamente, ma con una certa solennità.

“Sì. Sì, mi fido di lei.”

“Anche io. Anche io mi fido di lei…” a tal punto da averle affidato un compito tanto ingrato. E lei non aveva esitato un solo istante a concederglielo.

Si chiese improvvisamente se fosse giusto, se fosse sano, permettere a Natasha di farlo fuori. Clint, probabilmente, non glielo avrebbe perdonato mai. Né a Natasha. Né a lui.

E non poteva permettere che l’unica persona di cui Clint sembrava fidarsi ciecamente a parte lui, prendesse parte a un piano tanto macabro e definitivo.

Serrò le labbra e le intenzioni su come avrebbe dovuto procedere cambiarono radicalmente nella sua testa.

“C-continua a farlo. E ascoltala… ascoltala sempre. Ha p-più senno di me e te messi insieme.”

“Non che ci voglia poi molto.” Sorrise Clint, ma affatto persuaso da quel brusco cambio di atmosfera.

“Non scherzo: ascoltala. E dalle retta. Sei tu quello impulsivo. Lei quella razionale.”

“Che diavolo sono adesso questi consigli di vita gratuiti?”

Barney sorrise appena e lo lasciò andare, ma non rispose. Non più.

“Voglio dormire un po’.” Gli disse, prima di chiudere di nuovo gli occhi.

Clint si mosse al suo fianco.

“D’accordo. Torno più tardi.” Il tono era incerto, ma sembrava volergli concedere quell’ultimo desiderio.

Sangue.

Sentì i suoi passi allontanarsi e poi più nulla.

Carne.

Il suo stomaco brontolò impaziente.

I denti schioccarono una sola volta.

Improvvisamente capì cosa doveva fare.

 

*

 

Era notte fonda quando successe.

Natasha era seduta sulla veranda semidistrutta della fattoria. Osservava quello spicchio di luna emerso dopo due intere notti di buio. Un luminoso sorriso di luce, su un telo di tenebra.

La giornata era stata intensa e frenetica: Stark e quelle sue benedette ricetrasmittenti, la ricostruzione dell’ala ovest della fattoria… il capanno degli attrezzi.

Clint.

Poggiò la nuca al muro alle sue spalle, come se il peso di quel disordine di pensieri fosse troppo per essere sorretto solo dai muscoli del suo collo sottile.

Si chiese se avesse preso la decisione giusta. E fu sconcertata nell’apprendere quanto non fosse pronta ad affrontare il compito che Barney le aveva affidato. Per una volta nella vita… per la prima volta nella sua vita, non era sicura di voler mantenere una promessa. Non di farlo senza averne parlato con Clint.

Clint che si fidava di lei, Clint che probabilmente non le avrebbe perdonato un simile gesto.

E Barney non migliorava. Barney continuava ad avere la febbre alta. Oltre alla pena di doversi preparare a una perdita, la prospettiva di poter essere la causa definitiva… di quella perdita.

Aveva ucciso per molto meno. Uomini ben meno virtuosi e in buona salute.

L’idea di dover premere il grilletto su una delle poche persone di cui adesso le importava qualcosa…

Era davvero solo un atto di grazia? Di gentilezza? Non avrebbe sopportato di vederlo fare a Clint. Su tutti, non a lui.

Il dilemma non aveva fatto altro che tormentarla per l’intero pomeriggio. E con la fatica aveva cercato di non pensarci e poi era arrivato Clint, afflitto da quella sua inconsolabile mestizia.

Aveva usato il sesso. Usato come diversivo. E sebbene fosse certa di non aver infranto nessuna regola, di aver regalato a entrambi un istante di puro oblio, si chiese se non fosse stata l’ennesima decisione egoista e calcolata che da sempre caratterizzava la sua esistenza.

Eppure, per una volta tanto, lo aveva desiderato. Ed aveva desiderato che servisse a Clint.

Fu costretta ad abbassare di nuovo lo sguardo quando avvertì rumore di passi sulla ghiaia.

Quando si rese conto di riconoscere l’uomo che aveva visto uscire dal fienile, qualcosa le diede l’input di fermarlo. A qualsiasi costo.

“Clint!” lo richiamò senza ottenere alcuna risposta, come se fosse diventato sordo ai richiami. L’arco sulle spalle e la camminata veloce, le chiavi del pick-up che dondolavano nelle sue mani.

Come fosse pronto a intraprendere una spedizione punitiva.

“Barton!” esclamò di nuovo, raggiungendolo nel tempo necessario ad afferrarlo per un braccio, attirare la sua attenzione, frenare la sua fuga.

Lo sguardo che le rivolse fu talmente eloquente che non riuscì a trattenerlo.

“Barney è…”

“… scappato.”

Natasha si trovò a osservarlo come se fosse tutt’altra la risposta che si era attesa.

Era convinta che Barney non fosse in grado di muoversi. Aveva perso troppo sangue. E le speranze che riuscisse a sopravvivere erano ancora così precarie che…

“Come è possibile?”

“Deve essere uscito dalla porta sul retro.” Il ragazzino del turno di vedetta non sembrava essersene accorto.

“Ma non riusciva a reggersi in piedi.”

“Dunque non deve essere andato lontano.” L’urgenza nel tono di Clint le strinse dolorosamente lo stomaco. Come se non fosse stato già sufficiente leggere sul suo viso quella stessa pena nel momento in cui aveva dolorosamente realizzato che il fratello era stato morso. La muta disperazione nei suoi gesti.

Realizzò improvvisamente che poteva esserci una ragione soltanto per cui Barney poteva aver preso quella decisione suicida: aveva compreso di essere arrivato alla fine.

Il discorso che le aveva rivolto, solo quella stessa mattina, di nuovo lì, nella mente.

“Se non sarò in grado di farlo io stesso prima dell’irreparabile. Non lasciare che sia Clint a farlo.”

Le parole tornarono a richiamarla all’ordine con una chiarezza cristallina.

“Se non sarò in grado di farlo…”

“Se non sarò…”

Barney aveva deciso di sollevarla da quel penoso obbligo. Nell’unico modo che avrebbe impedito di nuocere a chiunque.

Vide Clint superarla e fu costretta a frenarlo di nuovo.

“Per favore…”

“Che c’è? Non abbiamo tempo da perdere, potrebbe essere in pericolo!”

“Ha preso una decisione.”

“Che decisione? Di cosa cazzo stai parlando?”

“Non vuole trasformarsi. Non qui. Non vuole diventare una minaccia.”

Lo strattone di Clint la costrinse di nuovo a mollare la presa. Non sembrava disposto a ragionare. Poteva comprenderlo, ma essere razionali in quel momento era fondamentale. Per lei lo era sempre strato.

“Una minaccia? E’ mio fratello!”

“Fino a quanto ancora?”

“C-che stai dicendo? Lasciami andare, cazzo!” stavolta lo spintone non riuscì a evitarlo. O forse semplicemente non volle evitarlo. Inciampò in una delle radici di quel grosso albero in giardino e andò a cadere nella polvere, mentre i palmi delle mani, in un riflesso incondizionato si arpionarono al suolo, scorticandosi.

Quando si rialzò sentì qualcosa di caldo risalirle su per il petto.

“Natasha…”

“Sta solo cercando di proteggerti, Clint. Ha sempre e solo cercato… di proteggerti. Perché non provi ad avere rispetto per la sua decisione?”

“Non volevo farti del…” Clint non sembrava nemmeno darle ascolto. Stava cercando di temporeggiare. Di impedirle di farlo ragionare.

“Hai capito cosa sto dicendo?” ma non glielo avrebbe permesso.

“Ho capito ma non ha senso!” gridò allora infuriato, “Barney è troppo attaccato alla vita! Barney non se ne sarebbe mai andato in questo modo. Non lo avrebbe mai fatto. Barney avrebbe continuato a lottare!”

“Barney aveva paura!” gli gridò in faccia, rimettendosi in piedi, perché improvvisamente il vero punto della questione stava venendo a galla, un passo dopo l’altro, “aveva paura per se stesso, aveva paura per te. E probabilmente ne aveva per me. Sai cosa mi ha chiesto stamattina? Lo vuoi sapere?”

Lo vide arretrare, ancora affatto persuaso dal lasciar perdere.

“Voleva che fossi io a ucciderlo, prima che fosse troppo tardi. Voleva che fossi io a premere il grilletto per toglierlo di mezzo, nel caso fosse diventato una minaccia… nel caso non fosse stato in grado di farlo… da solo.”

“Che cosa stai dicendo… ?”

“B-Barney ha sempre pensato a te. Sempre e solo a te. E non ti permetterebbe mai di corrergli dietro e impedirgli di concludere a modo suo questa cosa… voleva morire da essere umano.”

“E’ un’idiozia. Ci ho parlato poco fa. Stava bene, stava…” e poi lo vide farsi silenzioso, abbassare le mani, perdersi in qualcosa che doveva averlo portato indietro alla conversazione avuta con il fratello.

Il silenzio si protrasse a lungo, molto a lungo. Le mani le bruciavano per le scorticature, ma mai quanto il petto. Il cuore pulsava a ritmo accelerato, come se lentamente anche quello stesse prendendo coscienza, come Clint, che quella sarebbe stata l’ultimo giorno in cui avrebbe rivisto Barney.

E poi lo vide portarsi una mano al viso. Le chiavi del pick-up caddero al suolo con un rumore sordo, i muscoli della schiena, del petto, irrigiditi nello sforzo di non lasciarsi andare.

“Perché non me lo ha detto?”

Gli si avvicinò solo quando si rese conto di aver assorbito troppo. E sebbene quando cercò di abbracciarlo lo sentì divincolarsi, non gli permise di allontanarsi.

Lo strinse con più tenacia, sostenendolo anche quando sentì le sue ginocchia cedere sotto il peso insopportabile dell’accettazione.

“Non ha nemmeno s-salutato…” lo sentì dire con voce rotta e furibonda, mentre le sue braccia si stringevano a lei con la stessa intensità con cui lei stessa stava cercando di sostenerlo. “Nemmeno un… s-saluto.”

Se stesse piangendo o meno Natasha non lo riuscì a dire mai, ma il grido strozzato della sua rabbia la scosse più del dolore di tutti i suoi sensi di colpa.

 

*

 

Camminare stava diventando difficile.

Le gambe si erano fatte pesanti i movimenti lenti e faticosi. Eppure continuava. La luce alla fine del sentiero era lì, ad indicare che aveva presto la giusta direzione. Anche al buio, anche senza direzione.

La coscia pulsava ancora dolorosamente. La coscia, il braccio. Forse il fianco.

Sentiva su di sé l’odore del sangue. L’odore marcescente di qualcosa che stava andando a male.

Fece una smorfia, ma decise di ignorarlo.

Continuava a proseguire. Un passo dopo l’altro. Senza fermarsi.

La luce sempre più vicina. Un unico obiettivo.

“Ganascia!” una voce nella notte.

E poi uno sparo. Scagliato senza precisione, senza troppa convinzione.

La terra smossa vicino al suo piede destro indicava solo che l’avevano mancata di poco.

Non si fermò in ogni caso. Non riusciva a parlare perché la gola pulsava a causa della totale mancanza di idratazione. Non ci provò nemmeno a lanciare un richiamo consapevole. Che facessero quello che era necessario.

“Ci penso io…” sentì sibilare qualcosa alla sua sinistra, mentre alla sua destra veniva ricaricata un’arma; una pistola, forse.

E infine si trovò a fissare una freccia proprio a mezzo metro dalla faccia.

“Sif?” sentì una voce pronunciare. Ma poi più nulla ebbe importanza. L’avevano riconosciuta. Sentì le gambe cedere e crollò a terra.

Era tornata a casa.

 

___

 

Note:

E un altro membro del nostro gruppo se ne va. E posso assicurare che ancora non è finita. Non del tutto. Una delle decisioni più difficili da prendere. Posso assicurarlo. Anche se è praticamente da quando ho iniziato a scrivere la fan fiction che avevo in mente questo capitolo. Per il resto poco da dire, se non che l’ultimo capitolo di questa storia mi sta creando non pochi problemi. Maiunagioia. Ringrazio sempre tutti quanti per la costanza con cui seguite la storia, la mia beta e socia e ci si sente presto.

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


CAPITOLO 23

 

“Morire non è nulla; non vivere è spaventoso.”

(I Miserabili – Victor Hugo)

 

*

 

Fury non era sicuro di poter credere alle proprie orecchie.

Eppure era sicuro di avercele ancora buone.

Almeno quelle.

Sif era lì seduta, circondata dal capannello di persone che si erano svegliate al richiamo di Barton che l’aveva ritrovata in pessimo stato.

Non erano riusciti a individuare la natura delle sue ferite. Non sembravano morsi, ma nemmeno tagli irregolari dovuti a una lotta.

Sif aveva fatto fatica ad articolare le parole, a restare sveglia, ma aveva preteso di parlare con qualcuno. E solo dopo una buona dose di acqua era riuscita finalmente a rendere comprensibili versi disarticolati e totalmente privi di coerenza.

“Ne sei proprio sicura?” insistette Rogers mentre Thor le teneva una mano: le stava di fianco come a spronarla a continuare, a sorreggerla nel caso non fosse stata in grado di farcela da sola.

La vide annuire e per quanto sembrasse provata e poco lucida, il modo frenetico in cui aveva completato il suo racconto gli parve sincero, reale.

“Non so come riesce a farlo…” continuò, “ma le Ganasce sembrano dargli ascolto. Eseguono gli o-ordini di Loki come fossero leoni ammaestrati…”

“Adesso sì che posso dire di averle sentite tutte.” Commentò Stark da qualche parte, però non meno preoccupato.

“Che cosa è successo dopo, Sif?” continuò Rogers con tono pacato, ma fermo, deciso come tutti loro ad arrivare alla fine di quell’assurda storia.

“Ci ha portate con lui. Volevamo v-vedere la bambina e ci ha portate da lei.”

“La bambina come stava?”

“B-bene. La bambina stava bene. L’aveva sistemata in un vecchio canale. C’erano due Ganasce a far da sentinelle all’ingresso…” la vide fare una smorfia, incredula eppure rassegnata.

“Per quale motivo l’ha rapita?”

“N-non ce lo ha voluto dire. H-ha solo blaterato del fatto che la bambina era i-importante e non le avrebbe mai fatto del male. Ma che non p-poteva permettere che il suo dono finisse nelle nostre mani.”

“Quale dono?”

“N-non lo so. Sembrava impazzito.”

“E poi… ?”

“E poi h-ha voluto che tornassi indietro. A p-portarvi un messaggio.”

“Ti ha lasciata andare così facilmente?”

“Mi ha fatto scortare da un paio di G-Ganasce.”

“Stai scherzando.”

“H-ha fatto assaggiare loro il mio sangue e poi m-mi ha assicurato che non avrebbero azzardato una sola mossa contro di me… s-se avessi fatto quello che voleva lui.”

Le ferite improvvisamente assunsero dei risvolti piuttosto inquietanti.

“Che messaggio voleva che ci portassi, Sif?”

La donna fremette appena, prima di socchiudere gli occhi.

“Ha detto che si sarebbe diretto ad Atlanta.”

“Atlanta?”

Sif annuì: “Portandosi dietro Betty e la bambina. E con loro tutte le Ganasce che sarebbe riuscito a richiamare. H-ha detto che avrebbe liberato l’intero stato della G-Georgia se fosse stato necessario.”

“Necessario a cosa?”

“A farci credere quanto ci potrebbe tornare utile.” Fury era avanzato nella sua direzione, intromettendosi in quella sottospecie di interrogatorio.

I piani di Loki non gli erano stati chiari fino a quando Sif non aveva annunciato che l’uomo aveva un messaggio da recapitar loro. Non aveva forse sempre cercato di dimostrare la portata di quel suo dono? O a cercare di provar loro quanto fosse essenziale, necessario, degno e forse ben più meritevole di chiunque alto lì in mezzo?

“Loki ha sempre cercato di farcelo capire. Ha sempre cercato di dimostrarci come fosse in grado di gestire questa cosa. Lo abbiamo sempre ignorato. Ora…” inspirò a fondo, ricordando anche come avesse cercato di rendersi utile durante il primo attacco di Ganasce alla fattoria, “ora ci sta solo sbattendo in faccia quanto ci siamo sbagliati su di lui. E ha deciso di mettere in piedi una… piccola vendetta. Un modo per farsi desiderare.”

“E chi diavolo lo dice che abbiamo bisogno di uno come lui?” protestò Wilson, emergendo da una delle zone d’ombra della stanza, “crede davvero di attrarci con un paio di giochi di prestigio? Solo perché riesce a rendere innocue due Ganasce…”

“Potrebbe aizzarcele addosso come e quando ne avrà più piacere. Se è davvero come dice Sif… potrebbe sfruttare questo suo dono anche per nuocerci.”

“Aizzarcele contro, e a che pro?”

“Lo ha già fatto…” stavolta era stata Natasha a parlare.

“Come? Quando?”

Fury la vide scambiare uno sguardo con Sif che sembrò darle l’autorizzazione a parlare.

“Ho motivo di credere che sia stato Loki a nascondere il guantone di Stark il giorno dell’attacco di Ganasce alla fattoria…”

“Figlio di puttana!” esclamò Stark, “era questo che non mi volevi dire, Romanoff?”

La donna lo ignorò per continuare a guardare Fury.

“Avrebbe senso se fosse stato lui a richiamarle.”

E improvvisamente si trovò concorde con lei. Al modo in cui aveva insistito a tutti i costi col dire di poter fare qualcosa durante l’attacco. Improvvisamente l’intera vicenda assunse le sfumature di un piano ben architettato.

“Avrebbe senso…” si trovò a commentare a mezza voce, il tono rassegnato di chi non ha altro da aggiungere a riguardo.

“E adesso che facciamo?” mormorò di nuovo Wilson, improvvisamente pacato, “si aspetta che partiamo per Atlanta per venerarlo e chiedergli di diventare il nostro santone scaccia Ganasce?”

Fury non gli rispose, ma anche messa sotto quella comica prospettiva, gli sembrò la risposta più credibile ai suoi intenti.

Loki aveva dimostrato di essere necessario.

Aveva dimostrato loro che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Di averli in pugno.

Aveva portato con sé Betty e la bambina perché pretendeva di essere trovato. Per dar loro un’ultima possibilità di accettare la sua autorità.

“Dobbiamo andare a riprenderci Betty e la bambina.” Pronunciò senza un solo ripensamento.

“In una città che presumibilmente pullula di Ganasce?” intervenne Stark, “Potrebbe farci fuori schioccando le dita. Chi ci dice che non sia una trappola? Che sia solo pazzo. Che voglia farci fuori tutti.”

“Potrebbe farlo comunque, se volesse, Stark…” Rogers gli era venuto in aiuto, forse già proiettato verso le operazioni di recupero.

“Sì, ma magari preferisce farlo dopo averci umiliati.”

“Non possiamo lasciargliele”, Thor si era intromesso, mentre Sif al suo fianco si era lentamente spenta. Che avesse bisogno di riposare era ormai fin troppo evidente. “suona schifoso anche solo da pensare.”

“Dio, che situazione di merda!” esclamò Wilson beccandosi uno sguardo di rimprovero da Rogers. Se per aver nominato Dio o per l’imprecazione, non seppe dirlo.

La situazione faceva schifo, ma non c’erano grandi alternative, tanto più che… per quanto sarebbero riusciti a tener sedato Banner? A fargli credere che moglie e figlia stessero bene? Che anzi, le tenessero lontane da lui solo per mantenerle al sicuro?

“A me non sembra tanto di merda…” la risposta arrivò da qualcuno alle loro spalle.

Qualcuno che in quella improvvisata riunione ancora non aveva pronunciato mezza parola.

Barton non si era mosso di una virgola durante tutta la diatriba e, visto quello che era appena successo al fratello, riusciva anche a comprendere perché. Aveva appena perso Coulson, poteva empatizzare in modo tenue con il suo dolore. Forse poco paragonabile, ma vivo e tangibile.

“Rispetto a cosa esattamente… ?” Stark a provocare, per poi ricordare il recente lutto e improvvisamente ritraendosi come un ragazzino pescato a rubare biscotti. Clint nemmeno sembrò averlo sentito.

“Si è stabilito che Loki si è trascinato dietro un numero… considerevole di Ganasce.” Asserì, riscontrando l’assenso dei presenti, “magari non tutte quelle della Georgia, ma quelle che infestano la città e dintorni però sì. Che ci sia una concentrazione maggiore che in qualsiasi altra città che abbiamo visitato, lo abbiamo constatato solo due giorni fa o sbaglio?”

Rogers e Thor annuirono concordi.

“E allora io dico che potremmo sfruttare a nostro favore la cosa.”

“Non capisco dove tu voglia arrivare, Barton…” indagò Fury, improvvisamente incuriosito.

“Voglio dire che dovremmo andare a riprenderci Betty e la bambina e far saltare per aria l’intera Atlanta con tutte le Ganasce che la popolano… e togliere a Loki l’unica arma che può usare contro di noi.”

“Ah, che bel piano. Noi e quale esercito?” Stark.

“Bombe. Hai costruito due ricetrasmittenti e un guantone a ultrasuoni. Un po’ poco per dimostrarci che sei un genio. O vuoi dire che non saresti in grado di costruire delle bombe?”

Stark esplose in una risata forzata.

“Hai solo la benché minima idea di quanto tempo mi ci vorrebbe per costruirne un numero sufficiente a far esplodere un’intera città?”

“Magari non ci servirà far esplodere l’intera città se riusciremo a raggrupparle tutte in un unico posto.”

“Questo è il piano più folle e azzardato che io abbia mai sentito.” Di nuovo Stark, “fino a prova contraria è Loki quello che riesce a controllare le Ganasce, non noi.”

“No, è vero…” insistette Barton. Una luce strana e inquietante ad animargli lo sguardo, “ma potremmo fare in modo di spingerle tutte in una direzione.”

“Loki ce le scaglierebbe addosso ancora prima di poter dire: Ganascia.”

“Loki sente le Ganasce… non gli esseri umani.”

L’arciere sembrava aver elaborato un piano in quei pochi minuti in cui loro avevano ragionato sulle intenzioni di Loki. E, per quanto assurdo e apparentemente suicida, sembrava prendere forma… e lentamente diventare una delle poche vie percorribili.

“Bè, poniamo il caso…” riprese Stark, “che riuscissimo miracolosamente a sopravvivere alla quantità spropositata di Ganasce presenti adesso ad Atlanta, a spingerle tutte in un unico posto che… immaginiamo potrebbero essere i laboratori di ricerca che hanno dato il via a questa simpaticissima epidemia, poniamo il caso che riuscissimo anche a farle saltare per aria con un gran botto… in tutto questo, Barton: hai pensato a come trovare Loki, Betty e la bambina?”

Il silenzio tombale che aveva seguito quella domanda sembrò improvvisamente decretare la fine di quell’insensato piano, e nemmeno Fury riuscì a ribattere in modo da suggerire una qualsiasi soluzione. Eppure dopo qualche istante che sembrò lasciar precipitare la situazione in un'empasse senza fine, Barton parlò di nuovo: “Banner. Abbiamo Banner.”

Un brivido di gelo scivolò lungo la spina dorsale di Fury quando comprese in che modo aveva intenzione di utilizzarlo.

Si scatenarono proteste più o meno feroci alla proposta e un brusio indistinto cominciò a serpeggiargli nelle orecchie, rendendo tutto più drammatico di quanto già non fosse.

Banner aveva sorvegliato Betty per tutti i mesi della sua gravidanza senza arrecarle alcun danno. L’aveva protetta, l’aveva liberata dalle Ganasce e sembrava essere l’unico in grado di rintracciarla, a naso, così come aveva fatto il giorno in cui l’avevano ritrovata in travaglio al crocevia per Atlanta.

Il piano era folle: scatenare un mostro per trovare Betty. E di conseguenza la bambina.

Folle ma… le due uniche alternative alle quali riusciva a pensare erano così atroci da non volerle nemmeno prendere in considerazione.

Abbandonare Betty e la bambina al loro destino. E scappare il più lontano possibile da Loki. Lasciarlo cuocere nei suoi stupidi sogni di gloria e dimenticarlo, per sempre.

Oppure cedere alla sua vendetta. Correre da lui in una spedizione comunque suicida. Piegarsi alla sua volontà e permettergli di decidere delle loro vite e delle loro morti così come più gli sarebbe aggradato.

Aizzare Banner poteva essere un azzardo. Poteva causare più danni di quanti ipotizzati, ma forse era la sola e unica risorsa per ritrovarle. Loki non aveva la minima idea del fatto che lo avessero recuperato e – per quanto assurdo – forse, nonostante la distruttiva trasformazione, c’era una possibilità che il ragazzo non avesse alcun ascendente su di lui.

Quando Fury si destò dalle sue elucubrazioni, Stark stava ancora inveendo contro Barton.

“Te lo dico io perché vuoi farlo, Barton! Ammazzare tutte quelle Ganasce non basterà a vendicare la morte di tuo fratello!”

Fury inorridì appena alla menzione di Barney e lo sguardo saettò rapido a Clint che sembrò incassare il colpo meglio di quanto si aspettasse.

Tremava però. Tremava come se fosse pronto a esplodere. E Natasha gli fu di fianco l’istante successivo. Lui però evitò il suo tocco, evitò il suo silenzioso supporto, scansandola quasi di malo modo per evitare qualsiasi possibile contatto. Fissava Stark duramente ma non disse niente altro.

“Se trovate un piano alternativo per salvare Betty e la bambina mi trovate qui fuori. In caso contrario, non sarò dei vostri.”

“Barton, aspetta…” cercò di frenarlo Rogers, ma Clint uscì ancora prima di poter o voler ascoltare cosa aveva da dire.

Natasha lo lasciò andare senza seguirlo. Si limitò a fissare la porta oltre cui era sparito, prima di indirizzare a Stark uno sguardo che se avesse potuto fulminarlo sul posto, lo avrebbe incenerito.

“Non ho detto niente di male…” indugiò Stark, intrecciando le braccia al petto, “vorrei distruggere anche io tutte le Ganasce del creato se mi avessero appena fatto fuori un fratello. Non volevo essere offensivo…”

“Peccato che qualsiasi cosa esca da quella tua bocca del cazzo finisca per esserlo.”

“Romanoff, non ti permetto di…”

“Basta.” Intervenne Fury, adesso stufo di tutte quelle insensate diatribe, “adesso basta.”

Si massaggiò distrattamente una tempia. La mancanza di sonno si stava tramutando in un lieve mal di testa che di lì a poco sarebbe esploso in un’emicrania di tutto rispetto.

“Trovo il piano di Barton piuttosto azzardato…” proseguì, mentre Stark simulava un gesto carico di soddisfazione, “ma… credo anche che potrebbe essere una soluzione possibile, se studiata in modo meno approssimativo.”

“Che cosa? Questa è follia…”

“Taci Stark, mi sembra tu abbia già parlato abbastanza…”

L’uomo si zittì, ma non sembrò digerire l’offesa.

“Siamo tutti preoccupati, questo è vero. Siamo preoccupati per noi stessi, per le persone che abbiamo giurato di proteggere e per Betty e la bambina, che fino a prova contraria ormai fanno parte di questa comunità. Di questa… famiglia…”

Si guardò attorno, lieto di constatare di come adesso il silenzio si fosse fatto finalmente quieto.

“Non possiamo lasciarle laggiù. Come non possiamo permettere a una persona come Loki di controllarci con la paura.” Socchiuse l’occhio sano, prendendo atto di quanto avrebbero pesato le parole che stava per pronunciare, “il piano di Barton potrebbe funzionare. Ma dobbiamo lavorare tutti affinché i danni vengano limitati.”

Lo sguardo che alzò andò a colpire Stark su tutti. Ma questo non ebbe forza o voglia di ribattere.

Il silenzio che seguì quell’affermazione sapeva più rassegnazione che di stupore.

 

*

 

Clint aveva sistemato almeno una decina di punte di frecce.

Tutte in fila, una accanto all’altra sul muretto che costeggiava l’intera fattoria.

Aveva recuperato la faretra di Barney, ben deciso a fare sue tutte le frecce sui cui avrebbe potuto mettere le mani.

Erano settimane che il fratello diceva di aver bisogno di fare manutenzione, ma con la frequenza con cui si trovavano ad affrontare Ganasce non ce ne era mai stato veramente il tempo.

Ora la campagna era fresca e silenziosa. Le luci dell’alba cominciavano a rischiararne i dintorni.

Loki doveva essersele portate via davvero, tutte quelle sue Ganasce, perché per quanto si sforzasse di guardare lontano, niente suggeriva una minaccia.

Sarebbe stato tanto semplice ignorare il fatto che si era portato via Betty e la figlia come assicurazione per scappare da qualche parte… ma…

… forse Stark aveva ragione. Forse questo suo desiderio di distruzione era anche dovuto alla rabbia feroce che gli aveva attanagliato lo stomaco alla fine ingloriosa a cui Barney era andato incontro. Ma per quanto dettato dal dolore, sotto quella superficie di odio e rabbia – anche nei confronti di Barney che se ne era andato senza un saluto – c’era dell’altro.

C’era la frustrazione di dover vivere sempre controllati dalla paura. Di dover sopravvivere sempre al limite della ragione. Non aveva mai amato particolarmente la sua vita, ma per quanto potesse avergli fatto schifo, adesso la rimpiangeva. Così come rimpiangeva quei momenti in cui il tempo per elaborare un lutto era la norma, non un accadimento che andava liquidato con rapidità.

Cercava di non pensare a Barney. Di non immaginarlo da qualche parte, là fuori, indeciso se ficcarsi una pallottola nel cervello (aveva realizzato con orrore che si era portato via la sua pistola) o lasciare che la natura facesse il suo corso, trasformandolo per sempre in una Ganascia senza coscienza.

Cercava di non farlo eppure il pensiero era lì, a dominare le sue azioni.
Per questo voleva fare qualcosa di concreto: per avere un pretesto per non pensarci. O forse solo per credere, per un misero giorno, di poter controllare gli eventi e dare una svolta alla rassegnazione di vivere in un mondo simile.

