La banda dei fuggiaschi

di Yellow Canadair
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La lunga marcia ***
Capitolo 2: *** Un tetto sopra la testa ***
Capitolo 3: *** La fine del temporale ***
Capitolo 4: *** La vita continua ***
Capitolo 5: *** Una partita interrotta ***
Capitolo 6: *** Verso casa ***
Capitolo 7: *** Io ti troverò ***
Capitolo 8: *** Epilogo: cuore colombo ***



Capitolo 1
*** La lunga marcia ***


Per rinfrescarsi la memoria: qui le Mini-Avventure del CP9 ("Missioni extra-curriculari del CP9"). 

 

 

La lunga marcia

 

Jabura stava in piedi e fissava Lucci in silenzio, dall’alto.

Non ci era molto abituato. Ma ora che vedeva il suo rivale così, sconfitto e distrutto, poteva dire che a litigare non c’era gusto: sembrava faticasse persino a respirare.

Blueno aveva deposto Rob Lucci su una parete di mattoni crollata, venuta giù per intero senza sfarinarsi, unica superficie relativamente liscia in un’isola devastata. Era stato proprio Lucci a chiedere di essere messo giù, di non essere più trasportato come una bambola di pezza, ma una volta sceso dalle spalle del collega non aveva più avuto la forza di alzarsi.

Califa stava in un angolo, cercava di coprirsi con la sua schiuma ma non si univa ai suoi colleghi. Blueno le portò una cosa: era una tenda sporca e strappata, ma almeno poteva avvolgervisi.

« Questa è una molestia sessuale » soffiò la donna, ma sembrava più un sospiro che un ammonimento.

« Hai assistito Iceburg tante volte » disse Blueno « Vieni a dare un’occhiata a Lucci. »

 

Erano riusciti a metterlo disteso, a convincerlo a non tentare di alzarsi ancora. Il sangue non si fermava, Hattori era disperato, Kaku non gli lasciava il polso.

Califa assisteva Iceburg quando non stava bene, era vero, ma quella di Rob Lucci non era certo un'influenza. Gli pulì il sangue secco dal volto, gli fece sollevare un po' i piedi, ma non aveva nemmeno dell'acqua. Fukuro e Kumadori lo trascinarono all’ombra di una tettoia crollata a metà.

« Non posso farci niente » asserì la donna portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. « Bisogna portarlo da qualcuno »

Il colombino bianco era atterrato vicino al suo amico e piangeva sconsolato. Può sembrare strano che un piccione pianga, eppure era proprio così. Tubava inconsolabile e ogni tanto si alzava in volo per poi riatterrare subito dopo, come se non volesse allontanarsi ma nemmeno riuscisse a rimanere fermo senza sapere che fare.

Non si sentivano suoni, se non lo sciabordio delle onde contro il molo della stazione devastata e il rombo lontano e cupo dell'enorme cascata di Enies Lobby. Le ultime nubi di polvere si andavano depositando, e rivelavano una distesa triste di macerie silenziose. Calcinacci, mattoni, brandelli di stoffa emergevano dai cumuli di mattoni. Ovunque si andasse, bisognava stare attenti a non scivolare sulle tegole rotte, sui cavi tranciati. Si sentiva un cattivo odore, a volte sembrava gas, altre volte sembrava fogna.

In lontananza, oltre una collina di edifici sventrati, si alzava al cielo il fumo di un incendio.

« Yoyoi! Enies Lobby è oramai una landa desolata, senza vita né speranza! Dove sono i lieti rii? Dove sono i prati aulenti? Tutto è perduto! » si disperò Kumadori con un occhio chiuso brandendo il suo bastone.

« Allora bisogna proseguire per Marineford » considerò Califa « È il centro più vicino: serve un medico. »

 

Intanto, Jabura e Blueno scattarono al riparo di alcune macerie. Meno male che non erano andati subito incontro ai Marine! Si guardarono fra loro per alcuni secondi, poi lasciarono perdere quegli stupidi militari e tornarono dagli amici.

Che bella riconoscenza! Spandam non aveva esitato un istante ad addossare a loro sette la responsabilità del Buster Call, la distruzione dell’isola e la mancata cattura di Cappello di Paglia.

« Siamo ricercati! » ringhiò Jabura a conclusione del rapporto una volta tornato dal resto del gruppo.

« Quindi direi proprio che Marineford è fuori discussione » sorrise stanco Kaku, seduto anche lui all’ombra della tettoia. Era uno di quei sorrisi che si facevano per non piangere.

Del resto, quando sei solo, stanco, ferito e ora anche ricercato nel bel mezzo di un’isola distrutta ci sono solo due cose da fare: piangere o andare avanti.

Le due cose non si escludevano a vicenda, ma il drappello risparmiò sui fazzoletti e decise di prendere il largo; non c’erano navi che potessero occupare senza attirare troppo l’attenzione, e nessuno di loro se la sentiva di affrontare uno scontro, finanche contro delle deboli reclute di Marine.

« Allora cammineremo. » propose ancora Kaku, indicando una strada che riposava appena sotto il pelo dell’acqua.

 

 

Con le macerie di Enies Lobby ancora fumanti, il gruppo si mise lentamente in marcia.

Califa, prendendo la mano di Kumadori, staccò con delicatezza un piede dalla banchina e lo appoggiò sulla traversa di legno delle rotaie. In fretta, tutti gli altri fecero lo stesso, abbandonando la rassicurante terraferma. All’inizio fu difficile e anche un po’ impressionante camminare sull’acqua, specie per tutti coloro che con il mare non avevano tanta dimestichezza.

Era anche necessario mettere i piedi esattamente sulle assi, perché mettere un piede tra l’una e l’altra avrebbe significato uno scivolone dritto in acqua. Nulla di troppo preoccupante, ma nelle loro condizioni era meglio non aggiungere altri problemi a quelli che c’erano già.

Il mare li bagnava attraverso le scarpe zuppe, la lunga strada era appena cominciata, eppure sembrava già che stessero camminando da ore.

Califa si tirò su gli orli della tenda che portava addosso: il vento aveva ne fatto cadere nell’acqua un lembo, e si era inzuppato.

« Lascia perdere » le disse Jabura superandola e porgendole il suo tangzhuang, la giacca nera con gli alamari. « È più comoda, se dovremo difenderci » disse l’uomo a mo’ di spiegazione. La donna lasciò perdere la grande e pesante tenda e s’infilò l’indumento, chiudendo gli alamari sul davanti.

 

« Chapa! » esclamò Fukuro scattando a prendere Kaku quasi al volo. Lo sorresse per un pelo, risparmiandogli una caduta sull’acqua bassa delle rotaie.

« Sto bene, sono solo… » guardò il blu profondo sotto di lui che si intravedeva tra i binari. « Sono solo scivolato. Sto bene »

Ancora una volta fu Jabura a darsi da fare: si issò sulle spalle Kaku, tra mille proteste. Tolti Kaku e Lucci, era lui il più forte, e finalmente poteva dimostrarlo. Del resto, erano almeno sei ore che erano in marcia e quello stupido era in condizioni disperate, come poteva pensare di resistere così fino a San Popula?

 Il carpentiere però rimaneva vigile, e indicava loro la strada. « Allo scambio » diceva «Bisogna andare verso destra »

« A sinistra c’è Water Seven » asserì Blueno.

« Non credo che Iceburg sia disposto a perdonarci così facilmente » continuò Kaku « Ma forse a San Popula potremo stare tranquilli per un po’. »

A notte fonda arrivarono alla biforcazione: continuando, sarebbero arrivati nella cara vecchia Water Seven; virando decisamente a destra, avrebbero proseguito per San Popula.

Lasciandosi Water Seven e tanti laboriosi giorni alle spalle, Jabura spaccò con un gesto rapido la leva che azionava il cambio dei binari, lasciandola fissa in direzione Enies Lobby, e la usò per sostenere meglio Kaku.

Forse sarebbe stato un indizio per eventuali inseguitori, pensò Califa, ma si strinse addosso la giacca del compagno rigida di sporco e non parlò: Kaku rischiava di scivolare, e lei non aveva voglia di litigare.

Stavano vagando nella tenebra più nera, proseguivano lenti e il silenzio della notte era rotto solo dallo sciabordio delle onde e dal vento che s’infilava sotto i loro vestiti. “Meno male” pensava Kaku “Che l’acqua-laguna è passata”. In testa al gruppo c’era Kumadori, che con i lunghi capelli controllava che i binari proseguissero e non deviassero bruscamente, comunicando al gruppo eventuali danni alle rotaie; al centro stavano Califa, Blueno e Fukuro; chiudeva la fila Jabura con Kaku sulle spalle.

« Così controllo io che nessuno rimanga indietro » disse fiero.

« Già. Bravo cane da pastore » replicò Kaku.

« Te la fai a piedi! » lo minacciò Jabura in risposta.

Hattori volava basso, in cerchio sopra la testa di Kumadori, che sbraitava e gli prometteva una viaggio laddove riposava la sua amata madre, se avesse osato fare la cacca sulla sua giacca. Se solo Rob Lucci fosse stato sveglio, gli avrebbe fatto ingoiare tutte quelle parole! E comunque, Hattori era un colombo beneducato e non faceva i suoi bisognini sulle persone. Se solo avesse potuto parlare, avrebbe detto a quell’inetto di non portare il suo amico così, come un sacco di patate sulla spalla, quando già stava rischiando la vita di suo!

 

~

 

Un agente del CP è addestrato alla segretezza, al riservare i propri sentimenti, a non mostrare alla gente cos’è veramente. Gli allenamenti sono duri, e gli agenti devono sopportare senza lamentarsi la sete, la fame, la stanchezza, le ferite sanguinanti e le ossa rotte.

In realtà, dopo più di dieci ore di marcia forzata in mezzo al mare, sotto il sole e nella notte, senza cibo, dopo aver sostenuto una serie di lotte da cui erano usciti malmenati e sconfitti, e dopo il colpo di grazia assestato a tutti loro da quell’infame di Spandam, tutti gli addestramenti divennero concime per i campi: vedere San Popula in lontananza nella luce rosata del mattino con i suoi tetti di ardesia blu, i comignoli di terracotta, e persino le sue nubi cariche di pioggia fu un’emozione grandissima, e il sollievo si dipinse sui volti degli agenti ancora coscienti.

« Yoyoi! Siamo dunque giunti all’agognata meta! Quale meravigliosa vista » Kumadori dette voce a ciò che albergava negli animi di tutti.

Fukuro aveva capito che trasportare Lucci su una spalla come l’agnello di Pasqua, alla maniera di Kumadori, non era una mossa furba, ed erano parecchie ore che lo faceva viaggiare in braccio.

« Chapapa… Califa… » chiamò la donna preoccupato.

Il tono angosciato del compagno attirò immediatamente l’attenzione di tutto il gruppo.

L’ex-segretaria della Galley-La fu immediatamente al capezzale dell’uomo. Gli bagnò i capelli con l’acqua, come faceva con tutti durante quella camminata, mentre ascoltava la voce agitata di Fukuro. « Ha tremato tutto, e adesso… non lo so! Sta diventando freddo! »

« “sta diventando freddo”?? » si avvicinò Blueno.

« Respira ancora, vero? » si sporse Kaku dalle spalle di Jabura.

« Ehi! Non fare scherzi, gattaccio! » tuonò il lupo. 

« Mettigli addosso questa! » si offrì Blueno togliendosi la giacca.

Califa coprì il collega e gli accostò due dita davanti al naso, trattenendo il fiato. « Il respiro c’è… » disse infine tirandosi una ciocca dietro l’orecchio. « Ma non sta bene… dobbiamo correre. »

 

~

 

La donna sudava e si contorceva, stringendo convulsamente i braccioli di una sedia a rotelle lanciata a velocità folle lungo i vicoli di San Popula.

« Va tutto bene, Lena, andiamo su e ti fanno l’epidurale, non sentirai niente! »

« VAFFANCULO!!! DOV’È QUELLO STRONZO DI BOLLA?? »

« L’abbiamo chiamato, sta arrivando! Non si perderà mica la nascita del suo bambino! »

La carrozzella a rotelle sfrecciava in salita, dribblava i passanti sotto gli ombrelli, guadava pozzanghere sollevando tsunami e inanellava una serie di slalom su per la strada che portava alla clinica di San Popula, unico ospedale della zona, spinta da una ragazza in tuta bianca e verde alta, atletica e con due treccine bionde che le scendevano sulle spalle.

Era appena andata a prendere a casa sua, nei vicoli più stretti della città, Lena, una “puerpera attempata” come sarebbe stato scritto sulla sua cartella clinica, che stava per mettere alla luce il suo primo bambino. Sudava, era nervosa e aveva i capelli ramati appiccicati alla fronte.

Non aveva scelto una gran giornata per partorire, la pioggia rallentava la corsa e inzuppava la camicia da notte della partoriente.

« Sono gli ultimi cinquecento metri! La grande preparazione della barelliera è sinonimo di garanzia! Il carro del fruttivendolo ci fa passare! Siamo in testa! Signora con il cappellino strano, non passi adesso! Finale incredibile! La città si ferma! Ci sono altri quattrocento metri! Ma ce la facciamo! Lena, resisti! Abbiamo fatto una partenza micidiale! » una radiocronaca gentilmente offerta dalla stessa ragazza che spingeva con foga la carrozzella.

« Jodieeee, il bambino vuole uscire!!! » piangeva Lena.

« No Lena, non abituarlo a ottenere subito tutto! »

In quel momento, sotto la pioggia battente, gli agenti del CP9 a un passo dal panico stavano chiedendo alle persone sotto la pioggia dove fosse l’ospedale cittadino.

« Dunque, come spiegarvi… » cominciò il farmacista con tutta la calma del mondo, come se davanti a lui non ci fosse Rob Lucci in fin di vita, Kaku con evidenti traumi interni e Jabura distrutto dal trasportarlo sui binari diverse ore. « Avete presente la chiesa di St. Biagi? ecco, non andate da quella parte, ma facendo una lieve curvatura a nord-ovest di… »

« …è un percorso molto difficile per la coppia Jodie/Lena che rimonta! Rimonta! Guardate la falcata perfetta della spinta che detta la differenza in questa… »

« Seguite lei. » indicò l’uomo, e una carrozzella a rotelle passò sfrecciando sui piedi di Blueno.

« …incidente sfiorato signori, incidente sfiorato, ma non perdiamo velocità e continua, continua, la salita! Altri duecentocinquanta metri! Sempre in testa! Il nuovo record… »

« Sono altri duecentocinquanta metri in quella direzione. » sorrise il farmacista.

Il gruppo si affrettò a seguire la carrozzella e la voce della folle radiocronaca.

 

~

 

« E all’attacco con gli ultimi cinquanta metri Jodie aumenta l’andatura, che show signori! La pioggia aumenta la sua intensità ma ormai Jodie è inarrestabile! È inarrestabile! Attenzione al gruppo  di paramedici che occupa il cortile! Grande slalom! Grande slalom! Ultimi dieci metri! Jodie reagisce negli ultimi cinque metri! E vince! Vince! »

« Tenetela lontana da me… » diceva Lena a due medici che la scortavano dentro l’ospedale.

Il gruppo del CP arrivò sul piazzale dell’ospedale poco dopo. Essendo un ospedale piccolino, molti medici erano all’interno a occuparsi della partoriente, e sul piazzale c’era solo la barelliera Jodie che stava sistemando in una rimessa la sedia a rotelle appena utilizzata.

Gli agenti la ignorarono e stavano per entrare nell’ospedale.

« Ehi! Ehi, voi! » chiamò Jodie.

Tutti si voltarono. Erano a pezzi, affamati, stanchi, chi osava disturbarli quando erano a un passo dalla meta?

Jodie squadrò il gruppo, facendo una rapida conta dei danni. Voleva dar loro una mano ma non sarebbe bastata una sedia a rotelle.

« Cerco aiuto » sussurrò, intrufolandosi nell’ospedale di corsa.

 

Entrarono da una porta a vetri che dava su una sala d’aspetto vuota; sulla destra c’era il bancone bianco e verde dell’accettazione con una donna che aprì la bocca per chieder loro qualcosa, ma fu preceduta dall’arrivo di Jodie, che entrò da una porta antipanico sul fondo della sala spingendo una barella, seguita da due corpulente infermiere dai capelli rosa, la faccia rugosa e le autoreggenti a rete.

« Presto, presto, mettilo qui! » ordinò una di loro a Fukuro, che reggeva Rob Lucci.

Le infermiere immediatamente cominciarono a osservare il ferito, a infilargli lo sfigmomanometro e a parlare concitate tra di loro.

« Infermiera Barbara, infermiera Ann! » esortò Jodie « Allora? »

« Frequenza cardiaca? » chiese Barbara.

« Brachicardico! » rispose concitata Ann.

« Frequenza respiratoria? »

« Bradipnoico »

« Trauma celebrale, al torace e all’addome, alta probabilità di fratture composte! » completò Jodie facendo diventare pallidissimi gli agenti del CP9. Se quelle di prima erano parole poco o per niente note, quelle invece le capivano benissimo.

« Fratture esposte? »

« Nessuna! »

« Ha avuto uno shock emorragico! » questa forse non avrebbero saputo dire esattamente in che consisteva, ma sapevano che era grave.

« È un codice rosso! Accesso immediato alla sala! » urlò imperiosa l’infermiera più alta verso Jodie, che subito cominciò a spingere il lettino.

« Partenza difficile per il lettino, che scatta dai blocchi… » mormorò la ragazza cominciando la sua corsa.

« Dove state andando? »

Dalla porta antipanico spalancata che avrebbe condotto Lucci, Jodie e le infermiere nella sala delle emergenze comparve un uomo.

Non era né alto né basso, né giovane né vecchio, i capelli erano radi e color ferro ma in ordine e ben pettinati, gli occhiali da lettura pendevano dal collo sulla camicia con una catenella dorata; aveva il camice bianco dei medici, e dallo scollo si notava che aveva non solo una camicia di sartoria azzurra, ma anche un panciotto dello stesso tono di colore. La sua voce era pacata e calma, e tradiva una sicurezza ben salda sui pilastri della morigeratezza e del rispetto letterale delle regole: era costui un burocrate.

« Signor direttore, è un codice rosso, devo- » cominciò l’infermiera.

