Cronache dalle terre di Suna - Tagliavento

di Elos
(/viewuser.php?uid=75887)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** 1. dovere ***
Capitolo 3: *** 2. pioggia ***
Capitolo 4: *** 3. danni ***
Capitolo 5: *** 4. tè - preludi ***
Capitolo 6: *** 5. alba ***
Capitolo 7: *** 6. farfalla ***
Capitolo 8: *** 7. interpretazioni ***
Capitolo 9: *** 8. storie ***
Capitolo 10: *** 9. rosso ***
Capitolo 11: *** 10. nascondino - preludi ***
Capitolo 12: *** 11. capelli ***
Capitolo 13: *** 12. fiume - preludi ***
Capitolo 14: *** 13. acqua - preludi ***
Capitolo 15: *** 14. miele ***
Capitolo 16: *** 15. pesce ***
Capitolo 17: *** 16. luna ***
Capitolo 18: *** 17. esplorazione ***
Capitolo 19: *** 18. deserto ***
Capitolo 20: *** 19. notte - preludi ***
Capitolo 21: *** 20. piano ***
Capitolo 22: *** 21. sangue ***
Capitolo 23: *** 22. umanità ***
Capitolo 24: *** 23. sabbia ***
Capitolo 25: *** 24. muschio ***
Capitolo 26: *** 25. polvere ***
Capitolo 27: *** 26. dono ***
Capitolo 28: *** 27. inseguitori ***
Capitolo 29: *** 28. fratello ***
Capitolo 30: *** 29. nebbia ***
Capitolo 31: *** 30. vento - epiloghi ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Questa introduzione, oltre ad essere l'ennesimo sfogo per la mia impellente grafomania, serve esclusivamente a chiarire un paio di punti qua e là.
Se non vi interessa si può allegramente saltare a piè pari da riga a riga e andare a fondo pagina; oppure passare al primo capitolo.



Sulla scelta del "What if...?"

What if...?: significa e se... detto anche ucronia, indica le fiction che partono da una modifica sostanziale di un evento della trama dell'opera originale, alterandone in modo sostanzioso il seguito. (Wikipedia, L'enciclopedia libera, alla voce Fanfiction)

What if...? è Superman che perde i poteri, Gabriel Summers che ottiene la Forza Fenice attraverso il Cristallo M'Kraan e si diletta a cercare di dar fuoco alla Terra, Wolverine che, dopo l'ennesimo lavaggio del cervello ad opera della Mano, viene ucciso da Kitty Pride.
Qui non ci sarà nessuna modifica sostanziale di eventi accaduti sui numeri di Naruto usciti in Italia sinora (ossia fino al numero 45).
Si tratterà più che altro di una storia possibile dietro la storia, dentro la storia, in mezzo alla storia... Qualche piccolo cambiamento si avrà negli ultimi capitoli: cose non sostanziali e che in effetti potrebbero come potrebbero non essere accadute.

Premetto che, dato che non seguo gli episodi in giapponese, non ho idea di cosa accada dopo il numero 45: se Konoha saltasse in aria per una gigantesca esplosione nel numero 46, finendo in briciole, be', allora questa diventerebbe una What if...? molto What if...?.

Immagini

No, non sono mie e no, non ho più diritti su di esse di quanti ne abbia (sfortunatamente) su nessuno dei personaggi di Naruto. Gli autori e le fonti saranno sempre segnalati a fondo pagina.
Nel caso in cui io avessi perso la fonte o il nome dell'autore ci sarà un molto diplomatico fonte immagine: Google immagini. Se qualcuno conoscesse l'immagine e volesse farmi riavere un riferimento più preciso gliene sarei grata.

Mary Sue

Mary Sue

Ho recentemente scoperto l'esistenza di questa bizzarra razza di personaggi. Be', a tutti piacerebbe essere immortalissimi, bellissimi, intelligentissimi, fortunatissimi... in un issimo solo: specialissimi.
Ci piace tanto che i nostri personaggi lo siano, poi, perché così ci sentiamo meno in colpa per tutte le grane in cui ci divertiamo ad infilarli. L'ho tanto recentemente scoperta, questa razza, che la storia aveva fatto in tempo ad arrivare a metà.
Se il personaggio che è uscito fuori è una Mary Sue o meno non sta a me giudicarlo: perché quale sarebbe l'autore che direbbe "oh, sì, è una Mary Sue, la mia, e anche tanto, tanto carina!"?

Un discorso simile vale sull'andare "fuori personaggio".

Ringraziamenti

Che vanno innanzitutto a Salice, senza la quale questa storia non sarebbe mai nata. So che è una gran brutta accusa, Sal, ma non si va in carcere per così poco.

Grazie per avermi fatto da betareader, per esserti letta tutta la storia capitolo per capitolo, per aver censurato pietosamente e impietosamente e, soprattutto, per avermi messo voglia di continuare a scrivere fino alla fine.

Il Giardino dei Mandorli
Tagliavento nasce insieme a questa tua storia: che è o meno considerabile, a scelta, anche come un prequel.

Gli altri vanno tutti a Wikipedia: mentre mi impiccavo sui nomi delle tecniche, i riferimenti, la geografia e le città, be', Wikipedia mi ha rimesso letteralmente la sedia sotto ai piedi.



Conclusa questa neanche troppo breve introduzione, buona lettura a tutti e un ringraziamento anticipato a quelli che avranno la cortesia di segnalarmi errori (di punteggiatura, ortografia, nella trama e nei riferimenti) che dovessero essermi scappati (e ce ne sono - ne trovo in continuazione).

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. dovere ***




1. dovere



Itachi Uchiha era un ninja.1
Itachi Uchiha era un ANBU.2
Come tutti i ninja sapeva che per portare a termine il proprio dovere bisognava prima di ogni altra cosa pensare al dovere.
Come tutti gli ANBU sapeva che per portare a termine il proprio dovere bisognava pensare al dovere e continuare a pensarlo, e a pensarlo, e a pensarlo, un mantra e una preghiera, una cantilena nella testa, sino a quando il dovere non diveniva tutto, semplicemente, annullando qualunque altro pensiero.

Itachi Uchiha era un ninja.
Itachi Uchiha aveva tredici anni.
Tredici anni e il dovere era già come una montagna, opprimente, annichilente, oltre qualunque cosa lui potesse reputare tollerabile e sopportabile.

Il dovere era orrore.
Il dovere era panico e nausea e il pensiero atroce che non ci sarebbe stato mai più nulla, dopo quel dovere, e nulla mai più vi sarebbe stato se quel dovere non fosse stato portato a termine.

Un vicolo cieco.

A tredici anni si dovrebbe fare, molto semplicemente, altro. Proteggere i mercanti in viaggio lungo le strade, se si ha la fortuna di essere genin3 promettenti, altrimenti limitarsi alla ricerca dei gattini smarriti, che sono dopotutto creature mediamente simpatiche e, se proprio si è sfortunati, alla fine della missione ci si trova al massimo con qualche graffio e un paio di lividi.
Avere un compagno di squadra odiosissimo con il quale litigare dal mattino alla sera, far pace al tramonto per aver modo di cenare insieme e poi tornare a discutere sin da prima dell'alba, una compagna di squadra per nulla odiosa da tenersi vicino in attesa che i tredici anni siano quattordici, poi diciotto, venti, cinquanta, nella speranza di invecchiarci, con lei o con un'altra, un maestro che protegga e sia una mano nel vuoto, una luce nell'ombra.
Tornare a casa e crollare esausti nel letto e dormire, dormire, dormire, senza sogni né pensieri, e aspettare che i piccoli passi molto familiari si affaccino alla porta.

- Sei sveglio, Itachi? -
Be', adesso sì. Adesso sì, è sveglio.
Tante grazie, Sasuke, sino a cinque minuti fa dormivo. Itachi lo pensa, ma non lo dice.
- Itachi? Non è che... non è che posso dormire con te? -
La prima tentazione è quella di ignorarlo: restare con gli occhi chiusi e sprofondare nuovamente nel sonno, perché la giornata è stata lunga e faticosa e tutti i muscoli indolenziti piagnucolano per convincerlo a riposare, e Sasuke ha la gran brutta tendenza a ronfare ed agitarsi nel sonno e ad ingaggiare una lunga e neanche troppo silenziosa lotta, la notte, per la conquista della maggior porzione di letto possibile.
Un suono come di strofinare sul pavimento, che Itachi riconoscerebbe tra mille rumori simili, lo riconoscerebbe con le orecchie piene di ovatta e gli occhi bendati, lo riconoscerebbe ascoltandolo ovunque, perché è stato il suono degli ultimi cinque anni: sette anni di vita di Sasuke meno due anni necessari ad imparare a gattonare, prima, poi a camminare, poi a scivolare giù per il corridoio praticamente tutte le notti per venire a strusciare i piedi davanti alla porta della sua stanza.
- Itachi? -
I piccoli passi hanno una piccola voce ad accompagnarli ed enormi occhioni neri, spalancati a sovrastare il bordo di una maglia troppo larga, a coronare il tutto.
Itachi alza d'un soffio una palpebra per guardare verso Sasuke ed ha, per un attimo, l'impressione di guardare sé stesso: un sé stesso un po' più piccino e con una faccia adorabilmente supplichevole che
nessuno ha mai visto su di lui; però sé stesso, sempre, stessa faccia stessi occhi, stesso modo di mettere le mani avanti.
Bofonchia e sbuffa, ma già sa d'aver ceduto nel momento stesso in cui ha sentito quello strofinio.
- Sei di nuovo scalzo. -
Alza il bordo della coperta.
Sasuke fa una faccia tanto euforica da costringere Itachi ad uno sforzo sovrumano per non sorridere al ranocchietto: che sgattaiola fino al letto, allegramente scalzo, infreddolito e sperso nel suo enorme pigiama, e si infila al caldo accanto al fratello.
Con signorile noncuranza quella incantevole faccia da schiaffi in formato ridotto gli caccia la testa contro lo sterno, causandogli un mugugno esasperato, e le mani intrecciate a pugno dritte dritte nello stomaco.
E' gelato: ha le dita gelide, i piedi ghiacciati, rabbrividisce. Passerà il giorno dopo a starnutire, pensa Itachi, e a spargere moccio dappertutto.
Lo abbraccia e gli rimbocca attorno le coperte, accostandoselo un altro po' per cercare di scaldarlo.
E pazienza se anche stavolta, per l'ennesima notte, Sasuke scalcerà, parlerà nel sonno e lo coinvolgerà in un'estenuante guerra per la conquista di una fetta di letto, perché Sasuke è
caldo e Sasuke profuma, e Itachi sa che al mattino lui si sveglierà ancor più indolenzito e stanco, ma anche tanto, tanto contento.
Anche se non c'è tortura che basterebbe a farglielo confessare.


Il dovere era orrore.
Il dovere era panico e nausea e il pensiero atroce che non ci sarebbe stato mai più nulla, dopo quel dovere, e nulla mai più vi sarebbe stato se quel dovere non fosse stato portato a termine.

Il dovere era orrore, panico e nausea, e si era concretizzato nel momento stesso in cui Itachi Uchiha si era trovato a chiedersi se sarebbe mai riuscito a farlo, se ne sarebbe stato in grado, se sarebbe stato capace di passare da una stanza all'altra, da una finestra all'altra, cercando in ciascuna il sangue, sangue del tuo sangue, carne della tua carne, da qui fino all'eternità noi siamo, per farlo precipitare, quel sangue, sul pavimento.

Nel momento stesso in cui aveva cominciato a chiederselo, Itachi Uchiha aveva iniziato a dare consistenza ai propri incubi.

E venne la notte.





Note

(1): - "Ninja" è la lettura "on" (ossia la lettura storicamente derivata dal cinese) dei due kanji 忍者 utilizzati per scrivere shinobi-no-mono (忍ノ者, shinobi-no-mono?) un termine nativo giapponese utilizzato per descrivere una persona che praticava il ninjutsu. Tra i sinonimi di ninja vi sono i termini kanja (間者, kanja?), shinobi (忍, shinobi?) e shinobi no mono (忍ノ者, shinobi no mono?). In epoca Tokugawa anche il termine Oniwaban (御庭番, Oniwaban?) o "custode dei giardini" della dimora shogunale divenne sinonimo di spia. Secondo alcune fonti di tenore romanzesco le spie di sesso femminile avrebbero avuto l'appellativo di kunoichi (くノ一, kunoichi?) un gioco di parole che si riferisce al carattere grafico per "donna"(onna (女, onna?)) ed ha anche altre accezioni. - (Wikipedia, L'enciclopedia libera, voce Ninja, sezione Etimologia)

Ho scelto di adoperare il lemma ninja invece che quello di shinobi per preservare la scelta dei traduttori italiani: nell'edizione italiana di Naruto il termine shinobi compare solamente nel numero 2, al capitolo 9, all'interno di una delle immagini che seguono la spiegazione di Kakashi sulla geografia del mondo di Naruto. Stesso discorso vale per il termine kunoichi, sostituito dal neutro ninja.

(2): http://it.wikipedia.org/wiki/Gradi_ninja_(Naruto)#Squadra_Speciale_ANBU

(3): http://it.wikipedia.org/wiki/Genin#Genin
In questo caso si tratta di un termine adoperato correntemente nella traduzione del manga, che ho preferito mantenere così com'è; anche perché qualunque traduzione sarebbe stata insoddisfacente e non immediata.

fonte immagine: Google immagini

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. pioggia ***




2. pioggia



Idomizu1 era un posto da fuori dal mondo.
Il mondo, molto semplicemente, era rimasto indietro: era rimasto oltre il deserto ed oltre la muraglia impenetrabile di rocce a picco e schegge di granito, era rimasto oltre una strada che si snodava troppo lunga e troppo stretta in mezzo al nulla.
Idomizu era un posto fuori dal mondo, un ago al confine tra la sabbia e la foresta, un pozzo d'acqua sorgiva che era tutta la sua ricchezza e tutta la sua ragion d'essere.
C'erano quattro case, una locanda, un negozio e il pozzo.
Una volta a Idomizu c'era stata anche un'antica villa piuttosto elegante che il tempo aveva trasformato in un posto di sosta dotato di terme, dapprima, poi in una stamberga mal frequentata, poi in una rovina cadente: infine, il deserto l'aveva inghiottita.
Il deserto aveva la tendenza a inghiottirsi molte cose, da quelle parti: le case, innanzitutto, e poi gli orti, l'acqua, la prosperità, la salute...
Il deserto si portava via anche la memoria delle cose. Nulla si ricorda, sotto la sabbia, sotto il vento.

Guardando attraverso la finestra vedeva la pioggia rigare i vetri, scorrere sulla grata e scivolare lenta, le gocce in un folle arabesco fiorito di stille che i fulmini accendevano di luce bianca.
Pioveva da giorni su Idomizu: la sabbia si era trasformata in una distesa infida e molle che pareva aspettare solo che un qualche viaggiatore incauto mettesse piede fuori dal tracciato del sentiero per fagocitarlo e farlo sparire.
La strada stessa era scomparsa lì in mezzo.
Le piaceva la pioggia che lavava, lavava via tutto, lavava anche il mondo, e poi rimaneva lei sola.
Lei ricordava d'essere stata vento accanto all'acqua, e cos'è la pioggia se non vento e acqua, puramente, candidamente, vento e acqua? Anche adesso che l'acqua non c'era più e il vento dormiva, così, le piaceva guardare la pioggia. Le ricordava tutto ciò che avrebbe potuto essere. Una specie di seconda vita che le passava davanti agli occhi, ogni volta che pioveva, ad ogni acquazzone.
Dietro alla ragnatela della pioggia sui vetri c'era un'ombra scura che risaliva lentamente la strada da est. Lei, incuneata sul davanzale interno, appoggiò la fronte alla finestra per guardar meglio.
L'ombra, che doveva essere quella d'un folle, per viaggiare con quel tempo in quel posto, camminava piano. Vestiva di nero, forse: in quel buio anche il rosso sarebbe sembrato nero, anche il giallo. Si teneva nel mezzo del sentiero, evitando le infide e pericolose pozze d'acqua che nascondevano sabbia collosa, pronta a risucchiare piedi e scarpe.
Muoveva con una specie di grazia lenta e quieta e le diede, per un attimo, l'impressione d'uno spettro.
Lei posò le mani contro i vetri.
Era abituata agli spettri. Non aveva niente contro di essi: i morti erano morti, fossero stati in vita nemici o amici, alleati o avversari, erano tutti morti che desideravano il riposo, non provavano rancore né ira, lei lo credeva, non cercavano vendetta.
Gli spettri avevano avuto insieme morte e pace. Tutto il resto non interessava loro.
Non era uno spettro, però, quello che si faceva largo sotto la pioggia e tra la sabbia, attraversando il confine tagliato dalla prima casa di Idomizu: ondeggiava un po' troppo per esserlo, ed era un po' troppo infangato e presente.
Lei lo vide fermarsi davanti al pozzo ed alzare la testa per guardarsi intorno, sorpassare con gli occhi le case e osservare, finalmente, la locanda. La ragazza che guardava ne ricevette solo un'immagine di bianco in mezzo al nero: subito dopo il viandante avanzò sino alla porta e sparì all'interno.
Rimase seduta ancora ancora per un attimo sul davanzale, godendo del freddo e del tamburellare lieve della pioggia sulla finestra, lo scorrere sottile dell'acqua a disegnare strade sul vetro trasparente e sull'intonaco malandato dell'esterno.
Era buio, a Idomizu, sotto la pioggia.
- Hanako? - 2
La porta che si era aperta alle sue spalle faceva filtrare all'interno della stanza una striscia di luce chiara.
- Hanako, il padrone vuole che scenda anche tu. C'è la sala piena. -
Idomizu era deserto, non un'anima nelle vie infangate. Anche i sorci e i cani sembrava si fossero rintanati da qualche parte, nascondendosi nel buio. Non un'ombra, pensò lei.
Lo spettro che aveva attraversato il villaggio pochi minuti prima già le pareva irreale come un sogno.
- Arrivo subito, Noa. - Scivolò giù dal davanzale, le mani che salivano a sciogliere la treccia lunga e liscia dei capelli. - Dammi un attimo per prepararmi. -

Li aveva pettinati e raccolti, quei capelli, sulla nuca.
Al padrone del Ryookosya no Heya3 non piaceva che li legasse. Il padrone aveva sempre l'ultima parola, in genere, su tutto ciò che riguardava le sue lavoranti, ma Hanako aveva più libertà delle altre. Era normale che l'avesse: lo sapevano tutti, quello, anche gli ultimi arrivati a Idomizu, anche i bambini. Anche gli idioti lo sapevano e sapevano perché.
Solo i viaggiatori non ne avevano idea: ed era meglio così.
Passò tra un tavolo e l'altro con il piccolo tamburo a forma di clessidra stretto nella sinistra contro il grembo sottile. Vi faceva scorrere sopra i polpastrelli dell'altra mano, traendone un picchiettare lieve ed ovattato come di sogno inquieto.
Suonava ad occhi chiusi, perché non vedere era meglio.
Non vedere era come essere di nuovo nella piazza di Sunagakure, a danzare con Mizuki4 nei cerchi intorno al fuoco, i capelli sciolti e le lame nei foderi, e non lì, non ad Idomizu con un vestito da festa sbagliata e tanti sconosciuti dei quali non le importava affatto.
Non li odiava, non li disprezzava: non provava, semplicemente, niente. Era così da un po'. Il niente era meglio del dolore: tutto era meglio del dolore, tutto era meglio del pensiero di Mizuki, Mizuki che non c'era più, niente più cerchi intorno al fuoco e danze lente delle spade in coppia, niente più Mizuki tutti i giorni, niente più dividere odore e profumo e respiro ed essere due in uno, che era stata la cosa migliore, due in uno io e te, e che il resto del mondo s'arrangi.
Due polpastrelli, indice e medio, poi il pollice che s'aggiungeva e scorreva lungo il bordo in tonfi più duri d'osso contro la pelle tesa di bue.
Aprire gli occhi per contare gli sguardi che aveva addosso e chiedersi oziosamente su chi li avrebbe messi, quegli stessi polpastrelli lievi ed abili, quando fossero tutti andati a dormire.
Idomizu era il paese del nulla e del niente: ma cresceva sopra una delle tre sole strade che da Konoha portavano a Sunakagure, ed era, di quelle tre, la strada meno pattugliata.
Ci passavano gli sbandati, i ladri, i rinnegati, la feccia.
Era normale, su una strada del genere, trovare qualcosa come il Ryookosya no Heya.
Sostituì le nocche ai polpastrelli mentre aumentava forza e ritmo, scorrendo tra un tavolo e l'altro con il sorriso che aveva da quando era arrivata a Idomizu: un bel sorriso, diceva Noa, ma Hanako lo sapeva che quello era il sorriso da se non c'è più Mizuki, del resto che me ne importa?
Fu mentre passava tra un tavolo e l'altro che il sorriso e gli occhi le caddero sull'avventore.
Era lo spettro, realizzò stupita l'attimo dopo averlo visto.
Lo spettro della strada con la sua impressione da bianco e da morte, e, pensò Hanako, questo vuol dire che non l'ho sognato.
Gli spettri avevano visi pallidi come la neve pulita e occhi più scuri della notte piovosa, inespressivi come uno specchio rotto, con occhiaie tanto marcate da dare l'impressione che fossero lì da sempre, da anni, sin dalla nascita.
Gli spettri avevano anche una faccia bellissima, malgrado le occhiaie, ma davano l'impressione che fosse meglio non averci niente a che fare, con quella faccia e con quelle occhiaie, niente di niente.
Tra le altre cose odorava di sangue fresco in maniera spaventosa, osservò Hanako, pigramente.
Lo spettro era uno dei pochi che non la guardava: guardava invece il suo piatto con una specie di concentrazione cieca che dava a vedere che quel piatto fosse interessantissimo, affascinante, un riso e verdure come non se n'erano mai visti prima d'allora. Le bacchette sedimentavano nella ciotola e il riso si freddava nel bel mezzo di tutta quella contemplazione, ma lui pareva non farci caso.
Lascia perdere, ragazzo, pensò lei. Non è che se ci pensi su, sulle cose, poi le cose migliorano o passano. Lo superò, scorrendo accanto al suo tavolo e sfiorando quello accanto e poi quello dopo ancora, senza smettere di suonare, senza smettere di sorridere.
Lascia perdere e mangia. E sorridi, anche. E' la cosa più intelligente che tu possa fare.

Se nessuno veniva a chiamarla prima per la notte, Hanako restava nella sala al pianterreno fino a quando non erano tutti andati via, a dormire nelle sale ai piani di sopra, da soli o con una di loro, Noa o Hiroto, o lei, anche, quando serviva.
Non le era importato poi molto la prima volta, ancor meno la seconda. La terza volta le era sembrato semplicemente naturale: era lì, era andata così, era l'unico modo per stare lontana da Sunakagure.
Se n'era fatta rapidamente una ragione.
Nelle notti in cui dormiva da sola, certe volte, aveva l'impressione che Mizuki le fosse accanto: che le respirasse tra i capelli, come in mille e mille altre notti aveva fatto, che le stringesse un fianco con un braccio, che le passasse una mano sulla nuca per farla addormentare.
Era una cosa che faceva spesso, Mizuki, per lei.
Hanako dormiva malissimo a Sunakagure. Hanako aveva cominciato a dormire malissimo quando lei e Mizuki erano state tolte dalla loro prima squadra, dal loro maestro e dai loro compagni, coetanei, amici, ed assegnate a quel nuovo gruppo, così importante per il villaggio, aveva detto il Kazekage, così importante per il Paese.
Hanako aveva smesso di dormire dopo la sua prima missione con il gruppo nuovo.
Lì a Idomizu dormiva, adesso, certe volte: Sunakagure era lontana, la sua squadra anche, gli ordini e le missioni come un sogno di un'altra vita.
Solo Mizuki era rimasta.
- Hanako? -
Si girò verso il padrone. Era un omino piccolo e un po' viscido, ma tutto sommato non una persona cattiva, né un violento né una bestia; solo uno che gli eventi avevano formato così, un poco vigliacco, un poco presuntuoso, approfittatore e supponente.
In genere era gentile con loro. Aveva simpatia per Noa, docile e dolce, con i suoi occhi languidi e scuri e la sua voce gentile, tollerava i capricci di Hiroto, giovane, arrogante e vanesia, e non aveva troppa paura di lei. Non la mostrava, almeno.
La lasciava fare. La teneva lì, la faceva lavorare, le consentiva di restare. Le permetteva di tenere tutto quel che voleva nella sua stanza, anche se le regole dell'Heya erano diverse, e non protestava quando Hanako si limitava a dire no, stanotte no, per favore, sto male.
- Sì, signore? -
- Hanako, c'è un cliente che ha chiesto qualcuna per la notte, e le altre sono già occupate. -
Passare la notte con un cliente significava non passarla da sola. Non passarla da sola significava, forse, riuscire a dormire. Non era il massimo, ma era sempre meglio di niente.
Con un po' di fortuna sarebbe stato qualcuno piuttosto esaurito, piuttosto desideroso e piuttosto entusiasta, che si sarebbe accontentato con poco e le avrebbe permesso di provare a dormire per qualche ora.
- Vado io, signore. -
- E' la 3. Si è raccomandato di bussare prima di entrare. -





Note

(1): da scriversi con i kanji ido (pozzo) e mizu (acqua) - pozzo d'acqua. Per le note sul giapponese e la consulenza sui nomi ringrazio Salice.

(2): da scriversi con i kanji ha (lama), na (verde), ko (suffisso generalmente adoperato per contrassegnare i nomi femminili) - ragazza della lama verde.

(3): tradotto approssimativamente, stanza (heya) del (no) viaggiatore (ryookosya).

(4): da scriversi con i kanji mi (bello) e tsuki (luna), traslitterati foneticamente in mizuki, che non ha quindi a che vedere con il kanji di mizu (acqua) - bella luna.

fonte immagine: daqiao finish by jiuge

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. danni ***




3. danni



Si sistemò i vestiti, che la serata aveva un po' sgualcito e spiegazzato: non che avesse davvero importanza, ma era il suo dovere, anche quello. Strinse un altro po' la fascia attorno alla vita e rifece il nodo lento alla base della nuca. Specchiandosi in un piatto di metallo s'assicurò d'avere un buon aspetto.
Salì lentamente le scale e bussò, come le era stato detto. Due colpi leggeri contro il battente e poi, visto che non le arrivava risposta, un terzo colpo un po' più forte.
- Entra. -
Era una voce rauca: non roca, sana e roca, ma rauca di raucedine, rauca di gola sfibrata e polmoni esausti.
Hanako sentì tutti gli allarmi scattare, nella sua testa, uno alla volta: quello che percepiva l'insano di quella voce, quello che fiutò l'odor di sangue e corse a cercare di associarlo ad una faccia e ad un nome, quello che si tese, irrigidendosi, quando entrò nella stanza e la trovò buia.
Dov'è?
La voce era stata vicina. Però non lo vedeva. Vicina, ma non lo vedeva.
Dov'è, dannazione, dov'è?
Fallo parlare!

Sorrise con cortesia al vuoto e al buio, domandando:
- Debbo portare un lume? La lampada è rotta? -
- No. Chiudi la porta. -
Sinistra. Due passi.
Si girò lentamente, le mani appoggiate in grembo l'una sull'altra, i palmi premuti contro la stoffa della veste. La luce si accese, adesso: e, nel momento stesso in cui si accendeva, rischiarando l'ambiente, lei si rese conto che la persona nella camera non era a due passi di distanza, ma molto più vicina, troppo più vicina.
E, oh, era lo spettro.
Odorava di sangue. Clic, fece l'allarme nella sua testa, associando finalmente quell'odore a quello fiutato poco prima al piano di sotto.
Si sentì tutto ad un tratto delusa: gli spettri non dovrebbero cercare la compagnia di una prostituta. Non è molto da spettro. Oltretutto lo spettro in questione aveva un viso da ragazzino pallido, oltre le occhiaie e dietro a tutta quell'inespressività antica e macilenta, e le sembrò terribile il pensiero che ad un ragazzino potesse venire in mente di pagare qualcuno o qualcuna per una cosa simile.
Lo spettro, il ragazzo, le passò alle spalle e si accostò alla porta. Ne fece scattare la serratura, premendo sulla maniglia per assicurarsi poi di averla veramente chiusa.
Quando si girò verso di lei, Hanako gli vide brillare l'acciaio scuro tra le mani: subito dopo si trovò per terra, in ginocchio, semisoffocata dal braccio che le premeva contro il collo e dalla punta di qualcosa che le schiacciava la trachea, facendole sentire contro la pelle il filo gelato del metallo.
- Se urli, ti ammazzo. -

- Se urli, ti ammazzo. -
Niente urli, assentì silenziosamente Hanako. Non servono a niente. Adesso ti apro la gola.
Si diede mentalmente dell'idiota per aver messo a dormire tutti gli allarmi e tutto l'istinto, semplicemente, per aver mandato a sonnecchiare il senso del pericolo quando aveva visto quel ragazzo pallido, un ragazzino...
A cosa credi di assomigliare, te, bestiolina? Due volte idiota, che ci sei cascata!
- Fai cenno di sì con la testa se hai capito. -
Fece cenno di sì. -
- Non ti ucciderò. Non ti farò del male. Non ti farò niente se fai quel che ti dico. Mi capisci? -
Di nuovo, cenno di sì.
- Ti pagherò. Sarà una notte come un'altra. E tu non dovrai dire mai niente a nessuno. Se lo farai... - Il kunai che premeva sulla gola le spinse il mento verso l'alto, forzandola a tirare indietro il capo, un po', poi ancora un po', fino a storcere dolorosamente il collo.
Guardava in viso il ragazzo pallido, così, la schiena premuta contro il suo petto e il braccio a spezzarle il fiato in gola.
Aveva avuto l'impressione, prima, che lui avesse gli occhi neri. Se ne ricordava benissimo, anzi: occhi neri, spersi in tutto quel bianco della pelle. Adesso però il nero sembrava essersi fatto liquido e rosso, striato da qualcosa di scuro che assomigliava ad una porta. Era una porta. Passò lì e si trovò indietro, trascinata, mentre la porta svegliava sogni insanguinati e il pensiero dei pezzi di qualcuno per tutta la stanza, il panico e il dolore e la sensazione atroce di morire, morire dentro, morire per davvero.
Boccheggiò e serrò le palpebre, d'istinto, mugolando per quell'immagine che le aveva rimescolato lo stomaco e che sembrava rimanerle dentro, nauseante, senza volerla abbandonare. Un'illusione...? Si chiese, annichilita. Troppo veloce!
Il braccio allentò la propria morsa: lei ebbe la tentazione di girarsi, aprire le dita e fletterle, chiamare il chakra e il vento e cercare di tagliare in due lo sconosciuto, lo spettro, che si era infilato nella sua testa; ma poi si ricordò che non era più Hanako Hoshikaze, lei, ma solo Hanako dell'Heya.
Niente cadaveri da nessuna parte: il padrone era stato chiaro.
Ed a Sunagakure aspettavano solamente che lei facesse una qualche sciocchezza, una qualsiasi, per riportarla indietro...
Usò violenza a sé stessa per costringersi a restare inginocchiata, docilmente, mentre lo spettro arretrava e la guardava.
- Alzati. -
Lo fece. Si spazzolò con le mani la stoffa, sollevandosi, e guardò verso di lui.
- Non sei spaventata. -
Suonava un po' idiota, come osservazione, ma aveva un suo senso. Sarebbe stato ragionevole che fosse spaventata.
- Lo sono. -
E infatti lo era. Spaventata. Terrorizzata. Paura di commettere un errore. Paura di tornare a Suna, per favore, Suna no, qualunque altra cosa, ma Suna no.
Gli occhi rossi erano tornati neri, semplicemente, liquidamente neri, un po' sfocati: non sembravano riuscire a metterla a fuoco troppo bene, e certe volte parevano vedere oltre di lei.
Lei pensò che, se si fosse sentito sotto esame, quel ragazzo teso e prudente avrebbe potuto credersi minacciato: avrebbe potuto aggredirla e ucciderla, oppure aggredirla e costringerla a difendersi, e anche se fosse sopravvissuta, be', c'era Suna. Così Hanako abbassò la testa.
- Cosa debbo fare? -
Lo sentì armeggiare con qualcosa e sentì la sua voce tendersi e farsi più rauca, tutto ad un tratto, mentre le ordinava:
- Aiutami. -
Si azzardò ad alzare il capo, ora, per guardare cosa faceva: si stava slacciando le fibbie che gli tenevano su il corpetto di cuoio flessibile, bianco, quello, sopra ad una tunica nera dall'alto collo. Si muoveva goffamente, rigidamente, mentre cercava di issare le mani al di sopra delle spalle.
Hanako lo osservò ancora per un attimo e, poi, capì.
Gli andò accanto, camminando lentamente e badando a posizionarsi sul suo fianco, dove lui poteva tenerla d'occhio e tener d'occhio, soprattutto, le sue dita: afferrò le fibbie, una alla volta, slacciandole con cautela.
Gli sentì emettere un sibilo di dolore tra le labbra, mentre il corpetto veniva via, e trattenne a stento un'esclamazione di sorpresa.
Era un disastro.
Un macello.
Non si capiva bene cosa fosse successo: pareva che l'avessero preso ed infilato in un tritarifiuti e che avessero acceso poi il tasto del avanti veloce, perché sembrava sfilacciato. Sfilacciato come sushi e bruciacchiato come carne cotta male: le ustioni sparivano sotto la maglia a brandelli che il corpetto aveva malamente coperto fino a quel momento.
Gliel'avrà fatta tutta la stessa persona, questa roba? Pensò lei. E poi, con una certa nausea che dallo stomaco le montava in gola: Da quanti giorni è in queste condizioni?
Su qualcuna di quelle ferite erano già state messe le mani: bendaggi, fasciature, tinture e cicatrizzanti. Su qualcun'altra non c'era niente: solo pelle aperta e il sangue che veniva giù.
Lo aiutò a slacciarsi le cinghie che gli tenevano i bracciali di metallo leggero agganciati alle braccia: uno alla volta, con cautela, gli sfilò anche i guanti. Le braccia erano meno peggio del torace, ma sempre per nulla bene, come gli effetti di un tritarifiuti un po' meno accanito. C'erano segni anche sulle spalle: li aveva coperti con le bende, che adesso vennero via con un suono viscido e disgustoso di risucchio.

Lui si sentì male più o meno nello stesso momento in cui cercò di togliersi la maglia: tra il dolore e il sangue che andava via non c'era da stupirsene, in effetti, ma fu lo stesso piuttosto improvviso.
Andò giù come un sacco e si trovò in ginocchio, e lei, che non sapeva come afferrarlo senza fargli altri danni, lo lasciò scivolare e si limitò a stringerlo per le spalle prima che finisse faccia a terra.
Fece qualche tentativo di sfilargli la maglia: ma, visto che lui rantolava a denti serrati ogni volta che la stoffa si smuoveva anche solo d'un centimetro, rinunciò.
Gli passò davanti, di nuovo, alzando le mani per mostrare di averle aperte e vuote: c'era da andarci piano e con calma, pensò, perché quello era un guerriero ferito. I guerrieri feriti, soprattutto se appartenevano a quella categoria che si trovava a percorrere strade come quella sulla quale cresceva il fungo marcio di Idomizu, ossia la categoria dei traditori, la feccia della terra, tendevano ad essere cauti, sospettosi e violenti.
Hanako non voleva combattere e non voleva morire. Quindi, piano e con calma.
Tenendo sempre la mano sinistra alzata e bene in vista, gli aprì con la destra la borsa che portava alla cintura, cacciandone fuori un kunai.
La mano del ragazzo scattò, irragionevolmente veloce, inchiodandole il polso a terra.
- Cosa fai? -
Era una voce un po' troppo composta, raucedine a parte, per appartenere ad uno che stava agonizzando in ginocchio. Aveva alzato la testa e negli occhi era tornato a colare il rosso, un po' alla volta, con quei tagli neri disumani, alieni, non lo fare, per favore, le venne da pensare con un brivido di panico, non lo fare...
- Debbo tagliarvi la maglia. - Spiegò quietamente, per poi soggiungere con una punta d'ironia tirata fuori dal fondo di un coraggio che non ricordava più di avere: - Con le unghie non ci riesco. -
Un attimo di perfetta immobilità sul volto pallido del ragazzo. Poi la morsa che le serrava il polso si allentò. - Ti farò rimpiangere d'essere nata, se proverai a fare qualche sciocchezza. -
Hanako era assolutamente sicura che lui fosse perfettamente in grado di mantenere una promessa del genere: per cui si mosse con ancora più calma ed ancora più piano di prima, passando il filo del kunai contro la stoffa e tirando la maglia verso il basso, nel contempo, per tagliare dal ventre al collo.
Di nuovo, suono fradicio di risucchio: il sangue aveva fatto da collante tra la veste e la pelle, e adesso veniva via, insieme alle croste sfatte e ai coaguli filamentosi.
Malgrado tutta la delicatezza che lei poteva tentare di mettere nell'operazione, malgrado tutta la lentezza, non poteva non fargli male. Lo vide stingersi in viso e annaspare: ma fu il suo disperato tentativo di non farsi sfuggire neanche un verso a farle compassione più di tutto il resto. Si fermò, attirandosi un'occhiataccia raggelante:
- Va' avanti. -
Per favore e grazie, avrebbe voluto brontolare lei. Ma il ragazzo non le sembrava in grado d'apprezzare la replica.
Decise di tagliare e di cercare poi di staccare un pezzo di stoffa alla volta invece di procedere a strattoni: sfortunatamente, lui non pareva affatto intenzionato ad assecondare il progetto, perché alzò le mani, afferrò i due lembi lacerati della stoffa e se la levò di dosso con un unico strappo.
Non fu la più intelligente delle idee: lui perse quel poco di colore che gli era rimasto in faccia, mentre il bianco virava ad una delicata tonalità azzurrina sulla quale le occhiaie spiccavano come tagli netti. Si puntellò con una mano a terra, i respiri come ansimi forzosi.
Immobile e distratto, le diede modo di esaminarlo. Aveva un taglio sul torace, profondo a sufficienza da mettere in mostra una costola, ma dai lembi puliti, un'ustione arrossata e lucida attraverso il fianco, che saliva ad espandersi sul dorso e graffi, poi, dappertutto, tagli e segni, e una sporgenza sul braccio sinistro che dava l'idea di una frattura dell'osso. Hanako si sorprese che avesse ancora energia per muoversi.
Non sapeva da dove partire, dove mettere le mani, cosa cominciare a rattoppare: tutto quel sangue, e l'odore, soprattutto, l'odore, metallico ed aspro, le stavano facendo girare la testa.
Puliscilo. Era effettivamente la cosa migliore da fare. Puliscilo. Subito.
Si mise in piedi, lentamente, si girò ed attraversò la stanza; entrò nel bagno e badò bene a lasciarsi la porta aperta alle spalle ed a tenere le mani staccate dal corpo, sempre visibili anche a lui nell'altra camera, mentre riempiva una bacinella d'acqua tiepida.
Più pratico sarebbe stato prenderlo così com'era, di peso, e cacciarlo nella vasca: ma gli avrebbe fatto sicuramente male, le ferite si sarebbero smosse, non era il caso di farlo strapazzare troppo. Non provò neanche a proporglielo, ce la fai ad entrare in acqua?, perché, sicuro come la morte, lui si sarebbe alzato e lo avrebbe fatto e basta.
Poggiò la bacinella accanto al ferito e ci buttò dentro un asciugamano della bracciata che aveva racimolato in bagno; lo strizzò grossolanamente e poi cominciò a passarglielo addosso.
Quando la stoffa strofinò l'ustione un verso strozzato gli sfuggì dalle labbra.
- Scusate. -
Non c'era ragione di scusarsi ma, lei lo sapeva, non c'era cosa più intollerabile, quando si soffriva, che avere solo silenzio attorno. Meglio una voce, una qualsiasi, che dicesse anche cose stupide, non importava, purché una voce.
Per lei, Mizuki era stata la voce.

Con l'acqua calda i grumi si scioglievano e si staccavano dalle ferite e dal busto pallido: la muscolatura guizzava a fior di pelle ad ogni spasmo di dolore, con la fresca, scattante elasticità data dalla giovinezza e la compattezza nervosa di un addestramento feroce.
Era una muscolatura simile a quella che lei vedeva allo specchio, ogni volta che la prendeva il desiderio triste di guardarsi con la speranza che il languore e l'ozio avessero fatto sparire Hanako Hoshikaze e rimanere solo Hanako, solo Hanako dell'Heya, Hanako che non aveva null'altro da fare, nella vita, che passare le notti con i clienti e aspettare, guarendo, che quella vita finisse.
Per uno scherzo bizzarro della sorte e dei pensieri, lui osservò tutto ad un tratto:
- Non sei una prostituta. -
Mantenne la faccia di pietra e gesso, impassibile, solo un lieve accenno di stupore, quel tanto che serviva a rendere giustizia alla replica rapida:
- E' il mio lavoro. -
- E' una menzogna. Sei di Suna? -
Le tremarono le mani, tutto ad un tratto, senza che lei potesse far niente per impedirlo. Suna era ancora sangue e nausea, come una malattia gelida che le si era insinuata nelle vene e non l'abbandonava più.
- Sei una spia? - Le domande, lui, le formulava nel tono del più assoluto distacco. Pareva non gliene importasse assolutamente nulla della risposta. Ma, pensò Hanako, finge. E' un inganno; è un gioco. Se la risposta è sbagliata, fine del gioco.
- Non sono una spia, ma ero di Suna. Non è Suna che mi manda qui. -
Non sono una spia, quindi non ho ragione di tradirti. Ero di Suna, lo ammetto perché non ho intenzione di mentire, perché se mento ti insospettisci. Non è Suna che mi manda qui, quindi non uccidermi, per cortesia.
C'erano un sacco di cose non dette in quelle tre brevi frasi. Il ferito parve coglierle, o forse davvero non gli interessava, perché lasciò cadere il discorso.
Il sangue sulla schiena venne via senza troppa fatica: non ce n'era tanto quanto sul torace.
Era bellissimo, rilevò Hanako, ora che non era più inzaccherato di sangue vecchio. Bellissimo, puramente, anche con la costola che faceva capolino dallo squarcio e l'ustione a sfregiargli il torace, bello malgrado l'espressione spossata.
E' un traditore. Si disse. Qualcuno in fuga, feccia, che non ha trovato nulla di meglio da fare, per salvarsi, che minacciare una prostituta per farsi aiutare.
Qualcuno che non andrà mai a Suna. Qualcuno che non dirà mai niente a nessuno, mai niente al Kazekage, non un pericolo...

- Che debbo fare? - Si informò ancora, quietamente. - Fasciare o guarire? -
Per la prima volta, gli occhi scuri del ferito si posarono su di lei con un certo interesse.
- Sei un ninja medico? -
- No. Ma posso invitare le cellule a rigenerarsi. Posso guarirvi anche l'ustione. Anche l'osso. -
Nel nero degli occhi, di nuovo, fluì il rosso. Hanako distolse lo sguardo in fretta, perché non aveva proprio nessuna voglia di vedere altro sangue ed altri pezzi in un'illusione, nessunissima voglia, ma la mano del ferito le si serrò attorno al braccio per richiamare la sua attenzione.
- Controllerò quel che fai. - Le spiegò placidamente.
Lei assentì.

Lo aiutò ad alzarsi in piedi e, muovendolo con cautela, quasi avesse paura che le finisse in pezzi davanti agli occhi e tra le mani, lo fece sdraiare sul letto.
Con una piena, indifferente assenza di pudore lui le permise di finire di spogliarlo. Se in una persona più adulta non se ne sarebbe stupita, in un ragazzo così giovane il mancato fastidio le mise tristezza.
L'indifferenza era propria degli oggetti, delle cose, non delle persone.
Ci dovrebbero dare il tempo di essere bambini, prima di diventare guerrieri. Non è così, Mizuki?
Pulì di nuovo le ferite, con cura.
- Comincio con il braccio. E' la cosa più semplice. -
Disegnò con le dita le posizioni giuste per aprire i segni: una prima volta per esperimento, perché era passato un sacco tempo dall'ultima occasione in cui aveva dovuto farlo, e una seconda volta svegliando il chakra e concentrandolo nei polpastrelli.
Il polso del ferito trattenuto nella mano sinistra, la destra stretta un po' sotto al gomito. Tastò l'osso con le dita sottili per trovare il punto giusto: poi, con una rapidissima torsione, fece combaciare le due estremità. Lui ebbe a malapena il tempo di aprire bocca e cacciar fuori un respiro spezzato, prima che il chakra cominciasse a fluire nell'osso, stimolando le cellule e guidandole a saldarsi, a riformarsi, una sull'altra.
- Ci vorrà un po' perché finisca. Il bruciore, invece, passerà a breve. Guarirà perfettamente. -
Lo squarcio sul torace le portò via parecchio tempo. Dovette pulirlo dalle croste, cercare i nervi con le dita, poi le vene, le arterie, i capillari, le fibre muscolari, facendo fluire il chakra nella giusta maniera. La pelle sarebbe ricresciuta da sola. Forse rimarrà la cicatrice, si disse con una punta di rammarico: pareva un peccato, un segno su quel corpo bianco e perfetto.
Lo girò sul ventre per esaminare l'ustione e vide che lui le guardava soprattutto le mani, seguendole con lo sguardo mentre operava.
Aveva ancora gli occhi, rossi a quel modo piuttosto inquietante, fissi come pezzi di vetro.
- Non ho mai visto una tecnica del genere. - Osservò lei, senza smettere di lavorare. - A cosa serve? -
Non s'aspettava davvero che avrebbe risposto: ma lui lo fece.
- Prevedo i tuoi movimenti. Controllo che tu non faccia nulla di stupido. -
- Ho fatto qualcosa di stupido? -
- Finora no. -
- E' un'abilità innata? -
Gli Hoshikaze, sebbene fossero un clan antico, molto antico, di Sunakagure, non ne avevano. Hanako sapeva però che altri clan possedevano doni speciali, capacità insolite che si ereditavano con il sangue, non con l'addestramento.
- Sì. -
Era un sì piuttosto definitivo. Un sì come un basta domande: così, smise di farne.
Continuò a lavorare in silenzio, rimuovendo il primo stato di pelle morta e sollecitando le cellule a rigenerarsi, subito, ora, per sostituirla.
- Quel che potevo fare per stanotte è finito. Occorre tener pulite le ferite e qualche giorno di immobilità e riposo. -
Aveva appena accennato ad alzarsi in piedi,le mani ora prive di chakra deposte in grembo sulla veste, quando si sentì afferrare un polso in una presa dura come l'acciaio: guardò stupita il ragazzo, che s'era tirato su per metà, appoggiandosi ad un gomito, ed ora la fissava.
- Dove credi di andare? -
Lei sgranò gli occhi, perplessa:
- Nella mia camera, se non vi spiace. -
La presa s'allentò impercettibilmente.
- Non puoi uscire da questa stanza. -
Hanako si chiese per un attimo il perché di tutto ciò, prima che il suo cervello si decidesse a connettere ed a fare due più due.
- Non ho intenzione di denunciarvi. - Spiegò, sforzandosi di mantenere un tono ragionevole e paziente. - Tra le altre cose, non avrei nessuno, anche volendolo, al quale dir nulla. Non sono in questa cittadina per mia volontà e, come avrete visto, a passare su queste strade non sono certo le squadre speciali. -
- Non mi interessa. - Il ferito accennò a mettersi seduto: lei, pensando che proprio non era una buona idea, quella, perché avrebbe riaperto di sicuro il taglio sul costato, probabilmente anche la carne lesa dell'ustione, si affrettò a posargli le mani su una spalla, cercando di forzarlo nuovamente steso.
- Non v'alzate, per cortesia. Non fa bene alle ferite. -
- Toglimi le mani di dosso. -
Ubbidì, staccandole ed alzandole; ma insisté, subito dopo, con fermezza:
- Rimanete sdraiato. -
- Ti lascio il letto. Puoi... puoi dormire qui. - La pausa era stata causata da un rantolo che gli si era rotto nel petto mentre cercava di issarsi in ginocchio. - Domattina io me ne andrò e tu potrai tornare alla tua camera. - Annaspava, adesso, finalmente seduto, ma riuscì a tirar fuori il fiato sufficiente a concludere gelidamente: - Viva. -
Hanako fece un passo indietro, con lentezza, e si lasciò ricadere seduta su una poltrona accanto al letto.
- Sto qui. - Affermò, decisa. - Resto qui. Non mi muovo e non cerco di uscire. Posso dormire comodamente. Usatemi la cortesia di rimanere sdraiato. -
Doveva stare protesa in avanti, ancora, per via del braccio che lui le tratteneva.
Il ferito la guardò per un attimo, in silenzio, prima di lasciarla andare.
- Non voglio ucciderti. - Affermò alla fine. - Sarebbe inutile. -
Lei mormorò appena, ritraendo le mani per stringerle l'una sull'altra, ritratte in grembo:
- Ed io non voglio morire. E' un buon accordo, no? -

Il ferito non disse niente. Non assentì, non negò. Si limitò a stendersi ancora su un fianco, muovendosi con lentezza, ed a posare il capo sul cuscino.

Stettero così per un po', lei seduta con gli occhi aperti e il respiro un po' troppo rapido e breve, lui sdraiato con gli occhi rossi socchiusi, le palpebre appena abbassate ed un'impressione tesa e cauta da felino desto.
Hanako si tirò le ginocchia verso il petto; piegò il dorso contro lo schienale della poltrona, si appoggiò le mani in grembo e la testa su una spalla. Non era proprio una posizione comoda, ma meglio di niente. Serrò gli occhi e, prima di cercare il sonno, chiamò piano:
Mizuki?
Sapeva che, quella notte, la ragazza Falciacqua le avrebbe tenuto compagnia.





Note

A proposito della rigenerazione cellulare: dato che tutti i ninja con predisposizione alle arti mediche sono in grado di qualcosa di simile, e che Tsunade e Kabuto sono due esempi di ninja capaci di adoperare tecniche mediche come tecniche belliche, ne ho bellamente approfittato per affibbiarne una conoscenza parziale anche ad Hanako.
Sia messo agli atti che quel tritarifiuti usato come termine di paragone non è piaciuto alla mia beta: Salice, non mi uccidere, mi faceva troppo ridere il pensiero. E Naruto ha in casa un frigorifero e cartoni di latte scaduto, per non parlare dei videoschermi di Oto, dei cavi elettrici che corrono dentro e sopra Konoha, delle telecamere e via discorrendo.