Lo sguardo cadde su quelle tre croci che avevano sistemato sulle tombe di Coulson e i due fratelli. Lontane dalla fattoria, ma ben visibili al limite di quel campo di granoturco che delimitava la zona.

Barney non avrebbe nemmeno avuto il privilegio di essere ricordato o celebrato in quella maniera.

Si rese conto solo in un secondo momento che qualcuno si era dato la pena di intrecciare una sottospecie di corolla di fiori che stava proprio in mezzo, fra le tre croci storte, frutto dell’opera di qualcuno che non doveva proprio intendersene di falegnameria.

Su quella stessa linea d’orizzonte individuò Maria Hill. Rimase immobile a fissarla per qualche istante ma non le fece alcun cenno. Fu lei a prendere l’iniziativa perché appena lo aveva visto, dopo un attimo di esitazione, stava venendo verso di lui.

Clint pregò (chi, non lo sapeva dato che a Dio aveva smesso di crederci da troppo tempo) in una deviazione. E nel caso contrario di essere abbastanza veloce da raccogliere le sue frecce e andarsene. Un modo come un altro per evitare un confronto.

Ma non successe niente di tutto ciò. Maria non deviò. E lui rimase fermo lì dov’era. Ad aspettarla.

La donna si fermò a un passo di distanza, analizzando distrattamente le punte di frecce e l’arco abbandonati al suo fianco. La vide sforzarsi di non produrre una smorfia addolorata. La vide serrare le labbra e trattenere tutto, come fosse abituata a ricacciare indietro tutte le emozioni.

“I ragazzi hanno deciso di approvare il tuo piano…” esordì asciutta, senza un saluto o una frase d’introduzione. Al di sotto della sorpresa, la gratitudine di avergli risparmiato qualsiasi prefazione.

Improvvisamente gli ricordò Natasha. Buffo come il confronto gli apparisse tanto limpido solo in quel momento. Inaspettatamente si trovò a chiedersi dove fosse. Anche se, dal modo in cui l’aveva scacciata in malo modo mentre discuteva con Stark, non si stupì non fosse venuta a cercarlo con entusiasmo.

Annuì solamente, in un muto ringraziamento.

“Non era necessario che mandassero te.”

“Non mi ha mandato nessuno. Pensavo fosse giusto riferirtelo.”

“Grazie…” stavolta una parola per quella premura gli sembrò dovuta.

Fu quasi convinto che fosse sul punto di andarsene, ma al contrario indicò il muretto: “Posso?”

Domandò senza titubanza e qualcosa gli disse che lo avrebbe fatto comunque.

Clint annuì, preoccupandosi di radunare tutte le frecce che aveva sistemato in una fila ordinata.

“Sono sue… ?”

Sue. Sue di Barney? No, non più.

Si trovò a serrare le labbra, ancora indeciso o meno se andarsene con una scusa. Non si era messo a lavoro per pensare a Barney. Però poi immaginò in quale razza di stato sarebbe stato se qualche ora prima Natasha non lo avesse aiutato a superare almeno la prima soglia di quella sorda disperazione.

Maria aveva dovuto digerire la notizia da sola. Il coinvolgimento e il legame affettivo diverso, ma di sicuro non meno doloroso. Se fosse successo a Natasha invece che a Barney, lui stesso non avrebbe sofferto di meno.

Perciò non se ne andò. Se Maria aveva bisogno di parlare… Barney non gli avrebbe perdonato di averla lasciata sola.

“Sì…” le rispose solamente, inspirando a fondo, cercando di ammorbidire quel nodo indicibile al petto, “hanno bisogno di essere affilate. Sono finite nelle teste di troppe Ganasce per… insomma… lo sai.”

Lei rimase in silenzio come se si aspettasse che parlasse, all’infinito.

“Ve lo hanno mai detto che vi somigliate?”

Assomigliare a chi? A Barney?

“Un sacco di volte… ma io sono sempre stato quello bello.”

Maria sorrise, ma per poco, come se il pensiero fosse ancora troppo fresco per riderci su.

“E avete la stessa voce.”

A questo Clint non seppe come rispondere. Se era di un surrogato che andava cercando…

“Avevo una sorella anche io.” La rivelazione lo sorprese. Soprattutto perché in tutti quei giorni di convivenza non si era mai dato la pena di approfondire le vite precedenti dei suoi compagni di sventura.

Era sempre stato il primo sostenitore della cancellazione di ciò che riguardava la vita prima dell’epidemia, ma adesso che Maria ne aveva fatto menzione…

“Dicevano che ci somigliavamo parecchio, ed era vero, sai? Ci scambiavano per gemelle. Ma avevamo due anni di differenza.”

Clint ancora non disse nulla, lasciò che fosse lei a dirigere la conversazione, anche se la tentazione di chiederle dove volesse andare a parare era forte.

Stava cercando di consolarlo? Non aveva bisogno di consolazione. Era ancora arrabbiato. Era ancora furente con Barney. Non c’era un vero capro espiatorio in quella tragedia e gli sembrava più che naturale – irrazionalmente naturale – che fosse Barney a dover subire quella sorte. Per aver fatto di testa sua, per averlo abbandonato, per non avergli detto nulla.

“Era lei la più piccola e Dio solo sa le cose che avrei fatto per lei…” fece una smorfia amareggiata, “ma non puoi tenere tutto sotto controllo. E non puoi prevedere gli eventi…”

“Se stai cercando di dirmi che quello che è successo a Barney non è colpa mia, arrivi tardi. So che non è colpa mia. Barney ha fatto tutto da solo. Anche decidere di crepare da solo. È sua la colpa.” Gli era uscito più duramente del previsto, senza concessioni o premure.

“È vero. È colpa sua.” Clint trasalì per quell’inaspettata risposta, “Sono arrabbiata quanto te, Clint. Perché per tenerci al sicuro non ha tenuto in conto di averci obbligati a immaginare a quale possibile fine sarebbe andato incontro. E se lo ha tenuto in conto… bè allora è solo stato stronzo.”

Improvvisamente si rese conto di non aver bisogno di altro. Non di consolazione. Non di qualcuno che lo aiutasse a ragionare: per assurdo, sapere di non essere il solo ad avercela con Barney lo fece stare meglio.

“È sempre stato uno stronzo…”

“Non è la prima cosa che ho pensato di lui…” gli rispose.

“No?”

“No”, scosse la testa,  “ho pensato solo fosse un rompicoglioni…”

“Ah bè, tipico. Barney è anche quello.”

“Uno stronzo rompicoglioni.”

“Uno stronzo rompicoglioni. Mi piace.”

Maria stavolta sorrise un po’ più a lungo. E Clint non riuscì a non farlo di riflesso.

“Hai sentito, Barney?” si ritrovò a chiedere al vento, “Lo sai cosa sei? Uno stronzo!” gridò fino a far levare in volo uno stormo di uccelli appollaiati sulla campagna circostante.

Maria lo fissò per qualche istante e poi tornò a guardare dritta di fronte a sé: “E un rompicoglioni!” aggiunse, seguendolo inaspettatamente in quella follia, lasciando che gli uccelli proseguissero il loro volo.

Le parole rimasero ad aleggiare a lungo in una vaga eco, come si fossero moltiplicate per permettere loro di raggiungere Barney a più riprese.

Non si sentì leggero, quello no. Ma la vista che si era appannata in quel modo fu solo il primo segnale di come avesse deciso di lasciarlo finalmente andare.

 

*

 

Si risvegliò solo quando sentì pizzicare il braccio.

Quando aprì gli occhi c’era Natasha al suo fianco. Le stava sistemando la fasciatura e sollevò immediatamente uno sguardo su di lei.

“Ti ho fatto male?”

Sif scosse la testa e cercò di sollevarsi.

“Puoi restare sdraiata, sto solo cambiando le fasciature…”

“N-non… ho dormito molto?”

“Solo un paio di ore. Puoi continuare a farlo.”

Si guardò attorno, cercando di capire dove si trovasse: a quanto pareva le avevano riservato un giaciglio nel granaio. Sperò di vedere Thor, ma dell’uomo non c’era nemmeno l’ombra.

“Si è allontanato pochi minuti fa. Tornerà presto.” Mormorò Natasha ancora impegnata a sistemarle i bendaggi. Il fatto che anche lei avesse intuito il suo interesse per l’uomo la fece sentire a disagio per un istante.

“È davvero così evidente?” dovette proprio domandarle, ma Natasha si limitò a stringersi nelle spalle.

“Ti ho messo qualche punto. Se non ti muovi troppo dovrebbero reggere.”

“Non mi riferivo a…”

“Lo so a cosa ti riferivi.” Le puntò addosso uno sguardo strano, “ma non credo dovresti preoccuparti per questo.”

“Perché non ho speranze… ?” le venne da ridere. Pensare a una stronzata simile, in un momento come quello.

“Perché non dovrebbe importarti di quello che pensa la gente.”

Sif incassò il suggerimento, osservandola come se avesse appena avuto una specie di visione.

Era evidentemente ancora stordita. Si sentiva debole e tutto, intorno a lei, era ovattato. Si chiese se non le avessero somministrato un leggero sedativo. Di quello non le importò granché.

“Ho cercato di tenerlo d’occhio s-sai?” le uscì con una punta di vergogna. “Se avessi fatto per bene il mio lavoro, adesso non ci troveremmo in questa situazione…”

Natasha si fermò solo per osservarla.

Sif si rimise seduta, incurante del vago dolore.

Le immagini di Loki che le tagliava le carni e raccoglieva il suo sangue.

L’odio che aveva provato nei suoi confronti, ora sedato dal dolore, era ancora presente.

“Non mi sono mai fidata di lui. Non l’ho mai fatto. Ma non ho mai preso le giuste p-precauzioni. Avrei dovuto fare qualcosa quando ancora ne avevo la possibilità.”

Poteva sentire su di sé lo sguardo di Natasha, ma non una parola uscì dalle sue labbra. Si sentì silenziosamente giudicata.

“Nessuno poteva prevedere quello che sarebbe successo.” Disse infine, allontanando le mani da quella sua ferita.

“Invece lo avevo fatto. Sapevo che ci avrebbe condotti a qualcosa di orribile… avrei dovuto ucciderlo. Avrei dovuto farlo.” Serrò i pugni fino a farsi male, sperando di scacciare quel senso di colpa che l’aveva afflitta per tutta la notte.

“Hai mai ucciso un uomo, Sif?” la domanda la costrinse ad alzare lo sguardo su di lei.

Ricambiò il suo sguardo, avvertendo una sensazione gelida arrivarle dritta in fondo allo stomaco, come se Natasha fosse a parte di un segreto che la metteva in una situazione privilegiata.

“N-no… no.”

La vide scostarsi e riempirle un bicchiere d’acqua fresca.

“Allora non tormentarti. Non ci saresti riuscita.”

“A-avrei potuto… avrei…”

Natasha scosse la testa.

“Credimi non lo avresti fatto, e questo è un bene…” e nel dirlo la guardò dritta negli occhi, pronta a lasciarle assimilare ogni singola parola, “il tuo senso di colpa di ora non sarebbe niente in confronto al solo pensiero di aver ucciso un altro essere umano. I rimpianti sono più gestibili dei rimorsi. I rimorsi ti perseguitano tutta la vita.”

Sif sentì qualcosa di caldo risalirle su per il petto e raggiungerle gli occhi. Le veniva da piangere? Per se stessa? Per le parole di Natasha?

“C-come lo gestisci tu?” la domanda le era sgorgata più spontanea e naturale di quanto immaginasse.

Natasha aveva sempre avuto quell’aria ambigua e letale, ma fino a quel momento non aveva mai realizzato che tipo di persona si trovasse di fronte. Era stata una criminale? Un’assassina?

Pensò che non aveva più importanza ormai. Per quanti errori avesse commesso in passato, le sembrava una persona leale, qualcuno di cui potersi fidare. Con Loki non aveva avuto la stessa sensazione. La differenza stava tutta lì.

“Si continua a vivere”, confessò senza la necessità di mettere veli fra loro, “per quante buone azioni si cerca di compiere nella vita, niente potrà mai cancellare quelle cattive. Stabilito quello… si continua a vivere.”

“Vuoi dire che devo solo pensare a cosa succederà dopo?”

“Voglio dire che devi continuare ad andare avanti. E fare del tuo meglio per non ripetere… gli errori.”

Sif annuì pacatamente, improvvisamente alleggerita da quella conversazione. Niente le avrebbe impedito di pensare che Loki avrebbe potuto essere fermato prima, ma adesso c’era da pensare a quello che sarebbe venuto dopo.

“Grazie.”

“E di che?” le sorrise e si rese conto che non glielo aveva mai visto fare fino a quel momento. O forse nemmeno lo ricordava.

Natasha le piaceva. Errori o meno.

Forse non doveva pensare di essere così sbagliata. Forse era solo dannatamente selettiva con le persone di cui decideva di circondarsi. Forse non era destinata a rimanere sola o a rimpiangere per sempre quegli amici che si era lasciata alle spalle… amici che pensava non avrebbe mai più avuto.

La testa le girava e si sentiva ubriaca, ma per niente in colpa. Come se una sorta di improvvisa rivelazione fosse giunta finalmente a liberarla.

“Dovresti riposare ancora un po’.”

Si trovò ad annuire e rimettersi sdraiata in quel giaciglio che sapeva di fieno umido. Le sorrise senza nemmeno accorgersi di averlo fatto.

“Vuoi che vada a chiamare Thor?” le domandò solo Natasha.

Sif scosse la testa. E poi chiuse gli occhi. Poteva riposare adesso.

 

___

 

Note:

Posso dire, con estrema certezza, proprio con la pubblicazione di questo capitolo, che ho finito di scrivere Sleep Twitch. Magari una revisione finale agli ultimi capitoli ma è finita. Finita finita. E quindi niente, voleva solo essere una rassicurazione finale che presto questa storia vedrà la fine. Inni di giubilo e cotillon. Adesso potrò dedicarmi a tutta birra a Dark Rain e qualche altro progettino che ho in cantiere (così tante idee, così poco tempo per scriverle).

Per il resto, come sempre, ringrazio tutti, lettori, commentatori, la mia beta e socia as usual… e… niente. Ci sentiamo la prossima settimana.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


CAPITOLO 24

 

L'amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpì subito entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello a serramanico!

(Il Maestro e Margherita – Bulgakov)

 

*

 

“Et voilà!”

Stark aveva mostrato con orgoglio il frutto di intere giornate di lavoro.

Il volto era teso e scavato. Gli occhi stanchi e arrossati dalla mancanza di sonno, ma la soddisfazione, quella gliela si leggeva nello sguardo oltre tutti gli strati di frustrazione e sfinimento.

Rogers e Fury si avvicinarono al tavolo di lavoro che aveva assorbito tutte le sue energie in quell’ultima settimana. Aveva preso in prestito abilità e conoscenze di Selvig e Jane, che dopo aver sperimentato per giorni su un vaccino destinato a salvare vite, lo avevano aiutato a costruire ordigni che ne avrebbe potute disintegrare a centinaia.

Le bombe avevano una forma vagamente antiquata. Per nulla belle esteticamente, piene di cavi che uscivano da tutte le parti, un po’ come quelle cariche esplosive che si vedevano nei cartoni animati di Will E. Coyote.

“Siamo sicuri che funzionino?” Fury. Prima o poi avrebbe risposto per le rime al vecchio. Ma era talmente ansioso di mettere la parola fine a quella folle impresa che si limitò a massaggiarsi le tempie con tenacia.

“Vuoi fare una prova?” la battuta però non aveva potuto impedirsela.

“Non possiamo permetterci errori, Stark. Non era un rimprovero.”

“Lo so…” esalò esausto, “ma vi assicuro che meglio di così non avrei potuto fare, non con i mezzi che avevo a disposizione.”

“Penso tu abbia fatto un ottimo lavoro…” Rogers gli aveva battuto una mano sulla spalla. Un incoraggiamento.

Doveva sembrare davvero un cadavere ambulante per suscitare tali carinerie.

“Ho anche messo a punto un altro paio di cose…” disse solo, allontanandosi dagli ordigni per raggiungere un altro tavolo. Prima avrebbe concluso di illustrare tutto, prima avrebbe avuto il permesso di andarsene a dormire. E sì che una volta dopo aver compiuto straordinarie imprese d’ingegneria, usciva a festeggiare. Con due o tre donne. E alcool, tanto alcool.

Da una cassetta, che una volta doveva aver contenuto dei pomodori, estrasse un paio di strani aggeggi di metallo dalla forma un po’ ambigua.

“Stark, è carino che tu abbia pensato al benessere fisico delle signore qui dentro, ma dubito che…”

“Oh, andiamo, Rogers, sempre a pensar male… e poi chi lo ha detto che è per le signore?”

Stark gongolò a vedere il capitano sgranare gli occhi e Fury scuotere il capo rassegnato.

“Di che si tratta?” domandò onde evitare di prolungare la fioritura di battutine di dubbio gusto.

“Sono versioni ridotte del mio guantone repellente anti Ganascia. Bastoni anti Ganasce”,  sfagiolò senza ulteriori fronzoli, “fra l’altro dovrei trovar loro un nome. Tipo BAG. Un acronimo efficace, mh? Ma effettivamente potrei fare di meglio.”

“E come funzionano?” lo aveva interrotto Rogers, improvvisamente molto interessato all’articolo.

“Sono semplicissime da usare: basta pigiare questo pulsantino e…” un fischio acuto e protratto andò a riempire il locale, stordendo i presenti.
“Spegnilo, spegnilo!”

Stark pigiò un secondo pulsante e il rumore cessò.

“E-errore mio…” si massaggiò l’orecchio, “ho alterato per sbaglio la frequenza. Ma funziona. Lo posso assicurare. Anche se non è che abbia avuto proprio modo di sperimentarlo su molte Ganasce… non più di un paio a dire il vero.”

Le Ganasce sembravano essere scomparse. Una dopo l’altra. Loki doveva aver attuato davvero il suo piano. Il pensiero di Betty e della piccolina intrappolate di nuovo in quella città… ogni tanto tornava a tormentarlo. Per quanto si fosse dimostrato contrario al piano di Barton, non significava che non gli importasse – tutt’altro. Era stato il pensiero di poter fare qualcosa per loro a farlo lavorare di buona lena. Non si pentiva delle occhiaie o delle ossa a pezzi. Sentiva di aver fatto qualcosa di utile.

“Andranno bene”, decretò Fury, venendogli in aiuto “non abbiamo molto tempo per la sperimentazione. Loki non credo avrà intenzione di aspettarci ancora per molto. Ed è già passata un’intera settimana… comincerà a sospettare che stiamo progettando qualcosa.”

“Ma non mi dire…” si trovò a commentare sarcastico, rimettendo a posto i suoi fantomatici BAG.

“Rogers”, riprese Fury, “adesso sei tu che devi aggiornarci sulla quantità di armi di cui potrà disporre la squadra.”

“Ho fatto una lista. E la spedizione dell’altro giorno ha prodotto buoni frutti. Siamo riusciti a recuperare fucili e pistole. E qualche arma da lancio che potrebbe esserci comunque utile.”

“Bè, a questo punto direi che siamo quasi pronti…”

“Sì… a parte un piccolo particolare.”

Fury sospirò esasperato: “Che altro?”

“Qualcuno dovrà parlare a Banner.”

Tony si trovò a sgranare gli occhi ancora prima di pensare a una risposta tagliente da dare. Era rimasto rinchiuso un’intera settimana in quel posto schifoso e nessuno si era dato la pena di spiegare al dottor Banner il suo ruolo in quella storia?

“Questa poi… abbiamo avuto un’intera settimana!”

“E rischiare che Banner si trasformasse prima del tempo?” intervenne Fury, “una notizia del genere Dio solo sa che reazioni potrebbe scatenargli addosso. Abbiamo bisogno che qualcuno vada a parlare con lui. Qualcuno dai modi garbati.”

Stark e Fury osservarono Rogers, senza che si fossero precedentemente consultati a riguardo.

“Certo”, disse il capitano, “posso farlo io…” ma la sua risposta sapeva più di dannazione che di responsabilità.

“E mi raccomando non dire le parolacce.”

“Stark, io credo che dovresti andare a dormire.”

Per una volta tanto si sentì di dargli ragione senza alzare nessuna protesta.

Congedò Fury e Rogers che ancora stavano discutendo di organizzazione. Tutte cose delle quali avrebbe potuto essere informato più avanti, con un bel riassunto.

Aveva bisogno di ricaricare le pile e, senza starci troppo a pensare, sapeva esattamente dove avrebbe trovato tutta la comodità e il conforto di cui aveva bisogno.

 

Pepper riposava in una delle stanze del pianoterra ormai da giorni, da quanto l’uragano si era portato via il tetto della fattoria. Si chiese se quando fossero riusciti a recuperare Betty si sarebbero decisi a emigrare, scappare da quel posto. Possibilmente lontano da Atlanta.

Un pensiero inaspettatamente positivo, dato il calcolato rischio dell’impresa di cui si erano presi carico.

Avrebbero potuto non tornare mai più. Lo aveva messo in conto? Forse non fino in fondo, ma non era sicuro di volerci pensare proprio in quel momento.
“Ehi…” si lanciò letteralmente sul materasso, finendole di fianco.

Pepper si mosse giusto per lasciargli lo spazio necessario.

“Incursione temporanea o permanente?” indagò la donna, accogliendolo fra le sue braccia, in un incastro che sembrava ormai rodato. Tony cercò di ignorare i buchi che la donna aveva sulle braccia. A furia di prelievi per le sperimentazioni sulla malattia, Selvig stava riducendo la donna a un colabrodo. Mai una volta che però l’avesse sentita lamentarsi.

“Molto permanente. Ho finito.”

“Sul serio?” prese ad accarezzargli i capelli e Tony chiuse gli occhi, rinfrancato da quel contatto.

“Mh, mh…” annuì, “se mi avessero detto che un giorno avrei costruito una bomba per distruggere dei laboratori scientifici… avrei visto i finanziatori schizzare da tutte le parti.”

“I tuoi finanziatori sono sempre schizzati da tutte le parti…”

“Non me lo ricordare: sto cercando di fingere che la mia vita di prima facesse meno schifo di questa.”

La sentì sorridere, per quanto impossibilitato a guardarla. Il capo sul suo petto, agganciato a lei come a trarne tutto il conforto possibile. Quando Pepper sorrideva poteva dirlo ad occhi chiusi. Era come se una forza straordinaria si irradiasse tutt’intorno. Ne sentiva il calore addosso, sulla pelle, e no, non per lo stato febbricitante dal quale non si era riuscita a liberare da quando erano partiti da Malibù.

“Tornerai tutto intero, vero?” la sentì domandare e lui si sforzò di mantenere quello stato di placida calma, per non gravarla con il peso di tutti i suoi dubbi.

“A pezzi probabilmente non sarei altrettanto affascinante”, le rispose afferrandole una mano. Cominciò a giocarci, intrecciando le dita con quelle di lei.

Non poteva essere sicuro di riuscire a mantenere quella promessa, ma di certo si sarebbe impegnato per non deluderla. Una volta forse ci si sarebbe lanciato con molta meno preoccupazione. C’erano stati giorni, in gioventù, dove persino una corsa in macchina, completamente ubriaco, avrebbe rappresentato una sfida. Un modo come un altro per provocare la vita. Se fosse morto nel tentativo, poco male. Non ci sarebbe stato nessuno a piangerlo.

Ma erano cambiate così tante cose… soprattutto ora che il dono della vita era diventato tanto fragile e per nulla scontato. Dove ogni essere umano rimasto… aveva cominciato a rappresentare l’unico appiglio alla sanità mentale. Dove ogni emozione, sensazione, veniva amplificata e accolta quasi come un miracolo.

Pepper era il suo personale miracolo. E non si sentì nemmeno per un istante troppo sdolcinato a pensarlo.

L’amava. Ed era quella l’unica cosa che contava.

“Mi sposeresti, Pepper?” le parole gli erano uscite di bocca, seguendo quel suo bizzarro flusso di pensiero. Un po’ come se nemmeno fossero uscite dalle sue labbra. Per un istante gli apparvero estranee, lontane. Un azzardo… perché sapeva esattamente quanto un matrimonio in un epoca come quella valesse meno di un alito di vento. Ma improvvisamente aveva sentito la necessità di sancire una promessa. Che avrebbe continuato a onorare… per tutta la vita che gli sarebbe ancora stata concessa di vivere.

Pepper non rispose immediatamente e le parole restarono sospese per un lunghissimo attimo.

“Non è una proposta molto incoraggiante, alla vigilia di una spedizione potenzialmente suicida…” la sentì infine rispondere e, dal suo tono di voce – che voleva risultare divertito –  trasparì solo un tremolio incerto.

“Rispondi, Virginia…” mormorò rialzando appena il capo per poterla finalmente guardare in viso. Non si era sbagliato: i suoi occhi erano umidi di lacrime che non avrebbe sicuramente pianto.

“Se pensi che faccia qualche differenza… nel consolidare quello che già provo per te.” Annuì, “ti sposerei…” allungò una mano per accarezzargli il viso. “A patto che tu faccia scegliere a me il viaggio di nozze.”

Tony le sorrise e non gli servì rispondere in modo brillante a quell’azzardo. La baciò sulle labbra, rinforzando così la sua promessa.

Per una volta tanto lasciando a lei l'ultima parola.

 

*

 

La freccia le scivolava fra le dita come il bastone di una majorette.

La punta di metallo lucido catturava di tanto in tanto gli ultimi raggi del sole morente. Il riflesso andava illuminando la stanza con una fastidiosa scia di luce.

“È vero che hai lavorato in un circo… ?” Natasha lasciò ricadere stancamente il braccio, trattenendo la freccia vicino al petto, prima di voltarsi a guardare Clint.

Le stava sdraiato accanto, vagamente accaldato con quell’aria disordinata e assonnata che ormai aveva imparato a conoscere.

“Chi te lo ha detto?” le domandò, passandosi una mano sul viso – se per abbattere lo stordimento o

un insetto molesto non seppe dirlo con certezza.

“Tuo fratello.”

Lo sguardo dell’uomo si incupì appena e per un istante si pentì amaramente di aver riportato a galla l’argomento. Soprattutto considerato il fatto che non si erano mai troppo attardati a parlare dopo aver fatto sesso. Si limitavano a un rapido scambio di battute o al silenzio necessario per riprendere fiato. E poi di nuovo fuori, a pianificare, lavorare, per portare a termine i preparativi per la prossima missione. Forse l’ultima missione.

Ma quella volta era stato… diverso. Stark aveva completato l’ordigno, Rogers aveva cominciato a distribuire i compiti, sistemato l’armeria, il carro armato. Tutto aveva improvvisamente assunto il sapore di qualcosa di compiuto e imminente.

Ispirati dalla quiete di quell’ultimo giorno di stasi si erano concessi più tempo. E i gesti, di solito frettolosi e bruschi, carichi di impazienza, erano inaspettatamente rallentati. Il tempo aveva preso una strana piega. Lo avevano fatto senza chiedersi cosa sarebbe successo dopo, senza fretta. Clint le aveva concesso un’attenzione che l’aveva sorpresa. Incapace di restituirgli tutte le premure che le aveva sapientemente elargito, aveva deciso di restare con lui per tutto il tempo che le avrebbe concesso. E si trovò sorpresa di non ricevere quello sgradevole prurito che in genere la costringeva a rivestirsi e levare le tende… il più rapidamente possibile.

La sensazione di trovarsi esattamente dove voleva essere fu così forte e tangibile che non volle ignorarla.

Anche se forse decidersi a fare conversazione non era stata la scelta più saggia.

Inaspettatamente però Clint piegò le labbra in un mezzo sorriso. Ancora una volta in grado di stupirla. Ancora una volta a darle l’impressione di aver perso quel suo talento naturale per inquadrare le persone. Clint aveva stravolto anche quella sua granitica convinzione. Non era sicura le dispiacesse poi tanto. Perdersi in un oblio… aveva imparato che poteva essere piacevole ed elettrizzante. Anche sorprendersi delle cose poteva esserlo. Aveva disimparato a farlo troppo presto.

“Di tutte le cose che avrebbe potuto raccontarti di me…” lo sentì rispondere, voltandosi definitivamente dalla sua parte. Natasha fece lo stesso, fronteggiandolo. La freccia ancora ben stretta fra le mani.

“Allora è vero.”

Clint annuì.

“È stato un bel po’ di tempo fa. Eravamo ancora due ragazzini.”

“Dopo la morte dei tuoi genitori?”

“Dopo…” sospirò, “siamo rimasti quattro anni in quel posto. Abbiamo imparato a tirare con l’arco e fare qualche stupida acrobazia.”

“Scommetto che indossavate un costume.”

“Naa”, negò l’evidenza per poi nascondere il viso sulla coperta stesa al suolo, “seeeh.” Confermò poi: “una tutina orribile, piena di lustrini. Ma solo per gli spettacoli. Il resto della settimana eravamo estremamente eterosessuali.”

Natasha si lasciò sfuggire una mezza risata. Più che per l’infelice battuta, per aver immaginato Clint e Barney vestiti di lustrini aderenti.

“Non ridere, sono ricordi dolorosi.”

“Secondo me invece ve la spassavate parecchio.”

L’uomo sembrò rifletterci per un secondo e poi non la privò di un cenno d’assenso.

“Ma solo la domenica sera.”

Natasha valutò la sua espressione. Era davvero sicura di voler conoscere tutti i dettagli della sua vita passata? Non c’era mai stato il tempo di farlo, ma adesso sembrava tutto così diverso.

“E di tua moglie che… mi dici?” indagò, mordendosi appena la lingua solo sul finale.

Lo vide sorridere appena, acceso dal ricordo di qualcosa a cui – era evidente – non pensava da molto tempo.

“Sei un po’ ingiusta… sai?”

Gli rivolse uno sguardo indagatore, come se non avesse compreso appieno il senso della domanda. Forse non voleva che gli si chiedesse della sua ex moglie? Bastava che glielo dicesse. Avrebbe evitato domande scomode.