« Al tempo, infermiera Barbara. Infermiera Ann, » disse il direttore calmissimo, rivolgendosi all’altra infermiera. « È già stato saldato il conto per questo… baldo giovanotto? »

Le infermiere Barbara e Ann si guardarono tra loro sbigottite, poi la più bassa disse: « I suoi amici stanno consegnando ora i suoi dati. Se non ci sbrighiamo… »

Kaku colse il messaggio e andò subito al bancone dell’accettazione, lasciando una serie di credenziali false su Rob Lucci. Dopo aver raccolto tutte le informazioni necessarie, la donna dietro la scrivania staccò un foglio e lo consegnò al carpentiere, che lesse la cifra in fondo e trasecolò.

« Potete anche pagare anche rate: una adesso e una a metà terapia. » sorrise il direttore, che ancora sbarrava il passo al lettino.

Jabura scattò in avanti rabbioso, ma Califa e Blueno lo afferrarono prima che potesse ridurre il direttore a un paté.

« Pagheranno! » promise Jodie. « Ci faccia passare, per favore! Non vede che è grave? »

Il direttore guardò Rob Lucci con bonarietà. « Non sottovaluti le mie capacità di giudizio, signorina Jodie. O io potrei sottovalutare la sua domanda per entrare nel corpo dei paramedici. »

« Ma… » la voce di Jodie arrivò quasi rotta, alle orecchie degli agenti. « Ma… lui sta morendo… » 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Ciao a tutti! Grazie per aver letto il primo capitolo della mia nuova long! La storia ripercorre le Miniavventure del CP9 (pubblicate sui volumi dal 50 al 54), quindi cosa è capitato loro dopo che Rufy li ha sconfitti ad Enies Lobby. 

Ringrazio tantissimo mlegasy, il cui cazziatone è stato assolutamente necessario per scuotermi dal torpore e spingermi a tornare a scrivere seriamente. E lo ringrazio anche per essersi sorbito tonnellate di vaneggiamenti su Rob Lucci. 

Grazie anche a Eneri_Mess per l'infinita pazienza: non ne può più di sentirmi parlare di Rob Lucci e Jabura. Sì, ho proprio sfrantumato i cachiucchi alla gente con questi due bellissimi ragazzoni. Ma andiamo, non sono un amore? <3 

Ringrazio ancora una volta Sherry21 per gli appunti sul ricovero ospedaliero; è da un po' che non si vede qui su EFP ma, Sherry21, se stai leggendo, sappi che quegli appunti li uso ancora e te ne sono molto molto grata!

Non mi sarei mai e poi mai aspettata di scrivere del CP9 e di affezionarmi così tanto a loro. A cominciare da Lucci (che caratterizzare è un'impresa, e sono contentissima che sia in coma per mezza storia), ma soprattutto scrivere di Kumadori e delle scaramucce tra Jabura e Fukuro è stato veramente bello e veramente liberatorio. Poi oh, magari a voi mica piace come mi è riuscito il tutto, però sappiate che mi sono divertita a scrivere i loro dialoghi. 

Tra i personaggi originali di questa storia spicca la barelliera Jodie, la cui fluentissima e sportiva parlantina è ispirata alle appassionate telecronache di Giampiero Galeazzi, in particolare quella del Canottaggio alle Olimpiadi di Seul del 1988 (vittoria dei fratelli Abbagnale).

Grazie ancora a tutti i lettori per aver letto fin qui (eroici!!!), sarei contenta se lasciaste una recensione anche perché mi rendo conto che i protagonisti sono molto... discutibili, e mi rendo conto che nella loro saga hanno fatto davvero di tutto per farsi tifare contro! Cosa pensate di questo gruppo? Io personalmente, tolti Kaku e Lucci, mi ricordavo poco di tutti gli altri, e ho dovuto rileggere mezza Water Seven e tutta Enies Lobby!

Yellow Canadair

 

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Capitolo 2
*** Un tetto sopra la testa ***


Per rinfrescarsi la memoria: qui le Mini-Avventure del CP9 ("Missioni extra-curriculari del CP9"). 

 

 

Un tetto sopra la testa

 

Una figura silenziosa comparve alle spalle del direttore. « Che cosa sta succedendo qui? Questa porta non deve mai rimanere aperta a lungo. » disse una donna alta, con i capelli lunghi e color ebano che le scendevano in due ciocche ondulate ai lati della testa. Aveva gli occhi grandi incredibilmente tristi e un tono di voce lugubre come la pioggia che scendeva a San Popula quel giorno.

« Primario Charlotte Gelatine! » la salutò con speranza Jodie. « Codice rosso! »

« Santo Cielo, direttore, perché non fa passare la barella? »

« Mia cara Gelatine, le regole sono regole! Non è ancora stata pagata la prima rata per questo paziente, e io non posso assolutamente lasciare che venga operato. Si creerebbe un pericoloso precedente in questo nosocomio. » spiegò il direttore.

« Direttore, conosco benissimo le regole di questo ospedale. E conosco anche le regole del mio Ordine. » spiegò il mesto primario accarezzandosi i lunghi capelli neri. « “In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario” » recitò la donna con ritmo cadenzato. « Lei sta inferendo su un uomo inerme, ostacolandone il ricovero »

« È stata sua madre, personalmente, a darmi l’ordine di far rispettare le regole dell’ospedale. NON quelle del Giuramento! »

Charlotte Gelatine s’inalberò, gli occhioni lucidi si trasformarono in due fessure minacciose, abbandonò il tono mesto, spinse la barella di lato (anzi, le due infermiere e Jodie dovettero trattenerla perché non sbandasse pericolosamente) e sibilò irosa: « Non hai nessun diritto di nominare mia madre, lurido verme di terra! E ringrazia di avere un contratto vincolato, altrimenti ti avrei sbattuto fuori dal mio ospedale nel momento stesso in cui ci ho messo piede! »

Kaku intanto si avvicinò al suo compagno sulla barella. Le parole involontarie di Jodie avevano molto impressionato lui e i suoi amici: “Sta per morire”, aveva detto. Mise da parte qualsiasi ritegno e, attirata l’attenzione di Charlotte Gelatine, le sussurrò: « Signora, per favore… troveremo i soldi, ma non lo abbandoni. »

Charlotte Gelatine tornò immediatamente una creatura afflitta e dolce: « Cosa gli è successo? » domandò accarezzando i capelli neri e sporchi di Rob Lucci con fare materno.

« U-una rissa » disse esitante Kaku.

« Chapapa! Una grande rissa con Rufy Cappello di Paglia » cianciò Fukuro, e più tardi ci vollero due infermieri muscolosi per staccarlo dal muro dove l’aveva mandato a schiantarsi Blueno.

« Una rissa con dei marinai di Capnew, il regno della Paglia » improvvisò Jabura « Hanno tentato di molestare sessualmente sua sorella » disse indicando Califa, che gli resse il gioco asserendo: « Quella era decisamente una molestia sessuale. »

Poi Jabura riprese la parola: « Ma lui è intervenuto e l’ha salvata »

« Caro ragazzo » sussurrò Charlotte Gelatine. Poi, rivolta a Kaku, che era più basso di lei e nell’insieme doveva sembrarle poco più di un bambino sporco, disse: « Trova quei soldi e placa il direttore. Farò in modo che il tuo generoso amico non muoia, non aver pensiero »

Poi il primario si voltò verso Jodie e la incoraggiò con mestizia: « Forza, quasi-paramedico Jodie, che aspetti? In sala 4, è già pronta e l’hanno appena pulita »

Il volto di Jodie si illuminò con un sorriso: « … l’avversario è troppo lento, troppo lento, e non serve il suo intervento per fermare la corsa del miracolo! All’attacco con le infermiere Barbara e Ann in testa con il primario che… » e la barella scomparve in fondo al corridoio. Un attimo prima che la grande porta si chiudesse, Jodie con un cenno della mano fece agli agenti: “Aspettate là!”.

Il direttore, schiumando di rabbia, uscì di scena con gli occhi fiammeggianti e una vena sulla fronte ingrossata come un fiume che sta per rompere gli argini. « Avete solo ventiquattr’ore a partire da mezz’ora fa. Ho perso fin troppo tempo con questa storia. »

 

Visto che a quanto pare era dalla loro parte, il CP9 aspettò notizie da Jodie. Sapeva che ogni minuto per loro era prezioso, quindi probabilmente non ci avrebbe messo molto. E poi, volevano notizie di Lucci: era davvero così grave? Erano riusciti a salvarlo, almeno per il momento?

Aspettarono.

Si fermarono in sala d’attesa, davanti alla scrivania dell’accettazione e per la prima volta dopo ore si sedettero: le gambe cedettero sulle seggiole di plastica e loro tirarono il fiato. Jabura si stese direttamente per terra.

La donnina dell’accettazione li guardava critica. « Io mi farei dare uno sguardo » disse rivolta a Kaku.

« Non è necessario, sto bene » mentì lui dopo aver dato una scorsa al prezzario su un volantino che stava affisso dietro il bancone.

Kumadori cominciò a disperarsi, chiuse un occhio e recitò: « Yoyoi! Fosse accaduto tutto per mia cagione? Dovevo forse trasportare con maggiori cure il nostro compagno? »

« Sicuramente. » rincarò la dose Jabura guadagnandosi un’occhiataccia di Califa.

« È necessario che mi suicidi, l’onta è tale da non sopportarla…! »

« Sono trecento Berry per l’obitorio. Contante o assegno? » lo zittì la donna dell’accettazione.

Poi finalmente le porte si aprirono e uscì Jodie. Sorrideva, non sembrava propriamente felice ma almeno era un buon segno. Immediatamente gli agenti la circondarono, e lei depose fra le mani di Kaku degli oggetti: tre piccoli e tozzi cilindri di metallo nero, leggeri, con i bordi color oro, poco più grandi di anelli da donna.

« I fermacoda del vostro amico. » spiegò lei davanti alla perplessità del gruppo. « Le cose metalliche vanno tolte. Glieli potete restituire quando lo verrete a trovare. »

« Come sta? Si è svegliato? »

« No, certo che no. È ridotto veramente male… » esitò, forse doveva usare parole più appropriate. « Ma non preoccupatevi! Sembra un ragazzo forte, no? La signora Charlotte l’ha preso a benvolere, se la caverà. Solo… beh, procuratevi quei soldi. Lo so che è difficile, ma…

« Va bene. » asserì Kaku sedendosi e prendendosi la testa tra le mani. « Adesso sta a noi. »

 

~

 

La parcella dell’ospedale era salatissima.

Le condizioni di Rob Lucci erano disperate.

Non c’erano i soldi per mangiare.

Cosa poteva andare peggio?

San Popula era sotto una pioggia fittissima.

Quella era l’isola con “La città della regina della primavera”, ma si sa che la primavera è una donna capricciosa, e il sole e la pioggia si alternano.

Era l’ora di pranzo, le strade erano deserte e c’erano cinque ex agenti del CP acquattati sotto un ponte; Blueno non era ancora tornato.

« Chapapa… hanno detto che è un tipo robusto » disse Fukuro in tono di consolazione.

Hattori, accovacciato su un cartone, tubò triste: aveva accompagnato gli amici di Rob su e giù per San Popula a cercare qualche lavoretto anche se erano stanchi morti; alcuni di loro erano anche feriti gravemente, e li teneva su la caparbietà e la fibra miracolosa.

« Hanno detto anche che senza soldi non iniziano la terapia » sospirò Kaku, che per non pesare sulle spese mediche aveva rinunciato a farsi lasciare all’ospedale. Ma non era messo male come Lucci.

Sembrava che San Popula, tanto fiorente e tanto piovosa, avesse già tutte le persone che occorrevano: Kaku e Califa, dopo aver tentato di cercare un posto in qualche rimessa per barche o in qualche ufficio di segreteria, avevano abbassato le loro richieste ed erano andati con gli altri a cercare altri impieghi: portapizze, baristi, garzoni, attacchini di manifesti, nessuno aveva bisogno di loro e nessuno li avrebbe pagati neanche un Berry.

Era stata una lunga ricerca durata da subito dopo aver lasciato l’ospedale, a metà mattina, e per ora avevano deciso di sospenderla perché stavano per svenire. Si erano ritirati sotto un ponte per scampare alla pioggia e aspettavano che i negozi riaprissero dopo la pausa pranzo per rilanciarsi nell’impresa di racimolare qualche soldo.

Blueno li raggiunse e distribuì loro del pane: un sacchetto di carta pieno di pane di quella mattina che apparve a tutti loro come un pranzo di Natale, e che fece immediatamente sgomitare i loro stomaci.

« Dove l’hai trovato? » chiese Califa speranzosa. Aveva guadagnato abbastanza per quelle pagnotte?

« Ho aiutato un tizio a tirare giù la saracinesca del suo forno, me li ha dati lui. Niente soldi. »

Per alcuni minuti non si sentì altro che il masticare vorace dei sei ragazzi.

« È necessario cercare un posto per dormire » considerò all’improvviso Califa.

« Perché, non ti piace qui? » ridacchiò Jabura indicando il sotto-ponte extralusso. « Ci sono persino i cartoni, come coperte. »

Nessuno raccolse la provocazione di Jabura, e rimasero silenti ad ascoltare la pioggia che scendeva. Dal canale davanti a loro si levava odore di umido e di salmastro, perché a poca distanza c’era il mare, e guardavano il mesto dondolio delle barchette al pontile sulla riva opposta.

Kumadori prese a recitare: « “piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri t'illuse…” » e seguitò a declamare quella vecchia poesia mentre lentamente la pioggia continuava a scendere, disegnando curve concentriche sulla superficie scura del fiume.

La poesia andava avanti tra paesaggi tranquilli e fanciulle palpitanti, e nessuno interrompeva quel monologo. Sembrava che le gocce di pioggia avessero preso a cadere in un ritmo diverso, e non somigliavano più a quegli spilli freddi che avevano inzuppato le loro vesti finora.

 

« Ricominciamo a cercare? » soffiò fuori Kaku preparandosi ad alzarsi in piedi.

Gli altri annuirono.

« Del resto rimanere qui non riporterà Paolino a casa » disse una voce accanto a Kumadori.

Tutti si voltarono a guardare chi avesse parlato.

Era una donna sulla sessantina, alta circa sessanta centimetri, con due grandi buste che pesavano insieme una sessantina di chili. Era molto forzuta.

Guardò anche lei gli agenti del CP9 attraverso due spesse e tonde lenti. « Siete i miei nuovi affittuari? » domandò. « Avevo appuntamento qui con i miei nuovi affittuari. Siete voi? »

Una magica equazione si disegnò nella mente del carpentiere: nuovi + affittuari = padrona di casa con casa libera. « È lei che affitta la casa? » ribaltò la domanda Kaku.

« Oh sì! Meno male! Temevo vi fosse successo qualcosa a Enies Lobby! Come siete sudici! Il viaggio dev’essere stato terribile! Ma come li puliscono, i treni? Venite con me, la casa è qui vicino! »

« Questa è chiaramente una molest- »

I capelli di Kumadori tapparono la bocca a Califa prima che rovinasse quella botta di fortuna.

La signora, si scoprì strada facendo, aspettava dei nuovi inquilini che dovevano arrivare quel giorno da Enies Lobby, ma gli agenti sapevano bene che da Enies Lobby non sarebbe arrivato più nessuno oltre loro: anche se fossero sopravvissuti al Buster Call, Jabura aveva rotto il cambio dei binari, il metodo più rapido per arrivare a San Popula. Con una nave ci sarebbe voluto del tempo per arrivare fin lì.

La signora li condusse poco fuori dal centro della città, in un quartiere tranquillo dalle strade spaziose e dalle case coloniche che sorgevano a un centinaio di metri di distanza l’una dall’altra; l’architettura somigliava a quella dei palazzi storici di San Popula, ma non c’erano tutti quei ricchi balconi e i cornicioni dalla foggia elaborata: era un modo di costruire più pratico, più adatto alla campagna che si estendeva dietro alle case.

« Però al lumacofono avevamo concordato solo quattro letti… e voi siete in sei. » osservò la padrona di casa strada facendo.

« Sì… all’ultimo minuto si sono aggiunti anche il nostro fratellone e la nostra sorellina! » imbastì Jabura mostrando Kumadori e Califa, che cominciava a essere un po’ stufa di essere usata per le balle del collega. In quale finta molestia sessuale l’avrebbe coinvolta, adesso?

« Lui ha perso il lavoro l’altro giorno, il circo in cui lavorava è stato spazzato via da un tifone, e lei ha lasciato il marito » Jabura abbassò la voce, fingendosi furioso per quello che stava per dire: « …quel bastardo la picchiava. »

La signora si mise una mano sulla bocca per il dispiacere e non replicò subito. « Oh, povera cara… » disse accarezzando il ginocchio di Califa.

« Questa è una molestia sessuale » disse l’agente, fredda e distaccata.

« È ancora sotto shock, vede? »

« Chiederò alle mie amiche del circolo del bungee jumping se hanno qualche materasso in più, va bene? »

Discussero anche del prezzo dell’affitto; avendo guardato gli annunci nelle vetrine delle agenzie immobiliari del paese, Califa constatò che era un fitto molto più basso delle altre case della stessa metratura che aveva osservato negli annunci; li aspettava una grande cucina su cui si sarebbero affacciate ben tre camere da letto e il bagno. La segretaria per un po’ aveva pensato di dover dormire tutti quanti per terra in un unico stanzone (molestia sessuale!), ma si domandava una cosa: quel fitto così basso nascondeva qualche difetto della casa o era solo dovuto alla posizione un po’ periferica?

Parlando parlando, arrivarono alla palazzina dove avrebbero vissuto: una grande casa colonica di due piani, senza ascensore, di mattoni azzurri con gli infissi bianchi. Al pianterreno viveva la padrona di casa, al primo piano avrebbero abitato i sei agenti del CP9, mentre nella mansarda risiedeva una famigliola con due bambini piccoli che, per due ore esatte al giorno, dalle tre alle cinque del pomeriggio, facevano una gran baraonda mentre per il resto del giorno si sarebbero dette due mummie, tanto che giocavano in assoluto silenzio.

« Questo era l’appartamento che doveva abitare il mio povero bambino, Paolino! » pianse la padrona di casa girando una grande chiave di ferro nella vecchia toppa.