Un grazie a chi ha recensito e a chi semplicemente legge.

fonte immagine: SAi_Sasuke by sakimichan

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4. tè - preludi ***




4. tè - preludi



Il tè che fa sua madre è più dolce e più denso di qualunque altro tè Itachi abbia mai bevuto altrove.
Ha il sapore dei pomeriggi di pioggia fredda, dove non c'è poi tanto freddo, dopotutto, se può trascorrerli in casa. Ha la chiarezza delle stanze pulite ed il calore delle malattie di suo fratello, piccolo sgorbietto delicato che si approfitta bellamente di ogni raffreddore, accenno di febbre, mal di gola e attacco di tosse per aggrapparsi addosso al fratello maggiore e tentarne la scalata con entusiasmo ed ostinazione. Sembra una scimmietta, pensa Itachi. Una piccola, fastidiosa, adorabile scimmietta che è piacevole, dopotutto, portarsi in giro come una cinguettante appendice.
Ha l'odore, quel tè, il profumo ed il sentore di tutto quel che è Itachi quando non c'è nessuno a giudicare.
Stare con suo padre è come essere costantemente sotto esame. Fugaku non è un uomo cattivo: dall'alto dei suoi dodici anni da vecchio Itachi sa che è, al contrario, una persona fondamentalmente buona, impacciata e vergognosa, incapace, per orgoglio e testardaggine, di mostrare affetto. L'affetto è una debolezza. Mostrarlo non è da lui.
Stare con sua madre, invece, è come avere a che fare con una nuvola. E' una nuvola allegra, quella di Mikoto, che deve saper bene cosa sia la pioggia, cosa siano la tempesta, la grandine, la neve, perché le ha vissute e le vive ancora: ma è una nuvola che è stata capace di attraversare i giorni dell'inverno mantenendo sempre la propria levità.
Quella levità Sasuke l'ha ereditata tutta.
Sul visetto di Sasuke si legge ogni cosa: gioia, felicità, disappunto, tristezza, malinconia, suppliche e preghiere, adorazione e sorrisi.
E' uno specchio, il suo viso, di quel che è la sua anima, e che deve essere un'anima bella, tanto bella, un anima da non sporcare.
Itachi spera che da Mikoto il fratellino abbia preso anche altro: la fermezza, per non trasformare la levità in vuoto, il coraggio, per dare a quella levità armi salde per affrontare tutto, l'energia, per non essere mai solo un burattino inerte nelle mani degli altri.


Il tè che fa Mizuki sa di frutta: non quella dolce della stagione piena, calda ed umida, le ciliege e le mele che piacciono a tutte e due e che a Suna arrivano raramente, ma quella aspra e un poco acerba che si coltiva ai margini del deserto, agrumi nelle oasi, datteri freschi e lievemente alcolici che crescono un po' dappertutto, le banane verdi della prima maturazione.
Il tè Mizuki lo prepara prima e dopo.
Quello di prima è da sorbire lentamente, bollente e senza zucchero, nelle ciotole grandi della credenza. Loro due devono stare davanti al tavolino, una di fronte all'altra, e le mani di Mizuki cercano spesso le sue per scaldarle, perché Hanako ha sempre freddo in queste occasioni. E' un freddo che parte dallo stomaco, un freddo malato ed insanabile: non importa quanto caldo possa essere il vento di Suna, quanto possa picchiare forte il sole, quanto arido possa essere il deserto, Hanako ha freddo comunque. Trema e batte i denti, e solo il tè di Mizuki le scalda un po' il sangue.
Quello di dopo è da bere sulle poltrone sfasciate della loro piccola casa, la nostra tana, come la chiama Mizuki, la nostra tana di volpe, con orgoglio e con soddisfazione, perché è solo loro, solo di Mizuki e di Hanako, il loro rifugio dal mondo. Quello di dopo ha tanto zucchero e tanto miele, dentro, e possono versarlo nelle loro tazze preferite, sbeccate per il troppo uso, insieme ai biscotti, alla crostata, alle fette di pan di riso da intingere. Hanako fa il nido tra le braccia di Mizuki e si addormentano così, tanto intrecciate l'una nell'altra da sembrarlo davvero, due in uno.


- Itachi, guardami! -
Lo sgorbietto gli salta davanti, adesso, tenendo i kunai tra le mani e le braccia incrociate in una guardia che gli dei soli sanno a chi abbia copiato, con un'espressione di sorridente decisione dove il trasognato entusiasmo di Mikoto va a mescolarsi con una punta di caparbio orgoglio che è Fugaku, precisamente Fugaku.
Itachi si scansa mentre Sasuke parte all'attacco, badando bene ad acchiapparlo per la collottola nel momento stesso in cui il bambino va ad inciampare su un sasso e un attimo prima che finisca definitivamente faccia a terra.
- Attento! Non esagerare! -
Ma sa che è come chiedere all'acqua di non bagnare e al sole di non scaldare.
Sasuke avrebbe continuato ad esagerare, tutte le volte, con incessante costanza, solo per essere ben certo che Itachi lo guardasse, che Fugaku lo apprezzasse, che Mikoto lo amasse.
E' incantevolmente Sasuke, in questo, incantevolmente candido e bambino, senza capire che Itachi l'avrebbe guardato anche da cieco, anche con gli occhi bendati.
Anche morendo, Itachi lo pensa qualche volta, quando la notte gli passa le mani tra i capelli e si trova il suo odore addosso, mio, fratello, e quell'odore è il suo stesso odore, quando se lo butta sulla schiena, come ora, per riportarlo a casa, Itachi pensa che anche morendo continuerà a cercare Sasuke, a guardare Sasuke.


Si è svegliata urlando, una volta di più, chiamando e pregando, implorando carica di terrore che se ne andassero, tutti loro, se ne andassero, non voleva vederli mai più, niente più morti, basta, basta, non l'avrebbe mai più fatto, lo giurava, ma che se ne andassero, adesso, andassero via...
- Hanako! -
Sente Mizuki chiamarla ma non riusce a smettere di urlare.
- Hanako... va tutto bene... Hanako! Hanako, basta... no! -
Si è contorta tra le sue braccia, in un guizzo di panico ed orrore quando ha sentito mani gelate salirle su per la schiena, viscide di sangue grumoso che le si è incollato al dorso ed alle vesti, ed ha sbattuto il capo contro la testiera del letto.
Dolore alla testa, pulsante, che è filtrato nel terrore e nella confusione dandole la lucidità sufficiente per sentire altre mani, non fredde ma tiepide, morbide e vive, le mani di Mizuki che le si avvolgono attorno e che l'abbracciano con tutto l'amore di questo mondo.
- Va tutto bene, Hanako. - Mormora l'altra, stringendola a sé con forza. - E' tutto a posto. Era solo un incubo. -
- Sono qui! - La voce le esce uscita fuori in uno stridio, un ansimo di panico nauseato. - Sono qui, Mizu! -
- No, Hanako. Non c'è nessuno, qui: ci siamo solo io e te. E' stato un incubo, dolcezza. -
Carezze sulla testa, calde anche quelle, che sembrano fare più piccolo il panico, più ridotto e controllato, costringendolo in un angolino serrato della sua testa.
- Va tutto bene, Hanako. Ci sono io con te. Non devi avere paura. -
Le stesse carezze che hanno lenito il panico ora passano sul viso pallido per levarvi le lacrime. Sciolta nel pianto, Hanako le si rannicchia contro.
- Non lo voglio più fare. - Bisbiglia. - Non lo voglio più fare. Basta. Basta, per favore. Non voglio più farlo. -
Mizuki le trema addosso, a quelle parole: è un tremito lungo, che parte dalla schiena e si espande alle gambe ed alle mani. Anche la faccia, che ha appoggiato contro la nuca di Hanako, rabbrividisce incontrollabilmente.
- Ascolta, Hanako. - Mormora infine, dolcemente: - Non sarà così per sempre. Quel che facciamo è giusto. E' per il bene di tutti, ma prima o poi non servirà più. Prima o poi finirà questo brutto periodo e le cose miglioreranno. -
Le tira su la testa, ad Hanako, per farsi guardare in viso. Mizuki è bella, con i capelli neri come l'ala del corvo e gli occhi azzurri come l'acqua che le fa da soprannome e che è il segno del suo clan, Mizuki Shimizu1, Mizuki Falciacqua della Squadra Speciale.
Mizuki le sorride, deponendole un bacio sulla punta del naso:
- Qualche altro anno di servizio e potremo lasciare la Squadra. Ci prenderemo una casa più grande, ai margini di Suna, e avremo missioni come quelle di tutti gli altri. Basta resistere qualche anno, Hanako. Ce la possiamo fare. -
Hanako sa che non è giusto affatto, quel che fanno, perché a dodici anni non si dovrebbe mai, mai, mai, fare qualcosa di simile, Hanako sa che a dodici anni non si dovrebbe avere un soprannome come quello, Falciacqua, tagliente e crudo, venato del feroce orgoglio degli adulti che le tengono insieme, loro due, perché Hoshikaze2 e Shimizu sono due lame senza fodero, due punte che squarciano, ed è quel che serve a Suna.
Hanako lo sa, ma a che serve saperlo?
Rende solo più difficile pensare che lo si deve fare anche se non è giusto, e lei già si pente d'averne parlato con Mizuki. Mizuki è buona. Mizuki l'aiuta e si fa forza, anche se sta male quanto lei. Mizuki non si merita altro peso oltre a quello che già porta.
Così, Hanako annuisce.
Il viso di Mizuki si rischiara: l'acqua di quegli occhi azzurri, da scura e ombrosa che era stata, si fa limpida come le polle trasparenti del deserto nei giorni di sole.
Il terrore del sogno è già scomparso. Hanako non sente più freddo, non vede più il sangue dell'ultimo massacro: sa che i ricordi sono ancora lì, pronti a saltar fuori in un'altra notte, ma dormono, per ora, quietati.
- Mizuki? -
- Sì...? -


- Papà pensa solamente a te. -
E' il tono di Sasuke, più che le parole, a fargli male.
Potendo, Itachi uscirebbe di casa in questo stesso momento, scalzo e scomposto, niente coprifronte e niente divisa, con quella maledetta pagella stretta tra le mani, per andarla a sbattere sulla fronte del suo augusto ed esimio genitore. Convive da poche ore con l'orrore nella sua forma più piena ed assoluta, Itachi, ma già ha capito che quell'orrore è tale da annichilire ogni altra cosa, ogni altro pensiero.
E' difficile fingere, adesso: fingere che tutto vada bene, che sia tutto a posto, che nulla mai sia accaduto, mentire perché Sasuke non si accorga di niente e continui a godersi la sua vita, per quel che gli resta, pensa Itachi, nauseato, perché l'orrore è iniziato e non si fermerà fino a quando non avrà consumato tutto.
La tentazione di piantare quella pagella tra gli occhi di suo padre c'è ed è forte, così come ci sono, entrambe ugualmente violente, quella di urlargli in faccia tutto quel che le sue idee lo stanno costringendo a fare, l'hanno già costretto ad accettare, lui, suo figlio, e quella di pregarlo, di implorarlo, cercando da lui aiuto.
Ma non si può.
Non può cercare aiuto: perché non l'avrebbe.
Non può rimproverargli nulla: non ora, almeno. Fugaku si accorgerà anche troppo presto dei suoi errori, ma sarà sempre troppo tardi.
E, infine, non può andare a colpirlo in testa con la pagella di suo fratello. Una pagella ammirevole, per inciso, una pagella da sogno, quella che tutti vorrebbero, quella che tutti a Konoha sperano di vedere nelle mani dei propri figli, congelata con un qualche commento avvilente di cui Sasuke si rammarica.
Come sempre. Niente di nuovo.
C'è solo lui, adesso, a poter consolare un bambino di sette anni, distrarlo, fargli pensare altro, fargli godere quei giorni, gli ultimi, il pensiero è una stilettata incessante di nausea ogni volta più forte, gli ultimi, almeno quelli.
- E' per questo che mi odi? -
Be', con una domanda del genere l'ha distratto di sicuro. A quelle parole Sasuke fa una faccia tra lo sconvolto e il sorpreso e, dietro a quel miscuglio, Itachi legge il senso di colpa.
-Va bene così. - Lo rassicura. - E' norma che i ninja vivano odiati da qualcuno. -
Di nuovo, senso di colpa in bell'evidenza sulla faccia candida.
Itachi sa, certo, che Sasuke non lo odia. Non lo odia affatto, Sasuke, limpidissimo Sasuke. Quel che odia è la sensazione dell'inadeguatezza, perché Sasuke, inconsapevole d'essere perfetto così com'è, meraviglioso, la cosa più meravigliosa e più dolce e più luminosa che Itachi conosca, non si sente mai abbastanza.
Mai abbastanza per suo padre. Mai abbastanza per suo fratello.
- Guarda che ti sbagli. - Protesta infine il bambino, sgranando gli occhioni scuri e aggrottando la fronte.
A Itachi viene da ridere, malgrado tutto, malgrado la nausea e il dolore che non vanno più via dalla sera prima, malgrado il pensiero opprimente e incombente della morte e quello ancor più opprimente e incombente di Shisui, Shisui, Shisui, mai più Shisui, mai più...
Ma gli viene da ridere. Gli viene da ridere perché Sasuke è buffo, anche adesso, incantevolmente buffo. Vorrebbe abbracciarlo e confortarlo e rassicurarlo, dirgli che non c'è niente di meglio di lui, al mondo, sta' pur tranquillo, Sasuke, io ti adoro; invece guarda verso l'alto e sbuffa divertito:
- Mpf! Essere capaci ha anche degli svantaggi. I più potenti finiscono per isolarsi e cadere preda della superbia. E questo succede anche se all'inizio si è desiderati e ricercati. -
Sasuke non capisce, glielo si legge in faccia: ma, in fondo, va bene così. Che importa che capisca? Meglio che non sappia che la superbia di suo fratello, potente, ammirato, è tale da aver deciso nel nome di un intero clan.
Itachi, sapendo di essere l'unico a poterlo fare, si è assunto da solo il peso del sangue.
- Ma io sono il tuo unico fratello. - Il dolore è atroce. Una lama. Non mente, perché quel che dice è verità, pura verità nella quale crede, ma è una verità che va a cozzare orrendamente con il suo dovere, con il suo peso. - Anche a costo di essere odiato continuerò ad essere il tuo muro da scavalcare. I fratelli maggiori servono a questo. -
Finché vivremo.


- Mizuki? -
- Sì...? -
Hanako le si aggrappa al collo. Ci butta le mani attorno, le intreccia sulla nuca dell'amica, le caccia il viso contro le clavicole e il naso sul collo.
- Stai con me, per favore. -
Mizuki esita, per un attimo, colta alla sprovvista: ma poi le avvolge la vita con le braccia e la stringe, cullandola con dolcezza infinita.
- Sciocca Hanako. - Le scompiglia i capelli, passandoci le dita in mezzo. - Certo che sto con te. - Bisbiglia, piano, pianissimo, dritta nel suo orecchio. - Non vado da nessuna parte, io, e sto sempre con te. -


- Itachi, ci sei? -
E' una voce forte e imperiosa quella che fa alzare il capo ai due fratelli. Viene da fuori.
Sasuke sgrana gli occhi, perplesso, ma Itachi scivola in piedi senza esitare.
Alla prima voce se ne sovrappone un'altra, ancor più aspra e malevola:
- Vieni fuori! Ti dobbiamo parlare! -
Sasuke non lo sa ancora, ovviamente: ma a quel giorno lui avrebbe riguardato ancora, a distanza di anni, con la tardiva consapevolezza che in quel dialogo e in quella conclusione c'era stato il riassunto più completo di una vita d'incondizionato amore fraterno.





Note

(1): da scriversi con i kanji shi (sorgente) e mizu (acqua) - acqua di sorgente.

(2): da scriversi con i kanji hoshi (stella) e kaze (vento) - vento di stella. Avevo scordato di segnalarne la scrittura e il significato nello scorso capitolo.

Come sempre, per il supporto con il giapponese e per le correzioni al testo si ringrazia Salice.

Inutile dire che i brani di questo capitolo sono ambientati in un periodo antecedente a quello del resto della storia. Nell'originale sono in corsivo, ma ho visto che sullo schermo rendeva sgradevole la lettura.

Grazie a tutti coloro che hanno lasciato commenti, recensioni, pareri e giudizi: e, come sempre, grazie a chi legge.

abcdefghilm: Grazie per i complimenti, fanno sempre tanto piacere, spero che gli ultimi due capitoli non ti abbiano delusa! ^^
Niggle: In linea generale le storie con un nuovo personaggio non piacciono neanche a me, perché trovo sia molto più difficile e interessante confrontarsi solo ed esclusivamente con un'ambientazione pienamente rispondente a quella della trama originale e con i personaggi che le appartengono. Infatti mi fa un po' strano aver cominciato proprio con una storia come questa. xD Però l'avevo in testa da un po' che ronzava, ed era anche un pretesto - come se ce ne fosse bisogno - di scrivere qualcosa di desolante e deprimente: e sono contenta che pensi che sia riuscita a rendere l'idea!
Salice: Senti, oh! xD Se la storia di Hanako è triste, scusa, quella di Hanayuki cos'è? Da contemplazione del suicidio? Io ero lì in attesa della casetta su in montagna con Shisui e Itachi! Effettivamente Itachi svestito e triturato è tutto un dolore, ma che ci possiamo fare...?

fonte immagine: Cafe_Blues by B1nd1

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5. alba ***




5. alba



- Stai con me, per favore. -
Hanako avrebbe voluto trattenere quel sogno: aggrapparsi ad esso con entrambe le mani per poterlo vivere ancora per un minuto, ancora per un po', un altro po' di gioia e di calore, in un limbo tra il sonno e la veglia.
Il movimento di qualcosa oltre le palpebre socchiuse finì invece per destarla del tutto in maniera piuttosto brusca. Si svegliò e guardò avanti a sé, trovandosi a fissare occhi rossi, rosso fuoco, rosso liquido.
Memore dell'illusione che aveva già sperimentato sulla propria pelle, calda ancora di sogno e per nulla desiderosa d'avere un altro assaggio di immagini da nausea, alzò un braccio per frapporlo tra sé ed il ferito, abbassando le palpebre in un gesto istintivo di difesa.
La mano che le afferrò il polso non era dolorosamente forte come quella della sera prima: per nulla gentile, neanche adesso, ma più lieve.
- Credevo avresti provato ad andartene, stanotte. -
Hanako si azzardò a socchiudere un occhio per guardarlo. Lui era tremendamente pallido, il viso cereo dove le occhiaie erano ombre nere e le labbra spiccavano quasi violacee, ma pareva star meglio. Era in piedi, se non altro, già vestito. Portava il giaco di cuoio sbiancato direttamente sulla pelle perché la tunica, si ricordò lei, era finita a brandelli la notte prima.
- E' una divisa da ANBU. - Le scappò detto tutto ad un tratto.
Le parole le erano sfuggite dalle labbra prima che potesse anche solo pensare di trattenerle. Tra una piega e l'altra di sogni più o meno piacevoli era riemerso il ricordo di persone come ombre mostruose, fantasmi con volti come maschere animali.
I sogni che riguardavano il periodo trascorso nella Squadra Speciale di Sunagakure erano una cosa strana: tutto quel periodo era stato assurdo, spettrale, certe volte orribile, certe volte solo irreale, e la sua memoria non riusciva a metterlo a fuoco. Non riusciva a mettere a fuoco i ricordi: che, così, tornavano soprattutto la notte.
Si rese conto che aprire bocca e darle fiato era stata una pessima idea nel momento stesso in cui la mano del ferito rafforzò la propria presa attorno al suo polso, con forza tale da darle l'impressione che l'osso si sarebbe spezzato da un momento all'altro.
- Cosa ne sai, tu? -
La voce era piatta in una maniera inquietante. Piatta come acqua morta, gelida come l'inverno. Lei lo guardò al di sopra del braccio bloccato, gli occhi sollevati, maledicendosi interiormente per non aver tenuto la lingua a posto.
- L'avevo già vista. Una divisa come questa, io l'avevo già vista. - Alzò la mano libera, lenta e cauta, per passarsela sul viso: - Con una maschera. -
La presa non accennò minimamente ad allentarsi.
- Dove? -
- Ai confini del Paese del Fuoco. - Se ne ricordò improvvisamente. - C'era una squadra di ANBU. Da Konoha. Inseguivano qualcuno. - Il polso aveva cominciato a dolerle in maniera intollerabile: sentiva le dita del ragazzo premere insopportabilmente sulla cartilagine fragile. - Potreste lasciarmi il braccio, per cortesia? - Esalò. - Credo stia per rompersi... -
La stretta che minacciava di frantumarle l'osso si allentò, lasciandola andare.
Lei si appoggiò il braccio in grembo, resistendo al desiderio di strofinarsi il polso dolorante. Pulsava e faceva male. Ne sarebbe uscito fuori un gran bel livido che non se ne sarebbe andato via troppo presto.
Il ferito, che era stato chino su di lei fino a quel momento, arretrò d'un passo e si raddrizzò. La fronteggiò, alto e dritto come un uomo adulto, con il viso giovane, bianco e bello da ragazzo, inespressivo.
Sotto quello sguardo di vetro le venne da abbassare la testa. Non aveva voglia di guardare tutto quel vuoto e tutto quel niente, non su qualcuno che poteva avere la sua età, forse, al massimo qualche anno di più. Era sbagliato. Di nuovo, tutto sbagliato.
- Credevo avresti cercato di fuggire. -
- Avevo detto che non sarei uscita. -
Un attimo di silenzio.
- Sarebbe ragionevole che ti uccidessi, adesso. -
La frase non la colpì quanto avrebbe dovuto: forse perché, in fondo, sapeva sin dal principio che si sarebbe arrivati a quello, perché, be', sì, sarebbe stato ragionevole. Più che ragionevole: sensato. Sapeva che era ferito. Lei avrebbe potuto riconoscerlo, identificarlo, denunciarlo. Spargere la voce che fosse debole, vulnerabile...
- Credo di sì. - Assentì, quietamente.
Un attimo di silenzio, di nuovo.
- Non sei spaventata. -
- Lo sono. -
Quella conversazione le sapeva di familiare. Era una scena già vissuta, con quelle stesse battute, solo poche ore prima.
Il copione cambiò mentre alzava il capo, lei, guardandolo in viso. Si stupì di vedere che gli occhi rossi erano tornati neri: avevano un aspetto più delicato, così, sottili, ombreggiati da un velo di ciglia che avrebbero fatto l'invidia di una bella donna.
Ne sostenne lo sguardo mentre affermava con candore:
- Non voglio morire: io lo penso davvero, questo. Per cui, per favore, posso vivere? -

La domanda così formulata forse l'aveva lasciato perplesso, forse l'aveva sorpreso: certo era che ora lui se ne stava lì fermo a guardarla, tanto immobile da dare l'impressione che non respirasse nemmeno. Lei si chiese a cosa stesse pensando.
Si chiese se fosse un buon pensiero, il suo, qualcosa che le avrebbe permesso di restar viva, oppure un pensiero come le taglio la gola o la soffoco?
A soffocare le persone ci si metteva un sacco di tempo. Un taglio sarebbe stato più efficace: un colpo di lama due dita sotto il mento, dove il sangue pulsa più vicino alla pelle, e via. Le corde vocali lacerate, la trachea tagliata, non si aveva fiato per gridare né modo di chiamare aiuto. Ci avrebbe messo un po' a finire di dissanguarsi, ma credeva non sarebbe stato troppo doloroso. Sperava proprio non l'avrebbe soffocata.
Avrebbe reagito, se lui ci avesse provato. Non doveva reagire, la sua testa lo sapeva, perché anche la morte, qualunque morte, era meglio che tornare a Suna, però il suo corpo non lo sapeva bene quanto la testa.
Si chiese se fosse il caso di dirgliela, questa cosa del tagliare la gola, ma poi pensò che sarebbe stato un po' troppo macabro anche per lei stare a specificare al suo assassino cosa non fare per ucciderla. Così se ne stette zitta.
- Non ho intenzione di ucciderti. - Affermò lui dopo un po', il tono apatico. - Ti ho già detto che sarebbe inutile. Tu non dirai a nessuno che sono stato qui. -
Il tono non era quello di una domanda, ma lei annuì lo stesso.
Sentì una vaga bolla di paura scoppiarle in petto, di fronte a quell'asserzione che significava che era salva, che sarebbe rimasta viva, lasciandole dentro una sensazione di leggerezza improvvisa.
Lui tornò verso il letto, dandole le spalle con straordinaria indifferenza, e andò ad armeggiare con una delle borse che vi aveva lasciato. Ne trasse una manciata di monete e, senza contarle, gliele buttò in grembo.
- Queste sono per la notte. -
Hanako, dopo un attimo di sconcerto, protese le mani per spingersele via dalla veste e buttarle per terra. Scosse la testa con fermezza, tirando giù le gambe dalla poltrona e mettendosi in piedi:
- Non servono. Avete pagato giù, al padrone, per la stanza. -
- Sono per le cure che mi hai prestato. - Le spiegò lui placidamente: il tono era quello di una persona non troppo paziente che spiegasse qualcosa di ovvio a qualcuno molto idiota.
Lei non se ne lasciò scoraggiare:
- Non l'ho fatto per denaro. Non le voglio. -
- E perché l'hai fatto? -
Si bloccarono tutti e due, a quella domanda: adesso che erano in piedi una di fronte all'altro Hanako realizzò che lui non era poi molto più alto di lei. Forse mezza spanna. Avevano una corporatura tremendamente simile, tutti e due esili e slanciati, tutti e due con la schiena rigorosamente dritta e le mani accostate al corpo. Sembravano abituati entrambi ad occupare il minor spazio possibile su questa terra.
- L'ho fatto per nessuna ragione. - Rispose lei. E poi, subito dopo, mentre l'ennesimo moto di ripulsa le gonfiava lo stomaco nel vedere quel viso così giovane e così stanco con una faccia di pietra infissa sopra in maniera apparentemente indelebile, il pensiero di Mizuki come un ferro rovente continuamente conficcato nello stomaco, gli chiese: - Quanti anni avete? -
Lui si irrigidì: nulla che fosse cambiato sul volto immutabile, ma una tensione nuova nelle spalle e nel modo di tenere le braccia.
Non le rispose. Non le disse niente, nemmeno mentre si assicurava le borse alla cintura, il manto scuro e sfilacciato attorno alle spalle, e si incamminava verso la porta. Le passò accanto senza nemmeno guardarla: ed Hanako si trovò ad abbassare la testa, fissandosi le dita intrecciate sopra la cintura.
Lui parlò di nuovo solo una volta raggiunta la soglia:
- Resta qui dentro e conta fino a cinquecento. Poi, puoi uscire. -
Hanako non si girò a guardare.
Non ne aveva bisogno, dopotutto, per sentire i passi lievi, passi ciechi e spenti di chi è abituato a camminare senza produrre rumore, che attraversavano il corridoio e muovevano verso le scale.
Si allontanava.

Rimase ferma in mezzo alla stanza, docile, contando oziosamente.
Contò fino a cinquecento. Poi, già che c'era, decise di poter arrivare a mille. Giunta a mille si sedette sulla poltrona e, pensando di non avere poi molto altro da fare, perché la notte era finita, andò avanti con la conta un altro po'.
Si piegò in avanti, duemilatrecentoquattro, per raccogliere una delle monete cadute sul pavimento, duemilatrecentocinque.
Sei.
Sette.
Se la fece passare tra le dita, i polpastrelli che ne seguivano i bordi con curiosità, otto. La pelle sembrava ricordarsi meglio della testa com'era stato sfiorargli la schiena.
Caldo e lieve insieme.
Nove.
Si nascose la moneta nella fascia che le stringeva in vita la veste, tra stoffa e stoffa, per non rischiare di perderla.

Dieci.

Fuori dalla finestra, l'alba disegnava il mondo con contorni di nebbia umida e azzurra.

Ha smesso di piovere.





Note

Ho allegramente scordato di scrivere, nel capitolo precedente, che i testi degli ultimi due pezzi seguiti dal punto di vista di Itachi sono tratti dai numeri 25 e 43 di Naruto, edizione italiana.

Per aver corretto e ricorretto il testo si ringrazia Salice.

Grazie a chi lascia commenti, recensioni, pareri e giudizi: e, come sempre, grazie a chi legge.

_Ala_: Nell'introduzione avevo fatto un accenno alle mitiche possibilità che offre una Mary Sue: tanta contentezza e pochi pensieri. Ho cominciato a scrivere questa storia prima di sapere che cribbio fosse una Mary Sue, per cui sono estremamente curiosa di conoscere i pareri degli altri in proposito. Sono contenta (tanto tanto tanto) che tu non abbia trovato errori di ortografia e grammatica, perché credo di poter tollerare di aver scritto una storia dalla trama noiosa, ma una storia scritta in italianese no. xD Io continuo a trovare ripetizioni su ripetizioni, invece, rileggendo. Mi tirerei una spadata su un ginocchio ogni volta che me ne accorgo. Ed io sono la prima a dirmi "massì, questa storia magari la recensisco tra una settimana"... non facendolo, poi, ovviamente. Mi mangerei le mani quando me ne ricordo. Grazie per i complimenti! ^^
abcdefghilm: Grazie davvero! ^^ Questo capitolo è stato un po' breve, ma il prossimo sarà più lungo.
Salice: Ecco, sì, povero, povero, povero Itachi. ç.ç Niente Sushi e niente Sas'ke, povero, povero, povero Itachi.

fonte immagine: Temple_of_the_Sun by fxEVo

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6. farfalla ***




6. farfalla



Il mondo fuori di lì cambiava con il trascorrere delle stagioni.
Finì l'inverno umido e greve di nebbia e di pioggia, pesante negli acquazzoni che investivano Idomizu ad intervalli regolari, trascorse una primavera che non lasciò segni sul deserto scabro, poi l'estate ed il suo insopportabile carico d'arsura e vento caldo.
Nel Ryookosya no Heya la calura si faceva atroce. Hiroto lamentava d'avere le labbra screpolate e passava il suo tempo a cercare di sanarle con il burro e con una specie di pasta dolce e grassa che ricavava dai datteri, Noa, che veniva dalle più fresche terre dell'est, agonizzava senza fiato fino a quando il tramonto non arrivava a far scendere la temperatura, la clientela era sudaticcia ed il padrone irritabile.
Ma loro potevano uscire, pensava Hanako certe volte, sentendo d'odiarli tutti.
Odiava l'Heya. Odiava il deserto. Odiava Suna, soprattutto, Suna così lontana e che incombeva ancora ora, odiava tutti i clienti che portavano il suo simbolo sui coprifronte d'acciaio ed anche quelli che portavano altri simboli, perché loro sì e lei no, loro potevano andare altrove e lei noi, odiava chi ne parlava mentre lei stava giù, nella sala grande, perché tutti i racconti sapevano contro la sua lingua di sangue salato.
Guardava il mondo attraverso i vetri chiusi della sua stanza: non si aprivano, quei vetri, neanche nei giorni più caldi, perché lei preferiva soffocare in quella cappa umida ed opprimente di bollore piuttosto che sentire com'era il vento, solo un assaggio di vento, sapendo di non poter andar fuori a camminarci dentro.
Certe volte il calore e l'odio erano insopportabili, il dolore come una lama conficcata troppo profondamente nello stomaco: allora si scopriva a giocherellare con una piccola moneta d'acciaio, passandosela tra le dita come aveva fatto quella prima volta.
Dopo un po' che giocava gli occhi le si chiudevano, il respiro si faceva più quieto. Qualche volta scivolava nel sonno senza accorgersene. Sognava Mizuki, allora: non i sogni atroci dell'ultimo giorno, ma quelli dolci come il conforto che avevano a che fare solo con le piccole cose belle di Mizuki.
Sognava Mizuki che rifaceva i letti, Mizuki che quei letti li accostava, la sera, perché potessero dormire vicine, Mizuki che danzava insieme a lei attorno al fuoco, Mizuki e Hanako spalla contro spalla a coprire l'una il fianco dell'altra.
Sognava Mizuki e, qualche volta, al sogno di Mizuki si sovrapponeva quello di una schiena bianca e di occhi rossi, e di un profumo buono come quello delle arance aspre, sepolto sotto a quello metallico del sangue e della guerra.

Nel caldo anche danzare era un sollievo. Era cambiare la stasi in forza, aria immobile che veniva smossa dalla seta delle maniche e della gonna, polvere che si levava tagliata dai ventagli sottili, ed era tutto così familiare da essere piacevole, così familiare che se chiudeva gli occhi era di nuovo attorno ai falò di Suna, ed era movimento, ed era vento.
Un colpo secco per chiudere i ventagli, due dita che scorrono su e giù lungo le stecche di legno per riaprirli e tenerli tesi avanti al viso.
Sfioravano appena le maniche ampie della veste, sparendovi all'interno mentre disegnava con il piede un mezzo cerchio sul terreno. Ancora chiusi, ancora aperti. Due brevi colpi di legno contro legno, ventaglio contro ventaglio, per segnare il tempo: quella sera c'era Hiroto che suonava, pizzicando budelli sottilissimi per estrarne note acute e taglienti come lame dai foderi.
Un cerchio più ampio disegnato con tutto il corpo, le braccia tese e i ventagli spalancati, mentre le note si ammorbidivano.
Piegò il capo da una parte, sentendo il pettine in cui aveva raccolto i capelli scivolare un poco fuori dalla propria sede, allentando il nodo della chioma: la pettinatura sfatta le sfuggì su un orecchio, disturbandola, ma non smise di danzare.
La porta della sala grande si apriva e si chiudeva alle sue spalle, ai suoi fianchi, davanti a lei, sfocata nella rotazione, lasciando entrare gli ultimi clienti della sera.

Ed è così che la vede.
Perché la prima immagine era stata quella di una ragazzina acerba e curiosamente inerte dalle mani delicate sulle ferite, un odor dolce e stranamente pulito a permearle la pelle, sconosciuta e inconoscibile perché non gli interessava avere niente a che fare con lei, niente a che fare con la persona pagata e minacciata per aiutarlo a fare quel che non era in grado di fare da solo, rimediare ai propri fastidiosissimi danni, ma la seconda immagine è proprio quella.

Scivola in ginocchio, ed è un passo da danza di guerra: il ventaglio si chiude ed attacca chi ha davanti, il vuoto, ma poi è il corpo a muovere sinuoso, sciogliendo l'impressione di una violenza nel vorticare delle braccia sottili.

Con il viso arrossato, gli occhi spalancati in una specie di piacere da danza, sopra il sudore lieve delle guance e del naso, la chioma che le si disfa attorno al viso in un secondo giro di seta bionda come la cenere, ballava come una cieca, senza vedere.
Quei capelli sono una raggiera di petali pallidi quanto scampoli d'inverno, a circondare il capo inclinato da una parte per il fastidio improvviso del pettine sfuggente.

Alza il ginocchio verso di sé, un ventaglio aperto a nascondere il viso, l'altro semichiuso davanti al ventre.
Li apre e li chiude: simili ad ali di farfalla i ventagli fendono l'aria e disegnano la forma del vento.

Impugna i ventagli come fossero lame.


- Non è un brutto posto. Com'è il sakè da queste parti, Itachi? -
Con quel sorriso da squalo che si ritrovava aveva già spaventato e spinto a scappare una graziosa cameriera dagli occhi dolci e pareva del tutto intenzionato a ripetere la scenetta anche con le altre.
Gli avventori avevano fatto largo attorno al loro tavolo, spintonando impercettibilmente ciascuno la propria sedia un po' più in là: così, si erano ritrovati improvvisamente in una specie di bolla di tranquillità alla quale nessuno sembrava troppo desideroso ad accostarsi.
- Non ne ho idea. -
Il sorriso da squalo si spostò dal dorso della cameriera in fuga al viso del laconico compagno.
- Non siete già stato da queste parti? -
- Sì. -
- E non avete bevuto? -
- No. -
Un altro avrebbe interpretato nella maniera più ovvia un simile sfoggio di monosillabiche risposte, attribuendole ad una scarsa voglia di conversare, ma l'uomo dal sorriso da squalo, forse per abitudine, forse per una qualche forma di stupidità, continuò allegramente a stuzzicare il proprio interlocutore:
- Come mai? -
L'interlocutore in questione dovette decidere che anche i monosillabi erano uno spreco ingiustificabile di fiato, perché si limitò ad inarcare il sopracciglio di forse mezzo millimetro: per il resto, il silenzio più assoluto.
Erano una coppia assai mal assortita: il primo sfoggiava, oltre a quel sorriso aguzzo e discretamente inquietante che gli dava l'aspetto di un predatore vagamente ottuso, una corporatura statuaria e massiccia e quella che avrebbe anche potuto essere una spada se non fosse apparsa semplicemente troppo enorme; l'altro era esile e snello, con una lunga coda scomposta di lisci capelli neri ed una maniera rigidamente aristocratica di tenere la braccia e la schiena.
Spiccavano, nell'Heya, soprattutto per le vesti che portavano: nere, di buona fattura e buon tessuto, decorate da un motivo di ampie nuvole scarlatte.
In bella vista sulla fronte la placca metallica che era il simbolo e l'orgoglio di qualunque ninja avesse una patria, la placca metallica che era insieme una nomea ed un lasciapassare, perché cos'è un ninja senza un padrone?, era attraversata da un lungo, profondo sfregio orizzontale. Konoha, diceva il simbolo del più giovane, e Kiriga, diceva quello dell'altro, la Foglia e la Nebbia.
Tutti sapevano leggere quelle placche: era la prima cosa che serviva imparare per aumentare le proprie possibilità di star vivi quando i tempi si facevano molto poco semplici.
Il sorriso da squalo, affievolitosi per un attimo nell'assorta contemplazione di un angolo del tavolo, si risvegliò rapidamente, riaffiorando con feroce allegrezza, alla vista della nuova ragazza diretta verso di loro.
Itachi dava le spalle alla sala: ma gli bastò evidentemente un'occhiata alla faccia del compagno per intuire le ragioni del suo entusiasmo.
- Se spaventi tutte le cameriere, Kisame, non ne resterà nessuna per servire la cena. -
- Ma no... - Il sorriso si dilatò ulteriormente sotto al miglior sguardo di ironica mansuetudine che si fosse mai visto. - Non la faccio scappare, questa. -
Itachi socchiuse gli occhi in un modo che poteva voler essere una minaccia, un assenso, un diniego od un altro mezzo milione di cose: e che, comunque, fu semplicemente ignorato dal gigante.
Ad ogni modo la cameriera doveva aver trovato sufficientemente poco spaventoso quel sorriso da decidere d'avvicinarsi come niente fosse, perché se la sentì passare accanto e fermarsi alla sua destra.
Una mano delicata posò sul tavolino due ciotole ed una teiera, disponendole rapidamente.
- Benvenuti. Cosa posso portarvi? -
Itachi girò la testa, lentamente, inquadrando insieme la voce, la mano, il viso ed il profumo.
Miele.

Kisame non era un brav'uomo.
Kisame era un violento. Era un assassino. Era un attaccabrighe, un rissoso, sempre pronto al massacro in ogni momento del giorno e della notte. Uomini e donne, non faceva differenza: purché sapessero combattere, lui li affrontava, lui li travolgeva, lui li scarnificava e godeva della sensazione di essere, dopo ogni scontro, sopravvissuto.
Kisame non era un brav'uomo.
Ma anche Kisame aveva delle sue regole: ferree, perché, nessuno meglio di lui lo sapeva, quando qualcuno non è un brav'uomo la cosa migliore che possa fare per sé stesso è piantare norme come pali d'acciaio, nella propria testa, da non superare mai.
Kisame non era un brav'uomo.
Ma Kisame non aveva alcun desiderio di divenire un mostro.
Oh, lo era già sulla bocca degli altri: lo era per fame di gloria e lo era per aver fatto altre cose, che certuni giudicavano orrende, bestiali, e lui solo normali. Era un ninja, Kisame, non un ragazzino. Sapeva che non tutto è come appare ad una prima occhiata.
Bastava prendere Itachi come esempio: Uchiha Itachi, a voler essere anagraficamente precisi.
Uchiha Itachi aveva massacrato il proprio clan, la propria famiglia, sangue del suo sangue, carne della sua carne, suo madre e suo padre, cugini e zii di primo, secondo, terzo e via discorrendo fino al ventesimo grado, in una sola parola tutti.
Uchiha Itachi era un mostro agli occhi del mondo.
Ebbene, Uchiha Itachi aveva quattordici anni, un viso da ragazzino e lo sguardo più triste che Kisame avesse mai visto: uno sguardo malinconico e pesante che pareva mantenere dentro di sé tutto il dolore del mondo. Era un urlo represso, quello sguardo, un urlo che Itachi non si permetteva mai.
Uchiha Itachi camminava con la schiena dritta, ma sembrava sempre si portasse sulle spalle il peso del mondo. Doveva essere un gran bel peso, un peso come una montagna, perché Uchiha Itachi pareva sempre stanco.
Uchiha Itachi uccideva come uno che non avesse mai fatto altro dalla nascita: Kisame immaginava che rimanesse poco rimorso da provare, se mai l'aveva veramente provato, ad uno che aveva sulle mani il sangue e la carne della propria famiglia; ma Itachi guardava quelli che uccideva con un'espressione che, sorprendentemente, certe volte era invidiosa.
Era l'espressione di uno che avrebbe preferito trovarsi nella pelle dei morti, piuttosto che nella propria.
Per questa e per molte altre cose Kisame Hoshigaki, rinnegato e reietto, feccia della terra, assassino e traditore e mostro, era giunto a comprendere che il mondo non era mai facile da interpretare così come pareva ad una prima occhiata.

Tra le regole ferree di Kisame Hoshigaki ce n'era una che riguardava le donne.
Le donne si potevano terrorizzare.
Si potevano uccidere.
Si potevano picchiare e torturare, se serviva: senza piacere alcuno, perché non c'era diletto nella tortura, ma si poteva fare.
Ma lo stupro era oltre.
Lo stupro era oltre uno di quei pali di ferro che, certe volte, gli piaceva immaginare nella propria testa.
Lo stupro di una donna era oltre. Quello di una bambina era oltre l'oltre: inconcepibile, semplicemente.
Questa che aveva davanti era una bambina. Aveva occhi chiari, viso chiaro, labbra chiare e capelli chiari. Aveva vesti viola tenue dal taglio troppo adulto per il corpo androgino e un lungo orecchino di piccoli cerchietti di metallo appesi ad un lobo tramite un filo trasparente.
Era vestita per un lavoro anche troppo evidentemente da adulta, ma non l'avevano neanche truccata: così spiccava ancor di più quanto fosse giovane e quanto fosse fragile.
Kisame avrebbe potuto terrorizzarla, e l'avrebbe fatto di sicuro e allegramente, anche, perché si sarebbe divertito nel vederla spaventata: ma, lo realizzò nel momento stesso in cui le metteva gli occhi addosso, non se la sarebbe portata a letto. Né pagandola né gratis.
- Con comodo! - Batté un pugno sul tavolo, soffocando il ghigno dietro ad un tono ringhioso. - E' così che si fanno aspettare i clienti? -
A quel pugno il tavolino sussultò come in preda ad una scossa: le tazze e la teiera tremarono, ed una di esse si inclinò e rotolò oltre il bordo. Il cerchio vuoto che circondava Itachi e Kisame si allargò di un altro metro, con uno scricchiolio di sedie strusciate per terra e di bofonchi tesi.
Senza scomporsi minimamente, la cameriera acchiappò al volo la ciotola prima che toccasse terra e la risistemò sul piano di legno: la spostò con la punta delle dita, accostandola alla teiera per metterla al sicuro nel caso in cui fosse arrivato un altro pugno e, improbabile ma mai impossibile, il tavolino fosse sopravvissuto ad un secondo, traumatico impatto.
- Sono desolata, signore. Noa è tornata indietro senza aver ben capito le vostre ordinazioni. -
Noa doveva essere l'altra cameriera, quella che era scappata in preda al panico di fronte al sorridente ruggito di Kisame: il quale Kisame, di fronte a tanta composta e trasognata educazione e a tanto pronta risposta, aggrottò la fronte senza saper bene che dire.
Aprì bocca, restò per un attimo così, in cerca di parole che non venivano, e infine, perplesso, si decise a richiuderla.
Davanti a un simile evento, a dir poco apocalittico, Itachi alzò le sopracciglia di un intero millimetro.
- Cosa posso portarvi, signori? -
Kisame ritrovò il fiato:
- Sakè. -
- Riso con le verdure. -
Kisame vide la ragazza sussultare e farsi bianca come ad un colpo ricevuto: la seguì con lo sguardo mentre abbassava il capo verso Itachi, che aveva parlato, e mentre lo fissava apertamente in viso.
Vide Itachi ricambiare quell'occhiata, il capo sollevato verso la cameriera. Non che Itachi avesse un'espressione interessata... non aveva un'espressione, molto semplicemente... però la guardava. Kisame non ricordava nemmeno che Itachi avesse mai seriamente guardato qualcosa senza avere l'intenzione di ucciderla, distruggerla, ferirla.
Per un attimo si aspettò che la testa della camerierina schizzasse sul pavimento: e gli venne da chiedersi con disappunto se qualcuno, dopo, si sarebbe comunque ricordato di portare loro del sakè.

Lei ha gli occhi molto chiari, a guardarli alla luce, Itachi se ne accorge nel momento stesso in cui li abbassa su di lui.
Né azzurri né celesti, ma grigi: un grigio liquido, come nebbioso, picchiettato da minuscole pagliuzze brune e verdi.
E' tutta molto chiara, in effetti: e adesso le si legge in faccia anche troppo bene quanto sia sorpresa.
Non riesce a capire, Itachi, se ha paura, se sia sconvolta o se, semplicemente, trovi inaspettata la situazione. Per un attimo pensa che fuggirà: pensa che si volterà e correrà via attraverso la sala, e invece lei si appoggia con entrambe le mani al tavolo, quasi volesse sostenersi, con le ginocchia che si piegano un po'.
E rimane lì.






Note

Per aver corretto il testo e per il supporto (morale e non) che mi ha dato in questi giorni e durante la scrittura del racconto, come sempre si ringrazia Salice.
Grazie a chi, molto pietosamente, mi ha prestato il pc in questo duro momento di lutto stretto: il mio ha chiuso momentaneamente i battenti causa ospite indesiderato.

E poi, ovviamente, un grazie a tutti coloro che hanno lasciato un commento e a tutti quelli che leggono.

abcdefghilm: Mi ha fatto davvero tanto tanto tanto (puoi continuare con i tanto a piacimento, tanto è sempre valido!) piacere il tuo messaggio: spero che la risposta che ti ho dato via mail non ti abbia lasciata insoddisfatta. La fine di Tagliavento è già stata scritta, e il racconto era nato per concludersi in un certo modo. I tuoi complimenti mi fanno saltellare sul posto per la contentezza, grazie! *.*
Salice: Oh, il nostro allegro ragazzo pesce, Sal! No, è verissimo: gli oggetti nei racconti mi lasciano sempre una sensazione malinconica addosso, perché associo ad essi i personaggi... xD

fonte immagine: Google immagini

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7. interpretazioni ***




7. interpretazioni



Era meno pallido dell'ultima volta che l'aveva visto.
Sembrava più alto. Sembrava meno esile, in qualche modo, meno fragile e meno delicato. Forse dipendeva dalla veste. Forse dipendeva dalla compagnia. Forse dipendeva dal fatto che non era coperto di sangue e che non stava agonizzando.
La veste era inquietante, ecco. Anche la compagnia era inquietante, ma la veste era più inquietante: con quell'abito indosso aveva un aspetto da guida dei morti. Il coprifronte, che stavolta portava, era tagliato in due da un graffio: il simbolo della Foglia, tranciato a quella maniera, assumeva tutta una serie di significati per nulla simpatici.
Feccia, pensò la sua testa ancor prima che fosse lei a pensarlo, mossa da uno di quei clic che generalmente sancivano il concludersi di un ragionamento alla Hanako Hoshikaze, non alla Hanako dell'Heya.
Hanako Hoshikaze aveva avuto, nelle Squadre Speciali di Sunagakure, il compito di fare in modo che la feccia di Suna non potesse lasciare il Paese: nessuna pietà per traditori e fuggitivi, reietti, lo schifo della terra, che abbandonavano la loro patria indebolita. Morti tutti.
Hanako era stata brava in quello, ferocemente brava e ferocemente preparata, al punto tale che anche adesso, ferma nel suo limbo - prigione di Idomizu a servire una clientela che era formata soprattutto da quella stessa feccia che lei, Mizuki e gli altri avevano sterminato tanto a lungo con tanta metodica abilità, certe volte si riaffacciava l'idea che avrebbe dovuto ucciderli, traditori, perché il Kazekage così voleva. Le occorreva sempre un po', in quei casi, per riuscire a ripulirsi la testa ed a tornare sé stessa.
Le unghie del ragazzo erano tinte di viola. Non sapeva perché, ma quel viola così scuro su quelle mani così pallide le strappò un brivido nauseato: aveva le dita, se ne rese conto solo ora, ad un soffio dalle sue.
Le sarebbe bastato spostare appena la mano per poterle sfiorare.
Un grugnito soffocato alla propria destra le restituì l'esatta percezione del luogo e del momento nel quale si trovava: alzò la testa di scatto verso l'uomo con il sorriso da squalo, realizzando che poteva non essere l'occasione migliore, quella, per simili considerazioni...
- Riso e verdure. - Riepilogò, con la voce più ferma che riuscì a tirar fuori. - E sakè. Nient'altro da mangiare, signore? -
Il gigante tamburellò con le dita della sinistra sul tavolo, la destra che si alzava per posarsi amorevolmente sull'immensa spada che aveva appoggiata alla propria sedia.
- Zuppa di pesce. - Decretò alla fine.
Hanako, malgrado tutto, sorrise. Zuppa di pesce. Che altro poteva essere...?
Il più anziano tra i due sollevò la mano per congedarla con un gesto di divertita arroganza. Lei aveva appena cominciato ad arretrare, accennando ad un mezzo inchino con la testa, quando si trovò con il polso inchiodato contro il tavolo da una stretta ferrea. Abbassò lo sguardo di scatto, nuovamente, irrigidendosi nell'incontrare gli occhi molto scuri del ragazzo pallido, sollevati nuovamente a guardarla.
Non le aveva fatto male al braccio, stavolta, ma la presa non era lenta. Sostenne lo sguardo di lui, senza abbassarlo né distoglierlo, limitandosi ad affermare quietamente:
- Debbo andare a prendere la cena, signore. -
Ebbe l'impressione, per un attimo, che lui le avrebbe detto qualcosa, perché gli vide piegare la bocca da una parte ed accennare ad aprirla, le pieghe del movimento improvvise e liquide su quel volto come di pietra: però, poi, tacque solo. La trattenne ancora per un attimo, prima di lasciarla andare.
Hanako si portò il braccio contro il grembo. La pelle percepiva ancora la sensazione fantasma delle dita e della stretta, come un ricordo di vago calore. Non era possibile che una persona dal viso tanto freddo avesse mani tanto calde, ma lui le aveva, come acqua tiepida. Arretrò lentamente, senza girarsi sin da subito per non dar l'impressione di una fuga: fece un paio di passi e allora, e solo allora, si volse per attraversare la sala, diretta verso la cucina.
Non aveva bisogno di girarsi per accorgersi dei due sguardi che la seguivano.

- Chi è? -
Non c'era da sorprendersi che Kisame fosse riuscito a trattenersi, prima di cercare famelicamente di saziare la propria curiosità, per esattamente cinque secondi: semmai bisognava gridare al miracolo perché i secondi erano stati ben cinque.
- Una cameriera. -
- Sì, ma chi è? -
Ottenne in risposta da Itachi solo l'ennesima occhiata vacua: ma la cosa, lungi dal scoraggiarlo, parve dargli la carica per trasformare il suo sorriso da squalo in un ghigno malizioso che, su quella faccia disumana, aveva qualcosa di spaventoso.
La voce di Kisame Hoshigaki, vibrante per tutta una serie di allusioni tanto poco sottintese da essere puramente lampanti, come se ce le avesse scritte in fronte, stuzzicò Itachi senza volersi dare per vinta:
- E' carina. -
- Mh. -
Mh era già un gradino oltre il silenzio. Era un verso, innanzitutto: spreco di fiato e di voce. Spreco di preziose corde vocali che si consumavano, raschiandosi, per produrre suono. Mh poteva essere mh?, oppure mh!, ma anche mh...: c'era da interpretarlo.
Un mh? avrebbe potuto significare la cosa, francamente, dovrebbe importarmi?, il che era, sfortunatamente, molto da Itachi.
Un mh! sarebbe stato presumibilmente un entusiastico lo è davvero!, che invece proprio non lo era, da Itachi, e quindi andava scartato a priori.
Un mh... era l'interpretazione dai risvolti più interessanti: abbastanza vago da poter essere compatibile con il soggetto in questione, ma non sufficientemente assente da risultare puramente avvilente.
- C'era anche l'ultima volta che siete stato qui? -
- Kisame. -
- Sì? -
- Basta. -
Quel genere di basta sanciva l'esaurirsi di gran parte delle loro conversazioni. Kisame tornò a tamburellare con le dita sul tavolo, ghignando intimamente per quanto era riuscito ad ottenere malgrado tutto, e Itachi si chiuse in un mutismo tombale.