“Sai sicuramente più tu di me, di quanto io non sappia di te.” E improvvisamente tutto le fu più chiaro. Ma non se la sentì di smentirlo. Era vero: nessuno di loro si era mai concesso troppo tempo per spiegare quali percorsi di vita li avessero condotti fino a lì. Ma prima di allora non era mai stato importante. A che pro tentare di conoscere qualcuno se poi eri destinato a vederlo morire? A che pro cercare di raccontarsi, se si viveva in un mondo che ti permetteva di reinventarti perché l’importante era il qui e l’ora?

“Chiedimi quello che vuoi.”

Avevano già intavolato una conversazione del genere. Quando non erano che un trio in fuga alla ricerca di una mitologica oasi di speranza. Erano cambiate tante cose. Era cambiata la sua idea sul tenersi tenacemente cuciti addosso i suoi segreti.

Lo vide indugiare.

“Sei sicura?” le chiese come ulteriore conferma. Incredulo o semplicemente restio a mostrarle la sua impazienza.

“Ho mai detto qualcosa che non pensavo veramente?”

Clint scosse la testa e poi allungò una mano, a sfiorarle uno dei tanti tatuaggi che decoravano il suo corpo. Sulle braccia, il petto, le spalle… e persino il ventre.

“Che cosa rappresentano questi?”

Una domanda apparentemente innocua che però conteneva la risposta a tutto il suo mondo. Clint doveva averlo capito da tempo e le stava solo chiedendo una conferma.

La sensazione che provò le risultò indescrivibile per un lungo istante.

“Sono segni di appartenenza. I segni della mia fratellanza. Sai di cosa sto parlando?”

“Credo di sì…”

Il fatto che non avesse detto chiaramente che si trattava di mafia russa le fece comprendere quanto Clint fosse delicato a riguardo.

“Ogni tatuaggio è una parola. Ogni parola racconta la mia storia…” una sorta di carta d’identità. Così le avevano insegnato il giorno che le avevano imposto il primo tatuaggio. Ancora vivo il ricordo di quanto bruciasse e di quanto si sentisse stupidamente orgogliosa.

“E che storia racconta?”

“Una storia dolorosa…” mormorò senza vergogna, “intrisa di sangue.”

Clint le passò un dito sui contorni di una scritta in cirillico. Fu grata che non sapesse interpretare quel tipo di scrittura. Poi le dita finirono su una porzione di pelle immacolata, appena sotto il seno, candida come il foglio di un quaderno.

“Però qui c’è ancora spazio…” le disse lui. Natasha gli rivolse uno sguardo incomprensibile, a chiedergli tacitamente di continuare, “la storia potrebbe migliorare.”

Sentì di nuovo quella sensazione indescrivibile. E improvvisamente si rese conto che qualcosa di caldo e piacevole aveva preso a scorrerle nelle viscere. Come se, pezzo per pezzo, Clint stesse sciogliendo tutto il ghiaccio che le si era accumulato dentro fino ad allora.

In altri contesti ne sarebbe stata atterrita, ma in quell'istante sentì di essergliene grata.

Lo slancio improvviso d’affetto che provò nei suoi confronti la stordì per un attimo, il suo modo di accettare le cose, di capirle, di modificarle fino a trasformarle… la sensazione di poter essere finalmente se stessa, senza fronzoli, senza menzogne e non aver paura di essere tradita, manipolata, usata, fu più inebriante di qualsiasi droga le avessero mai somministrato da ragazza.

Scostò la freccia che aveva ancora fra le dita, a eliminare quell’ultima barriera.

Sapeva che le cose avrebbero potuto precipitare ancora, da un momento all’altro, che avrebbero potuto essere morti nel giro di ventiquattro ore. Ma non le importava. Di certo non in quel momento.

Si preoccupò solo di prolungare il più a lungo possibile quella sensazione che era riuscita a scavare ben più a fondo di tutti i suoi tatuaggi. Impressa a fuoco nella carne, nelle viscere, a scrivere un pezzo di quella sua storia ancora tutta da raccontare.

 

*

 

La ricetrasmittente aveva ripreso a dare di matto.

Certo, non di matto, come si sarebbe atteso di veder fare a Banner, ma quel pomeriggio gli aveva fatto un po’ troppe concessioni per fargli credere che le cose avrebbero seguito quella scia positiva ancora per molto.

In realtà Rogers non aveva dato al dottore troppi pretesti per arrabbiarsi. Banner sembrava aver capito tutto ancora prima che cominciasse a parlare. A partire dal fatto che gli avevano negato di vedere Betty troppo a lungo per convincerlo che non ci fosse niente sotto.

Per un attimo aveva visto brillare nel suo sguardo una luce inquietante. Ma la malnutrizione e il fatto che ancora non si fosse ripreso del tutto sembrarono sedare quel suo pericoloso impeto.

Si chiese come avrebbe reagito lui nelle sue condizioni.

Cosa sarebbe successo se, ipoteticamente, dopo aver scoperto che… Bucky e Peggy erano ancora vivi, qualcuno gli avesse impedito di rivederli per oscuri motivi?

Avrebbe dato di matto. Banner doveva aver più senno di lui.

Si era impedito di rivelargli quali fossero i loro piani nel dettaglio e si era limitato a chiedergli di andare con loro.

Banner non aveva esitato un solo istante a concordargli la richiesta e Rogers sperò non fosse necessario aizzare il mostro verde per permettergli di ritrovare la moglie. Una speranza un po’ vana, ma visto il modo in cui aveva risolto la questione dopo un colloquio che lo aveva preoccupato da quando aveva scoperto di dover fare da messaggero…

Sbuffò al terzo tentativo. Il rumore gracchiante e per nulla invitante della ricetrasmittente continuava a rispondere ai suoi segnali.

Solo l’idea di andare a svegliare Stark per sistemare il problema lo metteva a disagio.

Tanto più che si erano tutti convinti che Pepper gli avesse concesso ben più che mezzo materasso per riposare… quella sera.

Provò a sistemare la frequenza così come Tony gli aveva consigliato di fare. Ma Sam, che avrebbe dovuto rispondere dall’altra ricetrasmittente, non dava segni di vita dalla sua postazione nel granaio.

“Merda…” imprecò nuovamente, quasi deciso a lasciar perdere.

Era tutto quello che avevano. Il piano non avrebbe potuto funzionare senza canali di comunicazioni.

Un gruppo a cercare Betty e prole, l'altro a sistemare la bomba... e il terzo a spingere tutte le Ganasce del circondario ai laboratori di ricerca.

Era stato tutto progettato nei minimi dettagli e la sola idea che un minuscolo e apparentemente insignificante tassello come quello potesse far cilecca nel momento meno opportuno...

Poi di nuovo la ricetrasmittente riprese a gracchiare. E finalmente gli sembrò di sentire una voce.

La recuperò fra le mani, dopo averla quasi scagliata in preda alla frustrazione.

“Sam? Sam mi senti?”

Dall'altra parte di nuovo dei fruscii incomprensibili. Rogers riprese ad armeggiare con la frequenza. Avevano detto 101 o 102? Provò entrambi, seguendo la scia di quella voce appena accennata.

“Forza, forza...” mormorò, “Sam? Mi copi? Sam? Wilson! Qualcuno mi copia? Un'anima del cielo o dell'inferno mi copia, porca di quella puttana stronza?!” esclamò in preda all'agitazione più nera.

“Fzzz, ti c-zzz-opio...” sentì finalmente cristallino.

“Sam? Mi senti?”

“Fzzzt, 'i 'ento. C'è qualcuno... fzzz... dio, c'è d-davvero qualcuno?”

“Sam? Sei disturbato... hai la voce fine come quella di una donna.”

“Fzzt, perchè s-sono una donna.”

Steve sgranò gli occhi e per un istante quasi non gli cadde l'apparecchio di mano.

“Sam?” riavvicinò la ricetrasmittente, cercando di tenerla all'altezza ideale per non perdere il segnale.

“Non s-sono fzzzt Sam...”

Le mani ora gli tremavano. Possibile fosse riuscito a individuare la frequenza di altre persone? Altri esseri umani... vivi? Poteva essere Betty? Da Atlanta?

“Betty?” esclamò maledicendosi per un attimo di quell'eccesso di entusiasmo, del modo sgraziato con cui si era concesso di comunicarglielo.

“Fzzzt, no... mi chiamo Margaret.”

Margaret. Un nome che improvvisamente risvegliò tutta una serie di ricordi dolorosi.

“Margaret... ?” indugiò su quelle otto lettere.

“Sì, Margaret... mi chiamo Margaret Carter.”

Stavolta la rovinosa caduta della ricetrasmittente non riuscì proprio a evitarla.

 

*

 

Mettere un piede giù dal letto fu semplice.

Mettere giù anche il secondo straordinariamente appagante. Ma quando cercò di rimettersi in piedi i muscoli delle gambe, indeboliti dai troppi giorni di inattività, cedettero.

Bruce cadde a terra rovinosamente. Il rumore flaccido della sua pelle a scontrarsi con il pavimento di legno lucido della stanza.

Represse un gemito di dolore, ben consapevole del fatto che sarebbero tutti accorsi per sincerarsi delle sue condizioni o… da quello che aveva capito, ad impedirgli che la sua collera degenerasse.

Peccato che la sua rabbia avesse macerato latente per troppi giorni.

A cominciare dalla frustrazione di non avere la minima idea di quello che stava succedendo, fino ad arrivare alla bruciante consapevolezza che quelle persone – le stesse che sembravano volersi prendere cura di lui – gli avessero mentito. Per giorni. Riguardo a Betty, riguardo alla figlia della quale tante volte aveva solo immaginato il volto.

Aveva capito da subito che qualcosa non andava. Ma aveva preferito tacere, recuperare le forze, assicurarsi di poter tornare indipendente prima di azzardare qualsiasi iniziativa.

E poi, solo quella mattina, l’ammissione di colpa. Sempre calibrata, sempre vaga. Sapeva solo che Betty aveva seguito un uomo ad Atlanta. Portandosi dietro la bambina. Aveva risparmiato a Rogers il compito di dargli ulteriori spiegazioni, fingendo di non avere bisogno di altro… mentre nel suo stomaco c’era in atto una battaglia per tenere a bada quella rabbia furiosa.

Avrebbe accumulato e trattenuto le emozioni per usarle come carburante per ciò che aveva in mente di fare, da giorni ormai.

Fece forza sulle braccia, che si era dato la pena di irrobustire con alcune flessioni al giorno e riuscì a rimettersi in piedi.

Si diede qualche istante per recuperare la stabilità e quando fu certo di essere in equilibrio, prese a mettere un piedi davanti all’altro.

Doveva fare in fretta: aveva intuito che quelle persone avevano intenzione di dare il via alla spedizione di lì a breve e, se aveva calcolato bene i tempi, avrebbe potuto sperare ancora in un una mezz’ora di tempo prima che qualcuno si facesse vivo con la cena.

Lo avevano trattato come un appestato, per giorni. E sebbene fosse consapevole del motivo per cui lo avevano fatto, questo non placò la sua irritazione.

Aveva però mentito anche lui, dopotutto.

Non era vero che non ricordava niente. Non in modo nitido o perfettamente consapevole, ma sapeva esattamente cosa era diventato o cosa aveva fatto in quei mesi, dopo l’esplosione dei laboratori di Atlanta. E sapeva anche di quali sforzi aveva dovuto compiere per tenere al sicuro Betty.

L’istinto ancestrale di nasconderla, di proteggerla. Di proteggere la bambina ancora non nata.

Di scacciare le Ganasce, certo, ma anche tutte le persone che pensavano di potergliela portare via… di poter sopperire in modo egregio alla sua mostruosa mancanza. Cosa che avevano, di fatto, smentito clamorosamente proprio in quegli ultimi giorni.

Sapeva di averla tenuta ingabbiata come un animale. Sapeva che l’istinto dell’essere che era diventato era tanto elementare quanto privo di ragionamento sentimentale. Eppure in quella dimensione gli era sembrata l’unica cosa giusta da fare. E anche ora, che aveva avuto modo di analizzare la faccenda da un lato più razionale, non riusciva a giudicare in modo definitivo le decisioni del mostro che era.

Sapeva riconoscere la differenza fra una Ganascia e un essere umano, anche tramutato in quella creatura fatta di istinto e forza sovrumana, ma sapeva anche a cosa dare la priorità.

E Betty, che lui fosse uomo o essere erculeo, era la sua priorità. A discapito della vita di qualche essere umano.

Avvicinò la sedia su cui erano poggiati dei vestiti puliti.

Infilò la camicia. I pantaloni… gli stavano grandi ma se li sarebbe fatti andare bene.

Sbirciò fuori dalla finestra, sollevato nel constatare che la macchina che avevano abbandonato lì da qualche giorno non era stata spostata.

Con un po’ di fortuna ci avrebbe trovato le chiavi. E con ancora più fortuna, benzina sufficiente per raggiungere Atlanta.

Si poggiò al davanzale, facendo di nuovo leva sulle sue braccia martoriate. Fece scivolare una gamba oltre e poi l’altra.

Inspirò a fondo e si lasciò andare. Pronto a una nuova rovinosa caduta si stupì di essere riuscito a mantenersi saldo sulle gambe.

Sorrise di quell’inaspettata concessione ma non rimase troppo tempo a ringraziare il cielo per non avergli fatto assaggiare di nuovo fango.

Si guardò attorno, sperando di non incrociare nessuno nel breve tragitto che lo separava dall'auto.

Quando fu dentro, un senso di pace e aspettativa lo pervase. I sedili odoravano di pelle bagnata e l'abitacolo era un forno, ma la prospettiva di quello che avrebbe potuto fare lo rasserenò.

La chiave, come aveva ipotizzato, era nel cruscotto.

Il rombo del motore pervase l’aria per qualche istante.

Sgommò sul selciato sollevando polvere e sassi, prima di schizzare via sulla strada deserta.

 

___

 

Note:

A parte un paio di avvenimenti a sorpresa questo è un capitolo tranquillo. Un capitolo che… come sottolinea la citazione iniziale inneggia un po’ all’amore (ho appena finito di leggere quel libro e lo consiglio a tutti, se ancora ci sto pensando oggi è perché mi ha davvero colpita). Mi sono resa conto solo successivamente di aver praticamente dedicato il capitolo ad alcune coppie. Al sentimento, alla fiducia… al modo diverso di intendere le relazioni. Ogni tanto ci vuole su. Dal prossimo comincia l’azione però. E la corsa verso la fine.
Come al solito ringrazio gli affezionatissimi, la socia e beta Sere, e ci si risente la prossima settimana.

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


CAPITOLO 25

 

La paura ti rende prigioniero, la speranza può renderti libero.

(Le Ali della Libertà) 

 

*

 

Le aveva allungato delle gallette di riso.

Lo sguardo che la donna gli rivolse era intriso d’odio e d'una vasta gamma di disgusto.

“Non ti piace?” le chiese bruscamente.

Loki non era incline alle gentilezze, il fatto di aver procurato qualcosa da mangiare alla donna era una questione di mera sopravvivenza.

Presentare Betty emaciata e ingrigita da quelle quattro mura non gli avrebbe fatto buona pubblicità con gli altri.

“Bè, è l’unica cosa commestibile che ho trovato stamattina, e dubito che aiuterà tua figlia questa tua ostinazione nel non mangiare, ma ehi…” posò la scatola di gallette a terra, “ognuno fa le sue scelte.”

Decise di ignorarla e andare a dare una sbirciata fuori dalla finestra.

Orde di Ganasce in lenta processione scorrevano per le strade che circondavano il palazzo. Sorrise all’idea di come in pochi giorni fosse riuscito a riunirne così tante.

Spronate dal suo silenzioso richiamo erano arrivate a frotte, in gruppi più o meno consistenti da un po’ tutti i dintorni di Atlanta.

Sperò che anche il gruppo alla fattoria si fosse accorto dell’assenza di pericolo. Che prendessero per buone le sue intenzioni. Che si rendessero conto della portata del suo prezioso potere.

In fondo era ancora convinto di poter risolvere in modo pacifico il confronto. Anche se un’intera settimana era già trascorsa e nessuno si era mostrato. Pensò che fosse dopotutto una decisione difficile da prendere o che cercassero un modo come un altro per attivare un contatto con lui. Li avrebbe fatti macerare ancora un po’ e poi, forte di una squadra di Ganasce, sarebbe andato da loro. Sarebbe tornato carico di altruismo e perdono, pronto a offrir loro i suoi servigi, a prenderli sotto la sua ala protettiva.

A quel punto nessuno si sarebbe sottratto alla sua indiscutibile forza. Alla sua indispensabile presenza.

Betty stava bene. La bambina anche. Niente avrebbe potuto andare storto.

E di quel mostro verde che aveva tanto temuto, al suo arrivo ad Atlanta, non c’era più nemmeno l’ombra. Era al sicuro. Lui e tutte le sue Ganasce.

Si volse solo quando avvertì rumore di carta straccia. Betty aveva aperto le gallette e preso a mangiare.

Gli diede le spalle per non dargli la soddisfazione di vederla cedere, ma non se ne curò.

“Pensi davvero che ti accetteranno? O perdoneranno quello che hai fatto?” la sua voce, però, gli arrivò limpida e diretta. Non lo guardava, ma si era accertata di fargli arrivare chiaro il suo messaggio.

Loki sorrise intrecciando le braccia al petto, osservando la figura della donna accovacciata a terra, intenta a mangiare come un animale. La bambina al suo fianco ora dormiva placida, ma ne aveva consumati di pianti nelle ore precedenti.

“Perché? Pensi che abbiano un’alternativa?”

Betty si volse in quel momento, una mano a ripulirsi le briciole di quelle terribili gallette di riso.

“Più d’una… se me lo concedi.” Gli disse, senza risparmiarsi uno sguardo ostile.

Doveva ammettere che nonostante tutto apprezzava la sua tenacia e la sua sfacciataggine.

“Per esempio?” le domandò, facendole un cenno come a invitarla ad elencargliene alcune.

La donna mise a terra le gallette solo quando la bambina sembrò destarsi dal suo sonno.

“Oh, per l’amor del cielo, non di nuovo!” esclamò Loki, mentre la bimba aveva preso a fare quei versetti che preannunciavano l’ennesima esplosione.

“Ha fame. Come te. Come me. Non dovresti lamentarti: se desideravi il silenzio avresti dovuto scappare in eremitaggio, tu e il tuo esercito di Ganasce. E lasciarci tutti in pace, razza di pazz-”

“O forse avrei solo dovuto scegliere una compagnia meno lagnosa.” La interruppe, prima che potesse completare la frase. Sapeva quello che stava per dire e non gli piaceva. Non era pazzo. Non lo era mai stato. E nessuno aveva la benché minima idea di cosa volesse dire sopportare il peso di un potere simile. Aveva provato sulla sua pelle diversi strati di sofferenza. Nessuno doveva avere il diritto di giudicare, né tantomeno di contestare il modo in cui decideva di usarlo.

Aveva il sacrosanto diritto di essere riconosciuto!

Sebbene il suo animo fosse agitato quanto la tempesta di qualche sera prima, cercò di restare calmo. Non fece altro che mantenere lo sguardo fisso sulla donna che aveva preso in braccio la bambina. Si era scoperta il seno e la stava allattando. Cercò di ignorare quella stupida fitta al basso ventre. Ridicolo il modo in cui le reazioni umane più elementari non si potessero controllare. Non distolse però lo sguardo. Né per dimostrare rispetto, né tantomeno pudore.

“Sif ti avrebbe strappato le palle a morsi il secondo giorno.” La sentì dire, decidendo di stare al suo sporco gioco. Per assurdo quel commento del tutto fuori luogo fu in grado di placarlo. Di riportare tutto a una condizione più ridicolmente umana.

“Sif avrebbe voluto fare tante cose, dal primo giorno che ci siamo conosciuti. Eppure non è riuscita a fare nulla. Dovresti abbassare un po’ le aspettative su quella donna.”

“Le uniche aspettative che si sono abbassate sono quelle che avevo su di te.”

Loki la squadrò insospettito.

“Avevi delle aspettative… su di me?”

“Già… pensa un po’ che cretina. Pensavo che fossi una persona che valesse la pena aiutare. Che se eri finito nel nostro gruppo avessi il diritto di restarci. Ma invece di stare dalla nostra parte hai scelto di importi con la paura… la scelta più imbecille che potessi fare.”

“Ho tentato di farvi capire come avrei potuto esservi utile. Sono sempre stato snobbato!” esclamò, la scintilla dell’ira pronta a riaccendersi.

“E puoi biasimare qualcuno se non ha creduto a una cosa tanto assurda? Controllare le Ganasce con il pensiero, ma andiamo! Non ci avresti creduto nemmeno tu!”

“Ed è per questo che ho dovuto impormi! Ed è per questo che siamo arrivati a questo punto, a causa della vostra stupidità! Della vostra cecità!”

“Oh, ma per favore, questo discorso da ragazzino offeso vai a farlo da qualche altra parte.”

Loki sentì le mani fremere di odio, di rabbia, il volto paonazzo, la testa pronta a esplodere. L’aveva avvicinata senza rendersene conto e strattonata per un braccio, rischiando di far cadere a terra la bambina.

Betty fu rialzata in piedi di peso. Il momento successivo Erin scoppiò in un pianto dirotto.

Una mano la teneva stretta al braccio, l’altra era sospesa e tremante, serrata in un pugno.

“Avanti fallo…” sibilò Betty a pochi centimetri dal suo viso, “precipita ancora più in basso di quanto tu non abbia già fatto fino ad ora. Scava. Scava, Loki…”

Il peso del suo sguardo, del suo giudizio, riflessi in quei due occhi chiari e limpidi come laghi d’inverno.

Sentì improvvisamente la presa cedere. E la mano stretta a pugno perdere di forza.

La lasciò andare l’istante successivo. Inondato dalla forza di quello sguardo.

La bambina continuava a piangere e Loki sentì la testa girare, il fremito che precedeva la connessione con le Ganasce o con la bambina, o con qualsiasi essere ultraterreno…

Per un attimo fu certo che fosse stata l’influenza di Betty. Che anche quella donna dall’aria combattiva fosse portatrice del dono, così come lui, così come Erin.

Ma poi fu qualcos’altro a raccogliere tutta la sua attenzione. Un fremito nel terreno, un grido disumano.

Le Ganasce si stavano agitando.

“Bruce…” singhiozzò la donna, sfuggendo alla sua incombente presenza.

La vide correre alla finestra, osservare i dintorni, mentre il pianto della bambina diveniva violento, uno stridio assordante.

Improvvisamente il futuro che lo avrebbe atteso divenne chiaro. Disastrosamente chiaro.

Il mostro li avrebbe sentiti. Li avrebbe sentiti, sarebbe arrivato per loro. Per lui.

La paura e la rabbia esplosero in un’onda distruttrice. All’improvviso e senza alcuna avvisaglia.

“BRUCE!” la voce di Betty si era fatta un unico grido al di sopra dei lamenti delle Ganasce, al di sopra degli schiocchi delle loro migliaia di mascelle.

La mente gli si annebbiò in un istante. Un’esplosione di mille grida.

Le corse incontro. Il ragionamento relegato a un angolo della sua coscienza.

Afferrò la bambina che non aveva ancora smesso di piangere e guardò Betty un’ultima volta.

“Scavo”, disse, prima di scaraventarla fuori dalla finestra con una singola spinta.

Non rimase a guardare. Si precipitò fuori dalla stanza, Erin fra le braccia, e poi giù per le scale del palazzo, la mente ormai intrisa della coscienza di migliaia di morti viventi.

Il pianto della bambina… non lo sentiva nemmeno più.

 

*

 

Fury si svegliò di soprassalto.

Il cuore in tumulto, il sudore congelato sulla fronte, sul collo, a scivolargli lungo le tempie.

Si guardò attorno facendo quasi fatica a riconoscere i dintorni.

 

La mente ancora connessa a un altro luogo, un altro tempo.

Una stanza buia, delle pareti piene di quadri. Una scrivania, un diploma di laurea conservato in una cornice a giorno, una poltrona di pelle e stracci sistemati a terra, come un giaciglio improvvisato.

Il sapore delle gallette di riso. Il pianto di una bambina.

E poi c’era stato Loki.

Loki che lo fissava con occhi spenti, due biglie di vetro, fredde, lucide ma prive di vita.

“Scavo…” aveva detto.

E poi la sensazione di precipitare. E andare a fondo. Sempre più a fondo.

Lo schianto non lo aveva sentito, ma era stato quello il momento in cui si era svegliato.

 

Era in cucina. Sdraiato accanto al camino che non avevano mai avuto bisogno di accendere.

La testa gli doleva, la schiena gli doleva. Ma nessuno di quei dolori dovuti all’età lo preoccupava tanto quanto l’incubo da cui si era appena destato. L’angoscia viva, presente e tangibile.

Era successo qualcosa a Betty.

L’unico pensiero fisso: dovevano partire.

Cercò di rialzarsi, facendo fatica a reggersi in piedi. Le giunture gridavano pietà sotto la stoffa dei pantaloni lisi.

Si aggrappò alla mensola del caminetto e quando gli parve di aver acquisito stabilità, avvertì il trambusto fuori dalla fattoria.

Un trambusto che fino a pochi secondi fa non aveva notato.

“Sceriffo!” Natasha Romanoff. La ragazzina dai capelli rossi. Era lei che gli stava venendo incontro, trafelata come non era sicuro di averla mai vista.

“Che c’è? Cosa sta succedendo là fuori?” domandò stentato, cercando di sgranchirsi la schiena.

“Banner… è scappato.”

L’angoscia del sogno svanì per lasciar spazio allo sgomento.

“Scappato? Che diavolo significa?”

“Che ha preso una delle macchine, ed è scappato.”

“Dove? Come? Non si reggeva in piedi!”

Lo sguardo che lei gli lanciò sapeva di qualcosa alla: “Anche lei, a quanto vedo”. Grazie al cielo sembrò abbastanza assennata da risparmiarglielo.

Fece un passo nella sua direzione, ma quasi inciampò nei suoi stessi piedi.

La Romanoff gli fu subito accanto per impedirgli una rovinosa caduta.

“Ce la faccio… ce la faccio, ragazzina. Sono solo reumatismi…” la guardò solo un istante, mentre lei si limitava a fissarlo pazientemente, freddamente. Non seppe come o perché ma improvvisamente si sentì giudicato. Come un ragazzino ostinato che rifiuta gli insegnamenti.

Sbuffò qualcosa, sentendosi persino un po’ sciocco, solo per aver permesso a uno sguardo di farlo sentire a quella maniera. Ma poi le fece cenno di avvicinarsi.

“Aiutami a uscire di qui.” Si piegò a chiedere il suo aiuto. In altri contesti lo avrebbe odiato, ma fra l’incubo, la certezza che Betty avesse bisogno di loro e la fuga di Banner,  non sembrava esserci il tempo per stupide crisi d’orgoglio.

La ragazza non si ritrasse, al contrario lo aiutò per tutto il tempo che gli fu necessario il suo sostegno.

 

Fuori dalla fattoria il fermento era reale.

Rogers sembrava aver già predisposto tutto: i piani che avevano analizzato fino quasi farseli uscire dagli occhi avevano subito una brusca accelerazione.

“Sceriffo…” di fronte a lui adesso c’era Barton, armato di arco, frecce e pistole come nella peggiore iconografia dell’eroe di un filmaccio di serie B, anni ’80. Il pensiero lo avrebbe fatto sorridere in altri contesti. Adesso gli sembrava solo uno dei meglio equipaggiati del gruppo.

Lo squadrò brevemente prima di dargli la possibilità di parlare.

“Rogers ha deciso di partire immediatamente. Ha motivo di credere che Banner si sia diretto ad Atlanta. Noi… siamo pronti”, e poi fu la sua volta di indirizzargli uno sguardo incerto,  “Lei... sta bene?”

“Benissimo, perché, non si vede?” scambiò uno sguardo con Natasha che si limitò a restituirglielo senza una particolare inflessione, anche se gli parve di veder brillare un sorriso trattenuto nei suoi occhi.

“Allora dovrebbe raggiungere il carro armato, Rogers la vuole al suo fianco.”

“Rogers avrà quello che chiede, allora…” sospirò, ben felice di essere finalmente solo una pedina in quel gioco di squadre. Le responsabilità scaricate su spalle giovani e decisamente più robuste delle sue.

“Una cosa Barton…” lo fermò prima che potesse schizzare via, rapido come la luce. Lo vide esitare un solo istante, “il lei…” scosse la testa, “sarò vecchio, ma non così obsoleto.”

L’arciere scoccò uno sguardo perplesso a Natasha e poi si limitò ad annuire, un po’ a disagio.

Fury sorrise e lo lasciò finalmente andare.

Si scoprì stranamente di buon umore. O forse solo pacificato dal fatto che finalmente avessero deciso di velocizzare le cose.

Che quel giorno, nel bene o nel male, avrebbe chiuso un capitolo importante di quella storia.

Fece cenno a Natasha di procedere verso il carro armato e lei di nuovo si fece carico del suo peso senza avanzare alcuna protesta o cenno di irritazione.

Incapparono in Stark che stava cercando di istruire di nuovo Wilson e Thor sul funzionamento dei repellenti anti Ganascia.

“Non sono zucchine repellenti! Si chiamano BAG! Bastoni, Anti, Ganascia!”

“Allora sarebbe meglio VAG”, sentì ribattere Sif che assisteva alla scena (ancora parzialmente provata dalla sua esperienza con Loki, ma decisamente migliorata) mentre Thor se lo rigirava fra le mani con cautela, nemmeno avesse in mano una bomba.

“VAG?”

“Vibratori, Anti, Ganascia.”

Thor scoppiò a ridere dando il cinque alla ragazza, mentre Stark glieli strappava di mano, stizzito.

“Non ne siete degni.”

Fury superò anche loro e incrociò Selvig e Jane che lo salutarono con un cenno del capo, sicuro che lo sguardo di Selvig preannunciasse una domanda che gli avevano già posto.

“Sto bene.” Lo prevenne, “solo reumatismi. Diamo alle mie ossa il tempo di scaldarsi… e andrà tutto bene.”

Jane gli sorrise e straordinariamente si sentì di ricambiare.

Li superarono, trovandosi finalmente di fronte un Rogers dall’aria determinata ma pallida, come se avesse appena visto un fantasma.