« Yoyoi! Sorti avverse tempestano la vita dei puri di cuore! Quale male imprigionò il destino della sua prole? » domandò Kumadori.

La signora si girò con uno sguardo assassino degno del peggior Rob Lucci e sibilò: « È andato via di casa per lavorare »

Interdetti, gli agenti non replicarono e la signora continuò: « Era troppo piccolo. IO ero contraria. »

« Quanti anni aveva? » domandò Fukuro scucendosi la bocca.

« Trentatre »

« Ma quale bambino! Chapapa, era adultissimo! Era ora che se ne andasse! Doveva fare il parassita a vita? » esclamò con dubbia riservatezza l’agente.

Jabura lo picchiò ricordandogli che era il dovere di ogni bambino rimanere per sempre nella stessa palazzina della mamma, e la signora gli fece lo sconto sull’affitto.

 « Cari, e i vostri genitori dove sono? »

« Siamo fratelli. La nostra mamma era una coraggiosa Marine morta in servizio, papà era un macellaio » Jabura riuscì pure a spremersi una lacrimuccia « E ci hanno detto, sul letto di morte: “bambini, non vi separate mai! E prendetevi cura del nostro piccione viaggiatore” »

La signora fu molto, molto commossa dalla storia e promise a Jabura una torta.

« Io avevo pure trovato un bel lavoro a mio figlio! Doveva fare l’impiegato al catasto cittadino e invece no! A Water Seven doveva andare, a fare il carpentiere! Mannaggia a me che non gli ho raddrizzato quella fissa dei nodi e delle corde! Mi manca così tanto… a casa conservo ancora una scatola vuota dei suoi sigari preferiti… »

« Ma è Pauly!! È Pauly del Dock 1! Quello che Lucci odia! » esclamò Fukuro mettendosi fuori dalla portata di Jabura.

« Conoscete Paolino!? E ditemi, come sta? »

Consapevoli di aver innescato una bomba, Jabura si affrettò a dire: « No, no… sicuramente non è lui, il nostro amico si è confuso con un altro carpentiere!

La signora si chetò e per fortuna cominciò a fare da cicerone nella casa: se avesse cominciato a parlare di Pauly da piccolo, difficilmente Kaku avrebbe smesso di ridere e Fukuro a lungo andare si sarebbe lasciato andare in racconti troppo dettagliati, mentre era necessario mantenere un basso profilo: Water Seven? Chi, loro? Mai sentita nominare.

La porta d’ingresso si affacciava su un grande salotto con un accogliente divano, e dall’altra parte dell’ampia stanza c’era la cucina con il tavolo da pranzo di legno al centro e quattro sedie assortite, che la separava dalla zona salotto; su questa zona giorno si affacciavano tre camere da letto, una matrimoniale e due spaziose singole; nel bagno c’era un terribile odore di chiuso e i sanitari rosa antico stonavano con gli armadietti verdi.

I rubinetti erano quasi tutti da aggiustare, le maniglie erano flosce e tutte le prese di corrente avevano i fili esposti, ma per fortuna c’era Kaku che, da carpentiere, era in grado di risolvere tutto in poco tempo.

« Ma voi… » aguzzò la vista la donna mettendo a fuoco i suoi affittuari « Ma voi siete feriti!! » esclamò spaventata. « Oh, poveri cocchi! Adesso ci penso io! »

« Signora, ecco… » la fermò Kaku esitante « La ringraziamo molto, ma non… ce la caveremo da soli… non abbiamo molto con noi, al momento. »

La signora, tranquillissima, apr​ì il primo cassetto della cucina ed estrasse un cucchiaio di legno, e con esso Kaku si beccò una caterva di botte da una donna di sessant’anni che pesava sessanta chili ed era alta sessanta centimetri: era terribilmente offesa dall’idea che il suo inquilino pensasse che lei volesse essere pagata per una cosa del genere.

 

Venne fuori che il “piccolo Paolino” da piccolo era uno scapestrato, sempre a fare risse con i ragazzotti del porto, e la signora aveva imparato per amore e per forza a ricucirlo. Per cui le risultò semplice prendersi cura dei sei ragazzi, e per di più non brontolavano nemmeno per l’acqua ossigenata che bruciava!

« Prima tu » aveva detto rude Jabura spingendo Kaku verso la signora. E in effetti il povero carpentiere, dopo averle prese (anche) da Zoro, era messo proprio male.

Si sistemarono nella camera da letto matrimoniale, che era la più pulita, e aveva un grande comodino dove poter poggiare con praticità le garze e i fili di sutura.

Uno alla volta, prima Kaku, poi Califa, poi tutti gli altri, si sottoposero alle cure della padrona di casa. La porta della stanza, salvo per la ragazza, fu lasciata solo socchiusa, e Fukuro si chiuse la bocca con la sua zip per evitare di fare gaffe.

« Dovete volere davvero molto bene a vostro fratello » disse la signora dopo aver sentito una versione decisamente romanzata della storia di Rob Lucci.

« Papà lo picchiava… e da piccoli litigavamo tanto… ma siamo una famiglia… » raccontava Jabura con un’interpretazione da Oscar. « Lo voleva solo educare, non era un papà cattivo… ma Rob ha un caratteraccio tremendo… »

« Jabura, stai spaventando la padrona di casa » gli ricordò Blueno.

« Oh benedetti ragazzi, avete sofferto così tanto… » si commuoveva la signora. « Forse dovrei essere felice del fatto che Paolino stia bene, e che non abbia passato una brutta infanzia… »

Tutti stavano per rallegrarsi di questa decisione quando la signora continuò: « No, che dico? Ha tradito sua madre, continuerò a serbargli rancore! » poi tornò di miele: « Stasera torno a portarvi i materassi per dormire! Non preoccupatevi e pensate solo a cercare un lavoro! »

« E adesso? » disse Kaku quando la padrona di casa fu andata via.

« Torniamo in città. » dispose pratica Califa. « Ogni minuto è prezioso. »

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Ciao e grazie per aver letto anche questo capitolo! Poveri ragazzi del CP9, cornuti, mazziati, ma io li adoro troppo e metterli in scena mi dà tanta soddisfazione. Dai, Jabura e Kumadori non sono un amore inenarrabile? ♥ 

A proposito di Kumadori, i versi che qui recita fanno parte della lirica "La Pioggia nel Pineto”, composta da Gabriele D’Annunzio nel 1902. 

Il personaggio originale di Charlotte Gelatine (sì, figlia di cotanta madre!) fa riferimento al Giuramento di Ippocrate, che è un giuramento speciale che onorano tutti i medici. Lei però cita quello originale di Ippocrate, composto intorno al IV a.C. I medici di oggi giurano su un testo un po' diverso... i tempi sono cambiati! 

Rob Lucci è vanitoso! È un aspetto secondario (chissà perchè ma saltano all'occhio subito altri dettagli... tipo la sete di sangue e l'arroganza, chissà perché), ma a guardare bene i dettagli si nota che è un tipo che ci tiene molto al proprio look; la sua, per esempio non è una coda normale: in realtà Rob Lucci prima si fa una scriminatura ben dritta dalla fronte alla nuca, e poi lì si lega due codini vicinissimi, affiancati, stretti nei primi due fermacoda. Poi i codini convergono in una coda unica, retta dal terzo fermacoda. Si nota benissimo nelle vignette in cui è di spalle.

Detto ciò, grazie per aver letto! Spero che la storia vi stia piacendo, ma se avete dubbi, critiche o suggerimenti vi prego di non aver remore e usare il box delle recensioni!

Grazie e a presto,

Yellow Canadair

 

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Capitolo 3
*** La fine del temporale ***


Per rinfrescarsi la memoria: qui le Mini-Avventure del CP9 ("Missioni extra-curriculari del CP9"). 

 

 

La fine del temporale

 

I nostri scoprirono con molta facilità il motivo del fitto così basso: l’appartamento era disastrato. Non essendo riusciti a trovare di meglio, però, decisero di rimanere lì, perché difficilmente sarebbero riusciti a trovare una casa altrettanto grande allo stesso prezzo.

Le tre stanze da letto erano provvidenziali, altrimenti non sarebbero riusciti ad accontentare Califa che sbraitava sulle molestie sessuali ogni volta che qualcuno accennava al fatto che avrebbe dovuto dividere la stanza con un uomo: finì che le diedero la più piccola, ma almeno stava da sola; uno dei due letti che c’erano nella sua camera fu preso da Fukuro, che lo spostò nella stanza che avrebbe condiviso con Jabura.

Jabura e Kaku furono subito separati: non ci voleva proprio che cominciassero a litigare nel bel mezzo della notte! Il primo finì in camera con Fukuro, l’altro nella matrimoniale con Kumadori.

Siccome Jabura non la piantava di sfottere Kaku e Kumadori perché avrebbero dovuto condividere il letto, Kaku ribattè che almeno lui un letto per dormire ce l’aveva: Jabura entrò in quella che sarebbe stata camera sua, e si accorse che avrebbe dormito sul pavimento, almeno finché la padrona di casa non gli avrebbe portato un materasso.

Blueno si accontentò del salotto, dove c’era un divano-letto, ma quella che sembrò la scelta più sacrificata si rivelò invece la migliore: aveva tutto lo spazio che voleva e non doveva dividerlo con nessuno.

La postazione di Hattori fu sulla credenza nella cucina (che poi era anche ingresso e salotto). Per i suoi bisogni Kaku gli aveva predisposto una cassetta della frutta piena di vecchi giornali vicino alla stufa, ma il colombo non la usava mai: preferiva spiccare il volo dalla finestra e andare lontano da occhi indiscreti.

La mobilia era frutto di diversi robivecchi e di sostituzioni effettuate in casa della padrona, e attraverso i mobili si poteva ricostruire una sorta di cronologia: il pezzo più antico era il tavolo di marmo bianco in cucina, che fu prontamente soprannominato “la lapide”; poi c’era il letto matrimoniale con la testata in ferro battuto, tutto riccioli, della camera di Kaku e Kumadori; successivi erano i comodini di legno intagliato in camera di Califa, mentre la cucina aveva uno stile molto moderno, era di lacca rossa, e doveva risalire a pochi anni prima. Di età indefinibile (ma vecchio al punto che Kaku dovette sostituirgli tre doghe tarlate) era il baldacchino di Califa. Blueno aveva fatto il suo affare con il divano-letto di manifattura squisitamente settentrionale e lo benediceva ogni volta che andava a dormire.

Un solo bagno da dividere in sei (con Lucci, sette) sarebbe stato una sfida.

La casa aveva una serie di magagne che l’avevano resa sfitta per molto tempo: gli infissi bianchi, così belli a vedersi, erano talmente vecchi che il venticello di primavera entrava dagli spifferi come se ci fossero state le finestre aperte; lo scaldabagno non scaldava un bel nulla, e l’acqua calda in bagno arrivava solo con uno stratagemma: qualcuno doveva sempre prima aprire il rubinetto della cucina, e solo così l’acqua calda sarebbe arrivata anche al bagno; chiudere una porta senza chiave era impossibile, perché le maniglie erano così allentate che bastava la minima corrente d’aria per spalancare tutto; il riscaldamento funzionava poco e male, ma la padrona di casa aveva promesso di chiamare il tecnico per aggiustare la stufa (tecnico che però nessuno avrebbe mai visto); il già nominato letto di Califa aveva assolutamente bisogno di manutenzione; le prese di corrente con i fili esposti erano un vero e proprio attentato, specie con la cucina che funzionava con una bombola del gas.

A causa di ciò, Kaku quel pomeriggio fu esonerato dal cercare lavoro.

« Credo che le prese e i letti abbiano la precedenza » gli suggerì Califa osservando la casa; strizzava un po’ gli occhi perché a Enies Lobby le erano volati via chissà dove gli occhiali, ma riusciva a vedere anche senza lenti che le correggessero quel suo fastidioso mezzo grado di astigmatismo.

« Lascia fare a me » la rassicurò il carpentiere, che si era già fatto prestare gli attrezzi dal padre di famiglia che abitava al piano di sopra; non erano utensili di prima categoria come quelli che usava alla Galley-La, però potevano essere utili a qualcosa.

« Se proprio ti piace fare la Cenerentola… » lo canzonò Jabura.

« Mi piace che la casa dove vivo sia in ordine e funzionale! Vuoi che ti spenga lo scaldabagno mentre sei sotto la doccia? » si difese Kaku.

 

Mentre camminavano verso il centro di San Popula, sempre sotto la pioggia ma stavolta con degli ombrelli (santa la padrona di casa), Hattori spiccò il volo dalla spalla di Califa e volò via senza voltarsi indietro.

« Il suo spirito avrà sentito qualche rumore portato dalla pioggia che noi umani non possiamo udire? »  si domandò Kumadori rallentando il passo e gesticolando in maniera molto teatrale.

« No » avversò Califa. « Va verso l’ospedale »

Fukuro, allarmatissimo, si scucì la bocca: « Ah! E se avesse sentito davvero qualcosa? Magari Lucci che gridava! Che soffriva! Che moriv-

« Piantala con queste cazzate!!! » urlò Jabura schiantandolo al suolo e facendolo finire in una pozzanghera. « È un fottutissimo piccione, cazzo! Sta andando dal suo padrone perché ha voglia di farlo, tutto qui! Chiuditi quella zip! » e con un gesto netto tirò la lampo del compagno.

« Non riesco neanche a immaginarmelo, Rob Lucci che grida. » osservò pacato Blueno, e tutti quanti annuirono.

 

San Popula non era una città grande, e in mezzo pomeriggio Califa, Blueno, Jabura, Fukuro e Kumadori riuscirono a girare anche quei quartieri che in mattinata avevano dovuto trascurare.

La risposta era stata quasi sempre la stessa: “Siamo al completo, lasciateci il numero e magari se serve vi chiamiamo”. Forse era per via di Califa che parlava di molestie sessuali quando un commerciante la chiamava “bella signorina”, o forse per l’aspetto minaccioso di Jabura che andava in giro senza camicia (per forza: l’aveva prestata a Califa), o forse ancora perché Kumadori tentava il suicidio spaventando i clienti dei ristoranti, vai a saperlo.

Dopo essersi separato, il gruppetto si ritrovò nella piazza principale di San Popula e si sedette sconsolato sotto il loggiato del municipio, dove come loro tante persone si riposavano dalla passeggiata pomeridiana nel quartiere dello shopping.

Dal campanile della chiesa davanti a loro planò un colombo bianco e si posò quieto in grembo a Califa.

« Hattori! » lo riconobbe la donna. « Hai notizie di Lucci? »

Il piccione la guardò fisso, poi zampettò un po’ sulle gambe dell’ex segretaria, poi tornò a fissarla. Abituati a sentirlo parlare, seppur con la voce di Lucci, adesso era un po’ strano che Hattori non rispondesse come un essere umano.

« Credo intenda “nulla di nuovo”. Se ci fossero problemi, sarebbe agitato » tuonò Blueno mentre Hattori si guardava intorno alla ricerca di briciole cadute ai bambini che mangiavano ciambelle a poca distanza.

« Almeno lui riesce a trovare cibo senza problemi » considerò Fukuro scucendosi la bocca. « Noi abbiamo fame, non mangiamo da stamattina e abbiamo mangiato solo un po’ di pane! Chapapa! » si lagnò.

« Piantala! Un po’ di contegno! » lo sgridò Jabura.

« Invero lui ha ragione! » si sollevò in piedi Kumadori brandendo il suo bastone. « E me ne assumerò tutta la responsabilità! »

Un bambino che mangiava il gelato sotto un ombrellino arancione si fermò.

« Giornate senza cibo, giornate senza gloria, e con il futuro che ci è stato sottratto… quale mai sarà il nostro destino? Non v’è onore, non v’è giustizia, né un luogo caldo dove tornare questa sera! »

« Chapapa, veramente quello l’abbiamo » obiettò Fukuro.

I capelli di Kumadori si irradiarono nel grande loggiato, colorando di rosa lo scenario grigio delle pietre del pavimento. « Inutile è continuare il periglioso cammino! Non ho più forze, né so reggermi in piedi: corro con l’aiuto delle mani, non con veloci gambe. Non è più nulla, è come un bimbo, una vecchia impaurita, così siamo ridotti dopo una vita di sacrifici per la giustizia che sempre abbiamo difeso! »

Si fermarono due signore con la cerata sopra il tailleur a guardare lo spettacolo.

Kumadori cominciò a fare la predica a se stesso: « Tu gemi, tu dormi: non ti alzerai al più presto? Quale altro compito ti è destinato se non fare del male? Sonno e stanchezza, potenti congiurati! Hanno spento l’impeto della feroce idra. In sogno tu insegui la preda, e latri come un cane che mai abbandona l’affanno della fatica! »

Jabura cominciò a notare che molta gente si avvicinava e osservava Kumadori muoversi e recitare.

« Che fai? Lévati! Non ti vinca la stanchezza! Non scordarti, illanguidita dal sonno, l’offesa subita! »

Poi si rivolse al pubblico, che ormai era così tanto che non si vedeva più l’altro lato della piazza antistante al loggiato: « Ahi, ahi, sciagura! Cosa patimmo, compagne! Sì, molti dolori io soffersi, e invano! Tristissimo danno subimmo ahimè, un’intollerabile pena: dalle reti è sfuggita la fiera, è scomparsa. Vinta dal sonno ho perduto la preda! »

A quel punto, nel silenzio, il bambino col gelato, incantato da tutti i capelli che fluttuavano minacciosi nell’aria, esclamò: « Mamma, guarda che bravo l’uomo con il polpo in testa! »

« POLPO? » perse l’aura aulica Kumadori. « Chiamami almeno… leoooneeee maestoso!!! »

Silenzio.

Il bambino era atterrito.

Poi si sentì il rumore come di una cascata… di applausi. Un lungo applauso scrosciante chiuse l’esibizione di Kumadori.

E poi piovvero monete.

 

~

 

« Non posso fare una cosa simile… » piagnucolava Jabura.

« Ma certo che puoi, non è difficile… » replicava Blueno. « Vogliamo aiutare Lucci, vero? E pensa all’affitto. »

« È imbarazzante! Forse porta pure male! » protestò l’agente.