La cameriera chiara aveva servito loro la cena in assoluto silenzio, lo sguardo sfuggente ostinatamente puntato verso le ciotole che disponeva, rifiutandosi di ricambiare le occhiate divertite di Kisame e assecondando pienamente, invece, il mutismo di Itachi. Era tornata una terza volta per portare un'altra teiera, piena, questa, di un tè verde dal sapore piuttosto deciso, prima di allontanarsi in un fruscio ovattato di strati di seta, tornando verso il centro della sala.
Un'altra delle ragazze le aveva rimesso in mano i ventagli. La musica del liuto si era sollevata nuovamente e con discrezione in mezzo al chiacchiericcio: accompagnava, più che guidare, perché la danza si guidava da sola nella sua rotazione lieve di seta e polvere.
Con l'avanzare della notte la sala cominciò a svuotarsi. La musica si spense quando la ragazza che suonava il liuto si allontanò con uno degli avventori, sparendo al piano di sopra. L'altra, la brunetta che Kisame aveva terrorizzato ad inizio serata, era scomparsa già da un pezzo.
Rimaneva in mezzo alla stanza solo la cameriera chiara, con i suoi ventagli e la sua danza di perfetto silenzio, come indifferente al fatto che nessuno suonasse più e ci fosse rimasta solo lei a tenere il ritmo e il movimento. Si spostava ad occhi chiusi, ancora, e Itachi ricordò che l'aveva fatto anche la prima volta che era stato lì: camminare e danzare senza guardare, come se il suo corpo sapesse prima di lei cosa fare e quando farlo, come se non le servissero gli occhi per vedere.
- Che mestiere può aver fatto... - Domandò Kisame, oziosamente. - ... prima di finire come una puttana? -
Quella parola, netta e recisa, puttana, lo colpì più di quanto ragionevolmente avrebbe dovuto fare, e gli occorse un po' per realizzare il senso della domanda:
- Cosa intendi dire? -
- Che si muove nel modo sbagliato per una che per lavoro apre solo le gambe. Quei ventagli li tiene come se dovesse piantarli da un momento all'altro nel corpo di qualcuno. - Un intenso corrugarsi di quella fronte bassa e schiacciata, le pieghe d'espressione che si facevano profonde come solchi: - Sarà una spia di Suna? -
- No. -
Non sono una spia, ma ero di Suna. Non è Suna che mi manda qui. Aveva avuto paura ed era stata sincera nel dir quello: non del tutto sincera, ma abbastanza da risultare credibile.
Non è Suna che mi manda qui. A quel nome, Suna, l'aveva vista tremare con violenza e rannicchiarsi: l'atteggiamento di qualcuno che si ripara da un colpo su una piaga esposta, non di chi si vede scoperto.
Itachi realizzò con una specie di pigro, distratto interesse che gli piaceva stranamente osservare il modo perfetto in cui il bordo dei ventagli fendeva l'aria: la riga netta, un semicerchio che terminava in uno scatto brusco del polso che richiudeva le stecche e poi le riapriva, in rapida sequenza, mentre il corpo ruotava e la testa lo seguiva. Quel ventaglio chiaro gliene ricordò un altro, bianco e rosso, che aveva accompagnato tutta la sua vita e che, anche ora che il ventaglio era morto, sembrava non volerlo lasciare mai, né da desto, quand'era un peso e un ricordo, né quando s'assopiva, poiché nel sonno era un incubo, costante e coerente come un supplizio, che gli riportava alla testa una casa che era stata piena, vita e gioia, un sogno, e adesso era vuota, e c'era un bambino, in quella casa tanto vuota, che non poteva parlare con altri se non con gli spettri.
- Hai finito, Kisame? -
Il gigante scansò da sé la ciotolina di porcellana sbeccata, dopo averla per l'ennesima volta svuotata, schioccando le labbra per il gusto violento del sakè.
- Volete salire in stanza? -
I ricordi avevano il sapore amaro della sconfitta e quello struggente della nostalgia, caldo e profumo.
- Sì. -
Sasuke.
La ragazza dalla pelle chiara aveva il sorriso da nuvola di Mikoto: ma quella era una nuvola da pioggia.

- Hanako? -
Aveva aspettato in sala fino all'ultimo momento, sperando sempre che quella sera no, che quella sera la lasciassero in pace, perché tutto quel che voleva era salire in camera, accoccolarsi sul davanzale e passare la notte davanti alla finestra chiusa in compagnia di Mikoto e della sua moneta, aspettando molto semplicemente l'ennesima alba.
Si volse verso il padrone, richiudendo i ventagli e portandoli contro il corpo snello:
- Sì, signore? -
- C'è un cliente che ha chiesto di te. -
Ha chiesto di te. Non ha chiesto compagnia. Era difficile che qualcuno domandasse proprio di lei, che era minuta e non aveva poi nulla di particolare, né la sgargiante chioma rossa e il sorriso seducente di Hiroto né gli occhi luminosi e il volto incantevole di Noa.
- Certo, signore. -
Avrebbe voluto potergli dire di no, ma non ce n'era proprio una ragione specifica, quella sera. Non le andava, puramente e semplicemente: ebbene, se ne sarebbe fatta una ragione. Non le andava e, lo sapeva, era colpa del ragazzo pallido.
- E' la 5, Hanako. -
Docilmente, si appese i ventagli alla cintura e cominciò a sistemarsi i capelli. Tra le dita erano lisci e sottili, e sfuggivano ad ogni tentativo di riacchiapparli per rimetterli a posto sotto al fermaglio. Si incamminò verso le scale e, quand'era già con il piede sul primo gradino, le arrivò la voce del padrone, alle sue spalle, con un'ultima informazione:
- Si è raccomandato di bussare, prima di entrare. -
Ad Hanako scappò un verso come un lamento.





Note

Sempre e comunque, grazie, Salice, per aver corretto il tutto. xD Il mio computer è tornato, tra l'altro, ma l'hard disk è forse irrecuperabile: non si esce dal lutto, dunque, finché non è tutto risolto.
Grazie a chi legge e a chi commenta. ^^

abcdefghilm: Spero che almeno questo capitolo sia sembrato un po' meno triste... Era dall'inizio che pregustavo l'arrivo di Kisame per risollevare un po' lo spirito, che non è che sia troppo allegro. xD Per quanto riguarda Itachi, non riesco a capire, neanche nel fumetto, per chi o per cosa faccia tutto quel che fa. Credo abbia iniziato con un obiettivo e sia andato avanti con un altro scopo, un po' come avesse ceduto a metà strada, nel bene o nel male. Lo trovo un personaggio molto affascinante e molto complesso, e come lui Orochimaru e Tsunade. Grazie per i complimenti! ^^

fonte immagine: Google immagini

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 8. storie ***




8. storie



Si era aspettata che fosse un volto pallido come la neve ad aprirle la porta: per cui, quando ad apparire sulla soglia fu un viso decisamente ben più grezzo di quel che si aspettava, oltre che posizionato notevolmente più in alto del previsto, sentì la delusione invaderla.
Le occorse un attimo per riconoscere nell'uomo il compagno del ragazzo pallido: quello con la spada enorme sulle spalle ed il sorriso da predatore affamato.
- Con comodo. - Ghignò lui, allegramente, scansandosi per permetterle di passare: - E' così che si fanno aspettare i clienti? -
Gli sgattaiolò accanto, sentendosi semplicemente minuscola di fianco a quella specie di montagna semovente di pelle coriacea e stoffa nera, ed entrò nella stanza. Niente buio, stavolta: fu un sollievo potersi guardare attorno fino a quando, nella penombra dei lumi, non vide il secondo letto e la persona - pallido silenzioso inespressivo, spettro - seduta su di esso.
Il sollievo svanì di fronte alla percezione chiara e diretta del proprio rossore. Sentì il sangue defluirle dal viso e affiorarle d'improvviso tutto sulle guance, e poi le vene svuotarsi definitivamente, facendola sbiancare, quando le venne da chiedersi per cosa, precisamente, si chiamasse una prostituta in camera quando quella camera già la si divideva con un'altra persona.
Presa da una sensazione di intollerabile e istintivo panico fece per arretrare e cercare a tastoni la maniglia della porta, che le era stata prontamente chiusa alle spalle: una delle mani gigantesche dell'uomo le bloccarono il braccio senza stringere, sollevandoglielo e fermandola.
- Non scappare, non scappare. -
Fuggi. Era tutta la sua testa a strillarlo, ora, e non solo quella parte che era in preda al terrore, e dovette fare uno sforzo per cercare di ignorarla.
Fuggi. Fuggi, per carità, fuggi...
Si sentì un po' tirata e un po' spintonata, di malagrazia e goffamente, ma senza violenza, sino a quando non si trovò seduta su una poltrona di vimini.
- Ti lascio il braccio, adesso, eh? - Detto fatto, ora aveva la mano libera. Le dita dell'uomo le si serrarono attorno alla spalla, inchiodandola lì seduta e prevenendo l'eventualità di un qualunque accenno di fuga: - Ma tu non provare a scappare. Sta' qui e sta' buona. -
Le si sedette davanti, sull'altro letto, appoggiando i gomiti alle ginocchia e guardandola con un mezzo ghigno:
- Per stavolta non ti mangio. -
Aveva i denti appuntiti: ci aveva già fatto caso, Hanako, trovandoli curiosamente intonati a quel volto bestiale e a quei tagli sulle guance e sul collo, branchie, che tanto si accordavano alla sua persona. Quei denti e quella frase, messi insieme, la fecero sorridere malgrado tutto, malgrado il panico e la confusione e la sensazione incombente di avere gli occhi del ragazzo pallido addosso.
Il gigante sembrò deliziato da quel sorriso, perché il suo ghigno si ampliò ulteriormente. Se avesse continuato a sorridere così, pensò Hanako, la faccia gli si sarebbe aperta da orecchio a orecchio.
- Cosa sorridi, ragazzina? -
Lei si affrettò a chinare il capo, e il gigante si sporse per costringerla a guardarlo in faccia:
- Non credi che ti mangerei davvero? Non pensi che ne sarei capace? -
Hanako lo guardò, con il mento contro il petto, sollevando gli occhi dal basso verso l'alto e sbirciandolo attraverso la frangia sottile. Assentì, dopo un attimo d'esitazione, e stavolta il gigante ridacchiò apertamente:
- Ne sarei capace? -
Un altro assenso. Il risolino si trasformò in una risata piena e rimbombante, uno smuovere di pietra su pietra che sollevò echi nella stanza silenziosa.
- E' simpatica, Itachi. Voi che ne pensate? -
Il ragazzo pallido si chiamava Itachi. Itachi era il nome del ragazzo pallido. Itachi era un bel nome, si disse Hanako, e gli stava bene.
Itachi non parve felice d'essere stato interpellato, perché rivolse una breve occhiata al gigante e, per il resto, non diede segno d'aver sentito la domanda. Sedeva sul proprio letto, il dorso appoggiato ad una parete e la caviglia intrecciata con un ginocchio, la postura molle che non riusciva a farlo sembrare, tuttavia, neanche un grammo meno aristocratico e meno controllato.
- Come ti chiami? - Il gigante chiedeva a lei.
- Hanako. -
- Hanako e poi? -
Lei scosse la testa, con un'impercettibile alzata di spalle.
- Non ce l'hai un altro nome? Quello della tua famiglia? -
Un attimo d'esitazione, prima che scuotesse di nuovo la testa.
Il gigante si girò a guardare il ragazzo pallido:
- Dice la verità? -
Glielo domandava come gli avrebbe chiesto che tempo fa, fuori, piove o c'è il sole?, con una specie di calma sicurezza, come fosse certo che la risposta, qualunque fosse stata, sarebbe stata irrimediabilmente quella giusta.
Gli occhi scuri del ragazzo si posarono su di lei. Per un attimo Hanako ebbe l'impressione che quello sguardo le passasse attraverso: che potesse guardare oltre di lei e dentro di lei, quasi la pelle fosse solo vetro, come se tutto fosse stato perfettamente visibile, perfettamente chiaro, in bella evidenza su un foglio bianco.
- Mente. -
Hanako non ebbe neanche il tempo di aprir bocca per protestare prima di trovarsi con le spalle esili strette nelle mani del gigante, le dita che premevano contro l'osso e le davano la sensazione che si sarebbe trovata con tutte e due le braccia frantumate entro breve, se lui non avesse allentato almeno un po' la presa.
- Ah, ragazzina, non ci siamo... - Il sorriso da squalo era sempre al suo posto, e incombeva – Non si dicono le bugie. Guardami in faccia. -
Obbedì. Le spalle le pulsavano: sentiva il sangue compresso illividire la pelle dove la stretta dell'uomo era più forte e non aveva bisogno di guardare per percepire che il suo corpo, reagendo con istintiva spontaneità, faceva affluire il chakra nella zona lesa per sanare i danni, fortificare, proteggere. Le parve che la morsa si allentasse, ma era solo il chakra a lavorare per contrastare la presa.
- Sei un po' troppo controllata per essere una puttana, eh? -
Le era stato detto di non abbassare lo sguardo e non lo abbassò, per timore che l'uomo si irritasse e finisse per fracassarle davvero le spalle. Così com'era ora era ancora in grado di sfuggire loro: aspettare che si distraessero, spingere indietro lo schienale della poltrona, sbilanciandolo, e buttarsi in mezzo alla stanza. Da lì ci sarebbero stati solo pochi passi prima della porta. Ce la poteva fare. Anche con una spalla rotta ce l'avrebbe fatta, forse, con un po' di fortuna; con due, invece, probabilmente no.
Una volta fuori dalla stanza tutto stava nello sperare che non l'inseguissero anche sulle scale, che non le venissero dietro, perché lei non avrebbe combattuto. Non poteva. Combattere significava tornare a Suna, se fosse sopravvissuta, e tornare a Suna significava le Squadre Speciali, il Kazekage, la vita di prima, con la differenza che adesso non ci sarebbe più stata Mizuki con lei.
Meglio morire.
Per ora, comunque, non sembrava che il gigante avesse seriamente intenzione di romperle le ossa, perché si limitava a mantenere la presa senza serrarla ulteriormente.
- Non ti offendi se ti chiamo così? Puttana? -
Le uscì fuori una faccia più sconcertata che perplessa. Scosse la testa, e lui parve curioso:
- No? -
- E' il mio lavoro. - Affermò lei, candidamente.
- E prima? Prima che lavoro facevi, eh? -
Stavolta lei non riuscì a fare a meno di abbassare la testa. I capelli le nascondevano gli occhi, così, come un velo davanti al viso. Domandò piano:
- Perché? -
- Sono curioso. Sei una puttana parecchio strana. -
- Qual è il tuo nome? -
Alzarono il capo tutti e due, adesso, lei e il gigante, guardando verso il ragazzo pallido con la medesima espressione sorpresa stampata in faccia: perché era stato lui a parlare.
Con supremo sprezzo, Itachi si limitò a gettare un'occhiata indifferente sia all'uno che all'altra, impassibile di fronte al loro stupore, prima di ripetere:
- Qual è il tuo nome? -
Lei aprì bocca. La richiuse, quando il gigante si girò nuovamente a guardarla, la riaprì e infine balbettò:
- Hoshikaze. Hanako Hoshikaze. -
Vide il gigante corrugare la fronte e poté quasi sentire la sua testa lavorare per associare il nome a qualcosa di già sentito, qualcosa che avesse un suono familiare, Hoshikaze, qualcosa che...
Sulla faccia del gigante il lampo della comprensione passò nello stesso momento in cui il ragazzo pallido apriva nuovamente bocca:
- Tagliavento. -
Lei si rannicchiò un altro po' nella poltrona, raggomitolandosi come ad uno schiaffo ricevuto, ostacolata nel movimento dalla morsa feroce dell'uomo.
- Tagliavento di Suna! - Ripeté quest'ultimo, con una punta di vago entusiasmo nella voce che lei non trovò per nulla rassicurante. La fronte gli si corrugò, subito dopo, mentre l'adocchiava con un'incredulità neanche troppo discreta: - Non dovresti essere morta, tu? -
- Sono morta. -
Con suo infinito, indescrivibile sollievo, il gigante la lasciò andare:
- A me sembri viva. Non sei un po' troppo piccola per essere Tagliavento? - Un'occhiata rivolta al proprio compagno, seguita da un sorriso sbieco di scuse che parve cadere nel vuoto: - Perdonate, Itachi, anche voi siete giovane, ma questa è... dì un po', Tagliavento, quanti anni hai? -
Non sapeva, Hanako, se aveva voglia di piangere o di ridere. La situazione era assurda. Paradossale. Fuori da ogni ragionevolezza. Fuori dal mondo. Approfittò del fatto che lui l'avesse lasciata libera per tirarsi le ginocchia verso il petto, finalmente, e appallottolarsi con il dorso sullo schienale e le mani in grembo, quasi volesse lasciar scoperta di sé la minor parte che fosse possibile:
- Quattordici. -
- Ma no? Ha la vostra età, Itachi, chi l'avrebbe detto...? Questo scricciolo... -
Un mugugno di disapprovazione da parte del ragazzo pallido sul letto fu tutta la voce sprecata in risposta.
Quattordici anni. Lei si ricordò di averglielo chiesto. Be', ora che lo sapeva non si sentiva meglio, perché quattordici anni e quella faccia era sbagliato, era sbagliato avere già tutto quel vuoto indifferente negli occhi a quattordici anni, se era sbagliato per lei lo era anche per lui. Di nuovo ne ebbe compassione e di nuovo si ricordò cosa Mizuki le aveva detto quella volta, tra un respiro rotto e l'altro, la cosa che, dopotutto, aveva deciso del destino di Hanako.
Non era stato un bel destino: se ne rendeva conto. Ma se l'era scelto da sola, era la sua volontà e la sua decisione, non era più sporco di sangue, ed era questo a fare la differenza.

- Tagliavento di Suna... - Il gigante se lo faceva passare tra le labbra, quel nome, come lo stesse gustando. Tutto ad un tratto aveva un modo piuttosto famelico di guardarla che, decise Hanako, faceva spavento.
- Mi chiamo Kisame Hoshigaki, io. Sai chi sono? -
Clic, fece la sua testa.
- Traditore della Nebbia. - Hanako si trovò a parlare prima ancora che la sua testa potesse suggerirle che magari sarebbe stato più prudente restar zitta. - Uno dei Sette Spadaccini di Kiriga. -
L'espressione famelica si fece ancor più evidente su quel volto scabro:
- Sarebbe divertente fare a pezzi Tagliavento. -
Quelle parole furono una specie di fulmine a ciel sereno che le fece capire, improvvisamente, quale genere di fame fosse quella dell'uomo: non fame di stomaco, né alcun tipo di appetito che potesse prevedere un letto ed una compagnia, ma fame di scontro e di guerra, fame di sangue sulla lama e di un avversario che valesse la pena della fatica fatta per alzare la spada.
Scosse la testa con improvvisa fermezza e negò, duramente:
- No. -
Kisame Hoshigaki parve sorpreso: forse non s'aspettava che lei avrebbe risposto, forse non s'aspettava tanta decisione. Ma la sorpresa scomparve in un attimo dietro a un ghigno:
- Non ho chiesto il tuo parere. -
- Non importa. Non m'importa, io... - Non sapeva bene come spiegare, come spiegarsi, ed era difficile trovare le parole. Scosse di nuovo il capo, alla fine, e rinunciò, limitandosi ad affermare: - Io non combatto. -
- Se non combatti, muori. - Sentenziò Kisame, divertito.
- Mi sta bene morire. - Be', quella risposta lui non doveva essersela aspettata: perché la guardò, le labbra socchiuse, con una fissità assoluta che aumentava la sua somiglianza con un pesce, un grosso pesce, un predatore, squalo, e Hanako si ricordò tutto ad un tratto che dello squalo la sua spada aveva il nome, Samehada1. Come prima, fu la voce del ragazzo pallido a distrarli entrambi:
- Eri nel primo nucleo della Squadra Speciale di Sunakagure. So che è stato distrutto. -

Il sangue in una pozza sulla terra arida. Nella pozza, l'ascia.

- Siamo morti. -

- Mizu...? -

- Tu sei viva. -

Per portare a termine il proprio dovere bisogna prima di ogni altra cosa...

- Io ero altrove, il giorno della battaglia. -

... pensare al dovere stesso.

- E perché sei qui, ora? -

- Perché sei qui, Hanako? -
Bisogna pensare al dovere prima di qualunque altra cosa.


- Perché loro erano morti, e c'ero solo io. Anche Tagliavento era morta. Ero stanca di combattere. Ho provato a scappare, ma non mi avrebbero mai permesso di andarmene, così mi sono fermata qui. Qui mi lasciano stare. Credo che abbiano deciso che era una punizione sufficiente, lasciarmi stare a fare la prostituta. Non posso andarmene da Idomizu e non posso uscire dall'Heya. -

Bisogna pensare al dovere prima di qualunque altra cosa. Ma io avrei voluto pensare, prima che ad ogni altra cosa, a Mizuki.

- Io non combatto più. - Guardarsi le ginocchia era più facile che guardare negli occhi il gigante o il ragazzo pallido. - Io non combatto mai più. Non ho voglia di combattere, semplicemente perché vivere non mi piace abbastanza da farlo. Se comincio a combattere cercheranno di riportarmi a Suna: loro sono tanti, io sono sola, ed io a Suna non ci voglio tornare. Sono stata un carnefice, un boia, meno che un'assassina. Se mi dicevano di uccidere qualcuno, io lo facevo. Se mi dicevano di radere al suolo un villaggio, io lo facevo. Se mi dicevano di torturare un prigioniero, io lo facevo. Bene, non lo farò mai più. Mai più niente che qualcuno mi ordini, perché io non sarò mai più niente che tagli, per nessuno. -
Inghiottì a vuoto, sentendo la nausea farsi tanto forte da darle l'impressione che lo stomaco le si rivoltasse.
- Mi sento male. - Confessò poi in un bisbiglio, rialzando la testa. - Posso usare il bagno, per cortesia? -





Note

(1): Samehada, letteralmente pelle di squalo. Fonte, Wikipedia.

A me e a Salice piace tanto Kisame. Ha una sua forma di genialità che deve aver dimenticato sepolta molto, molto a fondo da qualche parte. E' il nostro allegro ragazzo pesce e noi lo sappiamo, anche se Kishimoto ce lo tiene nascosto, che vuole tanto bene a Itachi. xD

Un grazie sincero a tutti coloro che leggono, e specialmente a chi passa e lascia un commento. ^^

abcdefghilm: Sì, un po' d'allegria ogni tanto risolleva lo spirito, ecco! Per quanto riguarda l'aggiornamento: non appena rientrerò in possesso dell'hard disk - sul quale sono salvate le immagini già pronte, le note, qualche correzione che mi sono segnata e che sarà necessaria più avanti - prenderò ad aggiornare tutti i mercoledì e tutte le domeniche. Di capitoli ce ne saranno ancora un po', e comunque è sempre meglio che io non lasci le storie a sedimentarmi nelle vicinanze: va a finire che poi ci rimetto le mani e la forma non mi piace più, e c'è un personaggio che no, forse potrebbe essere fatto meglio, e qualcosa che vorrei riscrivere... Insomma, sempre meglio scrivere e pubblicare subito. xD
Tra l'altro sono a mia volta in piagnucolosa attesa del seguito di almeno due storie di suni, per cui capisco benissimo il desiderio del seguito e della conclusione.
Su Itachi: non so, io ho una mia teoria su Itachi, su Shisui, su Madara... ma è una teoria che comparirà tra qualche capitolo, per cui per ora la tengo per me. xD Io non seguo le scansioni del manga dall'estero, ad ogni modo, e leggo esclusivamente la serie così com'è pubblicata in Italia, ragion per cui se tra un numero, due, dieci, le mie ipotesi venissero confutate, be', non sono una veggente. Non ancora. Ci sto lavorando su, comunque.
Grazie ancora per tutti i complimenti e per la costanza con la quale mi lasci pareri e saluti. ^^

mangaka94: Anche io adoro Kisame. Tanto, tanto, tanto. Kisame che litiga con Gai nel manga è assolutamente geniale. xD Forse è il personaggio che più amo tra quelli di Alba. I capitoli, salvo cataclismi, li pubblico tutti i mercoledì: e, dalla prossima settimana - sempre per quella storia dell'hard disk rotto - anche tutte le domeniche, per cui spero sarai soddisfatta. ^^ A presto!

fonte immagine: Google immagini

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 9. rosso ***




9. rosso



Il sangue in una pozza sulla terra arida.
Inciampa nel braccio di qualcuno e non abbassa il capo per controllare di chi sia, amico o nemico, perché tanto è solo un braccio, niente corpo, e non può farle danno alcuno.
Sulla sabbia il sangue è bruno. Sulla roccia è rosso. Secco e colloso, grumoso sotto ai piedi, si ingoia i suoi sandali con suono di nauseante risucchio. Non ricordava che avesse un odore così, come metallo, ruvido. Sa di lame. Sa di panico e di terrore e del fetore che hanno i corpi morti, i corpi con lo stomaco aperto, le gole squarciate, acido e rancido e liquami, è l'odore della guerra.
Cammina tra i morti e nella sua testa c'è una voce che le urla a tutta forza
troppo tardi, troppo tardi, tu che sei Tagliavento, più veloce del suono, più veloce del fulmine, tu sei arrivata troppo tardi.
Sente la propria voce chiamare:
- Mizuki? -
E quella voce esce come una preghiera.


Hanako si lavò la faccia, due volte, con l'acqua fredda del lavabo. Avrebbe voluto potersi sciacquare anche le spalle e il collo, ma, non avendo potuto chiudere la porta del bagno per non dare ragione alcuna ai due nell'altra stanza di insospettirsi, non aveva voglia di sciogliere la veste.
Si tamponò il viso bagnato con un asciugamano, sentendo il sangue pulsarle dolorosamente nelle tempie.

Il sangue in una pozza sulla terra arida.
La voce come una preghiera.
- Mizuki? -
Non riesce a trovarla. Non riesce a trovarla, ma sa che dev'essere lì. Gliel'hanno detto. Gliel'hanno detto,
loro, che li hanno mandati lì, e lei ha chiesto – Perché io no? - e loro hanno detto che quelli erano stati gli ordini del Kazekage, lei da una parte e gli altri dall'altra, perché c'erano due missioni da terminare entro tre giorni.
Sono morti.
Non riesce a smettere di ripeterselo.
Sono tutti morti.
Mugola, sentendo improvvisamente il calore del sole farsi un supplizio, una canicola intollerabile sulla sua testa che brucia e duole per l'emicrania, l'emorragia e le ferite, l'odore del sangue più vivo in tutta quell'arsura.
- Mizuki. - Chiama ancora, prega. - Mizuki, Mizuki. -
Mette un piede in fallo. Ha una gamba rotta: l'ha sanata malamente, nella fretta di correre fin lì, e adesso il ginocchio sembra in procinto di scoppiarle nella carne. Scivola nel sangue e finisce carponi, le ginocchia nella pozza, le mani nella pozza.
Guarda avanti a sé e vede gli occhi di un cadavere fissarla. La guarda. La guardano tutti. La guardano e lei si ripete
è un incubo, è solo un incubo, ma sa che stavolta non ci sarà Mizuki a svegliarla.
- Mizuki! -
Tra i cadaveri ci sono anche loro, Squadra Speciale di Suna, quelli che il Kazekage ha mandato in guerra.


Avrebbe voluto potersi strappare da dentro i pensieri. Potersi tappare le orecchie e smettere di sentire, tappare gli occhi e smettere di vedere, ma vedeva e sentiva sempre, anche dormendo, perché tutto quel che accadeva era solo nella sua testa.
Si strofinò il viso con veemenza, soffocandosi quasi nell'asciugamano, sentendo il sapore acido della bile montarle in gola.
Non vomitare di nuovo. Si supplicò. Non vomitare di nuovo, ti prego. Non aveva più nulla, nello stomaco, che potesse essere buttato fuori.

Il sangue in una pozza sulla terra arida.
Fino a quel mattino la Squadra Speciale di Suna era stata formata da sette membri. Lei li conta, passando tra i corpi, quando riesce a distinguerli dai cadaveri dei nemici.
Uno. Due.
Tre e quattro: i pezzi si sono un po' mischiati, ma riconosce il simbolo su una giubba, il coprifronte su una testa devastata.
Cinque.
- Mizuki...? -
La chiama, ancora, perché lei manca all'appello, e Hanako riesce a stento a non cercar
si in mezzo ai cadaveri, chiedendosi dove sia il suo corpo, perché se c'è quello di Mizuki, lì in mezzo, lei vuole che ci sia anche il suo...
- Mizuki... Mizuki... Mizuki... -
E' un mugolio a interromperla: un mugolio e un lamento, come un'eco che si perde tra le rocce bianche e tra tutto quel sole, atroce, senza un filo di vento a smuovere l'aria. C'è l'ascia, piantata nella sabbia, Hanako la vede prima ancora di sentire il lamento.
I suoi occhi si fissano sul filo azzurro,
Falciacqua, grida la sua testa, quell'ascia è parte della sua danza, Falciacqua, grida ancora, Falciacqua, Falciacqua...
- Mizuki?-


Era già sulla porta, il volto asciugato più fresco e più disteso, la sensazione di nausea quasi quietata, quando l'ultima scheggia di ricordo le arrivò addosso: come una pugnalata, come un colpo di frusta o uno schiaffo, come si fosse conficcata nella sua testa. Barcollò e si appoggiò allo stipite, puntellandosi con una mano per non finire per terra.

Il sangue in una pozza sulla terra arida.
Nella pozza, l'ascia.
Aggira le rocce, lentamente, e quando le rocce sono finite c'è di nuovo sabbia aperta e sangue, di fronte a lei, e il vuoto del sole senza vento. Nel vuoto, gli occhi azzurri sono come sospesi al di sopra del corpo sfasciato e rosso, tanto rosso, rosso come niente al mondo tranne tutto quell'orrore può essere.
- Mizu...? -
Stavolta non è una preghiera. Stavolta è un urlo. Un urlo sottile come un bisbiglio, perso come un respiro in pezzi, ma dell'urlo ha tutta l'angoscia rotta e vuota, tutta la disperazione cieca del vedere l'azzurro perdersi via, il suo azzurro, Mizuki, del vedere i pezzi e il sangue e non riuscire a vedere nient'altro e pensare che non vedrà nient'altro, mai più, per tutta la sua vita, che non sia quei pezzi e quel sangue.
Mizuki la guarda. La guarda, e si vede che sta male, perché è pallida e tesa, con una specie di schiuma rossa che le bagna le labbra e scorre sul collo, ma la voce che tira fuori è dolce e chiara come il tè di Mizuki, limpida come l'acqua degli occhi, Mizuki, pulita come le sue liquide mani, Mizuki, Mizuki, anche se Mizuki sta morendo:
- Perché sei qui, Hanako? -
Perché Mizuki sta morendo.
- Mizuki. -
E, la testa di Hanako adesso lo grida in una litania assordante, lei è arrivata
troppo tardi, troppo tardi, troppo tardi, troppo tardi, troppo tardi...

Nella stanza, se ne accorse non appena ci mise piede, il gigante con il sorriso da squalo, Kisame Hoshigaki, non c'era più. C'era solo il ragazzo pallido, Itachi, ancora seduto sul letto nella medesima posizione di grazia insieme indolente, perché noncurante, e rigida, perché risultato di quei lunghi anni nei quali quella posizione era stata preparata, che la osservò per un attimo prima di affermare:
- Sei verde. -
Be', tante grazie. Avrebbe voluto rispondergli lei, inacidita dalla sensazione di avere ancora la bile in bocca, nauseante, il sapore del proprio panico. Tante grazie, acuto osservatore, lo so da me!
- Posso andar via? - Chiese invece. Le sarebbe piaciuto tirar fuori una voce ferma, ma invece ne emerse una debole e vagamente tremolante. Anche le ginocchia le tremavano ancora.
- No. -
Netto e reciso. Praticamente inattaccabile, ma lei ci provò lo stesso:
- Per cortesia... - Esclamò, il tono esausto. - ... vorrei tornare in camera. -
- Siediti. -
Inaffrontabile.
Scivolò sulla poltrona di vimini sentendo quasi con gratitudine il piano rigido sostenerle le gambe, andando a sostituire i muscoli che non parevano in grado, al momento, di riuscirci da soli. Lo guardò con una specie di rancore infelice negli occhi, perché era stanca, voleva dormire, voleva Mizuki, nei suoi sogni, che l'abbracciasse e la cullasse e le preparasse il tè, voleva solo chiudere gli occhi e non pensare più a niente e non ricordare più niente che non fosse la Mizuki dei giorni in cui erano state vive tutte e due, e tutte e due avevano avuto ancora la speranza di poter avere una vita un po' meno da schifo.
Lui ricambiò quello sguardo con il proprio: perfettamente neutrale, lei non riusciva a trovare migliore definizione, neutrale e impermeabile a tutto.
Rimasero a guardarsi in silenzio e, dopo un po', lei tirò su le ginocchia e si rannicchiò contro lo schienale, come sempre, per star più comoda e sentirsi maggiormente a proprio agio. Dubitava, a questo punto, che lui le avrebbe chiesto di spogliarsi o di sdraiarsi o di fare qualunque cosa che avrebbe fatto sembrare un po' meno inutile il fatto che lui e il suo compagno avessero fatto salire una prostituta nella loro stanza, ed era profondamente grata per questo, perché al momento il pensiero le pareva assolutamente intollerabile.
- Perché l'hai fatto? -
La domanda la tirò fuori da un groviglio di pensieri dove l'irritazione si mescolava contraddittoriamente al sollievo. Sbatté le palpebre, tornando a mettere a fuoco gli occhi scuri del ragazzo:
- ... come? -
- Era il tuo dovere. - Osservò lui, oziosamente. - Perché l'hai lasciato? -
Hanako rimase per un attimo senza fiato. Era sconcertata. Allibita. Esterrefatta. Esterrefatta, perché quel che aveva davanti era un traditore, feccia, e a lui prima di tutti cosa doveva importare del dovere? Lui che l'aveva abbandonato e tradito, lui che doveva aver lasciato il proprio villaggio, perché aveva un simbolo, sulla fronte, spaccato in due...
E poi si disse che forse era quello.
Spaccato in due.
Forse si sentiva spaccato in due.
Forse pensava d'aver commesso un errore. Forse quell'errore l'aveva commesso perché aveva quattordici anni, non altro. Forse si era già stancato di essere un traditore, di essere in fuga, di passare le notti in un posto morto com'era Idomizu invece che a casa con i suoi.
- Perché era un dovere sbagliato. - Bisbigliò lei. - Perché i villaggi che mi facevano distruggere spesso non contenevano guerrieri, ma uomini e donne, e bambini, che non potevano difendersi. Perché quelli che mi facevano torturare urlavano e piangevano, ed io li vedo anche adesso, quando chiudo gli occhi, la notte. - Inghiottì a vuoto. - Perché quando accettiamo di essere l'arma di qualcuno dobbiamo essere ben sicuri di rispettarlo, questo qualcuno: ed io avevo un padrone che odiavo e disprezzavo. Il Kazekage è un animale che ha distrutto le terre ai confini per dissuadere una nazione di contadini e di pastori dal fornire aiuto al Paese delle Rocce. Il Kazekage è un animale con un figlio di otto anni che ha un mostro, nella pancia, che il suo stesso padre gli ha cacciato dentro. -
Abbassò lo sguardo, di nuovo, cacciando la testa tra le spalle come volesse nasconderla:
- Ho molte ragioni per credere che sarebbe più utile a Suna da morto. -
- E pensi di avere il diritto, tu, di giudicarlo? -
La domanda di Itachi le fece sollevare il capo bruscamente. Inclinò la testa da una parte, l'espressione interrogativa, e lui le spiegò:
- Sei solo una ninja. Il tuo dovere è obbedire, non pensare. Non obiettare agli ordini. Non mancare al tuo dovere. Pensi di avere il diritto di giudicare chi è sopra di te? -
- Certo, sì. -
Candidamente, puramente.
Non poteva giurare di averlo visto sorpreso: ma, di sicuro, il ragazzo pallido pareva in qualche suo strano modo un poco meno impassibile.
- Certo. - Ripeté lei, più piano. - Perché sono io a doverli eseguire, quegli ordini. Sono io a doverci convivere. Sono io a dover seppellire i miei compagni, ad abbandonarli, a lasciarli morire, tutto per il mio dovere. Sono sempre, sempre, sempre io. Per cui ho il diritto di giudicare. Ho il diritto di capire. -
Forse si era ammutolito per rimuginare su quel che lei aveva detto. Forse l'aveva offeso. Forse, molto semplicemente, si era annoiato. Fatto sta che, da quel momento in poi, rimasero in silenzio.
A lei pareva divenuta una specie di abitudine, come una ricorrenza: che se ne restassero così, lei sulla poltrona, lui sul letto, anche se stavolta entrambi seduti, a guardarsi e a scivolare un po' alla volta in un torpore lento e greve, dato dalla stanza calda, dal silenzio, dalla penombra.
Hanako si trovò a ingaggiare un'ardua lotta con le palpebre che le si facevano pesanti. Smise di combattere, tuttavia, quando lui aprì bocca ed affermò:
- Puoi dormire. Vuoi sdraiarti? -
Lei pensò per un attimo di rispondere no e per un altro attimo di domandare posso tornare in camera?, ma aveva caldo e aveva sonno, e dopotutto il ragazzo pallido, Itachi, era una compagnia migliore di quella dei morti e degli incubi. Non le faceva più paura.
- Sì, per favore. -
Lui si alzò in piedi: come tutto quel che faceva, anche quel semplice movimento apparve aggraziato e lieve, nessun suono quando posò il piede per terra, nessun fruscio di stoffa quando lasciò il letto.
- Mettiti qui. -
Hanako gli obbedì. Si raggomitolò sopra le coperte, tirandosi, ancora e ancora e ancora, le ginocchia verso il petto nella sua posizione di difesa, le mani strette a pugno davanti al viso e la testa sul cuscino.
Sbatté le palpebre, ciglia levate, ciglia abbassate, aprendo e chiudendo gli occhi e guardando verso il ragazzo in quel suo apri e chiudi da sonnolenza pesante.
Lui si era seduto sulla poltrona, ora, nella stessa posizione che aveva mantenuto sul letto: ma teneva le mani in grembo, le dita giunte, ed aveva lo sguardo fisso nel vuoto.
Cosa vede...?
Occhi chiusi, occhi aperti. Hanako scivolò nel sonno.

Si svegliò quando li sentì muoversi.
Non è che avessero fatto rumore, perché anche il gigante, malgrado la sua mole a dir poco notevole e quella specie di tronco d'albero letale che si portava sulle spalle, si muoveva con il suono ovattato delle ombre e degli incubi: era solo che lei era una ninja, lo era stata e lo era anche ora che era chiusa nell'Heya, lo era malgrado non volesse più esserlo e malgrado non dovesse più esserlo, era una ninja ed era stata preparata per sentire i movimenti ancor prima dei suoni. Per cui li sentì.
Aprì gli occhi, mettendo a fuoco la stanza dove non c'erano più lumi accesi, ma solo la debole luminosità di un'alba pallidissima.
Vide la più minuta delle due figure intabarrate nel pastrano nero muovere verso di lei e fermarsi accanto al letto: la guardò, gli occhi ancora annebbiati, far sparire una mano all'interno della stoffa.Una tasca, realizzò lei. Associò il gesto ad un ricordo e protestò, improvvisamente, la voce sottile e confusa di sonno:
- Non le voglio. - E poi, senza alcuna vergogna, perché la vergogna era ancora persa da qualche parte nel suo dormiveglia: - Ne voglio solo una, per favore. -
La mano pallida ed elegante si fermò. Rimase immobile per un lungo istante, dando quasi l'impressione d'appartenere ad un corpo di pietra, prima di tornare mobile e viva: riemerse dalla tasca con una moneta, una ed una sola, che lasciò cadere sul letto.
- Dormi. -
Suonava come un ordine.
Lei annuì docilmente, tornando a rannicchiarsi sul letto, sprofondando tra le coperte e sentendo il nodo disfatto di capelli scioglierlesi un altro po' attorno al viso, caldo e torpido, stava bene nel suo bozzolo.
- Buon viaggio. - Augurò loro, la voce impastata.
Udì una risata bassa e tonante, più un ghigno che una risata pulita, la risata dell'uomo dal sorriso da squalo. La porta si richiuse loro alle spalle.

Si rese conto, rigirandosi nel caldo involto di stoffe pesanti, piacevole, perché di giorno il deserto era rovente, ma di notte era gelido, che non era stata lei a buttarsi addosso la coperta.
Si chiese chi dei due fosse stato: il gigante feroce che avrebbe voluto farla a pezzi, lei, Tagliavento, e che però dopotutto non l'aveva fatto, oppure il giovane pallido che tanta pena le faceva, pena e compassione, con le sue unghie dipinte e il suo coprifronte scheggiato, con la sua freddezza da assassino e le sue domande da ragazzo.
Pensò che era buffo. Feccia e traditori, però lei si sentiva, dopo quella notte e per la prima volta da mesi, quasi simile ad un essere umano.

Strinse la moneta.
Nel buio l'avvolse tra le dita sottili e lasciò che le si intiepidisse contro la pelle. Pensò alla moneta, l'altra, che teneva nella cintura. Si disse che era buffo anche quello. Poi si disse che non era poi tanto buffo, perché era una sensazione calda e profumata.
E che sapeva di arance.

Nel buio ricordò la mano pallida che le aveva lasciato cadere accanto quella moneta: c'era stato un anello ad un dito che la prima volta, lei ne era sicura, non c'era.
Rosso, c'era scritto sull'anello.
... buffo anche quello.

Sarebbero trascorsi tre mesi, dopo quella volta, prima che lui tornasse.





Note

Ormai comincerò a suonare ripetitiva, ma come tutte le volte un enorme grazie a Salice per le correzioni a tutto ciò.

Il prossimo capitolo è uno dei miei preferiti, ma non vi dico perché. So che avevo promesso di aggiornare anche la domenica, ma il mio hard disk è stato dichiarato ufficialmente deceduto e non ho fatto in tempo a preparare l'immagine.

Grazie a tutti quelli che leggono - e soprattutto a chi si ferma a perdere cinque minuti per lasciare un commento, mi fanno sempre molto contenta - e un grazie a chi ha messo la storia tra i preferiti, tra le seguite, o ci ha messo me, tra i preferiti. xD

Rohchan: Ah, mio povero povero povero Kisame, il nostro allegro ragazzo pesce. ç.ç Io gli voglio bene. Tanto bene. Lo adotterei a distanza, come Madara. Danzo magari no, però per Madara sì, potrei fare un'eccezione alla mia regola del "niente pazzi omicidi sterminatori di famiglie in giro per la casa", soprattutto per la Tobi-versione. Tanto gli voglio bene, al povero Kisame, che Sal è quasi riuscita a convincermi a scrivere una storia solo su di lui. Dico "quasi" perché al momento l'impresa mi sembra inaffrontabile. Grazie davvero per i complimenti, me ne fai sempre troppi! *_*


fonte immagine: Little_Red_Riding_Hood__COLOR__by_JerryCai

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 10. nascondino - preludi ***




10. nascondino - preludi



Attraversa il corridoio con estrema cautela, i passi da gatto che posano prima la punta dei piedi sul terreno, poi il bordo esterno e allora e solo allora i talloni, nel più perfetto ed assoluto silenzio. Ha accarezzato per un attimo l'idea di passare dalla finestra, ma il pensiero di Mikoto che lo sorprende nel suo tentativo di fuga è stato un po' troppo anche per lui. Non vuole che anche sua madre cominci a nutrire seri dubbi sulla sanità mentale del proprio figlio più grande, già, sospetta Itachi, tenuta d'occhio con cautela da più parti: così gli rimane solo la porta.
Muoversi piano. Muoversi lentamente.
Si china a raccogliere i sandali davanti alla soglia. Indossarli lì o aspettare d'essere fuori? Meglio aspettare d'essere fuori. Meglio restare in casa il minor tempo possibile per non rischiare che...
- Itachi! -
E dannazione.
Non è nemmeno l'alba! Ma una volta non girava voce che i bambini dormissero, la notte? Non c'è più questa bizzarra consuetudine? Dormire? Stare a letto? E' troppo pretendere che non sgattaiolino tutte le sacrosante notti in giro per la casa, svegliando gli sventurati ai quali è capitato in sorte di far da fratelli maggiori, per poi ridestarsi al mattino e riprendere a inseguire i suddetti sventurati senza concedere loro un solo attimo di tregua?
Itachi si gira, inalberando il più severo dei suoi cipigli per adocchiare il fratellino. Il fratellino saltellante. Il fratellino saltellante e scalzo. E' stupefacente come abbia tanta energia, quello sgorbietto, anche a quest'ora indegna del mattino.
- Sei a piedi nudi. -
Il fratellino saltellante, scalzo e adorante.
Sasuke è nato con un'arma letale montata dritta dritta sulla faccia: un'arma che funziona solo su Itachi e, malgrado in apparenza non sembri, su Fugaku. Se Fugaku in presenza di Sasuke tende ad assumere per reazione l'atteggiamento di un orso scontroso e particolarmente suscettibile è solo perché Sasuke, inconsapevolmente, ha l'innata capacità di far sciogliere come un panetto di burro tutta la burbera dignità tanto magistralmente costruita in anni ed anni di quel che Mikoto definisce “l'atteggiamento alla Fugaku”.
Itachi, che tutti quegli anni di preparazione ancora non li ha avuti, e non è che ci tenga poi tanto ad averli, davanti a Sasuke si limita molto semplicemente a squagliarsi, senza nemmeno tentare di opporsi alla cosa.
E' inevitabile: basta che il fratellino lo guardi a quel modo, gli occhi spalancati per l'aspettativa e l'entusiasmo, per fargli passare qualunque voglia di dirgli di no. Sasuke vuole l'arancia in cima al terzultimo ramo da sinistra dell'albero più alto? Sasuke avrà la sua arancia. Sasuke vuole dormire con lui perché ha paura di star solo la notte? Sasuke gli pianterà i gomiti e le ginocchia nei fianchi e nelle gambe, costringendolo a svegliarsi con un'invidiabile collezione di lividi più o meno violacei, ma Sasuke dormirà con lui. Sasuke vuole una storia? Itachi odia raccontare storie. Lo odia quasi quanto odia che qualcuno gli dia del genio, però racconterebbe tutte le storie che Sasuke vuole, pur di accontentarlo.
Desidera solo che Sasuke sorrida. E' una delle poche cose per le quali vale la pena di alzarsi al mattino: star svegli e far sorridere Sasuke.
Sasuke, al suo rimprovero, si limita a strofinare un po' i piedi nudi l'uno contro l'altro, tirando su con il naso con la massima disinvoltura concessa dalla situazione prima di imperversare:
- Giochi con me, Itachi? -
Eccola qui, l'arma letale di Sasuke che punta su di lui, occhioni sgranati ed espressione supplichevole. Recuperare la forza per dire di no pare che a Itachi diventi sempre più difficile di giorno in giorno.

Itachi Uchiha ha passato i primi due anni di vita di Sasuke a sforzarsi di divenire imbecille per cercare di interpretare i bavosi gorgoglii del fratellino nel tentativo di capire cosa, precisamente, il moccioso volesse richiedere con ciascuno dei suoi sputacchianti versetti. I successivi tre sono trascorsi inseguendolo quando si dava gattonando alla fuga nel cortile di casa, puntando con inarrestabile entusiasmo verso il profondo laghetto nel bel mezzo del giardino, acchiappandolo prima che rotolasse giù dalle scale per aver messo, per l'ennesima volta, il piede in fallo, mettendo toppe a ginocchia sbucciate e facce graffiate.
A prescindere dalla profondità della ferita e dall'entità del danno, Sasuke non piange mai. Mai. Non piagnucola nemmeno. Se ne sta lì a farsi ricucire e sistemare, seduto sulle ginocchia del fratello con le manine aggrappate alla sua veste e l'espressione gongolante di chi ha appena conquistato una specie di tesoro e non ha la benché minima intenzione di lasciarselo sfuggire, proprio no.
Aveva quattro anni il giorno in cui era caduto in giardino, dove Itachi si stava allenando nel lancio dei kunai, e la mano gli era finita proprio sopra ad una delle lame cadute a terra. Sasuke si era rialzato da solo e si era guardato il braccio, con la punta che era passata attraverso la pelle bianca del palmo e l'estremità inferiore che sporgeva, adesso, penzolando.
Subito dopo non aveva fatto quel che qualunque bambino normale avrebbe fatto in una situazione simile, ossia scoppiare in lacrime e chiamare la mamma, forse il papà, qualcuno, insomma, che lo potesse consolare: senza una parola, Sasuke aveva invece cercato con gli occhi il fratello.
Il quale fratello, alla vista di tutto quel sangue sulla mano del bambino, si era sentito pericolosamente prossimo alla prima crisi di panico della propria compassatissima vita.