“Sceriffo… è qui…”

“Ancora non te lo sei levato quel viziaccio di chiamarmi sceriffo, mh?” lasciò andare la spalle di Natasha e le fece un cenno di ringraziamento, “Barton mi ha detto che non puoi fare a meno di me.”

“Bè… Barton ha ragione. Ho pensato che il suo posto fosse con noi, sul carro armato. Con la fuga di Banner i piani sono un po’… cambiati.”

“Cambiati come… ?”

“Cambiati nel senso… che dovremo improvvisare”, lo vide irrigidirsi appena, percepibile come un faro nella notte il suo disagio per quella parola.

Improvvisare. Non una delle preferite nel suo vocabolario.

“Almeno nella ricerca di Betty Ross. Pensavo di guidare le operazioni di ricerca, mentre gli altri si occuperanno di Ganasce e bombe”, proseguì , “ma… se preferisce decidere di unirsi a qualsiasi altro gruppo, bè…”

“No. Il carro armato andrà bene.” Non esitò un solo istante, “mi piace questo ammasso di ferraglia arrugginita.”

Avrebbe chiesto lui stesso di essere inserito in quel gruppo. Reticenza o meno. Aveva sognato la stanza in cui avrebbero trovato Betty. O la bambina. Aveva sognato Loki. Strano come con questi nuovi sogni fosse giunta anche la consapevolezza di poter svolgere egregiamente il compito che avrebbero dovuto affidare a Banner. Sapeva che l’avrebbe trovata. Ancora doveva capire le dinamiche del come… ma lo avrebbe fatto.

Lo guardò per un attimo, vedendolo esitare.

“Che stiamo aspettando?”

“N-niente, solo…” tergiversò, seguendo con lo sguardo Maria Hill che stava distribuendo armi e proiettili.

“Ragazzo. Non abbiamo molto tempo da perdere.”

“Credo di essere entrato in contatto con la frequenza dell’esercito… questa mattina.”

“Come, prego?”

“L’esercito. Ho parlato con un ufficiale… dell’esercito americano. O così credo.”

“Sul serio? Qualcuno che conosceva?”

“Credo… credo proprio di sì.”

“Questa è una notizia grandiosa… capitano… avete preso accordi? Che cosa vi siete detti?”

“In realtà… niente più che uno scambio di battute. Ho perso la comunicazione.”

Fury lo squadrò per un istante, cercando di inquadrare la situazione e soprattutto di capire perché sembrasse tanto turbato. A dire il vero era stupito di non aver saputo niente di un qualsiasi sopravvissuto dell’esercito in tutti quei mesi, a parte loro.

“Credi che siano stati in grado di localizzarci?”

Rogers scosse la testa: “Non ne ho davvero idea.”

“Bè…” inspirò a fondo Fury, alzando lo sguardo verso il cielo, apparentemente libero da nubi, “immagino potrà diventare argomento di interessanti conversazioni quando torneremo. Per il momento, per quanto allietante,  la notizia non ci è minimamente di aiuto.”

“Lo so ma…” sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma Fury lo interruppe. Intuì come i suoi dubbi fossero legati all'indecisione se aspettare o meno l’appoggio di un fantasioso esercito che, per quanto ne potevano sapere, poteva vantare anche un unico membro superstite.

“Betty potrebbe essere in pericolo.”

“Come… ?”

“Ho fatto un sogno e…”

“Un sogno?” Fury colse immediatamente il tono scettico della sua voce e si limitò a lanciargli uno sguardo ammonitore. Fu abbastanza efficace da zittirlo di nuovo.

“Ho una sola richiesta da farti oggi, Rogers”, disse invece, “nel caso io dovessi cominciare a blaterare di cose senza senso…”

“Ma lei non dice mai cose senza…” cercò di smorzare lui, ma Fury, molto seriamente, scosse la testa.

“Ti prego di darmi ascolto. O cercare di interpretare… quello che cercherò di dirti.” Lo guardò negli occhi, tentando di assicurarsi che avesse assimilato il concetto.

L’uomo esitò brevemente prima di annuire.

Sapeva che Rogers non lo avrebbe deluso. Era una persona che prendeva in parola le richieste… o gli ordini. Anche se lui stesso odiava dover parlare in questi termini.

“E ora… possiamo andare? O c’è altro che devo sapere?”

“Possiamo partire.”

“Sceriffo!” Maria lo aveva affiancato all’improvviso, “fucile o pistola?”

Gli mostrò entrambi gli articoli, come se si stesse occupando di distribuire colazioni per una gita.

L’uomo allungò un braccio, afferrando il lungo Winchester dall’aria vissuta. La donna accompagnò la sua scelta con una malnutrita scorta di proiettili.

“Non sono molti ma…”

“Credo che nemmeno un arsenale servirebbe a proteggerci dalle Ganasce di Atlanta.”

Raddrizzò il tiro dell’infelice battuta con un mezzo sorriso, ma probabilmente fece peggio che meglio. Maria lo conosceva da anni e sapeva con certezza che un sorriso di Fury nei momenti di difficoltà stava solo a sottolineare la reale portata della sua gravità.

La vide incupirsi appena, ma non rispondere.

“In bocca al lupo.” Allora fu lui a mettere fine al silenzio.

“Ci rivediamo più tardi, sceriffo.” Nello sguardo una richiesta che non ammetteva repliche, pretendeva che si rivedessero alla fine di quella giornata.

La guardò scappare via, a concludere quella sua folle distribuzione. Tenace e determinata come quando l’aveva conosciuta. La seguì con lo sguardo affettuoso di un padre – a riconoscere che, se nella vita non aveva mai avuto modo di crearsi una famiglia… una figlia… in un certo modo, l’aveva sempre avuta – finché non sentì aprirsi il portellone del carro armato. A ridestarlo da quell’attimo di sdolcinata debolezza. Borbottò qualcosa di poco garbato sulla scarsa accessibilità del mezzo e finalmente cominciò l’arrampicata.

In qualsiasi modo sarebbe finita… quello sarebbe stato l’ultimo giorno in cui si sarebbe preoccupato per lei.

 

*

 

Atlanta

 

Atlanta faceva schifo esattamente come la ricordava.

La lenta processione sulla macchina ultramoderna di Stark, alla ricerca delle Ganasce apparve da subito lunga e snervante.

Strade polverose, silenziose e deserte, palazzi abbandonati e grigi che si stagliavano al di sotto di un cielo ora blu cobalto. Impietoso. Se solo pensava di essere stato lì, meno di due settimane prima…

Se solo pensava a com'era cambiato tutto, radicalmente, in due misere settimane.

Serrò la presa sul suo arco, come a trarne tutta la forza di cui aveva bisogno. L’arco di Barney. Lungo e affusolato. Più pesante, meno maneggevole del suo. Ostico da sempre, il suo utilizzo. Una scelta azzardata. Che non aveva condiviso con nessuno… ma se quello poteva davvero essere l’ultimo giorno della sua vita (perché nessuno aveva indorato la pillola sulle possibili conclusioni di quella missione), lo avrebbe vissuto combattendo al fianco dell’unica cosa che gli ricordava il fratello. Un modo come un altro per tenerselo vicino. Per arrivare alla fine. Insieme.

Allungò la mano e raccolse quella di Natasha, seduta accanto a lui.

 

*

 

Rialzò lo sguardo solo quando si sentì prendere la mano.

Per un attimo fu tentata di liberarsene. Aveva i palmi umidi di sudore e non voleva che Clint se ne accorgesse. Che fraintendesse. Ma quando fu certa che l’uomo non avrebbe dato importanza alla cosa, lo lasciò fare, traendo il giusto conforto dalla sua stretta calda e rassicurante.

Sentiva la testa pulsare sotto il peso dell’afa di quella tarda mattinata di mezza estate, il cranio sembrava compresso in una morsa invisibile e opprimente.

Aveva fatto colazione, preso la sua insulina… ma le dosi le erano risultate da subito fastidiose. Che qualcosa fosse cambiato nel suo metabolismo? O forse era solo la tensione di quell’assurda giornata.

Aveva cercato di ricacciare indietro quella fastidiosa sensazione di nausea e in parte ci era riuscita, per poi sentirla tornare tenace e violenta dopo il lungo viaggio in macchina verso Atlanta.

Aveva portato a termine spedizioni pericolose in condizioni ben peggiori di quelle.

Decise di non preoccuparsi troppo.

Inspirò a fondo e lanciò uno sguardo a Stark, seduto di fronte a loro, al posto di guida. Il guantone abbandonato al suo fianco, come una protesi robotica.

 

*

 

Tony si soffermò solo per un istante a guardare Clint e Natasha dallo specchietto retrovisore: si tenevano per mano.

E il suo pensiero corse esattamente dove non avrebbe dovuto spingersi.

Pepper si era svegliata a fatica quella mattina. Il tempo di comunicarle che avrebbe dovuto partire immediatamente per Atlanta e poi aveva dovuto abbandonarla.

Si era agitata per tutta la notte, il suo corpo aveva bruciato di febbre e delirio fino al mattino. Le sue condizioni, stabili ormai da giorni, erano di nuovo precipitate. Come se il suo corpo stesse reagendo al tracollo degli eventi. Sapeva quanto assurdo suonasse, ma tutto sembrava aver trovato una convergenza in quel preciso avvenimento.

Sapeva di dover restare lucido. Sapeva di non dover pensare a lei. A Pepper ci avrebbe pensato al suo ritorno. Aveva persino minacciato Selvig e Jane se le fosse capitato qualcosa. E Happy di fare le sue veci nel caso in cui…

Ma sarebbe tornato. Non lo aveva forse promesso?

No. Forse se lo era solo immaginato.

Sbuffò qualcosa asciugandosi il sudore della fronte, accelerando appena, evitando di fare rumore.

Il lento dondolio del carro armato alle loro spalle. E il motore della macchina che guidava Maria, al suo fianco, che trasportava le bombe. Accanto a lui, il respiro pesante del gigante biondo.

 

 

*

Nessuno si era dato la pena di chiederglielo… ma a Donald la brusca piega che avevano preso gli eventi aveva fatto più male che a chiunque altro.

C’era il senso di colpa per aver trascinato Loki come serpe in seno a una comunità di gente… per bene. Condita dalla vergognosa tenacia con cui si era schierato sempre e comunque dalla sua parte.

E poi c’era la delusione bruciante nell’apprendere di aver riposto una fiducia del tutto istintiva in un individuo che sì, a malapena conosceva ma che, chissà perché, non aveva mai esitato un istante a trattare da amico. Senza mai ricevere in cambio lo stesso riguardo.

Eppure… persisteva un ignobile contrasto che lo spingeva a credere, o forse solo sperare, che Loki avesse agito in quel modo per motivi che nessuno di loro… avrebbe saputo interpretare. Ma che affondavano le radici in qualcosa di profondo e non così vile o perverso come appariva.

Ma forse era solo un’illusione.

Una parola che gli avevano cucito addosso da quando era ragazzino.

Thor l’illuso.

Aveva ingoiato troppi bocconi amari per poterne digerire altri. Distolse l’attenzione da Loki, pensando a Jane che lo avrebbe atteso al ritorno. Magari avrebbe dovuto baciarla prima di partire.

Strinse fra le mani quello strano aggeggio di Stark e un grosso martello. Le armi da fuoco non gli erano mai piaciute.

Guardò il carro armato virare verso una via secondaria e poi tornò a prestare attenzione alla strada di fronte a sé.

 

*

 

Fury parlava di un palazzo dai muri di mattoni rossi. Dalle scale esterne scrostate e un bar dall’insegna colorata.

Steve non vedeva niente di tutto ciò sul loro tragitto, ma aveva promesso di seguire le direttive dello sceriffo e non aveva cuore di contraddirlo.

Nonostante tutto quello che la gente potesse credere sul suo conto, obbedire agli ordini gli costava più di quanti sforzi gli servissero per darne. Riuscire a organizzare in così breve tempo la partenza per Atlanta lo aveva riempito di uno strano e pericoloso orgoglio.

Soprattutto quando si era scoperto quasi eccitato all’idea di correre incontro alla conclusione di quella sgradevole faccenda.

Una volta qualcuno gli aveva detto che non avrebbe saputo vivere senza un obiettivo. Senza l’adrenalina di una battaglia. Senza riuscire a dare l'ennesima prova del suo valore.

Bè, quella persona forse aveva sempre avuto ragione.

E a quanto pareva era appena tornata dal mondo dei morti per mettere un freno a quel suo eccesso di superbia.

Peggy.

Forse era solo un caso di omonimia. Forse era inutile che sperasse. Quella mattina aveva ritardato le operazioni solo nella speranza di veder arrivare le truppe d’assalto con lei a condurre la spedizione.

E non per la necessità assoluta di rinforzi, no…

Si sentì uno sciocco. Cercò di impedirsi di dare troppo credito alle sue speranze, alle sue illusioni.

Il cuore nel petto, però, era diventato più pesante del passo stanco e cadenzato dei cingoli del carro armato.

 

*

 

Il rumore di ossa spezzate, il disgustoso pantano di sangue e interiora, di cervelli liquefatti, di crani sbriciolati. L’odore putrescente di carne che ha preso a marcire da giorni.

Banner, il mostro, se ne era sbarazzato, aveva liberato lo spazio.

Si era accasciato con la schiena al muro, il respiro pesante, frastagliato; seduto su una pila di Ganasce ormai estinte per sempre. Fra le ossa e il marciume, fra la puzza e l’orrore.

Le mani che avevano distrutto, quelle mani enormi e disumane, ora sorreggevano delicatamente un corpo esanime: la pelle... bianca come neve. Gli occhi chiusi. Il respiro inesistente. Le labbra dischiuse in un’ultima, sgomenta esclamazione. Un solo filo di sangue le scorreva sul mento e poi giù sulla camicetta bianca quasi quanto la sua pelle.

La sollevò fino a portarla all’altezza del suo viso. Un viso deforme, mostruoso. Per contemplarla così come la ricordava mentre dormiva.

Per la prima volta sentì il peso di quello che stava osservando.

Un dolore tangibile e greve all’altezza del ventre.

Quando sentì montare una nuova, smisurata ondata di collera, un unico grido scaturì da quelle sue raccapriccianti labbra.

Riecheggiò per le strade, rimbalzò sui muri dei palazzi, il rintocco a lutto del suo dolore.

 

___

 

Note:

Ebbene sì, la corsa finale è finalmente iniziata, e mi sembrava giusto o doveroso farlo con una carrellata conclusiva con tutti gli Avengers più conosciuti (quelli dell’MCU, se non altro).

Loki è impazzito definitivamente e gli altri cercheranno di limitare i danni. Le sorprese non sono finite comunque. Che si tremi per la sorte di chiunque – parte la risata satanica.

Come sempre ringrazio tutti quanti commentano o leggono solamente questo delirio, alla mia socia e beta Sere e… come sempre (salvo imprevisti) ci si risente la prossima settimana.

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 ***


CAPITOLO 26

 

Le uniche persone che conoscono la pietà sono quelle che ne hanno bisogno.

(Musica per organi caldi – Charles Bukovski) 

 

*

 

Il carro armato si era fermato a qualche passo di distanza da una distesa di Ganasce… morte.

Definitivamente morte.

Rogers era voluto scendere solo per constatare davvero che quelle cose che stavano schiacciando come gusci di noccioline, ma con un rumore ben più disgustoso, fossero davvero Ganasce.

Fury invece sapeva.

Sapeva perché aveva visto quel luogo. Ripescato dai recessi della sua memoria onirica, era sicuro di aver visto quel sangue. Quel disgustoso spettacolo che, evidentemente per buone ragioni, aveva tenuto relegato in un angolo ben nascosto della sua coscienza.

“Che schifo…” sentì dire a Sam che aveva seguito il suo capitano. Fury esitò solo un istante prima di sporgersi dal portello e dare uno sguardo tutt’intorno.

La disposizione, la luce, lo scenario tutto… identico a quel suo incubo. O quella sua visione. Aveva dormito durante il tragitto? O aveva visto… cose?

Ormai era sceso a patti con il fatto che era diventato una sorta di santone o qualche altra stronzata del genere, tipo Gandalf, Merlino o qualcosa di simile. Stabilito che non si trattava di una sorta di perversa schizofrenia… si supponeva che: Eliminato l'impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.*

Una cosetta che diceva in epoca vittoriana quel tizio inglese con la pipa.

Doveva pensare di farne un suo personale motto.

Scese a fatica dal carro armato per seguire con lo sguardo la distruzione. Il come fosse successo divenne dolorosamente chiaro solo quando Rogers trasse la sua più logica conclusione.

“Banner deve essersi trasformato di nuovo…”

La violenza con cui aveva dato sfogo alla sua rabbia però sembrava ingiustificata persino per qualcuno di quella mole.

Uno stuolo di cadaveri si disperdeva lungo tutta la via. Schizzi di sangue, ossa e materia grigia coloravano strade e muri come un macabro graffito, tracciando un quadro rappresentativo dei tempi che stavano vivendo.

Gli tornò in mente un ragazzino che aveva sorpreso a ridipingere i muri della centrale di polizia, una notte di ronda. Una sfida al potere, alle autorità, sfacciata e pericolosa.

L'aveva lasciato andare con un ammonimento, ma la settimana successiva si era ritrovato una caricatura gigante su tutto il muro retrostante la centrale.

Pensò che, nonostante il naso da porco, fosse un ritratto ben riuscito.

Quasi gli era dispiaciuto doverlo coprire.

Tornò alla realtà solo per trovarsi di fronte un paio di Ganasce completamente incastonate nel muro. Spiaccicate alle pareti come mosche morte.

No, decisamente non un murales che sarebbe valso la pena conservare.

Il fatto di non provare più nemmeno il senso di nausea costante che lo aveva invaso sin dai primi giorni del contagio alla vista di quelle teste di morto ambulanti, gli dette un’avvisaglia piuttosto chiara di come ormai tutto quello fosse diventato la normalità.

Gli sembrò naturale. Mostruosamente naturale.

Percorse un lungo tratto di strada, alla ricerca. Dopotutto il sogno lo aveva condotto fino a lì, sarebbe stato sciocco interrompere le ricerche per via di un tappeto di marciume umano.

Proseguì, riconoscendo le insegne dei negozi: il barbiere con l’insegna tricolore, il ristorante etnico sull’angolo. La fila di lavanderie. Lo studio dentistico e il giornalaio. E infine, svoltato l’angolo, la sensazione di essere ormai vicinissimo al luogo in cui i suoi sogni stavano cercando di condurlo divenne vividissima.

Vivida come il sospetto che non avrebbe trovato qualcosa di gradevole. Che fossero arrivati tardi, troppo tardi.

Il suo unico occhio sano venne attratto da subito dall’unica figura compostamente adagiata su una fila di cassonetti chiusi. Candida come un fiocco di neve su quel tappeto rosso sangue.

Il cuore perse un battito.

Il passo era ancora incerto, la schiena ancora irrigidita, ma per le sue percezioni gli sembrò di mettere le ali ai piedi.

Ignorò il grido di Rogers alle sue spalle, in corsa (o quasi) verso l’obiettivo.

La consapevolezza, atroce, che quella fosse Betty.

Il puntino che diveniva sempre più grande. La sua postura esanime, la sua immagine che diveniva nitida e concreta.

La raggiunse in un lasso di tempo che gli sembrò dilatato, rallentato. Con le ultime energie la trasse giù da quell’altare improvvisato per tenersela vicina, mentre il cuore, ora martellante nel petto, gli rammentava che ancora c’era vita, in quel suo vecchio e miserevole corpo.

“Sceriffo!” la voce di Rogers sempre più vicina e i passi in corsa di quattro gambe.

“Oh, dio del cielo, è morta?” la delicatezza di Wilson.

Fury osservò il volto pallido e le labbra violacee. Ignorò i richiami, le voci, i suggerimenti.

Accostò la testa al suo petto, le tastò il polso e attese.

Attese, senza respirare, di percepire un segno. O l’assenza di esso. E si rese conto di aver trattenuto il fiato l’esatto istante in cui aveva capito che anche Betty lo faceva.

Poi avvertì un tremito. Remoto. Un battito.

Debole e cadenzato. E la speranza si riaccese in petto come una fiamma.

Il mondo riprese a correre al suo naturale ritmo e Nick alzò lo sguardo su Rogers.

“Invece di fissarmi come due allocchi, qualcuno di voi la sa fare la respirazione bocca a bocca?”

Sam sembrò muoversi per primo, mentre Rogers lo aiutava ad alzarsi.

“Che diavolo è successo qui?” esalò mentre Wilson infilava, a forza di respiri, la vita in Betty Ross.

“Loki. E si è portato via la bambina.”

Rogers lo stava osservando con un altro sguardo. Forse con la reverente consapevolezza che tutti gli indizi che gli aveva propinato non erano proprio frutto della follia di un vecchio.

“Vuole dire che è stato Loki a fare questo a Betty?” domandò.

Fury non rispose, lasciando che fosse l’eloquente silenzio a parlare per lui.

Era stato Loki. Loki che perdeva il senno. Loki che decideva di liberarsi del suo unico problema. Loki che ormai era andato a finire in un luogo senza ritorno.

Possibile che, oltre alla connessione con Betty, adesso fosse anche consapevole di quello che passava per la testa di quell’uomo?

Possibile che… fosse in grado di trovare anche lui, se solo si fosse concentrato?

La tentazione di provare fu grande. Di chiudere gli occhi e lasciarsi trascinare in luoghi estranei e forse  pericolosi.

Sentì il tremore di una sordida paura pervaderlo. A titillargli la coscienza a ondate. Se era la propria o quella dell’uomo che stavano cercando non seppe dirlo.

Proprio quando gli parve di essere risucchiato in un tunnel senza ritorno, un colpo di tosse e un respiro sforzato lo strapparono dal sogno per riportarlo bruscamente alla realtà.

“È viva!” la voce di Sam.

Betty Ross aveva riaperto gli occhi.

 

*

 

Maria aveva parcheggiato la macchina con gli ordigni dentro la hall dei laboratori scientifici.

Sif non era in grado di guidare e si era lasciata allegramente scarrozzare, decidendo consapevolmente di poter fare la sua parte solo in quel modo.

Stark si era assicurato di far loro capire i punti strategici dove infilare le bombe per dare a tutte le Ganasce lo spettacolo pirotecnico che si erano attesi.

Le bombe erano brutte, ma maneggevoli. Una l’avrebbero lasciata al centro dell’atrio, le altre due avrebbero trovato rispettivamente il loro posto nell’ala ovest e nell’ala est.

Stark si sarebbe preoccupato di attivarle a tempo debito con un marchingegno a distanza, una volta raccolte nell’atrio un numero sufficiente di Ganasce per sperimentare il botto.

Semplice nella spiegazione, Sif sperò lo fosse altrettanto nell’esecuzione. Non negava di provare un certo nervosismo nell’apprendere che le sorti conclusive dell’operazione sarebbero state nelle sue mani.

Più Ganasce sarebbero riusciti a far fuori, meno ne avrebbe avute a disposizione Loki per il suo esercito.

“Ci dividiamo, Sif. Hai con te la pistola?”

Gliela mostrò, alzando la mano libera: “Non aspettiamo gli altri?”

“Dobbiamo piazzare le bombe, Stark si dovrà occupare di altro; prima le abbandoniamo nelle stanze assegnate, prima riusciremo a portare il nostro culo lontano da qui.”

Sif, annuì, tenendo saldo sulla schiena lo zaino che conteneva l’ordigno numero due della distruttiva collezione.

“In bocca al lupo, allora.”

“Crepi. E in culo alla balena a te, Maria.”

La sentì ridere: “E che diavolo dovrei rispondere a una cosa simile?”

“Speriamo che caghi?”

“Oh… bene. Allora speriamo che… caghi.”

Sif le rivolse un sorriso prima di prendere la strada indicata.

Come le avevano suggerito, cercò di orientarsi con le cartine che erano state sapientemente sistemate sulle pareti.

Si trovava nel blocco A, avrebbe dovuto recarsi nel blocco C per essere esattamente nel punto in cui le avevano ordinato di essere.

I corridoi erano lunghi e scarsamente illuminati. I vetri impolverati non facevano passare con agilità tutta la luce del sole. Filtrava in modo sinistro, illuminando a tratti più o meno luminosi i dintorni. Salvo per quelle finestre rotte o insanguinate che avevano subito la furia della prima esplosione.

Quel posto doveva ormai essere abituato alle deflagrazioni.

Singolare come la prima, ormai mesi prima, avesse contribuito a diffondere il virus nel mondo e come ora una seconda esplosione sarebbe forse servita a sterminare gli stessi prodotti che aveva creato.

Ci vide una sorta di giustizia divina. Cercando di omettere il fatto che non sarebbe stata un’operazione per nulla definitiva.

Svoltò l’angolo, superando il blocco B. Lo schiocco delle mascelle lo anticipò ancora prima che la Ganascia entrasse nel suo campo visivo. Estrasse un coltello a lama lunga e glielo conficcò nel cervello senza che questi avesse anche solo la benché minima avvisaglia di non essere il solo a scorrazzare per i corridoi.

Lo lasciò ricadere a terra, lieta di non aver usato istintivamente la pistola. Attrarre altre Ganasce ora non le serviva. Più tardi avrebbero fatto piazza pulita.

Svoltò di nuovo l’angolo e si trovò improvvisamente di fronte la grossa lettera C del nuovo blocco raggiunto.

Sorrise compiaciuta di essere arrivata alla meta senza troppe difficoltà.

Certo, il bello doveva ancora venire, ma almeno il suo compito, questa volta, sarebbe riuscita a portarlo a termine con successo.

Aprì le porte tagliafuoco che cigolarono in modo sgradevole, catapultandola in un grosso salone. Una sala convegni o qualcosa di simile. File di poltroncine rosso fuoco, a non finire, che culminavano in un largo palco dotato di podio e leggio.

Si addentrò cautamente fra le file di poltrone, il vento sibilava dalle finestre aperte, provocando cigolii di assi che, come gemiti, riempivano il salone.

Controllò minuziosamente fra ogni fila, ogni passo che la conduceva al palco. Pensò che quello sarebbe stato il posto perfetto per piazzare l’ordigno. Un palco: degno del capitolo finale di quello spettacolo.

Da quella sala, sulle vetrate di sinistra, si poteva vedere il grosso parcheggio antistante i laboratori e, oltre quello, il viale principale dal quale avrebbe dovuto riversarsi l’orda.

Raggiunse i tre scalini che l’avrebbero condotta più in alto, quando un cigolio – ben diverso dagli altri – attirò la sua attenzione.

Puntò la pistola in quella direzione, proprio sulla porticina che portava dietro le quinte o alla cabina della regia.

Posò senza fretta l’ordigno a terra, decisa ad essere più libera possibile per qualsiasi cosa sarebbe uscita da lì.

Prima che potesse fare anche solo un passo da quella parte, ecco che esplose un gemito e poi un pianto. Che sembrò scaturire dalle profondità stesse del palazzo.

“Loki…” i suoi occhi dardeggiarono sulla figura che adesso le veniva incontro. Le braccia strette attorno a quell’esserino lacrimevole che riconobbe immediatamente.

I piani non erano andati esattamente come si era attesa, ma improvvisamente vide concretizzarsi un’opportunità. Sciocca e infantile, ma pur sempre un’opportunità che non poteva lasciarsi scappare, sempre che si fosse comportata con circospezione e senza eccessivi colpi di testa.

“Dunque alla fine avete ceduto.” Lo sentì pronunciare, ma la sua voce aveva un che di estraneo, profondo e gracchiante. Qualcosa che non riuscì a riconoscergli subito.

Arretrò senza nemmeno registrarlo prima di rendersi conto che non solo la voce in Loki era mutata, ma anche qualcosa nella sua postura, sulla sua pelle, che se prima era solo pallida, adesso aveva assunto un colore grigiastro… cereo, come quello di un… cadavere.

“Siete venuti tutti? O hanno mandato solo te… come vittima sacrificale?”

Ma fu solo quando fu sul punto di rispondere mentre Loki non le era che a pochi passi di distanza che Sif si rese conto che quello che le faceva tremare le gambe e la stava costringendo alla resa, non era la voce, non l’aspetto, ma lo sguardo.

Nel profondo di quei suoi occhi una volta glaciali ma vividi, adesso non riusciva a scorgere niente.

Due biglie di ghiaccio, cariche di nulla.

Calamitata da quegli occhi, dalla profondità di quei due tunnel senza fine, la paura si tramutò in attrazione, si sentì precipitare in un luogo senza nome. Trascinata nello stesso oblio che sembravano ispirare.

La presa alla pistola cedette appena, il respiro dell’uomo ormai a un passo. Se lo sentì addosso, nella pelle, nelle ossa… desiderando improvvisamente di concedersi a quello stato di completo abbandono, dimenticando il pianto di Erin, la missione, il senso di colpa o di dovere.

Fu solo grazie al provvidenziale intervento dell’ordigno che aveva piazzato a terra che venne strappata da quel senso di completa perdizione.

Un suono diffuso e acuto le trafisse i timpani. Il prolungato segnale acustico ebbe l’effetto di un calcio nello stomaco e quando recuperò coscienza, si trovò a stringere fra le dita i cavi della bomba.

Con orrore si rese conto di averla innescata contro il suo controllo. Stark le aveva raccomandato di non toccare il filo rosso. Ed era proprio quello che adesso stringeva fra le mani. Il display con il countdown era come impazzito. Non un briciolo di logica nel suo rapido incedere e retrocedere.

Quando rialzò lo sguardo verso Loki – che sorrideva beffardo – era di nuovo abbastanza lucida da capire cosa doveva fare.

Era stato lui. Non sapeva come, ma era stato lui a indurla a compiere un gesto tanto sconsiderato. Che il giorno in cui aveva dato il suo sangue in dono alle Ganasce si fosse assicurato anche un pezzo della sua coscienza? Non un minuto di più, però, avrebbe speso a ragionarci su. Non ora che sembrava aver recuperato il possesso di sé.

Nuovamente padrona dell'arma che aveva stretta fra le mani, la puntò sull'uomo. Il colpo partì prima che potesse prendere realmente la mira. Il proiettile andò a colpire Loki alla spalla.