« Che assurdità. » considerò Blueno. « Forza, riprovaci. Qui non ti vede nessuno. »

Erano in un vicolo solitario in periferia e Blueno stava cercando di far trasformare Jabura in un lupo meno minaccioso di quando combatteva. Jabura non aveva mai pensato di usare una forma ibrida che incutesse poco timore, anzi, amava guardare le sue vittime sudare freddo e urlare mentre si ingigantiva sulle zampe posteriori.

« Nessuno ti darà un centesimo se farai paura ai bambini! »

Jabura ringhiò e si sforzò di apparire più piccolo e più peloso.

« Non è malissimo. » gli concesse alla fine Blueno. « Ma staresti molto meglio con il pelo azzurro e con il naso più grande »

« Per chi mi hai preso? Per uno stupido lupo da striscia a fumetti!? » latrò Jabura avviandosi a quattro zampe verso una piazza gremita di gente, sempre sotto l’ormai fedele compagnia della pioggia.

« Venghino, venghino, signore e signori! Il lupo oggi salterà nel cerchio di fuoco! Il salto mortale che potrebbe costargli la vita e che verrà eseguito sotto i vostri occhi!! » declamò Blueno con una voce profonda che raggiungeva tutti gli angoli della piazza.

Evitiamo di riportare i pensieri di Jabura riguardo quell’imbarazzante situazione in accordo con il regolamento di EFP che limita l’invettiva e l’uso eccessivo di termini volgari: giustifichiamo Jabura concedendogli che è dura passare da temuto agente del CP9 a lupacchiotto ammaestrato, seppur solo per finta.

La vista degli spiccioli e di qualche banconota che cadevano nel piattino di plastica ai piedi di Blueno, però, lo consolavano dell’umiliazione.

 

~

 

« Devo proprio fare una cosa simile? » sussurrò Kaku a Fukuro.

« Chapapa! Non ti preoccupare! È facile! Per non ucciderli basta stare fermissimi! »

« Davvero anche Jabura lo sta facendo? » chiese ancora il carpentiere.

« Sì! Si vergognava da morire e non voleva farla! Anzi prima ha detto che Lucci si poteva pagare le cure da solo! Poi però ha fatto una faccia tristissima, anche se si è girato io l’ho visto, e… »

« Va bene, va bene. » sorrise forzato Kaku. « Allora forza. »

E si mutò velocemente in un’elegante e aggraziata giraffa. Guardò verso il basso: era ad almeno sei metri di altezza. Se gli fosse capitato un Frutto del Diavolo più gestibile, sarebbe riuscito a dare molto più filo da torcere a Roronoa! Invece l’aveva affrontato quando aveva ancora poca dimestichezza con quel corpo, così assolutamente sproporzionato rispetto a quello umano. Pazienza, sospirò Kaku. Almeno le giraffe gli piacevano. Per abituarsi alle nuove dimensioni e servirsene (avere una lingua di mezzo metro era una sensazione stranissima) avrebbe avuto tutta la vita.

Con falcate lente attraversò una strada e si fermò di fianco a una chiesa proprio mentre uscivano i bambini dal catechismo.

Fukuro canticchiò a tutti: « Lo scivolo giraffa! Lo scivolo giraffa! Scivolate sul collo e sul suo morbido pelo! Con il sole o con questa pioggia, nessun bambino piange se c’è in giro lo scivolo giraffa! Due monetine e scivolerete a volontà, cinque monetine e potete darle da mangiare! »

Kaku pensava che, all’età di quei bambini così festosi che lo accarezzavano e gli dicevano “ti voglio bene!” con allegria e facilità, lui si stava già allenando per diventare un agente segreto spietato e ligio al dovere.

Con le lunghe orecchie sentiva la pioggia scrosciare e le monete cadere nel suo berretto rovesciato sul marciapiede, e pensava che presto il suo compagno sarebbe stato fuori pericolo.

 

~

 

Califa era l’unica a non aver intrapreso la carriera artistica; alla fine un lavoro vero l’aveva trovato: puliva i tetti della città per una ditta di pulizie piccolina (era composta da un unico membro), ma grazie al suo Frutto del Diavolo il lavoro era diventato semplice e veloce, e la pioggia sciacquava via la schiuma lasciando i tetti così puliti e lisci che i gli uccelli non riuscivano più ad appollaiarsi lì come al solito.

« Tieni, ragazza cara! » la gratificò il proprietario della ditta consegnandole un sacchetto risuonante di Berry. « E torna anche domani, ci hanno chiesto di pulire il tetto della cattedrale! »

« Questa… questa decisamente è una molestia sessuale! » commentò Califa facendo scoppiare a ridere il suo datore di lavoro. Per fortuna lui aveva inteso quella frase ricorrente come una sorta di tic involontario, e non ci dava peso.

A sera il gruppo di agenti si riunì sul viale davanti all’ospedale di San Popula, e si accomodò su un tavolino di pietra dove gli anziani giocavano a carte durante i giorni di sole. Califa, seduta al posto di comando, si fece consegnare a turno tutti i soldi dai suoi colleghi; appuntava la cifra di ognuno su un foglio di giornale trovato per strada con un mozzicone di matita e infilava monete e banconote in un barattolo di vetro; era protetta da un grande ombrello che reggeva Blueno, mentre gli altri stavano chi sotto la pioggia che ancora scendeva, chi sotto un ombrellino pieghevole mezzo rotto.

« Ho guadagnato più di te » disse Jabura, mentre si strizzava i capelli, per stuzzicare Kaku.

« Sta’ zitto, guarda Kumadori! » lo rimbeccò il carpentiere guardando l’agente dai capelli rosa consegnare a Califa un rotolo di banconote con fare da gran signore.

Mentre gli uomini si scambiavano vari “com’è andata” e “dove ti eri messo”, Califa faceva i calcoli. Leggeva e rileggeva, faceva i conti a mano e non aveva neanche una calcolatrice, quindi fece anche le prove ma alla fine il risultato era uno solo.

« Cosa accade? Forse che i calcoli ti sono avversi? » disse Kumadori notando la donna fare e rifare le operazioni.

« Non sono sufficienti, vero? » si preoccupò Kaku.

« Lucci è salvo » asserì la donna reggendo il barattolo « Abbiamo guadagnato tutta la cifra! Intera, non a rate! »

« IL MIRACOLO! Gioia e tripudio! » esplose Kumadori « Avvinghiamoci orsù in un abbraccio collettivo » urlò avvolgendo tutti con i suoi capelli morbidi e rosa, anche se ormai tutti bagnati dalla pioggia « Yoyoi! Si porti in trionfo l’agognato premio nelle mani dell’infido direttore! »

« Ehi! Ehi! Questa è molestia sessuale! » protestò Califa, sballottata come una bambolina al petto del collega.

« Abbiamo di che essere soddisfatti. » ammise Kaku con sollievo.

Blueno era tranquillo, e lasciava che Kumadori si calmasse e si decidesse a metterlo giù.

« Jabura è finito vicino a Califa e sta arrossendo! » notò allegramente Fukuro con i piedi penzoloni.

« Chiuditi quella boccaccia! Non è assolutamente vero! » sbraitò il diretto interessato.

« E Califa indossa ancora la tua giacca, mentre tu sei costretto ad andare in giro nudo… » insinuò Fukuro.

« Questa giornata non sia lesa da litigi inutili! » proclamò Kumadori. « Lucci ci aspetta! » disse indicando l’ospedale dalle finestre illuminate.

Hattori si alzò in volo e li precedette verso la porta a vetri dell’ingresso.

 

~

 

« Dunque dunque dunque » cantilenò un chirurgo che aveva appena preso servizio, quella sera all’ospedale di San Popula. « Vediamo cosa c’è in programma oggi » mormorò guardando i fogli lasciati lì dalle infermiere.

Era un bravo chirurgo, in servizio da almeno vent’anni ed era stato persino mandato, in gioventù, a prestare servizio in zone militari dove ne aveva viste di tutti i colori. Tuttavia era un tipo allegro e non aveva permesso che tanta sofferenza e tanta morte lo rattristassero; portava una salopette sotto il camice sbottonato e una gran capigliatura di capelli afro, uno degli ingredienti fondamentali per la sua forza d’animo. Si chiamava Fitto, sia di nome che di cognome. Quando i suoi amici lo chiamavano, dicevano sempre: “Fitto-Fitto!”.

Entrò nella stanza il primario Charlotte Gelatine, salutò il chirurgo e disse tristemente: « La aspetto nella sala operatoria numero due, dottor Fitto. Operiamo un ragazzo arrivato stamattina, lei è il Primo Aiuto. »

« Capi d’accusa? » domandò Fitto.

« Si dice “sintomi”, o anche “diagnosi”, se vuole. Non che le due cose siano sinonimi, certo… » spiegò rassegnata Gelatine, poi sospirò: « Una rissa. È un codice rosso, e… »

Fitto-Fitto la interruppe stupefatto: « Un codice rosso arrivato stamattina?! E stavate aspettando me per operarlo? »

Charlotte Gelatine tentennò, lisciandosi i capelli neri striati di bianco, e il chirurgo continuò: « Fammi indovinare. Il direttore ha rotto il cazzo un’altra volta. »

« Ho scritto a mia madre, quell’uomo mette a rischio la vita di molte persone. » si rattristò. « Siamo riusciti a stabilizzarlo stamane, e i suoi amici sono stati bravissimi a trovare i soldi per l’operazione. »

« Certo certo certo. Basta parlare, quel poveretto sta aspettando da una giornata intera di essere salvato. Andiamo. Che schifo, che vergogna per noi… » si avviò indignato il chirurgo. « Mi lavo e arrivo in sala. » intendeva la disinfezione, di prassi prima degli interventi. « Lei mi preceda, e chiami l’infermiera Ann come assistente di sala e l’anestesista di turno. »

Charlotte Gelatine camminò lemme per il corridoio con la grazia di un fantasma fluttuante, e infine arrivò nella stanza che occupava Rob Lucci.

La luce era bassa, tutto taceva.

Si avvicinò al lettino e sfiorò con una carezza materna il volto dell’uomo.

Pensò al barattolo di soldi bagnati che uno squinternato gruppo di amici le aveva messo tra le mani. « Sei un giovanotto fortunato. E anche molto amato. »

 

~

 

Era notte quando l’equipe del dottor Fitto e della dottoressa Charlotte uscì dalla sala operatoria. Erano stanchi e molto arrabbiati con il direttore, che aveva rimandato pericolosamente il soccorso a quel ragazzo; non era la prima volta che quel burocrate rifiutava codici rossi per questioni economiche. Fitto, poi, non aveva smesso di imprecare finché l’infermiera Ann non gli aveva ricordato che il paziente avrebbe sofferto di più se lui non ritrovava la lucidità necessaria a operare.

Il primario Charlotte, tuttavia, ritenne che sarebbe stato gentile dare a quei bravi ragazzi notizie del loro amico. Si affacciò alla sala d’attesa del reparto di chirurgia e li trovò tutti lì: chi seduto, chi steso sulle sedioline di plastica, chi addormentato sul pavimento. Una colomba bianca, sul davanzale della finestra, battè le ali verso di lei.

Il ragazzetto biondo con i basettoni le si avvicinò subito, senza parlare, seguito dalla donna.

« È fuori pericolo. » annunciò la dottoressa Charlotte.

Kaku espirò, coprendosi il viso con le mani e rilassando le spalle. Califa tirò un grandissimo sospiro mentre, accanto a Kaku, ascoltava le parole della dottoressa. Cercò di mantenere un piglio serio e di arginare le emozioni, ma le parole del primario le suonavano distanti: dopo quel “fuori pericolo” la testa sembrava essersi spenta, l’adrenalina e la caparbietà che l’avevano sorretta parevano essere scomparse. Aveva solo una vaga percezione di Hattori, sulla sua testa, che volava festoso.

Non potete vederlo ancora... terapia intensiva... domani... una bella dormita... siete stati così bravi! L’avete salvato voi.

Mentre la dottoressa Charlotte si allontanava, la donna cadde in ginocchio per terra.

« Califa piange. » notò Fukuro scucendosi la bocca.

« Non è il momento, stupido. » lo rimbeccò Jabura. « Lasciala in pace. »

 

~

 

Dormirono sui materassi spogli e gli andava benissimo anche così.

La padrona di casa ne aveva recuperato solo uno, che Jabura e Fukuro trascinarono su per le scale e poi nella loro stanza; Jabura ci si schiantò sopra e cominciò subito a russare.

Califa dormì immobile tutta la notte con i piedi uniti e le braccia larghe, a pancia in giù, così come si era lasciata cadere sul letto.

Kaku sorrideva mentre ascoltava Kumadori recitare le prime strofe di una poesia sulla notte, ma si addormentò senza arrivare nemmeno al terzo verso; ma tanto, neanche Kumadori ci arrivò, che russò alla metà del secondo.

Blueno riuscì a caricare la macchinetta del caffè così da dover solo accendere il fornello la mattina seguente: certe abitudini sono dure a morire.

Hattori invece, lontano da quella casa, si ritagliò un angolino per dormire su un albero proprio di fronte alla camera di degenza di Lucci. Anche se la luce era spenta, il colombo sapeva che oltre quei vetri il suo amico stava guarendo e presto si sarebbe svegliato, e con questo pensiero nel cuore si addormentò così profondamente da non accorgersi che, nel frattempo, il temporale era finito.

 

 

 

 

Dietro le quinte…

Torniamo a parlare di Kumadori! Alla fine è quasi sempre per lui che devo scrivere tutte queste note a fine capitolo! 

Durante la scena nel loggiato recita alcuni versi tratti da “Le Eumenidi” di Eschilo. 

Grazie a Rob Lucci ho imparato un sacco di cosine su cosa succede quando una persona va in coma farmacologico e viene operata, cosa che mi fa pensare che piuttosto che sottopormi a qualcosa di simile scapperò come un missile... meno male che non dovrò mai venire alle mani con Rufy! 

Chi indovina l'allusione al "lupo con il pelo azzurro da striscia a fumetti" vince un biscottino ♥ gli/le sarà recapitato da Jabura.

Grazie per aver letto, coraggiosi eroi! 

A presto,

Yellow Canadair

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Capitolo 4
*** La vita continua ***


Per rinfrescarsi la memoria: qui le Mini-Avventure del CP9 ("Missioni extra-curriculari del CP9"). 

 

 

La vita continua

 

Orario visite: 17.00 - 19.00

Il cartello davanti al corridoio che portava all’ala della terapia intensiva era molto chiaro.

« E quello tendo a farlo rispettare a tutti » disse loro con dispiacere il primario Charlotte lisciandosi i capelli.

Il drappello di ex agenti del CP9 era arrivato all’ospedale poco prima di pranzo con la speranza di vedere subito Rob Lucci, ma in corridoio gli era stato sbarrato il passo proprio dalla dottoressa che aveva operato il loro compagno.

« Scusatemi, cari » sussurrò materna lasciando una carezza sulla testa di Kaku « Ma devo andare. Tornate pure oggi pomeriggio »

« Ferma! » latrò Jabura.

Il primario si arrestò e si girò in maniera decisamente ostile, Jabura balbettò delle scuse.

E se Jabura balbetta scuse, allora credete al narratore: Charlotte Gelatine era davvero spaventosa, quando non era triste come una vedova.

« N-noi volevamo solo sapere se… se sta bene, ecco. »

« È tranquillo. Sta riposando. » rispose enigmatica la donna prima di riprendere il suo cadenzato passo e sparire nel corridoio di chirurgia.

Gli agenti erano molto contenti che il primario di chirurgia in persona si fosse preso carico di Lucci, però quella donna a volte riusciva a essere spaventosa persino per loro.

Hattori spiccò il volo dal drappello pietrificato e volò dalla finestra: lui non aveva bisogno né di orari né di porte per andare a trovare Rob.

 

~

 

« “Il campanile è alto 98,6 metri, si trova nella piazza omonima proprio davanti alla sua basilica; centoquattordici anni fa crollò completamente in seguito ad alcuni interventi di ristrutturazione mal eseguiti…” leggeva Califa.

Dopo tutta la mattina passata a racimolare (con molto successo) altri soldi, adesso gli ex agenti del CP9 si stavano godendo il meritato riposo e i proventi dei loro spettacoli di strada. Era incredibile quanto riuscissero a guadagnare solo mettendo un cappello per terra mentre improvvisavano cose imbarazzanti, come diceva Jabura. Quella mattina Califa aveva pulito anche il tetto della cattedrale e del municipio, e il suo datore di lavoro l’aveva congedata dicendo che… i tetti erano così puliti che al momento né lei né lui erano richiesti! Le avrebbe fatto però sicuramente sapere se fossero arrivati altri ordini.

L’ex segretaria della Galley-La era andata a fare shopping, togliendosi finalmente di dosso il tangzhuang di Jabura; l’aveva riposto con premura in una sfavillante busta della Crimin al posto dei suoi acquisti (che aveva immediatamente indossato) e gliel’avrebbe fatto trovare lavato, stirato e rammendato sul letto quella sera.

Si era praticamente rifatta il guardaroba e, tra un negozio e l’altro, aveva pensato alle parole di Pauly: “Copriti, svergognata!”. Aveva sorriso al pensiero di quel carpentiere decisamente bigotto e aveva deciso, in suo ricordo, di comprare un pantalone lungo di tela chiara che le stava anche piuttosto bene.

Per compensare però aveva comprato anche una serie di abitini corti e gonne che poco lasciavano all’immaginazione: adesso che non era più una segretaria poteva abbandonare i completi castigati e formali!

Kumadori le faceva compagnia e l’aiutava con i suoi capelli a trasportare le borse; quelle dei vestiti e delle scarpe erano piuttosto leggere, ma i due erano andati a fare anche la spesa e la sporta pesava un bel po’: sfamare sei persone non è mica roba da poco!

Si erano fermati a riposare in una piazzetta; Califa leggeva a mezza voce una piccola guida turistica di San Popula e Kumadori le correggeva la dizione mentre divideva le briciole di un panino con Hattori.

« Che ore sono? » domandò la donna accendendosi una sigaretta.

« Oh, il rude vizio che consuma il respiro! Califa, come puoi? Per scontare il tuo empio gesto farò Seppuku! E rivedrò la mia dolce e cara madre! »

« Finiscila… » mormorò la donna mentre il suo amico prima tentava l’estremo gesto e poi attivava senza volere il Tekkai salvandosi la vita.