- Giochi con me, Itachi? -
- I miei compagni mi aspettano, Sasuke. -
Tutta la luce degli occhi sgranati pare affievolirsi e tremolare come una candela esposta ad uno spiffero, e Itachi trova che sia puramente intollerabile.
- Sasuke ... -
Trema, Itachi, pensando al giorno in cui Sasuke diverrà consapevole dell'influenza che esercita su di lui.
Si china e batte un colpetto lieve sulla fronte del fratellino, in mezzo agli occhi, con la punta di medio ed indice: è un tocco che fa socchiudere le palpebre al bambino, con una smorfia che è insieme infastidita e contenta, perché a Sasuke piace, dopotutto, che lui faccia così. E' un gesto solo per loro due, ed il mondo ne resta fuori.
- ... torno nel pomeriggio, d'accordo? Possiamo giocare prima di cena. -
Ed eccola lì, di nuovo, tutta quella luce bella e candida negli occhi scuri che sono come i miei, Itachi lo desidererebbe tanto, anche se già capisce, Itachi, dalla vecchiaia dei suoi undici anni da genio, che i suoi occhi non sono quelli di Sasuke: non ne hanno il candore e l'innocenza, non ne hanno la purezza né la meraviglia.
Sasuke cerca di arrampicarglisi addosso, piantandogli un piede sul ginocchio e cominciando la scalata della sua maglia. Gli sfila, impigliandocisi, una manica della giubba da chunin, e Itachi trova sia più conveniente acchiappare il fratellino per la collottola e aiutarlo ad issarglisi in braccio prima che finisca di spogliarlo del tutto. Il bambino emette un verso di soddisfazione e gli si appallottola addosso:
- Giochiamo a nascondino? -
Nascondino significa tornare a casa dopo una giornata di esercitazioni massacranti, prendere lo sgorbietto ed andar fuori a correre fino a quando Mikoto, pietosamente, non li richiamerà dentro entrambi per cena. Nascondino significa fingere di giocare e contemporaneamente star dietro a Sasuke, per evitare che finisca con la testa a mollo in una pozzanghera, con un piede in una buca, che inciampi in una radice o si faccia male in un altro mezzo milione di modi differenti, perché il cucciolo di infame ha una specie di abilità innata nel causarsi danni.
- Vada per il nascondino, Sasuke. -
L'idea migliore sarebbe piantare lì il fratellino prima che l'adorabile mostriciattolo si faccia venire in mente qualche altra idea delle sue: però è scalzo, il fratellino in questione, ed ha la tendenza ad ammalarsi per molto, molto poco.
Itachi sale le scale con Sasuke aggrappato al collo. Apre la porta con la punta di un piede e armeggia con una mano sola per scansare le coperte dal letto. Caccia al caldo ed al sicuro il fratello, rimboccandogli il piumone fin sotto la punta del naso.
- Sta' qui, adesso. D'accordo? Torno stasera. -
- E giochiamo a nascondino. -
Inarrestabile, il bimbo. Itachi fa un sorriso che è più un ghigno, divertito:
- Sissignore. -

A Itachi non importa di non essere più un bambino. Il suo tempo da bambino è finito quando lui aveva quattro anni: è finito nella guerra, che ha seminato una scia di morti ed ha concluso insieme un'epoca e la sua infanzia; ancor prima è finito in quella parola, genio, ed è finito nell'aspettativa tesa e ingorda che accompagna lui e Sasuke sin dalla nascita.
A Itachi non importa di non essere più un bambino. Ha dimenticato com'è essere privi di pensieri e di pesi, e non ricorda d'aver mai avuto un sorriso bellissimo, raggiante e perfetto come quello che Sasuke è capace di offrire.
A Itachi non importa di non essere più un bambino. Però ucciderebbe, lo sa, perché a Sasuke potesse essere permesso di restarlo il più a lungo possibile. Sarà un po' come esserlo al posto di entrambi.
No?





Note

Il solito grazie a Salice che, come se non avesse letto questa roba tante volte quante l'ho letta io, continua a recensire. Ma noi facciamo finta di niente, sì?

Un ringraziamento particolare a chi segue questa storia e si ferma cinque minuti a lasciare un commento.
Sto lavorando nuovamente alle immagini (argh, le mie povere immagini!) e sono riuscita ad aggiornare stasera: l'aggiornamento della settimana si dividerà da qui in poi tra il mercoledì e la domenica. Dal prossimo capitolo comincia uno dei pezzi che più mi hanno fatta dannare: ma io non ho detto niente! U.u

Salice: No, ti prego, Sal. xD Dedicami tutto quel che vuoi - soprattutto quello che scrivi sulle scatole di cartone - ma QUELLA storia no. Ti imploro. "Attorcigliante" mi piace. xD Due gradini sopra "snervante" e "infastidente", per non parlare poi di "disturbante". Smack! *_*
abcdefghilm: Ti capisco benissimo, in periodo di studio respirare è fatica, tutto il resto è anche peggio! Sono contenta ti piaccia quel che scrivo. ^^ Per quanto riguarda Itachi, forse è stato lui, forse è stato Kisame, io non lo so. xD Non lo sapevo neanche scrivendo, mi piaceva lasciare il tutto in sospeso. A presto e in bocca al lupo per lo studio!


fonte immagine: uchiha_brothers_by_shel_yang

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 11. capelli ***




11. capelli



Pioveva di nuovo, ininterrottamente dal mattino, e non accennava a smettere ancora. Pioveva come un pianto lieve di acqua grigia nel deserto, e le gocce tracciavano strade traslucide sulla finestra.
Seduta sul davanzale, Hanako soffiava sui vetri e disegnava nella scia di vapore lasciata dal proprio respiro. Tracciava l'ideogramma di rosso e poi quello di acqua, lasciando che le gocce d'umidità addensata colassero a cancellarli e a mescolarli.
Era tardo pomeriggio: ogni tanto il sole si affacciava oltre uno sbuffo di nuvole color del piombo a rischiarare per un attimo la pioggia e Idomizu. Piaceva, ad Hanako, il diafano arcobaleno che appariva così, sospeso come un ponte a metà tra il cielo e la terra.
Rosso, scrisse ancora con le dita.
Tra le sbarre liquide dell'ideogramma vedeva la strada che portava ad est. Erano in parecchi a muovere sulla via, quel giorno: lei sapeva che c'era stata una battaglia intorno a Kusa dell'Erba, e i profughi non potevano che percorrere quella strada, per cercare di fuggire, o tentare il percorso che conduceva al riparo di Konoha.
La sala al pianterreno andava già riempiendosi. Hanako avrebbe dovuto cominciare a scendere, lo sapeva, ma il vetro freddo contro la testa, la pioggia negli occhi, era tutto molto piacevole, e voleva averne ancora un po'.
Tra i viandanti spiccavano le vesti scure e sobrie del Paese dell'Erba, gli enormi cappelli intrecciati di paglia incerata sui quali la pioggia scorreva lasciando le teste all'asciutto, i mantelli bruni tagliati appena sotto le ginocchia. Si vedeva il brillio di un coprifronte apparire e sparire, a tratti, quando il sole si decideva a far capolino tra la pioggia.
Mano a mano che si avvicinavano a Idomizu erano quegli strani cappelli, così esotici a Suna, a divenire evidenti più di qualunque altra cosa: dall'alto Hanako vedeva praticamente solo quelli, cerchi chiari bruniti dalla pioggia, che si muovevano con lieve oscillazioni. La maggior parte di essi proseguiva tagliando attraverso Idomizu e puntando con decisione verso ovest e verso Suna; pochi si soffermavano nella piazza, guardandosi intorno come spaesati, finendo poi per decidere di puntare verso la locanda o di andare avanti malgrado la pioggia e il buio incombente.
Gli occhi di Hanako si fermarono su un cappello un poco diverso dagli altri: più piccolo, il bordo era orlato da strisce di stoffa pallida che colavano pesantemente su una giubba nera. Attirò la sua attenzione per il modo in cui si spostava, con decisione, con sicurezza, e gli altri cappelli più incerti parevano aprirsi al suo passaggio.
Il cappello ed il suo proprietario tagliarono dritto attraverso Idomizu e si fermarono solo davanti alla porta della locanda.
Hanako si trovò a premere il volto contro il vetro, improvvisamente, e le sembrò d'avere acqua calda nello stomaco, acqua calda e morbida che arrivava fino al petto e le scaldava anche il respiro, quando il cappello si inclinò, piegandosi indietro, e un volto pallido perso in mezzo al nero apparve sotto l'orlo.
L'acqua calda dello stomaco sapeva di arance.

Sgattaiolò giù per le scale senza aspettare neanche d'esser pronta: finì tra un gradino e l'altro di incastrare le ciocche sottili tra i denti del pettine di legno, incurante del fatto che il nodo malmesso pendeva mestamente tutto su di un orecchio, controllando a tastoni d'avere indossato gli strati di vestiti nel modo giusto.
La sala era affollata sino all'inverosimile, l'aria resa quasi irrespirabile dall'odore e dal calore dei corpi premuti l'uno addosso all'altro, sistemati lungo le panche, sulle sedie, sul pavimento.
Noa già correva da un tavolo all'altro, e le rivolse un'occhiata di pura gratitudine quando la vide in cucina:
- C'è mezzo Paese dell'Erba, stanotte da noi! Hiroto non è ancora scesa? -
- Non l'ho vista. -
- Prendi... - Trafelata, Noa le cacciò in mano un vassoio pieno di ciotole di zuppa scura. - E' per la famigliola con quella schiera di bambini al seguito. Non avevo mai visto prima un bambino qui dentro! -
Hanako scivolò fuori dalla cucina. Scavalcò un gruppetto che, non trovandosi un tavolo libero neanche a pagarlo a peso d'oro, si era accampato per terra, scivolò alle spalle di un grosso omaccione che cercò d'afferrarla per la gonna per trattenerla, sfuggendogli tra le dita, e finalmente riuscì a deporre il vassoio al tavolo giusto.
- Zuppa di maiale. - Sorrise distribuendo le ciotole ai quattro bambini che, seduti lungo la panca in ordine crescente d'altezza, la guardavano ad occhi sgranati. - Buon appetito! -
Era tanto tempo che non vedevano un bambino, Noa aveva ragione. Quelli erano piccini, poi, graziosi e più curiosi che intimiditi, con le faccette sporche di fango; i genitori si presero i più piccoli sulle ginocchia, cominciando ad imboccarli mentre Hanako si allontanava.
Passò da una parte all'altra della sala, raccogliendo ai tavoli le ordinazioni, fermandosi in cucina quel tanto che serviva per prendere i piatti e portarli agli avventori. Non se ne parlava di far musica o di danzare, quella notte; non ce ne sarebbe stato nemmeno spazio, tra le altre cose, con gli ospiti accampati perfino sul pavimento.
Cercava con gli occhi, muovendosi, tentando di mettere a fuoco i visi nel caos che la circondava: c'erano tanti cappelli di paglia, tante vesti scure e tanti volti pallidi, quella sera, ma nessuno di essi era quello che cercava...
Devo essermi sbagliata, si disse. Sentì la delusione infilarsi a tradimento nella sensazione di calore piacevole che l'aveva mossa fino a quel momento. Oltre l'odor di arance che le aveva invaso la testa sentì il fetore del sudore e del fango, e fu d'improvviso intensamente consapevole della crocchia sfatta che le premeva su un orecchio.
Tornò in cucina con l'ennesimo vassoio vuoto, cominciando a riempirlo di piatti alla rinfusa ed ascoltando con un orecchio solo le indicazioni di Noa sui tavoli e gli avventori ai quali andavano le varie portate, perfettamente consapevole del fatto che la sua testa avrebbe registrato tutto anche se lei non vi avesse badato troppo.
Stava organizzandosi per impilare tre ciotole a piramide, per risparmiarsi spazio e un viaggio, quando Hiroto si affacciò in cucina:
- Hanako! -
- Hiroto! - Questa era Noa, sollevata come non mai. - Hiroto! Per fortuna sei arrivata... ti prego, abbiamo assolutamente bisogno che tu ci dia una mano! -
Hiroto mosse il capo, scrollando con una smorfia di aperto fastidio la massa rossa di capelli:
- Ah, dannazione! Se avessi voluto fare la cameriera sarei andata a lavorare a Suna, Noa... - E poi, poiché la bruna la guardava con un'espressione insieme supplichevole e disperata, con l'ennesimo sbuffo soggiunse: - E va bene, e va bene. Ti aiuto. Hanako, tu va' su, c'è un cliente che ti cerca. -
Il vassoio le tremò tra le mani e le ciotole scivolarono giù. Hanako realizzò il disastro che stava per causare esattamente mezzo secondo prima che si verificasse: assestò un colpo con la mano al vassoio per farlo finire al sicuro sul tavolo, prima di buttarsi a raccogliere le ciotole. Una con la sinistra, una con la destra, una in perfetto equilibrio nell'incavo del gomito. Alzò la gamba destra e si lasciò atterrare l'ultima sul dorso del piede, flettendo le dita all'indietro nella scarpa morbida per non farsela cadere.
Noa si lasciò sfuggire un ansimo sorpreso, guardandola, e Hiroto fischiò con la massima ineleganza:
- Accidenti, piccola... - E poi, ghignando: - Dovresti farlo più spesso, questo giochetto, e in mezzo alla sala: ci attireremmo un sacco di spettatori. -
Hanako mugugnò qualcosa di incomprensibile, prima di recuperare tutte le ciotole dalla loro precaria posizione e di deporle sul vassoio.
- Che cliente, Hiroto? -
- Non saprei. Uno con un gran cappello, ma è pieno di cappelli strani, stasera, quindi non è che faccia proprio la differenza. E' la 5, Hanako. -
Le dita erano salite a sistemare il nodo sfatto di capelli, rassettandolo nervosamente. Si rendeva conto di quanto stupido fosse, quanto stupido, idiota, insensato fosse, ma non riusciva a farne a meno.
- E' da solo? -
- Credo di sì. Ah, ricordati: ha detto di bussare, prima di entrare. -
L'odor di arancia tornò a riempirle la testa.

Non le venne ad aprire nessuno, stavolta. Al suo bussare una voce che fu il suo stomaco a riconoscere ancor prima delle sue orecchie, rimescolandosi come in una sensazione di piacere fuso, ordinò:
- Entra. -
Aprì la porta e sgattaiolò all'interno. La stanza era in penombra: c'era un solo lume acceso, che spandeva una luce fioca in prossimità alla porta. Il ragazzo dal viso pallido, Itachi, stava seduto sulla stessa poltrona di vimini della volta prima. Non guardava verso la porta, le dita intrecciate sul torace e lo sguardo perso nel vuoto: ma, all'ingresso di Hanako, girò il capo quel tanto che serviva per adocchiarla.
Lei gli rivolse un inchino piuttosto formale. Dopo un attimo di immobilità, lui ricambiò con un vago cenno del capo e niente più.
Nel silenzio della stanza la pioggia si sentiva distintamente: un tamburellare forte e onnipresente che sembrava colmare ogni angolo, scivolare sui vetri e sulle pareti, colare all'esterno e all'interno dei muri.
A guardarlo bene Itachi appariva ancor più pallido dell'ultima volta. Aveva occhiaie un poco più marcate, un volto un poco più assente. Le sembrò più snello e più simile al ragazzo ferito che l'aveva minacciata.
Non s'era ancora asciugato: l'acqua scendeva dai capelli, zuppi malgrado il cappello che ora era stato buttato da una parte, gocciolava sulla nuvole rosse della veste e si infilava a tradimento nell'ampio collo lasciato slacciato.
Hanako rimase immobile sulla soglia per un lungo istante: poi, senza una parola, si richiuse il battente alle spalle e andò dritta verso il bagno. Sentì lo sguardo del ragazzo venirle dietro e poté quasi percepire senza vederlo quello stesso sguardo corrugarsi nella perplessità, facendosi lievemente più teso: lo sguardo di chi si prepara anche all'eventualità d un contrattacco.
Con l'atteggiamento della massima naturalezza, perché lei sapeva che era la cosa migliore, sembrare tranquilla, comportarsi come se tutto andasse bene, accese la luce nel bagno e si lasciò la porta aperta alle spalle. Prese un asciugamano e tornò nell'altra stanza.
Muoversi con calma.
Cominciò ad aggirare Itachi, lentamente, fermandosi affianco alla poltrona: poteva ancora tenerla d'occhio, lui, così. Strinse per un attimo l'asciugamano tra le mani, l'incertezza lieve che le gonfiava lo stomaco, mescolandosi all'acqua calda che era riaffiorata tutto ad un tratto, calore e piacere, la sensazione di non essere vuota. Lo guardò e si accorse che sembrava incerto anche lui: non che avesse proprio un'espressione intera, no, ecco, era più un modo di piegare le labbra che dava ad intendere che non sapesse bene cosa aspettarsi.
E allora piano, gentilmente, lentamente, Hanako fece quel che Mizuki faceva sempre con lei: prese l'asciugamano e glielo mise tra i capelli, appoggiandoci le mani sopra per strofinare.
Lo sentì, più che vederlo, irrigidirsi e tendersi, le dita ancora intrecciate sul ventre che si serravano l'una all'altra. Un attimo d'immobilità da parte di entrambi. Fermi. Con le mani sepolte tra i capelli e l'asciugamano lei sentiva il profumo, arancia, forte e dolce, lievemente agro, buono, avrebbe voluto chinarsi per annusarlo da vicino, buono, avrebbe voluto fiutare quell'odore nel vento.
- Prenderete freddo. - Affermò, pianissimo.


- Non star lì fermo, Sasuke! -
Li ha sorpresi la pioggia sulla via del ritorno, dopo un intero pomeriggio passato nei boschi dietro al quartiere, appena fuori dalle mura di Konoha: un vero e proprio temporale da fine di estate, con tanto di passata di grandine, che li ha inzuppati da capo a piedi e li ha gelati fin dentro le ossa.
Sasuke se ne sta sulla porta del bagno, adesso, le mani strette attorno alle spalle e le labbra livide e serrate. Anche da quella distanza Itachi gli sente benissimo battere i denti.
Gli butta l'asciugamano più grande che c'è attorno alle spalle, spingendolo a sedere sull'orlo della vasca mentre gli sfila i sandali e gli caccia i piedi a mollo nell'acqua calda. Gli friziona la testa energicamente.
- Come va? -
- Be-be-benissimo. - Bofonchia il bambino, senza smettere neanche per un attimo di tremare.
Mikoto si affaccia sulla soglia del bagno. Itachi la vede fermarsi, sgranare gli occhi e poi sorridere e ridere, con i pugni premuti sui fianchi e i denti candidi tra le labbra rosse.
- Ma siete caduti nel lago? -
- No-no-non è di-divertente, m-m-mamma... - Balbetta Sasuke tra un brivido e l'altro, gettandole la migliore occhiataccia del suo repertorio: e che, se si vuole sommare all'effetto già non troppo minaccioso di quel visetto l'aspetto da pulcino spennacchiato che gli danno i capelli zuppi e sparati in tutte le direzioni, non risulta per nulla seria.
Itachi si siede accanto a Sasuke, prendendo a strofinargli le spalle per cercare di scaldarlo. Non ha bisogno di guardare verso la madre per vederla sorridere, per
sentirla sorridere mentre li osserva ed afferma allegramente:
- Finite d'asciugarvi in fretta, che intanto vado a prepararvi il tè. -
Il tè è la panacea di Mikoto: la sua soluzione a tutti i mali del mondo. Itachi sente i passi della madre nel corridoio, i piedi scalzi leggerissimi sulle assi di legno chiaro.
Si prende in braccio il fratellino, dopo un po', che continua a starsene fermo e inebetito come una specie di bambola di pezza. Itachi non è particolarmente alto né particolarmente robusto, tutt'altro: ma Sasuke sembra piccolissimo, tra le sue braccia, delicatissimo.
Se lo tira contro, preso da un'improvvisa, insana paura che possa star male, il bambino, che si possa ammalare, che non smetta di tremare:
- Prenderai freddo... - Afferma, quietamente. - ... se non ti asciughi.-



Fermi. Fermi ancora per un po'.
Poi, Hanako piegò le dita: cauta e delicata, quasi avesse paura che un gesto anche poco più forte potesse causare una reazione violenta. Faceva un movimento alla volta: strofinare la nuca, tamponargli il collo. Passare le ciocche tra i bordi dell'asciugamano, stupendosi di quanto fossero lunghe e sottili, come una chioma di donna, leggere come la seta lieve delle proprie vesti da farfalla viola. Sciogliergli i nodi con le dita.
Mizuki faceva sempre così dopo che si erano lavate. Lo faceva con delicatezza, perché in genere era proprio dopo il bagno che Hanako era più fragile, fragile come vetro, insopportabilmente prossima a frantumarsi in pezzi.
Hanako entrava nel bagno lorda di sangue e ne usciva più o meno pulita, più o meno lavata, niente grumi tra i capelli e niente schizzi sulle mani, ma sentendosi sporca dentro in una maniera irrimediabile. Mizuki allora la prendeva, la faceva sedere e l'asciugava. Un po' alla volta, strofinando la pietra di vetro in cui Hanako si trasformava, faceva riemergere prima il calore, poi la mobilità, poi la sensazione di avere a che fare con un corpo vivo.
Anche così, anche adesso, il ragazzo pallido sembrò ammorbidirsi.
Si allentò impercettibilmente sulla poltrona, lasciandola fare e permettendole di togliergli il coprifronte per asciugare anche la frangia malamente tagliata. Lei glielo appoggiò sulle ginocchia, quel rettangolo di stoffa e metallo scheggiato, senza che il ragazzo avesse fatto nulla per trattenerla o aiutarla: pareva inerte tra le sue mani come roccia appena flessibile.
Se ne stettero così per un bel po': poi, tutto ad un tratto, lui alzò la mano e le bloccò il polso. Lei si fermò di nuovo. Il ragazzo la lasciò andare e si mise in piedi, prima di accennare con il capo alla poltrona di vimini:
- Mettiti seduta. -
Hanako gli obbedì. Itachi lasciò la stanza, entrando nel bagno.
Con lo sguardo fisso davanti a sé, l'asciugamano umido ancora tra le mani, Hanako sentì l'acqua scorrere, poi un suono umido e pesante di stoffa zuppa che viene smossa, e capì che si stava spogliando. Chinò il capo per guardarsi le ginocchia: non s'era quasi resa conto d'averle sollevate, ma adesso se le trovò davanti al petto a farle da scudo, rassicuranti, e si sentì meglio. L'asciugamano aveva conservato l'odor di arance.
Si schiarì la voce, domandandogli senza guardarlo:
- Volete mangiare? Debbo scendere a prendervi qualcosa? -
- No. -
Ingloriosa fine di un tentativo di conversazione.
Hanako continuò a sentire l'acqua scorrere nel bagno fino a quando Itachi non ne emerse. Alzò lo sguardo su di lui, allora, scoprendo che nel frattempo si era cambiato. Senza quell'inquietante, assurda, tunica nera e rossa pareva tornare all'età che aveva: quattordici anni, aveva detto Kisame Hoshigaki. Ebbene, quattordici anni li dimostrava: né uno di più, né uno di meno.
Il ragazzo camminò fino al letto che aveva occupato anche l'altra volta, lasciandosi cadere seduto e appoggiando il dorso alla parete alle proprie spalle. Tese una mano verso di lei, facendole segno di avvicinarsi.
Ad Hanako non passò nemmeno per la testa di rifiutarsi: molto semplicemente il pensiero non la toccò, non la sfiorò, non venne generato da nessuna parte del suo cervello, neanche da quella che ogni tanto sibilava ancora, freddamente, feccia, e si alzò in piedi e si avvicinò fiduciosamente.
La mano del ragazzo sfiorò appena la sua, passò oltre, le afferrò un polso. La strattonò verso di sé senza violenza e senza forza, inutili, ad ogni modo, perché Hanako non cercò nemmeno di ritrarsi: si lasciò accomodare come una specie di bambola, seduta con le gambe distese sotto ad una di quelle di lui, piegate, il corpo tra le sue ginocchia e un fianco appoggiato al suo torace.
Una minuscola frazione della sua testa, tornata improvvisamente in attività, registrò che era caldo davvero e che profumava sul serio di arance, non solo i capelli, ma anche il viso, il collo, le mani, le braccia... Un odore buono. Pulito.
Sentì che le sfilava il pettine dai capelli e che glielo lasciava cadere in grembo, prima di passare con le dita tra le ciocche sciolte, sottili e fini. Ci metteva una delicatezza lieve che sembrava strana, in lui, ma poi neanche troppo.

Bisogno.
Itachi lo sente come una specie di bisogno, quasi fisico, bisogno a pelle e non nella testa, bisogno di sentire qualcosa, qualcuno, umano e morbido e lieve, qualcuno che non abbia ragione di odiarlo, che non desideri fargli del male, qualcuno che non abbia paura di lui, qualcuno che sia gentile.
Lei è pallida e leggera proprio come una nuvola, una nuvola da pioggia, una nube primaverile. Sa di miele. Si chiede se saprebbero di miele anche le sue dita, ora che gliele ha passate tra i capelli: sono più lunghi di quanto sembrasse, più lunghi di quanto paia possibile; scivolano ben oltre i fianchi, scorrendo liquidi sino alle ginocchia.
Contro i polpastrelli a tratti sente quei piccoli cerchietti di metallo che lei porta appesi ad un orecchio, ancora, come un bizzarro ornamento.
- Dormi. - Le ordina.
E' stato a Konoha, oggi. Ha viaggiato tutto il giorno, tutta la notte, muovendosi come uno spettro tra le linee di quelli che oggi sono i suoi nemici, nel cuore delle loro forze, tra le loro pattuglie, i loro ricognitori, le loro spie, tutto per poter raggiungere le mura, scavalcarle e passare nel quartiere fantasma, il quartiere morto del ventaglio.
Ha visto Sasuke, oggi. Sasuke che mangia poco. Sasuke che dorme male. Sasuke che si allena tanto, solo quello fa, Sasuke, e non sorride più.
Itachi sente d'aver voglia d'urlare, e il non poterlo fare, forse, è la cosa peggiore.
E' molto stanco.
Lei gli si rannicchia addosso, al suo ordine, con una docilità fiduciosa che gli riporta per un attimo alla mente suo fratello: ed è anche per questo che l'abbraccia, un braccio dietro la schiena, l'altro che si intreccia sulla sua spalla, affondandole il naso tra i capelli e chiudendo gli occhi, respirando l'odore sottilissimo di miele che sembra permearla tutta. Forse è un sapone. Forse è un profumo. Però è dolce. E' leggero. Gli ricorda il tè di Mikoto.
- Itachi? -
Sentirsi chiamare è insieme piacere e sofferenza, una pugnalata sotto l'ultima costola che arriva nei polmoni e gli trancia il fiato, ma anche qualcosa che la lenisce, quella pugnalata, qualcosa che la sana.
- Ti ho detto di dormire. -
- Scusatemi molto. Però, grazie. -
Però, grazie.
La sente raggomitolarsi, appallottolata contro il suo torace con le mani che si stringono attorno alla sua tunica, e per un attimo desidererebbe appoggiarle la testa alla spalla e gemere solo, gemere sino a svuotarsi, gemere perché Sasuke non gli si aggrapperà addosso mai più così, perché il tè di Mikoto sarà solo un ricordo, da lì in eterno, e neanche la morte gli restituirà il sorriso fiero di suo padre, il sorriso che Fugaku aveva solo per i suoi figli, tutti e due allo stesso modo, anche se qualche volta era troppo orgoglioso per esser capace di mostrarlo. Perché anche Shisui è morto, l'acqua si è presa il suo corpo e non l'ha più lasciato tornare in superficie, il fiume se l'è inghiottito e nemmeno lui, ora, Shisui il Fulmineo, rapido nel capire, rapido nell'agire e nell'aiutare, Shisui prezioso, nemmeno lui potrà mai più trovare le parole giuste per salvare Itachi.





Note

Questa volta tante tante recensioni - c'è una colata di melassa dritta dritta nel mio rinsecchito cuoricino a vederle. La direzione dei miei neuroni ringrazia sentitamente Salice, che in questo capitolo ha contribuito a sfoltire più di un periodo decisamente sovrabbondante.
Grazie a chi segue questa storia fin dall'inizio (perché sì, il mio ego ed io siamo tanto contenti di trovarvi lì praticamente tutti i capitoli a leggere, e siamo anche felici quando qualcuno fa clic su "aggiungi ai preferiti" o "aggiungi alle seguite", perché significa che non abbiamo scritto solo per noi stessi).
La lotta con l'immagine di questo capitolo è stata dura e travagliata: ma guardatela, non sembra Sasuke con l'ombrello? xD
Ne approfitto per segnalare che molte di queste immagini sono tratte da deviantART, che è un sito meraviglioso sia per chi vuole solo guardare che per chi anche, magari, disegna, dipinge, si interessa di grafica.

Salice: Sal, tu hai il diritto di fare tutto quello che vuoi, compreso e non escluso quello di tirarmi i barattoli dei pomodori invece che i pomodori e basta. xD Purché vuoti, magari, ché i lividi sono un sacco antiestetici. Per quanto riguarda Itachi: Itachi è - è - è che mi mancano le parole, ogni volta che rileggo il numero 25 o il numero 43 mi prende un po' di depressione.
abcdefghilm: Sono la coppia di fratelli più assurdamente carina che io abbia mai tovato in un fumetto. Sono dolci, quasi realistici con le loro piccole invidie, l'affetto e il calore, mai smielati, con Itachi un po' dispettoso e molto protettivo e Sasuke vagamente piagnucoloso. Non sono mai freddi. Insomma, mi piacciono da morire. Sono contenta il capitolo ti sia piaciuto! ^^
Rohchan: In tanti sbudellamenti/squartamenti/sventramenti/depressioni una cucchiaiata di Nutella sparsa ci voleva. E' anche vero che, come dici te, è il tipo di capitolo che aumenta solo la depressione, a leggerlo nel contesto. Sono socia della campagna: "Adotta un orfano/un diseredato/un cattivo a distanza.". Io ho adottato Madara, però lui nel mondicino rosa non ci vuole stare, no, no e no. Grazie! *_*



fonte immagine: butterfly precipice by len-yan

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 12. fiume - preludi ***




12. fiume - preludi



C'è un posto, appena fuori da Konoha, che è una radura d'erba pulita ed acqua liscia. Il fiume si apre, lì, schiudendosi e dividendosi in due, ritagliando una fetta di canneti persa tra i flutti e tornando a farsi uno subito dopo.
A Itachi piace quel posto. E' un posto sereno. Un posto lucido, solo verde, è verde il canneto, è verde l'erba, verdi le fronde sopra la loro testa e verdi le nuvole che si specchiano nell'acqua, che è verde e limpidissima anche quella, orlata da un velo di muschio più scuro.
Ci andava quand'era bambino, prima che Sasuke nascesse, quando voleva giocare senza che nessuno di quelli che generalmente aveva attorno cercasse di coinvolgerlo in qualche attività da adulto. Erano tutti convinti che gli piacesse sentirsi dire quanto geniale, quanto maturo per la sua età fosse, che guerriero abile e meraviglioso sarebbe diventato, senza capire che lui lo era già tutto quello, guerriero e geniale e maturo, lo era già diventato, ma troppo presto, troppo.
Il massacro feroce dei suoi quattro anni, che di un bambino intelligente e percettivo aveva fatto un precoce vecchio, aveva cancellato qualunque tipo di vago piacere che Itachi avesse potuto mai provare nel sentirsi rivolgere simili complimenti.
Poi c'era stato Sasuke: il frugoletto dalla testolina già ricoperta di una fitta peluria nera, gli occhioni sgranati e incolori come quelli di tutti i neonati, un po' grigi e un po' blu, ma che già promettevano di diventare neri, neri, neri, come quelli di un Uchiha, un vero Uchiha.

Shisui Uchiha è un altro vero Uchiha: ma non ha gli occhi neri.
Per un qualche scherzetto genetico nella catena delle discendenze, Shisui Uchiha è nato con un paio di magnifici occhi verdi, limpidi e puliti, venati sempre da un'ironia nemmeno troppo ben celata, ma fondamentalmente buona.
Shisui è buono. E' comprensivo. E' allegro e divertente. Vuole bene a Itachi, che apprezza, prima ancora che come guerriero, come amico.
Itachi non ha amici. Itachi ha compagni, ha superiori ed inferiori, ha una famiglia e tante responsabilità che ha sposato, come fossero mogli, ma non ha amici: nessuno, tranne Shisui. Il che, se Itachi ci pensa bene, oggi è orribilmente ironico.

Mancano due mesi al diciassettesimo compleanno di Shisui, quel giorno in cui lui e Itachi si siedono sul bordo del canneto a guardare dentro l'acqua. Shisui canticchia e Itachi tace. E' una cosa piuttosto comune nel loro rapporto, perché Shisui odia star zitto e Itachi odia parlare. Sono come il giorno e la notte a vederli camminare per strada, l'uno allegro e socievole, le mani cacciate nelle tasche e un sorriso discreto e luminoso sempre sulle labbra, l'altro come chiuso in sé stesso, quieto, composto e placido, il volto che si atteggia all'immobilità anche nei momenti di distensione.
Itachi è il migliore negli scontri, malgrado sia il più giovane, ma Shisui gli sta dietro, gli copre le spalle, bada a che non esageri e, soprattutto, si interessa a che non faccia quel che chiama fare l'eroe.
Itachi tende spesso a fare l'eroe, sostiene Shisui: fare l'eroe è prendersi la responsabilità di tutto, caricarsene le spalle e cercare di tenere fuori da qualunque pericolo tutti quelli che ha attorno il più a lungo possibile.
Shisui ha il sospetto che Itachi, se gli venisse permesso, andrebbe sempre in missione da solo più che volentieri. Suicida, orgoglioso, e molto Itachi.
- Che pensi di fare? -
Alla domanda di Shisui, posta così a bruciapelo, a Itachi viene da sobbalzare. Deve fare uno sforzo, usarsi violenza, per non girare la testa di scatto verso l'amico e guardarlo: sarebbe un atteggiamento molto colpevole, riflette, molto sospetto. Fissa l'acqua, invece, socchiudendo gli occhi e tendendosi.
Dovere, pensa, dovere, è il mio dovere...
- In che senso? -
La voce gli esce fuori bene: controllata e distaccata, naturalissima. Dentro Itachi c'è un'altra voce che sta cominciando a lamentarsi e a gemere piano, mugolando come una bestia ferita al pensiero di quel che l'aspetta. Shisui scrolla le spalle oziosamente, distendendosi con la schiena appoggiata ad un tronco d'albero contorto, le mani intrecciate dietro la nuca e gli occhi socchiusi.
- Quando sarà finita questa storia degli ANBU. Non penserai di restare negli ANBU a vita, no, Itachi? - Shisui apre un occhio, guardando verso di lui. - Cosa pensi di fare, dopo? -
Itachi sente il proprio corpo distendersi: non del tutto, perché una parte di lui conserva quel tanto d'allarme e di tensione necessaria a tener d'occhio Shisui e i dintorni, Shisui che si rilassa e i dintorni dove non appare nessuno, aspettando il momento giusto per portare avanti il primo dei suoi intollerabili doveri.
- Non ci ho mai pensato. -
E' vero. Non ci ha mai pensato, e non avrà mai più modo di pensarci d'ora in avanti, riflette, con la sensazione opprimente della nausea a riempirgli il petto di freddo ed a serrargli la bocca dello stomaco.
Shisui richiude gli occhi. Si stiracchia come un gatto contro il tronco, alto, elastico e scattante, più grande del suo compagno che appare snello ed esile nel confronto:
- A me piacerebbe prendere una squadra di genin da seguire. - E poi, con un sogghigno. - Sarebbe divertente. Pensa: tre candidi e ingenui fanciulli desolantemente abbandonati nelle mie mani... - Si tira su bruscamente, guardando verso Itachi con il ghigno che si fa sempre più ampio, sino a scoprire i denti candidi: - E pensa se uno dei tre fosse il tuo fratellino! A proposito, come se la cava lo sgorbietto? -
Lo sgorbietto non farà in tempo a diventare genin. Il pensiero è orrendo. Il pensiero è oltre l'orrendo, semplicemente, inaccettabile, ghiaccio osceno nello stomaco, acido nella testa che scioglie tutti gli altri pensieri finché non resta solo quell'idea, non farà in tempo, non avrà più tempo.
- Se la cava bene. - Itachi si sente rispondere, ma riesce a malapena riconoscere la propria voce in tutto quel caos che gli ha riempito la testa. - E' il migliore dell'Accademia. -
Shisui fischia con allegria:
- Però! - E subito dopo, senza smettere di sogghignare: - Degno sgorbietto di degno fratello, eh? Mi piace quel bambino: è troppo divertente vedere come ti si rigira nel palmo, Itachi, con quel suo faccino da angioletto... -
Itachi non risponde. Itachi avrebbe solo voglia di scappare, al momento.
Stanno zitti per un po', lui e Shisui, sdraiati nella frescura verde della radura. Un raggio di sole taglia le foglie e spiove precisamente sulla mano di Itachi, scaldandola poco alla volte, arroventandone la pelle. Shisui ha allargato le braccia, spalancandole sull'erba in un'espressione di totale abbandono e piena rilassatezza.
Fiducioso, pensa Itachi. Fiducioso, si fida, si fida di lui, che è suo amico, il suo migliore amico, si fida di lui al quale copre le spalle, di lui che adesso sta solo pensando come farlo, in quale modo togliergli la vita.
Vuole che sia veloce. Vuole che sia una cosa rapida e che non gli faccia male. Vuole che Shisui abbia a malapena modo di accorgersene. Vuole conservare come ultimo ricordo, preservato con amore per tutto quel che resta della propria breve vita, non l'agonia di Shisui, ma la loro ultima conversazione: quella, in un posto che gli piace, parlando di qualcosa di lieve, parlando di Sasuke.
Non ha portato con sé armi, perché Shisui avrebbe potuto trovarlo sospetto: ma gli basteranno le mani per quello. Saltargli addosso. Un colpo con il tallone nell'addome, per fracassargli lo sterno e mozzargli il fiato, e subito dopo le mani che si stringono una sotto la nuca, una sotto il mento e girano, ruotano, rapidissime, spezzando l'osso. Veloce. Shisui non sentirà quasi niente, si dice. Non riesce a smettere di sentire freddo, però, anche ripetendoselo dieci, venti, cento volte. Shisui non sentirà niente. Shisui non sentirà niente.
Si prepara. Niente chakra fino all'ultimo minuto: darebbe a Shisui l'allarme. Solo mani nude. Mani nude e sorpresa. Flette le ginocchia, contrae i muscoli dell'addome.
- Itachi? -

- Itachi? -
La voce di Shisui spezza la sua concentrazione, infrangendola con un brevissimo sussulto.
- Che c'è? - Si stupisce di quella voce che gli esce, così controllata, così placida e neutra, perché quel che sente adesso nel proprio corpo è solo caos stravolto, una tempesta, un maremoto.
- Non ci pensare. - Afferma Shisui: se ne resta sdraiato, parlando, gli occhi chiusi e le mani lontane dal corpo, muovendo solo le labbra. - Qualunque cosa sia la cosa che hai, tu non ci pensare. E non ti preoccupare. -
E poi, mentre Itachi lo guarda e non fa niente, nulla, nemmeno respirare:
- Va bene anche così. -

Va bene così, dice Shisui.
Itachi si trasforma in una statua di pietra. Tutto quel che ha dentro, il caos e l'orrore, la tensione, la paura, il dolore e la disperazione, la sensazione incombente di dovere, di dovere, di non poter scappare, sembra quietarsi e spegnersi, ammutolirsi.
Va bene così, ha detto Shisui. L'ha detto e non si è mosso e, Itachi lo capisce, Shisui adesso sa. Itachi non capisce come lui faccia a saperlo, ma capisce che lo sa, che lo sa e che si sta offrendo di aiutarlo anche questa volta, anche se stavolta tutto l'aiuto che può dargli è star fermo, per non ostacolarlo mentre lo uccide.

- Ti serve più potere. - Aveva spiegato l'uomo, l'antico, Madara degli Uchiha, quando Itachi era finalmente riuscito a trovarlo.
- Ti serve più potere e ti serve averlo in fretta, e il modo c'è.
Scegliti uno. Uno che ti sia tanto caro, un amico, un fratello, e uccidilo. Guardalo morire: il nostro potere nasce lì.
Che ti importa, tanto? Che tu lo uccida ora o dopo, non devi sterminarli tutti? Si tratterebbe solo di anticipargli un po' le cose... -


Gli serviva più potere e gli serviva averlo in fretta e il modo c'era, era davanti a lui.
S'era scelto uno. Uno tanto caro, come un fratello, più di un amico, unico tra tanti, Shisui. L'aveva portato lì ed aveva progettato la sua morte fin nei particolari, tempi e modalità, come occultare il cadavere, come giustificarne la scomparsa.
Anticipare. Si trattava solo di anticipare di qualche giorno l'inevitabile. L'inevitabile. Inevitabile. Inevitabile dovere.
Dei...

Non ci riusciva.
Lo seppe, tutto ad un tratto, con assoluta certezza.
Non ci sarebbe riuscito. Non poteva farlo. Non poteva ucciderlo. Non poteva ucciderli.

Il dovere era orrore.
Il dovere era panico e nausea e il pensiero atroce che non ci sarebbe stato mai più nulla, dopo quel dovere, e nulla mai più vi sarebbe stato se quel dovere non fosse stato portato a termine.
Nulla mai più, si disse. Gli venne da chiudere gli occhi.
- Shisui... -
Al suono di quella voce che lo chiamava e che, per la prima volta da anni, per la prima volta da sempre, aveva un tono che era come un richiamo, come una preghiera, una supplica esausta, Shisui spalancò gli occhi e alzò la testa.
- Itachi? -
- ... devo dirti una cosa, Shisui. -





Note

Forse qualcuno si sarà già accorto che ho modificato l'introduzione e i capitoli precedenti: perché, come mi è stato fatto recentemente notare da Araya e da Arwen88, non si scrive AMBU, ma ANBU. A voler essere pignoli credo sarebbe AnBu, trattandosi delle prima sillaba di due parole, ma Wikipedia mi suggerisce il maiuscolo per tutte le lettere. Mi scuso per l'errore grossolano.

Da questo capitolo e da quello che segue non ne sarei uscita se non fosse stato per Salice, che si è amorevolmente prestata a dirmi guarda-che-qua-non-si-capisce-un-accidente e un po' meno amorevolmente offerta di dirmene di tutti i colori per la piega deprimente che la storia stava prendendo.
Altre note su Shisui Uchiha e sul come e perché sia finito in Tagliavento le rimando al prossimo capitolo.
Trovo ogni volta un nuovo nome nell'elenco dei preferiti e delle seguite: vi prego, fermatevi cinque minuti a lasciarmi un parere! xD Vi piace? Non vi piace? E' tremenda? La leggete perché non avete niente di meglio da fare?
Intanto vi ringrazio e ringrazio anche chi legge.
Ne approfitto per segnalarvi che io e Salice abbiamo in progetto qualcosa che potrebbe essere considerato anche l'incontro tra Il Giardino dei Mandorli e Tagliavento - Cronache dalle terre di Suna: una raccolta di storie su Itachi, Shisui, Sasuke, Hanayuki, Hanako, sul prima e sul dopo. Un po' per giocare, un po' perché ci siamo tanto affezionate che ci dispiaceva lasciarli andare (un po' perché - coff coff - così forse mi autorizzerà ufficialmente a mettere le mani su Hanayuki). Per il momento è solo un progetto, ma almeno lei si è già messa all'opera. :P
Risposte!

Salice: Tu li hai già letti, Sal, l'unica ansia che puoi avere è "si sarà ricordata di correggere quella cosa che le ho detto tre volte di correggere?" (l'altro giorno ne ho trovato una che no, non mi ero ricordata di correggere *_* Ma io sono astuta!).

_Ala_: Oddio, perché male? xD Sono contenta di sentirti e sono ancora più contenta che ti piaccia. Sì, la storia di Itachi è una depressione continua: ma perché, c'è qualcuno a Konoha (togliamoci Shikamaru, va', che pare sia l'unico felice e contento e con una famiglia normalissima) che non abbia alle spalle una storia di morti&devastazione?
Per quanto riguarda Mizuki: più avanti ci saranno altri accenni a lei e al suo rapporto con Hanako, ma direi che il grosso è stato spiegato fin qui.
Devo ammettere che, essendo per me tanto spontaneo pensare a loro due come a due sorelle, non mi sono premurata di chiarirlo: erano due tredicenni la prima volta che si sono viste, erano due bambine quando si sono conosciute, sono una specie di coppia di "migliori amiche", rese più strette dalla situazione. Però, mi rendo conto che possa non apparire altrettanto evidente a chi legge.
E comunque, seguo la teoria secondo la quale ciascun lettore legge nello scritto qualcosa di diverso.


fonte immagine: Naruto___Deep_Forest_by_Ugly_baka_girl

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 13. acqua - preludi ***




13. acqua - preludi



Torna a casa con il cuore lieve, Itachi, ed è una sensazione che aveva quasi dimenticato, quella, dopo settimane trascorse nella propria personale casa degli orrori, costruita nella testa dal suo dovere intollerabilmente atroce, un pensiero alla volta, un mattone alla volta.
Quel dovere ineluttabile oggi non gli appare più tale: è una possibilità, sfumata.
Itachi sa d'aver fallito una missione, per la prima volta in tutta la sua vita, e il pensiero lo riempie di una gioia sorda e cieca, assoluta, luminosa. Si ferma a baciare la madre sulla fronte. Respira il profumo dei suoi capelli: come i suoi due figli, Mikoto sa d'arancia. La donna lo guarda un poco sorpresa per quel gesto d'affetto inaspettato, ma poi sorride. Itachi saluta perfino Fugaku, incrociandolo in giardino. Non si gira a guardare verso il padre, mentre lo supera, ma non ne ha bisogno per sapere di avere i suoi occhi stupiti addosso.
Passa quel che resta del pomeriggio con Sasuke. Gli chiede dell'Accademia, gli chiede delle lezioni, dei nuovi compagni. Gli chiede dei suoi progressi e lo ascolta mentre risponde con cinguettante entusiasmo, saltellando quasi per la gioia di avere il fratello a propria completa disposizione. Gli promette che lo allenerà, Itachi, tutte le volte che Sasuke vorrà, perché adesso può prometterglielo. Quella parola, potere, posso, sa sulle sue labbra di zucchero e vaniglia. E' una parola fatta di vento. Scioglie le catene del dovere, quel posso, rendendolo libero di nuovo.
Shisui sa tutto: Itachi gliel'ha rivelato. Itachi ha fatto fallire una missione. Itachi sarà punito, forse, e la cosa migliore è che non gliene importa assolutamente niente.
La missione fallita di Itachi concede la grazia al suo clan. La missione fallita di Itachi scatenerà una guerra.
Forse.
Forse non è detta l'ultima parola. Itachi adesso spera che Shisui possa aiutarlo. Itachi adesso sa di non essere solo a fronteggiare il suo dovere troppo grande, troppo inevitabile.
C'è Shisui, adesso, con lui: anche il dovere gli sembra più lieve.

Quella notte dorme con Sasuke. Il bambino, che è sensibile, più di quanto ci si aspetterebbe da un cosino così piccolo, innocente e ciarliero, deve aver capito che il fratello stasera è sereno ed ha voglia di compagnia: perché non ha aspettato che fosse notte fonda, prima di alzarsi, sgattaiolare scalzo lungo il corridoio ed infilarglisi sotto le coperte.
Sasuke ha cominciato a scalciare esattamente mezzo secondo dopo essersi addormentato, ma, sinceramente? A Itachi non importa. Gli potrebbe anche sfasciare le costole a furia di calci, e continuerebbe a non importargli.
Lo sgorbietto gli incastra la testa contro il petto, prima di addormentarsi, e Itachi sente il suo calore andarsi a sommare a quello che gli riempie il torace da quel pomeriggio. E' stato tanto facile, si dice prima d'addormentarsi, è stato tanto facile mettere da parte l'orgoglio quel poco che serviva per chiedere aiuto.
Lui e Shisui ce la possono fare. Lui e Shisui li fermeranno. Fermeranno gli Uchiha. Fermeranno la loro famiglia, e quando gli Uchiha capiranno quanto sono arrivati vicini al disastro, allo sterminio, per mano di uno dei loro, per mano del loro genio, del loro bambino dotato, di uno dei loro strumenti, allora sapranno... allora sapranno...

E' ancora notte quando Itachi si risveglia: se ne rende conto immediatamente perché è tutto troppo buio, troppo immobile, troppo silenzioso.
Sasuke gli si è raggomitolato addosso in una maniera impossibilmente aderente, incollandosi ad ogni piega del suo corpo, e si sta così piacevolmente caldi, sotto le coperte, che Itachi non desidererebbe altro che lasciarsi scivolare nuovamente nel sonno e nel torpore: invece guarda avanti a sé, verso la scrivania.
La stanza di Itachi è una stanza da adulto: ci sono libri e rotoli su uno scrittoio, pennelli ordinatamente disposti per grandezza su un pannello di legno chiaro, un enorme ventaglio che troneggia sopra la porta e, ad altezza d'uomo, uno specchio. Sembra fuori posto, quello specchio: e invece è un segnale, per chi sa cosa cercare, che quella è la camera di un ninja, di un ANBU, di uno abituato a dormire con un occhio chiuso ed uno aperto, desto nella testa prima che nel corpo.
Lo specchio riflette la finestra: l'albero scuro, le foglie fatte d'argento da una fetta di luna, i rami contorti che si alzano verso l'alto come dita d'inchiostro, il buio notturno. La persona appollaiata su uno di quei rami.
Gli occhi sembrano splendere debolmente di rosso nell'ombra ma, anche se così non fosse, Itachi riconoscerebbe comunque quella sagoma.
Madara...?

Non s'era scordato del patto.
Itachi scende dal letto, sciogliendosi dall'intreccio di braccia e gambe del fratellino tanto abilmente da non causargli nulla più che un vago mugugno insonnolito. Sasuke rimane girato su un fianco senza svegliarsi.
Quando è libero, finalmente, e può guardare verso la finestra, Itachi scopre che Madara è scivolato via. Lo segue: salta sul davanzale e, da lì, giù nel giardino.
Madara è solo un'ombra più mobile delle altre. Gli va dietro.
Non s'era scordato del patto, Itachi: ma Madara è un traditore, uno ed uno solo, e loro sono in molti ed hanno Konoha a spalleggiarli. Non lo teme.
Lo uccido adesso, si dice. Farlo renderà tutto il resto molto più semplice. Farlo cancellerà anche il ricordo di quel che Madara gli ha spiegato, Itachi lo sa, sulla fonte del potere.
Scalzo, perché non ha pensato a cercare i sandali prima d'uscire, e con il pigiama scuro a svolazzargli attorno, Itachi rimpiange la divisa da AMBU che è come una seconda pelle morbida ed aderente, ormai, una guaina che a malapena si percepisce sul corpo.
Scivola oltre le mura del giardino di casa sua, e poi ancora più in là, zigzagando attraverso il quartiere degli Uchiha. Evitano le pattuglie, lui e Madara: Itachi si chiede per un attimo se sia il caso di dare l'allarme, di richiamare qualcuno che venga ad aiutarlo, ma poi si risponde da solo che non serve. Meglio non coinvolgere nessuno. Meglio che nessuno sappia prima del tempo cosa sarebbe potuto accadere, cosa stava per accadere, se non fosse stato per Shisui...
Ancora oltre: oltre le mura del quartiere, per le vie di Konoha. Madara ha la grazia di un predatore e di un assassino, silenziosa, letale e magnifica, e Itachi per un attimo lo invidia per questo. E' quasi bello da guardare, Madara, nella sua corsa.
Perché fugge? Il pensiero attraversa Itachi come una stilettata fastidiosa. Dove va? E poi, realizzando lentamente a cosa assomiglia, dopotutto, quella fuga: Dove mi porta?
Fuori da Konoha.
Sono due abili ombre che scavalcano le mura e passano fuori, finalmente fuori, nel bosco.