Lo vide barcollare e poi allargare le braccia. La bambina, in balia della gravita, cominciò a precipitare.

Le sembrò di essere finita in un moviola dove vedeva se stessa recuperare l'equilibrio e lanciarsi letteralmente in direzione della piccola.

Le braccia si allungavano, arrivavano a recuperare Erin che le inondò le orecchie di pianto.

Con la bambina stretta al petto, fece vagare lo sguardo verso le finestre: un'orda di Ganasce stava entrando nel piazzale.

Quanto tempo le sarebbe rimasto?

Provvidenziale o meno, comprese immediatamente quello che doveva fare: lasciò Loki a sgocciolar sangue e imprecazioni e cominciò a correre.

 

*

 

Le strade di Atlanta erano sinistramente quiete.

Natasha e il gruppo attira-Ganasce avevano lasciato la macchina fuori dai parcheggi dei laboratori di ricerca, mentre Sif e Maria spingevano quella con gli ordigni oltre le porte dell’ingresso principale.

Avevano viaggiato per miglia senza incontrare le orde che si erano attesi di trovare.

Solo qualche Ganascia qua e là che non avevano trovato difficoltà a mettere a dormire per sempre.

Natasha cominciava a spazientirsi. E sebbene non lo dessero a vedere anche gli altri sembravano stanchi e sfiduciati.

Il pensiero assillante che Loki li avesse in qualche modo ingannati (giusto per rendere onore al suo nome) stava logorando la coscienza di chiunque, nel gruppo.

Sperò che il piano di Stark funzionasse a dovere. O che, quantomeno, una volta entrati nella struttura riuscissero ad attirare davvero qualcosa da far esplodere.

Certo avrebbero avuto il tempo di piazzare le bombe e attivare qualche allarme ma…

Il flusso di pensieri tutt’altro che positivi cominciò a vacillare improvvisamente.

Quando tutto cominciò con un tremito.

“Lo sentite anche voi?” la voce di Clint alla sua sinistra.

Che sembrava originarsi dalla terra stessa.

“Un terremoto… ?” l’azzardo di Stark.

Successivamente era arrivato il grido, innaturale e feroce come quello di una mostruosa fiera.

E infine ne riconobbero il passo.

“Banner.”

Natasha strinse la pistola nella mano, un brivido gelido a correrle giù per la schiena, mentre l’ombra gigantesca alle loro spalle ne anticipò tragicamente l’arrivo.

Il mostro verde comparve nel loro campo visivo ancora prima che potessero realizzare concretamente il pericolo.

“CORRETE!” esclamò Thor che aveva chiuso la fila fino a quel momento e che adesso si affrettava ad aprirla.

Stark, alle loro spalle, aveva messo in funzione il guantone; ma, come per la volta precedente, risultò assolutamente inutilizzabile con il dottore.

Da quel momento in poi fu solo caos.

Natasha non aveva fatto altro che assecondare l’istinto, quello di sopravvivenza. Avevano già avuto a che fare con la furia del gigante verde, ma niente li aveva preparati a quell’evento proprio nel bel mezzo di un’altra crisi.

Era convinta che non si sarebbe più trasformato. Chissà come mai.

Deviò per una delle strade secondarie, verso il parco accanto ai parcheggi, tenendo il passo degli altri, cercando di ignorare il diffuso malessere che non aveva deciso di graziarla in quel lasso di tempo.

Alle loro spalle il tonfo sordo e cadenzato dei grossi piedi non si era chetato; al contrario, sembrava essere diventata più tenace la sua determinazione a raggiungerli.

Rallentò senza quasi registrarlo, fino quasi a fermarsi. La nausea risalì in un lampo dalle profondità del suo stomaco.

Si fermò solo quando fu certa di non poter più trattenere l’esplosione imminente.

Si accasciò contro un albero, senza poter fare nulla se non vomitare, lì, esattamente dove i suoi piedi si erano arrestati.

Lo stomaco in uno sconquasso di muscoli e poi il respiro affaticato alle sue spalle.

Quando si volse, la mano che si asciugava le labbra, fu il volto del mostro che si trovò di fronte.

L’istante successivo, scansò di lato la furia di uno dei suoi possenti pugni.

Vide foglie e rami precipitarle di fianco, mentre rotolava a terra e tentava pateticamente di rimettersi in piedi.

Barcollò per un istante prima di avvertire un nuovo cambio di atmosfera, l’aria che si spostava sotto la forza di un altro attacco.

Di nuovo riuscì a scartare di lato, ma inciampò giusto un attimo prima di riuscire a completare l’azione.

Il mostro riuscì a colpirla di striscio, mandandola a sbattere contro uno dei cancelli di recinzione.

“M-merda…” il fiato le uscì in un sibilo al contraccolpo e con orrore si rese conto di non riuscire a rimettersi in piedi. Lo stordimento del colpo e…

La caviglia le si era rigirata in modo innaturale e il dolore che si irradiò per tutta la gamba le suggerì che, se non proprio rotta, doveva essersela almeno slogata.

Sentì di nuovo i passi in corsa e sul viso il respiro rancido di quell’essere. Cercò di ragionare più rapidamente possibile, di concretizzare le idee, un contrattacco, una difesa, ma si rese conto che la paura le stava cominciando ad annebbiare la mente. Una sensazione che ricordava di aver provato così nitida solo all’inizio di quell’assurda epidemia. Il non riuscire a controllare l’ignoto.

Quell’essere gigantesco e mostruoso non aveva niente a che fare con tutto ciò con cui si era scontrata fino a quel momento.

Qualcosa con cui non poteva confrontarsi sul piano fisico, qualcosa con cui non poteva confrontarsi sul lato umano…

Eppure, intrappolato in quel corpo doveva ancora esserci il dottor Banner. Nascosto e minuscolo, sotto strati di muscoli e ossa… ma vivo e presente.
Spaventato e disorientato tanto quanto lei.

Irraggiungibile?

Improvvisamente decise che doveva tentare. Per quanto assurdo e pericoloso fosse, non era forse stata la stessa Betty a raccontar loro che, per tutto il tempo in cui l’aveva tenuta prigioniera, si era sempre comportato bene con lei? Che le aveva procurato del cibo, che aveva provveduto a modo suo… al suo benessere?

Come poteva essere fatto solo d’istinto un essere che dietro quella maschera di rabbia e furore trovava ancora la forza di dimostrare compassione umana?

Riaprì gli occhi che aveva tenuto chiusi fino a quel momento, in attesa del colpo decisivo o forse per vincere il terrore. E se lo vide arrivare addosso dall’altra parte della strada.

“Dottor Banner!” esclamò, rivolgendoglisi per la prima volta, diretta e determinata. Assolutamente incerta di quella sua improvvisa e folle decisione. Ma che altro le restava?

Il miracolo avvenne a un passo dall’ennesimo schianto. Lo vide fermarsi ed esitare, come se il solo fatto di essere stato chiamato per nome fosse un’assoluta, attonita novità.

Natasha, ancora contratta nella paura di aver sbagliato tattica, sentì un rantolo uscirle dalle labbra. Quando capì che non l’avrebbe attaccata, non subito almeno, sentì la tensione scivolarle gelida giù per le spalle.

“Dottor Banner… mi riconosce?”

Lo sentì stronfiare qualcosa e muovere la testa, come per liberarsi da un rumore molesto.

Tentò di rimettersi in piedi con scarsi risultati: quando ebbe il timore di cadere e di compiere un movimento brusco ci rinunciò, rimettendosi a sedere.

“Bruce…”, riprese cercando un tono più confidenziale, pacato, “puoi capirmi, vero? So che puoi capirmi…” tentò di nuovo.

E ancora il mostro, confuso e spaesato, mosse la testa, stavolta però puntandole contro uno sguardo che sembrava essersi placato da quell’ira istintiva.

“So che sei lì dentro. E so che puoi capirmi…” riprese, “s-siamo qui per aiutarti. Per aiutare te e aiutare…”.

“Natasha!” un grido al suo fianco, spezzò bruscamente quel momento e il mostro grugnì qualcosa, disturbato da quel precario stato di calma.

Di nuovo il panico assalì Natasha che rivolse a Clint uno sguardo atterrito. Lo vide mettere mano ad arco e frecce e puntare contro Banner.

“NO!” gridò, mentre l’essere confuso da quei richiami aveva cominciato ad arretrare. Indeciso se prendersela con lei, con Clint o con entrambi.

“Bruce, Bruce, guardami! Nessuno ti farà del male…” di nuovo cercò di rimettersi in piedi. La nausea ancora più forte, il dolore alla caviglia lancinante, “siamo qui per aiutarti. Per trovare… Betty. Betty Ross… la conosci no?”

Alla sola menzione della donna il mostro emise un ululato. Dolente e acuto come quello dei lupi. Per un attimo vide di nuovo accendersi nel suo sguardo la rabbia e poi qualcosa si spezzò nella sua espressione.

“Natasha…” riuscì a sentire il richiamo appena accennato di Clint, che attendeva, che non aveva scagliato il colpo.

Gli fece cenno di attendere, di aspettare. E, nella tensione di quell’interminabile attimo, vide il mostro portarsi le mani sul viso, retrocedere, inciampare e cadere a terra con un tonfo sordo, come se non fosse più in grado di sopportare il peso di quelle parole, di quel dolore incomprensibile.

Improvvisamente il miracolo avvenne, proprio lì, sotto i loro occhi.

Videro il mostro accartocciarsi, farsi piccolo. Le lunghe braccia, le gambe muscolose, le mani enormi rattrappirsi, ritirarsi, come un palloncino che si sta lentamente sgonfiando.

Il colore della pelle tornare roseo, forse un po’ pallido.

L’istante successivo era il dottor Banner l’unico essere rimasto. Nudo come un verme e intorpidito come appena uscito da un mostro di cemento verde. Facendosi strada con le unghie, con i denti.

Natasha rilasciò il fiato, sgonfiandosi a sua volta, ricadendo seduta, stremata. Il dolore diffuso per la botta, la caviglia, la nausea.

Clint le fu accanto in un istante.

“Stai bene? Che ti ha fatto?”

“Niente… non mi ha fatto niente.” E sebbene sapesse che non era del tutto vero, non se la sentì di dare a lui la colpa di quello che era successo. “Non riesco a camminare bene, ho inciampato…”

“Come diavolo hai fatto?” le chiese, indicando Banner che si muoveva lentamente di fronte a loro, raccogliendo da terra brandelli di vestiti.

“Non ha importanza…” sussurrò lei, “non è lui il m-mostro di cui dobbiamo avere paura.”

Clint fece una smorfia e l’aiutò a rimettersi in piedi.

“Dottore… dobbiamo andarcene da qui.” L’avvisò notando la sua espressione disperata ed esausta insieme. Non gli rispose, ma si rese conto che stava silenziosamente soffrendo.

“Banner.” Fece con voce più ferma, prima di vederlo drizzare le orecchie e puntare lo sguardo in un punto ben preciso.

Fu in quell’istante che anche Natasha le sentì.

Schiocchi. Schiocchi di mascelle in movimento. Migliaia di mascelle…

“Barton, Romanoff, state bene?” Stark era arrivato a dar loro man forte. Natasha pensò solo che doveva aver corso un bel po’ veloce per averli superati di così tanto, “oh… e il dottor Banner… che è solo… il dottor Banner. Nudo. Ma che cavolo è successo… ?”

“Non c’è tempo per le domande, Stark, stanno arrivando.” Gli annunciò insistendo per camminare da sola. Ma Clint, che ormai aveva imparato a capirla più di quanto lei capisse se stessa, non la lasciò andare.

“Arrivando?”

Dallo sbocco dei parcheggi gli schiocchi delle mascelle presero consistenza. Una decina di Ganasce e poi un’altra dozzina e dietro di loro chissà quante altre – in lenta, maleodorante processione – si stavano riversando nel piazzale, tutte ardentemente dirette a loro.

“Oh… loro. Loro stanno arrivando”, sembrò sul punto di imprecare, ma poi fece un gesto vittorioso, “Finalmente! Ma dove cazzo se ne sono state nascoste fino ad ora?”

“Muoviamoci. Aiuta Banner.”

Stark si prodigò malvolentieri come bastone d'appoggio, aiutandolo almeno a sistemarsi addosso quello che restava dei suoi pantaloni semidistrutti: “Dottore, sono qui per aiutarla, mi raccomando nessuno scherzo.”

Ma l’uomo non sembrava intenzionato a opporre resistenza, e nemmeno a rispondere o dare loro il suo aiuto. Spento, come una miccia esaurita.

“E Thor che fine ha fatto?”

“E chi lo ha visto più quello? Con o senza motocicletta, il gigante biondo ha le ali ai piedi.”

Si affrettarono, per quanto possibile, a muoversi nella direzione opposta alle Ganasce.

All’ingresso dei laboratori di Atlanta, dove Sif e Maria li stavano già aspettando.

Forse non era tutto perduto.

 

___

 

*Citazione da Sherlock Holmes: Il Segno dei quattro, di Arthur Conan Doyle.

 

Note:

Visto che alla fine non sono poi così crudele con i personaggi? È anche vero che ancora non è finita qui però.
Il pezzo Natasha/Bruce è una mia liberissima rivisitazione di Age of Ultron. Nessuna ninna nanna d’Egitto. Solo una connessione umana. Che Natasha ha intuito ma che poi potrebbe essere in grado di fare chiunque. Quindi no, non è un’esclusiva femminile, quella di riuscire a placare Hulk. Il resto mi sembra tutto abbastanza chiaro. Siamo sempre più vicini alla fine e ringrazio sempre sentitamente chiunque passi di qui, tutti quelli che mi lasciano un parere, che mi fa sempre tanto piacere e, come sempre, la mia preziosa socia e beta! Per ora è tutto, alla prossima settimana.

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 ***


CAPITOLO 27

 

“Allora idioti primitivi, sturatevi le orecchie! Vedete questo? Questo è... il mio ‘Bastone di Tuono’! È un Remington a doppia canna, calibro 12, il migliore del mio supermercato, lo si trova nel reparto caccia e attrezzi sportivi.”

(L’Armata delle Tenebre) 

 

*

 

L’armata delle Ganasce era straordinariamente riuscita a non deluderli.

Frotte più o meno consistenti di marciume su due piedi si stavano avviando come in processione religiosa, con tanto di tenebrosi cori di morte, proprio verso i laboratori scientifici. Attratti dal loro profumo di carne ancora fresca, ma soprattutto viva.

Non fosse che la situazione poteva dirsi altamente drammatica, Stark si trovò ad associare l’avvenimento a uno di quei filmacci di Sam Raimi. Con meno umorismo. E più puzza. Decisamente più puzza.

Il pannello di controllo del sistema di sicurezza dei laboratori scientifici, come previsto, non funzionava. L’intera rete nazionale aveva smesso di funzionare da giorni e non era mai stato più felice di aver recuperato quello sgangherato generatore portatile, raccattato in un qualsiasi negozio depredato, dopo la sua fuga da Malibù.

Collegarlo alla rete principale per attivare l’allarme era un gioco da ragazzi, peccato che il tempo stringesse, scandito dai passi in marcia delle Ganasce e, cosa non meno importante, Maria che starnazzava loro che Sif sembrava essere svanita nel nulla.

Proprio tutto ciò di cui avevano bisogno in quel momento.

“Che qualcuno vada ad accertarsi che stia bene. Che sia almeno riuscita a piazzare la bomba!”

La testa china, mentre armeggiava con l’impianto.

“Avresti dovuto dare anche a lei una ricetrasmittente, Stark.” Si lamentò la Hill, mentre ricaricava l’arma che aveva portato con sé.

“Ho solo tre ricetrasmittenti, Hill!” esclamò riemergendo dalla sua postazione disagiata, sudato e innervosito, “Una l’ho data a Rogers, una l’ho tenuta io e una ce l’hai tu. Non avevo materialmente tempo per soddisfare tutte le esigenze di questa squadra! Ho costruito tre bombe, due bastoni repellenti, sto cercando di attivare un allarme per attirare tutte le Ganasce del circondario in questo posto! Non ti sembra sufficiente? Un minimo di riconoscenza sarebbe gradita!”

“Siete seri… ?”, adesso ci si metteva anche la rossa di capelli, che per pallida e zoppa che fosse, si chiese che apporto avrebbe potuto dare.

“Ci vado io.” Barton se non altro sembrava avere più iniziativa. Meno polemiche, più azione.

“Grazie.” Disse solo, bruscamente, tornando ai suoi marchingegni.

Se tutto fosse andato come doveva, da lì a poco avrebbero avuto un allarme tonante a richiamare chiunque, nell’arco di miglia. Avrebbero intrappolato lì dentro le Ganasce e se ne sarebbero scappati dalla porta secondaria, fuggendo per i corridoi, fino a tornare nel piazzale.

Recuperare la macchina e schizzare il più lontano possibile, prima della deflagrazione.

Un piano che a parole funzionava alla grande, ma che con tutta quella tensione aveva cominciato a suonare un po’ troppo disperato per i suoi gusti.

Si chiese se non fosse stato un azzardo quello di pensare di potersi liberare così agilmente di un intero branco di Ganasce, se non si sarebbero potuti limitare a trovare Betty e la bambina. A dare un pugno in faccia a Loki o freddarlo con un proiettile in fronte. Lasciare Atlanta alle Ganasce e correre verso il tramonto dopo una rocambolesca fuga e fottersene del resto.

Eppure qualcosa gli raccontava una storia diversa. Qualcosa gli suggeriva che quella era l’unica degna conclusione di quella storia. Come tirare le fila di un discorso aperto da troppo tempo.

Una celebrazione. Finire con il botto, in tutti i sensi per avere una sorta di liberazione.

Cosa avrebbero ottenuto – a parte negare a Loki la soddisfazione di averli in pugno – non era sicuro di poterlo dire, di certo avrebbero potuto vantare un jackpot di Ganasce uccise. Sfidare chiunque altro, in tutti gli Stati Uniti… o in tutta l’America o – perché no? – il mondo intero, a fare di meglio.

E proprio sull’onda di quel pensiero la ricetrasmittente che lo teneva in contatto con Rogers prese a gracchiare.

“E adesso che cazzo succede?” fece cenno alla Hill di occuparsi della chiamata, mentre cercava di capire cosa non funzionasse nelle sue operazioni e perché quel dannato allarme non si mettesse in funzione.

“Il segnale è disturbato.”

Nel momento esatto in cui Maria pronunciava quelle parole, Stark riuscì a stabilire un contatto. Una sorta di Eureka, gli si materializzò in cima alla testa a mo’ di onomatopea: l’allarme era pronto.

“Maria, il tuo compito qui è concluso, perché non ti porti dietro la Romanoff e Banner e non cominciate ad allontanarvi da qui?”

“E Sif?”

La risposta gli rimase impigliata sulla lingua, fra le labbra, perché quando si volse per rispondere, ecco che Sif, in carne ed ossa, sembrò apparire dal niente, in cima alla breve rampa di scale che portava al blocco C.

“Appena in tempo per unirti al party!” esclamò rimettendosi in piedi, rianimato finalmente di un briciolo di quella positività che gli avrebbe consentito di riportare le sue chiappe sane fuori da quel macello.

Il sorriso si spense lentamente solo quando realizzò ciò che la donna reggeva fra le braccia. Una serie di lamentosi vagiti e le braccine che si muovevano nell’aria. La figlia di Betty. La figlia del dottor Banner.

“Hai trovato la bambina…” esclamò Maria, la prima ad avere una reazione semi sensata a quell’avvenimento del tutto casuale.

Sì, perché per quante coincidenze potessero accavallarsi nel corso di una vita, quell’unica le avrebbe certo superate tutte.

Ancora indeciso su come esordire a riguardo si rese improvvisamente conto di qualcosa che prima non aveva notato: lo sguardo della donna. Vitreo, opaco, privo di qualsiasi guizzo di vitalità. O lucidità.

Sif teneva la bambina stretta fra le braccia ma non sembrava rendersi conto del disagio che questa sembrava avere nei suoi confronti.

“Dovreste lasciar perdere…” esalò la donna, con una voce che improvvisamente sembrava non appartenerle.

“Sif, che ti succede?” sempre Maria, l’unica a sembrare provvista di parole in quel particolare momento. Banner fissava la scena pietrificato, forse a malapena intuendo ciò che stava osservando.

Stark, dal canto suo si sentì gelare il sangue nelle vene al modo in cui la donna aveva preso a scendere le scale. Movimenti lenti, meccanici, come un burattino che viene tenuto in piedi da una schiera di fili invisibili.

Posseduta.

Una parola che in genere associava giusto ai film horror o qualche filmetto porno di bassa lega, ma di certo mai gli sarebbe venuto in mente di paragonarlo a qualcosa di reale.

Eppure Sif era così che gli appariva: posseduta, in balia di qualcosa che stava moderando le sue mosse, le sue parole.

“Sif…”

“Lasciatela parlare.” Esordì finalmente, scavallando i tentativi di Maria, avanzando di mezzo passo, solo per avere una visuale migliore della stanza, “perché pensi che dovremo lasciar perdere?”

“Perché il piano che avevate in mente è destinato a fallire.” Sif avanzò di nuovo, lo sguardo ora puntato nella sua direzione. I lunghi capelli neri che sfuggivano a una coda di cavallo malfatta.

“Ne sembri sicura: perché?” alzò una mano nella sua direzione, come volesse spronarla a parlare e al contempo intimarla a lasciar andare la bambina. Improvvisamente non gli ispirò alcun tipo di sicurezza. Come se Erin fosse finita fra le braccia del lupo, più che dell’amorevole fata madrina.

“Perché una delle bombe è stata manomessa, potrebbe esplodere da un momento all’altro”, disse, “e perché Loki non ve lo permetterà.” E come ispirato da quelle parole e dal vago cenno della donna che suggeriva uno sguardo alle finestre verso l’esterno, Stark voltò la testa per guardare.

Le Ganasce che fino a quel momento si erano spinte verso il piazzale sembravano aver azionato una ritirata. Come se qualcuno stesse intimando loro di stare alla larga.

Cominciò a pensare che il potere di quell’uomo fosse diventato ben più spaventoso di quanto si fosse immaginato. Certo, Sif aveva raccontato loro di come fosse stato in grado di comandare a bacchetta un paio di Ganasce, ma vederglielo fare con un gruppo tanto consistente fu uno shock.

Improvvisamente si sentì imprigionato in qualcosa di più grande di quanto avesse preventivato. Si erano scioccamente, ingenuamente lanciati in una missione che non avrebbe lasciato loro alcuno scampo. Se non fossero state le Ganasce a ucciderli, sarebbero state le bombe.

Improvvisamente ebbe la certezza di dover fare qualcosa, e il primo pensiero razionale che gli suggerì il cervello fu quello di creare un diversivo. Un diversivo che magari gli avrebbe permesso di prendersi cura di quella bomba compromessa. Magari non avrebbe loro assicurato una fuga sicura, ma non si poteva cominciare qualcosa se non un poco per volta.

Si lanciò letteralmente sull’allarme, tirando la leva.

“No!” esclamò qualcuno, mentre il rumore di uno sparo riempiva l’aria.

 

Per una frazione di secondo non accadde null’altro che quello, ma poi la sirena dei laboratori di Atlanta prese a riecheggiare con forza fra quelle quattro mura, e poi fuori, verso il piazzale e infine nei parcheggi a rimbalzare da una Ganascia all’altra. Loki da qualche parte, doveva aver accusato il colpo perché le Ganasce si fermarono, indecise se proseguire la ritirata o lasciarsi attrarre dal segnale.

Stark pensò di aver se non altro vinto quel primo match, ben lungi dall'essere arrivato alle battute finali di una guerra, ma improvvisamente meno lontani dalla vittoria di una battaglia.

Si rese conto solo in quell’istante del fiotto caldo che gli stava imbrattando il colletto della camicia. E l’odore di bruciato, proprio sotto al naso, maleodorante come tabacco stantio.

Sentì le ginocchia cedere sotto il peso di quello che credeva solo un banale calo di pressione.

Maria stava gridando qualcosa. Barton era già al suo fianco.

Con la mano andò a toccare qualcosa di viscido, proprio sotto al collo. Un solco, di carne viva e flaccida, che stillava sangue come una fontana.

Improvvisamente gli venne da ridere.

Non gli zombie, non le bombe, ma il pungiglione penetrante di una pallottola.

Dopotutto si era proprio preoccupato per niente.

 

*

 

Natasha aveva intuito quello che stava per succedere nel momento esatto in cui Stark si era allungato per attivare l’allarme.

Adesso le orecchie pulsavano, la sirena era dolorosamente attivata e l’uomo era steso al suolo, apparentemente privo di vita.

Quando si volse in direzione di Sif, si rese conto che la donna stava fissando la scena con la placida calma di un burattino. Non un solo segnale che fosse rimasta scossa da quel gesto sconsiderato.

Un nuovo moto di nausea l’assalì, sentì i ricordi di una vita passata riaffiorare con violenza quasi brutale. Di come quando, solo quattordicenne, l’avessero obbligata a compiere il suo primo omicidio; di come, inebetita da massicce dosi di droga, le avessero attutito lo shock; di come quel trauma, in realtà, non lo aveva mai superato veramente.

Le tornò in mente quella chiacchierata con Sif, solo qualche giorno prima, del fatto che avrebbe dovuto preservare la sua innocenza. Di come invece Loki o chissà che maleficio avesse operato su di lei, avesse di fatto disintegrato quella promessa.

Oltre alla nausea ora le si stava agitando dentro una sordida rabbia che improvvisamente mutò in un’ondata di collera, vivida massiccia, quasi palpabile.

Non riuscì nemmeno a stupirsi, quando Banner al suo fianco, cominciò a piegarsi, vinto da spasmi incontrollabili.

Stupidamente pensò che era esattamente così che si sentiva. E invidiò profondamente l’uomo per avere quella concreta possibilità di sfogo.

Tornò lucida l’istante successivo, quando sentì Clint urlare il suo nome.

Il tempo di alzare la testa e Banner si ergeva in tutta la sua massiccia mole, i muscoli di nuovo esplosi in quella massa informe, dal colore olivastro, mostruosa e distruttiva.

Arretrò istintivamente, mentre la rabbia che solo un momento prima sembrava dominarla si trasformava di nuovo in paura. Quella disonesta paura che le attanagliava le viscere al solo pensiero di non poter dominare la furia di quell’evento. Così come non avevano potuto fare nulla contro la tempesta che aveva infuriato ad Atlanta solo un paio di settimane prima, così come non aveva potuto controllare l’impulso che l’aveva spinta nelle braccia di Clint Barton.

Paure, che si sovrapponevano l’un l’altra. Il terrore di non poter fare altro che lasciarsi trascinare, senza possibilità di appiglio.

Vide Banner prendere la rincorsa, caricare sui poderosi polpacci prima di spiccare letteralmente il volo.

Natasha cadde al suolo, mentre il mostro, ignorandola, non aveva fatto altro che superarla, per andare a rivendicare ciò che gli era stato finora negato.

“Dottor Banner, no!” ebbe appena il tempo di gridare, prima che il rumore ovattato di una scarica di proiettili si andassero a spegnere in rapida sequenza. Prima che la mano del mostro andasse ad abbattersi sulla povera Sif che venne letteralmente scaraventata lungo l’atrio, dopo un volo che avrebbe potuto risultare fatale a chiunque.

Natasha cercò di concentrarsi, di ignorare la vista che si faceva sempre meno lucida, della nausea, sempre presente, sempre lì a ricordarle di quanto fosse precaria e fragile la sua presenza in quel posto. Di come fosse stata fortunata ad arrivare fino a quel punto.

Sentì lo scoppio di pianto della bambina. La sirena che continuava a sfogare i suoi lamenti, lo schiocco delle Ganasce in avvicinamento.

Il mondo aveva preso una strana inclinazione quando riaprì gli occhi, senza nemmeno essersi resa conto di averli chiusi, per dominare il malessere.

Trasalì.

Banner le stava di fronte. Il viso largo e deforme, che la stava fissando a meno di una manciata di centimetri. Gli occhi, piccoli e scuri, erano carichi di una lucidità che non aveva mai avuto modo di analizzare. Le mani enormi stringevano fra le dita un esserino minuscolo che lacerava i timpani a furia di strilli.

Sgranò gli occhi per la sorpresa, quando lo vide muovere le labbra e formulare parole che non si era certo attesa di sentire.

“Prendi… lei”, disse. La voce profonda, vibrante come fosse scaturita da immensi abissi.

Le allungò la piccola, invitandola a prendersene cura.

Natasha non riuscì a fare altro che accettare quella responsabilità come qualcosa di assolutamente unico e prezioso.

“Bruce…” mormorò appena, ancora tremante, prima di vederlo rimettersi in piedi, ed ergersi in tutta la sua altezza. Il petto trafitto da microscopici fori di proiettile.

Lo vide dirigere lo sguardo verso l’esterno e muovere i primi passi in quella direzione, per poi fermarsi nel punto in cui aveva scaraventato Sif: straordinariamente la donna era scomparsa. Una striscia di sangue si spingeva oltre la soglia e poi fuori dall’edificio. Come trascinata all’esterno da una forza sconosciuta. Lo vide voltarsi appena prima di uscire, probabilmente per l’ultima volta.

“Porto… loro… qui.” Scandì, prima di fissare lo sguardo sul gruppo rimasto. E improvvisamente Natasha capì cosa voleva fare: dar loro una mano, portare a termine la missione, concludere l’opera che avevano messo in piedi.

Lo vide muoversi a grandi passi verso l’esterno e di colpo capì che anche lei doveva fare qualcosa.

Così come un tassello di un puzzle, ognuno avrebbe dovuto portare a termine un pezzo di quell’operazione. E se Stark adesso era al tappeto, stava a lei concludere e sistemare quel tassello.

“Maria… prendi la bambina”, disse, reggendosi a malapena sulle gambe, inghiottendo rumorosamente, ricacciando indietro la nausea, racimolando le ultime energie rimaste.

La donna non si fece pregare due volte, mentre Clint, ancora accanto a Stark, le rivolgeva uno sguardo confuso.

“Uscite da qui…” mormorò ben consapevole del peso della sua pazzesca decisione.