I rintocchi delle campane del campanile fecero alzare la testa a Califa; guardò le campane che dondolavano nella cella apparendo e sparendo dalle finestre. « Sono le quattro » contò.

Afferrò le borse che riusciva a trasportare lasciando le altre a Kumadori, agguantò lo stesso Kumadori e trottò verso la piazza principale della città, dirigendosi dove aveva appuntamento con il resto del gruppo.

 

Kaku alzò un braccio per attirare l’attenzione della collega, vedendola sbucare da una stradina laterale; lui e i restati membri del CP9 erano seduti all’aperto, ai tavolini di un bar che guardava verso una delle tante piazze di San Popula. Con il sole che c’era, era proprio un peccato scegliere i tavoli all’interno!

Non riusciva quasi a crederci di essere passato nel giro di tre giorni da agente del CP9 a ricercato, poi ad artista di strada e infine a turista. Va bene che un agente era addestrato ad adattarsi a qualsiasi situazione ostile, ma così era assurdo! Però almeno le cose, da quando avevano messo da parte i soldi per Lucci, andavano benino e potevano dimenticarsi persino dell’ordine di cattura: gli abitanti di San Popula li salutavano festosi e chiedevano loro: “a quando la prossima tournée?”.

E poi, sedersi a un tavolino di bar con Jabura, Fukuro e Blueno era qualcosa che non aveva mai fatto, gli sembrava un lusso sfrenato: non tanto per l’andare al bar (con i carpentieri della Galley-La ci andava spesso), quanto piuttosto per non dover fingere niente, presentandosi per quello che era davvero: un agente segreto. Ora ex, ma comunque non doveva nasconderlo. Era… rilassante non dover indossare la maschera. Le persone vicino a lui non solo sapevano chi era, ma erano come lui. Assassini spietati. E turisti, pensò bevendo il suo tè freddo con la cannuccia.

« Bella fauna, qui » stava dicendo Jabura osservando le ragazze che passeggiavano su e giù di negozio in negozio.

« L’ultima ragazza che hai fermato è scappata scandalizzata, chapapapa! »

« Fukuro… » ringhiò Jabura.

« …e poi ha detto all’amica che hai la faccia da laido! » concluse l’agente spalancando la zip.

« Questo non lo volevo sapere, disgraziato!!! » s’inalberò il lupo.

Kumadori e Califa raggiunsero gli altri, che si strinsero attorno al tavolo per far spazio ai nuovi arrivati. Jabura vociò al barista di portare due sedie in più, ma quello era scomparso. Kumadori rimase in piedi, poi andò dietro Blueno per sbirciare il giornale che stava leggendo: l’ex oste per tutta la mattina era stato occupato per strade e piazze a reclamizzare “il portentoso lupacchiotto amico del fuoco” e quindi non aveva avuto il tempo di sfogliare il quotidiano. A Water Seven di solito lo leggeva al mattino prestissimo, quando apriva l’osteria, e il gabbiano glielo portava prima che a tutta la città.

Agli altri non interessava molto, avevano solo notato il titolo a caratteri cubitali “Misteriose sparizioni nel Triangolo Florian” e, deciso che non gl’importava poi tanto, avevano lasciato perdere. Jabura aveva pescato la pagina sportiva e si era accontentato di leggere quella.

Jabura condivise la sua sedia con Califa e lei, dopo averlo accusato di molestia sessuale, accettò l’invito sedendosi vicino al collega.

« Notizie dai nostri… amici » commentò Blueno leggendo gli allegati al giornale.

« “Amici”? » fece eco Kaku. Gli venne in mente il Dock 1. « Parla di Enies Lobby? » era sorpreso: non si aspettava che il giornale avrebbe dedicato articoli alla cosa, perché sapeva benissimo che una notizia come quella di Enies Lobby distrutta e umiliata non sarebbe stata diffusa.

« Non si parla di nulla. Però… » Blueno sparpagliò sul tavolino, tra i bicchieri e le briciole di patatine fritte, sei taglie: i Pirati di Cappello di Paglia!

« Hanno risparmiato Cutty Flam? » commentò Califa mettendo il mozzicone di sigaretta nel posacenere.

« No, è qui » rispose Kaku portandosi vicino a Blueno e pescando dalle pagine del giornale la taglia di Franky. La sua sedia vuota fu occupata prontamente da Kumadori.

Kaku lesse la taglia. « È il minimo, con tutto quello che lui e i suoi amici hanno fatto » commentò buio. « Mi meraviglio anzi che non ci sia anche il resto della Franky Family » poi guardò con un mezzo sorriso la taglia di Zoro sul tavolino, come a dire “me l’hai fatta!”.

Dopo prese un’altra locandina. « E ti saresti fatto battere da questo qui? » disse a Jabura. La taglia di Sanji era inguardabile.

« Non gli somiglia per niente! Era altissimo! Aveva un qualche Frutto del Diavolo del fuoco…! » abbaiò Jabura furibondo.

« “La bambina demoniaca” è infine cresciuta! » osservò Kumadori: nella vecchia taglia, Nico Robin era una mocciosetta, adesso invece c’era una foto di lei adulta.

« Questa invece » esclamò cattivo Jabura sollevando la taglia del capitano « La facciamo incorniciare e la portiamo a Lucci. »

« Io poi i soldi per curare anche te non ce li metto. » rispose Kaku.

 

~

 

La saletta del reparto di rianimazione dove riposava Rob Lucci era tranquilla e calda. La finestra chiusa non affacciava sulla strada, ma su un bel parco alle spalle dell’ospedale, e attraverso i vetri si vedevano un piccolo bosco di larici e un vialetto di pietra che spariva tra gli alberi, percorso in quel momento da un anziano in sedia a rotelle e una vecchia donna che lo spingeva.

Era una bella vista, che distraeva dal respiratore, dal monitor nero con infiniti numeri verdi e da quel costante bip… bip… bip…  che scandiva strani e incostanti secondi.

« Non siate timidi. » esortava a mezza voce la barelliera Jodie, che aveva accompagnato Kaku e Califa dal loro amico. « Parlategli, potete anche prendergli la mano, però dovete stare attenti all’ago »

« Ma… » balbettò Kaku « È normale che non si sia ancora svegliato? » vedere il collega cereo e con la mascherina di gomma sul volto li lasciava sempre inquieti e con l’amaro in bocca.

Jodie sorrise in direzione di Rob Lucci, si sistemò le treccine bionde dietro le spalle e spiegò: « Vedi, esiste una scala di cento gradini che parte dallo stato di veglia e arriva alla morte; quando un paziente è in coma farmacologico, come lui adesso, si trova solo al decimo scalino: è importante che rimanga lì per un po’, così il suo corpo non spreca energie inutili e si può concentrare sul recupero. »

Guardò sognante Lucci ancora per qualche istante, poi aggiunse: « Mamma era anestesista! Ecco perché so questa storia! » sorrise. « Tra poche ore sicuramente gli toglieranno il respiratore. Da’ tempo al tempo. Vi lascio un po’ di privacy. » concluse andandosene.

Kaku si domandò se la ragazza avrebbe mantenuto il suo sguardo compassionevole, se avesse saputo che mestiere esercitava con passione Rob Lucci.

« Esce, esce rapida, non un solo singolo rumore accompagna i suoi passi… » sentirono cantilenare la sua radiocronaca mentre chiudeva la porta.

E rimasero Kaku e Califa a guardarsi in faccia in quella stanza così strana.

Regola voleva che nelle stanze della terapia intensiva non entrassero più di due persone, e quelle due dovevano anche indossare i camici verdi dell’ospedale e le cuffiette per non lasciare in giro troppi capelli; gli ex agenti così avevano deciso di far entrare nella stanza soltanto Kaku e Califa, che erano quelli che con Rob Lucci avevano passato gli ultimi cinque anni.

Jabura inoltre si era rifiutato di indossare quella ridicola divisa verde, e le infermiere avevano detto a Kumadori che non c’era cuffietta abbastanza grande, e non avevano creduto al fatto che lui fosse in grado di controllare ogni singolo capello.

Erano stati un po’ reticenti a entrare, però la barelliera Jodie li aveva convinti e loro, per preservare quell’alone di normalità che doveva farli somigliare più a turisti innocui che ad assassini spietati, si erano lasciati trascinare nella stanza.

E adesso?

Erano a disagio e non sapevano esattamente cosa fare. Avevano l’impressione di stare nella gabbia della bestia feroce, e in un certo senso era così.

Califa si aggiustò gli occhiali sul naso e raddrizzò le spalle. Prese il fiato. « Pauly ti manda un messaggio » disse fredda. « Sei licenziato. »

 

~

 

Il respiratore si era reso inutile da qualche ora, le reazioni vitali erano buone e dimostravano che l’uomo era cosciente, anche se completamente a terra, tanto da non riuscire a muoversi, e un’appassionata radiocronaca lo aveva accompagnato in una stanzetta di degenza.

« Ci sta sorprendendo! » disse benevola l’infermiera Barbara, accompagnando gli agenti del CP verso la camera di Rob Lucci. « Il dottor Fitto dice che si sta riprendendo in fretta per fare un dispetto al direttore che non lo voleva ricoverare! » e rise fra sé.

« Da quanto tempo è sveglio? » domandò Kaku.

« Questa notte ha ripreso conoscenza. Oh, ma non è che sia sveglio da allora… » l’infermiera abbassò la voce. « È ancora debole… »

« Allora forse è meglio non disturbare… » azzardò Jabura camminando con il gruppo.

« Jabura in realtà è imbarazzatissimo! Non sa cosa dire a Lucci! E ha paura che lo uccida perché s’è fatto sconfiggere da… »

« VUOI STARE ZITTO??? »

L’infermiera Barbara rideva senza ritegno guardando la compagnia che litigava. « Oh, i gruppi di amici sono i più divertenti! I parenti invece hanno sempre dei musi lunghi così! »

« È sicuro che una visita giovi al riposo del paziente? » interloquì Kumadori.

« Se il primario ha autorizzato, sì. Non siate timidi! Gli farà bene vedere le persone che ama! Non ha fatto nemmeno un sorriso da quando s’è svegliato, fategli fare qualche bella risata quando lo vedrete! E tu » aggiunse rivolta a Califa « hai fatto proprio bene a portargli un regalino! »

Kaku alzò gli occhi al cielo sospirando. “Le persone che ama”. Certo. Il genere di verbo che avrebbe associato a Lucci. “Non ha fatto nemmeno un sorriso”, probabilmente era furibondo per essere stato sconfitto. A pensarci bene, Kaku non era nemmeno sicuro che Lucci, in vita sua, avesse avuto bisogno di cure. Di solito erano gli altri che ne avevano bisogno, anzi, più spesso le cure nemmeno servivano più dopo un confronto con Rob Lucci: al massimo legno di abete e la misura delle spalle.

No, non è vero, pensò ancora Kaku. Da ragazzino per fermarlo gli avevano sparato addosso, all’epoca dovette per forza essere ricoverato. Ad ogni modo, non doveva essere di buon umore.

 

« …e qui c’è la biancheria di ricambio, lo spazzolino, il dentifricio, una spazzola, dei pantaloni di tuta, un pigiama, gli asciugamani… e questo è lo shampoo a secco: agiti, te lo spruzzi, lasci agire e lo spazzoli via; così puoi tenere i capelli puliti anche se non puoi ancora fare la doccia. Kaku, dagli anche l’altra busta. » elencò Califa, appoggiando tutti gli oggetti sul letto accanto a Rob Lucci, che si era messo a sedere senza neanche appoggiarsi al cuscino che gli avevano messo a disposizione le infermiere. Aveva solamente i pantaloni, e teneva le mani posate in grembo che accarezzavano meccanicamente Hattori, che strofinava il capino sulla sua pancia.

« Qui c’è la roba per farti la barba » spiegò estraendo una valigetta delle dimensioni di un quaderno. « Usi ancora la Janggut, come schiuma, vero? Ricordo che a Water Seven compravi quella. »

« Yoyoi! Porgo un presente da parte nostra! » s’intromise Kumadori porgendo una grande e signorile busta nera di un negozio di abbigliamento sul corso principale di San Popula.

Rob Lucci li guardò interrogativo.

« Beh, che aspetti? Lo devi aprire da solo, ti servono le istruzioni? » Jabura aveva sempre tanta delicatezza.

Dentro c’erano dei pantaloni neri, un’elegante giacca nera e una camicia color ambra, discretamente maculata.

« Ho girato tutta San Popula » spiegava Califa mentre Rob osservava il suo regalo sfiorando la seta della camicia « …ma non vendono neanche una tuba confezionata a dovere. Ho dovuto desistere, mi dispiace. »

Rob Lucci continuava a rimanere silenzioso e assorto.

« Se non ti piacciono, o abbiamo sbagliato la taglia, puoi cambiarli. Siamo rimasti d’accordo così con il negoziante. » aggiunse Kaku.

Rob Lucci alzò il capo e squadrò gelido i suoi colleghi: « Perché? » sussurrò.

I visitatori si guardarono tra loro. « Perché eravamo incerti sulla tua taglia. » Chiacchierò Fukuro. « Abbiamo fatto provare i pantaloni a Kaku, ma tu sei più alto, e la giacca a Jabura, ma le sue spalle sono più larghe delle tue, quindi siccome eravamo indecisi... »

Rob non aveva ancora molta forza ma lo interruppe: « La copertura è andata. La missione è fallita. Enies Lobby è distrutta, i pirati di Cappello di Paglia sono scappati e noi… » prese brevemente fiato.

« Siamo licenziati. Sia dalla Galley-La che dal Cipher Pol. » completò Kaku mogio. « E siamo ricercati. »

Rob Lucci scoprì i denti. « Dovevo essere morto. Quindi perché diavolo siete venuti a riprendermi? » ringhiò.

Jabura in due falcate arrivò vicino al letto e urlò in faccia a Lucci: « PERCHÉ SEI UN NOSTRO COMPAGNO, ECCO PERCHÉ, pezzo d’idiota! Secondo te ti avremmo lasciato a quello stronzo di Spandam?! O a morire tra le pietre di Enies Lobby? »

Silenzio.

« Che io possa cantare l’acuto canto di gioia! » principiò con voce tonante Kumadori stringendo Jabura e Lucci con i suoi rosei capelli. « Benigni e propizi a questa terra, qui venite, o venerandi! » e abbracciò anche Califa, Kaku, Fukuro e Blueno, continuando a declamare ad alta voce: « Vi allietino durante il cammino le fiaccole divorate dal fuoco! Ora levate un grido di giubilo ai nostri canti! »

Fukuro commentò scucendosi la bocca: « Lucci sta sorridendo »

Hattori si posò sul capo del suo amico e allungando il collo sbirciò la sua espressione.

« Cos’è questo chiasso?? » la voce imperiosa dell’infermiera Ann risuonò nel corridoio e poi si affacciò alla porta.

« COME VI SALTA IN MENTE DI FARE TUTTA QUESTA CAGNARA? FUORI DI QUI! »

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Hattori svolazzò verso il lettore e si appollaiò sullo schermo, recapitando un bigliettino. Recava scritto: 
"La riunione per il
Dietro le quinte non ha avuto luogo causa influenza (dell'autrice). Califa manda a dire che: 

- Il campanile di San Popula nel capitolo fa riferimento al campanile di San Marco a Venezia, anch'esso crollato centoquattordici anni fa, nel 1902.

- I versi recitati da Kumadori durante l'abbraccio collettivo degli agenti fanno parte di "Le Eumenidi" di Eschilo."

 

E in fondo al foglio c'era una nota scritta a mano: "Grazie per leggere e supportare questa storia! Tranquillizziamo i lettori: gli aggiornamenti saranno più costanti - Spero in particolare che la scena madre di Jabura, sul finale, vi sia piaciuta, e che anche Rob Lucci, finalmente sveglio!!, abbia una buona parvenza di IC! Grazie tantissimo a tutti, Yellow Canadair."

Hattori depositò il bigliettino e volò dal suo padrone.

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Capitolo 5
*** Una partita interrotta ***


Per rinfrescarsi la memoria: qui le Mini-Avventure del CP9 ("Missioni extra-curriculari del CP9"). 

 

 

Una partita interrotta

 

Tutti gli ex agenti del CP9 erano sul piazzale dell’ospedale, all’aperto sotto un bel sole primaverile, proprio davanti a quella porta di vetro che sei giorni prima avevano varcato allo stremo delle forze, quando avevano pregato il primario Charlotte Gelatine di prendersi cura di Rob Lucci.

Il vento fresco spingeva in alto le nuvole bianche filacciose e veloci, e faceva ondeggiare la giacca che Lucci aveva sulle spalle, i capelli sciolti di Califa e Kumadori; portava l’odore dell’erba appena tagliata nel giardino sul retro della clinica.

« Questo te lo portiamo noi » disse Kaku prendendo dalle mani dell’amico il trolley con i suoi effetti personali.

Il dottor Fitto-Fitto si era attardato sul piazzale dell’ospedale a salutare il ragazzo, assieme alle ruggenti infermiere e persino il silenziosissimo anestesista dalle lenti squadrate si era fermato a guardare quella partenza.

« Non essere triste, Jodie. » ammonì dolcissima Charlotte Gelatine, anche lei presente. « Vieni, torniamo dentro… c’è ancora tanto bisogno di primario e paramedico, per oggi. Signor Lucci, i miei saluti. Si ristabilisca. » poi si girò minacciosa verso Kaku e Jabura e sussurrò alle loro spalle: « Non fategli. Fare. Sforzi. »

I due scattarono sull’attenti, con i peli della schiena rizzati per la strizza. Quella donna sembrava dolce e dimessa...! E ripetiamo: non si tratta di due uomini qualunque, ma di due agenti segreti... immagini il lettore quanto il primario di San Popula doveva essere spaventoso!

Charlotte Gelatine prese per mano Jodie e insieme tornarono verso l’interno dell’ospedale.

« Bene, giovanotto, arrivederci… ma magari in centro, non qui! » discorse allegro il dottor Fitto tendendo la destra a Rob.

« La ringrazio » rispose a tono l’uomo stringendo la mano che l’aveva salvato.

« Yoyoi! S’intoni il peana! Ridano gli uccelli, e l’erba di velluto, e gli angeli del cielo! » proclamò Kumadori improvvisando un ballo sul posto, osservato dall’anestesista con gli occhiali quadrati che passava di lì e si era fermato con i colleghi a salutare.