C'è un posto, appena fuori da Konoha, che è una radura d'erba pulita ed acqua liscia. Il fiume si apre, lì, schiudendosi e dividendosi in due, ritagliando una fetta di canneti persa tra i flutti e tornando a farsi uno subito dopo.
A Itachi piace quel posto. E' un posto sereno. Un posto lucido, solo verde, è verde il canneto, è verde l'erba, verdi le fronde sopra la loro testa e verdi le nuvole che si specchiano nell'acqua, che è verde e limpidissima anche quella, orlata da un velo di muschio più scuro.
Il muschio, nel buio, è ancora più scuro. Sembra una coperta distesa sull'acqua, che è scura anche quella, per nulla verde, la notte. Riflette un cielo ingioiellato di purissime stelle e si fa ombra liscia e vento fermo.
Shisui è sdraiato là, il corpo per metà nell'acqua, per metà sulla riva, la testa riversa contro una roccia che lo incastra e impedisce ai flutti di portarlo giù, più giù, dove le correnti lo inghiottiranno e lo trascineranno sul fondo e lontano.
Madara è in piedi sulla roccia. Si è fermato. Anche Itachi si ferma. Tre passi indietro, davanti a Shisui, guarda l'amico e per un attimo i suoi occhi stentano a riconoscerlo.
C'è una bella luna, stanotte, e tante lucciole di stelle nel buio senza nuvole, così il volto di Shisui è perfettamente chiaro, limpido, pallido e netto: Ha gli occhi sgranati, le labbra schiuse in un'espressione come di stupore. Ha qualcosa di scuro che gli cola dalla bocca, blu sotto la luna, ma Itachi sa che di giorno quel blu sarebbe rosso, di quel rosso che richiama la morte, la ferocia, i cadaveri e la battaglia.
Shisui è morto.
Il suo cervello connette a fatica. Shisui è morto. E' Shisui, quello, il cadavere di Shisui. Il cadavere di Shisui che era vivo, quel pomeriggio, che lui ha lasciato vivo, Shisui che adesso che sapeva tutto l'avrebbe aiutato, l'avrebbe aiutato a salvarli, a salvarsi...
- Stavi fallendo. - L'affermazione di Madara è come uno schiocco, quasi dolce, così delicatamente sottile e gentile.
Itachi non riesce a staccare gli occhi dal volto di Shisui. Sente un gran mal di testa, improvviso e feroce, ed un gran dolore sepolto da qualche parte nel cranio poco sopra al naso: ma è tutto dolore fisico, puramente e meramente fisico. Altro dolore non riesce a provarne: c'è solo quella sensazione di vuoto, di mancanza, abissale.
Qualcuno gli ha appena tolto la terra da sotto ai piedi, e Itachi non riesce a scrollarsi di dosso l'impressione di precipitare.
- Stavi fallendo. Lo sai, questo...? -
Shisui l'avrebbe aiutato. Shisui l'avrebbe salvato.
- E' stato il tuo primo errore, Itachi. E' stato sciocco, da parte tua, molto... -
Shisui non era morto. Shisui, Shisui il Fulmineo, stava sicuramente fingendo.
- ... ma mi aspettavo, dopotutto, che avresti fatto qualcosa del genere. Per questo mi tenevo pronto, Itachi. -
Shisui si sarebbe alzato da un momento all'altro e insieme, insieme, avrebbero potuto riportare tutto com'era prima, ed il mondo sarebbe stato di nuovo un mondo con Shisui, un mondo in cui dormire con Sasuke ed essere abbracciato da sua madre e sperare di poter avere di nuovo un rapporto quasi normale con Fugaku, Fugaku che li sta perdendo, tutti, Fugaku che...
Madara scende dalla roccia. Gli va incontro, e Itachi non si muove, non lo guarda, non lo vede. Ha gli occhi che bruciano, e non sono lacrime, li sente pulsare come fossero in fiamme. Vede solo Shisui.
- Non devi preoccuparti. - Mormora Madara, dolcemente. - E' stato veloce. Ed avrà effetto lo stesso. A voler essere precisi, sta già avendo effetto. - E poi, ancora più piano, chinandosi per bisbigliarglielo in un orecchio: - Non è così che lo volevi?-
... Fugaku che, insieme a Madara, ha ucciso Shisui. Non è stato Fugaku a vibrare il colpo mortale, ma è stato Fugaku a condannarlo. Li ha condannati tutti.
Itachi muove un passo avanti, lentamente. Realizza solo in quel momento che non lo sentirà mai più. Mai più Shisui, mai più. Non lo sentirà più ridere. Non lo vedrà più sorridere. Non lo ascolterà, mai più, e mai più Shisui gli coprirà le spalle in battaglia. Mai Shisui avrà quel che aveva sognato, la sua squadra di genin, la sua vita felice, e mai l'avrà nemmeno Itachi.
Sente la colpa assalirlo, vergognosa, come una serpe venefica che gli si pianta nello sterno.
Se avesse avuto il fegato di ucciderlo di persona, quel pomeriggio, Shisui morendo avrebbe avuto almeno accanto una persona amica. Itachi l'avrebbe ucciso, sì, ma Itachi gli avrebbe tenuto la testa, e sarebbe rimasto con lui per tutto il tempo necessario, fino alla fine. Invece l'ha fatto Madara. Una cosa veloce.
Sente gli occhi dolergli atrocemente e sa che sono cambiati, sa che sono cambiati dentro, ora che hanno osservato la fonte del potere, ma non riesce proprio ad interessarsene come sarebbe giusto.
Sa che domani sarà tutto com'era ieri.
Il dovere gli è ripiombato sulle spalle: un macigno pesante quanto il mondo, e Itachi capisce che non proverà mai più a liberarsene. Non è solo una pietra, non è solo dovere, sono catene, lo avvolgono, lo serrano, lo soffocano, e lui non può fare altro che andare avanti, sottomettersi...
... è stato solo un attimo di debolezza. La piccola ribellione di Itachi è appena stata sedata.
- Dovrà essere presto, Itachi. - Afferma Madara alle sue spalle. Non è più dolce, non è più gentile: per quanto si sforzi di controllarlo, il suo tono si è fatto ansioso, eccitato, il tono d'un affamato. - Prima è, meglio è. -
E poi, mentre Itachi percepisce il fruscio d'erba dei suoi passi che si allontanano:
- Ricordati di far sparire il cadavere. -

Prende la testa di Shisui sulle ginocchia. Gli chiude gli occhi, il volto è gelido, umido d'acqua di fiume e di brina, abbassa le palpebre su tutto quel verde. Lo tiene accanto a sé per un attimo.
Grazie, Shisui, ringrazia, grazie. Per averci provato.
Spinge la testa dell'amico nel fiume. Il corpo scivola nell'acqua, che si apre, si infrange, e lo accoglie.
Il fiume si richiude sulla testa di Shisui. Il fiume si richiude sulla rivolta di Itachi.





Note

D'accordo: non so se Kishimoto l'abbia mai pensata così la storia di Itachi e Madara. Non so neanche se - dato che no, non seguo gli spoilers - qualcuno dei prossimi numeri di Naruto mi smentirà clamorosamente. So solo che eravamo io e Salice, e ci stavamo interrogando sul come e sul perché di questo povero Shisui che si è meritato nel manga niente più che due citazioni spaurite, e io progettavo in quel periodo di a) conquistare il mondo; b) adottare Madara, e così è venuta fuori questa nostra versione dei fatti.

I soliti ringraziamenti a chi legge e, soprattutto, a chi si ferma e commenta. Un grazie particolare a chi ha seguito questa storia sin dall'inizio e continua a seguirla. ^^

abcdefghilm: Tu non puoi capire il tuo commento sino a che punto mi abbia fatto piacere. Sono davvero felice che Hanako ti sia parsa credibile abbastanza da sembrare un personaggio appartenente al manga. No, comunque, Hanako è farina del mio sacco e - fortunatamente - non appare nel manga di Naruto: dove, d'altronde, mi pare già non scarseggino i personaggi depressi. xD Non ho idea di quale processo mandi le storie tra le Storie Scelte e quindi, purtroppo, non posso aiutarti in questo senso. Grazie davvero per tutti i complimenti e per il tempo che ritagli per i commenti. ^^

Rohchan: Shisui nel manga è un nome in tre righe di commiato, "Shisui è morto", ergo non è il personaggio meglio trattato in Naruto. xD Per ora, almeno, non se per qualche divino miracolo le cose cambieranno in futuro, ma temo di no! Purtroppo... ehm... coff coff... Shisui è morto in questo capitolo. E' tutto un dolore: a me sta simpatico quasi come Kisame, per cui è una sofferenza. xD Grazie grazie grazie per i complimenti con i quali mi sommergi sempre!


fonte immagine: Sasuke_VS_Naruto_by_patrikh88

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 14. miele ***




14. miele



Quand'è il momento di andarsene, lei lo guarda attraverso il velo dei capelli: li ha sparpagliati davanti al viso e sulle spalle, sottili e fini come qualcosa d'impalpabile, nuvole, di quel biondo pallido che ha la nebbia tra le montagne umide quando il sole la bagna al mattino.
Ha qualcosa di Sasuke nel candore purissimo con il quale lo guarda ad occhi sgranati: un poco meno palese della richiesta che lo sgorbietto aveva come incisa nella fronte,
resta, rimani, però pur sempre evidente. Le vesti di seta fanno di quel corpo una farfalla, inginocchiata sul letto con le mani posate sul materasso. Gli sembra di poterla schiacciare tra due dita, così, di poterla fracassare e spezzare, e pensa che forse sarebbe la cosa migliore da farsi.
L'ha ascoltata dormire con la testa appoggiata alla sua spalla, le dita sepolte tra i suoi capelli: e poi si è assopito anche lui, e per una volta non ha sognato nulla, niente, di quel niente che è sempre meglio degli incubi. Le fa cadere una moneta accanto alle mani, sul materasso, e lei la guarda e sorride.
E' un sorriso che, come quello di Sasuke, nasce da qualche parte in profondità e si espande come acqua di luce, fiorendo sulle labbra e negli occhi. Sembra strano, disumano, che sbocci in quel modo su un'assassina,
Tagliavento, un'assassina e una prostituta, ma non ha nulla di falso né di voluto: è così e basta, punto.
La vede frugare nella fascia violetta che le stringe i fianchi, e poi far riemergere le mani sottili: tra le dita ha due monete uguali alla terza che è sul materasso, e da come lo guarda, da come sorride, sembra che quel che tiene sul palmo sia una luna.
Itachi si dice che sarebbe meglio ucciderla, perché è consapevole che il bisogno di qualcuno che si fidi di noi, che ci desideri, di qualcuno di prezioso, è una cosa ben difficile da sopprimere. Si può imparare a convivere con il dolore, con il rimorso, con il disgusto, non con la nostalgia.
Con la ragazza candida viva, star lontano da chi quella nostalgia può levarla, anche solo per un attimo, anche solo per un momento, sarebbe un tormento: e lui cederebbe di nuovo, prima o poi, per cercare di sentirsi sanato almeno un po' il vuoto.
Se la uccidesse leverebbe solo a sé stesso un altro appiglio, un altro qualcosa a cui afferrarsi disperatamente, distruggerebbe solo un altro ostacolo sulla via del proprio dovere. Nulla da desiderare, nulla da volere. Sarebbe la cosa migliore.
Pensa per un attimo di schiacciarla, farfalla, e di lasciarla precipitare.

Pensa per un attimo di schiacciarla, farfalla, e di lasciarla precipitare.
Invece si china e le copre gli occhi con una mano. Non la sente irrigidirsi né sobbalzare, ma star ferma dov'è, candida e pienamente fiduciosa, con una punta d'indifferenza che fa male più di tutto il resto: come se, dopotutto, vivere o morire non faccia molta differenza, e quindi se ne starebbe là, tra le sue mani, e se lui lo volesse si lascerebbe schiacciare.
Itachi piega il capo quel tanto che serve a posare le proprie labbra su quelle di lei. Sa di miele davvero. Dolci, fresche come acqua lieve, quelle labbra non hanno nulla di inebriante o di seducente: sono solo delicate, sottili, ali di farfalla, come le sue ciglia contro il palmo delle mano che si chiudono e poi si spalancano, ali di farfalla, mentre trattiene il respiro e lui sente quel soffio sulla bocca, ali di farfalla, farfalla.
L'altra mano gliela passa tra i capelli, districandone i nodi con gentilezza, fino a posarla sul collo. Due dita contro la spina dorsale, medio e indice, appena sotto la prima vertebra; il pollice che preme su uno tsubo1. Basterebbe stringere un po' la mano. Serrarla. Cadrebbe come nel sonno, e non si accorgerebbe nemmeno di lui che le taglia la gola. Sarebbe dormire. Sarebbe un sollievo, no? ... per lei che, come lui, è un'assassina con il terrore del sangue e di ciò che è stato.
Lei deve aver capito cosa sta per accadere, ma non si muove. Forse non le importa. Forse, come Shisui, ha deciso che va bene anche così.
La mano di Itachi scioglie la stretta lieve attorno al collo e risale tra i capelli, accarezzandoli con delicatezza. La sente premere verso di lui con il viso, per cercargli di nuovo le labbra con le proprie: trovatele, sembra assaggiarle con cautela, come non sapesse bene cosa farne, prima con la bocca, poi con la punta del naso, gentilmente, e infine di nuovo con le labbra.

Itachi pensa che aveva creduto che non avrebbe mai ricevuto un bacio così. Itachi pensa che aveva creduto che si sarebbe portato quella mancanza nella tomba, insieme a tutte le altre, e adesso che la sperimenta si domanda come può aver fatto senza per tutto quel tempo: perché le labbra sono calore, e anche il profumo è calore, i capelli sono calore, e il modo in cui lei lo cerca è calore.
Prova una punta di sofferenza al pensiero che la ragazza candida che lo sta baciando lo faccia per lavoro, dopotutto, e che tutta quell'ingenuità lieve e insicura possa essere solo una posa, menzogna: ma è una punta che si perde in una miriade di constatazioni riassumibili con un
non me ne importa niente.

Quando si stacca da lei, dopo quelli che forse sono stati cinque secondi, forse cinque minuti, più probabilmente cinque secoli, la ragazza alza una delle sue mani pallide e se la posa sulle labbra: due dita, con incertezza, come se volesse sentire anche con i polpastrelli com'è il sapore che le è rimasto addosso.
Non le vede gli occhi, perché glieli copre ancora con la mano, ma la sente distintamente arrossire: è un calore, una vampa, che sale sulle guance e gli scalda le dita posate sulla sua pelle.
- Hanako. - E' la prima volta che la chiama per nome. E' la prima volta che la chiama in qualunque modo, a dire il vero, e la vede sussultare appena, prima che mormori:
- Sì...? -
Vorrebbe sfiorarle le labbra di nuovo. Vorrebbe toglierle la mano dal viso e chiederle di guardarlo, mentre la bacia, per vedere cosa le passa negli occhi. Vorrebbe stare puramente così, un altro po', per godere di quel calore vergognoso ed imbarazzato che gli accarezza la mano.
- Chiudi gli occhi. -
Le ciglia gli sfiorano il palmo, di nuovo, abbassandosi docilmente.
- Adesso ti lascio andare. Tu non devi aprirli finché non sono uscito. Mi hai capito? -
Lei stacca le dita dalle proprie labbra, tutto ad un tratto, e le solleva di scatto per stringere il polso che le copre il viso: è veloce, registra oziosamente Itachi, tanto che l'ha vista a malapena muoversi. Lei gli stringe il braccio per un attimo, quasi volesse trattenerlo, prima di lasciare ricadere la mano sul materasso.
- Hai capito quel che ti ho detto? -
Lei annuisce. Itachi si china ancora, dopo un attimo di perfetta immobilità, e si ferma con le labbra ad un soffio dalle sue: la vede dischiudere le proprie, il respiro come un sibilo appena percettibile, quasi aspettasse qualcosa. Ma lui piega la testa e si allontana, lasciandola semplicemente andare.
Obbediente all'ordine ricevuto, Hanako ha gli occhi chiusi. Non voleva essere guardato, Itachi, né leggerle in viso quel
rimani tanto simile a quello di Sasuke: sarebbe stata una sferzata di nostalgia che non ha voglia di tollerare, adesso. Indietreggia lentamente, e si chiude la porta alle spalle.
E si porta dietro, senza quasi accorgersene, l'odore lieve del miele.






Note

(1): In Naruto si parla di tsubo (non credo che il plurale sia tsubi) soprattutto nei primi numeri, nella saga di Haku e Zabuza. La cosa va un po' perdendosi, poi, e si inizia a parlare di punti di fuga del chakra (quelli, per intenderci, che le persone dotate di byakugan come Neji o Hinata riescono a vedere), che sono 361 esattamente come gli tsubo della medicina cinese.
Per qualche altra informazione: Tsubo

Forse il corsivo disturba un po' la lettura, per un intero (anche se breve) capitolo. Diciamo che per stavolta ho sperimentato.

Fa molto San Valentino, ora che ci penso, ma giuro che non era voluto. xD Un grazie a Salice per le correzioni. Grazie, come sempre, a chi legge.


fonte immagine: kimono_by_yo4tojp

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 15. pesce ***




15. pesce



E doveva essere cominciata così, per Hanako, con una notte che le sembrava sempre più simile d'ora in ora ad una specie di bizzarro sogno: ma era presente, e più vero del mondo reale che la circondava, quel sogno.
Passava le notti a fare le cose di sempre, servire ai tavoli e danzare nella sala grande, e poi nei letti di gente della quale, al mattino, non ricordava nulla. Il suo corpo si dimenticava dei segni che le restavano addosso, e si stupiva quasi di trovarli, guardandosi allo specchio.
Passava le giornate con le mani appoggiate alla finestra della sua stanza, la sua prigione, immaginando che fosse vento e non vetro, quello che le scorreva sotto i polpastrelli, gli occhi chiari che si serravano quando, verso mezzogiorno e sino a metà pomeriggio, il sole si buttava in onde accecanti nella sua stanza. Tutto il tempo lo trascorreva con il desiderio di vedere una tunica nera a nuvole rosse attraversare Idomizu.
Dovette aspettare diversi mesi, stavolta, prima di vederla ricomparire.

- Per essere un posto schifoso ai bordi del mondo, Itachi, ultimamente mi sembra che ci succeda piuttosto spesso di finirci. -
Provocare Itachi era una delle passioni di Kisame.
- Mh. -
Il problema era che nel provocare Itachi in genere si ottenevano gli stessi risultati che si sarebbero avuti provocando una roccia: silenzio e indifferenza e, nelle occasioni speciali, un breve mugugno per tutta risposta.
Attorno a loro la solita bolla di vuoto: sedie e tavoli spostati a tre passi di distanza e gli avventori che facevano largo, con le cameriere che parevano fingere di non vederli e il padrone del posto che li adocchiava preoccupato al di sopra del bancone. Era l'ideale per parlare senza essere ascoltati, se anche Kisame avesse badato a quisquilie come la riservatezza e la discrezione:
- Avreste potuto conservarlo, Itachi, il braccio della serpe. -
- Mh. - Era un mugugno vagamente, ma proprio molto, molto vagamente, interessato: probabilmente si chiedeva a cosa accidenti avrebbe potuto servire loro un braccio mozzato, e per di più proprio quel braccio mozzato.
- Sarebbe risultato un eccellente grattaschiena, una volta impagliato a dovere. -
L'assurda spiegazione di Kisame sancì la fine dei mh, sostituiti dal più assoluto e gelido silenzio. La cosa avrebbe ammutolito sul posto chiunque, ma non Kisame:
- Sasori non ha preso troppo bene la cosa. Credo contasse di adoperarlo per una delle sue marionette... -
- Benvenuti. Cosa posso portarvi? - Fu la voce sorridente della ragazza ad interrompere Kisame.
Alzarono la testa quasi contemporaneamente, l'Hoshigaki e Itachi, fissando il volto chiaro e sottile sospeso sopra ad una nube di vesti viola da farfalla. Il ghigno sul volto del gigante s'ampliò ulteriormente, scoprendo i denti affilati come zanne:
- Ma guarda chi c'è... Tagliavento! -
La ragazza cominciò a disporre le tazze sul tavolo, il capo chino:
- Mi chiamo Hanako, signore. - Lieve, oh, così lieve! Delicatissima nel suo appunto, come se stesse correggendo una cosa di poco conto.
Kisame sghignazzò apertamente:
- Come ti pare, cara. Ci porti del saké? -
- Certo, signore. Cos'altro volete? -
- E' divertente farsi servire in tavola da Tagliavento. - Commentò Kisame senza risponderle, appoggiando un gomito sul piano di legno e guardandola con espressione intensamente beffarda. Era tanto alto e la ragazza tanto minuta che, anche da seduto, aveva la faccia alla stessa altezza di quella di lei. - Le altre cameriere alle squadre speciali di quale villaggio appartengono? -
Hanako si decise finalmente ad alzare gli occhi grigi per posarli su di lui. Non sorrideva più, adesso:
- A nessuna squadra, signore. Potremmo evitare di parlarne, se non vi spiace? Desidererei restar viva qualche altro anno, e andando avanti così non arriverò nemmeno al mese prossimo. -
- Riso con verdure. - Li interruppe Itachi tutto ad un tratto. Il tono era quello del massimo disinteresse, venato quasi impercettibilmente da una punta di fastidio.
- Riso con verdure e sakè. - Riepilogò lei. Sorrise a Kisame, subito dopo, inclinando il capo su una spalla con un gesto grazioso, il sorriso tornato al suo posto sul volto: - Zuppa di pesce? -
Il gigante le rivolse un accondiscendente cenno di congedo con una mano:
- Brava. - La seguì con lo sguardo per un attimo, prima di tornare a rivolgersi a Itachi: - Se non altro, l'anello sarebbe stato utile per un nuovo arrivato. -
- Kisame, era un braccio e basta. -
Sembrava che per Itachi la cosa liquidasse il discorso, ma il suo compagno non pareva dello stesso avviso:
- Un braccio di Orochimaru. -Puntualizzò con un mezzo sogghigno. - Quell'uomo è viscido come i serpenti che si porta dietro. Scommetto che ne ha anche nel letto. -
A giudicare dal neanche troppo vago disgusto sulla faccia di Itachi, discorrere delle animalesche compagnie notturne del sunnominato Orochimaru non rientrava tra i suoi immediati desideri.
- La faccia che ha fatto quando si è reso conto di non avere più niente oltre il gomito è stata impagabile. -
- Nh. -
- Pare sia tornato a giocare ai confini del Fuoco e che voglia costruirsi un villaggio tutto per sé. -
Buon pro gli faccia, pensò Itachi, sentendosi tutto ad un tratto particolarmente esasperato dalle chiacchiere del compagno. Buon pro gli faccia, verme schifoso, lurida serpe...
... purché lontano da Sasuke.

Era una cosa della quale tener conto, si disse, quella.
Hanako che tornava con la cena interruppe i suoi pensieri; ma non fermò Kisame che, mentre lei distribuiva le ciotole fumanti e quelle più piccole per il sakè, riprese a parlare:
- Non era interessato alle forze portanti: ma, se dovesse capitare a Konoha, potrebbe decidere che non gli farebbe precisamente schifo averne una... -
- Kisame. - La voce di Itachi aveva la stessa intensità e lo stesso tono di uno dei laconici mugugni che usava generalmente per esprimersi, ma era anche straordinariamente definitiva.
Kisame lo guardò vagamente perplesso, per un attimo, prima di spostare lo sguardo da lui alla ragazza silenziosa:
- Tanto non parla. - Affermò, divertito. La perplessità si dissolse nell'ennesimo ghigno, mentre batteva un colpo sul tavolo: nulla di che, appena una pacca data con il palmo della mano, sufficiente però a far sussultare tutte le tazze. - Siediti con noi, Tagliavento. -
Hanako esitò. Spostò lo sguardo per istinto verso Itachi, che, dopo un attimo di perfetta immobilità, le rivolse un impercettibile cenno d'assenso. Lei prese una sedia e la trascinò verso il tavolo, accomodandosi poi proprio sull'orlo, le mani in grembo; resistette a fatica all'impulso di tirarsi le ginocchia verso il petto, perché sarebbe sembrato quantomeno strano, un gesto così in mezzo a tutta quella folla.
Kisame si versò una dose generosa di sakè, gustandone un lungo sorso, prima di tornare ad adocchiare la ragazza:
- Sei cresciuta un po', Tagliavento. -
Lei aveva appena pensato la stessa cosa di Itachi: che era più alto ed aveva le spalle più larghe ed il viso più sottile, persa ogni traccia residua della morbidezza dell'infanzia. Ma sembrava anche, tanto per cambiare, un po' più pallido ed un po' più stanco.
- Sei mai stata fuori dal Paese del Vento? -
- No, signore. -
- Sai chi è Orochimaru? -
Orochimaru. Cercò di ricollegare il nome a qualcosa di familiare.
- Konoha. E' uno dei tre Leggendari. E' un tradit... -
- Sì, sì. - Kisame la interruppe con un gesto vago. - Traditore. La solfa la conosco già. -
Cominciò ad aggredire con appetito la ciotola di zuppa. Nel brodo rosso galleggiavano i pezzi di carne bianca e filacciosa.
Hanako arrossì bruscamente: un po' per il pensiero di quel traditore, feccia, che le suonava come una cantilena fastidiosa nella testa, un po' per la sensazione di avere addosso gli occhi scuri del ragazzo pallido. Nel cercare un posto dove fissare lo sguardo che non fosse né la faccia del gigante né quella di Itachi, si trovò a posare gli occhi sulla Samehada appesa dietro alla sedia dell'Hoshigaki. L'uomo se ne accorse, e il suo sorriso si fece un poco più sbieco:
- Ti piace, Tagliavento? -
Forse fu per il fastidio di sentirsi chiamare ancora così, con quel nome pesante per il suo carico di sangue e schifo, ma la risposta le uscì fuori venata da una punta d'astio in più di quanto fosse ragionevole:
- E' ingombrante. -
Il gigante non parve indispettito; semmai, divertito.
- Le tue armi quali sono, Tagliavento? -
- Io non ho armi, signore, e mi chiamo Hanako. -
- Le tue armi quali sono, Hanako? -
D'accordo, gliel'aveva data vinta. Una gliel'aveva data vinta. Lei avrebbe pagato oro purché lui la smettesse di usare quel nome orrendo, e in fondo si trattava di dire una cosa di nessun valore, no? Una cosa da niente...
- Voi le avete già viste, signore. -
Parlare davanti a Itachi era come avere uno spettatore astratto e immobile intento ad assistere ad una conversazione che non lo riguardava e che, dopotutto, non lo interessava poi tanto: però Hanako aveva come l'impressione che fosse solo una posa, e che Itachi ascoltasse e memorizzasse, perché era quello che anche lei faceva, dopotutto, ascoltare e memorizzare.
Si guardò intorno per un attimo, gli occhi chiari che passavano distrattamente sulla folla di avventori, prima di staccare uno dei ventagli di carta di riso che teneva appesi alla cintura. Lo aprì con un dito, tenendone l'impugnatura tra pollice e indice, appoggiandoselo in grembo.
Kisame sghignazzò, derisorio:
- Quella roba? -
Lei richiuse il ventaglio, tornando ad assicurarlo con cura alla fascia variopinta che le serrava la veste:
- Desolata di deludervi, signore. -
- Hai detto che non sei un ninja medico. - Questo era Itachi, che doveva aver deciso fosse giunto il momento di tornare ad unirsi alla conversazione.
- No, signore. -
- Ma hai curato me. -
Kisame sembrava bersi ogni singola parola di quel discorso. Itachi pareva ignorarlo con grazia; per Hanako era un po' più difficile fingere di non accorgersene.
- Conosco solo i principi. Le cose più semplici. -
Il ragazzo pallido parve riflettere, per un attimo. Infine affermò:
- Sta bene. Procuraci una camera e vieni con noi. -

Le era occorso un po', una volta nella stanza, per capire precisamente cosa Itachi volesse. La prima spiegazione era stata, infatti, un assai laconico:
- Devi controllare i miei occhi. -
Con quelli di lui addosso, lei faticava a mantenersi razionale e ragionevole; e la presenza incombente e difficilmente ignorabile di Kisame, seduto sul bordo del secondo letto forse cinque passi più in là, no, non l'aiutava affatto.
Itachi spostò la solita poltrona di vimini, girandola per poterla fronteggiare e mettendosi a sedere su di essa.
- Gli occhi? - Mormorò lei, incerta.
Lui annuì, pazientemente, e si decise ad adoperare un numero di parole accettabile per spiegarsi chiaramente:
- Ho bisogno che tu controlli i miei occhi. Credo che qualcosa di ciò che ho fatto li abbia danneggiati. -
- Siete stato colpito? - Non sembrava: non c'erano segni, sul viso, né odorava di sangue. Probabilmente non era ferito neanche dietro la testa, tra i capelli. A fiutarlo così da vicino sapeva solo d'arancia.
- No. - E poi, con una punta d'impazienza crescente: - Fai questo controllo e non fare domande. -
Itachi non pareva avvezzo a sentirsi dire di no e, pensò Hanako con una punta di rammarico, lei proprio non era in grado, non se la sentiva, di cominciare ad abituarlo in tal senso.
Tese le mani, posandogliele sulle tempie con le dita distanziate l'una dall'altra, e, sforzandosi di ignorare lo sghignazzare nemmeno troppo discreto di Kisame, cominciò a far confluire il chakra nei polpastrelli: le scorreva liquidamente in corpo, morbido e docile come se tutti quei mesi passati senza battaglia non fossero mai trascorsi, non avessero fatto differenza. Lo concentrò sulla punta delle dita e chiuse gli occhi.
Estraniati.
Era la voce di Mizuki, nella sua testa, ad ordinarlo. C'erano le mani di Mizuki, sulle sue, che le spiegavano dolcemente:
Concentrati.
Si concentrò.
Cerca.
Mandò il suo chakra, prima piano, delicatamente, quasi a voler preparare la pelle e le vene all'intrusione di potere, poi con maggiore energia, giù nella testa di Itachi, oltre le tempie e le ossa, dentro la sfera delicata degli occhi. Gli posò i pollici sulle palpebre con infinita gentilezza.
Cerca, cerca. Cosa c'è che non va, qui, piccola Hanako?
- Sono rovinati. - Esclamò, sorpresa. - E' un... - Cercò le parole giuste per spiegarsi, perché non era un medico, lei, e Mizuki avrebbe saputo il nome giusto delle cose, ma lei non lo conosceva. - ... c'è qualcosa che si è staccato, dentro. Come avete fatto...? -
- Lo puoi sanare? -
- Io non... - Qualunque cosa fosse quello strato sottile che non era dove avrebbe dovuto essere, doveva fargli il mondo sfocato di fronte agli occhi. Se ne sentì ferita, stranamente: una specie di fitta al cuore, al pensiero che gli occhi neri vedessero male, non vedessero lucidamente. Il diniego che le era sfuggito dalle labbra venne soffocato rapidamente: - Ci provo. -

Era stancante, Hanako se ne rese conto sin da subito. Era stancante. Adesso poteva capire Mizuki che, dopo averle curato qualche ferita particolarmente profonda, si rannicchiava certe volte in un angolino del letto e dormiva per ore ed ore di un sonno privo di sogni, privo di incubi e di movimenti, quasi comatoso.
Hanako faceva scorrere il chakra attraverso le dita e gli suggeriva di sanare quel che era rotto, di riportare strato su strato e di rimettere i nervi al loro posto. A lei bruciavano le dita, e doveva essere piuttosto doloroso anche per lui: che, però, se ne stava fermo e non cambiava espressione. Era faticoso soprattutto capire qual era il modo giusto di rimettere a posto le cose: non c'erano ferite visibili, apparenti, ma solo la percezione di quel qualcosa fuori posto nell'occhio.
Staccò le mani dal suo viso, dopo aver portato avanti quel lavoro a lungo, sentendo una specie di torpore doloroso farle percepire la pelle delle mani e delle braccia come cera fusa, sudata e accaldata, la schiena scossa da piccoli brividi che non riusciva a frenare.
- Vi sentite bene, Itachi? - Questo era Kisame. Per tutto il tempo dell'operazione se n'era rimasto seduto sul letto ad osservarli, una mano posata sull'elsa della propria spada colossale.
Il ragazzo rispose lentamente:
- Vedo meglio. -
Hanako sorrise. Esausta, sentì le gambe cederle e piegò le ginocchia per attutire l'inevitabile urto con il pavimento: urto che, però, non venne. Si trovò di nuovo sul letto senza ben capire come aveva fatto a finire lì e non per terra. Forse ce l'aveva spinta il ragazzo, che adesso era in piedi di fronte a lei.
- Dormi. - Le ordinò.
Sembrava una costante, quell'ordine: arrivava, prima o poi, presto o tardi, tutte le volte arrivava. Lei non voleva dormire, perché dormire significava perdersi qualcuna di quelle preziose, rare ore che poteva passare in sua compagnia. Le sembrava uno spreco indescrivibile: così scosse la testa. Itachi non ne sembrò infastidito. Si limitò a replicare, paziente e deciso:
- Dormi. -
D'accordo: era evidente che non fosse per nulla abituato a sentirsi rivolgere quella parolina, no, e sembrava proprio non sapesse nemmeno come rapportarsi ad essa.
Hanako tirò le ginocchia verso il petto, sentendo i brividi quietarsi al contatto con le coperte, ora che non doveva sforzarsi per restare in piedi.
- Dovremmo ucciderla, Itachi, adesso. - Tanto per cambiare, Kisame sghignazzava. - Sa del vostro piccolo problema. -
Lei non cercò nemmeno di protestare: troppa fatica, innanzitutto, e poi aveva come la vaga impressione che sarebbe stato inutile. Il pensiero di aprire bocca e dire qualcosa era intollerabile per la crescente emicrania che le stava germogliando proprio in quel momento tra le tempie.
Tra le palpebre socchiuse vide il ragazzo sedersi sulla poltrona di vimini: rimpianse che non fosse venuto da solo perché, magari, se fosse stato solo l'avrebbe abbracciata di nuovo, e lei avrebbe potuto avere un altro po' d'odor d'arancia nella testa a farle più leggero, più facile, il respiro.

Dormì, malgrado tutto. Non poté proprio farne a meno, nel silenzio della stanza dove solo il rumore di Kisame che puliva la propria spada, Samehada, creava echi di suono ovattati, non quando la possibilità di dormire con la certezza che non avrebbe fatto incubi, come potevano gli incubi passare attraverso il ragazzo pallido?, era così allettante.
Dormì e, al risveglio, si trovò con la testa del ragazzo sopra la propria.
- Ce ne andiamo. -
Vedeva solo la sua testa, nella penombra grigia della stanza, doveva essere l'alba, e sentiva solo il suo odore, profumo, arancia, arancia, che sembrava riempirle anche la pelle, oltre che la gola, saturandola.
- Mh. - Non trovò nulla di meglio da dire, ancora confusa per il sonno, che quel verso soffocato, a metà tra un mugolio ed un mugugno, incerto e discretamente deluso.
Era già mattina. Fece forza su un braccio per sollevare il volto d'un soffio: voleva solo andargli vicino per annusarlo meglio, e invece sentì le labbra del ragazzo sulle proprie, ancora, calde e morbide e stranamente gentili. La lingua di lui le lambì il contorno della bocca, come curiosa, e Hanako pensò che il sapore le sarebbe rimasto addosso più a lungo questa volta. Chiuse gli occhi, con un brivido.
- Guardami. -
Una mano le affondò nei capelli dietro la nuca, intrappolandola mentre le parole, risuonandole a fior di labbra, le causavano l'ennesima eco di brividi leggeri. Suonava come un ordine. Un po' per forza d'abitudine, un po' per la sorpresa, obbedì e lo guardò.
Itachi la fissava senza muoversi, ed era difficile capire cosa gli passasse per la testa. Le venne da arrossire bruscamente, tutto ad un tratto, senza sapere bene perché. Una mano di lui aprì una delle sue e le lasciò scivolare sul palmo quella che, al tatto, sembrava un'altra moneta. Hanako allargò le dita e le intrecciò con quelle di Itachi, accarezzandogli con la punta dei polpastrelli la pelle.
Le piaceva.
Le piaceva quell'odore, le piaceva la sensazione del calore.
Le piaceva il modo in cui i capelli di lui, scurissimi, le scivolavano sui viso e si mescolavano ai suoi, chiari, pallidi, e le sfioravano le guance.
Le piaceva il modo in cui piegava la testa, le piaceva avere il suo respiro sul viso.
Le piaceva il vuoto che le si formava nello stomaco, un vuoto fatto di farfalle e eccitazione, ad avere le sue labbra così vicine.
Le piaceva il ricordo della sua voce e il desiderio di ascoltarla ancora, anche se quella voce lei l'aveva sentita solo negli ordini e nelle poche frasi, brevi e smozzicate, che avevano formato tutti i loro discorsi.
Desiderava rannicchiarglisi addosso. Allacciargli le braccia attorno alla vita per trattenerlo, fermargli le mani e bloccarlo al letto perché non se ne andasse, per avere un altro po' di tempo, di calore, per sottrargli un altro bacio. Invece strinse la moneta nel palmo, senza opporsi quando lui sfilò la mano dalla sua, e chiuse gli occhi, adesso, sentendolo allontanarsi:
- Hanako. -
Le piaceva più di tutto, quello: sentirsi chiamare, così, perché non era né un ordine né una minaccia, era solo il suo nome, Hanako, e le sembrava terribilmente giusto se a pronunciarlo era la voce di lui.
- Buon viaggio. - Bisbigliò piano.
Buon viaggio e torna. Per favore, per favore, torna. Doveva avercelo scritto in viso, quello. Per favore, torna.
Ad occhi chiusi sentì una mano passarle tra i capelli, dalla fronte alla nuca, scompigliando ed annodando le ciocche lisce e sottili. Poi la mano si staccò, e i passi, i passi verso la porta e poi oltre. Altri passi più pesanti, oltre la soglia, che si univano a quelli lievi e come ovattati del ragazzo, e infine il silenzio.
Tra le sue mani, la moneta sembrava scottare.





Note

Io ne approfitto per fare spudoratamente pubblicità a uno dei forum che più mi fa contenta frequentare ed al concorso lì indetto da suni, la padrona di casa:
Amor, ch'a nullo amato amar perdona...

Detto questo, io adoro Kisame. Uno dei miei scontri preferiti sul manga è quello tra Gai e Kisame: sono due pazzi che si affrontano, due folli che se le danno e nel frattempo blaterano di non si sa bene cosa (non lo sanno neanche loro bene cosa, è sicuro), con tre diciassettenni mediamente normali che stanno lì e li guardano.

Un grazie a Salice per la lettura preventiva e le correzioni del capitolo: Salice che, tra le altre cose, si ostina a commentare capitolo per capitolo, indefessa, mai stanca, mai avvilita, malgrado abbia già letto tutto. U.u Ma facciamo finta di niente, che poi mi parla di libertà del commento...
E un grazie a chi legge e a chi commenta.


Salice: Ma come, gli Uchiha? *_* Famosi per il loro entusiasmo, la loro giovialità e, soprattutto, la capacità che hanno di superare i traumi e andare avanti...! Madara non ne ha colpa se c'era un certo Fugaku al quale giravano le scatole: lui ne ha solo approfittato un pochettino, scusa. Hanako e Itachi si meritano a vicenda: depressione portami via... xD

_Ala_: Sì, infatti a rileggere il capitolo a distanza di qualche mese realizzo che va bene l'ingenuità, tenerissimo l'imbarazzo, dolce da diabete l'atteggiamento, ma Hanako perplime un poco anche me che tutto ciò l'ho scritto. Liquidiamo il tutto con un zuccherosissimo "è innamorata!" e non ci si pensi più. xD Pensa che io che leggevo il 43 mi deprimevo più per questo che per la strage del clan: non solo li ha dovuti massacrare (con conseguente senso di colpa), ma poi si è dovuto sobbarcare anche il peso di tutte le accuse, tutto l'odio, e poi la fuga, l'assenza di una qualunque forma di vita normale... a tredici anni! Kishimoto è un sadico, ne sono sempre più convinta mano a mano che leggo. Grazie per i complimenti!


fonte immagine: Kisame_for_Tryus_San_by_artemis_girl

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 16. luna ***




16. luna



Torna, lui, ad intervalli irregolari di tempo. Possono passare un mese, due mesi o una settimana tra una visita e l'altra. Può arrivare da solo o con il suo compagno, l'Hoshigaki, che a lei piace sempre più, che adesso ogni tanto la chiama Tagliavento, ma sempre più spesso usa il suo nome, Hanako, e che per nome si fa chiamare, lui, Kisame, con una specie di piacere divertito.
Ogni tanto siedono assieme al tavolo, e per un po' lei si scorda di tutto il resto, l'
Heya, Noa e Hiroto che la guardano sorprese, il padrone della locanda che aggrotta la fronte, ma dopotutto è lavoro, no? Solo altro denaro che entra, perché loro due sono clienti che arrivano e pagano. Se vogliono sempre la stessa ragazza a lui cosa cambia?
Hanako è felice. Raggiante, anche la sua prigione le sembra un po' più lieve, adesso, e il pensiero di dover passare anni, decenni, lì dentro, sino alla morte, non è più intollerabile. Lo sopporta molto meglio, ora che sa che lui torna, che torna all'
Heya e che torna per lei. Non sa da cosa le venga fuori questa consapevolezza, ma sa, capisce, Hanako, che non c'è altra ragione che lo porta ad Idomizu se non trovarci lei, tutte le volte, con la quale dormire.
Quando ha piovuto lei può mettergli le mani tra i capelli per asciugarli: è una delle cose che più le piacciono. Potesse, ci passerebbe la vita con le dita sepolte tra quei capelli.
Ogni tanto lui arriva con una ferita addosso: cose leggere, sempre più leggere man mano che il tempo passa e lui sembra farsi più alto e più forte, a malapena graffi. Lei lo rattoppa e bada ai suoi occhi. Così come lui si fortifica, loro si indeboliscono: sempre più spesso Itachi arriva con la testa che gli scoppia per il dolore di quella sua vista che non mette bene a fuoco le cose. Vede attraverso un velo. Il chakra di lei toglie quel velo, e per un po' gli occhi sono di nuovo a posto.
Kisame le ha spiegato che è una tecnica a causargli questo: gli occhi di Itachi sono occhi di Uchiha, un clan di Konoha, e quella sua abilità innata della quale lui le aveva detto quella prima notte è un dono prezioso, speciale, con un prezzo pesante da pagare.
Lei non sa chi siano gli Uchiha: non conosce quel nome, e il fatto di non conoscerlo significa probabilmente solo che non sono traditori, perché tutto quell'elenco che lei ha nella testa è un elenco di
feccia, l'elenco che le era stato fatto imparare perché potesse far bene il proprio lavoro.
Quando non c'è Kisame, Itachi la prende tra le ginocchia, di nuovo, e la fa appoggiare a sé. Le pettina i capelli con le dita: sembrano piacergli quasi quanto quelli di lui piacciono ad Hanako, e gioca con gentilezza tra le ciocche.


Le monete erano ormai troppe per poterle tenere nella fascia della veste: le conservava in un vasetto di vetro nella propria stanza, accanto alla scatola dove custodiva tutte le cose di Mizuki che le era stato possibile portare via con sé nella sua fuga.
Di quelle monete ne aveva una sola sempre con sé, la prima, e ci giocava spesso anche davanti ad Itachi. Lui sembrava trovarlo divertente, perché ogni tanto, guardandola, sorrideva.
Ecco: il sorriso di Itachi era per Hanako una novità sorprendente. Tre anni che si conoscevano, ma quel sorriso era emerso solo nel corso degli ultimi mesi, dapprima velato, appena abbozzato e subito nascosto, ma poi via via più sicuro, ogni volta di più. Sembrava dovesse imparare a sorridere, tutto da capo, come se si fosse dimenticato per qualche ragione come si faceva. Hanako avrebbe dato via pezzi di sé pur di poter vedere sempre quel sorriso.
Itachi era venuto da solo, stavolta, così lei gli aveva fatto il nido addosso: malgrado si fosse alzata un po', fatta meno esile e meno terribilmente minuta, era ancora piccola a sufficienza per stargli comodamente tra le ginocchia mentre giocava con la sua moneta, facendosela passare tra le dita con un'abilità da giocoliere.
- Ti piace. - Un'altra novità era Itachi che apriva bocca di propria spontanea volontà e non per dare ordini.
Gli sorrise, perché era bello sorridergli anche quando non c'era proprio un motivo specifico per farlo, replicando candidamente:
- Mi piace molto. -
I polpastrelli del ragazzo le disegnavano uno zigomo con distratta curiosità.
- Dovresti usarle, quelle monete, e non giocarci o rifiutarle. Ci puoi pagare la libertà e la fuga. -
Le scappò un brivido, a quelle parole. Le dita che giocavano con la moneta si fermarono, mentre gli appoggiava il capo su una spalla e respirava piano, cercando di riempirsi la testa dell'odor d'arancia per schiacciare in un angolo tutti gli altri pensieri.
- Puoi pagare dei ninja, al confine, perché ti aiutino. Puoi provare a passare nel Paese della Pioggia. Sunagakure non ha influenza, lì. -
- Mi verrebbero a cercare lo stesso. - Mormorò Hanako. Chiuse gli occhi.
- Perché dovrebbero? -
- Perché sarebbe un segno di debolezza non farlo. Un conto è che io stia qui: mi sono punita da sola. Un conto è lasciarmi andare: sarebbe far mostra d'indulgenza verso un disertore, un traditore. Non se lo possono permettere. -
- Non hanno alcun potere su Ame della Pioggia. Puoi raggiungerla prima che si accorgano della tua fuga. -
- Ad Ame non amano i disertori così come non li amano da nessuna parte. Non avrebbero ragione di scatenare battaglia con Suna per darmi asilo. - Si rese conto di tremare. Cercò di sistemarglisi meglio addosso, e, grata, sentì le mani del ragazzo smettere di passare tra i suoi capelli e posarsi sulla sua spalla per stringerla. - Mi riconsegnerebbero. -
- Puoi batterti. -
Il tremito divenne un brivido convulso.
- No, per favore. No. Non dire mai questo. Io non... io non combatto. Mai. Più. Mai più. -
Un attimo di silenzio.
- D'accordo. - Assentì lui, quietamente, alla fine. - Non lo dirò più. -
Il discorso si era chiuso così.

Torna sempre più spesso, lui. Qualche volta torna e sembra distrutto, non fisicamente ma psichicamente: in pezzi. E' una maschera, impassibile, ferma, gelida e compassata, ma poi fa qualcosa, qualunque cosa, piccoli gesti come un'esitazione prima di accarezzarla, un abbraccio un po' più forte, quasi serrato, convulso, il desiderio di non cenare e chiudersi in camera a digiuno, che rivela con un'evidenza quasi violenta la sua angoscia.
E' in frantumi, ed in frantumi Hanako se lo trova davanti, e non sa come prenderlo per riuscire a rimetterlo insieme. Non sa da dove partire, cosa dire, cosa fare, così qualche volta gli si inginocchia accanto e, anche se non ha piovuto, gli passa lo stesso le mani tra i capelli. Lui resta di pietra per un po', parecchio, e il tempo passa nel silenzio. Poi comincia a rilassarsi quel tanto che serve per permetterle di rannicchiarglisi tra le ginocchia, senza staccare le mani dai suoi capelli, e sempre zitta: ha capito che non gli servono proprio a niente, le parole, e non è che a lei ci sappia fare poi tanto con i discorsi. Nel dubbio, meglio il silenzio.
In genere torna in pezzi, Itachi, quando arriva ad Idomizu lungo la strada che porta a Konoha.


Fu una di quelle volte, e gli anni nel frattempo da tre erano diventati quattro, che Hanako se lo trovò davanti d'improvviso. Era notte tarda: la sala cominciava a svuotarsi, e il padrone dell'Heya già le le veniva incontro, con ogni probabilità per dirle di un cliente, quando si sentì stringere sotto il gomito, trattenere, e alzando la testa incontrò lo sguardo pesantemente esausto di un paio di occhi scuri.
- C'è una camera vuota? -
Il padrone dell'Heya inalberò la propria miglior faccia desolata, quella che Hanako gli vedeva tirar fuori solo con i clienti che per qualche ragione gli mettevano inquietudine, quelli che presumibilmente sospettava capaci di fargli a pezzi la locanda se indispettiti, cominciando a spiegare che l'ora era tarda, le strade erano state piene di viaggiatori, e in quella stagione...
- Puoi dormire da me. - Gli bisbigliò Hanako.
Un attimo d'esitazione da parte di Itachi, prima d'un breve cenno d'assenso. Passò una manciata di monete nelle mani del padrone dell'Heya e si lasciò guidare senza dir altro su per la prima rampa di scale che portava alle camere migliori, poi per una seconda rampa, verso le camere non proprio in cattive condizioni, e infine oltre la terza ed ultima scala, l'ultima, dai gradini che scricchiolavano rumorosamente.
C'era un gran silenzio, lì, un silenzio di quelli vuoti e quieti, da notte fonda e polverosa. L'impiantito scricchiolava sotto i loro piedi e la chiave nella toppa cigolò rumorosamente mentre Hanako apriva la porta: entrò e si fece da parte per lasciarlo passare, e si stupì nel vederlo esitare sulla soglia.
- Non... non entri? -
Itachi fece una cosa, l'ultima che si sarebbe aspettata di vedergli fare, che la sorprese, inizialmente, prima che un'onda di piacere, nostalgia e sofferenza l'invadesse e schiacciasse da una parte lo stupore: si inginocchiò e si tolse i sandali, lasciandoli fuori dalla porta come se quella fosse stata una casa vera, una vera stanza, e lei fosse stata una vera ospite, libera, una persona.
Le venne l'impulso irrefrenabile di chinarsi a sua volta e baciarlo sulle labbra, senza aspettare nemmeno che lui si risollevasse, e poi passargli le mani tra i capelli, le dita che urtavano il laccio che li stringeva nella coda, e accarezzargli la nuca. Non gli permise di staccarsi neanche quando fu in piedi: e se lo tirò dietro, semplicemente, indietreggiando un passo alla volta, un passo alla volta portandolo con sé.
La stanza di Hanako era piccola, perché c'entravano a malapena il letto ed una cassa in un angolo che doveva contenere tutte le sue cose: ma c'era una grande, grande finestra che dava verso l'esterno, verso la piazza e verso il deserto, e da quella finestra filtrava la luce candida come il latte di una luna pulita d'autunno, una luna di quelle che non hanno colore, né l'ambra dorata dei giorni caldi né il rosso delle notti umide e afose o l'azzurro pallido dell'inverno.
Itachi venne spinto a sedere sul letto da una mano insolitamente decisa, e poi si trovò lei addosso che lo baciava, ancora, e gli passava le mani dal collo alla schiena.
Itachi sentiva freddo. Freddo dentro, di quel freddo che non passa accanto al fuoco, e dolore, di quello che non c'è cicatrice che possa far chiudere.
Era stato a Konoha. Di nuovo. Sasuke.
Era stato a Konoha e Sasuke stava male. Stava male e non c'era nessuno che potesse prendersi cura di lui. Stava male e Itachi non poteva prendersi cura di lui.
Sasuke sarebbe guarito: lo sapeva, sapeva che sarebbe guarito, prima o poi, perché era solo febbre, solo raffreddore, ma Itachi avrebbe dato tutto quel che possedeva pur di poter essere con lui, adesso, subito, per non lasciarlo da solo.
- Non stare male. - Fu la voce di lei a tirarlo fuori bruscamente da sé stesso, estraendolo a forza dalla propria testa e riportandolo nella stanza buia con la testa ad un soffio dallo spigolo di quella finestra da dove entrava la luce che la prendeva, Hanako, e le faceva il corpo di luna. - Non stare male. - Glielo bisbigliava a fior di labbra, debolmente, in una preghiera. - Non stare male, per favore. Non stare male. -
Aveva ancora i capelli legati, e ad Itachi piaceva quando li scioglieva. Sentì le sue mani passargli di nuovo su e giù lungo la schiena, con decisione, come cercasse di scaldarlo in qualche modo. Aveva dita piccole, braccia sottili, un corpo leggero che sembrava dovesse frantumarsi da un momento all'altro. Gli venne voglia di baciarla.
Hanako piegò la testa per permetterglielo, e poi scese con le labbra su una guancia e sul collo. Itachi sentì il tepore nascere dove la sua bocca passava, come fuoco sotto la pelle, fiammella che scalda e non brucia. Le mani di lei scivolarono dalla schiena al torace, slacciando i bottoni che incontravano sotto le dita, aprendo i lacci della tunica nera.
Itachi riuscì a riemergere, a quel punto, quel tanto che serviva per ordinarle:
- Ferma. - Bene: la voce gli era uscita fuori quasi composta. Quasi, perché controllarsi con quel corpo lieve e profumato addosso non era precisamente la cosa più semplice che gli fosse mai capitato di dover fare.
Lei alzò la testa per guardarlo:
- Perché? -
Ecco, perché. Perché? Si chiese lui, confusamente.
- Perché non devi farlo. Non ti sto pagando per questo. Non ti sto pagando affatto. -
- Non basta che lo voglia io? Devo essere necessariamente pagata? -
Itachi sussultò:
- Non volevo dire questo. -
- Io voglio. - E poi, arrossendo vistosamente e con voce più bassa, mentre chinava la testa per appoggiargli la fronte al mento: - Vorrei. -
Non stare male. Itachi si ricordò come lei l'aveva pregato, solo un attimo prima, e sentì calore e dolore salirgli nel petto:
- Non devi farlo per me. -
- Ma tu puoi farlo per me? -
- Hanako... -
- Itachi. - Alzò il capo, la ragazza, per poterlo baciare a fior di labbra, leggermente. - Tu non vuoi? -
Di nuovo ebbe l'impressione di poterla fracassare, la farfalla, e insieme quella di doverla fracassare, subito, adesso, perché riuscirci dopo sarebbe stata sofferenza pura.
Crearsi dei legami era sbagliato. Sbagliato: un errore. Il primo errore di Itachi era stato Shisui: aprirsi con Shisui, confessare tutto a Shisui; ma all'epoca era stato Madara a rimediare, uccidendo Shisui, l'unico che avrebbe potuto aiutare Itachi, forse, l'unico che, almeno, ci avrebbe potuto provare.
Madara avrebbe trovato anche lei? L'avrebbe uccisa? Fracassata, farfalla?
E' tardi per pensarci. L'angoscia gli montava nello stomaco, gelida e tagliente, trasformandogli il respiro in veleno. E' già tardi per pensarci.
Le afferrò le spalle e fece leva con le gambe e l'addome per tirarsi in piedi, costringendola ad alzarsi. Lei non oppose resistenza: non ne opponeva mai, come una delle marionette che a Suna s'usavano tanto in guerra, docile e inerte; ma quella volta a Itachi sembrò le costasse più fatica del solito star ferma, perché la sentì irrigidirsi sotto le sue dita per un attimo, prima di rilassarsi e arrendersi di nuovo.
Piegò la schiena per avere il capo all'altezza di quello di lei e le afferrò il mento con una mano per forzarla a tenerlo sollevato verso di lui: gli occhi gli si riempirono di rosso, lentamente, le pupille che si liquefacevano in tre minuscole comete nere in circolo. Nella luce lattea di luna il viso della ragazza era pallido quanto e più delle sue dita contratte.
- No. - Bisbigliò Itachi, raucamente.
Hanako chiuse gli occhi, le ginocchia che si piegavano lievemente come ad un colpo ricevuto. Itachi si girò e, senza aggiungere altro, attraversò la stanza. Uscì.