“Che stai dicendo? E tu?” lo sentì pronunciare, indeciso se lasciar andare Stark e le mani che premevano disperatamente sul collo lacerato e sanguinante dell’uomo.

“C’è una bomba da sistemare.”

“E tu che ne sai di bombe?”
“Ben più di quanto tu possa immaginare, Clint.” Ribatté vagamente spazientita, per poi placarsi rapidamente, cercando di ricacciare di nuovo indietro l’ondata di malessere.

“Potrebbe esplodere da un momento all’altro, lo hai sentito anche tu!”

“Potrebbe. O potrebbe non farlo affatto”, esalò con una sorta di placida rassegnazione, “e allora tutto quello che abbiamo fatto fino ad ora, non sarebbe servito a nulla.”

Guardò Clint negli occhi e seppe che aveva compreso che aveva ragione. Che se non avessero distrutto i laboratori con tutte le Ganasce che erano riusciti a trascinare fin lì, Loki li avrebbe avuti in pugno, avrebbe impedito loro di fuggire, avrebbe avuto il potere di dominarli, di intrappolarli, di ucciderli, uno per uno. Avrebbe avuto la sicurezza di essere invincibile.

“Vengo con te.” Le disse allora, facendo per scostarsi da Stark. Ma Natasha gli fece cenno di rimanere dov’era, di non abbandonare l’uomo.

Fu lei ad avvicinarsi, ad inginocchiarglisi di fronte.

“Maria non può portare fuori la bambina e Stark contemporaneamente. Hanno la priorità.”

“Fra poco questo posto sarà stracolmo di Ganasce.” Insistette l’arciere, cercando di attirare di nuovo la sua attenzione.

“Vorrà dire che dovrò fare in fretta.”

“Se non sarai fuori tra dieci minuti, verrò a riprenderti.”

“Tra dieci minuti ti voglio il più lontano possibile da qui, Clint.” Ribatté con stizza affatto preventivata. Possibile che non capisse? Che tutto era stato predisposto? Che il suo compito era quello di occuparsi di Stark e della bambina, non di lei.

Lo vide scuotere la testa, lo sguardo carico di cupa opposizione.

“Non puoi chiedermi di farlo.” Adesso la voce gli tremava e sì sentì stringere lo stomaco. Una sensazione dalla quale non poteva lasciarsi sopraffare.

“Credevo che ti fidassi di me.”

“Lo faccio, ma…”

“Me la caverò, Clint. Non devi preoccuparti.”

“Stai pronunciando il mio nome un po’ troppe volte per impedirmi di preoccuparmi.”

Non volle sentire una parola di più e si chinò su di lui per catturare le sue labbra e impedirgli di aggiungere altro.

Si chiese se avrebbe avuto la possibilità di rifarlo.

Un pensiero rapido che volle scacciare, per non rovinare il momento, prima di lasciarlo andare definitivamente.

“Dieci minuti…” disse lui.

“… il tuo culo lontano da qui.” Aggiunse lei, prima di rimettersi in piedi.

“In bocca al lupo, Romanoff…” pronunciò Maria, allungandole la ricetrasmittente e guantone anti Ganasce, sicura che sarebbero certo stati più utile in mano sua che a Stark ormai.

Natasha non rispose. Annuì, una sola volta, ringraziandola tacitamente. Poi prese a correre verso il blocco C.

Il cuore batteva troppo rapido, il respiro era affettato. La nausea mai placata. Ma non si fermò.

Non si voltò a guardarli andare via.

 

*

 

Il rumore assordante dell’allarme, come un richiamo, come un trapano che gli impediva di agire, di pensare.

Come fosse riuscito a uscire dal palazzo non gli era chiaro. Sapeva solo che dopo aver perso di vista Sif, aver perso di vista la bambina, si era lasciato guidare dalla voce silenziosa delle Ganasce. Lungo i corridoi secondari della struttura e poi fuori, sul piazzale. Infine nascosto nella radura di un parco. Dove le voci, il cinguettio degli uccelli e il silenzio solo qualche minuto prima la facevano da padrone.

Si era accasciato al suolo, aveva ignorato il dolore al braccio, proprio lì, dove quella sciocca donna era riuscita a colpirlo, e aveva richiamato a sé tutto il potere che gli restava. Per impedire alle Ganasce di raggiungere i laboratori e restare intrappolate nella tela tessuta tanto abilmente dal gruppo della fattoria.

Ma poi quell’allarme aveva preso a suonare. E suonare. Disintegrando tutta la sua concentrazione.

Cercò di riportare a sé tutti i flussi mentali delle Ganasce, ma più cercava di imporre la sua volontà su di loro, più gli sembrava di sentirle sfuggire come acqua di un torrente.

Doveva solo concentrarsi. Concentrarsi e ristabilire il contatto.

Stabilire il contatto e sentirsi finalmente completo, di nuovo, così come si era sentito poco prima di sbarazzarsi di Betty, mentre stringeva il corpo della bambina fra le braccia. In un mondo dove non c’era dolore, rabbia, frustrazione. In un mondo in cui finalmente gli sembrava di appartenere.

Quando per un’intera vita si era sentito inadeguato, solo.

In quella nuova dimensione gli sembrava di fluttuare finalmente in un luogo che lo aveva atteso per anni.

Attorno a lui solo l’obbedienza delle coscienze di quelle che una volta erano state delle persone, adesso prive di qualsiasi sentimento umano. Incapaci di umiliarlo, giudicarlo.

E ora stavano cercando di portargli via anche quello. Non le sue ambizioni: quelle gli erano sembrate stranamente futili, inadeguate, quando si era reso conto di stringere fra le mani qualcosa di ben più importante. L’annullamento di tutta quell’umanità che lo aveva sempre reso fragile, inutile, vittima.

Stavano cercando di portargliela via e non lo avrebbe permesso. Avrebbero pagato quella sfida con le loro vite.

Oh, se solo fosse riuscito a ricacciare indietro quel rumore assordante, quel dolore lacerante, proprio al centro del petto.

Cercò di concentrarsi, di non dargliela vinta. Cercò di agganciarsi a un flusso, per quanto flebile fosse, di una delle Ganasce più vicine e, proprio mentre gli sembrò di essere vicino a stabilire di nuovo un qualche tipo di contatto… ecco che una voce risuonò persino al di sopra del boato di quelle sirene.

“Loki!”

Una voce che avrebbe riconosciuta fra mille. La prima voce dopo la sua scarcerazione.

Improvvisamente era di nuovo lacero ed esausto in mezzo a una strada deserta del Maine, dove tutto era cominciato.

Thor era di fronte a lui e brandiva quello che aveva tutta l’aria di essere un martello.

Ha intenzione di piantarmi un chiodo in fronte, con quello? Si ritrovò a pensare, un’ondata di sarcasmo che pensava di aver perduto per sempre.

Ricordò improvvisamente una delle loro prime conversazioni. Ricordi. Stupidi ricordi.

Lo fissò per qualche istante, senza riuscire a dissimulare il malessere che gli attanagliava le membra.

“Mi sembrava fossi tu, ma non ne ero sicuro…” lo sentì pronunciare, quel tono da professorino pronto a darti una lezione non richiesta. O forse se lo stava solo immaginando, forse non voleva guardare oltre quella coltre per non scorgere la compassione nello sguardo dell’uomo.

“Perché  mi trovi meglio… di quando ci siamo lasciati?” pronunciò a fatica, con un sorriso stentato, che probabilmente assomigliava più a una smorfia.

“Perché credevo fossi anche tu una Ganascia…”

“La fai suonare… come… una… critica.”

“Loki…” sempre quel tono, sempre quella pietosa invocazione, “sei ferito?”

“Dovresti andartene, lo sai?” lo prevenne, prima che quella conversazione andasse a concludersi in un teatrino patetico, “dovresti… raggiungere i tuoi amici. Il loro piano… il loro piano ha funzionato. Siete riusciti a… vincere.”

“Non è mai stata una gara, fratello. E sei ancora in tempo… ancora in tempo per tornare sui tuoi passi. Non è successo ancora niente a cui non si possa rimediare.”

“Sai... fratello…” sorrise a quella parola. Di come quel gigante biondo si fosse sempre preoccupato di farlo sentire accettato, in quel suo ristretto gruppo di motociclisti prima, e alla fattoria poi, come se fosse quello il suo problema, “credevo che fossi solo un po’ stupido. Invece probabilmente sei solo troppo ingenuo. Un idealista… molto ingenuo”, socchiuse gli occhi, percependo di nuovo quel flusso tornare a circondarlo prepotentemente. La conversazione era riuscita a far deragliare l’attenzione da quell’allarme tonante e a riportarlo a una dimensione più silenziosa, quieta. Esattamente l’unica dimensione in cui voleva restare, per sempre.

“Non ho più bisogno di tornare. Non ho più bisogno di voi.”

Di nuovo quella presunzione, di nuovo quella stupida ossessione di formare un gruppo, una famiglia. Thor come Betty si aspettavano qualcosa da lui. Qualcosa che Loki non poteva o non voleva assicurare a nessuno. Adesso che aveva assaggiato il vero sapore dell’oblio, della perdizione, del perdono di tutte le colpe, di quella obnubilante follia che gli impediva di provare la benché minima preoccupazione umana, non sarebbe tornato indietro. Non per invocare un perdono che non sentiva di dover chiedere. Non per ottenere un riconoscimento. Non più.

Gli bastava navigare nelle acque torbide di quel suo straordinario potere. Essere finalmente in pace.

“Le persone vive, hanno bisogno dei vivi, Loki.”

“Credevo avessi appena detto che mi pensavi una Ganascia…”

“Loki…”

“Questo mondo non è più dei vivi! Non lo è più da un pezzo!” esclamò rabbioso, cercando di mantenere attiva quella corrente che finalmente era riuscito a riagganciare.
Il fremito di tutti quei neuroni in movimento che defluivano solo ed esclusivamente ad animare i muscoli a rinvigorire l’unico istinto: nutrirsi, cibarsi.

Si rimise in piedi a fatica, lo sguardo fisso, ormai lontano da quel luogo. Colmo del coro che diveniva un’unica voce. A lasciarsi trascinare di nuovo in quel calmante oblio.

“Avresti dovuto andartene… quando eri ancora in tempo per farlo.” Sussurrò solo, prima che la sicurezza di averle di nuovo tutte in pugno non si fece concreta, “non sei nemmeno il peggior essere umano che mi sia capitato di incontrare.”

E proprio mentre l’ultimo fiotto di coscienza mortale tornava a tormentarlo – il rammarico di aver sempre e solo cercato il suo posto nel mondo, di averlo rivendicato con tutto ciò che aveva a sua disposizione – eccolo che scivolava via per liberarlo di tutto ciò che era stato e di tutto ciò che avrebbe potuto essere. Le Ganasce cominciarono la loro lenta processione verso l’ultima, definitiva battaglia.

 

Sentì solo l’urlo rabbioso di Thor, adesso circondato, niente di più che una delle tante vittime sacrificali di quel mondo ormai privo di umanità.

Il martello che si dibatteva nell’aria, il rumore di tutte quelle mascelle in movimento.

 

___

 

Note:

Lo dicevo io che non bisognava dare nessuno per morto… o per vivo, in anticipo.

Novità tante. E Banner/Hulk ha finalmente incontrato la sua bambina. Sebbene la situazione non sia esattamente delle migliori.

Lo mettiamo in piedi il toto morte? Chi sarà il prossimo?

Scusate, non ho resistito. As usual ringrazio tutti quanti. A chi recensisce e chi legge soltanto e la mia insostituibile socia e beta, Sere.
Alla prossima. Sì, il prossimo sarà il penultimo capitolo! Yay.

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 ***


CAPITOLO 28

 

“Errando col pensiero per l'Universo, vidi il poco che è Buono procedere con moto costante verso l'immortalità, e il vasto tutto che è Male correre a fondersi, perdersi, dileguare.”

(Walt Whitman) 

 

*

 

Il professor Selvig era sempre stato un grande estimatore dei sigari.

Quelli buoni, cubani, in foglie, dal sapore forte e deciso.

Amava definirli la sua sofisticata droga settimanale. Alla fine di una giornata particolarmente intensa, fra le quattro mura del suo appartamento a Manhattan, si concedeva un’intensa serata in compagnia del fidato amico Montecristo e un bicchiere di whisky, quello buono. Irlandese, non quella dozzinale merda americana.

Ma da quando era iniziata quella fastidiosa epidemia, sigari e whisky erano diventati un lusso che non era più riuscito a concedersi. Nemmeno per celebrare la fortuna di un giorno in più concessogli su quella terra dimenticata da Dio.

Per quel motivo, quando aveva trovato delle piantine dall’aria piuttosto famigliare sul retro della fattoria, si era animato di una certa letizia nel constatare che forse non sarebbe riuscito a farsi un Habanos come si deve, ma se fosse riuscito a nasconderle da occhi indiscreti e metterne da parte una certa dose, gli sarebbero tornate utili in futuro.

E quel giorno pensò che fosse esattamente dell’umore adatto per utilizzare quella sua scorta personale.

Era dagli anni settanta che non fumava marijuana.

 “Che stai facendo zio?”

La voce della nipote lo fece trasalire appena. Le dita strette attorno a una cartina che non ne voleva sapere di chiudersi come si deve, le stanche membra a riposo sulla panchina del porticato della fattoria.

“Qualcosa per rilassarmi.”

Sorrise all’idea che solo qualche mese prima probabilmente sarebbe inorridito nel farsi sorprendere dalla nipote, che praticamente aveva cresciuto come un padre, a rollarsi un glorioso spinello.

“Dimmi che non stai tentando di fumarti della cicoria.”

“Per chi mi hai preso, Jane? Sono figlio del sessantotto. Delle rivolte studentesche, della protesta contro la guerra in Vietnam…”

“Dei pantaloni a zampa d’elefante e di Woodstock?” lo avvicinò, divertita da tutti quei cliché, prima di sederglisi di fianco, “di certo non un esperto di sigarette fatte in casa.”

Gli sottrasse lo spinello dalle mani e lo osservò con una certa curiosità.

“Dove hai trovato delle foglie di marijuana?” si sorprese, lanciandogli uno sguardo assurdo.

“Sul retro della fattoria. Prima dell’uragano. Ho pensato di spostare le piantine, prima che qualcuno come Stark potesse trovarle e diventare ancora più eccentrico di quanto già non sia.”

“Che uomo egoista…” disse solo, vedendola armeggiare con la cartina con mani esperte, fino a restituire una sorta di dignità a quella che adesso sì, che si poteva definire canna.

Gliela mise sotto al naso a sbandierargli in faccia che no, non era una figlia del sessantotto ma qualcosa doveva averla imparata anche lei, durante gli anni dell’università.

Si rese conto solo in quel momento che Jane aveva l’espressione tesa di chi non dorme da giorni. In effetti non c’era altro che potessero fare se non tormentarsi per le sorti del gruppo in spedizione ad Atlanta.

Erano partiti da ore e, per quello che gli era dato sapere, potevano essere già tutti morti. Nessuna esplosione aveva riempito l’aria, nessun segnale, nessun messaggero di ritorno dalla missione.

Odiava dover fare la parte del pessimista, ma le speranze si erano rivelate flebili nel momento in cui si erano avviati verso la città degli zombie. Più probabile che trovassero una cura al virus che trasformava gli esseri umani in Ganasce entro sera, che non vederli rientrare in tempo per cena.

Questo però si premurò di non comunicarlo a Jane, che non aveva fatto altro che sospirare per tutto il tempo, con lo sguardo rivolto alla strada che costeggiava la fattoria.

A pensare a quel Thor… Thor, come il dio del tuono di cui aveva sentito raccontare fino alla nausea  a causa dei suoi natali svedesi. Che si era portato dietro niente meno che un fardello di nome Loki.

Il dio dell’inganno, il quale si era proprio impegnato per non smentire la sua fama.

“Vedrai che tornerà.” Si sentì in dovere di dirle, di rassicurarla, mentre prendeva la prima consistente boccata di fumo. Tossì un paio di volte a quel sapore forte e deciso. Non quello di un cubano, ma abbastanza violento da non lasciar scampo a quei suoi vecchi polmoni. Decise di passare il testimone.

La vide stringersi nelle spalle e raccogliere l’offerta dello spinello già acceso che desiderava solo di essere fumato.

“L’avresti mai detto che sarei finita a sospirare sulla veranda di una fattoria, desiderando il ritorno di un uomo?”

“Bè, prima di fissarti con la scienza avevi una buona collezione di romanzi della Austen.”

“La Austen celebrava donne forti e indipendenti.”

“Che finivano più o meno tutte con l’ingabbiarsi in un matrimonio.”

“Per scelta, per amore, non per obbligo o convenienza.”

“Dovrei rileggermene qualcuno…”

“Invece di fumarti le canne.” Gliela ripassò però, sicura che non avrebbe rifiutato.

“Allora non è così disonorevole aspettare che ritorni”, constatò guardandola, “di questi tempi… aspettare il ritorno di qualcuno è un lusso ben più prezioso di un sigaro cubano.”

Le sorrise e sebbene l’apprensione non si fosse ancora estinta dagli occhi della nipote fu certo di vederle brillare qualcosa di positivo nello sguardo.

Decise che annebbiare un po’ la mente avrebbe fatto bene a entrambi. Dimenticarsi degli studi sulle Ganasce, delle condizioni precarie della povera Virginia al piano di sopra, della spedizione suicida della squadra, dell’impossibilità di essere d’aiuto sul campo, dell’idea che la razza umana non sarebbe sopravvissuta per vedere un altro Halloween, giorno del Ringraziamento, Natale, Capodanno.

Prese un’altra boccata, felice di non dover sputare i polmoni questa volta.

“Zio, questa roba finirà con l’ucciderci.” Sentì sbottare la nipote, rilassandosi sulla panca.

“Se non lo faranno prima le Ganasce…”

Risero entrambi, sentendo che il fumo benefico di quell’innocente intrattenimento cominciava a fare lentamente effetto.

Una sonnolenza pacifica cominciò a pervaderlo nel momento stesso in cui un grosso polverone si sollevava sulla statale che affiancava i campi di grano antistanti la fattoria.

“Che diavolo è?” esclamò Jane che sembrava reagire decisamente meglio all’effetto della droga.

Cercò di rimettersi seduto per bene, di recuperare una sorta di dignità, prima che un numero indefinito di camionette si riversasse sulla strada polverosa della fattoria e poi nel cortile, disperdendo i pochi volatili rimasti nel circondario.

“Sono tornati?” esalò rimettendosi faticosamente in piedi, mentre Bess e gli altri ospiti della fattoria accorrevano per sbirciare che stava succedendo.

Nessuno degli uomini che stavano lentamente affollando lo spazio, però, sembrava assomigliare anche solo vagamente ai loro amici partiti in martirio verso Atlanta. Armati fino ai denti, come un esercito di Rambo moderni.

E la donna che stava venendo verso di loro a passo deciso a tutto sembrava assomigliare fuorché a Sif, Maria o alla giovane Natasha.

A uno sguardo più attento gli sembrò di riconoscerle cucita addosso l’uniforme dell’esercito americano.

“Per tutte le regine d’Inghilterra…”

Esclamò.

La donna si fermò a pochi passi da loro, guardando i dintorni con una certa curiosità.

“Finalmente vi abbiamo trovati. Non eravamo sicuri che il segnale arrivasse da queste parti. Tenente Margaret Carter”, gli allungò una mano, “piacere di conoscervi.”

Erik Selvig fu più che convinto che conservare le droghe per quel giorno fosse stata la decisione più saggia che avesse mai preso in vita sua.

 

*

 

Stark era pesante.

Ma non più del macigno che gli gravava sullo stomaco.

I corridoi per uscire da quella trappola di cristallo sembravano essere infiniti. Come se il tempo si fosse dilatato in uno spazio in continua espansione.

La bambina non aveva mai smesso di piangere e, per quanto fastidiosi fossero quegli strilli, si sentì di non rimproverarle quel rumoroso segnale di protesta. Se ne avesse avuto la forza o anche solo l’irrazionalità per farlo, si sarebbe anch’egli messo a urlare.

Frustrazione, rabbia, preoccupazione.

Natasha era alle prese con una bomba che avrebbe potuto polverizzarla per sempre e lui stava scappando per impedire di venirne investito.

Aveva perso Barney. L’idea di poter perdere anche lei non la trovava concepibile, possibile. Per quanto ancora avrebbe dovuto continuare quel perverso gioco di probabilità?

Vediamo quante persone Clint Barton riesce a sotterrare, prima di arrivare lui stesso alla fossa!

E tanto per dirne una, anche Stark, ignaro di aver affidato a lui gli ultimi spasmi di vita, gli stava sfuggendo dalle mani. Non era sicuro che la pezzuola, già intrisa di sangue, che gli aveva legato attorno al collo sarebbe stata sufficiente a non farlo morire dissanguato.

Un’altra tacca alla sua classifica di morte.

Quando arrivarono all’uscita, si resero conto che la porta era sbarrata con una dozzinale catena. Maria scaricò un paio di colpi alla serratura prima di riuscire a incrinarla.

Clint completò l’opera con un paio di calci ben assestati.

La stanchezza, lo stress non sembrarono aiutarlo in quell'ultima impresa: attinse a quell’ultima spinta di adrenalina, prima che finisse per perdere per sempre la voglia di fare un altro passo.

Il grido della Hill – ormai fuori, all’aria aperta – ebbe il potere di mettergli di nuovo le ali ai piedi.

La donna era stata improvvisamente circondata. Quello che nessuno si era preoccupato di ricordar loro, quando avevano messo a punto quell’improbabile piano, era che il raggruppare così tante Ganasce tutte assieme avrebbe limitato di molto le loro possibilità di fuga.

Avrebbero potuto trovarsi braccati: fatto.
Circondati: fatto.

Intrappolati: fatto.

Nessuna alternativa avrebbe regalato loro una medaglia al valore. Al massimo un viaggio per direttissima nello stomaco di qualche Ganascia o, al peggio, un soggiorno di puro piacere nel mondo di Ganasciolandia. Cervelli ebeti e mascelle cadenti.

“Dannato Stark, quanto cazzo pesi!” esclamò, decidendo di optare per una semplice pistola per liberare Maria da quell’impiccio – impossibilitata a farlo da sola per via di quell’esserino urlante che non aveva pianto a quel modo nemmeno quando era stata silurata fuori dall’utero di sua madre.

Un ricordo ancora piuttosto vivido nella sua memoria.

Ne fece fuori un paio, poi un quintetto e poi ancora un trio, ma le Ganasce sembravano moltiplicarsi ad ogni passo che compivano per avvicinarsi alla macchina e più si avvicinavano, più Erin urlava. E più Erin urlava, più le Ganasce sembravano… vacillare.

Si rese conto solo dopo averne abbattute ancora un paio che, di fatto, sembravano come incuriosite dal pianto della bambina più che attratte dalla sua carne tenera di poppante.

Abbassò l’arma solo quando si rese conto che li avevano circondati, ma nessuna Ganascia azzardava un solo attacco.

“Che diavolo significa adesso questa roba?” si trovò a chiedere, trovando risposta solo nello sguardo altrettanto confuso di Maria.

“Con tutte le cose assurde che stanno succedendo in questi giorni… direi che questa… è quella che mi fa più piacere osservare…” la sentì dire, mentre arretrava e raggiungeva la macchina.

Ne aprì la portiera, indecisa se caricare la bambina o aspettare che fossero saliti tutti in macchina, prima di liberare le Ganasce da quel grido inibitore.

Clint si affrettò a raggiungerla, senza perdere di vista i mostri puzzolenti, ma ben felice di constatare che era vero: nessuno di loro sembrava più improvvisamente interessato a far loro del male.

“Sarà opera di Loki… ? Un altro dei suoi scherzetti?”

“Loki mi sembrava piuttosto impegnato a impedire alle Ganasce di entrare nell’edificio. Sembra… sembra che sia Erin… l’autrice di questa nuova stronzata.”

“S-sempre questo l-linguaggio.” Clint per poco non si lasciò sfuggire Stark dalle braccia quando lo sentì parlare.

“Grandissimo figlio di puttana.” Esalò mentre un moto di insensata gioia gli restituì un sorriso.

“E non o-offendere mia madre…” lo caricò sul sedile posteriore della macchina, cercando di sorreggerlo fino all’ultimo.

“Se hai ancora la forza di parlare non devi stare poi così male, no?”

“P-provaci tu… ad avere una pallottola… in g… g… g…”

“Gatto?” rispose, sollevandogli le gambe e controllando che la benda legata alla gola tenesse ancora.

“Ganascia.” Si intromise Maria, salendo sul sedile del passeggero con in braccio la bambina.

“No, per me voleva dire: Guantone. Spiacente Stark, credo che al momento sia più utile a Natasha che a noi.”

Richiuse la porta e rimase ad osservare il trio in macchina, le Ganasce ancora vacillanti tutt’intorno, in un pazzesco girotondo di marciume.

E, improvvisamente rianimato dalla speranza di aver rivisto quel fortunato bastardo di Stark ancora vivo dopo essersi beccato una pallottola dritta in gola, ebbe chiaro e nitido l’obiettivo che doveva portare a termine.

“Che stai facendo Barton? Monta in macchina.” Disse Maria, sporgendosi dal finestrino, con l’aria di chi non vede l’ora di levare le tende. A un passo dalla salvezza.

“Siamo venuti qui per una missione di recupero.”

“Sì, ma adesso che cosa c’entra?”

“Recuperare due persone per rimettere insieme il gruppo, non per permettere che venisse fatto a pezzi, un membro alla volta.”

“Barton, ancora non capisco che cavolo vuoi dire…”

“Vado a riprendere Natasha.”

“I laboratori saranno già affollati di Ganasce, come pensi di raggiungerla?”

“Nello stesso modo in cui penso di portarla fuori da lì.” Strinse istintivamente a sé l’arco e la faretra.

“Non basteranno le frecce che hai con te.”

“Chi ha detto di voler usare arco e frecce?”

Il grido di Banner, nei parcheggi dalla parte opposta della struttura, sfondavano il suono dell’allarme che non aveva ancora smesso di distruggere loro i timpani. E gli venne in aiuto per suggerire a Maria quello che aveva intenzione di fare.

“Se pensi di poter chiedere un passaggio a Banner…”

“Ci è riuscita Natasha, quanto difficile potrà mai essere?”

“Con tutto il rispetto, Barton…”

Le fece cenno di tacergli il resto: “Ti preferivo quando mi aiutavi a insultare Barney.”

La vide scuotere la testa, rassegnata.

“Immagino di non avere motivazioni sufficientemente buone per impedirti di farlo?”

Clint scosse la testa, la mente già nella stanza del blocco C, le mani in quelle di Natasha, la sua voce che lo insultava per non aver rispettato la promessa.

“Riportala indietro”, la sentì cedere allora, lo sguardo carico di accalorato sostegno “e cerca di tornare tutto intero. Ho paura ci sia ancora bisogno di almeno un Barton, a questo mondo.”

“Ne sei proprio sicura?”

La vide esitare solo per un istante: “Dimostralo.”

La vide cambiare di sedile, assicurare la bambina alla cintura di sicurezza e lanciargli un ultimo sguardo, prima di mettere in moto.

“Muovi il culo, Barton!” gli disse, prima di far partire la macchina, lontano da quel luogo carico di morte.

E… a proposito di morti…

“Ah, merda…” le Ganasce avevano ripreso a muoversi nella sua direzione, adesso libere dall’influenza di Erin.

Arco e frecce alla mano, Clint Barton cominciò a farsi strada fra quella folla di denti marci e budella al vento. A seguire la direzione del grido folle del gigante di giada alle prese con il lancio delle Ganasce.

 

*

 

“Non sono proprio sicuro… di essere sicuro, di vedere quello che sicuramente sto osservando”.

Fury ci mise un istante di troppo a capire quello che Sam stava dicendo.

Il cervello ormai era diventata una poltiglia liquida a furia di visioni e atmosfere da sogno.

Dopo aver ritrovato Betty e aver individuato Loki o la bambina, dopo essersi accertato che le visioni lo conducessero esattamente ai laboratori di Atlanta, era certo di aver esaurito tutte le sue energie per portare a termine l’operazione.

Però niente lo aveva preparato alla processione di Ganasce che sembravano scortare il carro armato in quella direzione e poi a ritrovarle tutte insieme, assiepate ai parcheggi dei laboratori scientifici come uno sciame d’api attratte dal miele… o peggio… a un ritrovo di fricchettoni durante il festival di Coachella.

Non di meno, a vederle volare una dopo l’altra all’interno della struttura dopo il lancio gentilmente offerto dal gigante verde che gridava e si dimenava al centro del piazzale.

“Ehi, quelli erano sicuramente cento punti!” di nuovo Sam, che sembrava aver trovato un candido intrattenimento a quello che avrebbe potuto essere considerato il peggior incubo di un essere umano…

“Stark e gli altri non rispondono alla ricetrasmittente.” Se non altro qualcuno come il capitano Rogers sembrava non aver perso di vista l’obiettivo, “sceriffo è sicuro che la figlia di Betty sia ai laboratori?”

Gli rivolse uno sguardo esausto. Esaurito, gli sarebbe piaciuto definirlo. Ma esausto rendeva comunque l’idea.

“Dopo questa, non sono più sicuro di niente, Rogers…” esalò, lanciando uno sguardo alla donna che dormiva lì accanto.

“Se tutto è andato come previsto… quel posto farà boom mooooooolto presto.” Aggiunse Sam, rientrando dal portellone, “che cosa vogliamo fare?”

L’impazienza nel suo tono non aiutava certo a mettere le basi per una fredda e calcolata pianificazione.

Cercò di pensare, Fury, di capire cosa fare, di arrivare a una soluzione grazie a coincidenze astrali del tutto fuori controllo; ma tutto quello che ottenne fu solo la percezione ben più concreta del suo mal di testa e quello che improvvisamente gli sembrò risuonare nel cervello come lo strombettio di un clacson.

“Credevo che le strade fossero affollate solo di Ganasce che non riescono più a capire quale sia l’utilità del pollice opponibile.” Commentò Sam, tornando a fare capolino fuori dal carro armato.

La sensazione successiva fu quella di ricevere una sberla a mano aperta sul viso.