« Chapapa! » gli andò dietro Fukuro ballando anche lui.

E salutati i medici, si avviarono verso il centro di San Popula: dovevano attraversare tutto il quartiere storico, per arrivare a casa.

Hattori arrivò volando e si posò sulla testa di Rob Lucci. Nel becco stringeva un foglietto di carta piegato in due, che depositò tubando tra le mani dell’uomo.

Lucci aprì il foglietto.

Finalmente mi hanno riparato il trespolo!” scritto in una nuvoletta che usciva dal becco di un colombo bianco con la cravatta disegnato sulla destra.

I suoi colleghi allungarono il collo per leggere, e Fukuro fu il più veloce, ripetendo agli altri la frase.

Rob Lucci non sembrava prendersela per quell’attacco alla sua privacy: vezzeggiava il suo colombo e ignorava gli altri agenti che parlavano tra di loro, rimanendo indietro mentre lui camminava sotto il sole tiepido del mattino.

« Che idea carina! » si complimentò Kaku con Califa. « La frase, e far consegnare il bigliettino ad Hattori! » era una trovata che li sollevava dall’imbarazzo di dire apertamente a Lucci “Che bello rivederti in piedi” o cose simili.

« Questa è una molestia sessuale. » replicò lei. « Io non ho scritto assolutamente nulla. » asserì.

« Ma… se non sei stata tu, allora… » obiettò Kaku.

Guardò verso Kumadori. « In famiglia, solo la mia povera madre riusciva a trovare soluzioni così toccanti! » pianse lui, discolpandosi.

Fukuro scosse la testa. Blueno si strinse nelle spalle.

« Non crederete che sia stato io?! » anche Jabura era fuori discussione.

In testa al gruppo, Rob Lucci concesse al suo adorato Hattori un sorriso e una carezza sul capino.

 

~

 

« Dov’è la chiave? »

« Ce l’ha Califa »

« Questa è molestia sessuale! »

« E allora apri la porta, che ci facciamo sul ballatoio? »

I cardini ben oliati da Kaku girarono e la porta si aprì davanti a Rob Lucci.

Lui rimase saldo sull’uscio a osservare l’interno.

« Yoyoi! Non t’illuda l’aspetto rustico, le doti da carpentiere di Kaku sono state eccezionali e la casa è efficiente in ogni suo aspetto! »

« Stai fermo! Mi fai cadere dalle scale! » latrò Jabura all’attore più talentuoso dell’intero CP.

In casa era tutto come l'avevano lasciato quella mattina prima di andare all'ospedale a prendere Lucci: il divano di Blueno era già rifatto, e sul tavolino basso del salotto c'erano in bell'ordine i suoi vestiti; sul tavolo della cucina c'era la tazza di Jabura che aveva fatto colazione per ultimo, nel lavello c'erano tre tazze piene d'acqua che aspettavano di essere lavate e qualche piatto pulito sul colapiatti si asciugava al sole che entrava dalla finestra; sul fornello spento c'era la caffettiera con il caffè avanzato; la porta della stanza di Califa, accanto al frigo, era chiusa, mentre le camere dei ragazzi erano state lasciate aperte e, guardandoci dentro, sembravano aver appena attraversato un trasloco.

« Ieri sera abbiamo provato una nuova disposizione » disse Kaku facendogli strada. Non aggiunse "...per far posto anche a te", ma era evidente.

« Ti abbiamo lasciato il baldacchino della camera » disse il carpentiere. « Però Califa dorme nella tua stanza, sul lettino singolo. »

Rob Lucci si voltò verso la collega aspettandosi un commento, ma lei stava versandosi in una tazza il caffè rimasto dalla colazione.

« E questo è il modulo con cui ti impegni in maniera formale a non molestare sessualmente Califa. » gli porse un foglio.

Ecco perché Califa non parlava: non ne aveva bisogno.

« Ci abbiamo messo due giorni per convincerla a dividere la stanza, quindi non fare lo stronzo e firma. » lo aggredì Jabura. Era nervoso perché ora che Lucci avrebbe dormito nel baldacchino che era di Califa, e dopo che lei aveva preso il letto di Fukuro dalla sua stanza, lui adesso si ritrovava a dover dividere, nel migliore dei casi, il materasso con il collega! E tutto perché quel gattaccio “non poteva dormire sul tappeto del salotto subito dopo dimesso”, come aveva detto quel rompicoglioni di Kaku.

« Perchè tutto questo disturbo? » chiese gelido Lucci appoggiando la dichiarazione sul tavolo.

« Ne abbiamo già parlato » sospirò Kaku « Non potevamo lasciarti morire lì. »

« Non si tratta di questo » avversò Rob Lucci « San Popula è ancora troppo vicina a Enies Lobby. Verranno a cercarci. »

Il discorso fu interrotto da un insistente bussare alla porta.

Rob Lucci assottigliò gli occhi, posò una mano sullo schienale di una delle sedie. Puntava l’ingresso. Fosse stato trasformato almeno a metà, avrebbe avuto le orecchie tutte tirate all’indietro e avrebbe frustato l’aria con la coda.

« Cosa c’è, sei nervoso? » scoppiò a ridere Jabura. « È solo la padrona di casa. Vuole conoscerti. Ieri ha detto che sarebbe passata prima di pranzo… cioè ora. »

Blueno intanto era andato ad aprire.

« Chapapa! In realtà la prima volta che la padrona ha bussato, per portarci il materasso in più, Jabura ha fatto un salto fino al soffitto dallo spavento! »

« Ti sbatto a dormire con la testa nel cesso, disgraziato! » sbottò Jabura.

« Oh no, cosa succede? Chi ti ha fatto arrabbiare? » disse al lupo la voce carezzevole della padrona di casa. Era ormai noto a tutti che Jabura fosse il suo favorito. Kaku sperava solo che questo non creasse dei problemi con Lucci.

« Buongiorno! » le sorrise di rimando l’ex agente. « Solo… solo delle quisquilie tra buoni coinquilini » rispose, ma di nascosto lanciò un’occhiataccia a Fukuro del genere: “Ti uccido dopo”.

« Meno male, meno male » si tranquillizzò la padrona di casa sedendosi sul divano. « Ebbene » disse sistemandosi le lenti sul naso « Dov’è il nuovo giovanotto? Come sta? »

« È lui » lo presentò Kaku prendendo a tradimento Rob Lucci per un braccio e sospingendolo verso la signora.

Rob Lucci fissò quella donna alta sì e no sessanta centimetri mentre si faceva venire la cervicale per guardarlo in volto. Non gli passò neanche per l’anticamera del cervello di chinarsi per aiutarla nell’impresa.

La signora però non si aspettava nessun ausilio: scese lesta dal divano, prese una sedia della cucina e la piazzò davanti a Rob Lucci; poi prese la cassetta della frutta che Kaku aveva messo vicino alla stufa per i bisogni di Hattori (ma che Hattori non aveva mai usato), la rovesciò, la mise sulla sedia e infine si arrampicò sulla sua costruzione.

Nonostante sedia e cassetta, anche così arrivava solo al petto dell’uomo, ma era meglio che fissargli le rotule.

« Ecco, finalmente » disse infine come se niente fosse stato. « I tuoi fratelli mi hanno tanto parlato di te. Oh, ma tu non sei affatto il tipico poveretto appena uscito dall’ospedale! » ridacchiò contenta. « Siete tutti belli robusti, in questa casa. La vostra mamma vi ha cresciuti proprio bene! » sorrise in direzione -manco a dirlo- di Jabura.

« Purtroppo non posso restare molto, vi ho portato una cosa… »

Frugò nella borsetta e tirò fuori una decina di biglietti colorati che posò sul tavolo della cucina.

Kumadori ne prese uno e lo osservò mentre la padrona spiegava: « Li hanno dati in omaggio i membri dei club di bungee jumping di San Faldo a me e alle mie amiche! Sono dei buoni per il bowling di San Popula! »

Si avviò verso la porta.

« Ma a noi non piacciono molto questi passatempi sedentari. Però ho pensato che voi, appena arrivati e con un amico convalescente, potevate aver bisogno di svagarvi un po’! »

 

~

 

Jabura si leccò le labbra e ghignò. Oh, se gli piaceva umiliare Rob Lucci! Accarezzò la sua pesante palla, sentendone il peso sul palmo. Le dette un’ultima lucidata mentre con sguardo da predatore fissava i nove birilli in piedi sul fondo della pista.

« Non è che più è pulita la palla, meno fai pena tu come giocatore » osservò Rob Lucci, seduto su una poltroncina dietro di lui.

« Pensa per te » rispose Jabura, godendo del punteggio che aveva accumulato nell’ultima ora. « Che sei penultimo. Chi è sul podio, eh? »

Fukuro sbirciò sul foglio dove Kaku scriveva i punti. « Chapapa, sul podio c’è soprattutto Califa! Ha il doppio dei tuoi punti! »

« La fortuna della principiante »

« Questa è una molestia sessuale » osservò Califa bevendo un drink, tranquillamente seduta accanto a Lucci. In realtà si stava ricordando di quando era suo padre Lusky a portarla a giocare a bowling da bambina, e tornare in pista la rilassava molto.

« Quante storie, ho solo detto che sei fortunata! E solo perché il proprietario non ti ha sbattuta fuori, prima! Altrimenti sarei stato in vantaggio io! »

Uno dei precedenti tiri di Califa era stato così potente che la palla aveva sfondato la parete retrostante ai birilli, facendo quasi prendere fuoco al locale. Ad emergenza rientrata, però, ci si era resi conto che la ragazza aveva totalizzato, nonostante i danni, un altro strike.

Blueno deteneva il terzo posto, Kumadori il quarto, Hattori il quinto, Kaku il sesto, Rob Lucci il settimo, e in ultimo veniva Fukuro.

Non sembrava che Rob Lucci se la prendesse molto, per tale risultato. Da quando era stato dimesso era silenzioso, ma pareva giocare volentieri con i suoi colleghi.

« E adesso silenzio, mezze seghe, fatemi concentrare! » disse Jabura.

Stava per tirare, quando entrarono trafelati due uomini e chiamarono i custodi del bowling.

Blueno alzò la testa, li notò e attirò l’attenzione di Rob Lucci: aveva captato la parola “Marina”.

Intanto Jabura aveva effettuato il suo tiro.

« Scrivi, Kaku! “Strike”! Un tiro eccezionale! » si girò verso il divanetto che avevano occupato i suoi amici, ma li trovò che stavano raccogliendo le loro cose e Kaku e Fukuro si stavano già avviando all’uscita.

« Ehi! Dove state andando?! »

« Le vacanze sono finite » asserì Rob Lucci con un sorriso spietato.

 

Nell’industrioso e ordinato porto di San Popula era stata ormeggiata una nave variopinta, che stonava con tutte le altre vele bianche dei barconi commerciali che facevano da spola tra San Faldo e Water Seven.

I cittadini, incuriositi, si erano avvicinati: era gente che aveva una certa confidenza con il porto e con chi se ne serviva, veniva naturale a tutti andare incontro ai viaggiatori.

Attirati dalla musica e dalle caramelle che piovevano dai ponti, anche molti bambini si erano avvicinati e avevano trascinato i genitori fin sul molo dov’era attraccata, ma subito ne erano scesi degli individui rozzi e violenti che come prima cosa avevano scaricato le pistole sulla prima fila di persone che era capitata loro a tiro.

La folla aveva cominciato a correre verso l’interno del paese, e i pirati avevano cominciato la loro avanzata: i negozi avevano calato in fretta le saracinesche, le donne avevano chiuso le gelosie, il panico si era diffuso per le strade tra urla e spari.

 

I pirati incalzavano, ridendo del terrore che seminavano, e avanzarono fino alla piazza del porto di San Popula trascinando per i capelli due bambini come ostaggi.

Il capitano stava gongolante proprio dove, pochi giorni prima, Jabura aveva saltato nel cerchio di fuoco.

« Siamo i pirati Candy! » si presentò pomposamente. « E vi conviene fare come diciamo noi, se ci tenete ai vostri mocciosi. »

Nessuno osava muoversi.

Gli stivali dei pirati erano sporchi del sangue della gente trucidata sul molo.

Uno dei pirati depose il corpo di una bambina sul bordo della fontana che stava al centro della piazza.

« Vogliamo cento volte il suo peso in oro »

Era sceso il silenzio, e il sangue della donna che scorreva sul sagrato sembrava avere la stessa voce di un fiume in piena, anche se la scia era lenta e scura.

E fu in quel momento che si fece largo tra la folla un uomo. Uno che non gli avresti dato due lire, che zoppicava pure e che chissà per quale ferita non era riuscito a infilarsi nemmeno le maniche della giacca.

Quello che gli disse il pirata non se lo ricorda nessuno, perché rispetto al calcio che si beccò le parole erano di poco conto.

Quello non era solo un disgraziato appena dimesso: era anche un agente del CP9 che aveva parecchia rabbia da smaltire.

« E tu saresti un pirata? » lo apostrofò Rob Lucci « Non farmi ridere. »

 

La folla si scisse al passaggio di quei simpatici attori che tanto li avevano fatti divertire nei giorni scorsi. Non impugnavano armi, eppure dopo pochi metri erano più sporchi di sangue dei pirati stessi. Avanzarono fino alla chiesetta dove i predoni del mare tenevano gli ostaggi: mancava ormai solo quello sparuto gruppo, all’appello per il becchino.

« Sembra che la vacanza a San Popula sia finita » osservò Kaku facendosi schioccare le nocche.

« Il lavoro continua a chiamare, sembra » disse Califa.

« Yoyoi! Non potevamo abituarci a uno stile di vita così privo di emozioni! »

Fukuro si scucì la bocca: « In realtà Jabura si stava abituando benissimo. C’era la cassiera del bar vicino alla chiesa vecchia che… »

« La vuoi piantare di spiattellare gli affari miei? » gridò Jabura.

Blueno schiantò a terra un uomo che aveva tentato di affrontarlo frontalmente. « Non litigate » muggì. « Abbiamo un debito nei confronti di San Popula »

Gli agenti ghignarono in direzione della chiesa, dalle cui porte spalancate sul sagrato si sarebbero sentiti ancora per poco i canti osceni dei pirati.

 

 

 

Dietro le quinte...

 

Rob Lucci era seduto sul divano, fogli in mano e concentrato sulla lettura. 

L'autrice era sul divano accanto, con le mani fredde e gli occhi calamitati su quelli di Rob Lucci che scorrevano rapidi le righe dello stampato dell'ultimo capitolo. Kaku osservava la ragazza, e poi scrutava il collega; lo conosceva abbastanza per sapere benissimo che stava solo "giocando" a modo suo con l'autrice, mandandola nel panico e facendole modificare un sacco di volte le proprie parti, nonostante quella poveretta in realtà non si fosse inventata proprio niente in quel caso, avesse solo rimesso in ordine i loro racconti. Ma Lucci era un perfezionista con un ego smisurato, e pareva che l'autrice non gli stesse neanche chissà quanto simpatica. 

« E piantala di fare la primadonna! » sbottò Jabura, che si era rotto le scatole e voleva andarsene. Aveva guardato dalla finestra e aveva notato che nel campetto sotto al palazzo giocavano a calcetto i Pirati di Barbabianca contro lo staff del bar difronte, e non voleva perdersi anche il secondo tempo. « L'hai riletto tremila volte, lasciaglielo pubblicare. »

L'autrice lo guardò con le lacrime agli occhi: adesso sì che Lucci non le avrebbe mai e poi mai dato il permesso.

Il leader del CP9 (anzi, bisognerebbe scrivere "0", ormai) fulminò truce il rivale e poi decise di ignorarlo. Si rivolse all'autrice: « Non hai tagliato la scena del bigliettino di Hattori. »

« Nossignore. » confermò lei. Era accaduta? Sì. L'aveva infiocchettata? Ovviamente. Erano bugie? Certo che no. 

« E il suo risultato a bowling? »

« Ho le prove materiali: Fukuro mi ha passato lo stampato della classifica. A lui l'ha mandato il gestore del bowling si San Popula, lo teneva ancora in archivio. » si difese la cronista. 

Lucci considerò le risposte e poi disse: « Va bene. Pubblica. »

Fu fatto.

Yellow Canadair

 

 

Ps.

La partita tra Pirati di Barbabianca e staff del bar finì 3-4, Jabura arbitrò il finale del secondo tempo perché l'arbitro ufficiale fu colpito per errore da una mazza chiodata lanciata dal terzino della squadra del bar.

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Capitolo 6
*** Verso casa ***


Per rinfrescarsi la memoria: qui le Mini-Avventure del CP9 ("Missioni extra-curriculari del CP9"). 

 

 

 

Verso casa

 

Nella piazza muta, il crepitio dell’osso risuonò come un colpo di cannone.

Il grido angosciato di un bambino spezzò l’incantesimo di quel silenzio e la piazza cominciò a rumoreggiare.

« Fermo! Stanno arrivando i Marine! »

« Lascialo stare! »

« Basta, basta! »

« Mostro! »

Rob Lucci si guardò attorno. Non era molto empatico, ma riconosceva una faccia terrorizzata, e tutta San Popula lo fissava sconvolta. Ma come? Un quarto d’ora prima non facevano tutti il tifo per lui e per i suoi colleghi, che stavano dando ai pirati quello che si meritavano?

Nessuno si era lamentato quando aveva rotto la faccia al capitano con un calcio, o quando Kaku e gli altri erano saliti sulla nave ed erano cominciati a piovere cadaveri sul molo.

Era la Giustizia Oscura. Chi rompe, paga. Chi è debole, anche. Chi assalta una città e uccide civili, a maggior ragione.

Per quale motivo non avrebbe dovuto schiacciare come un insetto la testa di quel criminale, proprio sulla piazza dove lui stesso aveva preso in ostaggio donne e bambini?

« Per favore, fermati! »

Nessuno osava avvicinarsi a lui. Il silenzio era pesante come un sudario.

Kaku lo raggiunse.

« Lucci » chiamò trafelato. « Qualcuno ha chiamato la Marina. » il compagno era sporco di sangue, ma non era certo il suo. Si era accorto già da qualche minuto del cambio di umore della folla.