Note

La decisione di mettere le parti con il tempo al presente in corsivo è stata dura e combattuta: non ne sono convinta neanche adesso ma, insomma, diciamo che sono piuttosto brevi e non mi è sembrato disturbassero troppo la lettura.
Sto tenendo il mio personalissimo conto alla rovescia in attesa di un capitolo che arriverà tra un po' e che mi è piaciuto tanto, tanto, tanto scrivere. A leggerlo non mi lascia del tutto soddisfatta, ma mentre lo buttavo giù mi sentivo euforica.

Un piccolo appunto, che preferisco mettere ora che c'è stato il riferimento ad Ame che non più avanti. Per scrivere Tagliavento ho sfruttato questa mappa:
Mappa
L'ho trovata su diversi forum, e mi è sembrata la più chiara e completa. Se avete correzioni da segnalare in proposito, sarò felicissima di sfruttarle.

Ed ora, risposte!


abcdefghilm: Vero che è strano, quel capitolo? Come dicevo anche a _Ala_, a rileggerlo adesso mi suona un poco strano. Non so come spiegarlo: ha qualcosa di stonato che un po' mi disturba. Ormai è così e me lo tengo, ma chissà? Magari in futuro ci rimetto le mani! Grazie per gli appunti ed i complimenti!

Rohchan: Ma ha fatto tutto Kishimoto! xD Se fosse stato un brav'uomo avrebbe fatto tutti contenti, e invece...

Salice: Oh, rieccoci qui, tanto per cambiare... *_* Ah, Kisame, Kisame! Ci sarebbe solo che da fondare un FanClub, per Kisame, con le tessere e tutto!


fonte immagine: MOON_by_utenasama

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 17. esplorazione ***




17. esplorazione



Mizuki e Hanako non portano la divisa delle squadre speciali: sono stati i loro superiori a ordinare che non la indossassero, perché così loro due sembrano ancora più piccole, ancora più innocue, perse nei vestiti naturali dei loro undici, dodici, tredici anni. Passano inosservate nelle città di frontiera, due bambine affiancate che si tengono per mano, l'una bionda e l'altra bruna, l'una seria e l'altra sorridente, l'una silenziosa e l'altra gentile.
In battaglia Mizuki, Falciacqua, si ferma nel mezzo dello scontro e fa da perno e da supporto a Hanako, Tagliavento: fendono e mozzano ambedue finché sulle loro vesti c'è solo il rosso nel sangue, grumi tra i capelli e i pezzi dei loro nemici tutt'attorno.
Nemmeno il resto della squadra speciale mostra qualche simpatia per le due bimbe mostruose di Suna. In battaglia Mizuki e Hanako paiono non provare nulla. Sono due bambole, due marionette che non gridano quando vengono ferite e non hanno impressione a guardare il proprio sangue mescolarsi a quello degli altri.
Quando sono sole, quando Suna è chiusa fuori dalla porta, Hanako invece si piega in sé stessa: anche Mizuki è in battaglia, sicuro, anche Mizuki miete la sua buona dose di morti, ma è Hanako ad usare la
Lama Verde, è Hanako a far danzare il vento e a passarci in mezzo per spiccare le teste, come il Kazekage vuole.
Mizuki la spoglia, ad Hanako, e le fa fare il bagno. La cambia, vestiti puliti, e la pettina come fosse una bambola, una dose di delicatezza e due d'amore, un giorno intrecciando le ciocche lisce, un giorno legandole sulla nuca in un nodo lento, un altro giorno sciolti, ma pieni di piccoli fermagli di legno e pietre luccicanti.
Mizuki veste sempre di verde e d'azzurro. Le stanno bene indosso, quei colori, sono d'acqua come lei. Mizuki non porta ornamenti, non porta gioielli: solo, attorno al collo tiene una piccola collana formata da un filo sottile e da tre piccoli cerchietti di metallo argentato.
Quella collana Hanako se l'è portata via da Suna fuggendo: l'ha tolta dal cadavere di Mizuki, e adesso le orna un orecchio. Un orecchio, non il collo, perché Hanako non è Mizuki. E' sempre con lei: Hanako non è Mizuki, ma Mizuki aveva molto da insegnare ad Hanako.
Hanako se ne ricorda, così.


Hanako si svegliò nel cuore della notte con la sensazione d'aver sognato Suna. Dopo che Itachi se n'era andato aveva dormito male e, sospettò, anche poco: la luna buttava ancora onde di luce bianca attraverso la finestra, nella stanza e sul letto, bagnando tutto ciò che riusciva a toccare di una luce come d'argento.
Ci mise cinque secondi a realizzare che cosa precisamente l'avesse svegliata, ed altri due a sorprendersene: nella penombra, la figura che le incombeva addosso era come una chiazza nera.
Fece per alzarsi a sedere di scatto, malgrado l'odore, arancia, avesse disattivato tutti gli allarmi alzati e accesi dalla propria testa: ma Itachi le premette contro una spalla con forza, bloccandola contro il letto.
- Itachi? - Chiamò, sorpresa.
Non aveva più gli occhi rossi per lo sharingan: il che era un sollievo, e neanche da poco. Però non sorrideva e non sembrava rilassato. Le premeva addosso con un braccio teso, lo sguardo fisso su di lei con un'espressione che Hanako non trovò rassicurante.
- La domanda di prima. - Il ragazzo aveva la voce rauca.
Hanako lo guardò, sorpresa:
- Come? -
- La domanda di prima. Rifalla. -
Lei dovette pensarci su per un po', prima di poter capire di cosa lui stesse parlando. Chiuse gli occhi, piegando il capo da una parte con il rossore che le saliva a fior di pelle in viso, scaldandole le guance.
- Tu non vuoi? - Bisbigliò dopo un istante.
Un attimo di silenzio. La presa di Itachi si allentò lievemente, ma lei non accennò a risollevarsi. Lui la interrogò, infine, gelidamente:
- Sai a chi lo stai chiedendo? -
- A te. -
- E sai chi sono io? -
- Non mi interessa. - Aveva risposto senza acrimonia, senza durezza: con candore, solo, puramente. Aveva riaperto gli occhi e sollevato il capo per poterlo guardare. - Non mi interessa. - Ripeté, pianissimo.
Il respiro che venne fuori dal petto di Itachi fu lungo, lunghissimo: sembrò voler spingere lontana da sé tutta l'aria che aveva trattenuto in petto sino a quel momento. Appoggiò le mani accanto alle sue spalle e si chinò per poterle premere la fronte sul mento, lentamente, in un gesto stanco.
- Non ti interessa. - Ripeté, piano. - E pensi che continuerà a non interessarti anche quando saprai la verità? -
Fu la volta di Hanako di trattenere il respiro. Le pareva d'essere sull'orlo di un dirupo: nel dirupo c'era qualcosa di molto buio e molto profondo che era rimasto nascosto sino a quel momento. La risposta giusta sarebbe stata una torcia in quel buio e in quel profondo. La risposta sbagliata l'avrebbe fatta precipitare, cadere giù, e non sarebbe mai più potuta risalire.
- Io credo che tu sia una persona buona. - Mormorò. - Sei una persona buona. Avresti potuto uccidermi la prima volta, la seconda, la terza. Non l'hai mai fatto. Io sono una prostituta, puttana, e tutti mi trattano come tale: tutti, tranne te. Hai cura di me: hai cura di me come ce l'aveva Mizuki. Tutto questo fa di te una persona buona. -
Chiuse gli occhi, per un attimo: quando li riaprì scoprì che Itachi aveva alzato la testa e la stava guardando. Anche nel buio poteva vedere il contorno dei suoi occhi, la forma del suo naso, delle sue labbra, il mento e il collo che sparivano nella tunica a nuvole rosso sangue. Gli sorrise debolmente:
- La verità è sempre una cosa molto più complessa di quanto sembri, no? Io sembro una vittima e tu sembri un assassino, ma io sono un'assassina e tu sei una persona buona. -
- Non sono feccia? -
- Se lo sei tu, lo sono anche io. Tu hai mezzo coprifronte ed io non ce l'ho per niente: l'ho lasciato nel deserto insieme a quello di Mizuki, perché il mio coprifronte era tanto sporco di sangue che quasi non si vedeva più il simbolo che c'era sotto. A me sta bene essere feccia. A me stai bene te. -
Silenzio di nuovo, prima che lei domandasse:
- Adesso posso avere una risposta, Itachi? -
Profumava, lui, nel buio. Profumava e, lei lo pensava, avrebbe potuto disegnare il suo corpo alla cieca seguendo solo quell'odore, arancia, lieve e dolce, un poco aspro nel fondo, frutta acerba e aspra e saporita, odore di monete regalate come chicchi di ricordi e di quei giorni di vita che le venivano offerti uno alla volta, gli unici che ai suoi occhi avessero valore: perché tutti gli altri giorni, quelli senza di lui, non erano vita.
Sentì le dita del ragazzo percorrerle il contorno del viso, e chiuse gli occhi con un brivido. Si chinò, Itachi, per mormorarle in un orecchio, dritto e vicino:
- Sì. -
Voglio.

La prima volta è cercarsi al buio, esplorarsi con curiosità ed incertezza, perché quella non è una tecnica e l'uno non sa come affrontarla, perché il cuore fa male e pulsa, e l'altra crede sia così che debba essere, sempre, e non ricorda che lo sia mai stato prima.
Quasi frenetico.
Trovare i lacci dei vestiti a tentoni, e non capire bene come s'aprono e strapparli via, così, quando la stoffa sulla pelle comincia ad essere insopportabile e tutto ciò che impedisce di toglierla è solo una perdita di tempo. Slacciargli i capelli, slacciarsi i capelli, lasciare che le dita si mescolino alle ciocche e scorrano tra di esse, liquidamente, liquidamente anche la pelle si fa acqua, le labbra si sostituiscono alle dita giù per il collo, giù per il petto e poi l'inguine, sempre esplorando.
La prima volta è soffocare i gemiti e i brividi contro il suo collo, il profumo d'arancia che riempie la testa: annegarci dentro, a quel profumo, sperando di fondere insieme odore e sudore finché non saranno di due uno. Sentirlo tremare, quando il piacere scivola dentro ad entrambi come una sorta d'onda violenta, le braccia che si piegano senza reggere più il corpo stanco, e sostenerlo con le mani e baciarlo, ancora, per rubargli il respiro prima che torni regolare.
La seconda volta è poco più tardi: lasciarsi guidare da lui a sedergli sull'addome, le mani che esplorano più lentamente, le dita che le disegnano le gambe, sentirle tremare e star dritta solo perché è lui a sorreggerla. E' ridacchiargli piano contro il torace dopo che in un bacio un po' frettoloso si sono trovati a sbatter quasi la fronte, e scoprire che anche lui ride. Non l'ha mai sentito ridere prima, e basta quel suono, piano, leggero, a farle montare di nuovo la gioia dentro, una cascata di scintille luminose che salgono e scendono dal petto, diffondendosi sino alla punta delle dita. Imparare a memoria le cicatrici che lui ha addosso: quelle che già conosce, quelle che è lei ad aver sanato, e quelle che le sono sconosciute. Rabbrividire per il piacere di quel corpo bianco e bellissimo e nudo, tanto chiaro da sembrare solo un'ombra di luna più luminosa delle altre, con la muscolatura snella e nervosa che emerge ad ogni movimento, come nascendo a fior di pelle. Rabbrividire di nuovo, sempre piacere, più intenso e sorpreso, quando si accorge di piacergli. Le dita del ragazzo le passano sulle gambe e sul seno, inseguendo quei segni chiari che sono i suoi segni di guerra, di battaglia, sfregi sottili che le vesti di giorno nascondono.
La terza volta viene dopo il sonno: hanno dormito insieme, rannicchiati l'uno addosso all'altra con le braccia che si intrecciano e si incrociano, le mani sepolte nei capelli del compagno, ciocche chiare e scure, e al mattino è difficile districarle. E' una volta più lenta, che procede con il tempo che serve e con la sensazione che l'alba è imminente.
Come una tagliola sulla notte, la luce chiude tutto.

- Questa è un regalo. -
Togliersi l'orecchino, svolgendo le nasse sottili di filo per poterlo riaprire e trasformare, di nuovo, in quel che era in origine: una collana, Mizuki, la cosa preziosa di Hanako. Avvolgergliela attorno al collo mentre è ancora sdraiato sotto di lei, e lui la guarda, con aria più perplessa che infastidita, alzando le mani per toccare il dono: le dita, nella luce grigio chiaro dell'aurora, incontrano i piccoli cerchietti di metallo.
- Cos'è? -
- E' mia. Era di Mizuki, ma adesso è mia. Vorrei l'avessi tu, se non ti spiace. -
Le dita bianche, le unghie dipinte di nero come un marchio indelebile che ricorda che il giorno è vicino, il giorno, viaggio e partenza, di nuovo l'attesa, percorrono la collana con curiosità e delicatezza.
- Non mi spiace. -
E' bello l'argento su quella pelle diafana. Fa venir voglia di baciargli il collo.


- Torni? - Glielo chiese emergendo solo con la testa dal groviglio di coperte e lenzuola, tirando fuori una chioma arruffata di capelli chiarissimi, gli occhi grigi come l'alba che nasceva fissi su di lui che si stava rivestendo.
Itachi non rispose. Quando fu pronto si sedette sul bordo del letto, tendendole un lacciolo. Lei scivolò fuori dalle coperte, tirandosi dietro il lenzuolo per avvolgerselo attorno alle spalle, e gli pettinò i capelli con le dita, legandoli infine nella solita coda. Lo guardò mentre s'allacciava il coprifronte, il nodo sepolto tra le ciocche scure.
- Torno. - Assentì lui alla fine. Si girò per baciarla sulle labbra, delicatamente: - Sta' viva. -
Io vivrò.
- Anche tu, per favore. -
Itachi non le rispose. Inclinò il capo da una parte e sorrise solo: non un sorriso di quelli veri, luminosi, ma un accenno un poco malinconico.

Lei si affacciò alla finestra per vederlo andar via. Di solito Itachi non si guardava nemmeno attorno, sicuro di sé e della strada che aveva da percorrere, che fosse solo o assieme a Kisame: ma stavolta si fermò, fatti pochi passi, e alzò il capo verso di lei.
Fu la volta di Hanako di sorridergli, sollevando una mano in un gesto di saluto. Lo seguì con lo sguardo, poi, mentre si allontanava.
Io vivrò. Ho una cosa, adesso, per la quale vale la pena riuscirci.





Note

No, non è questo il capitolo della mia euforia, anche se, a differenza di altri pezzi, mi piace stranamente.
Gli sono affezionata, diciamo.

Io e Salice (che la direzione dei lavori ringrazia come sempre, sentitamente, per tutto l'aiuto e il supporto dato) siamo riuscite finalmente a buttar giù qualcosina per quel simpatico progetto di storie incrociate che abbiamo in mente su Tagliavento e Il Giardino dei Mandorli: lei ha prodotto una cosina dolcissima e delicatissima, ed io qualcosa di deprimente.
Ma, non sia mai detto che io sono angosciosa, la prossima cosa che scrivo, giuro, sarà allegra come un kender in visita alla montagna degli gnomi.


Salice: Macché povera Hanako! Suvvia, bisogna essere duri! Spietati! Tutti d'un pezzo! E riguardo a Kisame: forse è un bene che non ne facciano più come lui, perché uno basta e avanza. Avanza, soprattutto... O.o


fonte immagine: Naruto___Itachi_07_by_nymphvt

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 18. deserto ***




18. deserto



- Si chiama Sasuke. -
Il deserto aveva mura di sabbia.
Il vento passava in mezzo a quell'onda d'argento pallido, brillante sotto la luna quanto una distesa d'acqua fredda, sollevando piccole dune come mareggiate improvvise. Il vento era forte e gelato, perché era vento di notte, di quello che lontano dalle oasi si alzava improvviso e faceva tremare i viaggiatori imprudenti. Il vento era piacere puro sulla pelle, fuso e gelido: penetrava con il suo tocco d'aghi sottili nelle braccia e nelle gambe, e Hanako avrebbe desiderato non finisse mai. Si chiese come aveva fatto a resistere per sei anni senza quel vento, senza quel tocco, senza mai averlo per sé, lei che era Tagliavento.
Itachi era seduto di fronte alla ragazza, in cima alla duna, e l'osservava girare su sé stessa come una bambina, come una danza, gli occhi socchiusi e le vesti che svolazzavano in nubi sottili di seta.
- Sasuke. - Ripeté lei.
Si fece passare il nome tra le labbra, abbreviando e allungando le vocali, accentuando le sibilanti e quel suono duro che lo chiudeva, quasi lo dovesse assaporare come una parola dolce.
- Quanti anni ha? -
- Tredici. - E poi, come distrattamente: - E' diventato genin l'anno scorso. -
Hanako smise di ruotare sulla sabbia, fermandosi per guardarlo:
- Oh. -
Itachi levò un sopracciglio in un'espressione, per i suoi canoni, estremamente espressiva. Hanako interpretò il tutto come una domanda:
- A quell'età io ero nelle squadre speciali da due anni. - Le venne da ridacchiare di fronte all'assurdità del pensiero, benché da ridere, in effetti, non ci fosse poi tanto. - E' stato l'anno in cui Mizuki è morta e io sono scappata ed arrivata qui. -
- Io sono diventato ANBU. E, oh, ho anche sterminato tutti quelli che avevano un po' di sangue Uchiha nelle vene, a tredici anni. - Replicò lui, laconicamente.
Sentirgli fare del sarcasmo era strano, era assurdo, era nuovo. La ragazza spalancò nuovamente le braccia, lasciando che il vento le si infilasse nella veste. Commentò dopo un po', serenamente:
- E' carino pensare che qualcuno a tredici anni riesca ad essere ancora genin. Si chiama vita normale. Avrebbero dovuto regalarla anche a noi alla nascita. -

Itachi è sempre andato piuttosto fiero della propria capacità di controllarsi. Sa che è necessario, per un ninja, celare le proprie emozioni, ancora più necessario per chi, come lui, è una spia che vive immersa nella menzogna, nella bugia, nell'inganno.
Ma tutta la sua fierezza e tutto il suo autocontrollo vanno al diavolo nel momento stesso in cui Hanako, dopo una notte passata insieme, si gira sul letto per poterlo guardare in faccia e gli domanda a bruciapelo:
- E' vero che hai massacrato la tua famiglia? -
Itachi vorrebbe risponderle mezzo milione di cose. Vorrebbe irritarsi. Vorrebbe gelarla con una qualche frase che le intimi di non fare domande, di non impicciarsi. Vorrebbe anche, ma questa è solo una piccola parte di lui, spiegarle tutto, farle capire, perché l'orrore sia mitigato. Invece risponde solo:
- Mh. -
Lei pare pensarci su per un attimo, come se quel mugugno fosse una risposta sensata... come se fosse una risposta e basta, dannazione!... prima d'assentire:
- Capisco. -
Gli caccia la testa contro il petto e, poi, più niente.
Dopo un po', Itachi si riscuote quel tanto necessario a guardarla, inespressivo, e a interrogarla:
- Non hai niente da dire in proposito? -
- Che cosa c'è da dire in proposito? -
- Ho ucciso mia madre. Ho ucciso mio padre. La mia famiglia, tutta, fino all'ultimo membro. Non hai niente di meglio da dire che “capisco”? -
Gli occhi chiari della ragazza sono limpidi e candidi: un poco inquietanti in tutta quella purezza inattaccabile, quasi aliena, come se avessero una qualche certezza, loro, che è difficile riuscire ad incrinare.
- Quale parte di
a me stai bene te non era chiara, Itachi? Credevo di aver già spiegato la mia opinione a questo proposito. -
E poi, visto che lui la guarda e non apre più bocca:
- Itachi... - Gli ricaccia il viso contro il torace, chiudendo gli occhi. - ... non mi devi dir niente, d'accordo? Te l'ho chiesto perché oggi c'erano due di Konoha, in sala, e si stavano raccontando qualcosa su un esame per i chunin
1: uno dei due ha detto che ci sarebbe stato uno scontro tra il figlio del Kazekage ed un Uchiha, e poi ha detto qualcos'altro ancora, sullo sterminio e su di te. Ma io non voglio sapere nulla che tu non voglia o non possa dirmi. -
Silenzio, ancora, da parte di Itachi: si protrae tanto a lungo che lei teme di averlo offeso o ferito. Ma Itachi apre bocca, alla fine, e lo fa solo per domandare:
- ... cos'hanno detto di Sasuke? -


Lei rise, vorticando sulla sabbia in punta di piedi.
- Erano anni che non mettevo piede fuori dall'Heya. -
Itachi lo sapeva, ovviamente. L'aveva sempre trovato orribile, un supplizio ed una tortura, e la prima cosa che aveva fatto per approfittare del nuovo potere che riusciva ad esercitare su di lei senza bisogno di ricorrere alle minacce era stata convincerla ad uscire. Non s'erano allontanati molto da Idomizu: la cittadina era ancora in vista, scura tra le dune d'argento, sotto ad una bellissima mezza falce di luna sorridente. Il cielo era trapunto di stelle pallide come cristalli. Il vento sembrava averlo lavato, pulito, perché non c'era alcuna ombra di nuvole o foschia.
- Potresti essere libera a breve, Hanako, di andartene in giro come più ti piace. -
Le parole di Itachi le fecero alzare la testa. Lo guardò, l'espressione apertamente interrogativa, e lui spiegò placidamente:
- Il Kazekage è morto da alcuni giorni. -
Di nuovo, la rotazione di Hanako si arrestò. Lei fissò stupita il ragazzo, gli occhi sgranati per la sorpresa:
- Itachi... il Kazekage è partito per Konoha. Per andare ad assistere all'incontro del figlio. Nell'esame per i chunin. -
Itachi scosse il capo con lentezza e la ragazza insisté, aggrottando la fronte:
- Ne parlano tutti. Hanno preso la strada a nord. Si muove con una piccola scorta, lo saprebbe l'intero Paese del Vento se fosse accaduto qualcosa...! -
- Il Kazekage non si è mai mosso da Suna, Hanako, perché è morto prima di partire. Quello che tutti credono essere il Kazekage è un impostore. Una maschera. Una finzione. -
Silenzio.
- E' morto? - La voce di Hanako suonava bizzarramente afona: pareva faticasse a trarla fuori dalla gola, e non riusciva a dare ad essa un'espressione, un'intonazione, forza.
Itachi annuì.
- Ne sei sicuro? -
Di nuovo, un assenso.
Hanako si lasciò cadere sulla sabbia: prima in ginocchio, poi seduta e infine sdraiata, i gomiti che sprofondavano nelle dune, gli occhi grigi sollevati verso Itachi. Li richiuse.
- Non lo desideravi morto, Hanako? -
- Era un assassino. - Affermò lei freddamente, sempre ad occhi serrati. Nessuna risposta, e questo le diede la forza di insistere: - Era un assassino ed una bestia. Il suo bambino, quello che combatterà contro tuo fratello, ha un mostro di quelli veri, nella pancia, a causa sua. Mizuki è morta per lui. Lui ha ordinato l'ultima missione anche sapendo che era un suicidio, e inutile, anche, pur di non darsi l'onta di rifiutare un incarico. -
Di nuovo silenzio, per un lungo istante, prima che Itachi annuisca e replichi:
- Lo so. - E poi, sempre placido: - La sua morte significa che sarai libera, probabilmente. Se lui è morto, Hanako, forse avrai occasione di allontanarti senza che ti vengano dietro. Occorrerà loro del tempo per eleggere un nuovo Kazekage. -
Hanako non aveva mai pensato seriamente alla fuga. Aveva sempre creduto che sarebbe morta prima del suo lontano, intoccabile, irraggiungibile carceriere di Suna: morta di stanchezza, di noia e di vuoto, morta accoltellata da uno dei suoi clienti dai quali non voleva difendersi, morta di malattia nell'Heya, morta, semplicemente, per mancanza d'aria e di vento, morta per nostalgia.
Adesso il pensiero di essere, forse, forse, libera, era qualcosa insieme di intollerabilmente grandioso e intollerabilmente spaventoso. Dove andare? Cosa fare? Erano tutte cose che non s'era mai chiesta prima d'allora.
Rimasero per un po' in silenzio tutti e due, abbandonati nella sabbia argentata e fredda che li circondava e che scorreva loro addosso, seppellendoli un po' alla volta quando il vento la smuoveva.
- Itachi... -
- Mh? -
- Torniamo dentro, vuoi? -
- Mh. -

Dopo quella volta Itachi le aveva detto che non sarebbe ritornato per un po'. Era rimasto per un paio di giorni, e lei aveva avuto il piacere lucido, lucente e infinito di svegliarsi al mattino sapendo che oggi lui non sarebbe scappato via, sarebbe rimasto, e che prima e dopo il lavoro l'avrebbe potuto avere per sé.
Il pomeriggio del secondo giorno era arrivato Kisame: si era fermato per la notte anche lui, portando storie e notizie che arrivavano da Konoha. C'era stata confusione durante l'esame dei chunin, e Konoha aveva probabilmente da aspettarsi un attacco prima o durante gli ultimi incontri. Il trio della Sabbia, i figli del Kazekage, dovevano essere gli strumenti per dar vita allo scontro, alla lotta, e poi sarebbe stata battaglia.
Itachi pareva impassibile come la pietra, nell'ascoltare tutto questo, ma, Hanako lo sapeva, dentro di sé doveva sentire il caos. Deve avere paura per Sasuke, si disse. Era strano pensare che Itachi avesse paura, però era anche piacevole: era umano.
All'alba del terzo giorno erano partiti, lui e Kisame, muovendo verso Konoha. Hanako era rimasta a guardarli dalla porta dell'Heya sino a quando non erano scomparsi in lontananza, e poi era rientrata.

Danzava, quelle sere, con il ricordo del piacere del vento e di Itachi sulla pelle. Il vento era freddo. Le mani del ragazzo erano calde. Il vento era sottile e delicato, anche la sua pelle lo era, le causava brividi che partivano dallo stomaco e risalivano fin dentro la testa, Itachi, il vento, non sapeva bene chi dei due.
Danzava, e le sue mani si muovevano con grazia luminosa attraverso la sala. Tagliava l'aria con i ventagli, passo elegante, passo di guerra che, sotto al peso delle vesti lievi di seta, si trasformava in qualcosa di etereo e leggero.
Il padrone dell'Heya la guardava in maniera bizzarra, in piedi oltre il bancone: aveva un'espressione un poco corrucciata, un poco distratta, come avesse qualche brutto pensiero nella testa. Hanako sapeva che lui non amava veder tornare periodicamente Itachi e il suo compagno. Erano una distrazione, innanzitutto, e poi lei era lei, no? Tagliavento, il padrone lo sapeva, lasciata nell'Heya perché non nuocesse a Suna, prigioniera con il beneplacito del Kazekage e delle sue squadre. Il padrone dell'Heya temeva probabilmente che Tagliavento si facesse venire in mente strane idee.
Strane idee.
Come una fuga.
Il pensiero le diede un brivido, insieme terrore e piacere.
Quando l'uomo le venne incontro alla fine della serata, si inchinò e gli sorrise.
- Un cliente ti cerca, Hanako. -
- Sì, signore. -
Lui sembrò esitare. Guardò le scale, poi lei, poi di nuovo le scale. Non ricambiò il suo sguardo, incerto e titubante, mentre le comunicava molto semplicemente, quasi a malincuore:
- Stanza 4. -
Per un attimo Hanako pensò di chiedergli con discrezione la ragione del suo atteggiamento: ma poi si disse che doveva essere per via di Itachi, colpa di Itachi, così non disse niente.

Salì le scale lentamente. Il pensiero di Itachi rendeva meno tollerabile, ultimamente, fare quel che era il suo lavoro, perché come poteva tornare tutto come prima, con il ricordo della pelle bianca e dell'odor d'arancia che le riempiva la testa? Però dopo si sentiva un po' meno vuota ed un po' meno sporca, sapendo che ci sarebbe stato lui, prima o poi, di ritorno dall'uno o dall'altro viaggio.
Davanti alla porta della stanza bussò piano. Venne ad aprirle un uomo alto dal sorriso gentile, con una zazzera di capelli scuri arruffatissimi e l'ideogramma della parola felice tatuato sull'occhio sinistro. Portava il coprifronte di Suna appeso al collo, ed una veste semplice ed anonima.
- Ti aspettavo. Entra pure. -
Anche la voce era gentile, un poco allegra. Hanako gli obbedì, scivolando all'interno con un mezzo inchino.
Le bastò mettere piede nella stanza perché tutti gli allarmi nella sua testa scattassero sibilando c'è qualcun'altro! Si guardò intorno, cercando di sbirciare attraverso la frangia chiara dei capelli, e sussultò lievemente quando sentì la chiave della porta alle sue spalle ruotare nella toppa una, due, tre volte. Cominciò a girarsi: cominciò e non finì, perché due mani rapide e brusche, ferme come una morsa d'acciaio, le bloccarono una spalla ed un braccio.
Si sentì spinta indietro con violenza, e, quando alzò la mano libera per cercare di divincolarsi, scoprì che l'uomo dal sorriso gentile le aveva afferrato anche il secondo polso, bloccandolo. Urtò contro la parete, e l'impatto le levò il fiato, per un attimo, mentre un'onda di scintille bollenti le risaliva nei polmoni e nella gola.
Il sorriso gentile dell'uomo non era più tanto gentile, ora, dopotutto. Sbatté le palpebre, cercando di mettere a fuoco l'intruso nella penombra: il viso non le era familiare, ma il coprifronte con il simbolo della Sabbia sì, ed anche la divisa, color polvere e color oro scuro, le fibbie argentate e i laccioli di cuoio nero, squadra speciale.
Dentro la sua testa sentiva una voce gridarle di darsi alla fuga, liberarsi, colpirli, ne era in grado, farli a pezzi e poi correre giù per le scale, fuggire, fuggire, non stare lì in quella stanza con la squadra speciale che era venuta per lei.
Farli a pezzi significava sangue. Non farli a pezzi significava morte, e lei aveva promesso ad Itachi che sarebbe stata viva.
- Hoshikaze, Tagliavento. - La voce dell'uomo sorridente la tirò fuori dal groviglio confuso e intriso di panico dei suoi pensieri. - Credevo foste più vecchia. -
Divisa tra la tentazione di replicare malamente e quella di cercare di liberarsi, Hanako non si mosse.
Colpiscilo all'addome. Sentiva un angolino della sua testa, l'angolino dove viveva Tagliavento, pensare ancora, ferocemente, a ciò che c'era da fare. Colpiscilo all'addome: un calcio appena sotto il plesso solare, fracassaglielo, è vicino, ce la puoi fare. Perderai il braccio destro probabilmente, perché l'altro farà in tempo a spezzartelo. Usa il sinistro, appena è libero, per tagliargli la gola. Feriscilo a morte, finisci il suo compagno, poi finisci lui.
Il pensiero del sangue era panico e nausea.
Il capo dell'uomo si accostò al suo, bisbigliandole in un orecchio con dolcezza:
- Siete uscita fuori, eh, Hoshikaze? Ma vi capisco. C'è un bel sole, in questa stagione, è un peccato stare rinchiusi. -
Anche la voce da assassina tacque tutto ad un tratto, sepolta nel terrore improvviso e gelido che era nato a quelle parole.
Un dito giocò con i suoi capelli, inanellandosene una ciocca attorno ai polpastrelli.
- Il vostro padrone s'è accorto della vostra stanza vuota e s'è preoccupato, Hoshikaze. Avete un padrone molto protettivo, sapete? -
Era uscita senza Itachi, perché il bisogno che quella prima boccata di vento e libertà le aveva messo addosso era irrefrenabile, era fisico, era necessità d'aria libera sulle pelle, di sole negli occhi e dietro la testa, necessità di vita.
- Non sareste dovuta uscire. Ma non importa, Hoshikaze, non importa. Non accadrà più, noi lo sappiamo. -
Il dito che giocava con le sue ciocche si piantò tutto ad un tratto contro il suo collo.
Fu come bruciare: fuoco, liquido, improvviso, che le scorreva nelle vene, nel sangue, risalendo verso la testa, scendendo sin dentro la punta delle dita e facendola ardere e sciogliersi, cera. Si piantò i denti nelle labbra per non urlare, ma tutti i nervi già gridavano, gridavano che smettesse, per favore, basta, basta, e il fuoco cancellava i pensieri e cancellava i ricordi, e l'odor d'arancia finì schiacciato sotto al lezzo di bruciato...
Si svegliò che la situazione non era migliorata affatto: era ancora inchiodata alla parete, tenuta ferma da quelle due coppie di mani che le bloccavano i polsi e la testa. Respirò a fatica, e non si stupì nel sentirsi la gola piena di qualcosa di denso e ferroso. Tossì, cercando di svuotarsi i polmoni, ma il dito dell'uomo sorridente le tenne il mento sollevato, impedendole di piegarsi e costringendola a soffocare nella schiuma sanguigna che le sfuggiva dalle labbra in rivoli bollenti.
- Il Kazekage è morto. -
Anche Itachi l'ha detto. Ha detto che è morto. Ha detto che sarei potuta fuggire. Ha detto che non avrebbero badato a me.
- Voi lo sapevate, Hoshikaze? -
Nega, nega, nega. Scosse la testa. Si aspettava quasi che lui la interrogasse ancora, si aspettava che le chiedesse di Itachi, Itachi Uchiha, di Kisame, ma invece l'uomo sorridente le credette.
- Immaginavo. Non lo sa ancora nessuno... quasi. Neanche voi lo sapete, ancora, ovviamente. Capite quel che intendo? -
Di nuovo quel maledettissimo dito, stavolta giocoso, lieve, contro una tempia. Niente dolore, ma la sensazione schifosa del panico al pensiero che la tortura potesse ricominciare.
- E' meglio che la nostra piccola conversazione rimanga all'interno di questa stanza. Hanako Hoshikaze, Tagliavento di Suna. Il Consiglio vuole che sappiate che se pensate d'approfittare della mancanza del Kazekage per cercare di scappare... in cerca di altri padroni... è bene che io vi dica che ogni tentativo di fuga sarebbe inutile, sì? Continuiamo a sorvegliarvi, come il Kazekage aveva deciso. -
Ma Itachi ha detto che è morto. Ha detto che sarei potuta fuggire. Ho pensato che sarei stata libera. Mi sono chiesta che gusto avesse, la libertà, e se sarebbe stata dolce come la sua pelle.
- E voi non dovrete uscire di qui. Mai più. Capite? -
Il dito non era più sulla sua fronte, ma ce n'erano altre, di dita, che le scorrevano sul collo e sul seno, facendole male, slacciandole la fascia intorno alla vita e cominciando a spogliarla.
- Mai più. -
Pensò che non l'avrebbero uccisa. Pensò che avrebbe potuto mantenere la promessa fatta ad Itachi, star viva, anche se avrebbe fatto male, anche se poi sarebbe stato nausea e dolore, ma che cos'è un'umiliazione persa negli elenchi di una vita da oggetto? Non chiuse gli occhi, ma si estraniò.
Spense la parte della sua testa che pensava da assassina e che ancora le suggeriva tutte le possibili reazioni, tagliare le gole, spaccare le teste, le ossa, la colonna vertebrale, a mani nude, spense la parte della sua testa che regolava le sue percezioni, lasciandosi scivolare in un mare ovattato dove le sensazioni erano lente e confuse. Spense quella parte della sua testa dove i ricordi dormivano: ne scelse uno per sé, uno solo, vento e mani, e si chiuse lì con esso.
Dormì, sognò.
Nella stanza, il suo corpo finiva in pezzi.





Note

(1): Chunin
Come nel caso del termine genin, ho optato per conservare il termine adoperato correntemente nella traduzione del manga.

Ho fatto molta fatica a descrivere i due della Squadra Speciale di Suna. La descrizione della divisa che indossa uno di loro, ovviamente, è inventata di sana pianta: ho provato a cercarne traccia nel manga ma, non essendovi mai detto esplicitamente che esiste una squadre simile agli ANBU anche per Suna (anche se è ragionevole presumere di sì, soprattutto perché in alcune missioni, come in quella della ricerca del corpo del Kazekage, si accenna alla loro presenza), non si vedono neanche. xD Per cui, ho preso ispirazione un po' dall'abito che Gaara indossa dopo essere divenuto Kazekage (e che io trovo fantastico e graficamente perfetto, un giusto miscuglio di solennità e abbigliamento da ragazzo), un po' dalla divisa degli ANBU, un po' dai colori tipici degli abitanti di Suna.

Il mio omino con l'ideogramma felice mi sta anche simpatico.

Si ringrazia Salice per le correzioni: anche se non andrebbe ringraziata, perché due giorni fa ha aggiornato Il Mistero del Quadro senza dirmi niente.
Ma io non sono vendicativa e non ucciderò Kisame per dispetto, proprio no. Davvero.


Salice: Il corsivo è una di quelle cose con le quali mi impiccherei volentieri. In particolare certe volte mi servirebbe un corsivo nel corsivo. xD Sai che per trovare un disegno di quella collana ho dovuto cercare su E-Bay? E' introvabile, nei disegni si vede sempre (giustamente U.u) la faccia di Itachi e mai la collana!


fonte immagine: google immagini

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 19. notte - preludi ***




19. notte - preludi



Il dovere era orrore.
Il dovere era panico e nausea e il pensiero atroce che non ci sarebbe stato mai più nulla, dopo quel dovere, e nulla mai più vi sarebbe stato se quel dovere non fosse stato portato a termine.
Il dovere era orrore, panico e nausea, e si era concretizzato nel momento stesso in cui Itachi Uchiha si era trovato a chiedersi se sarebbe mai riuscito a farlo, se ne sarebbe stato in grado, se sarebbe stato capace di passare da una stanza all'altra, da una finestra all'altra, cercando in ciascuna il sangue, sangue del tuo sangue, carne della tua carne, da qui fino all'eternità noi siamo, per farlo precipitare, quel sangue, sul pavimento.

Nel momento stesso in cui aveva cominciato a chiederselo, Itachi Uchiha aveva iniziato a dare consistenza ai propri incubi.

E venne la notte.


Plic.
buio sangue ruggine sangue caos
Morivano.
Non riesco a...
Nella pozza sul selciato non riesce a vedere niente. Se fosse acqua, ci si specchierebbe il cielo. Dal corpo sul tavolo il sangue cola come da un bicchiere rovesciato.
Plic. Fissa la goccia precipitare, morbosamente, sino ad esplodere sul pavimento nella pozzanghera viscida. Ploff.
Sangue nel sangue.
E' rosso. Sa di metallo. Non aveva pensato a come sarebbe stato l'odore, quando aveva cominciato a chiedersi se sarebbe mai riuscito a farlo. E' tremendo. E' dolore e ferro. E' panico. E' assurdo.
Scavalca il tavolo.
Scavalca il corpo.
Passa oltre.

Una stanza è fatta, ne mancano novantanove.

Uccide i due vecchi che vendono il pane all'angolo estremo del quartiere, vicino alle porte del ventaglio. Li trova addormentati nello stesso letto, le fronti quasi a contatto l'una con l'altra: fa piano, leggero, e loro muoiono nel sonno senza svegliarsi. Uccide un guerriero che si sveglia quando lui entra in stanza, invece, e prova a reagire: ma lui è ANBU, ANBU, il meglio del meglio degli assassini e dei ninja, e la testa del guerriero rotola in un angolo della camera. Sua moglie dorme ancora, mentre lui le trapassa il cuore. Uccide una ragazza che conosceva, forse, con il viso chiaro e le mani sottili, che si desta mentre la spada le passa nel petto, apre gli occhi e lo guarda. Muore anche Itachi, con lei, per un attimo.
Stanze, stanze. Due camere più in là trova due fratelli che dividono il letto. Hanno gli stessi capelli di Sasuke, le ciocche che sembrano indecise su dove posizionarsi e che litigano l'una con l'altra per sparpagliarsi disordinatamente, la stessa faccia, sottile, delicata, meglio non parlare del sangue che, Uchiha, è quel che li uccide.
Metodicamente porta avanti la strage, lui, e metodicamente porta avanti la propria distruzione, come una cancrena, quando i nomi diventano una litania troppo lunga per poter essere sciorinata e dei nomi restano solo facce e il ricordo del sangue, dappertutto, sulle mani.
Non andrà mai via. Vorrebbe poter vomitare. Non andrà mai via!

Cerca di non pensare, di non ricordare, ma è sua madre che uccide in ogni donna, suo padre nel viso di quelli in cui affonda la spada. Ogni bambino è Sasuke. Si dice che sarà più facile, così. Un po' alla volta, per abituarsi al pensiero di guardarne i pezzi.
Il sollievo lo invade ogni volta che pensa al dopo. Dopo non dovrà ricordare più nulla. Dopo potrà morire, solo, e il buio non saprà più di ruggine.
Sarò l'ultimo. Dopo di me più nessuno.
Bella fine, per una famiglia, avere come ultimo il proprio assassino.

Affondare la lama nel corpo del vicino di casa, del cugino. Affondarla nella zia antica, nell'amico, nel compagno di squadra. Affondarla nei figli degli Uchiha e non sentire quasi il dolore, perché va avanti con la consapevolezza che il dolore vero sarà quello che verrà dopo, dopo, nella centesima stanza, atroce e intollerabile, e ci sarà solo la morte ad avere pietà, a farlo affondare, anche lui.
E' la morte l'ultimo sollievo.

Novantanove stanze sono fatte, ne manca una.

Fino all'ultimo ha pregato, sperato, che arrivasse qualcuno, chiunque, un nemico, un morto, un dio, non gli interessava, a fermarlo, ucciderlo, fulminarlo. Un colpo che lo incenerisse lì dov'era, impedendogli di portare avanti sino alla fine l'orrore, l'ultimo, quello che non era sicuro di poter tollerare senza spezzarsi.
Sasuke non è in casa, ma ci sarà presto: in compenso Fugaku e Mikoto li ha trovati insieme. Fugaku deve essersi accorto per tempo che c'era qualcosa che non andava nel quartiere, perché Itachi è stato abile, silenzioso, e Madara è quel che è, Madara, è stato il primo di loro, sarà forse lui l'ultimo di loro, perché tutti gli altri Uchiha muoiono oggi, stanotte, ma Fugaku è stato a capo del quartiere del ventaglio per anni perché è capace, perché sa cosa fa.
Fugaku non è il burattino di nessuno. Fugaku ha contribuito alla morte di tutti loro. Fugaku è suo padre, padre, e mentre la spada di Itachi gli cala addosso non si difende, non tenta reazione alcuna: e Mikoto si mette in mezzo, così la lama prende lei.
Itachi non riesce a vederli, nessuno dei due, perché davanti agli occhi ha solo il ricordo di Mikoto che mette nella vasca lui e Sasuke, insieme, per poter far loro il bagno da bambini, e Fugaku che lo prende in braccio quando lui è davvero molto piccolo, e quello dev'essere il suo primo ricordo, suo padre che lo solleva per tirarlo su, in alto, in alto.
Sollevarlo.
L'acqua dove Mikoto li lava, nella sua testa, ha il profumo di sua madre. Le braccia di suo padre, Fugaku, sono calore e sicurezza. La voce di Sasuke...
- Papà! Mamma! -
Fugaku che grida:
- Vattene, Sasuke! -3
Vattene, Sasuke, pensa Itachi, va' via, scappa, veloce, più veloce di me, vattene, vattene, al sicuro...
La spada si abbassa, di nuovo, e stavolta non c'è più Mikoto. E' Fugaku a morire.

Itachi non riesce a piangere. Sta lì, in piedi davanti ai corpi, e non riesce a piangere. La porta alle sue spalle si apre: e davanti al volto inorridito e bianco di Sasuke Itachi si chiede come sia possibile che qualcuno non gli apra la terra sotto i piedi, una crepa, una fenditura, che si spalanchi e poi lo inghiotta.
Vuole morire, morire prima di doverlo fare, prima di dover uccidere Sasuke, ed è insopportabile il pensiero che quella è l'ultima volta che lo vede, che si vedono, perché poi, qualunque cosa ci sia dopo, oltre la morte, lui sa che non andrà nello stesso posto di Sasuke. Ora ha il sangue di sua madre e di suo padre sulle mani e quello di infiniti altri che erano uomini, donne e bambini, la sua famiglia, tutta la sua famiglia, il suo mondo, e adesso non ci sono più.
Sasuke è purezza. Sasuke è puro, purissimo, candido e pulito. Sasuke non ha colpa, come non aveva colpa nessun'altro dei bambini morti lì dentro, Sasuke non dovrebbe morire. E' sbagliato. Odia Fugaku, Itachi, Fugaku e tutti coloro che nel clan hanno fatto in modo di portarlo sino a quel punto, e poi odia Danzo, ancora più forte, e Madara che ha ucciso Shisui e gli ha tolto la sua ultima speranza, la terra sotto ai piedi. Odia Konoha.
Sasuke gli sta chiedendo qualcosa, urla e grida guardando Mikoto e Fugaku, e Itachi pensa sia orrendo che lui sia lì. Avrebbe voluto trovarlo nella sua stanza, a Sasuke, addormentato. Avrebbe voluto farlo scivolare dal sonno alla morte con delicatezza, con gentilezza, e poi cacciarsi la spada nello stomaco per andare via con lui, stare con lui ancora per un po'. Non avrebbe voluto, mai, mai, mai, che Sasuke dovesse avere, come ultima immagine da portarsi nella tomba, i corpi morti di Mikoto e Fugaku e la spada alzata di suo fratello che l'uccide.
Si sfila uno shuriken da una tasca: ne tasta sotto le dita il filo, tagliente, letale. Un unico colpo. Ne basta uno. Tra gli occhi. Veloce. Non sentirà... non sentirà male.
Un colpo solo. Sasuke.
Tutto quel che nella sua testa è lento, fuori si svolge in un attimo o poco più, mentre il fratellino ancora lo chiama, il suo fratellino, perfetto, adorabile sgorbietto, che adesso morirà, Sasuke, e poi toccherà a Itachi. Si prepara a lanciare.

- Perdonami, Sasuke. Ti insegnerò la prossima volta. -1
Sasuke che mette il broncio, ma poi sorride: non gli riesce, non gli riesce proprio, di restare a lungo arrabbiato con lui.


I ricordi non lo lasciano in pace.
Lo shuriken schizza attraverso la stanza. Taglia l'aria, taglia tutto quel che è stata la vita di Itachi. Sfiora la spalla di suo fratello, Sasuke, ferendolo a sangue, e si pianta nella parete alle sue spalle.
Non ce la faccio. Itachi non sa se esserne sollevato o inorridito. Non ce la faccio. Io non posso.
Non riesce, Itachi, ad uccidere Sasuke.

- Itachi ha ucciso i suoi amici, ha ucciso i suoi superiori, ha ucciso la sua amata, ha ucciso suo padre, ha ucciso sua madre. Ma non ha saputo uccidere il suo fratellino. L'uomo che versando lacrime di sangue e soffocando ogni sentimento sterminò i propri consanguinei per il bene del villaggio, proprio non ce la fece ad uccidere te. Capisci che significa?
Che, per lui, la tua vita valeva più del villaggio. -
2

Non riesce, Itachi, ad uccidere Sasuke.
E' lì, delicato, fragile e inerme. Gli basterebbe un gesto per far terminare la sua vitaa, per chiudere quella storia, quell'orrore, per portare avanti sino in fondo il proprio dovere.
Danzo ha detto tutti. Madara li vuole morti tutti.
Che fare?
Itachi vuole salvare Sasuke.
Pensa in fretta, disperatamente in fretta, smuovendo il proprio cervello e sperando che tutti quelli che l'hanno chiamato genio non sbagliassero, perché ora gli serve, serve loro, a lui ed a Sasuke, che Itachi sia un genio, mentre il bambino lo guarda sconvolto e dolorante e incredulo, perché l'ultima cosa che poteva aspettarsi era che suo fratello, il suo fratello, Itachi, lo ferisse.
Dev'essere quello, quello sguardo, a dare al ragazzo l'ispirazione.
Che fare?
Quel che sa fare meglio.

Mente.
- Stupido fratello... -
Mi odierà, si dice. Mi odierà e non dovrà mai sapere che con il suo odio io gli ho comprato la vita. Non lo saprà mai. Non sarò suo fratello, mai, mai, mai più.
Il volto di Shisui fa capolino tra i suoi pensieri, tutto ad un tratto.
Va bene anche così.





Note

(1): E' una frase ripetuta più volte nel numero 43 dell'edizione italiana di Naruto.