“Erin…” pronunciarono le labbra di Betty, ancora incosciente al suo fianco.

Immediatamente dopo seguì il pianto di un bambino.

L'impressione fu quella di una doccia ghiacciata che gli attraversava tutto il corpo, a scivolargli giù per il collo, sulla schiena, nello stomaco.

“Ehi, qui fuori c’è la Hill che sta cercando di farmi capire quanto mi ami! Il suo dito medio alzato che vorrà dire?”

“Sono loro?” domandò Rogers al posto suo, mentre gli occhi dello Sceriffo lo seguivano, lo vedevano prender iniziativa e seguire il collega Wilson fuori da quella trappola di metallo e ruggine.

Improvvisamente, una sensazione di puro stordimento si impossessò di lui. Il cervello, ormai liquefatto da ore di opprimenti visioni e pensieri tutt’altro che positivi, cominciò a rilassarsi.

L'emicrania divenne solo un flebile ricordo e una sorta di serena pacificazione sembrò cominciargli a scivolare dentro come un balsamo atteso da settimane.

Non ricordò esattamente l’ultima cosa che udì, prima di chiudere il suo unico occhio sano, ma il pianto della piccola riempì l’abitacolo e allora seppe di aver portato a termine il suo ultimo importante compito su quella terra.

 

*

 

Era sicura di aver già avvertito quella sensazione.

Da bambina.

Durante una lezione di equitazione: era caduta da cavallo e si era incrinata due costole.

Niente intervento per lei. Solo un busto che la teneva saldamente immobile e la raccomandazione di  assoluto riposo.

Non si era mai annoiata tanto in vita sua. Però il dolore che aveva provato le ricordava ogni minuto che sarebbe stato meglio per lei non muoversi e lasciare che la guarigione facesse il suo lento corso.

Però adesso non c’era tempo di guarire. In quel particolare momento – nonostante le ossa incrinate del costato e probabilmente più ematomi di quanti ne avesse mai sperimentati cadendo dalla sua motocicletta – non c’era tempo per pensare al dolore o a come fare ad evitarlo.

Per assurdo quegli spasmi erano riusciti a ridarle lucidità. A mantenerla slegata dall’influenza malefica di Loki, a tenerla focalizzata sull’obiettivo.

Sif adesso sapeva dove trovarlo.

Quello che sicuramente Loki non aveva preventivato, nel momento in cui aveva usato il suo sangue per applicarle il suo sortilegio da medioevo, era che il legame non era certo univoco, ma avrebbe permesso anche a lei di avere una certa influenza su di lui. E sulle Ganasce, che sembravano non prestarle attenzione adesso che avanzava in mezzo alla folla che scorreva verso i laboratori.

Non fece caso al gigante verde che stava lanciando Ganasce a manciate, verso la loro ultima meta, non fece caso all’allarme che ora sembrava risuonare stanco ed esaurito nei dintorni – ma solo all’obiettivo. All’idea che fermare Loki, al momento, avesse la priorità su qualsiasi altra cosa.

Non era sempre stato quello lo scopo che si era prefissata sin dall’inizio?

Non era forse sempre stato suo il compito di tenerlo d’occhio? Gli insuccessi dei passati tentativi sembravano convergere nella spinta finale a portare a termine il compito che – ne era sicura – le era stato affidato dall’inizio di quella stupida storia. La sensazione che ogni uomo si muovesse come una pedina su una scacchiera, con un ruolo ben preciso.

Per quel motivo non volle frenare la collera che cominciò a montarle addosso non appena si rese conto che una massa informe di Ganasce si stavano tenacemente affannando attorno a una testa bionda, in prossimità del parco in cui l’istinto l’aveva appena condotta.

Alzò la pistola e cominciò a far fuoco, ad atterrarle una dopo l’altra, mentre Thor riemergeva da quell’ammasso di mostri, sventolando un martello di dimensioni un po’ fuori dalla norma.

“Sif!” lo sentì gridare, se di stupore o terrore non seppe dirlo. Non si sarebbe sorpresa di avergli suscitato del sincero ribrezzo. Non sapeva affatto come Banner l'avesse conciata – e a ragione – dopo aver tentato di usare la sua bambina come ostaggio.

Se mai ne avesse avuta la possibilità, gli avrebbe chiesto scusa. Avrebbe chiesto scusa a tutti.

A Thor per averlo accusato di aver dimenticato troppo in fretta tutti gli amici persi per strada, a Jane per aver peccato di gelosia nei suoi confronti, a Natasha per non essere riuscita a seguire la sua raccomandazione a non premere il grilletto su un altro essere umano.

Però adesso la priorità seguiva altri sentieri.

E Loki se ne stava lì, inerme e spento come una di quelle Ganasce dalle quali si era sempre preoccupata di fuggire.

A mantenere chissà che diavolo di contatto mentale, a ordinare a quei mostri distruttori di demolire tutto ciò che erano riusciti a ricostruire dalle macerie di un mondo al limite dell'estinzione.

Non glielo avrebbe permesso. Non glielo avrebbe concesso.

Spinta dall'odio che aveva provato nei suoi confronti il giorno stesso in cui era inciampato nel loro percorso, sulla loro strada, gli si avventò addosso.

Gli fu sopra ancora prima che questi potesse anche solo realizzare cosa stesse succedendo. Lo colpì con tutta la forza che le era rimasta in corpo: sul viso, nello stomaco.

Lo vide puntarle addosso il suo sguardo vitreo e assillante.

Non sarebbe crollata di nuovo nelle sue spire. Non si sarebbe lasciata vincere dalla sua oscura attrazione.

Chiuse semplicemente gli occhi e prese a colpirlo più forte, finché non avvertì le ossa scricchiolare in modo sinistro sotto il colpo delle sue nocche.

Una, due, tre volte. Le dita che scivolavano sul viscidume del sangue. I palmi che stringevano la carne maciullata del suo viso.

Sentì gridare Thor da qualche parte, ma ormai era crollata in un vortice dal quale non avrebbe facilmente fatto ritorno.

Smise di colpirlo solo quando fu certa che Loki aveva smesso di dimenarsi. Non lo sentiva respirare, ma si rese conto, in un attimo di insperata lucidità di essere ormai libera dal suo oscuro potere.

Loki non aveva più potere su di lei.

Loki non aveva più potere sulle Ganasce.

Riaprì gli occhi fissando quel macello di carne e sangue sotto di lei, faticando a riconoscere in quelle fattezze l'uomo che avevano salvato una sera di qualche mese prima su una buia strada del Maine. Adesso più che mai somigliante a una di quelle Ganasce che aveva sempre preteso di controllare.

Aveva chiuso il cerchio. Portato a termine il suo unico compito. Si sentì libera.

Quando cercò di rimettersi in piedi, la guardia ormai abbassata, non si rese conto di aver attirato l'attenzione di troppi di quei mostri.

Non ebbe la forza di recuperare la sua pistola per proteggersi. Non di impedire alla prima Ganascia di affondare i suoi denti nella carne della sua spalla. Né alla seconda di avventarsi sul suo fianco scoperto.

Gridò forse, non seppe dirlo.

Quando si rese conto che Thor era accorso in suo aiuto era ormai troppo tardi.

Finì fra le sue braccia un'ultima volta, mentre l'uomo invocava il suo nome.

Avrebbe voluto dirgli tante cose, ottenere la sua approvazione. Una parola di conforto, ma non le venne in mente niente di troppo lucido per un commiato.

E allora si concentrò sui ricordi.

La prima volta che lo aveva visto, il giorno in cui lo aveva conosciuto. In cui aveva conosciuto tutta la sua famiglia.

Ormai era sicura che giorni felici come quelli non sarebbero tornati mai più.

Comprese che, dopotutto, morire fra le braccia di un fratello non era la fine peggiore che potesse capitarle.

 

*

 

Erano anni che non aveva a che fare con una bomba.

Quelli che si era sempre limitata a maneggiare erano ordigni piuttosto artigianali e si rallegrò del fatto che Stark non avesse avuto modo di dedicarci più tempo.

Per quanto raffazzonato sembrasse, quel dispositivo era in ogni caso ben più complicato di quanto si sarebbe attesa.

Il display sembrava impazzito. Non un countdown ma una serie di numeri in continua mutazione su una schermata illuminata a festa.

Si chiese se ci sarebbe stato davvero modo di fermarla o quantomeno sperare di poterla sistemare per assicurare a Stark – o a chi aveva preso in consegna il telecomando – di azionarle.

Secondo i piani di Stark tutto era stato predisposto affinché l’esplosione di tutte e tre gli ordigni avesse assicurato un botto in grado di disintegrare completamente i laboratori scientifici di Atlanta.

Il fallimento di uno dei tre e, probabilmente, non avrebbero sortito l’effetto desiderato.

Per quello si era offerta. Per quello aveva deciso di dedicare le sue ultime energie a quella causa apparentemente suicida.

Perché sì, Banner si era preoccupato di dare una mano a raggruppare le Ganasce, e la piazza, così come le era dato di scorgere, sembrava essersi praticamente svuotata.

Il rumore di migliaia di mascelle sfondava persino il lamento di quell’unico allarme ancora attivato; le sentiva talmente vicine che poteva quasi percepirne il tocco sulla pelle.

Non avrebbe avuto modo di uscire da quella trappola a meno che non si fosse decisa a saltare giù da una delle finestre. O sfidare la sorte, provando ad attraversare i corridoi che conducevano a una delle altre uscite, con la caviglia ormai talmente gonfia da impedirle di appoggiare il piede con agilità, forte del guantone di Stark.

Ma la porta sbarrata della sala già tremava sotto la spinta di chissà quante Ganasce e, anche se le sarebbe piaciuto sperarlo, nessun Superman armato di mantello sarebbe venuto a soccorrerla dal cielo.

Mosse le mani più rapidamente, cercando di rimettere a posto tutti i fili che Sif sembrava aver compromesso.

Solo dopo qualche istante le riabbassò. La realizzazione che qualcosa di ben peggiore di un’imminente esplosione era appena accaduto.

Il meccanismo che avrebbe permesso il comando a distanza era stato definitivamente manomesso, distrutto. Non c’era alcun modo, per quello che le era dato sapere, di attivare la bomba se non manualmente. Affidandosi assolutamente al caso, senza avere alcuna possibilità di sapere quanto tempo avrebbe avuto per mettersi in salvo.

Le sembrò che per un istante il mondo divenisse buio, che la stanza si svuotasse di tutto l’ossigeno rimasto.

Sarebbe morta lì. Quel giorno. Probabilmente nella prossima mezz’ora.
Comprese che in fondo lo aveva sempre saputo. Dal momento in cui aveva preso la decisione di prendersi carico della responsabilità. Non capiva perché improvvisamente lo trovasse così scioccante, insopportabile.

Rialzò gli occhi sul display che adesso sembrava essersi fermato sulla sequenza, 1, 2, 1, 3, in loop.

Si prese tutto il tempo per rimettersi in sesto, per ricordarsi come si faceva a respirare e ricordare per quale motivo era sempre stata la migliore, nella sua vita passata. Era una donna fredda, calcolatrice. O così l’avevano convinta che fosse.

Sarebbe morta e dunque che importava? Tutti erano destinati a morire prima o poi.

Peccato che fosse un motto che avrebbe potuto sposarsi con il suo pensiero di una vita fa, quando non aveva niente da perdere, quando non c’era nessuno ad aspettarla.

Ma erano cambiate tante, troppe cose.

Proprio in un mondo che aveva perso la sua umanità, che l’aveva sparpagliata in giro come polvere nel vento, lei aveva ritrovato la sua.

Pensò a Clint. Senza soffermarsi null’altro che sulle piccole cose che avevano condiviso in quegli ultimi giorni. Nessun pensiero profondo, solo i gesti quotidiani carichi di silenzio ed estrema bellezza.

Si colmò di quella sensazione per racimolare le forze necessarie per compiere quell’ultimo gesto.

Alzò la ricetrasmittente e avviò la comunicazione.

“Maria? Mi senti?”

L’apparecchio gracchiò un solo istante prima che la voce della donna si facesse viva dall’altra parte.

“Natasha? Va tutto bene, dove sei?”

Socchiuse gli occhi, non del tutto sicura di sapere come rispondere a quella domanda. Se rivelarle o meno quello che aveva intenzione di fare.

Decise di tirare la leva, di innescare l'ordigno.

“Facciamo esplodere i laboratori.” Disse solo, prima che la comunicazione venisse definitivamente interrotta. Un fruscio maledetto a scandire le sue ultime battute.

Chiuse gli occhi e lasciò andare la ricetrasmittente, aggrappandosi alla bomba come sperando di contenerne la deflagrazione o esserne investita a una potenza tale da non essere in grado di sentire lo strappo.

 

Pochi minuti più tardi un’esplosione colossale illuminò il cielo serale di quella calda giornata d’inizio settembre.

 

___

 

Note:

E siamo finalmente giunti alle battute finali. E il cliffhanger era quasi d’obbligo.

Il prossimo sarà l’ultimo capitolo e potremo dire addio a tutti i protagonisti della storia (tanti, troppi, mai più scriverò una storia con così tanti personaggi! Fino a prossimo ordine).

Come sempre ringrazio fedeli lettori e non, recensori e non, e la socia e beta Sere, come sempre perché senza le vicendevoli letture sarebbe tutto molto meno divertente.

Dunque alla prossima… e ultima volta! Almeno per questa storia!

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 ***


CAPITOLO 29

 

“Ho lottato con la morte. È la contesa meno eccitante che si possa immaginare. Avviene in un grigiore impalpabile, con nulla sotto i piedi, con nulla intorno, senza spettatori, senza clamore, senza gloria, senza il grande desiderio della vittoria, senza la grande paura della sconfitta, in un clima malsano di tiepido scetticismo, senza molta fede nella propria causa, e ancor meno in quella dell'avversario.”

(Cuore di Tenebra – Joseph Conrad)

 

*

 

Non fu facile ricostruire, uno dopo l’altro, gli avvenimenti di quelle ultime ore.

 

Avevano visto esplodere i laboratori di Atlanta, la deflagrazione a portarsi via tutto quello che aveva generato il caos che aveva cambiato il mondo.

Le mura di cemento ormai ridotte a cenere e polvere. Una pira funeraria. A disperdere le grida di migliaia di Ganasce, a portare simbolicamente verso il cielo tutte quelle anime a cui finalmente era stata restituita la pace.

 

In termini religiosi, era sempre stato convinto che quelle fossero tutte stronzate.

Non esisteva l’inferno, non il paradiso.

L’unico inferno era quello che erano costretti a vivere ogni giorno. E il paradiso aveva imparato a trovarlo nelle cose più semplici: un materasso comodo, una tazza di caffè caldo. Il profumo dell’aria che porta la pioggia. E i piedi asciutti. Il sorriso di un bambino che ha deciso di darci un taglio con gli strilli.

Aveva compreso che le Ganasce non erano niente altro che fantasmi di esseri umani. Né peggiori, né migliori di chi era loro sopravvissuto. Solo persone che avevano avuto la sfortuna di lasciarci per primi le penne. O forse solo un branco di fortunati figli di puttana che non erano stati costretti a vedere che schifo di latrina fosse diventato il mondo, in quegli ultimi mesi.

 

Avevano visto la cortina di fumo disperdersi e poi aprirsi sotto la spinta di un mostro verde dagli occhi buoni.

Avevano visto cadere ai loro piedi quelli che sembravano solo la copia sbiancata dalla polvere dei calcinacci di un Clint Barton e una Natasha Romanoff decisamente poco in forma.

Ma vivi.

 

Così come avevano visto tornare il gigante biondo, reduce di una disperata battaglia dalla quale non era uscito vincitore. Gli occhi colmi di infinita tristezza: trascinava tra le braccia il fragile corpo di una compagna che non avrebbe mai più riaperto gli occhi.

 

Avevano assistito alla trasformazione di Bruce Banner. Lo avevano sentito riconoscere il pianto della figlia, le fattezze della moglie.

Betty aveva riaperto gli occhi l’attimo esatto in cui si era sentita chiamare per nome.

Le emozioni avrebbero finito per sopraffarlo di nuovo. Ma per una volta tanto, nessuno sembrò preoccuparsene veramente.

 

E poi avevano sentito il rombo di molti motori.

L’arrivo di un numero indefinito di camionette che vomitarono all’esterno almeno una trentina di persone.

Tutte in fila, come in un’atmosfera da rigido ambiente militare.

 

Avevano visto il Capitano Steve Rogers incespicare sui suoi stessi piedi. Correre incontro a quella sottospecie di battaglione d’assalto. Divenire di burro e sciogliersi in un abbraccio che sorprese un po’ tutti: la donna che stava stringendo fra le braccia sembrava appena uscita da una vecchia pellicola di Hollywood degli anni Cinquanta. Qualcosa che avrebbe alimentato persino le sue fantasie romantiche.

“Peggy…” la chiamava. E nessuno si diede la pena di interromperli per chiedere spiegazioni a riguardo.

 

Nessuno aveva più rivisto Loki.

 

E poi tutto era diventato confuso, frenetico.

Sembrava che improvvisamente ci fossero troppe cose da fare, da sistemare, ma sorprendentemente nessuno sembrò doversi preoccupare di niente.

Ci sarebbero stati altri a concludere determinate faccende per loro.

 

I militari avevano eretto un avamposto. Provvisorio, non lontano da Atlanta.

Si sarebbero presi cura di loro, prima di procedere con il trasferimento verso Washington, dove, a quanto pareva, avevano allestito la città dei sogni. Quella che tutti loro avevano sperato di trovare ad Atlanta, ma che aveva finito per trasformarsi nel loro peggior incubo.

 

Dal canto suo… pensò che così stanco, in vita sua, non lo era stato mai. Nemmeno durante le ore passate a sconfiggere fetide piogge asiatiche, gli anni della guerra.

Pensare più spesso al passato che al futuro è solo il metro di giudizio per avvisarti che sei diventato vecchio.

Si rasserenò ragionando sul fatto che, dopotutto, non era una sensazione così spiacevole. Se non altro invecchiare significava essere ancora… vivi?

“Sceriffo Fury… ?”

Il letto su cui lo avevano adagiato però risultava abbastanza comodo. Dopo tutte quelle settimane su materassi fatti di coperte o pagliericci, pareva persino un peccato lamentarsi.

Alzò lo sguardo solo per vedere entrare la donna stupenda dall’aspetto squisitamente retrò.

I lunghi capelli raccolti in una morbida crocchia.

“E lei deve essere la famosa Peggy…”

“Famosa non saprei, ma sì, quello è il mio nome.”

Non era sicuro di aver mai sentito parlare di lei, ma l’appassionato richiamo di Rogers era ancora piuttosto vivido nella sua mente. E Peggy era indubbiamente il suo nome.

“È qui per dirmi che sto per morire?”

“Se fossi un medico… ma non lo sono. E lei non sembra stare poi così male.”

“Questo lo dice lei…”

“Spero sia abbastanza in forma per sapere che stiamo organizzando il suo trasferimento…”

“Oh bella e dove andrei, di grazia? Credevo che i tempi della villeggiatura fossero finiti da un pezzo.”

“Washington. Pensavo che qualcuno si fosse preoccupato di avvisarla.”

“Non credo di essere così importante per un annuncio in pompa magna”, cercò di rimettersi seduto compostamente: le membra tutte gridarono in protesta, affatto in accordo con la sua volontà, “ma se può farla sentire meglio, ho sentito parlare alcuni dei suoi uomini mentre fingevo di dormire, un paio di ore fa. L’isola felice ora si trova a Washington.”

La vide sorridere, di un bel sorriso caldo. Forse tutto ciò che gli serviva al momento per sentirsi meglio.

“Qualcosa del genere.”

“E noi che ci siamo affannati tanto per arrivare a quella cazzo di trappola di Atlanta. In realtà ci si è affannato più il suo fidanzato…”

“Il mio… ?”

“Rogers.”

La donna non rispose, ma non gli ci volle molto per capire che probabilmente le cose fra loro non erano del tutto chiare.

“Dunque cosa è successo in tutti questi mesi? Eravamo convinti che a Washington non ci fosse più nessuno. A furia di mandare militari al sud…”

Peggy scrollò le spalle.

“Washington è ancora una città fantasma. Il perimetro militare che siamo riusciti a erigere a Fort McNair ha solo assicurato la sopravvivenza dei reduci”, la vide scrollare le spalle, “i militari inviati da tutti i distretti degli Stati Uniti d’America, successivamente alla partenza del Capitano Rogers… hanno trovato asilo laggiù.”

“Significa che a Washington troveremo solo militari?”

“No, non solo militari. La voce si è estesa… abbiamo registrato l’arrivo di diversi civili le prime settimane, dopo il contagio. Poi, improvvisamente, l’esodo si è esaurito.” Un velo di tristezza nella sua voce stava a significare che probabilmente le possibilità che arrivassero altre persone a rinfoltire il fortino erano decisamente scarse.

“Quanti siete laggiù?” domandò con cautela, nella mente adesso una serie indescrivibile di domande. Si sforzò di non farle fiorire tutte insieme.

“Quattrocento persone fra civili e militari.”

“Woah… credo di non aver visto così tante persone dal… non so più nemmeno che giorno è oggi.”

“Il quindici settembre.”

“Quindici settembre.” Fece qualche calcolo mentale, decretando che dovevano essere passati a malapena quattro mesi dalla fine del mondo così come lo conoscevano, eppure gli sembrava ormai essere passata una vita intera. Se gli avessero chiesto cosa aveva fatto in quegli ultimi cinque anni, avrebbe risposto che non aveva fatto altro che abbattere Ganasce. Quando invece… solo qualche mese prima era preoccupato di cosa avrebbe dovuto fare una volta in pensione.

“Come mai avete deciso di spostarvi a sud?” la seconda domanda, quella che gli parve più coerente con la conversazione.

“Abbiamo captato un segnale radio, poco più di due mesi fa.”

“Ad Albany?”

“Nei pressi di Atlanta, sì.”

Fury sorrise all’idea che i suoi tentativi di impedire alle persone di scappare ad Atlanta avessero finito invece per attirare più militari e civili di quanti ne avesse previsti.

“Avreste potuto ignorare il segnale. Voglio dire… rinunciare così all’isola felice per catapultarvi in una missione che avrebbe potuto non portare niente di buono.”

“Ci abbiamo pensato molto a lungo, infatti.” Fury sorrise appena alla sua schiettezza. “Per giorni e poi settimane. Siamo andati in avanscoperta in città ben più vicine di Atlanta. Sperando di trovare altre persone, qualcuno che potesse essere sopravvissuto in un modo o nell’altro… ma dopo un paio di settimane di ricerche inconsistenti abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza che… non c’era più nessuno da salvare. Lo scenario là fuori è estremamente desolante ormai. Marciatori ovunque. Desolazione e morte. Niente altro.” Lo guardò per un lungo istante. “E poi abbiamo preso una decisione. Dovevamo tentare. Sapevamo dove andare a cercare. Abbiamo solo sperato di trovarvi ancora vivi.”

Marciatori. Loro li chiamavano marciatori. Improvvisamente gli mancò la voce di Barney che cercava di istruire i ragazzi a chiamare Ganasce quei mostri. Con l’approvazione di quel fenomeno di Stark, per giunta.

“E dire che avreste potuto trovarvi ad Atlanta proprio nel bel mezzo di un’esplosione.”

“Bè, i vostri amici alla fattoria si sono assicurati di avvisarci.”

“Come stanno? Tutti quanti, voglio dire”, le domandò allora, improvvisamente rianimato dal ricordo che, in quello scenario, non erano i soli ad aver rischiato qualcosa.

“I sopravvissuti… meglio di quanto non stia lei. Ho avuto modo di fare due chiacchiere con alcuni di loro. Il professor Selvig e la professoressa Foster ci saranno molto utili. Potranno unirsi ad altri scienziati che si stanno occupando della cosa a Washington.”

“Per cercare un vaccino?”

“Proprio così. Le ricerche si sono sviluppate in modo straordinario. Alcuni casi di influenza sono stati completamente debellati.”

“Questo significa che si può… guarire… ?”

“Dalle febbre, sì. Dai morsi dei Marciatori… ci stiamo ancora lavorando. Il dottor Banner potrebbe essere la nostra chiave di… volta. Lui e sua figlia.”

“Sua figlia?”

“Da una prima analisi sembra che… anche lei possieda dei geni straordinariamente… mutati. Mi hanno raccontato storie… su come riesce ad approcciarsi ai Marciatori. È plausibile pensare che al momento del concepimento il dottor Banner fosse già stato in parte contagiato dagli esperimenti di Atlanta. E abbia passato certe caratteristiche… alla figlia.”

Fury lanciò a Peggy uno sguardo strano. L’idea che potessero giocare con Erin per le loro strampalate sperimentazioni lo infastidì, ma si trovò a pensare che, se credevano che quella di Erin che teneva lontane le Ganasce fosse la storia più straordinaria che avrebbero avuto da raccontare dei loro giorni in Georgia, si sbagliavano di grosso.

Riuscì comunque, sotto quello strato di preoccupazione, a percepire il sollievo come non gli capitava da mesi, da anni. La sensazione che finalmente qualcosa di buono potesse nascere da tutto quel mare di merda fu, per la prima volta, così forte e inebriante da strappargli una risata. O qualcosa che ci si avvicinava. In modo pacato. Dopotutto non gli aveva certo detto che il mondo era tornato quello di una volta. Non che forse lo preferisse.

“Mi dica che è tutto frutto di un elaborato piano governativo, se il mondo è andato a puttane. Anzi no, non me lo dica”, ritrattò, ancora divertito, “per i pochi anni che mi restano da vivere… preferirei credere che fosse solo arrivato il momento per la razza umana di avere il punto e a capo che si meritava.”

“Una sorta di selezione naturale?”

“Qualcosa del genere. Potrei fingere di essere uno dei miracolati.”

“Ma lei è uno dei miracolati.” Sottolineò la donna con un sorriso.

“Se vogliamo metterla in questi termini. Sta sicuramente meglio lei di me… signorina Peggy.”

“Forse ora…” la voce si fece appena cupa, “ma ci sono stati giorni in cui credevo che non sarei sopravvissuta all’influenza.”

Fury si trovò a guardarla con altri occhi ora. Era veramente stata contagiata dall’influenza ed era sopravvissuta per raccontarlo? La prova vivente dell’esistenza del vaccino? Come se quelli ascoltati  fino a quel momento non fossero solo dicerie e racconti dalla voce di una sconosciuta.

Sentirono un rumore all’ingresso della tenda, che Nick stava ancora cercando di processare tutte quelle informazioni.

E, quando vide sbucare il volto sorridente di Betty Ross, decise che magari avrebbe potuto pensarci più tardi.

Piccole porzioni di quel suo personale paradiso. Toccava godersele al momento giusto.

 

*

 

“Sto bene, vi ho detto! Non ho bisogno di tutta questa roba addosso!”

Stark si era già rimesso in piedi.

Ci mancavano solo quei due medici militari pazzoidi a dirgli quello che doveva o non doveva fare: Testa di Cavolo con il berretto e Baffetto da Sparviero con le orecchie a parabola.

“Capo, sei ancora convalescente, non dovresti agitarti in questa maniera!” protestò Happy che cercava di coprire le pudenda del suo ormai ex datore di lavoro, mentre lui tentava di strapparsi dal braccio una fastidiosa flebo.

Come se fosse davvero quello il problema principe dell’intera faccenda.

Il problema – adesso che stava fissando uno specchio che gli rimandava il riflesso della sua malandata immagine – poteva essere riassunto in: quando gli avevano infilato quella orribile vestaglietta, tanto per dirne una?

“Voglio andare da Pepper”, ed ecco la seconda importante questione. Quella decisamente più importante del suo bel paio di chiappe al vento. Che per la cronaca non erano poi così male, viste da una certa prospettiva.

“Signor Stark, per favore… non dovrebbe muoversi.”

Baffetto da Sparviero avrebbe dovuto farsi gli affari suoi. Lui, da Pepper, ci doveva andare. Gli avevano assicurato che stava bene, che la febbre era scesa, ma era da più di quarantotto ore che non la vedeva e gli sembrava sacrosanto voler constatare con i suoi occhi il suo stato di salute.

Intervenne anche Testa di Cavolo, giusto per portare un po’ di brio all’avvenimento.

“Lo diciamo per il suo bene…”

“Il mio bene, il suo bene, il vostro bene… perché ognuno non bada ai suoi, di problemi? Tanto per cominciare: a che diavolo ti serve un berretto?” puntò il dito su Testa di Cavolo, “Devi ripararti dal sole?”

“Signore?”

“Fa parte dell’abbigliamento militare, Stark…” quella voce: l’avrebbe riconosciuta fra mille. Non che ci fossero effettivamente mille persone fra le cui iniziare una conta, “e dire che eravamo tutti convinti che un proiettile in gola sarebbe stato in grado di zittirti per un po’.”

“Capitano Rogers, quale onore…” si rimise seduto sul letto, mentre Happy cercava di sistemargli la vestaglietta per evitare visioni a luci rosse.

“Dovresti dare ascolto ai medici dello staff.”

“Quale staff? Testa di Cavolo e Baffetto da Sparviero?” ma dovette interrompersi sul più bello per via di un capogiro piuttosto violento.

Furono di nuovo le braccia di Testa di Cavolo a sorreggerlo da un’imminente caduta.

“Visto?” disse Rogers, intrecciando le braccia al petto, mentre si godeva lo spettacolo.

“Non azzardarti a dire: te lo avevo detto, Rogers.”

Se non altro il ragazzone ebbe il buonsenso di alzare le mani a mo’ di resa, invece di iniziare la sua patriottica ramanzina. Quell’ambiente sembrava avergli fatto bene. Forse perché si sentiva a casa. O magari era solo merito della donna che indossava un paio di straordinari occhi da cerbiatta e labbra carnose  e che rispondeva al nome di Peggy Carter.

“Dov’è Pepper?” decise di insistere sull’unico punto su cui nessuno avrebbe potuto impedirgli di spingere.

“Nella tenda accanto.”

“E come sta?”

“Meglio. La febbre sembra essere scesa definitivamente.”