Prima erano entusiasti, avevano tifato. Poi gli ex agenti si erano lasciati prendere la mano, il sangue aveva cominciato a scorrere a fiumi, i pirati urlavano, l’odore ferrigno aveva riempito l’aria e le strade della città erano diventate un macabro teatro a cui nessuno era abituato.

E le strade si erano svuotate, il silenzio dapprima atterrito era diventato il silenzio spettrale del vuoto.

« Accidenti. Siamo stati tranquilli, finché non sei tornato tu! » lo rimproverò Jabura facendosi schioccare il collo. Però ghignava, e sicuramente quella scazzottata gli era piaciuta, da bravo mastino assetato di sangue qual era.

« È dunque giunto il momento di salpare? » si chiese Kumadori. La sua voce rimbombò sulle pareti dei palazzi.

« La nave ce l’abbiamo… » osservò Kaku.

« E abbiamo anche un paio di carpentieri in caso di guasto! » se la rise Jabura assestando una manata sulle spalle di Kaku e Lucci, che ringhiò per il contatto indesiderato.

« Peccato per la casa… » sospirò Blueno.

« Casa nostra non è qui. » disse a sorpresa Rob Lucci.

Tutti si voltarono a guardarlo.

Rob Lucci era spaventoso anche quando sorrideva.

 

~

 

Nonostante il sole, le strade deserte erano spettrali.

Avevano appena salvato la città, eppure l’avevano spaventata a morte.

I sampietrini del quartiere del porto, sotto le loro scarpe, erano bagnati del sangue delle vittime.

I cadaveri dei pirati erano ancora tutti lì.

Non si sentiva un respiro, solo i passi cadenzati dei sette agenti e, che ironia, il battito delle ali di un colombo bianco.

E sulla nuca, Lucci se li sentiva, aveva gli sguardi delle persone nascoste dietro le gelosie chiuse e le porte serrate, ogni tenda che ondeggiava nascondeva un volto spaventato.

Sospirò pesantemente e, in testa a tutti gli altri con le mani in tasca, camminò verso la nave più pacchiana che gli fosse mai toccato vedere. D’istinto lui e Kaku pensarono a eventuali modifiche, almeno per non essere subito intercettati.

Una porta sbattè.

Una voce femminile urlò: «No! »

E poi, immediatamente, una bambina sussurrò felice: « Signorina! »

Una bimba sui sei anni, una delle tante che Kaku aveva fatto baloccare, li chiamò senza paura. Loro si voltarono e lei era lì, in piedi sui sampietrini nel forse unico metro quadro che non fosse invaso dal sangue, aveva in mano un fiore e fissava Califa.

Sorridendo, le tese il fiore, che era una bella peonia rosa appena sbocciata.

Califa si chinò verso la bimba.

« No! Non dire anche a lei che è molestia sessuale! » la pregò Jabura.

« Infiniti lutti addosseranno a te, se ci rivolgi la parola! » pianse Kumadori rivolto alla piccina.

« “Per ringraziare, un fiore più che abbagliante” » recitò la bambina mettendo il dono nelle mani di Califa.

« Oh… » mormorò la donna con un sorriso, mentre con una mano si ravviava una ciocca dietro l’orecchio. « È molto gentile da parte tua »

« Ci sono anche un po’ di radici, così la puoi piantare dove vuoi. » biascicò la bambina. Poi guardò il resto del CP9, scappò via e sparì in un vicolo.

 

~

                                                                                                    

La caravella beccheggiava leggermente, oscillava a destra e sinistra, e solcava le onde con il sole dritto a prua. Il mare luccicava in lontananza e il cielo era sgombro: si vedeva solo il blu intenso in basso e l’azzurro vivido in alto. San Popula alle loro spalle era diventata sempre più piccola, sempre più velata, e infine era sparita.

« “M’affaccio alla finestra, e vedo il mare: vanno le stelle, tremolano l’onde. Vedo stelle passare, onde passare: un guizzo chiama, un palpito risponde.” » Kumadori era proprio in forma quel giorno, nonostante ne avesse passato gran parte in una rissa.

« Regola l’orologio, idiota! » se la rideva Jabura, in bilico sul pennone di trinchetto sotto al sole battente. « È passato mezzogiorno! »

Kaku era saltato lesto come suo solito fino al punto più alto della nave, proprio sulla coffa dell’albero maestro. Si riparava gli occhi con una mano e, ignorando gli schiamazzi, guardava l’orizzonte.

« Califa, Califa! » chiacchierava Fukuro « Blueno non sopporta il mare! È andato a vomi-

« Questa è una molestia sessuale. » lo interruppe Califa, che stava al timone con la stessa severità con la quale faceva la segretaria per Iceburg. « Va’ in cambusa e occupati di inventariare tutto quello che trovi di commestibile. I fogli sono nella cabina del capitano, terzo cassetto in basso della scrivania. » disse aggiustandosi gli occhiali.

Blueno, che non stava vomitando affatto, era ritto in piedi sotto la randa, a poppa, e guardava verso il mare aperto. Laggiù non si sentiva il chiacchierare continuo di Fukuro, e nemmeno le grida di Jabura (che cosa aveva, da ballare su un piede solo in equilibrio sul pennone, poi?). Finalmente l’ex oste poteva godersi qualche momento di tranquillità. Il rollio della nave gli dava fastidio, era vero, ma era bastato mettersi tranquillo in quella zona più silenziosa della nave per non avere più la nausea.

E Rob Lucci?

Rob Lucci osservava la spuma bianca che la nave sollevava al suo passaggio, una scia che si allargava man mano che la nave avanzava, e a guardarla da lì, dalla battagliola di poppa, proprio sotto al cassero, sembrava una lunga coda di balena. E non si era limitato ad affacciarsi: aveva scavalcato la ringhiera e si era seduto all’angolo estremo della nave.

Aveva recuperato dal capo di uno degli uccisi una tuba nera, simile a quella che portava lui. Se la rigirava tra le mani, osservandola. Non era di pessima fattura, ma nemmeno di buona qualità come la sua; era consumata e lui non potè fare a meno di notare che dentro ci fossero ancora impigliati i capelli color paglia del precedente proprietario. La fodera di raso verde andava scucendosi in più punti, e non nascondeva nulla: né carte da gioco, né biglietti, né soldi. Sul fondo c’era il marchio liso della cappelleria, e l’assassino lesse, aguzzando lo sguardo: “Cappelleria Torre”. Sotto c’era una data troppo scolorita per essere intesa.

Non l’aveva ancora provata per vedere se la misura andasse bene.

Hattori gli svolazzava intorno, contento e curioso per la nuova situazione. Ogni tanto volava verso il ponte principale della nave, per ambientarsi in quel nuovo mondo, poi tornava fedelmente da lui e si appollaiava sulla sua spalla, aspettando che fosse Lucci a dettare il da farsi.

Ma l’agente rimaneva fermo lì, muto e in ombra, a guardare il mare che sfilava via.

Solo ogni tanto concedeva una carezza sul petto del suo colombo.

La navigazione intanto procedeva tranquilla. Kaku segnalò due navi in lontananza, ma il CP9 non voleva ingaggiare battaglia con nessuno, quei velieri lontani altrettanto, e le strade degli equipaggi non si incrociarono. Arrivarono soltanto, dopo alcuni minuti, le onde sollevate da quei galeoni che solcavano il mare nella direzione opposta alla loro.

Rob Lucci si irrigidì nel sentire quell’improvviso rollio.

Hattori era ancora appollaiato sulla sua spalla, anche se non in piedi ma comodamente accucciato. Ne riusciva a percepire il calore e, se si concentrava, anche il suo minuscolo stomaco che chiedeva educatamente da mangiare.

Infilò una mano nella tasca destra: ormai erano anni che viveva con il piccione, non stava mai senza qualche granaglia comprata dalle ceste dei mercanti di piazza.

Mentre Hattori beccava contento e volava soddisfatto attorno a lui, Rob Lucci afferrò la tuba per la tesa e la gettò in mare, nella scia del veliero.

La seguì con lo sguardo che arrancava tra i flutti, poi la corrente impregnò il feltro, traballò ancora un po’, e quando non fu che un punto nero in lontananza arrivò un’onda che l’inghiottì. 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Poche note, stavolta. Kumadori ha scelto la poesia "Mare" di Giovanni Pascoli per propiziare la nuova partenza del CP9. ...exCP9, mi corregge Califa (e chi, se no?). 

Spero vi sia piaciuto il capitolo, in particolare la chiusura... ho difficoltà a scrivere di Rob Lucci, però la scena di lui sulla coda del veliero che lascia andare il vecchio cilindro mi ha conquistata subito. In effetti nelle miniavventure si vede lui, in questa scena (in realtà va visto quasi con la lente d'ingrandimento, visto che c'è solo la sua sagoma nel vascello controluce) con un cilindro in mano, però non ce l'ha nè nella scena prima nè in quella seguente... 

Prometto di non sparire portate pazienza, sono gli atti finali della storia! 

Grazie tantissimo a chi legge e un grazie potente quanto un Rokuogan a chi recensisce

Yellow Canadair

 

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Capitolo 7
*** Io ti troverò ***


Per rinfrescarsi la memoria: qui le Mini-Avventure del CP9 ("Missioni extra-curriculari del CP9"). 

 

 

Io ti troverò

 

Riconobbero l’aria di casa prima ancora che l’isola spuntasse tra l’umida foschia del mattino. Il mare da crespo divenne calmo, la temperatura salì, le piume di Hattori si arruffarono e arrivarono i profumi della foresta: l’umido della terra, la corteccia degli alberi di ebano, i grappoli di orchidee e le grandi famiglie di mangrovie stavano già dando il bentornato ai loro figli.  

Dalla coffa di maestra Kaku avvertì Jabura che stava nella coffa di mezzana, e fu lui a gridare a tutti quanti: « Siamo arrivati! Siamo arrivati! »

E corsero tutti ad affacciarsi a prua come bambini, guardando in lontananza l’isola che appariva dal suo sognante letto di nuvole basse: ed ecco profilarsi tra gli alberi verdi l’altissima pagoda gialla con gli spioventi rossi che dominava la grande foresta di Jiangxin.

 

« Siamo a casa! Siamo a casa! » gridò Kaku mettendo i piedi sulla spiaggia.

Fukuro e Kumadori, gli unici che potevano mettere i piedi a mare per issare in secca la scialuppa con la quale erano approdati, misero appena le zeppe necessarie a non far scivolare a mare la barca e poi cominciarono a camminare sulla spiaggia e voltarsi in ogni direzione, quasi per assicurarsi che fosse tutto vero, tutto come se lo ricordavano.

« “È aspra e non adatta ai cavalli; non è troppo magra, ma non è molto vasta. Pure c’è grano infinito, c’è vino, e sempre pioggia la bagna e guazza abbondante. È buona nutrice di capre e di bovi: e una selva c’è, d’ogni specie di piante”, sì figli nostri, il nome di Jiangxin, ingiustamente tenuto nascosto, ora possiamo a gran voce cantare! » Kumadori era così bravo a sintetizzare i sentimenti dei suoi amici.

Si misero sul sentiero che dalla spiaggia di ghiaia portava verso l’interno, passando attraverso la lussureggiante foresta. Jabura saltava contento dietro Kumadori che roteava il suo bastone e continuava a cantare, Fukuro afferrò Kaku per la vita e lo sballottò per qualche metro mentre ridevano tutti e due, per poi metterlo a terra e continuare a schiamazzare camminando all’indietro per vedere la giungla e la vecchia spiaggia che era stata teatro di tante sfide e tanti allenamenti clandestini. Seguiva Blueno, soddisfatto e rilassato a braccia incrociate, e Califa che sorrideva guardando i suoi colleghi improvvisamente ringiovaniti di vent’anni.

La ragazza si fermò sul viottolo e si girò indietro. « Tu non vieni? »

Rob Lucci era rimasto all’inizio del sentiero, muto, con le mani nelle tasche e lo sguardo alto verso la pagoda. Il vento leggero gli faceva ondeggiare i capelli e le falde della giacca.

« Stanno arrivando » asserì con una luce sinistra nello sguardo.

« Abbiamo circa sei ore e mezzo di vantaggio » rispose Califa. « C’è tutto il tempo. »

« Ehi! Avete intenzione di piantare le tende sulla spiaggia? » latrò Jabura, già con un centinaio di metri di vantaggio.

 

~

 

« …e quelli laggiù sono i più grandicelli. » spiegò il vecchio Qin Shi, indicando una radura. Era nascosto sotto l’architrave scolpito che conduceva alla balconata perché aveva paura dell’altezza, e non si avvicinava al margine del terrazzino. Gli agenti invece pascolavano sotto il sole, sul balcone, guardando dove il loro vecchio maestro indicava.

« Sono alla fine dei primi sette anni? » chiese Kaku.

« Esatto. A giugno li aspetta il secondo ciclo di allenamenti. » sospirò l’anziano.

L’Isola di Jiangxin era pur sempre un’isola dove si tenevano programmi governativi segreti: se gli agenti del CP9 erano sbarcati vivi, era perché qualcuno sulla terraferma li aveva riconosciuti già ottocento metri prima della spiaggia.

Qin Shi era il direttore dell’isola ormai da quasi quarant’anni: si occupava della burocrazia, dell’organizzazione, di amministrare i pochi dipendenti che vivevano assieme agli agenti governativi in formazione. Di certo erano indispensabili dei maestri specializzati in ogni sorta di tecnica di combattimento, però c’erano anche un cuoco con i suoi aiutanti, alcuni inservienti che si occupavano delle pulizie, lavandaie, e infine il personale medico perché si sa, agenti o no, i bambini sono molto fantasiosi nel trovare nuovi modi per farsi male. Jabura lo sapeva benissimo.

Kaku si affacciò alla terrazza, abbracciando con lo sguardo il versante meridionale dell’isola sul quale affacciavano. Si perse nell’osservare gli alberi verdi della foresta che si estendevano rigogliosi, lasciando brulle solo poche radure in cui i ragazzini si allenavano con il sole o con la pioggia. Sotto di loro, a favore di luce e proprio sotto al muro della torre c’erano gli orti dove si coltivavano le verdure e la frutta che sarebbero finite nella mensa. In lontananza, oltre la foresta, luccicava il mare, mentre arrivavano confusi i vocii dei futuri agenti che ripetevano i mantra e le urla che accompagnavano i movimenti marziali. Cominciava a salire dalle cucine anche odori che facevano ribollire gli stomaci, infatti era già quasi mezzogiorno.

« È cambiato il cuoco? » domandò il carpentiere una volta noto come “Vento di Montagna”. Riconosceva l’odore di cucina, ma ricordava che nella mensa di quand’era bambino giravano più spezie, e gli odori erano più intensi.

« Ahimè » si strinse nelle spalle magre Qin Shi. « Da quasi un anno lavora qui la nuova leva: e non possiamo mandarlo via, perché ha visto troppo… ma nessun agente riesce a ucciderlo! È uno dei tanti problemi che mi assillano! »

« Nessun agente riesce a uccidere un cuoco? » fece eco Rob Lucci, seccato.

« Per due motivi: primo, se lo uccidiamo, poi nessuno vuole cucinare per tutti e cinquantaquattro gli inquilini dell’isola; secondo… » Qin Shi rabbrividì. « Ci fa schifo toccarlo. »

« E chi diavolo sarebbe? »

« Si chiama Gigi l’Unto. » poi si ricompose e sorrise, come se stesse pensando a qualcosa di bello. « E poi, detto tra noi, ha una figlia, che lavora qui, la quale è un gran bel pezzo di figliola, e mandarla via sarebbe un peccato… »

« Direttore, lei mi è mancato tantissimo! » pianse di gioia Jabura prendendo il vecchio sottobraccio. « Quanti anni ha la signorina? »

« Che sfacciata molestia sessuale. » si disgustò Califa.

« Che ore sono? » domandò all’improvviso Rob Lucci all’ex segretaria.

« Mancano due ore e mezza, con le condizioni del mare invariate. Sono le dodici e zero zero. »

« Ragazzi, c’è qualcosa dietro al vostro arrivo che dovrei sapere? »

« No. » rispose con prontezza Lucci. « Ma faccia ritirare i ragazzi dall’esterno tra due ore e non li faccia uscire per venti minuti. Non intendo fare vittime tra i futuri agenti. »

« Ohhh Rob Lucci che “non intende fare vittime”! Cos’è tutta questa beneficenza all’improvviso? »

« Taci, Jabura » lo ammonì Qin Shi « Il tuo collega sa bene che danneggiare questi reparti porterebbe un grave danno all’interno del CP. Comunque, potrei sapere perché quest’interferenza nelle attività dell’isola? » si rivolse a Lucci.

Rob Lucci lo guardò e dichiarò: « No. » voltò le spalle alla balconata e imboccò le scale, scendendole senza fretta con le mani in tasca.

« Degno di un agente segreto, certamente, ma potrei scucire qualcosa in più da te? » si rivolse a Kaku il direttore.

Kaku decise di non inoltrarsi troppo nei dettagli, ma rispose con sincerità: « Siamo braccati, dobbiamo disfarci degli inseguitori. »

 

~

 

 « Unità quattro: disponetevi lungo la fascia ovest della spiaggia; unità tre: salite sulla scogliera a ore dieci; unità cinque e sei: inoltratevi per i primi venti metri di bosco e non sparate senza il mio ordine. Unità uno e due: con me. » dispose il capitano Very Good.

Dopo la sconfitta di Enies Lobby era stato mandato a catturare i membri del CP9 che si erano macchiati di tradimento; la missione non gli piaceva, ma non erano gli agenti del CP a renderlo scontento: gli era stata affidata quella missione diversi giorni dopo i fatti di Enies Lobby, quando ormai gli agenti chissà dov’erano finiti, e inoltre sapeva bene di non avere sufficienti uomini per contrastare quelle persone incredibili. Credeva che quella fosse una sorta di punizione per essersi fatto sfuggire Cappello di Paglia.

“Un Viceammiraglio come te non dovrebbe avere problemi: sono solo in sette, feriti e in fuga”, gli avevano detto, e lui come Marine doveva obbedire agli ordini, per quanto assurdi fossero. E se si fosse rifiutato, chissà la sua brigata dove e contro chi sarebbe andata. Si era stretto nelle spalle e si era ripetuto quel sono solo sette, feriti e in fuga finché non aveva quasi finito col crederci.