(2): Tratto dal capitolo 401, numero 43 dell'edizione italiana di Naruto. E' tratta del dialogo tra Madara e Sasuke, così come quel e venne la notte che già avevo inserito nel capitolo 1.dovere.

(3): Le due battute sono tratte dal capitolo 224, numero 25 dell'edizione italiana di Naruto. Sono le due frasi scambiate tra quel che ho interpretato essere Fugaku e Sasuke che, dietro la porta, ascolta quel che accade nella stanza. Non sono certa, non avendo seguito l'anime, che sia Fugaku, ma mi è parsa la spiegazione più ragionevole. Mikoto dev'essere stata la prima a morire, risulta probabile dal fatto che sia sotto al marito, sul pavimento, e non mi è sembrato fosse sensato che Itachi lo gridasse.


Pelo pelo prima che suonasse l'ultimo rintocco della mezzanotte. Mi sento molto Cenerentola.

Ci tengo a sottolineare che quel perdonami, Sasuke a conclusione del numero 43 è stato ciò che mi ha convinta a comprare il manga: sino a quel momento avevo solo qualche numero dal 37 in poi e Naruto era un nome vagamente fastidioso che si infilava di prepotenza per mano di mio fratello tra i miei preziosi numeri degli X-Men.
I miei neuroni ringraziano sentitamente l'autore per una frase come questa e per l'effetto che ne è seguito; il mio portafoglio no.

E' stato un capitolo arduo da tirar fuori. Non ne ero mai contenta, e non ne sono del tutto soddisfatta neanche adesso che lo vedo pubblicato: l'impaginazione e la scelta delle spaziature, in particolare, mi tormenta mica poco. xD
L'immagine, invece, è la mia gioia.
Si ringrazia Salice per la sua instancabile opera di correttrice. Un grazie a tutti quelli che passano e leggono, o passano, leggono e lasciano un commento.

Salice: Ma, mia Sal, "felice" deve far arrabbiare, è per questo che lo adoro. *_* E' abbastanza viscido da farmi contenta! Nessun danno al Signor Pesce, poiché io ti ho perdonata, dall'alto della mia magnific... coff coff... dicevamo?

_Ala_: Secondo me c'è qualcosa di genetico che spinge chiunque impugni una penna a desiderare il maltrattamento sadico, feroce e sistematico dei propri personaggi. xD Io mi sono rassegnata all'evento, ormai, e mi limito a cercare di non infierire troppo... A presto! ^^


fonte immagine: google immagini

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 20. piano ***




20. piano



Hanako non aveva mai pensato di poter provare irritazione nel trovarsi davanti Itachi: se qualcuno le avesse prospettato anche solo la pur vaga possibilità della cosa avrebbe riso, molto semplicemente, liquidando il pensiero come impossibile.
Itachi era Itachi. Itachi era una gioia. La sua gioia, la migliore della sua nuova vita, la migliore di tutta la sua vita, probabilmente: ma quando gli vide attraversare la porta dell'Heya, ed erano passati solo pochi giorni da quando se n'era andato, provò un moto acuto ed improvviso di infelicità; infelicità che non fece altro che aumentare esponenzialmente alla vista di Kisame, che gli era accanto.
Kisame le stava simpatico, Kisame le piaceva, anche, molto: ma Kisame era un osservatore buono quasi quanto Itachi, e sapeva essere molto, molto indiscreto.
Prese un respiro profondo. Si rassettò le vesti con le dita, si concentrò per un attimo, intensamente, per essere certa che il suo corpo non avrebbe mancato. Andò loro incontro, quando si sedettero ad un tavolo, con il solito, lieve, sorriso da nuvola.
- Benvenuti. - C'erano formule e saluti da rispettare, e quello era divenuto nel tempo una specie di rito consolidato: - Cosa posso portarvi? -
Itachi si limitò ad alzare gli occhi e guardarla. Kisame, invece, appoggiò rumorosamente la Samehada accanto a sé, le rivolse un cenno beffardo con il capo ed esclamò:
- Saké ed una terza sedia, Tagliavento. Zuppa di pesce per me. Poi riportati qui anche te. -
- Riso. -
Itachi, oltre ad essere vagamente monotematico con le proprie ordinazioni, era anche intensamente indifferente a quel che mangiava. Hanako aveva la netta impressione che lui si cacciasse cibo in bocca spinto esclusivamente dalla necessità di ingerirne per reggersi in piedi.
Si allontanò verso la cucina per prendere quanto richiesto, prima di tornare al tavolo e sedersi alla sinistra di Itachi, le mani posate sulle ginocchia, il capo chino. S'era mossa lentamente, con calma: niente movimenti bruschi, perché non era il caso, niente gesti affrettati. Aveva cercato di metterci tutta la disinvoltura possibile, ma era difficile riuscirci con gli occhi di Itachi puntati addosso.
- Allora, Tagliavento... - Kisame riemerse con uno schiocco soddisfatto di labbra dalla prima, generosa, dose di saké. - Pare che a Suna sia il caos, eh? -
Non sussultare. Non impallidire.
- Credo di sì. -
Kisame non parve badare alla sua voce quieta; ma lo sguardo di Itachi le si piantò nella nuca con fermezza tale da darle la sensazione che volesse perforarle il cranio e leggerle nella testa.
- Potrebbe essere una buona occasione. - L'Hoshigaki ghignò, chinandosi per aggredire la ciotola fumante di zuppa. - Per una fuga, no? -
Quel ghigno feroce, con i denti affilati, lo sguardo da predatore, la tunica nera da guida dei morti, quel ghigno feroce su una faccia da assassino, be', quel ghigno, stava davanti ad una persona che si stava interessando a lei. Che si stava interessando al suo futuro. Che le stava suggerendo uno scampo.
Kisame non sapeva, non poteva sapere, che quel che lui proponeva era una coltellata al cuore di Hanako. Kisame credeva di farle piacere. Kisame era un assassino, un violento, un attaccabrighe manesco e privo di scrupoli, ma sapeva anche cercare di essere una persona che, be', definire gentile sarebbe stato grottesco, ma era quello il principio, il concetto, gentile.
Hanako non se la sentì di deludere quel ghigno che era il tentativo di un assassino di fare felice qualcuno. Così sorrise, chinando nuovamente il capo e ripetendo piano:
- Sì. -
Bugia.

Avevano preso due camere separate, Itachi e Kisame, e questo significava che lei avrebbe potuto avere Itachi per sé per tutta la notte. Era divisa tra la gioia luminosa che le nasceva spontanea dal petto a quel pensiero e la consapevolezza che così lui avrebbe avuto migliaia di occasioni in più per accorgersi di quel che le era successo.
Si chinò a baciarla non appena la porta della stanza si chiuse loro alle spalle. Le passò le dita tra i capelli, gentilmente, e poi una mano lungo la spalla, il fianco, la gamba, sfiorandole con i polpastrelli la pelle da sopra la stoffa di seta. In genere bastava questo a farle salire una sorta di calore denso e fuso dallo stomaco al petto, piacere assoluto e da brividi: quella sera, invece, serrò le labbra per non farsi scappare niente, né un ansimo né un lamento, mentre sollevava la gamba e gli premeva il ginocchio contro un fianco. Si sentiva bruciare, dolere da dentro, straziante, un tormento, ma non diede mostra di provare nulla. Gli avvolse le mani attorno alle spalle con un bisogno che non era solo desiderio di toccarlo, ma anche mera necessità di reggersi a qualcosa per non cadere.
- Cos'hai? -
Be', gli erano occorsi esattamente quattro minuti per rendersi conto che c'era qualcosa che non andava. Congratulazioni, Tagliavento, pensò lei, esasperata e dolente.
- Sono caduta dalle scale. - E poi, arrossendo vistosamente ed abbassando lo sguardo per non dover incrociare quello di lui: - Uno dei clienti della locanda. -
Itachi tacque e non indagò oltre. La sollevò con delicatezza, le mani sotto le ginocchia, costringendola ad avvolgergli le braccia attorno alla schiena per mantenersi in equilibrio e non cadere. Venne appoggiata sul letto e, sdraiata, sentì le dita del ragazzo armeggiare per slacciare la cintura della veste.
- Puoi spegnere la luce? - Mugolò, cercando disperatamente un modo per far sì che lui non si accorgesse di niente... o per ritardare il più possibile, almeno, il momento in cui se ne sarebbe accorto.
Itachi la fissò e, di nuovo, lei ebbe l'impressione che quegli occhi le trapassassero il cranio.
- Se vuoi, sì. - Affermò lui, infine. E poi, senza forza ma con fermezza, con decisione, le premette il palmo della mano sul ventre.
Hanako non urlò solo perché le mancò il fiato necessario. Fece scattare indietro il capo, con un verso di panico e di dolore, le mani che si serravano alle coperte quasi avesse bisogno di aggrapparsi a qualcosa, mentre gemeva:
- Piano...! -
La mano di Itachi, rapida come si era posata, si sollevò.
- Stupida. - La voce solitamente inespressiva aveva un'inflessione rabbiosa, ora, che l'animava e la faceva vibrare. - Pensavi di nascondermelo? -
Lei si rannicchiò con le ginocchia contro il petto, il fiato che non accennava a tornarle in gola, ansimando pesantemente nella speranza che con quei bei respiri profondi il dolore infuocato al ventre si placasse. Le faceva male. Bruciava. Aveva già pensato che avrebbe continuato a dolerle per un po', perché ci era andato pesante, l'uomo dal sorriso, però erano passati diversi giorni, e cominciava a non poterne davvero più.
Le mani di Itachi la rimisero sdraiata sul dorso, spogliandola con delicatezza delle vesti. Lei non provava nessun imbarazzo a lasciarsi svestire a quel modo, perché lui la conosceva meglio di chiunque altro, intanto, e poi perché era un corpo, il suo, solo un corpo, nulla di cui un ninja dovesse vergognarsi: ma, per la prima volta, provò disagio ad essere vista nuda a causa di quel segno rosso e pulsante che le marchiava lo stomaco.
- E' un sigillo. - Osservò Itachi, percorrendo l'ideogramma con un dito.
Lei chiuse gli occhi.
- Hanako. Racconta. -
Un attimo di silenzio, prima che la ragazza aprisse bocca e bisbigliasse:
- Sono venuti due della squadra speciale. Volevano... - Un respiro profondo. - ... assicurarsi... che non avrei provato a fuggire approfittando della mancanza di un Kazekage. Mi hanno minacciata. Non fa... non mi hanno fatto male davvero. -
- E questo? -
- E' temporaneo. Si sta affievolendo. Ci metterà un po', ma passerà. -
- Non ti sei difesa. - Non era una domanda: e, così, lei poté non rispondere.
Itachi si chinò, appoggiandosi alle sue gambe per poterle premere la fronte sulle ginocchia.
- Stupida. - Ripeté, duramente. - Stupida. -
Ma non sembrava davvero arrabbiato. Più che altro, pareva dolorante.

Finì di spogliarla e la portò in bagnò. Riempì la vasca sotto gli occhi di lei, sgranati e come incerti, e ce la mise dentro con gentilezza, acqua calda e sapone, schiuma profumata e morbida come neve asciutta. L'acqua, a contatto con il sigillo, lenì un poco il dolore e la sensazione di bruciore che le torturava lo stomaco.
- Avresti dovuto dirmelo subito. - Lei se ne stette buona e tranquilla mentre lui le lavava i capelli, pettinandole le ciocche con le dita, insaponandole e sciacquandole con una delicatezza che, be', non era razionale che facesse passare la sofferenza, però ci riusciva, eccome. Si era tolto quell'orribile tunica nera a nuvole rosse, e portava solo le vesti che in genere aveva sotto, tutto scuro, tutto cupo, ma pur sempre Itachi, mani gentili e voce fredda e brusca. - Perché non l'hai fatto? -
Le venne da avvampare, piacevolmente, quando una di quelle mani le passò lungo la schiena per lavarla.
- Preferivo passare la notte con te. - In un letto con te: quello aleggiava delicatamente, sottinteso.
Itachi sospirò, poi sbuffò, e infine sorrise. Inginocchiato com'era accanto alla vasca, si sfilò la maglia e la lasciò cadere per terra. Si sporse verso di lei, che rise e gli avvolse le braccia attorno alle spalle nude, emergendo dalla vasca quel tanto che serviva per riuscirci.
- Se fai così, però, non aiuti il mio autocontrollo. - Le bisbigliò Itachi nell'orecchio, causandole un brivido di piacere e di contentezza.
Aveva un torso bianco come l'avorio, liscio al tatto, dove le cicatrici erano come ombre di luna più chiara. La collana che lei gli aveva regalato, la collana di Mizuki, gli ornava la gola con una fila di piccoli cerchietti metallici.
Lei gli passò le dita sul torace e sull'addome, delicatamente, curiosando lungo la linea snella dei fianchi. Aveva un tatuaggio scuro sulla spalla sinistra, una linea curva di un rosso carico che si sovrapponeva ad un breve tratto, dando l'impressione d'una fiamma.
- Io non voglio aiutarlo, il tuo autocontrollo. Perché dovrei aiutarlo? -
- Perché stanotte è meglio di no. Non ho intenzione di contribuire a farti in pezzi. -
Il pensiero di avere Itachi lì, non esattamente vestito e non precisamente impassibile, e di non poterlo toccare per tutta la notte, di non poterlo avere e di non poter mischiare, di nuovo, ancora, odore e sudore, era un supplizio peggiore di quello allo stomaco.
- Per favore... - Bisbigliò, supplichevole. E poi, con una punta di malizia: - Basta far piano. -
Stavolta il brivido l'aveva avuto lui: lieve e appena percettibile, giù per il collo e la schiena. Gli baciò una guancia, poi il mento, una clavicola, scendendo con leggerezza.
- Piano? - Mormorò Itachi.
Lei annuì con deciso entusiasmo:
- Piano. -





Note

Sono in ritardo, ma assente giustificata: proprio non ho potuto pubblicare prima d'adesso. Mi farò perdonare con il capitolo di mercoledì.

Si ringrazia di cuore Rohchan per avermi recuperato a tempo da record una così bella immagine. E' davvero incantevole, e spero di riuscire a recuperare il nome dell'autore (o dell'autrice) per poterlo inserire tra i riferimenti.

Il solito grazie, grazie, grazie a Salice per la sua opera di correzione e revisione. Oltre che per il fatto che commenta sempre, sempre, sempre, sempre, sempre...

Un grazie a tutti quelli che passano, passano e leggono, passano e leggono e commentano.

abcdefghilm: Ciao! ^^ Mi fa piacere sentirti di nuovo e ti ringrazio davvero moltissimo per i commenti... Ah, io non dico niente! xD Questo è un capitolo un po' di stacco, senza che accada poi molto... il prossimo, invece, è uno di quelli che mi fanno felice!

fonte immagine: google immagini

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 21. sangue ***




21. sangue



La volta dopo quella notte che, sola, era bastata a cancellare da Hanako ogni terrore dell'uomo dal sorriso e delle sue torture, Itachi era arrivato all'Heya in condizioni disastrose. In pezzi: nel corpo, con gli occhi che dolevano ed erano coperti da un velo di nebbia fitta e impenetrabile; e nello spirito, perché quando lei era riuscita a farlo parlare di nuovo, le aveva mormorato che Sasuke se n'era andato, Sasuke non aveva fatto quel che lui si aspettava, restare a Konoha, farsi forte, ma era andato a cercarla, quella forza, dall'ultima persona che Itachi avrebbe voluto lui incontrasse.
- Serpe. Viscida serpe, bastardo. - L'aveva insultato, ferocemente.
Itachi aveva di nuovo paura per Sasuke: e Hanako, che lo teneva stretto a sé quasi avesse paura di vederlo finire definitivamente in frantumi per quella sofferenza sporca, malata e incurabile che si trascinava dentro, aveva per un attimo provato gelosia e dolore al pensiero di quel bambino, di quel ragazzo, lontano e sconosciuto, che si portava via l'attenzione e l'amore di quello che lei voleva come proprio compagno.
Si era sentita in colpa subito dopo, tuttavia, al pensiero che quel bambino di cui era gelosa era suo fratello, come lei e Mizuki, due in uno, e che era giusto così, che lui l'amasse, suo fratello, fratellino, come la sua cosa più preziosa.

Erano passati i mesi, poi. Lunghi e lenti mesi con Itachi che assorbiva la nuova situazione e che cercava freneticamente una soluzione per salvare di nuovo il suo fratello, fratellino, amatissimo e inavvicinabile, con le cose all'Heya che tornavano alla normalità, la guarigione, il suo corpo che si sanava e riprendeva ad essere forte e lieve come prima.
Erano passati i mesi. Era passato un anno, prima, e poi due, con il mondo fuori da Idomizu in continuo cambiamento e l'Heya, invece, che come il deserto rimaneva sempre uguale a sé stessa.
Il chiudersi di quel secondo anno sancì insieme anche la fine della seconda vita di Hanako.

Mizuki la guarda.
La guarda, e si vede che sta male, perché è pallida e tesa, con una specie di schiuma rossa che le bagna le labbra e scorre sul collo, ma la voce che tira fuori è dolce e chiara come il tè di Mizuki, limpida come l'acqua degli occhi, Mizuki, pulita come le sue liquide mani, Mizuki, Mizuki, anche se Mizuki sta morendo:
- Perché sei qui, Hanako? -
Perché Mizuki sta morendo.
- Mizuki. -
E' arrivata troppo tardi. Troppo tardi per salvarla. Troppo tardi per salvarli. Troppo tardi per impedire il massacro, la strage, troppo tardi per non perdere Mizuki: Mizuki che però non sembra provare né paura né dolore mentre allunga una mano, l'unica che le è rimasta, per afferrarle la giubba e tirarla delicatamente verso di sé.
- Hanako... -
Hanako le alza la testa per permetterle di respirare. Le avvolge le braccia attorno alle spalle, la sorregge, la stringe, Mizuki,
sua, con il dolore che le serra il petto al pensiero che stia morendo, che stia per finire, che non ci sia più niente da fare.
- Hanako. -
- Non parlare, per piacere, non parlare... -
Mizuki non l'ascolta e prosegue, debolmente, la voce in un ansimo:
- Che schifo, Hanako. Io non volevo... non volevo morire così. - La mano si alza dalla giubba alla sua testa, tra i suoi capelli biondissimi e lisci, accarezzando senza forza. - Basta sangue, Hanako. Basta sangue. - Un sorriso su quelle labbra chiazzate di rosso, bello come la luna d'oro del deserto, limpido come l'acqua. - Basta sangue, per te. -
E poi, prima che lei possa aprire bocca:
- Ti voglio bene, Hanako. -
E' l'ultima cosa che dice, Mizuki: e poco dopo smette di respirare tra le braccia di Hanako, che non riesce nemmeno a piangere come vorrebbe, perché il dolore al petto è troppo, troppo forte.
Di lei ad Hanako resta, soprattutto, il ricordo di quel
basta sangue, come una cantilena che va a sovrapporsi alle altre, nella sua testa, più forte di tutte, più forte di tutto.
Basta sangue.


Hanako si svegliò con la confusa sensazione d'aver sognato Mizuki e con una vaga impressione come d'allarme che le pulsava da qualche parte dietro la testa.
Si girò su un fianco, portandosi una mano sotto al capo per cercare di levarsi a sedere. Era pomeriggio inoltrato: s'era sdraiata poco dopo pranzo, rannicchiandosi in fondo al letto per cercare di assopirsi e vincere così la nostalgia di Itachi, sempre più forte ad ogni giorno di lontananza che si andava a sommare ai precedenti, e doveva aver dormito più del previsto.
Dai piani inferiori giunse bruscamente il rumore di qualcosa che cade sul pavimento, una sedia o un tavolo rovesciato, andandosi a sovrapporre ad un ovattato brusio che Hanako rilevò solo in quel momento. La sensazione d'allarme, acquietatasi quando aveva constatato che non c'era nessuno in stanza oltre lei, si ridestò tutto ad un tratto con un ronzio sordo che le colmò la testa e le orecchie.
Hanako scivolò in piedi e, scalza com'era, con indosso solo la tunica bianca che portava per dormire, attraversò la camera e socchiuse la porta. Il brusio si trasformò in un vociare. Voci d'uomini che non conosceva, e poi un altro tonfo di legno contro legno. Un fracasso di stoviglie infrante e infine il pianto, Noa, Hanako lo riconobbe con un sussulto.
Scivolò nel corridoio e si affacciò alla balconata che dava nella sala grande: quel che vide le mozzò il fiato in gola, lasciandola per un attimo pietrificata sul primo gradino delle scale, gli occhi chiari fissi su Noa che piangeva, rannicchiata sul pavimento, singhiozzando mentre qualcuno, un uomo che non conosceva, cercava di bloccarle le mani per terra. Ce n'erano altri, giù, tanti: armati di spade e picche, con i visi sfregiati e nessuna traccia di coprifronte o simboli indosso.
Feccia. Il cervello di Hanako scattò automaticamente, classificandoli come meglio sapeva fare. Sbandati, si disse subito dopo, sbandati e fuggitivi. Da dove diavolo vengono...?
Il padrone dell'Heya andò loro incontro da dietro al bancone, le mani alzate e la voce querula che si levava per protestare che non era il caso, non era giusto, non era regolare, quello era un rispettabile posto neutrale, e non c'era ragione di fare a pezzi il mobilio e le ragazze per...
La requisitoria dell'uomo si interruppe bruscamente quando un omone grande e grosso gli andò alle spalle e, senza una parola, gli piantò una spada tra le scapole.
Hanako si aggrappò al bordo della balconata alla vista di tutto quel sangue, tutto quel sangue, che sgorgava in una pozza dall'uomo, dal cadavere, mentre questi crollava sul pavimento. Noa singhiozzò più forte e dalla porta della cucina emerse Hiroto, battagliera e feroce, armata di un lungo bastone. Colpì l'uomo che strattonava Noa, picchiandogli sulla testa con forza tale da farlo barcollare e allontanarsi, le mani levate per ripararsi.
Hanako mugolò. Un altro degli uomini, feccia, nella stanza grande, alzò il capo e la vide. Sghignazzò.
Ridevano, pensò lei con orrore, ridevano della morte del padrone, ridevano del terrore di Noa, della reazione di Hiroto, ridevano perché avevano trovato una nuova vittima.
Uno di loro diede l'ennesimo calcio ad un tavolo. La lampada di cera e carta che vi era posata sopra crollò a terra: un lezzo lieve di fumo si sollevò attraverso i piani, su per le scale, mentre le prime fiammelle attecchivano sull'impiantito di legno. Nessuno degli uomini parve badarci.
L'uomo che aveva per primo visto Hanako cominciò a salire le scale, muovendo con calma verso di lei, mentre gli altri circondavano Noa, ancora riversa per terra, e Hiroto che li fronteggiava levando minacciosa il bastone, come fosse una spada.
- Hanako! - Urlò Hiroto.
Chiama me, pensò lei, vacuamente. Non posso aiutarla. Aiutare è combattere.
Basta sangue.

- Hanako! Hanako, dannazione... non star lì imbambolata! Scappa! -
Scappa. Ci mise un po' a realizzare che Hiroto non le aveva chiesto di scendere, ma di fuggire. Le stava ordinando di andarsene. Andarsene, lasciarle lì, salvarsi.
Mugolò ancora, aggrappandosi nauseata alla balconata, mentre Hiroto partiva all'attacco. Riuscì a colpire sul collo uno di quelli che aveva davanti, ma poi un altro le afferrò un braccio e la bloccò. Le strapparono dalle mani il bastone e la buttarono accanto a Noa. Mentre ancora si contorceva, urlando rabbiosamente, opponendosi con le unghie e con i denti, scalciando follemente, cominciarono a svestirla.
Basta sangue. Era la voce di Mizuki a pregarla, nel fondo della sua testa. Basta sangue.
Il pensiero dei cadaveri e dei pezzi le strappò l'ennesimo verso di nausea, panico e dolore, e realizzò a stento che l'uomo che veniva verso di lei aveva finito di salire anche la terza rampa di scale e muoveva per afferrarle un braccio.
Si sarebbe trattato solo di star ferma, star zitta, docile e remissiva, permettere loro di fare con lei tutto quel che volevano senza cercare d'opporsi. L'avrebbero lasciata in vita, probabilmente, dopo, e che cos'è un'umiliazione persa negli elenchi di una vita da oggetto?
L'uomo già allungava le mani verso di lei, il ghigno crudo sul viso vuoto, e Hanako aveva iniziato a disconnettere pezzi del proprio cervello per ordinarsi di non sentire, di non vedere, di non provare niente e di non sentire nulla: e, in quel momento, Noa gridò.
Gridava.

La mano dell'uomo le strinse il braccio.

Hanako alzò la destra e, senza guardare, colpì di punta, indice e medio, lasciando che il chakra defluisse tagliente nelle unghie e nei polpastrelli. Sentì la propria mano affondare nel torace dell'uomo come fosse burro tiepido. Si volse a guardarlo, mentre allargava a forbice le dita per straziarlo e finirlo. Lui urlò, sangue dalla bocca in un fiotto, la lasciò andare e lei gli strinse il mento con la sinistra. Uno strattone secco in senso orario. Morto.
L'uomo cadeva ancora a terra mentre Hanako era già in piedi sulla ringhiera della balconata e poi oltre, nel vuoto. Le dita sporche, di sangue, disegnavano le posizioni. Hanako sentì il chakra inondarla, riempirla, caldo e liquido, forte, violento, feroce, il vento scorrerle sotto e intorno per rallentare la caduta. Colse il primo di sorpresa, atterrandogli accanto. Mano dal basso verso l'alto: l'aria si accumulò sotto al suo palmo e fece schizzare l'uomo, una volta liberata, dritto verso il soffitto. Volò con un urlo disumano, e poi ricadde a terra con un tonfo fradicio di ossa rotte e carne in pezzi e sangue.
Un altro le venne incontro, gambe che si piegano, posizione di difesa, gambe che si distendono mentre faceva scivolare le mani oltre la sua guardia, affondandogliene una nel torace, l'altra che stringeva l'elsa della lama corta levata contro di lei, arrestandola. La tolse dalle mani dell'avversario, divenute molli e inerti nel momento stesso in cui il cuore era scivolato fuori dalla sua cassa toracica, sfracellato, sangue, tanto, e la lanciò in aria, sopra la propria testa.
Le dita disegnarono i simboli, di nuovo, veloci più della gravità, più dei nemici che aveva attorno e che si muovevano ai suoi occhi come fossero stati immersi in qualcosa di denso e pesante. La lama schizzò verso sinistra, lei a destra, mentre l'una tranciava l'altra guidava, strappando a mani nude, il chakra denso che faceva d'acciaio le sue dita, macchiate, macchiate di sangue.
Sentì Noa urlare, ma non si fermò. Passò appena la mano sul collo di chi ancora stringeva Hiroto, in un gesto lieve, quasi delicato, quasi gentile, e questi boccheggiò e crollò a terra con la spina dorsale tranciata. Sentì qualcuno arrivarle addosso: scivolò in ginocchio, lieve spinta dei piedi, con leggerezza la spalla attutì il colpo mentre si lasciava cadere sul pavimento e rotolava oltre, di nuovo in piedi, un passo più in là. Si girò, appoggiò i palmi l'uno all'altro e li mosse avanti di scatto, colpendo nell'aria. Il corpo dell'aggressore parve sbalzato indietro dal nulla, scaraventato contro la parete di fondo della locanda con forza tale da sfondarla.
Ah...
Sangue.
Il fuoco che aveva attecchito tra le assi di legno non era più una fiammella, ora, ma un principio di incendio che fumava e spandeva attorno a sé vampe di calore.

- Non è fumo, quello? -
La voce di Kisame estrasse Itachi da una riflessione piuttosto distratta sul come continuare a farmi scappare l'Enneacoda senza che tutti comincino a pensare che forse lo sto facendo apposta. Ne emerse a fatica:
- Mh? -
- Fumo. - Ripeté Kisame, indicando davanti a loro lungo la strada. - A Idomizu. -
Itachi alzò gli occhi, aguzzando lo sguardo con una certa impazienza e realizzando insoddisfatto che la sua vista continuava a peggiorare: adesso anche il deserto cominciava ad essere una distesa confusa d'oro sotto il sole, la cittadina come un aggregato scuro e non ben definito. C'era della nebbia sopra Idomizu. Strano. Nebbia...?
- Ce n'è anche un bel po'. Sembra che stia bruciando qualc... Itachi? -
Itachi aveva affrettato il passo in direzione di Idomizu, spinto dal bisogno di essere sicuro che lei stesse bene: e non si fermò neppure quando venne chiamato.
Kisame gli andò dietro.

Hiroto si era buttata su Noa, adesso, coprendola con il proprio corpo e tenendola giù, giù, schiacciata sul pavimento. Hanako camminò sino a loro, le mani con i palmi levati verso l'alto, mentre la lama che aveva strappato prima al suo avversario cominciava a vorticarle intorno sempre più veloce, sempre più rapida. Si inginocchiò per allargare le braccia sulle due compagne, protettiva, per difenderle dagli schizzi - ossa tranciate, ossa rotte, il sangue e i pezzi - e lasciò andare la lama.
Questa continuò a ruotarle attorno per un attimo: poi, come un pesce impazzito, lucente, tagliente e letale, schizzò oltre e fendette attraverso la stanza.
Attorno a Noa e Hiroto, il suo corpo curvo formava una sfera buia e calda, sicura.
Nella sala cominciava a levarsi un coro d'urla straziate.

Il sangue dipinge le pareti in lunghi schizzi rossi.

Il bisogno non era più un bisogno, ma una necessità, ora, divorante, insopprimibile, perché adesso che lui e Kisame erano ad Idomizu poteva vedere l'Heya e le fiamme che sbocciavano al suo interno, occhieggiando loro dalle finestre. C'era poca gente, in giro: viandanti, viaggiatori, che guardavano sorpresi verso l'edificio.
Itachi si fece largo tra di essi senza difficoltà, indubbiamente aiutato dalla non indifferente mole di Kisame che incombeva minacciosa sulla folla. Era più alto di almeno una testa di tutti quelli che aveva attorno, e con la Samehada costituiva una figura decisamente inquietante: una di quelle dalle quali, non si sa mai, meglio tenersi alla larga.
La porta dell'Heya era aperta. Dall'interno proveniva un fetore che strinse lo stomaco di Itachi e che lui riconobbe subito, con sicurezza, senza fatica: un miscuglio di sangue e schifo, l'odore ferroso del massacro che neanche il fumo riusciva a coprire. Pensò a Hanako, profumo di miele, mani delicate di Hanako, e la nausea lo invase. Andò dentro.

Dentro c'era Hanako. Inginocchiata, rannicchiata tra le sue due compagne, si teneva le mani attorno allo stomaco come serrasse a sé una ferita aperta. Gli occhi sgranati, le labbra schiuse in un'espressione sconvolta e nauseata, il viso pallido, bianco, bianchissimo, cereo per l'orrore e l'incredulità, che si perdeva quasi nel candore latteo della veste chiazzata di sangue. Sangue ne aveva dappertutto: tra i capelli sciolti, sulle braccia e sul petto, sulle mani, principalmente, in grumi e schizzi. Una goccia vischiosa di un acceso color da rubino le scivolava lentamente sotto ad un occhio: faceva il grigio delle iridi più chiaro, in un qualche modo per nulla rassicurante, e toglieva colore a tutto il resto.
Tutt'attorno, pezzi e corpi e cadaveri e sangue, ancora, una pozza, un lago, sulle pareti, sul soffitto, Itachi pensò che era un mattatoio, quello, un macello.
Si udì domandare, fermo di fronte a lei, con una voce che, troppo ferma e distaccata, stentò a riconoscere come propria:
- Sei ferita? -
La sua vera voce, quella che aveva nella testa, in quel momento urlava il proprio incredulo orrore a pieni polmoni.
Hanako non rispose. Lo guardò, solo, e Itachi s'accorse in quel momento che stava mugolando: un verso basso, debole ed esile come un lamento, un gemito discontinuo da animale ferito.
- Non è suo, quel sangue. - Nella voce di Kisame si sentiva ben distinto una sorta di piacere crudo, crudele, indifferente, venato da una punta d'inconsueta ammirazione: si guardava intorno, il gigante, contemplando il massacro con l'occhio critico del professionista. - Hai fatto un bel lavoro, Tagliavento. -
Itachi provò il desiderio feroce di ucciderlo. Il lamento di Hanako si fece più sordo e acuto, disperato, per un attimo, prima di trasformarsi in una nenia lenta e sconvolta:
- Mi dispiace, mi dispiace. - Diceva. - Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace... -





Note

Oh, eccisiamo. Questo pezzo mi ha fatto dannare non poco: è caotico e confuso e doveva esprimere in parole una scena che avevo disegnata nella mia testa, in movimento. Dato che i combattimenti sono la cosa che preferisco nei fumetti, be', sono tanto, tanto contenta d'averla scritta. Era da quando ho iniziato il capitolo 1 che aspettavo di poterci mettere le mani sopra! xD

La direzione dei lavori ringrazia sentitamente Salice per le correzioni e le dosi di pazienza che mi dispensa con abbondanza: e per aver trovato questa meravigliosa immagine, dopo che io mi ero impiccata per giorni in giro per internet alla ricerca di qualcosa che rendesse l'idea.
Un grazie a chi legge e a chi commenta.

TaKari94: Salve! Grazie di cuore per i complimenti, mi fanno felicissima... ^^ Spero che la stria continui a piacerti. A presto!

Salice: Mio povero Felice, nessuno gli vuole bene. ç.ç E' anche tutto sorridente, come si fa a non volergli bene... Kisame, oh, com'è da coccolare lui non è da coccolare nessuno, eh? xD

fonte immagine: Deviantart

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** 22. umanità ***




22. umanità



- Mi dispiace, mi dispiace. - Diceva. - Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace... -
Una parte di Itachi avrebbe voluto solamente ammutolirla: con qualunque mezzo fosse stato necessario, tappandole la bocca, imbavagliandola, uccidendola. Tutto, purché cessasse quella litania d'orrore svuotato. Un'altra parte di lui avrebbe dato qualunque cosa, un braccio, la testa, la vita, purché il dolore che c'era dietro a quella litania cessasse: subito, immediatamente, almeno per un po'.
Si sentiva inutile. Si sentiva in ritardo. Se fosse arrivato solo un poco prima avrebbe potuto impedire quel massacro. Se fosse arrivato solo un poco prima avrebbe potuto essere lui a compierlo, lui, al posto di Hanako. Sarebbe stato meglio.
Una delle ragazze che Hanako aveva accanto, una bella rossa dal viso combattivo e l'espressione sveglia, si alzò in piedi e si piantò tra loro e lei, le mani levate:
- Non è stata colpa sua. L'ha fatto per difendersi. L'ha fatto per difenderci. -
Itachi si rese conto che era il momento che lui aprisse bocca e decidesse finalmente di dire qualcosa:
- Lo so. -
- Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace... - La nenia di Hanako si era trasformata in un sottofondo ovattato e debolissimo, a malapena percettibile, come un sussurro.
L'altra ragazza, pallida e bruna, le strinse le mani attorno alle spalle con gentilezza. Ebbe un brivido quando il sangue vischioso le si attaccò addosso con un suono di risucchio viscido, ma non si allontanò.
- Va tutto bene, Hanako. Andrà tutto bene. -
Hanako si lasciò piegare contro di lei e le posò la testa contro una spalla, molle e inerte come una bambola. Il lamento si interruppe, mentre la voce si spezzava in una supplica:
- Itachi... - Avrebbe dovuto chinarsi. Chinarsi, abbracciarla, confortarla. Avrebbe dovuto... - ... mi dispiace. -
Il senso di colpa sembrò schiacciarlo: come un macigno sulle sue spalle, pesante a sufficienza da annichilirlo. Riuscì a smuoversi, finalmente, e ad inginocchiarsi di fronte a lei per guardarla negli occhi:
- Per cosa...? -
- Non volevo farlo. - Hanako bisbigliava, gli occhi serrati, le mani aggrappate alla veste della compagna in cerca di sostegno: - Ma sono arrivati, e volevano... ed io non ci sono riuscita, a star ferma, e... - Si interruppe, gli occhi spalancati e il viso che stingeva ulteriormente, se mai fosse stato possibile, facendosi tanto pallido da parere azzurrino: - Sono morta. - Bisbigliò.
Kisame, che era intento proprio in quel momento a stuzzicare con la punta della Samehada un pezzo che ad una prima occhiata poteva essere il braccio di qualcuno, o magari una gamba, interruppe il proprio curioso esame per girarsi a guardarla, sorpreso:
- Tagliavento, questa te l'ho già sentita dire. E a me continui a sembrare viva. -
- Mi uccideranno. - Lei non riusciva, pareva, ad alzare la voce oltre quel livello bisbigliato. - Appena sapranno cos'ho fatto... e lo sapranno... verranno qui e mi uccideranno. Da Suna. Mi dispiace... mi dispiace, Itachi. -
- Basta. -
Basta, sì. Basta. Non voleva più sentirla scusarsi per quello, soprattutto perché quello era ciò che l'aveva appena salvata, e lui non riusciva neanche ad immaginare come sarebbe stato arrivare lì e trovarla morta. Come trovare morto Sasuke, realizzò tutto ad un tratto, impensabile. Hanako era come Sasuke. Hanako non doveva morire.
- Tu oggi te ne vai da qui. -
Be', era almeno riuscito a farle sollevare la testa e a farsi guardare. Era un primo passo. Lei lo fissava con incredulità, e non pareva avesse ben capito.
- Prendi le tue cose. - Ripeté, duramente. - Non starai qui ad aspettarli. -
Hanako chinò nuovamente il capo, serrandosi il corpo tra le braccia e piegandosi, dondolando lentamente:
- Non posso scappare. - Mormorò, la voce rotta. - Non me lo permetteranno. -
- Il confine è vicino. Puoi arrivarci prima che si accorgano che te ne sei andata. -
- Ci sono le pattuglie di confine. Mi intercetteranno. E, se anche riuscissi ad andarmene, mi ritroverebbero. Mi uccideranno, mi riporteranno a Suna. Non c'è un posto dove posso andare. -
- Il Paese del Fuoco. - Itachi non ebbe esitazioni. - Conosco un posto dove puoi stare. Sarà rischioso attraversare i confini, ma è fattibile. -
Gli occhi grigi di Hanako si sollevarono, lentamente, posandosi su di lui. Ancora increduli, ancora sgranati, ma resi come più lucidi da una punta di speranza che pareva rianimarli. Itachi, che ancora tentennava al pensiero di cosa la sua offerta avrebbe potuto significare, davanti a quegli occhi abbandonò ogni dubbio e e si trovò a spiegare con fermezza:
- Ti mostrerò un percorso da seguire, e tu dovrai fidarti di me e seguirlo così come ti dirò. -
- Le pattuglie... -
- A quelle penserò io. - Era esporsi, promettere quello, ma quella era Hanako, Hanako che era come Sasuke e che non doveva morire, Hanako che lo aveva tenuto tra le braccia, gli aveva asciugato i capelli, Hanako che l'aveva curato e aiutato. - Non posso fermarle tutte, ma posso tenerne occupate parecchie, lontano dal percorso. Ti aprirò un passaggio fino al Paese del Fiume: non potranno attraversare i confini senza avere problemi con il Villaggio degli Artigiani, e non si muoveranno imprudentemente. -
Hanako lo guardò e, per un lungo istante, non disse nulla. Lo fissava come un assetato nel deserto avrebbe fissato una pozza d'acqua pulita, con incredulità e desiderio cieco, speranzoso. Si sentiva solo il fuoco, un crepitio lieve di fiamme tutt'attorno a loro senza che nessuno badasse ad esse, e per il resto silenzio. Infine, la ragazza bisbigliò:
- Lo faresti...? -
Lo sto facendo. - Sì. -
- E' pericoloso. Pericoloso e non... possono andare male tante cose. -
- Lo farò, se tu combatterai. - La vide sussultare, rannicchiarsi impercettibilmente, e si sporse verso di lei per insistere con durezza: - Devi combattere. Farti largo. Difenderti e uccidere, se sarà necessario. Io non combatterò per uccidere, se non servirà: sarebbe inutile. Ma se fallirai, se morirai... - Respirò, lentamente, e le afferrò la testa per costringerla a guardarlo: - ... io tornerò indietro e ucciderò quelli che sono rimasti. Mi hai capito? -
- Itachi... -
- Mi hai capito? -
Hanako sbatté le palpebre, annaspando sull'orlo del panico.
- Non posso farlo. -
- L'hai già fatto. Puoi rifarlo. -
- Itachi... ti prego... -
- Vuoi vivere o no, Hanako? -
Le mani della ragazza si mossero, più veloci di quanto fosse naturale, lasciando la veste della compagna e aggrappandosi con una specie di forza disperata, angosciata, alle spalle di Itachi. Lui la lasciò fare, e non si mosse nemmeno quando Hanako gli posò la fronte sullo sterno. Tremava, tremava violentemente, e il ragazzo alzò una mano per passargliela tra i capelli con delicatezza. A quel tocco, il tremito parve placarsi.
- Voglio vivere. - Disse lei. Era un bisbiglio, ma vivo, animato, colmo. - Voglio vivere. - E poi, con un altro brivido, ma breve, stavolta, soffocato in fretta: - Combatterò. -
Il ghigno di Kisame infranse il crepitio delle fiamme, risuonando con uno strano entusiasmo:
- Sarà divertente. -
Si volsero tutti quanti, Itachi e Hanako e le altre due ragazze, a guardarlo. Itachi aggrottò la fronte:
- Cosa? -
- Il vostro piano, Itachi. Sarà divertente. -
Itachi lo guardò con un'espressione che, insomma, non era proprio sorpresa, ecco, ma ci si avvicinava abbastanza:
- Non è una missione. Non ha a che vedere con Alba. Non sei tenuto a venire. -
- Se non avete nulla in contrario, Itachi, penso che dar fastidio ai bordi di Sunagakure possa essere interessante. Dicono che le squadre speciali abbiano buoni elementi, adesso... - Un'occhiata a Hanako, un poco sbieca, il sorriso sghembo e crudo proprio come quello d'uno squalo: - ... non è vero, Tagliavento? -
Il ricordo dell'uomo dal sorriso, della sua voce odiosa, di quel suo tatuaggio sull'occhio, felice, le strappò l'ennesimo tremito. Richiuse gli occhi, ma li riaprì subito dopo, alzandosi in piedi. Guardò Itachi dal basso verso l'alto, le mani posate in grembo:
- Vado a preparare le mie cose. -
Un breve assenso.
- Itachi, Kisame. -
- Mh? -
- Che vuoi, Tagliavento? -
...
- Grazie. -

Ed è buffo, sai? Perché tutta l'umanità della mia vita io l'ho trovata dentro a due assassini.
Ma, forse, è più giusto che sia così.


Hiroto le strinse le braccia con forza, sulla porta dell'Heya, e Noa le si rannicchiò contro il petto. Hanako era riuscita a spegnere l'incendio senza troppa fatica, una volta che si era ripresa, guidando il vento a soffocare le fiamme. Kisame aveva concluso il tutto annaffiando abbondantemente le macerie con una qualche irragionevole tecnica, sghignazzando alla vista di una testa che galleggiava in mezzo ai flutti: Hanako, poi, era riuscita a non vomitare solo per pura ostinazione.
Il palazzo aveva un aspetto notevolmente annerito ed un poco incrinato, ora, un paio di finestre rotte, la porta parzialmente bruciata e l'acqua su tutto: Hanako lo guardò con una specie di stanca, opaca sorpresa, come fosse strano vederlo da fuori, vedersi mentre se ne andava. Che fosse la morte, poi, o la salvezza, lei lì non sarebbe tornata. Mai più, giurò.
Hiroto le alzò il mento con un dito:
- Ti devo la vita. -
Voi, voi l'avete salvata a me. Tu mi hai salvata. Chiamandomi, tu mi hai salvata. Potevo pensare di tollerare il mio dolore, ma il vostro sarebbe stato una vigliaccata, pura e cruda, un egoismo assurdo, un'azione di cui vergognarsi per tutta una vita: e non credo che nemmeno Mizuki l'avrebbe voluto.
- E' stata la prima cosa buona che io abbia fatto, Hiroto, in una lunga serie di cose molto schifose. Starete bene, voi, sì? -
Noa singhiozzò debolmente, stretta contro il suo fianco, e Hiroto si affrettò ad abbracciarla, passandole le mani attorno alle spalle:
- Ce ne andiamo a Suna, adesso, io e lei. La accompagno io: la riporto dai suoi genitori e, se loro non la vogliono, la tengo con me. Ci cerchiamo un posticino dove stare. - Sorrise a Noa, che alzò la testa, guardandola stupita tra le lacrime. - E tu, Hanako? Tu starai bene? -
Hanako guardò dietro di sé, verso la strada che portava fuori da Idomizu. Ai confini della minuscola cittadella morta, neri nel calare rosso del sole, Kisame e Itachi l'aspettavano.
Combatterò, gli ho detto. Gliel'ho promesso.
Si girò verso Hiroto ed assentì, fermamente:
- Sì. - E poi, subito dopo, con più dolcezza: - Buona fortuna. -

I ventagli alla cintura, pieghe di carta e stecche di legno. La veste viola da farfalla, le maniche ampie che le nascondevano le braccia sottili, i sandali stretti alle caviglie. La chioma raccolta in un nodo lento e morbido. Aveva una moneta, nascosta nella cintura alla vita, che non si vedeva: però c'era, lei lo sapeva, lui lo sapeva, perché era sempre lì. Niente orecchino, pensò Itachi, ed era questa l'unica cosa che la rendeva diversa da quella prima volta in cui l'aveva vista: perché adesso il suo orecchino riposava sul collo di lui, sotto la veste.
- Vuoi armi, Tagliavento? - Kisame ghignò, adocchiandola con un miscuglio di divertimento e derisione: - Qualcosa che non sia robetta di carta. -
La Samehada, sulle sue spalle possenti, era un'ombra lunga e cupa.
- No, grazie, vado bene così. -
- Ci separiamo appena fuori da Idomizu. - Spiegò Itachi, intervenendo stancamente. - Noi andiamo avanti, Hanako, io a nord e Kisame a sud. Portiamo lontani da te tutti quelli che possiamo attirare. Tu devi volare. Volare, chiaro? Punta verso Konoha e, quando sei nel Paese del Fuoco, devia verso nord sino ai confini con la Pioggia. Ti troverò e ti raggiungerò io. Mi hai capito? -
Messa così, sembrava facile.
- Sì. -
- Combatterai. - Itachi pareva in cerca di un'altra conferma.
- Sì. -
Rassicurato, il ragazzo si volse e si incamminò. Lei esitò per un attimo, prima di affrettare il passo: lo raggiunse e gli avvolse le braccia attorno al torace, trattenendolo. Itachi si fermò. Lei gli strofinò la fronte tra le scapole, per un attimo, lentamente.
Lo annusò, fiutandolo, cercando di riempirsi testa e polmoni dell'odor d'arancio per averlo con sé, quel profumo, quell'odore, sempre, per portarselo dietro in battaglia e riuscire a sentire meno dolore nel combattere, ferire ed essere ferita, e uccidere. Se fosse morta, quello sarebbe stato l'ultimo odore di cui avrebbe voluto ricordarsi.
Si staccò dopo un istante di perfetta immobilità, girandogli attorno, superandolo e muovendo verso la via per Konoha. Kisame guardò prima lei, poi Itachi, poi di nuovo lei. Si sistemò meglio la Samehada in spalla, assestandola con un lieve scrollone, e commentò con un ghigno:
- Oh, sì: sarà proprio divertente. -





Note

Io adoro Kisame. Io lo adoro, lo adoro, lo adoro. Lo adoro e basta. E' uno di quei personaggi che quando compaiono nel fumetto mi fanno contenta: e non potevo non approfittare dell'indescrivibile fortuna di averlo sottomano per sfruttarlo almeno un pochino.
E' orgoglioso, arrogante, dotato di un senso dell'umorismo tutto suo. In coppia con Gai tocca il limite della follia, ma mi piace sempre e comunque.
Mi piacerebbe anche al forno con le patate.

Salice (e ne approfitto per rinnovare i ringraziamenti alla suddetta) vuole che ci si scriva sopra una storia d'amore. Ma, dico io, come fai a scrivere una storia d'amore su uno con un ghigno così...? Freddie Krueger gli fa un baffo!

Un grazie a tutti coloro che passano e leggono.


abcdefghilm: Sono particolarmente contenta che questo capitolo sia piaciuto: come ho già detto, io adoro le scene d'azione. Con questo capitolo ci lasciamo l'Heya alle spalle, ma spero che la prosecuzione continui a piacerti. Vorrei evitare di segnalare il numero dei capitoli rimasti, anche per lasciare un po' di sorpresa: ma abbiamo superato la metà da un po'... Ti ringrazio di cuore per i meravigliosi commenti che mi lasci sempre! Un bacione.

_Ala_: Era liberatoria anche per me che la scrivevo. xD Parlando sinceramente, non trovo Hanako un personaggio positivo: è piuttosto passiva, inerte, subisce invece che reagire. Funziona ai fini della storia, ma è quel tipo di soggetto che mi verrebbe voglia d'afferrare per le spalle e scrollare energicamente - metti che magari poi si svegliano un po'. Per cui, se passa a sezionare qualcuno io sono solo che contenta... Grazie per i complimenti! *_*

Takari94: Povero Sasuke, nessuno lo capisce. ç.ç A me fa una tenerezza infinita. Era piccino, il bimbo, e il fratello si comportava come fosse impazzito, lui cosa poteva saperne? Grazie davvero, sono felice la scena sia venuta bene! ^^ A presto!


fonte immagine: Itachi_and_Kisame_by_B0XFISH

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** 23. sabbia ***




23. sabbia



Il kunai le passa tanto vicino al collo da farle sentire il freddo del metallo a contatto con la pelle. Si lascia cadere giù dal ramo, nel vuoto. Aspetta d'essere a un paio di metri da terra, l'impatto che appare ormai inevitabile, prima di guidare il vento per farsi risucchiare verso l'alto, verso il cielo, verso la cima dell'albero e verso il suo nemico.
Lancia il ventaglio. La carta saturata di chakra rotea a mezz'aria e trancia di netto il ramo sul quale l'avversario è appollaiato. Con un urlo, stavolta è lui a precipitare: ma non c'è nessun vento a riportarlo in alto.
Guidato dal suo potere, il ventaglio le torna tra le mani. Hanako si ferma. Si guarda intorno. Nemici feriti, dispersi, nel sottobosco basso ed un poco aspro di quella frangia di confine del Paese del Vento, tanto vicina alle terre esterne da parere un altro mondo, un altro luogo, con acqua, alberi ed erba, cespugli e niente sabbia, niente sabbia. C'è ancora il vento, però, forte e denso, il vento caldo del deserto che porta con sé un desiderio lieve e struggente di pioggia mancata.


Aveva corso, volato, come Itachi le aveva ordinato di fare. Ubbidiente, non si era fermata a riprender fiato se non quando il suo corpo aveva cominciato a supplicarla, implorando per una sosta. Aveva dormito una volta sola, in quei tre giorni di fuga pazza e assurda, tra uno scontro e l'altro, tra un agguato, un breve inseguimento, uno sfuggire agli avversari e un doverli affrontare quando non era riuscita a seminarli: con la testa tra le ginocchia, il corpo rannicchiato in sé stesso, aveva chiuso gli occhi e si era lasciata scivolare nel sonno.
Itachi e Kisame avevano mantenuto la loro promessa: i confini erano sguarniti. Le squadre che restavano erano scarne, poco numerose, perché i ninja a Suna non abbondavano. Correndo, volando, come le era stato ordinato, Hanako si era aperta la strada.