“Com’è che sai più tu della mia fidanzata che io della tua?” aggiunse per mascherare il sollievo ben più che evidente che adesso gli animava lo sguardo e il volto tutto.

“Stark…”

“Okay, okay…” stavolta fu il suo turno quello di arrendersi una volta per tutte, “vorrei solo poterla vedere per qualche minuto.”

Rogers alzò uno sguardo su Testa di Cavolo e Baffetto bla bla e li vide finalmente annuire una sola volta.

“Cos’era quello? Un segnale segretissimo per i militari super spia anti Ganasce?”

“Sto cercando di fare qualcosa per te, Stark, perché non riesci a stare zitto per mezzo secondo?”

L’istante successivo entrò in scena quella che aveva tutta l’aria di essere una sedia a rotelle.

“Wow… quante ne avete là dentro?”

“Una. Ma se non taci ti ci faccio arrivare sui gomiti, dalla tua fidanzata.”

Alzò la mani e si arrese all’evidenza (oltre che al mal di gola che lo affliggeva da ore) che probabilmente quelle persone non avevano ancora chiaro cosa significasse per lui quel giorno.

Essere sopravvissuti ad Atlanta. Essere tornati vivi.

Aver mantenuto la promessa che aveva fatto a Pepper. Soprattutto aver mantenuto la promessa fatta a Pepper.

 

La donna era stata sistemata in una tenda a parte. A quanto pareva avevano allestito una sorta di quarantena, nonostante le sue condizioni fossero adesso apparentemente stabili, nonostante  l’assicurazione che, dopo di lei, nessuno si era più ammalato di quella febbre venefica. Una misura precauzionale, così l’avevano chiamata. A Stark sembrò persino inutile convincerli del contrario.

Quando le fu di fronte, finalmente, capelli biondi sparpagliati sul cuscino, guancia rosee e viso rilassato, le parole gli mancarono davvero per qualche secondo e, sebbene fosse certo che Rogers fosse disposto a godersi lo spettacolo di uno Stark ammutolito, li lasciò soli dopo averlo sistemato accanto al letto della donna.

La vide aprire gli occhi e scostarsi i capelli dal viso e finalmente rivolgergli tutta la sua stanca attenzione.

“Hai mantenuto la promessa…” la sentì esordire, la voce ancora affaticata ma tranquilla.

“Ci è mancato tanto così che tornassi a pezzi ma… mi hanno assicurato che resterà solo una cicatrice, credo.”

“Meglio una cicatrice che niente… testa.”

“Sono sicuro che qualcuno avrebbe preferito il contrario…” lo sguardo andò a perdersi dove era appena sparito Rogers.

“Io invece credo che dovresti cominciare… a scendere a patti con il fatto che piaci a questa gente.”

Le lanciò uno sguardo perplesso: “Tu dici?”

“Ho sentito parlare di te e del successo della bomba. C’era del serio entusiasmo nei tuoi confronti. E Rogers si è preoccupato di farti avere le prime cure mediche… in assoluto.”

Stark scosse la testa: “Caro ragazzo, mi sembrava di essere stato chiaro sul fatto che fra noi non può funzionare…”

Sì sentì tirare un pizzico sul braccio e dovette fingere di cucirsi le labbra.

“Sarà bene, Tony. Perché ho già stilato mentalmente una lista per il nostro famoso viaggio di nozze.”

A quanto pareva, c’era ancora una promessa da onorare.

Straordinariamente non ne fu spaventato.

 

*

 

La benda che gli avevano legato attorno alla testa lo faceva sembrare un coglione.

Un coglione con un’acconciatura da perfetto reduce militare, considerato che i vestiti che gli avevano magnanimamente dato in prestito, dovevano esser stati ripescati da qualche vecchio scatolone di cianfrusaglie appartenute alle matricole: una maglia verde e un paio di larghi pantaloni in tinta. I tasconi laterali, se non altro, avrebbero potuto essergli utili se avesse voluto rubare qualcosa, lì dentro. Non che si aspettasse di trovare effettivamente qualcosa di più di qualche cerotto, in una tenda di due metri per due. Si passò una mano sulla testa, cercando fra ciuffi di capelli biondi che se ne andavano un po’ da tutte le parti, sfuggendo al controllo della straordinaria quantità di bende che avevano usato per tenere a bada… un presunto trauma cranico.

Clint pensò che ventiquattro ore di quella tortura fossero sufficienti per sbarazzarsene senza autorizzazione.

Soprattutto ora che quei militari, che non avevano fatto altro che andarsene avanti e indietro per tutta la mattina, sembravano avergli dato una tregua.

Era ancora a metà dell’operazione quando Natasha entrò nel suo campo visivo. Il vederla in piedi, sulle sue gambe, lo dissuase dal proseguire con lo scempio del lavoro fatto dagli infermieri. Per darsi almeno il tempo di accertarsi che stesse davvero bene come gli avevano detto.

Anche a lei non era stata risparmiata la tortura di quell’abbigliamento da soldatino. Con la sola differenza che sembrava una bambina finita per sbaglio nei vestiti dei genitori.

“Me la dai una mano a sbarazzarmi di questa roba?” le chiese invece, le dita incastrate in un nodo che non riusciva a vedere.

La vide avvicinarsi senza una parola, le dita che andavano a prendere il posto delle sue, per sciogliere i nodi, disfare bende.

“Come ti senti?” le dovette proprio chiedere, lì a un centimetro dal suo viso, prima di vedersi piantare addosso i suoi occhi verdi.

“Meglio della tua testa sicuramente.” Il sorriso che ne seguì fu tutto ciò che gli servì come rassicurazione.

Quando vide cadere definitivamente la benda a terra sentì la testa più leggera.

“È messa così male?”

“Vuoi dire a parte la ferita da cui si intravede il cervello?”

“Cosa?!”

La vide sbuffare una risata, mentre si toccava la fronte per trovarci solo un grosso, enorme bozzo, coperto da un cerotto.

“Divertente...”

“È il mio secondo nome… non te lo avevo mai detto?”

“… e di buon umore. Contenta di essere viva, Romanoff?” 

La vide tornare a farsi seria e, per un istante, si pentì dell’infelice uscita. Non era sua intenzione rinfacciarle un bel niente. Tanto meno il fatto di averle salvato la pelle poco prima che i laboratori scientifici facessero un botto straordinario.

Le aveva letto in faccia lo stupore, il rimprovero e il sollievo quando era letteralmente volato nella stanza dove lei se ne stava placidamente abbracciata a una bomba distruttiva.

Ma ciò che non era ancora riuscito a perdonarle era il fatto di averle letto in faccia che era pronta a morire. L’unica cosa che era riuscita a destabilizzarlo a tal punto da spingerlo a non cercarla prima di quel momento.

Gli aveva chiesto di fidarsi di lei. Ed era comunque già pronta a morire. A lasciarlo solo.

Natasha però sembrava essere sempre un passo avanti a lui, e nemmeno in quel momento volle smentire quell’abilità tutta sua di sorprenderlo, perché quando la sentì prendergli la mano seppe che sarebbe corsa a chiarire tutti i suoi stupidi dubbi.

“Sì…” gli disse solo, “sono felice… di essere viva.”

Nel momento esatto in cui pronunciò quelle parole riuscì a percepirne il peso. La solennità.

E tutto ciò che era sicuro non sarebbe riuscito a perdonarle svanì così come l’aveva scioccamente formulato nella sua testa.

Le prese il viso fra le mani, le accarezzò i capelli e la baciò, per ricordarsi quanto stupido fosse e quanto precaria e breve era la vita per sprecarla in irragionevoli fissazioni. Soprattutto con una donna come Natasha Romanoff.

“Ommioddio, allarme! Qui ci sono due Ganasce che si stanno succhiando via la faccia a vicenda!”

Esclamò qualcuno all’ingresso della tenda in cui erano sistemati e, improvvisamente, fu come se un blocco di ghiaccio gli fosse scivolato nello stomaco.

Scostò il viso da quello di Natasha e nello sguardo di lei riuscì a leggere lo stesso identico sconcerto.

Si voltarono entrambi, simultaneamente. E il blocco di ghiaccio divenne lava bollente sul viso, alla realizzazione che l’uomo che gli stava ora di fronte, con espressione sfrontata e zazzera rossa, non era altri che suo fratello Barney. In carne, ossa e moncherino.

“Che succede, sembra abbiate appena visto un fantasma.” Simulò guardandosi attorno con sguardo di terrore.

Clint sentì risalirgli addosso una quantità indefinita di emozioni che non riuscì a controllare. Era sicuro che gli sarebbe venuto da vomitare ma non fu certo di voler mostrare tanto platealmente il suo improvviso disagio.

Poi ci fu l’incredulità, quella che di colpo lo fece pentire di aver sottovalutato quel suo trauma cranico. E poi seguì la rabbia, incontrollabile, quella che in altre occasioni lo avrebbe spinto a corrergli incontro e mollargli un generoso gancio per sfogare su di lui tutta la frustrazione di quegli ultimi giorni; e infine fu il turno di un misto di sollievo e feroce euforia.

Fu quell’ultimo sentimento ad avere la meglio e si assicurò di essere sufficientemente stabile sulle gambe, prima di muoversi nella sua direzione. In silenzio, mortalmente in silenzio.

“Dai, Clint… volevo solo…” lo sentì dire, vagamente intimorito da quella reazione o mancanza di quest’ultima, ma non fu certo di volergli dare il tempo di proseguire.

Lo raggiunse in poche, misuratissime falcate. E probabilmente gli lanciò lo sguardo più terribile che avesse mai avuto occasione di sfoggiare. L’istante successivo si assicurò di stringere il fratello abbastanza forte da fargli capire quanto male gli avesse fatto la sua stupida decisione di andarsene e di lasciarlo in balia dei dubbi sul suo destino.

Solo quando lo sentì ricambiare con la stessa forza si rese conto di quanto male avesse dovuto fare anche a lui, quella decisione.

“Mi dispiace…” lo sentì sussurrare e cercò di tenere stretta a sé quella sensazione, perché per quanto fossero legati, Barney con lui non si era dovuto scusare mai.

Non seppe dire per quanto tempo rimasero fermi in mezzo alla stanza, ma improvvisamente ritrovò Natasha al suo fianco e Barney che aveva allungava una mano per trascinarla in quel circolo improvvisamente diventato affollatissimo.

“Eravamo convinti che tu fossi…” decise di averne avuto abbastanza e, stavolta, il pugno alla spalla (quella sana) prima di scostarsi non glielo risparmiò di proposito.

Serrò le labbra, cercando di ricacciare indietro le lacrime, mentre Barney nemmeno ci provava a trattenere le sue.

“… morto? Sì… anche io. Più spacciato che morto. Ma… vai a capire qual è l’opzione migliore.” Lo vide passarsi le mani sul viso, vagamente congestionato e guardarli adesso con un gran sorriso.

“Come ci sei finito qui?”

“Non ne ho… la più pallida… idea.” Commentò spassionatamente, “mi ci sono ritrovato. Mi hanno raccontato di avermi trovato per strada, mezzo moribondo. Mi hanno dato dell’antibiotico o qualcosa del genere e dopo qualche giorno di delirio… ero più sano di prima. Però la prima cosa che ho chiesto di mangiare è stata della carne. Pazzesco, no?”

“Credevo te ne fossi andato armato…”

“Già…” lo vide scuotere la testa, “non sono riuscito a farlo.”

Ci lesse tutta l’amarezza in quell’affermazione, ma non riuscì a empatizzare con lui. Fosse riuscito a farla finita sul serio, prima dell’arrivo dei suoi soccorritori, adesso non sarebbero stati lì a discuterne.

Un attacco di vigliaccheria che accettò come il più prezioso dei regali.

“Come stai… adesso?” domandò con una punta di apprensione che non riuscì proprio a trattenere.

Barney si passò una mano sulla spalla che non reggeva più alcun braccio.

“Bene. Davvero bene. Non si vede? Credevo che ti chiamassero Occhio di Falco per il tuo acume, ai tempi del circo…”

“Non mi ci chiamavano per il mio acume.”

“Di sicuro nemmeno per la mira…” lo prese in giro.

“Occhio di Falco?” si intromise Natasha, che ora lo guardava scettica e divertita insieme.

“Ho anche perso peso”, intervenne di nuovo Barney, “Poi mi sono ricordato che non avevo più almeno un chilo di braccio e sai… sono cose che ti fanno pensare a quanto sia relativo tutto quanto. Però dicono ci sia un militare a Washington a cui hanno rifilato un braccio di metallo… magari riesco a farmene regalare uno anche io.”

Clint sorrise: “È un discorso senza senso, lo sai vero?”

“Non molto se ci pensi. Spiegami cosa ha senso, di questi ultimi tempi, e vedrò di mettermi a fare discorsi sensati.”

“Tu non ne hai mai fatti di discorsi sensati.” Lo rimproverò, sentendo quella sensazione di stordimento che si prova solo quando improvvisi stati di ansia ti scivolano di dosso.

Forse si chiamavano endorfine. Forse non era necessario dar loro un nome.

“Anche questo è vero.” Lo sentì dire mentre passava il braccio attorno alle spalle di Natasha che non sembrava incline a esprimersi granché, ma che non aveva fatto altro che sorridere per tutto il tempo.

“Il trio si è riformato, bambini miei… e arrivati a questo punto è proprio il caso di dire: tutto è bene quel che finisce bene.”

“Le frasi fatte no, Barney.”

“Okay, allora… qualcosa come: larga è la foglia, stretta è la via…”

“Barney…”

“… ed io ho messo incinta Maria.” Concluse la rima.

Clint sgranò gli occhi.

“Che cosa?”

“… dite la vostra che io dico la mia?”

“Barney!”

“Dai, scherzavo!”

“Di Maria o della foglia?”

“Di… cosa c’entra la foglia?”

“Barney!”

“Oh, ma lo sapete che qui le Ganasce vengono chiamate Marciatori. Cioè, dai! Non sono mica in lizza per le selezioni alle Olimpiadi! Che razza di nome.”

“Barney, spiegami questa cosa di Maria.”

“Al massimo posso concedere il Marcioni di Wilson. O quell’acronimo imbecille di Stark, ma Marciatori!”

“Bernard!”

“Clinton?”

Il discorso proseguì a lungo prima di stabilire quale fosse la versione giusta della filastrocca. E per tutto il tempo, niente riuscì a fermare l’eco delle loro risate.

 

*

 

“Che diavolo sta succedendo là fuori?”

Betty aveva appena restituito a Bruce la bambina: era proprio sicura di aver sentito la voce di Barney a qualche tenda di distanza, o forse era solo quella di Clint Barton.

Quando tornò a guardare il marito, l’uomo teneva la bambina fra le mani così come si maneggia qualcosa di molto delicato. La teneva lontano dal petto, come fosse una bomba in procinto di esplodere.

“Non si rompe se la stringi di più.”

“Lo so…  è che… sembra stia per mettersi a piangere.”

“Deve imparare a conoscere suo padre. E’ normale. Per quello dovresti abbracciarla, si abituerà più facilmente alla tua presenza.”

“Sì… è che non vorrei che… sia a causa mia se le viene da piangere. Forse riesce a sentire…” lo vide fare una smorfia e un tentativo di rialzarsi dalla branda su cui l’avevano sistemato, come se volesse passarle di nuovo il testimone, “… lo scherzo della natura che sono diventato.”

Betty abbassò le mani, come a fargli capire che non era proprio sua intenzione assecondarlo.

“Non sei uno scherzo della natura, Bruce.”

“N-no? E allora come lo giustifichi tutto questo interesse medico nei miei confronti?”

“Stanno cercando una cura… ce lo hanno spiegato.”

“E’ questo che sono destinato ad essere da qui alla fine dei miei giorni?” lo vide alzare su di lei uno sguardo dolente, “solo un esperimento da laboratorio? Legato per sempre a una branda di un ospedale di fortuna, sempre a disposizione per l’ennesima trasfusione di sangue, a vedere la mia famiglia con il contagocce o a costringere lei ad essere un fenomeno da baraccone come il suo vecchio, solo perché porta gli stessi geni…”

“Bruce…” si abbassò al suo livello, cercando i suoi occhi con i propri, “non è quello che accadrà.”

“Come fai a dirlo? Potrei dovermi portare appresso questo fardello per sempre. Potrei costringere mia figlia a crescere con un padre che non è altro che un mostro…”

“Erin non ti vede come un mostro. Non ti vedrà mai come un mostro. Così come non lo faccio più io. Così come non lo hanno fatto più gli altri.”

Natasha Romanoff aveva capito che non lo era. Clint Barton aveva capito che non lo era. Steve Rogers lo aveva aiutato a tornare normale dopo la fuga dai laboratori in esplosione. E solo lei conosceva la delicatezza di quelle grandi mani che non avevano fatto altro che sbarazzarsi di Ganasce per proteggere la sua incolumità.

Erin trovò proprio il momento peggiore per esprimere il suo disappunto con una serie di singhiozzi piuttosto fastidiosi. E sul volto di Bruce si dipinse lo sconforto più acuto. Dolente.

“Prenditi la bambina…” lo sentì dire, esprimendo con aria eloquente quanto avesse finito per avere ragione.

Betty si rifiutò di cedere: scosse la testa e guardò la bambina un’ultima volta.

Forse era solo stanca. Forse affamata. Non avrebbe permesso a Bruce di abbattersi in quel modo. Non era lui l’uomo di cui si era innamorata. Non l’uomo che aveva sposato. L’uomo che non si era arreso a perderla nemmeno quando era scoppiata un’apocalisse zombie.

E poi, fu proprio mentre la bambina cominciava a singhiozzare disperata, come se davvero avesse visto qualcosa di mostruoso e il suo viso congestionato cominciò a divenire paonazzo, che Betty comprese.

Guardò Bruce, permettendo al suo cipiglio severo di sciogliersi in una risata.

“Credo che tua figlia se la sia solo fatta addosso, Bruce.” Disse.

“C-cosa?”

“Annusala e dimmi che non lo senti anche tu.”

Il dottore avvicinò con cautela il suo viso all’altezza del pannolino della bambina.

La smorfia di disgusto che ne seguì fu ben più eloquente di qualsiasi espressione vocale.

Un odore mostruoso.

Come sempre, un termine che era solo questione di prospettive.

 

*

 

Steve vide Maria Hill sfrecciare lungo il campo serale. Non ne era sicuro, ma per un attimo gli sembrò di sentirla pronunciare irripetibili epiteti rivolti a Barney Barton.

“Che donna…” commentò Sam al suo fianco, che – per quello che ne sapeva – aveva più o meno rivolto lo stesso appellativo a tutte le militari che si era ritrovato a incrociare da due giorni a quella parte.

Salvo per Peggy. Immaginò che Sam avesse deciso che era intoccabile. Non che Steve gli avesse mai espresso apertamente il suo eventuale disappunto, o Peggy avesse mai messo in chiaro che non voleva essere… tampinata. Non si erano mai fatti una promessa o qualcosa di simile. Però…

Recuperò una tazza di caffè solubile e ne prese un lungo sorso, sentendosene in qualche modo rinfrancato. Caffè solubile. Si chiese quanti beni di quel tipo avrebbero trovato a Washington.

Si trovò a pensare a come quello scenario sembrasse riportarlo indietro nel tempo. Ai giorni in cui stavano organizzando i gruppi verso Atlanta.

Si trovò a pensare al fallimento di quell’esodo e allo scherzo che il destino sembrava aver giocato loro solo un paio di settimane dopo che erano partiti per scappare da Washingotn e di come invece Washington stesse già premeditando la sua rinascita.

Mentre lui correva verso sud, cercando qualcosa che lo facesse sentire ancora utile. Vivo.

Non aveva risolto niente, dopotutto.

Niente eppure… tutto.

Gli occhi si posarono sul gruppo di persone con cui si era ritrovato a condividere quegli ultimi giorni. Le straordinarie coincidenze che li avevano uniti. Che li avevano spinti a collaborare.

Si trovò felice di constatare di non essersi pentito un solo istante di essersi imbattuto in loro.

Di aver permesso agli straordinari avvenimenti che ne erano seguiti di cambiare, per sempre, la sua visione del mondo. Ma, non meno importante, di recuperare ciò che credeva di aver perduto per sempre. Quell’impronunciabile parola che sembrava aver abbandonato.

Speranza.

“Ehi… non è Peggy quella?” Sam sembrò volerlo riportare a tutta forza alla realtà. Scongelarlo dai suoi ragionamenti.

La donna si stava allontanando fra le tende di fortuna, trafelata. Gli aveva detto che stava organizzando il campo per la partenza. L’indomani mattina probabilmente si sarebbero trovati tutti in viaggio per Washington. L’ultimo avamposto dell’umanità, così come era abituato a percepirla ormai.

Ancora non era sicuro di credere che fosse sopravvissuta davvero. Di averla riabbracciata meno di ventiquattro ore prima.

Gli aveva detto che le sorprese non erano finite. E quasi provò timore a sfidare di nuovo la sorte, a  rianimare quella scintilla di speranza che lo aveva sempre accompagnato. A pensare che a Washington ci sarebbe stato anche qualcun altro ad aspettarlo.

Eppure in quel momento gli sembrò tutto possibile. Stringeva fra le mani del caffè, era circondato dai suoi amici. E nessuna Ganascia era arrivata a turbare la quiete di quell’ultima sera in Georgia.

Inaspettatamente animato da una rapida decisione, passò a Wilson la sua tazza di caffè solubile e si rimise in piedi, improvvisamente consapevole che quella poteva essere l’ultima sera in cui avrebbe potuto trovare un po’ di tempo per stare da solo con lei.

“Dove vai?”

Non gli rispose se non con un mezzo sorriso. Si infilò la camicia nei pantaloni e si allontanò dal campo.

Non avrebbe sprecato un solo minuto di più solo a… sperare.

 

 

*

 

La campagna fuori da quell’improvvisato avamposto era silenziosa e pacifica. Straordinario il fatto che non una sola Ganascia si fosse presentata all’appello nelle poche ore che avevano stazionato lì.

Cecchini a non finire a controllare la zona, che avevano finito per rimanere disoccupati per tutti e due i giorni che erano rimasti fermi.

Thor scoprì di avere fame. Finalmente fame dopo un giorno di tenace digiuno.

Non per mancanza di volontà. Ma lo stomaco non aveva smesso un solo minuto di fargli un male del diavolo. Non da quando aveva dovuto seppellire Sif.

Il senso di colpa per non averle creduto, per aver permesso a Loki di fare il suo gioco. Di averlo sempre sostenuto… la storia aveva trovato la sua conclusione nel modo peggiore, il più crudele, il più definitivo.

Non l’avrebbe rivista mai più. Non da vivo almeno.

Si chiese se, per un attimo, avrebbe potuto forzarsi di credere al paradiso. O, per rendere onore ai nomi che lui e la sua squadra si erano scelti ormai anni orsono, a quel fantomatico Valhalla, citato nella mitologia norrena.

La residenza dei morti caduti gloriosamente in battaglia.

Una descrizione appropriata considerato come se ne era andata Sif. Come se ne erano andati tutti i suoi amici.

Li immaginò attraversare tutti insieme il fiume Thund. Arrivare a uno dei palazzi di Ásgarðr, varcarne la soglia. Sulle pareti della sala, oltre le lance degli antichi guerrieri norreni, avrebbero trovato le loro motociclette. Sul tetto, assieme agli scudi d’oro, i loro caschi, i cerchioni delle loro ruote. Presto si sarebbero presentati a Odino, pronti a ricevere la loro investitura. A partecipare ai festeggiamenti, alle giostre.

Sorrise. Il pensiero assurdo, consolante e straordinariamente vivido. Magari lo avrebbero aspettato, una volta arrivato il suo momento.

Magari…

Sedere fuori, in quel luogo fatto di silenzi, del soffio del vento, del gracchiare dei corvi, era riuscito a restituirgli una sorta di momentanea tranquillità.

Quando Jane venne a fargli compagnia si lasciò raccogliere la mano, senza opporre resistenza. E le fu grato per non sentirsi in obbligo di intrattenere una conversazione. Non subito almeno.

“Questa dovrebbe essere una conclusione, non è così?” le domandò dopo qualche istante, inspirando a fondo il profumo del grano maturo.

“Preferisco pensarlo come un nuovo inizio.”

“Credi che cambierà davvero qualcosa? In fondo… stiamo solo andando in un altro posto. Ma il mondo là fuori è ancora pieno di Ganasce…”

“Penso che ci vorrà molto tempo perché le cose migliorino… ma lo faranno, Thor.”

Si voltò a guardarla. E pensò che dopotutto aveva ragione.

“Donald…” le disse, “mi piace quando mi chiami Donald.”

La vita, così come adesso sarebbe stato invitato a viverla, era per i mortali.

Thor avrebbe aspettato di ricongiungersi a quegli amici che sicuramente lo avrebbero atteso con una coppa di vino, quando il suo tempo sarebbe giunto.

Donald era un vestito che si sentiva più a suo agio a indossare ora.

Si chiese, solo per un istante, se Loki fosse sopravvissuto o meno. All’ultimo sacrificio di Sif, all’esplosione.

Se avrebbe avuto il coraggio di tornare, se per chiedere perdono o solo conquistarsi  la sua vendetta.

Li avrebbe trovati pronti. Tutti quanti. Di questo non aveva alcun dubbio.

Seguì il volo di due corvi, prima di decidere che aveva aspettato troppo.

Baciò Jane Foster nella luce di un sole morente.

 

***

 

Washington, tre mesi dopo

 

Non era più abituato a ragionare in miglia.

Né in termini di tempo.

Né di dolore.

I piedi, ormai scarnificati, avevano smesso di essere un problema da un po’.

La braccia scheletriche. Il collo, il viso. Gli zigomi. I capelli corvini, sudici a coprire quello che più che una testa, sembrava solo un teschio.

L’odore costante, come di qualcosa che era andato a male. Nemmeno quello era più un problema.

Negli occhi e nella testa, ancora i colori vividi delle fiamme. Nelle orecchie, il fruscio costante, ovattato dell’esplosione.

Si fermò al limite della strada. A un miglio di quella che si presentava come una grossa, enorme muraglia.

Oltre quella, riusciva a percepire il respiro di centinaia di presenze. Vive.

Sorrise.

La notte e il suo gelo gli avvinghiavano le ossa e le membra tutte.

I piedi, un blocco di ghiaccio, affondati in almeno mezzo metro di neve.

Il silenzio irreale tutt’intorno se non per il cupo gracchiare di due corvi in volo.

Da qualche parte, a Fort McNair, una bambina cominciò a piangere.

E le luci di centinaia di fiammelle si accesero su tutto il perimetro come quelle di un albero di Natale.

 

Lo stavano aspettando.

 

Lanciò uno sguardo alle proprie spalle.

Scorse le impronte dei propri passi.

E oltre quelli… la processione silenziosa di milioni di Ganasce.

 

 

Fine.

 

___

 

Note:

E dopo la bellezza di un intero anno, anche questa storia è alfin giunta al suo epilogo! (Proprio durante la settimana in cui riprende The Walking Dead. Yay).

Il finale è aperto, libero a qualsiasi tipo di interpretazione. Io, per quanto mi riguarda, lascio a voi il compito di decidere come si concluderà il tutto. La mia idea ce l’ho. Ma la condividerò solo in privato (ahahahah).

Sono felice di essere riuscita a concludere una storia che mi ha dato non pochi problemi. Dal punto di vista organizzativo ed emotivo. Ho voluto cimentarmi con diversi personaggi con cui credevo di non avere affinità alcuna, e con i quali magari non ho tutt’ora. Ma sono libere interpretazioni di come li ho percepiti e sentiti, in questa storia. Non me ne voglia nessuno, se ho reso in modo poco onorevole i loro personaggi preferiti. Soprattutto il povero Loki che ha finito per essere il “cattivo assoluto” della storia. Ma è così che avevo deciso di usarlo e così che ho concluso il suo percorso. Anche se più che cattivo, mi piacerebbe definirlo vittima… degli eventi. Assicuro che se mi fosse stato antipatico, non lo avrei proprio infilato nel racconto. Perciò nessun rancore Loki. No, metti via lo scettro, plis! Non voglio fare la fine di Coulson! Tahiti wait for me.

Anyway… come dicevo siamo giunti alla fine e mi sono anche dimostrata meno crudele e più magnanima di quanto credessi. Alla fine mi piacciono i lieto fine, che cavolo posso farci? La vita fa già abbastanza schifo di suo.
Ed ora passiamo alla cosa che mi preme di più fare: i ringraziamenti. Per chi mi ha seguito dall’inizio, per chi si è unito tardi alla vacanza a Zombieland, a chi mi ha abbandonato, a chi ha letto silente, ma fedele. Quindi in particolare grazie a: Divergente Trasversale, Hermione Weasley, Alwaysmiling_, Perishable97, Blackmoody, Ragodoll_Cat, Eclisse Lunare, hikaru90, jodie_always, AThousandSuns, missgenius! (se ho scordato qualcuno, come sempre, sono disposta a ricevere reclami).

Poi di nuovo in particolare alla mia beta e socia Sere, nonché sempre Hermione Weasley, perché c’è sempre, legge sempre con entusiasmo tutte le mie vaccate e mi sopporta e supporta. Soprattutto le pippe mentali che mi partono sempre quando scrivo qualcosa. Sul Clintasha nemmeno devo specificarlo invece. È bello continuare a sclerare nel bene e nel male. Questa fanfic è passata proprio attraverso tutte le fasi di crisi di questa nostra tormentata passione Marvelliana. E l’ha superata (no, non la supereremo mai).
A proposito di Hermione Weasley, consiglio una fanfic che sta pubblicando or ora e che merita proprio. Se vi piacciono gli AU ambientati nel passato, la sua “Senza Rumore” fa per voi. Click click.

Ed è tutto. Davvero questa volta. Finalmente posso dedicare tutta la mia attenzione a Dark Rain. Quindi… direi che non ci sentiremo più qui, ma dall’altra parte. Da un mondo post apocalittico a un futuro distopico (più o meno), la prossima volta scriverò una storia ambientata in un bar zozzo di Detroit. No, scherzo. Ma chi può dirlo?

Grazie di nuovo a tutti quanti e… alla prossima!

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