Gli agenti del CP9 erano sì sette, ma feriti e in fuga lo erano stati subito dopo Enies Lobby: perché non lo avevano mandato allora, a prenderli?

Ma ormai non poteva più farci niente, anzi, la battuta di caccia era quasi finita: avvistati a San Popula, il gruppo era poi salpato su un’appariscente nave pirata che aveva incrociato, senza ingaggiare battaglia, altri mercantili che poi erano stati così gentili da fornire indicazioni alla Marina: così Very Good aveva preso una carta nautica e, grazie anche ad alcune telefonate con Spandam, aveva localizzato la meta del CP9: l’isola di Jiangxin, dove da bambini erano stati allenati e forgiati. Li avrebbe inseguiti e presi, e fine della storia lì dov’era cominciata.

« Animo, animo! Ricordate: siete autorizzati ad aprire il fuoco solo dopo il mio segnale! » tuonò Very Good, badando bene che la sua tensione non trasparisse nelle parole. « Forza ragazzi, prendiamo i maramaldi e poi tutti a casa dalle signore! »

Si lasciarono alle spalle la baia con la nave dei pirati Candy ormeggiata, e poi la spiaggia di ghiaia, e infine i militari avanzarono sul sentiero che portava alla pagoda che dominava la piccola isola e che sorgeva giusto in mezzo a una fitta boscaglia umida.

Non si sentiva un fiato.

Solo il pesticciare dei piedi nel sottobosco umido.

Anche le foglie stavano trattenendo il respiro.

Un ululato fece raggelare il sangue dei Marine.

« Animo, siamo in una foresta » ruggì basso Very Good. « Avanzate. Va tutto bene. » anche se in realtà cominciava a credere che non andasse bene per niente.

I soldati avanzavano tra i cespugli, gravitando sul sentiero che attraversava il bosco. Gradualmente il sentiero diventò una leggera salita, e loro procedettero spediti.

« C’era una volta una bambina con una mantella rossa, che cammina, cammina… » recitò una voce.

I militari alzarono la testa verso la cima della salita.

« …incontrò il lupo cattivo! » Jabura rovesciò la testa all’indietro e ululò.

Sette sagome si stagliavano contro il sole, minacciose e foriere di morte. Rob Lucci, Kaku e Jabura stavano al centro del sentiero, pronti a rimandare al mittente i Marine.

Le parole di Very Good tornarono in mente agli uomini del drappello: “sette… feriti… in fuga”. Quelli erano sette, ma non erano né feriti né in fuga. Erano loro, semmai, che lo sarebbero stati presto.

Hattori spiccò il volo.

 

~

 

« Ecco ragazzi, vedete? » indicò con una bacchetta Qin Shi dal balcone della pagoda, su cui aveva fatto portare alcune sedie per i ragazzi. « Quello è il Geppo in uno stadio estremamente avanzato. »

Dai bambini arrivava silenzio, approvazione, e un lungo: “Ohhhh!”

« E quello invece » spiegò Qin Shi spostando leggermente la bacchetta verso destra « È il Rankyaku… accidenti, quegli alberi li avevo piantati da ragazzo… »

Ci fu un botto, e venne giù un baobab che per fortuna era già secco di suo.

« Quello cos’è stato? Cos’era? » saltò su un ragazzino con gli occhiali appiccicandosi alla balaustra.

« Uh, quel ragazzo dev’essere proprio arrabbiato, per usare una cosa simile contro quattro Marine… » considerò Qin Shi. « Quella era il Rokuogan. Puoi usarlo solo se conosci per bene le altre tecniche, Hiro, ecco perché vi diciamo sempre di impegnarvi a dovere! »

 

~

 

Wanda nuotava. Aveva due occhioni fissi spalancati sull’acqua e nuotava.

Non si faceva domande. Non se ne aspettava. Quando sei un pesce rosso, non è che ti fai troppi problemi.

Wanda nuotava e ogni tanto le piovevano addosso dei pezzi di cibo. Le andava bene. Saliva a prenderli in superficie e continuava a nuotare.

Avrebbe voluto avere più spazio, e invece era in un sacchetto di plastica.

“Sei un pesciolino speciale” le aveva detto un umano. “Se rimani in questo sacchetto, l’acqua rimarrà seeempre fredda. I pesciolini della tua razza sono così!” Contento lui. A Wanda bastava che le dessero da mangiare.

Sotto di lei, oltre l’acqua fredda e la plastica del sacchetto, c’era la faccia di un umano.

Aveva le labbra gonfie come quelle dei pesci dell’abisso, i capelli lilla come le anemoni del mare di Gì, ed era bendato come le mummie sul fondo del porto di Roham.

L’unico problema nella vita di Wanda era che l’umano si lamentava sempre, e anche se Wanda non aveva un vero e proprio senso dell’udito come gli umani, le onde sonore di quello là le arrivavano fin troppo bene.

L’umano si chiamava Spandam, ed era stato ricoverato in quella clinica dopo la tremenda battaglia di Enies Lobby. La sua cartella clinica non era un semplice insieme di fogli, ma una vera e propria risma di catastrofi che gli erano occorse: le aveva prese da tutti in lungo e in largo, e alla fine ne era uscito vivo per miracolo.

E anche la sua carriera era momentaneamente salva per puro intervento divino, e in gran parte grazie all’influenza di suo padre, Spandine.

Spandam non poteva fare altro se non rimanere immobile in quel letto, avvolto in metri di bende,  con la sola compagnia di Wanda e dell’infermiera che lo faceva bere imboccandolo con un cucchiaino da caffè.

Nella stanza entrò un uomo, un agente governativo in giacca e cravatta. « Signor Spandam » esordì mettendosi sull’attenti.

« R…riposo… » articolò Spandam.

« Al lumacofono. Chiedono di parlare con lei. »

« …chi? »

« È il capitano Very Good, signore. Dice di aver trovato il CP9. »

« Pass...amelo!! » si illuminò Spandam facendosi mettere la cornetta vicino all’orecchio.

« Capitano? le passo il signor Spandam. » annunciò l’agente al lumacofono prima di accostare la cornetta a Spandam.

« Qui Sshhpandam. » biascicò infine.

« Sono Rob Lucci. »

 

Blueno sollevò in aria la testa sferica di Very Good. « Grazie per la collaborazione » muggì. Con l’altra mano reggeva il lumacofono, la cui cornetta era in pugno a Rob Lucci.

« Il tuo errore più grande non è stato scaricarci addosso la responsabilità degli eventi, ma non assicurarti che io fossi morto, prima di farlo. » tuonò al lumacofono, incurante di Jabura che litigava con i Marine.

Spandam sudava freddo e non osava ribattere.

« Ti troverò. E ti ucciderò. »

 

 

 

 

 

 

Dietro le quinte…

L’isola del CP9, rivela ODA in una SBS, è ispirata a un’isola cinese realmente esistente. Il nome dell’isola dovrebbe essere “Jiangxin”, stando ai risultati di Google (anche se nella SBS è scritto “Jangxin Yu”); Oda conferma un’ambientazione cinese per gli esordi del CP9, ambientazione benissimo riassunta dal character design di Jabura.

Kumadori recita un verso dell’Odissea, in particolare una frase detta dalla dea Atena riferendosi a Itaca, quando Odisseo vi fa ritorno.

Nessun pesce di nome Wanda è stato maltrattato per scrivere questo capitolo.

Si ringrazia l’antigienica collaborazione di Gigi l’Unto anche stavolta! Credo sia il mio OC più usato e più onnipresente della mia scuderia! Qui è stato avvistato da Kidd ubriaco e dalla sua ciurma, qui da Bonney, qui da Tashigi! 

Il finale ricorda molto il film "Io ti troverò". Ho cercato alternative che fossero meno simili alle battute del protagonista, ma alla fine "io ti troverò" è proprio la frase più coincisa, più spiccia e più incisiva che sono riuscita a pensare... nonché quella che più mette pressione a chi l'ascolta, anche se nel film la situazione era decisamente più drammatica. In realtà anche per Spandam è parecchio drammatica, io Lucci incazzato non lo vorrei avere alle mie calcagna!! D: il resto della sua battuta è un'idea della Metà ♥ 

La scena di Jabura che ulula ai soldati mi piace da morire e spero sia piaciuta anche a voi! (ricordiamo che ogni scarrafone è bello a mamma sua, quindi non so quanto sia attendibile il mio giudizio)

Il prossimo capitolo è l'ultimo, anzi, sarà l'epilogo. Grazie a tutti per aver letto questa storia, grazie a chi l'ha inserita tra le seguite/ricordate/preferite, e grazie soprattutto ai recensori che danno sempre felicità sottoforma di righe! 

Arrivederci a presto,

Yellow Canadair

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Capitolo 8
*** Epilogo: cuore colombo ***


Epilogo

Cuore colombo

 

La nave della Marina galleggiava dolcemente nella baia dell’isola di Jiangxin. Le onde dell’oceano la facevano alzare e abbassare, e dondolava sul mare blu. Le vele e gli alberi si riflettevano nell’acqua tersa.

Kaku e Lucci ne avevano costruite molte, di navi del genere, ed ebbero subito chiaro che la cosa più sensata da fare era lasciare la nave dei pirati Candy e continuare il viaggio con quella della Marina; inoltre sapevano bene che una chiglia rivestita di agalmatolite non era da buttar via, così come le insegne della Marina che erano sempre un ottimo biglietto da visita.

« Dobbiamo andare, Califa. » disse Kaku sulla spiaggia, con i resti di Very Good che ancora li fissavano ma che non osavano ricomporsi.

« Solo un istante. » rispose la ragazza.

I suoi colleghi la osservarono tornare brevemente sui suoi passi, ma nessuno intervenne. Fukuro prese fiato per dire qualcosa, ma Jabura, brusco, gli serrò la zip: Califa stava scavando una piccola buca.

Dentro vi piantò il fiore che una bambina le aveva regalato nella lontana San Popula.

Poi si rialzò, spazzolò via la terra dalle ginocchia con le mani, si tirò gli occhiali sopra la testa e disse ai suoi ragazzi: « Possiamo ripartire »

 

Alcuni mesi dopo…

 

Il grande fiume scorreva lento e dignitoso, accarezzando gli argini di frasche e di canneti. L’altra riva sembrava un luogo lontano, sconosciuto, con le stesse frasche e gli stessi canneti per chilometri e chilometri, fino al mare che era solo un’idea lontana.

Faceva capolino da un bosco di faggi un vecchio cascinale a due piani squadrato, dal tetto sfondato e le finestre serrate da persiane vecchie di almeno mezzo secolo; la vernice si era staccata pezzo dopo pezzo e mostrava la struttura di pietra e di mattoni.

Era poco più che una vecchia fotografia; solo il faggio più vicino che si muoveva al vento faceva sembrare tutto reale, seppur fermo nel tempo.

La nave della Marina si era arenata a chilometri dalla foce, si era incagliata sul fondale fangoso del fiume vicino al cascinale, e lì era rimasta; gli agenti erano scesi sul greto di sassi, l’avevano guardata, e poi Kaku e Lucci si erano scambiati uno sguardo e avevano preso a smantellarla con l’ordine inverso di quello che usavano per costruire.

Due giorni dopo non esisteva più alcuna nave della Marina: c’era una chiatta per muoversi sul fiume e un cascinale a due piani con il tetto riparato e le finestre aperte.

Era strano vedere degli agenti del CP9 comportarsi in maniera così normale, così ordinaria, era strano vedere Fukuro essere mandato senza troppi complimenti in legnaia prima che si spegnesse il camino e prima che con le sue chiacchiere piantasse troppa zizzania.

Certe cose invece erano sorprese piacevoli, come Jabura che tornava dalla caccia con quattro o cinque conigli che Blueno avrebbe senza remore spellato e arrostito.

Altre cose erano molto incredibili, come incrociare Kumadori di primo mattino e vederlo senza rossetto nero e cerone. E poi c’erano scorci di tranquillità che nessuno si sarebbe mai aspettato di vedere, come Califa che rammendava, seduta davanti al camino, le camicie di Jabura e Lucci che si erano scannati un’altra volta.

Kaku si divertiva sul fiume, andava su e giù con la chiatta per i paesini dell’argine a vendere i conigli di Jabura o i pesci che pescava lui. La gente ormai lo conosceva e a lui sembrava di aver recuperato quella vita spensierata che aveva a Water Seven, quando usciva a divertirsi con gli altri carpentieri. Certo, non c’era più il bar di Blueno, ma aveva imparato ad apprezzare le osterie dove gli uomini, dopo la fatica nei campi, giocavano a carte e bevevano vino rosso.

Andava e veniva dal paese.

Tornava a casa la sera, si sedeva con Rob Lucci al tavolo della cucina, e discutevano fitto fitto scrivendo annotazioni su un quaderno. Califa spesso interveniva, indicava questo o quell’appunto, Kaku correggeva, e poi di nuovo a fare congetture. Blueno preparò ettolitri di caffè, in quel periodo. Quando Jabura si avvicinava al tavolo nell’aria si vedevano già le scintille, ma ogni tanto persino lui riusciva ad avere qualche buona idea.

C’erano delle sere, quando il sole era tramontato e il lavoro fuori casa era finito, in cui Kaku tornava, si sedeva sul divano, ed era come un segnale per dire che non c’era nulla su cui costruire supposizioni. Il vento spazzava l’argine ed era semplicemente bello stare tutti insieme a casa. Chi a poltrire da una parte, chi a fare addominali dall’altra, chi a cucinare e chi a pulire, però si stava insieme, e tutti ogni tanto tendevano l’orecchio per sentire, piacevolmente, la pioggia battere sulle tegole.

Era meraviglioso, ma non poteva durare. Quella promessa fatta a Spandam doveva essere onorata e, prima o poi, tutto quel confabulare e quel pianificare viaggi avrebbe portato a una pista di caccia concreta e inesorabile.

Spandam non si era messo contro dei comuni mortali, del resto: si era messo contro un’élite di assassini, gli stessi assassini che lui aveva scelto di sfruttare per assicurarsi la vita e la carriera.

 

Una sera Kaku tornò a casa correndo, e tutto cominciò a girare velocemente. Gli appunti sul quaderno divennero abbozzi di carte geografiche, Califa prese una calcolatrice e cominciò a battere rapidamente sui tasti: misurava rotte, distanze, costi di spostamento.

Kumadori tentò il Seppuku perché avevano perso, senza volere, il mercantile che trasportava merci da quell’isola alla successiva: era partito il giorno prima e adesso bisognava aspettare una settimana. Nessuno vi badò, e l’anima pia di sua madre non gli concesse di morire.

Dopo l’ultima settimana di pace, il CP9 salpò.

Fu un peccato, perché quella casa immersa nella campagna era proprio quello che ci voleva, dopo le vicissitudini di Enies Lobby e quelle di San Popula.

Nonostante l’ambiente bucolico, però, c’erano stati momenti di estrema tensione: come quando Kaku era entrato nella doccia, aveva girato la manopola e si era goduto la cascata di acqua calda…. ma pochi secondi dopo si era reso conto di avere i piedi completamente in ammollo, e che l’acqua stava per tracimare dal piano della doccia. Seccato, aveva chiuso il rubinetto ed era uscito dal box.

Tornato nel salotto con l’accappatoio addosso, aveva squadrato uno per uno Rob Lucci, Califa, Jabura, e soprattutto Kumadori.

« I capelli dallo scarico vanno tolti dopo ogni vostra doccia! » aveva esclamato.

Era stata presa come una dichiarazione di guerra e ci erano voluti due giorni per riportare il salotto in condizioni abitabili: nel CP9 sono tutti un po’ permalosi.

Quando il mercantile partì, portandosi gli agenti in borghese, l’inseguimento di Spandam potè dirsi finalmente cominciato. Jabura scalpitava per menare le mani e per strangolare l’ex direttore, ma mai quanto lo desiderava Rob Lucci.

Il suo carattere è più composto e non si lascia spesso andare a dichiarazioni d’intenti… anzi no, non è vero. Contro Cappello di Paglia, sicuro di vincere e che nessuno potesse batterlo, aveva spiattellato piani e intenzioni. Adesso ci pensa due volte prima di dire che è un superumano e che nessuno è alla sua altezza.

Non che questo abbia minimamente intaccato il suo spirito assetato di stragi: dopo lo scontro con Cappello di Paglia qualcosa si è mosso, qualcosa è cambiato, ma ciò che ha fatto Spandam è troppo difficile da seppellire sotto la proverbiale pietra, e troppi anni sono trascorsi nel riuscito sforzo di rendersi uno spietato e lucido assassino.

E questo io lo so bene. Lo so perché ho passato quasi trent’anni sulla spalla del mio amico, e sono sicuro che arriverà il giorno in cui Spandam rimpiangerà ogni singolo istante trascorso indegnamente a capo di questi ragazzi.

Portare a termine una missione, uccidere senza remore, sacrificare la propria vita in nome della Giustizia Oscura, non è roba da persone comuni.

È roba da CP9.

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

È con immenso dispiacere che concludo questa storia. Certo, essendo mia potrei continuare a torturare il CP9 a raccontare del CP9, ma per stavolta finisco così. Con un piccolissimo Hattori che ha dato voce all'epilogo. 

I miei bambini preziosissimi!!! Chi mi conosce sa bene quanto mi sia innamorata del CP9, quanto abbia a lungo spulciato ogni rognosa vignetta per tirare fuori caratteri, manie, vizi e virtù di questi sette ragazzacci ♥ Rob Lucci mi ha fatta letteralmente dannare e scrivere di lui mi è sempre riuscito ostico... meraviglioso, ma ostico; con Jabura e Kumadori mi sono divertita, credo di non aver mai incontrato dei personaggi così ♥ 

Ma in realtà non potrei fare a meno di nessuno, nel gruppo. Ed è per questo che del CP9 (o CP0, aggiornandomi) continuerò a scrivere.

Un grazie immenso alle persone che mi hanno sOpportata ♥

Un grazie altrettanto grande a chi ha recensito, e ancora più immenso a chi l'ha fatto assiduamente. Grazie. 

Grazie al CP9, che si è lasciato amorevolmente spupazzare per mesi ♥

Grazie a te, che sei arrivato fin qui.

Yellow Canadair

 

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