E' mentre salta oltre la cascata che si trova nel bel mezzo di una pattuglia. Sono bravi. Sono veloci. Sanno cosa fare, sanno lavorare in squadra. La circondano: due di loro la impegnano, lame sottili d'acciaio che vanno a sovrapporsi e a coprirsi in una danza inquieta e perfetta, un terzo prepara un sigillo, l'ultimo aspetta sul bordo della radura che lei si scopra.
Hanako riempie di chakra i ventagli e li chiude: le stecche di legno sono come la pietra, grazie al suo potere, e non si spezzano e non si graffiano mentre para e ribatte, colpo su colpo. Intreccia i ventagli, incastrando la lama d'uno degli avversari tra di essi. La spada dell'altro le disegna un filo di sangue sul ventre, mentre lei tira indietro la schiena e si ritrae, schivando. Ruota il bacino, il peso che preme sulla gamba piegata, assestando un calcio in piena faccia a chi ha di fronte; lo stesso piede che l'ha colpito gli si posa sul petto, mentre lui barcolla, per darle una spinta sufficiente a colpire allo stomaco il suo compagno con il tallone e la pianta, sbalzandolo lontano da sé.
Stringe i ventagli e li lancia, uno a destra, uno a sinistra, imprimendo con il vento la rotazione necessaria perché colpiscano. Il sigillo si spezza, preparato solo a metà, mentre il ninja viene preso in piena nuca; rantola e vacilla, e perde conoscenza. Il ninja di supporto schiva il ventaglio, una volta, due: ma poi lei lo apre e, guidandolo tramite il vento, fili di vento,
burattinaia, gli trancia i rami da sotto ai piedi.
Crolla nel sottobosco con un tonfo ovattato, e lì trova lei. Una pressione lieve su uno tsubo, esercitata per il tempo appena necessario a fargli perdere conoscenza.
Ha vinto di nuovo.


Sempre più stanca, sempre più debole, ad ogni nemico atterrato. Sempre più stanca, sempre più debole, ad ogni chilometro di strada che si andava a sommare a quelli già percorsi, stremandola. Le ferite non erano gravi: lividi e graffi, per lo più, e quel taglio sulla pancia che le bruciava. Era la spossatezza, soprattutto, a farsi sentire. Ma c'era il vento che cambiava, lo sentiva, e che da caldo e secco si faceva sempre più umido, sempre più dolce, carico d'un profumo di fiori che sembrava penetrarle sotto la pelle. Lo stormire delle foglie era denso e tintinnante, e le annebbiava piacevolmente la testa. Sapeva di libertà. La libertà era vicina.

Usa la Lama Verde, per la prima volta da anni, in pieno deserto: non la usa come dovrebbe, i ventagli spalancati e intrisi di chakra sino a divenire duri e taglienti come lame di diamante, ma con le stecche richiuse, perché colpiscano e spezzino, non lacerino e uccidano.
Si inginocchia nella sabbia, Tagliavento, e i ventagli le ruotano attorno ed è come avere quattro mani, dieci, cento, quelle invisibili che reggono i ventagli e quelle reali che parano i colpi che riescono a superare il raggio d'azione della tecnica, muovendo verso di lei.
Che i nemici siano più numerosi; che facciano gruppo; che la stringano in un cerchio, lei non si scoraggia. Le chiamavano Tagliavento e Falciacqua, a Suna, e da sole erano una squadra.


Attraversa una breve radura verdeggiante, dove l'acqua è tanta, tanta da intridere l'erba in minuscole pozze di rugiada umida e fresca. Salta oltre un ruscello e penetra in un bosco di pioppi. Non aveva mai visto alberi così prima d'ora. Le fronde frusciano con uno stormire da monete d'argento, tintinnando sopra la sua testa.
Piovono foglie: chiare, brillanti nella luce azzurrata che ha seguito l'immediata alba.
C'è un buon odore di terra bagnata, lì. I tronchi sono pallidi, quasi bianchi, come colonne di marmo che si screziano di bruno dove la corteccia è rotta. Qualcosa trilla nel vento, un uccello, e Hanako respira con la bocca spalancata per cercare di mandar giù tutta l'aria che i suoi polmoni riescono a contenere.
Balza da un ramo e l'altro e pensa casa, e poi ce l'ho fatta, incredula, esterrefatta, perché ce l'ha fatta, è lì, adesso è lì, i confini del Paese del Fiume sono vicini. Così umido, tutto, così fresco, così diverso dall'arida asprezza di Sunagakure.
Scivola oltre un grande pioppo secolare: è stanca, tanto stanca che le gambe le tremano, tanto stanca che il respiro le si spezza in gola, ma ce l'ha fatta, ed il pensiero è euforia pura, liquida, il pensiero è gioia e luce nel suo stomaco in una nube di farfalle eccitate, ce l'ha fatta ed è libera, finalmente, libera, mai più prigioniera, mai più oggetto, e Suna sembra così lontana che...
E' il suo corpo a schizzare verso destra prima ancora che la sua mente realizzi che quella sensazione di ruvido improvviso sulla pelle della gamba non è naturale, è fuori luogo, sbagliata. Si china per guardare e vede il sangue scorrere appena sotto il ginocchio: la pelle è arrossata e graffiata e pare come raschiata. Un sibilo dietro la sua testa. Scatta avanti, poi sinistra, destra, zigzagando.
Con un tonfo sordo una vampa di sabbia si schianta contro il tronco alle sue spalle, lacerando la corteccia e portandosene via un buon pezzo. Si volta ed ha appena il tempo di alzare uno dei ventagli prima che un'arma semplicemente enorme le si abbatta addosso.
Chakra sulle braccia, chakra sulla mano, sul taglio della parata, fortifica istantaneamente il corpo per prepararsi all'impatto: vede chi l'ha attaccata, una bella ragazza bionda vestita di viola, sgranare un paio di occhi verdissimi con stupore quando si trova il colpo parato.
Hanako piega il gomito, il braccio che si flette per assecondare quel che resta dell'attacco frenato, aprendo il ventaglio e facendolo scorrere lungo l'asta dell'arma dell'altra, mirando alla mano. La ragazza dagli occhi verdi si riscuote, bruscamente, e comincia a saltare indietro: Hanako unisce i ventagli spalancati, le mani a contatto, dorso contro palmo, e colpisce l'aria. L'attaccante viene sbalzata via: vola attraverso la foresta e finirebbe contro un albero, se una specie di cuscino di sabbia non le si formasse in un attimo dietro le spalle, riparandola. La stessa sabbia schizza avanti, subito dopo, mirando ad Hanako.
E' il suo turno di saltare e salta, salta indietro, salta e schiva e i ventagli si aprono e si chiudono per parare l'attacco insidioso. Appoggia i piedi a un tronco, si dà lo slancio, balza in alto e poi ancora, finché non si trova sospesa su un ramo. Guarda sotto di sé, affannata, scorgendo la ragazza bionda rimettersi in piedi e qualcun'altro affiancarlesi.
Ha i capelli rossi. La pelle chiara. Un vestito color del vino, color delle rocce brune di Suna, quelle ripide che scorrevano ai bordi della città, ed una grande giara sulle spalle. Gli occhi non si vedono bene, a quella distanza, ma devono essere chiari pure quelli. Un tatuaggio sull'occhio sinistro, rosso, con l'ideogramma di amore, e una specie di concentrato scuro di chakra che gli dorme nella pancia.
La speranza di quella libertà così terribilmente vicina, un supplizio, una tentazione, si congela in Hanako nel momento in cui riconosce il viso, era un bambino la prima ed ultima volta che l'ha visto, ma quel tatuaggio e quello scuro nella pancia sono inconfondibili.
Kazekage.

Il nuovo Kazekage, a voler essere precisi: quello che chiamano mostro, figlio di uno che mostro lo era davvero.
Hanako si rannicchia sul suo ramo, divisa tra la tentazione di aggredirlo subito, immediatamente, usare la barriera di Mizuki per coprirsi e lanciare la Lama Verde al suo massimo, e quella di fuggire.
Fuggi, le grida la sua testa, fuggi.
Quello è il Kazekage. Il Kazekage di Suna. Ferire il Kazekage di Suna, nel caso in cui dopotutto ci riesca, significa condannarsi definitivamente a morte, perché le sue squadre con ogni probabilità non apprezzerebbero la cosa. Il Kazekage di Suna e il suo personale mostro nello stomaco.
- Beccata, eh? - La voce della ragazza dagli occhi verdi interrompe le riflessioni di Hanako: ha un bel tono, un po' scanzonato e un po' beffardo, molto consapevole. Il corpo è formoso, la postura adulta e volutamente inelegante. Hanako si sente, nel confronto, una specie di bambina esile e androgina. - Hai avuto sfortuna: tornavamo da Konoha quando ci sono arrivate le notizie degli attacchi. -
Dev'essere Temari, la prima figlia. Ci ha messo un po' per riconoscerla, perché anche lei era piccola, l'ultima volta, molto, molto piccola.
Hanako e Mizuki nel palazzo del Kazekage, di fronte al Consiglio, mano nella mano per farsi forza mentre qualcun'altro decideva per loro l'ingresso nelle squadre speciali, ed un terzetto di bambini incrociato nei corridoi, due grandi e forti e un ranocchietto, un rospetto, pallido, triste e mostruoso per quella cosa che aveva dentro. Il ricordo investe Hanako in una sferzata.
Vede Temari tagliarsi il pollice con un dente e aprire l'arma che ha in mano, è un ventaglio, nota oziosamente, per spargervi sopra il proprio sangue. Richiamo. Temari alza il ventaglio, lo piega: lo manovra come pesasse nulla, ma deve avere una forza non da poco, nelle braccia, per riuscirci. Punta dritta verso di lei e colpisce l'aria con il ventaglio.
Cinque secondi di immobilità perfetta e, poi, il caos.
Hanako è partita ancora prima che il ventaglio si muovesse. Schizza avanti, dritta nel risucchio che l'arma crea, buttandosi nel vuoto e chiamando il vento. La Creatura del Richiamo è qualcosa di indefinibile, peloso e aggressivo, armato di una specie di falce tagliente. Le cose vanno in pezzi attorno ad Hanako, che passa tra una lama di vento e l'altra, schivando e saltando, correndo e schizzando da una parte all'altra, mescolando chakra e vento perché la rendano liquidamente veloce. E' ancora viva quando la Creatura svanisce: Temari sgrana gli occhi, vedendosela arrivare addosso, e alza il ventaglio per difendersi.
Hanako sente la sabbia frusciarle attorno. Destra. Il ventaglio di Temari la manca per un soffio. La vampa di sabbia si schianta nell'esatto punto in cui si trovava il secondo prima. Sinistra. Di nuovo la sabbia, infida, vorace, che cerca di agguantarle i piedi. Alto.
Vola, vola, lanciata dal vento verso l'alto, chiude i ventagli e li lancia in aria. Posiziona le dita, più veloce!, e i ventagli che ricadono non sono più due, ma cinque, dieci, venti. Il vento li afferra e li risucchia, mandandoli a vorticare attraverso la foresta.
Come fossero estensioni delle sue dita li sente urtare contro la sabbia ovattata e poi un colpo secco e un gemito. Temari, colpita ad una tempia, finisce riversa su uno strato denso di sabbia che attutisce la caduta e l'avvolge, chiudendola in una specie di spesso guscio.
Hanako non ha il tempo di gioire per un avversario messo a terra: il giorno limpido e l'alba pulita si trasformano in notte, tutto ad un tratto, mentre un buio cupo e innaturale avvolge la foresta. Alza gli occhi verso il cielo, stupita, e vede con orrore un tetto immenso di sabbia incomberle addosso.
Mi uccide! Muove le mani dal basso verso l'alto, e due ventagli abbandonano il circolo della Lama Verde e tornano verso di lei.
Mi uccide, mi uccide, mi uccide... Vede il Kazekage, Gaara del Deserto, in piedi accanto al bozzolo inerte che protegge sua sorella, abbassare le dita per guidare la sabbia. Il tetto del cielo precipita. I ventagli le finiscono in mano in quel preciso momento, e lei non può far altro che addensare attorno ad essi tutto il chakra che le resta, forzando il vento, aiutami, ad avvolgerli, un turbine che, aiutami, le si attorciglia intorno e quando la sabbia la schiaccia, mi uccide, tagliano e fendono e si fanno largo e per un attimo crede di soffocare, tossisce, schiacciata, compressa, ma poi è fuori, è oltre, e c'è il vento e lei che schizza verso il cielo.
Il chakra termina bruscamente, e la debolezza l'invade.
Tre giorni di guerra, tre giorni di fuga. Non c'era da chiedere oltre al suo corpo.
Precipita, e riesce a malapena a guidare un flusso di vento più debole degli altri per impedire alla caduta di fratturarle le gambe e la schiena. Si trova in ginocchio senza ricordare di esserci finita, le gambe nell'erba, le mani ancora strette attorno ai ventagli che tremano violentemente, senza che lei possa fare nulla per fermarle.
Non riesce a respirare bene. Ha sabbia dappertutto, nella bocca e nel naso, nei vestiti, che graffia e prude, e sente male alle ferite. E' un agonia che la debolezza acuisce, e poi c'è la sensazione gelida del terrore, il pensiero che è finita, tutto perso, perduto.
Hanako non vuole morire.

Il pensiero della morte era dolore puro.
La morte era niente più Itachi, niente più profumo d'arancia e mani calde, niente più notti passate insieme, e la morte era mai libera, mai, mai libera, lei che era vento, Tagliavento, e come il vento avrebbe voluto poter essere priva di catene.
Era dolore a tal punto che si trovò per un attimo a scordarsi di quanto fosse stanca e di quanto facessero male le ferite. Si rialzò: goffamente, lentamente, mettendosi in piedi con le gambe tremanti. Sentì la sabbia strisciarle attorno ad una caviglia e la colpì con il filo del ventaglio, incurante del fatto d'essersi procurata una ferita da sola, così, desiderosa solo di liberarsi di quella presenza opprimente. Altra sabbia le si serrò attorno alla gamba, però, e per quanto lei colpisse ce n'era sempre più di quanta riuscisse a fermare. La morsa era forte: non tanto da rompere l'osso, ma bastante per farle tremare il muscolo. Finì di nuovo con la faccia a terra.
La morte era mai più tenere le mani tra i capelli di Itachi. Mai più affondargli il viso in una spalla. C'era Itachi che la aspettava a nord del Fuoco, Itachi che aveva combattuto per lei, Itachi che le aveva fatto largo attraverso le squadre di Suna.
Odor d'arancia: lo percepì per un attimo, ma era solo nei suoi ricordi. Si aggrappò ad esso, disperatamente, mentre si metteva in ginocchio e guardava con una specie di sfida rabbiosa il Kazekage. Dev'essere destino, si disse. Suo padre ha fatto di me Tagliavento, e lui Tagliavento la uccide, ora.
Le fronde come monete d'argento. Profumo di terra bagnata. L'odore d'arancia.
Sentì la sabbia scorrerle attorno alle gambe, immobilizzandola, e poi la voce del Kazekage, del ragazzo, giovane com'era giusto che fosse per quel corpo da adolescente:
- Non muoverti. -
Lei sussultò, a quelle parole: ma dopo un attimo di sorpresa fu l'amarezza a prevalere.
- Io non ci torno a Suna. - Si stupì di sentire la propria voce così rauca e stanca, come rotta. Se la schiarì con un colpo lieve di tosse e proseguì: - Io non ci torno a Suna. Io non torno ad Idomizu. Ho fatto abbastanza la puttana. Se anche avevo qualcosa di cui essere punita, lo sono stata a sufficienza. -
Il ragazzo ebbe un lieve fremito, come un sussulto, senza che la sua espressione quieta e distaccata cambiasse d'un soffio. Lei continuò, implacabile, dura e aspra, pensando che erano le sue ultime parole, quelle, e voleva che fossero un'accusa:
- Tutto quel che Suna poteva chiedermi, me l'ha già chiesto. Se l'è preso. Mi ha portato via dalla mia famiglia, e loro sono tutti morti per Suna, mi ha portato via Mizuki e poi tutti questi anni passati a farmi spezzare. Io non ci torno a Suna. Piuttosto che tornare... - Alzò un ventaglio, con le braccia che le tremavano. - ... morire mi sta bene. -
Aveva combattuto. L'aveva promesso ad Itachi, ed aveva mantenuto, e se adesso moriva non era perché s'era arresa: ma nemmeno Itachi poteva chiederle di tornare a Suna.
La sabbia le arrivò sul ventre e sulla schiena. Cercò di tirarsi indietro, con un sussulto, di chiamare il vento per proteggersi ancora, ma aveva esaurito il chakra. Sentì quell'onda di granelli aspri e taglienti risalirle il dorso e arrivarle alla gola, e si chiese quanto sarebbe stato doloroso, se sarebbe durato a lungo, se sarebbe riuscita a non gridare.
Qualcosa la toccò lievemente sulla spalla, non ebbe bisogno di voltarsi per vedere Mizuki sfiorarla e stringerla, e poi l'odore d'arancia, più forte di tutto il resto. Forte come un'onda, come una nebbia, l'invase e la protesse, avvolgendola dolcemente.
Fronde, monete d'argento. La terra bagnata sotto i piedi.
La sabbia le vorticò davanti al viso e poi, tutto ad un tratto, allentò la presa. Non più sostenuta, e troppo debole per stare in piedi da sola, Hanako finì con le ginocchia nell'erba. Respirò per un lungo istante affannosamente, stupita, prima di risollevare gli occhi verso il Kazekage.
Il Kazekage, il ragazzo, la guardava ancora senza espressione. Era difficile capire a cosa pensasse e se, dopotutto, pensasse davvero a qualcosa, perché si limitava a fissarla e a tacere. Rimasero immobili a squadrarsi per un lungo istante, mentre la sabbia si ritirava come le onde dopo una mareggiata, ritornando verso di lui e verso la sua giara, risucchiata in essa.
Occhi chiari ed occhi chiari, quelli di Hanako erano grigi come le albe nebbiose, quelli di Gaara avevano il colore limpido dell'acqua. Mizuki, pensò Hanako, con un brivido lieve.
Il ragazzo si chinò, poi: prese il corpo inerte di sua sorella tra le braccia, amorevolmente, la sollevò e si rimise in piedi.
- Mi ricordo di te, adesso. - Disse infine. - Eri nel palazzo di mio padre. - E poi, dopo un attimo d'esitazione: - Sono passati tanti anni. -
Hanako non seppe cosa dire, cosa rispondere: ma non pareva che, ad ogni modo, lui s'aspettasse di sentirsi dire qualcosa, poiché le diede le spalle e si incamminò, allontanandosi.
- Puoi andartene. -
Nel dirlo, non si era nemmeno girato verso di lei.

C'era ancora un odor lieve di arancia, nell'aria. E, sopra a tutti gli altri rumori, il suono del vento tra le foglie, monete d'argento, libero vento.





Note

Ospiti d'onore del capitolo, Gaara e Temari. Ci avrei messo volentieri anche il terzo fratello, ma gestirne due per volta era già di per sè sufficientemente complicato.
Per chi volesse effettuare un inizio di linciaggio, i pomodori sono sulla sinistra, terza cassa a partire dal basso.

Questo era un altro di quei capitoli che aspettavo saltellando di poter scrivere.

Ringrazio intanto Salice, come sempre, per la correzione e la rilettura del capitolo.
Poi, lunedì sera mi è stato fatto un regalo magnifico che non riesco a fare a meno di guardare e riguardare e riguardare perché, oltre a far levitare vergognosamente il mio ego, è proprio bello a prescindere da qualunque altra considerazione. Rohchan ha disegnato Hanako, ed è - uh - è proprio Hanako. E' lei dalla punta dei piedi fino alla sommità della testa, passando per le vesti viola, i ventagli, i colori chiari, l'espressione malinconica egli occhi chiusi, il nodo di capelli, i pettini, la postura... tutto. E' bellissima ed io me ne sono innamorata, così.
Per cui un grazie, grazie, grazie, colossale, a Rohchan.

Questa è Hanako per mano sua:
Hanako (a)
Hanako (b)

Gweiddi at Ecate: Per tornare sempre a quel famoso discorso sull'ego gonfiabile... grazie. E' una recensione meravigliosa: una di quelle che uno spererebbe sempre e comunque di trovare, prima o poi, e mica tutta, no, ne basterebbe un pezzetto per essere contenti. Grazie per i complimenti e grazie per le considerazioni e grazie, soprattutto, per Hanako. Sono davvero felice che ti piaccia, che ti sembri adatta, che non sembri fuoriluogo. Grazie. ^^

Rohchan: Riuscire a farti piacere Kisame, guarda, da solo mi vale la stesura del capitolo. xD Kisame merita! E' un cattivo come a cattivo si conviene, infame, violento, aggressivo e barbaro. Così dev'essere! Grazie...! *___* Spero che questo capitolo ti abbia accontentata, ecco... E: a costo di cavarsi gli occhi (ma anche no, eh..., ecco, io concordo. xD Ma anche no!


fonte immagine: Gaara_by_Hiruka00

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** 24. muschio ***




24. muschio



Era una terra bellissima: verde come una giada incastonata tra le pozze d'acqua e fango, il sole affiorava a tratti tra le nuvole, inondando le risaie in lontananza, indorandole, trasformando gli uccelli in volo in schizzi di luce fugace.
Pioveva di pioggia bella e pulita, pioveva di pioggia d'argento.
Lei ricordava d'essere stata vento accanto all'acqua, e cos'è la pioggia se non vento e acqua, puramente, candidamente, vento e acqua? L'acqua riposava sul collo di qualcuno molto amato e lei, vento, adesso era desta.
Ad Hanako sembrava d'essersi svegliata da un lungo sogno confuso, nebuloso, dove solo i giorni di vita passati tra le braccia di chi sapeva d'arancia erano lucidi e lucenti, schegge brillanti in un mare di nulla. Tutto era più, adesso: più forte la pioggia, che le scorreva sulla pelle, senza nessun vetro a separarla, più acuta la sensazione del freddo e quella della terra molle sotto le scarpe, più acceso il piacere ed il vento, il vento, che si portava dentro il profumo.
Arancia.
Si girò per guardarlo, quando lo sentì arrivare, e ad Itachi sembrò, così brillante per l'acqua che le formava addosso rigagnoli lievi, luminosa per la gioia che sembrava passarle attraverso come sole in una perla, incredula, raggiante, più uno spirito che cosa vera.
Gli volò addosso, un po' farfalla un po' brezza, e gli venne naturale cercarle le labbra con le proprie: trovare il miele sotto la pioggia, più forte anche di quel vago odor di sangue che le aleggiava intorno. Doveva essere ferita. Doveva essere stanca, esausta, debole per la fuga e gli scontri, ma era profumata, ed era gentile, leggera, e staccarsi da lei fu quasi fisicamente spiacevole.
- Il posto che dobbiamo raggiungere non è lontano. Sei in grado di proseguire? -
Lei annuì, docilmente:
- Sì. - E poi, subito dopo, in un mormorio dove la felicità era tanto forte da suonare come una vibrazione: - Non mi cercheranno. Non mi verranno a cercare, Itachi, non mi cercheranno. Mi hanno lasciata libera. -

Il posto dove Itachi la condusse era una casa di legno dal tetto sfasciato. Aveva l'aspetto antico e cadente di un edificio che doveva essere stato bello, in origine: ma il tempo era passato su tutte le cose, velandole di una patina di rovina abbandonata. Uno dei due battenti della porta cigolava appeso ad un cardine solo, mentre l'altro mostrava uno squarcio come d'ascia. Le finestre erano prive di vetri e di coperture, e mancavano due dei cinque gradini che separavano l'impiantito dal livello del terreno. E poi c'era il muschio. Ce n'era dappertutto, in un velo verde sul quale Hanako fece scorrere con leggerezza le dita: era umido, era vellutato, le piacque infinitamente.
- L'ho usata come rifugio anni fa. - Le spiegò Itachi, facendole strada sotto la tettoia esterna, tra travi divelte che mostravano grossi fori nei quali sarebbe stato anche troppo facile cadere, sino alla porta. La schiuse, scansandosi per permetterle di passare: - Era in queste condizioni già allora. -
Hanako gli appoggiò una mano su un braccio per poter chiudere gli occhi e farsi guidare. C'era un odore forte di muffa, non sgradevole, un odore verde com'era verde tutto il resto, e poi il profumo bellissimo della terra umida. La pioggia tamburellava dolcemente sulle pareti di legno, e pioveva anche all'interno, attraverso le assi sconnesse del tetto.
Ad occhi aperti vide la poca luce che filtrava all'interno in quel pomeriggio di temporale riflettersi nelle pozze sul pavimento e trasformarle, nella penombra azzurrata, in specchi luminosi.
Uno schiocco secco attirò la sua attenzione: Itachi stava staccando dall'impiantito alcune delle assi, spezzandole con le mani e contro le ginocchia e buttandole per terra.
- Mettiti seduta. Devi asciugarti i vestiti, ed ho qualcosa per farti mangiare. Hai fame? -
Hanako annuì. Gli si accostò, cercando d'aiutarlo mentre rompeva le assi in pezzi piccoli, ma lui la respinse con un gesto secco:
- Siediti. - Ripeté.
Lei gli obbedì, mettendosi per terra, in mezzo al muschio, e portando le ginocchia al petto. Cominciava a sentire i tremiti, adesso, ai quali prima non aveva badato: tremiti di freddo, di stanchezza, ma anche il tremore lieve dell'eccitazione e dell'entusiasmo, perché era tutto assurdamente nuovo, sconvolgente, e non riusciva a calmarsi.
Itachi disegnò con le mani le posizioni necessarie e, portandosi un dito di fronte alla bocca, soffiò una vampa lieve di fiamma: le assi umide e marcite fumarono e presero fuoco. La stanza si accese di riflessi color del rame. Era una grande sala squadrata dal tetto alto, che doveva essere stata molto luminosa, un tempo, e luminosa lo era ancora, malgrado la giornata tetra, malgrado le assi che ne coprivano parzialmente le finestre.
Nella luce del fuoco Hanako vide danzare le ragnatele del soffitto, drappi impalpabili del colore delle nuvole; un grosso ragno bruno filava quietamente e sembrava volasse, sospeso nel vuoto, tant'era sottile il suo filo. Incantata, Hanako si passò un soffio di vento tra le mani e lo guidò a smuovere le ragnatele. Vide il ragno ondeggiare, ed un'ondata di pulviscolo sospesa tra il soffitto e il pavimento scintillare come argento polveroso.
Si sdraiò, le braccia e le gambe allargate, con la testa su uno strato spesso di muschio. Sentiva freddo, pungente, ma era piacevole. Qualcosa scricchiolava e zampettava sotto il pavimento: topi, forse, o talpe. Il pensiero di una talpa fu un'ondata d'eccitazione candida e infantile, il piacere ingenuo di cercare d'acchiappare la bestiola senza alcun intento che non fosse quello d'accarezzarla, la meraviglia vederne sbucare la testa tra l'erba e la terra.
La voce di Itachi suonò esasperata, tutto ad un tratto, in quella maniera che lei amava tanto: la voce che tirava fuori quando lei faceva o diceva qualcosa d'assurdo, con l'esasperazione sfruttata per mascherare una punta di preoccupazione.
- Prenderai freddo. -
Si era tolto la sopravveste, nel frattempo: le nuvole rosse spiccavano come chiazze di colore nella stanza a sfumature tenui, vive nel nero della stoffa. La sdraiò per terra, l'esterno contro il pavimento, ordinando ad Hanako:
- Togliti i vestiti, sono zuppi. Non hai portato un abito di riserva? -
- No. -
Lei si mise a sedere, obbedendogli, sciogliendo con dita rigide la cintura, aprendo la veste viola e sfilandosi le lunghe maniche aderenti che portava sotto. La fascia di rete e stoffa che le stringeva il seno era nera, e neri erano pure i calzoni: tutta roba tirata fuori dalla cassapanca al momento di lasciare l'Heya, vecchia dei tempi di Suna e delle squadre speciali, vecchia a tal punto che le stringeva, addosso, perché i vestiti non erano cresciuti, ma Hanako sì. Alzò il capo per sorridere ad Itachi, ma inclinò il capo da una parte nel vedere che lui si era fermato e la fissava stranamente. Se ne stupì:
- Cosa c'è? -
- Non ti avevo mai vista con i calzoni. -
Forse perché una frase così era come un'ammissione di colpa, non sembra, lo so, ma ti guardo anche io, e un'ammissione di colpa proprio non era cosa da Itachi, forse perché era l'ultima affermazione che si sarebbe aspettata di sentirsi rivolgere, ma ad Hanako venne da ridere. Si premette le mani sulle labbra per soffocare le risate. Il ragazzo corrugò la fronte, guardandola, in un miscuglio di perplessità ed irritazione, al pensiero, probabilmente, che lei stesse ridendo di lui, e la risata di Hanako si fece più forte. Vide la sua fronte piegarsi un altro po', le sopracciglia aggrottate, prima che il ragazzo scuotesse il capo e sorridesse.
Era bello ridere con Itachi. Era bello ridere e basta.
- Si possono togliere, se non ti piacciono. - Commentò allegramente, allungando le braccia per cercare di passargliele attorno al collo. - E anche se ti piacciono. -
Il corpo di Itachi era freddo. Umido, gelato, per via della pioggia. Al contatto della maglia fradicia con la pelle esposta del ventre, Hanako rabbrividì. Spinse il ragazzo a sedere sulla tunica aperta sul pavimento, inginocchiandoglisi sulle gambe e armeggiando con la chiusura dei suoi pantaloni.
- Credevo dovessi toglierti i tuoi. - Commentò lui.
Suonava quieto, ma Hanako era abituata a cercare l'ironia nelle parole più che nel tono, nelle sfumature, perché niente in Itachi era mai pienamente visibile. Come ombre, i suoi pensieri andavano scovati.
- Toglierò anche quelli. -
Itachi la lasciò fare per un po', permettendole di sfilargli la maglia e alzando le braccia per facilitarle il compito. Dopodiché l'afferrò sotto le ginocchia, sollevandola lievemente per capovolgere le posizioni. Le ferite dolsero un po', a quello scossone brusco, ma c'era il calore, nella pancia, nella testa, nel petto, che faceva sparire anche l'eco della sofferenza. Gli passò le punte delle dita sulle gambe, i polpastrelli leggeri che danzavano come ali lievi, farfalla, e poi sull'addome, sul petto, dove i palmi si aprirono per accarezzare, prima di scorrere verso la schiena. Le braccia alle quali il ragazzo si puntellava ebbero un tremito, quando le mani di lei gli scivolarono su e giù lungo la colonna vertebrale.
- Itachi? -
- Mh? - La guardò dall'alto, osservando le guance piacevolmente arrossate, di quel rosato lieve ed accaldato che era scivolato a fiorire sul viso pallido come neve, gli occhi grigi lucidi anche nella penombra, le labbra dischiuse in un'espressione di desiderio, puro e candido, come immacolato.
- Stai con me, domani? -
Un attimo di silenzio. Si chinò a baciarle le labbra, poi, accarezzandole con le proprie con gentilezza.
Hanako lo spingeva a quello, alla gentilezza: come un bisogno continuo di essere delicato, perché con lei doveva, ché era fragile, sottile, anche se solo in apparenza, di quella fragilità d'acciaio da guerriera stanca, e di essere umano, perché con lei poteva, perché Hanako non era, limpidamente, in grado di ferirlo. Come Sasuke. Limpida.
- Resto, domani. -

Al mattino la pioggia aveva lasciato spazio ad un cielo limpidissimo, come lavato, che sovrastava con il proprio azzurro abbagliante uno strato lieve di nebbia: nella foschia il verde aveva una strana apparenza scintillante, sognante.
Itachi camminava lentamente, ed Hanako cominciò a correre avanti: due, tre passi più di fretta, girarsi verso di lui per aspettarlo con impazienza e poi di nuovo altri due o tre passi lungo il sentiero, tra il fango e l'acqua che riflettevano pozze di cielo e gli uccelli in volo, le foglie in uno strato sottile di marcio e pulito sotto i sandali, lo starnazzare lontano di un'oca a rompere il silenzio. Itachi aveva lasciato nella casa la tunica a nuvole rosse: privo di quella, e del coprifronte, aveva un aspetto insolito da persona normale. Era bellissimo.
- C'è un villaggio, qua accanto. - Le aveva spiegato prima di uscire. - Ti porto lì. Impara la strada, abituati ai suoi abitanti. Dovrai avere a che fare spesso con loro. -
Hanako aveva rassettato la tunica viola meglio che poteva, pulendola dal sangue, sistemando gli strappi e le lacerazioni seguite alla fuga: aveva pettinato sé stessa e Itachi, prima di uscire, accarezzandogli i capelli con la percezione netta che doveva essere così, la felicità, con quei capelli e quell'odore sotto le dita.
Il villaggio era stranamente grazioso: qualche casa greve d'anni e di dignità, qualche edificio più recente, pulito, i rampicanti un po' dappertutto, floridi per tutta quell'umidità greve e fresca. I negozi avevano insegne colorate e banchi di legno velati di stoffe variopinte. Sembrava un posto fondamentalmente pacifico: una vecchia intenta a pulire una cassa di melanzane, seduta fuori da una porta, alzò gli occhi verso di loro osservandoli con amichevole curiosità; due bambini passarono loro davanti, e Hanako si girò per poterli seguire con lo sguardo. Si aggrappò al braccio di Itachi quasi volesse farsi sostenere, perché aveva gente e spazio, attorno, e a Idomizu aveva perso l'abitudine a tutto ciò.
Il ragazzo si fermò davanti a un banchetto che vendeva polpette di carne e ne comprò due lunghi spiedi: gliene cacciò uno in mano senza chiederle niente, e Hanako mangiò, docilmente. In un negozio di vestiti ne acquistò qualcuno per lei: viola, di quel viola chiaro che aveva sempre indosso, grigi e bianchi, ed uno verde, verde quanto l'erba chiara e quanto l'acqua nelle pozze, nel quale i colori pallidi di Hanako sembravano farsi argento e perle.
Hanako abbozzò una protesta, avvampando e pensando, vergognosamente, di non avere nulla con cui ripagarlo, ma Itachi gelò qualunque obiezione sul nascere con un:
- Basta. -
Be', basta.
Avrebbe ricordato quella giornata in eterno, Hanako, con la sensazione vivida di aver camminato in un sogno.

Io che finisco con i piedi in una pozzanghera, a furia di saltellare da una parte all'altra della strada per cercare di non perdermi nulla, niente, neanche una scheggia di questa giornata assurda e magnifica, e Itachi che sorride, sorride, sorride a me, ed io morirei per quel sorriso. Il vestito verde, e pensare che nessuno mai, mai più, nessuno che io non voglia, potrà togliermelo di dosso. Che non dovrò avere addosso mai più le mani di nessuno che non sia Itachi.
Correre lungo la strada e sentire il vento, essere vento, io sono il vento, e il sole e l'acqua si fondono in tutto questo in una danza di completa bellezza.
Ridere, stavolta sono io che rido, non riesco a smettere da stamattina di ridere e sorridere, e tutta questa gioia si ricolma ogni volta che mi giro verso Itachi e vedo che lui è contento di vedermi così. L'odore di arancia, forte su tutte le cose, che adesso riempie anche la casa di legno e di muschio, ed io penso che,
arancia, lo voglio nella pelle.

E questi giorni di luce verde me li porterò dentro, io, sino alla fine dei miei anni, sino alla morte ed oltre, anche, perché non si può vivere e morire senza ricordare giorni così.
Nel buio, questi giorni saranno polvere di stelle.






Note

Mi piace da morire descrivere la pioggia. E' qualcosa che cambia sempre, ha mille sfaccettature, mille aspetti. Può essere buia e luminosa, può essere pulita, fangosa, sabbiosa, può essere verde, azzurra, può non avere colore. Può essere densa, come la pioggia d'inverno, può essere leggera, l'acqua di Marzo, può essere pesante e violenta come nei temporali estivi. E' una cosa meravigliosa.
Soprattutto se si è all'asciutto, comunque. E si ha un ombrello. E non si soffre di cervicale. Se invece si ha la sfiga suprema di essere fuori casa quando piove, si può star sicuri che l'acme del diluvio coinciderà precisamente con il momento nel quale si scende dall'autobus con tre borse, i sacchetti della spesa, un libro costoso nello zaino e un ombrello rotto.

Se vi capita, date un occhiata alla sezione di DeviantART dedicata all'autore dell'immagine che ho sfruttato per questo capitolo, SnowSkadi. Mi piace in particolar modo la sua immagine più famosa, che sarebbe questa, ma sono tutte molto belle e molto evocative.

Ho modificato uno "scorrettero" con uno "scivolarono" in corso d'opera per segnalazione di Rohchan: scorrettero non è erroneo, ma è uno di quei passati morti non più adoperati dall'italiano corrente. Suona, effettivamente, sgradevole. E, dato che io ho una certa antipatia per scorsero come passato remoto di scorrere, ho tagliato così la classica testa al toro. Grazie, Roh. ^^

Un grazie a Salice per le correzioni. Sono contentissima di dirvi che i primi pezzi della raccolta su Itachi, Shisui, Sasuke, Hanayuki e Hanako sono già pronti e aspettano solo di essere pubblicati sul nostro account. Per cui, come si dice? Rimanete sintonizzati su questi schermi!

Un grazie a tutti coloro che passano e leggono.


Rohchan: Gaara è un altro di quei personaggi che adoro. E' confuso e neanche troppo vagamente psicopatico ma, soprattutto nella seconda parte del fumetto, assume dei connotati morbidi e fortissimi. Anche se è Temari la mia preferita. xD Il disegno è bellissimo, Roh. E' delicato, mi piacciono i colori, sono luminosi, mi piace lei. Tanto, tanto bello... ^^ Grazie ancora!


fonte immagine: Chi_by_SnowSkadi

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** 25. polvere ***




25. polvere



La casa di legno e di muschio si alzava alla fine del sentiero, ma se Itachi non avesse avuto la certezza che fosse quella, e non un'altra, non l'avrebbe riconosciuta.
C'era il muschio, sempre, sulle pareti e sulle rocce che affioravano tra l'erba ai suoi piedi, in chiazze di velluto umido che si inerpicavano mescolandosi ad un grande rampicante che Itachi ricordava come uno scheletro arido e brunito: adesso fioriva di foglie verdi e grandi, lucide per la pioggia che aveva smesso di cadere da poche ore, e si inanellava in cascate ritorte sul corto porticato. I battenti erano stati sostituti, e ora, spalancati, lasciavano in bella mostra qualcosa che appeso al soffitto da fili sottili tintinnava incessamente. Campane del vento, pensò Itachi. E poi, subito dopo, con un sorriso: appropriato.
Hanako si affacciò ad una delle finestre, riparate anche quelle, le assi schiantate e sostituite da vetri nuovi, e, malgrado la distanza, al ragazzo sembrò di poterla distintamente veder sorridere. Lei si appoggiò al davanzale e si diede una lieve spinta. Un soffio di vento brusco e improvviso, mentre ci passava attraverso e si faceva trasportare, farfalla, sino a posarsi in mezzo al sentiero, le distanze divorate.
- Itachi! Kisame! -
In quei mesi trascorsi nella sua nuova casa nel Paese del Fuoco aveva messo su un po' di carne e di colore: meno pallida e gracile, non sembrava più di poterle vedere attraverso. Era più alta, più luminosa, con un'espressione di raggiante, purissima felicità. Kisame, accanto a Itachi, sghignazzò rumorosamente:
- Ti trovo in forma, Tagliavento. -
Anche Itachi la trovava in forma. Molto in forma. Incantevolmente in forma.
Era ancora la ragazza - bambina assurdamente candida che l'aveva accolto all'Heya quella volta in cui ci era arrivato ferito, agonizzante, con il suo sorriso limpido e gli occhi fatti adulti da un velo di malinconia che non se ne voleva proprio andare. Al collo aveva, traforata ed appesa ad un lacciolo di cuoio, una moneta d'argento che il tempo aveva ossidato lungo i bordi.
Fece loro strada verso casa, annunciando con leggerezza, una punta d'entusiasmo nel fondo della voce:
- Sono il medico del villaggio, adesso. -
Spiegò loro che aveva cominciato quasi per caso: era passata per strada, un giorno, per andare a comprare della frutta con qualcosa del denaro che Itachi le aveva lasciato; un carretto aveva schiacciato la gamba di uno degli uomini che lavoravano nelle risaie, e lei, che proprio il sangue non lo sopportava, né il sangue né il dolore, aveva cercato di sanarlo come meglio sapeva fare. Da allora avevano preso a venire da lei per piccole cose, al principio, quando si ferivano nei campi, quando un bambino aveva mal di pancia o un dente rotto doleva a qualcuno, ma poi anche per i morsi di ragni e serpenti e per le febbri e le malattie, perché Mizuki era stata una guaritrice favolosa, che aveva conosciuto le erbe e i rimedi per molte cose e li aveva insegnati ad Hanako.
- Mi pagano. - Hanako sembrava entusiasta e sorpresa, al pensiero. - Ho detto loro che non sono un medico vero, ma non mi hanno dato retta. Sono contenti che sia qui. -
Anche quel pensiero doveva essere entusiasmo, e stupore, sbalordimento, come per un qualcosa di inaspettato. Itachi lo capiva, questo.
Una fitta di piacere quasi liquido, fisico, lo invase quando fu dentro la casa. L'ultima volta che era stato lì Hanako aveva già iniziato a lavorarci, ma c'era ancora parecchio da fare: adesso il tetto era integro, le stanze pulite, il pavimento sistemato. C'erano paratie di carta di riso in alcune stanza: bianche, Hanako doveva aver cominciato a disegnarle, perché su alcune di esse vi erano forme abbozzate, colorate e confuse, e pennelli e bicchieri di pittura abbandonati sul pavimento. Avevano il verde luminoso della terra dopo la pioggia e l'azzurro sconvolgente del cielo lavato, e tracce di rosso ovunque, come schizzi, bagliori, non sangue ma occhi, pensò Itachi.
Di campane del vento ve n'erano in abbondanza, dappertutto, nei posti più assurdi: appese alle finestre, nella cucina, fatte di legno, vetro e bambù, tintinnavano ogni volta che Hanako passava, come se la ragazza si fosse portata dietro il vento.

- Niente saké! - La protesta di Kisame era un mugugno intensamente scocciato: ma, notò Itachi, non aveva nemmeno provato a proporre di andare altrove, una locanda o una taverna lungo la strada; e, dopotutto, non è che sembrasse sinceramente seccato.
Con un vassoio tra le mani, Hanako si inchinò al suo indirizzo, scusandosi:
- Mi spiace molto non averne. -
Kisame ghignò:
- Ha un odore tremendo la roba che hai lì, Tagliavento. Cos'è, veleno? -
- Zuppa. - Rispose lei, serenamente. - Di pesce. -
Il secondo mugugno di Kisame suonò come un vago apprezzamento. Itachi la interrogò mentre serviva in tavola:
- Hai avuto problemi? -
Hanako scosse la testa:
- Qui passa poca gente, e al villaggio non mi conosce nessuno. Mi lasciano in pace. - E poi, dopo un attimo d'esitazione: - E' una terra pacifica. -
- Non tanto pacifica, Tagliavento. - La corresse Kisame, distrattamente. Sedeva in maniera scomposta sulla stuoia di canne sottili, una gamba ripiegata sotto di sé e l'altra che, reclinata, faceva da appoggio alla Samehada. Soggiunse dopo un attimo, con un sogghigno: - E, se anche ora lo è, non lo resterà a lungo. -
Hanako gli riempì la tazza di tè con la cura lieve di chi si occupa d'una sorta di cerimonia, attirandosi un'occhiata d'apprezzamento.
- Dove sono i tuoi ventagli, Tagliavento? -
- Di sopra. - Rispose lei, quietamente. - In una cassa. -
Kisame fece per aprir bocca e dir qualcosa, forse a proposito dei ventagli, forse sulla zuppa di pesce, che aveva appena preso ad aggredire con deciso appetito, quando un suono improvviso e inaspettato lo interruppe.
Itachi tossiva. Hanako pensò che avesse mandato giù qualcosa che gli era andato di traverso, ed era strano pensare che si stesse strozzando con del cibo, ma dopotutto era umano, Itachi, no? Poi, però, si accorse che non smetteva. Un colpo di tosse dopo l'altro, tossiva e tossiva e sembrava non riuscisse a riprendere fiato.
- Itachi? -
Tese una mano verso di lui, istintivamente, ma il ragazzo la respinse con un gesto brusco. Rimase con le dita levate a mezz'aria nella sua direzione, Hanako, gli occhi sgranati e il respiro trattenuto, sino a quando la tosse non sembrò diradarsi, poco alla volta, facendosi meno aspra. Itachi riuscì a tirare un lungo respiro tremante, e poi un altro, e infine alzò la testa e la guardò:
- E' tutto a posto. -
Era pallido e aveva gli occhi lucidi. Le occhiaie erano più marcate del solito: scure, definite, si allungavano come macchie d'ombra sul viso bianco. Lei provò a obiettare:
- Ma... -
Kisame la interruppe, alzando la ciotola al suo indirizzo:
- Se ci hai messo dentro del veleno, Tagliavento, è ben nascosto. Dammene un altro po'. -
Le obiezioni di Hanako scivolarono in un angolo, messe da parte.

La notte, sdraiata sopra Itachi, mentre gli disegnava il contorno del torace con le dita s'accorse d'una cosa che, lì per lì, la lasciò soprattutto stupita:
- Sei dimagrito. -
In genere di Itachi notava solo quanto si fosse fatto più alto e più forte di volta in volta: più muscoloso, di quella muscolatura snella e nervosa che hanno i cervi ed i felini, nascosta appena da uno strato sottilissimo di pelle setosa. Era strano, adesso, accorgersi che in quei mesi nei quali non l'aveva visto era diventato più esile. I muscoli c'erano, ancora, ma parevano come estenuati, il corpo perfetto assottigliatosi.
Il ragazzo le sorrise, alzando una mano per accarezzarle i capelli. Aveva il viso stranamente languido, reso tale dalla piacevole stanchezza seguita all'ennesima volta portata insieme a termine, e Hanako si perse a contemplarlo.
- Non sono stato fermo molto a lungo, negli ultimi mesi. -
- E' per questo che non sei più tornato? -
Il sorriso rimase sul viso di Itachi: solo, si fece un poco più mesto.
- Mi dispiace. -
Ad Hanako parve di sentire il proprio cuore perdere un colpo, nettamente, come mancando un battito. Ridacchiò, subito dopo, con un miscuglio di allegria ed incredulità:
- Ti sei appena scusato di qualcosa, Itachi? -
Anche il ragazzo, dopo un attimo di silenzio vagamente offeso... probabilmente non considerava dignitoso che si scherzasse sull'argomento... rise piano, muovendo la mano che le accarezzava i capelli per scompigliarli bruscamente.
- Sciocca. -
Lei si piegò, elastica come una gatta, per appoggiargli la fronte sul torace: sentiva il suo respiro, così, e il suo cuore, lento, quieto e forte, e se gli poggiava le mani sul petto percepiva anche il sangue scorrere, i muscoli flettersi sotto la spinta dei polmoni.
- Torna dopo cinque giorni, dopo cinque mesi. - Mormorò appena. - Torna una volta all'anno o una volta ogni dieci, non mi importa. Mi basta solo che torni. -
E poi, mentre sentiva uno strano calore salirle alle guance, imporporandole, ed era stupido, perché avevano appena passato tutta una notte a baciarsi, accarezzarsi, a passarsi addosso le dita e le labbra, mescolando sapore e odore fino a che non era più stato possibile distinguere tra miele ed arancia, ma quello era oltre il mescolarsi, era un dire di sé, dire di dentro di sé, più personale:
- Ti amo. - Il mormorio era un bisbiglio o anche meno, adesso, soffocato contro la pelle del suo petto quasi per paura. - Ti amo molto. -

Non sa, Itachi, se è più il modo in cui lei lo dice, spaventata e rannicchiata nella propria ammissione, ché era dichiarata e palese la cosa, che lo amasse, ma dirlo è diverso, o se è quel molto che, in quel tono, diviene più un infinitamente o un alla pazzia, ed è pazzia, lo sa, che gli stringe lo stomaco nel guardarla, e si odia da morire per le menzogne che le racconta, per i silenzi, che sono più aspri delle bugie, però Hanako è lì, ed è dolce, è gentile, e ha appena superato una generosa dose di vergogna e umiltà per riuscire a tirar fuori il coraggio sufficiente ad aprirgli il proprio cuore. Sa che sarebbe molto più ragionevole dirle di dormire, non respingerla, no, perché non ne è più in grado, però costringerla al silenzio sì.
Hanako starebbe zitta, se lui glielo ordinasse. Hanako morirebbe per lui, per gratitudine, anche, ma soprattutto per amore, e lui non dovrebbe nemmeno ordinarglielo, perché basterebbe chiederglielo: farfalla, fragilissima, la tiene in palmo di mano e potrebbe piegarla, infrangerla, spezzarla come vuole, se volesse. Non vuole.
Lascia perdere il ragionevole e il sensato, per una volta, perché non era ragionevole nemmeno lasciar vivo Sasuke, però Sasuke è vivo, ancora, e che il resto del mondo sprofondi pure.
Averlo salvato, Sasuke, è la prima ragione di gioia di Itachi: il pensiero che gli permette di alzarsi tutte le mattine con la consapevolezza che il suo dovere non è riuscito a trasformarlo nel più insanabile dei mostri.
- Sì. - Le risponde, dopo un attimo. - Lo so. -
Vorrebbe tirar fuori tanto coraggio quanto ne ha mostrato lei per poterle dire
anche io, anche io ti amo, perché dev'essere così, è vero, dev'essere che la ama, lei, Hanako, ma proprio non gli riesce. E' l'eredità di Fugaku, pensa acidamente.
Si chiede se suo padre abbia mai detto a Mikoto quanto l'amava.
Hanako sembra felice lo stesso, comunque, e gli si raggomitola contro lo stomaco con un verso come di fusa, la testa sul suo cuore e le mani sulle sue spalle.
- Ti disturbo, se resto così? -
- No. - Silenzio, nel buio. - Hanako? -
- Mh? -
- Buonanotte. -



Ci sono anni che si passano a costruire le cose, con amore e cura, guardando sorpresi la propria vita che si monta da sé, prima le fondamenta, non sempre belle, non sempre limpide, chiazze d'oscurità che però poi divengono pilastri e mura che vedono il sole e il vento. Ci sono anni in cui si gode di quelle cose che si sono costruite: e si sta sulla balconata più alta a contare le stelle, la notte, con la sensazione che la vita debba essere così, sempre.
E poi ci sono giorni dove basta un'ora, basta un attimo, a stravolgere le cose: e tutto quel che è stato costruito diviene polvere.


Quel che avrebbe fatto polvere dei giorni di luce verde accadde il pomeriggio seguente. Erano fuori, lei e Itachi, camminavano lungo il sentiero. Kisame era un po' più in là che si esercitava con la Samehada, facendole fendere il vento e percuotendo il cielo come volesse intimorire gli dei. Hanako sorrideva e chiacchierava con levità di qualcosa per nulla importante. Itachi era dietro di lei, lo poteva sentire, i suoi passi nel fango pulito e la sua presenza tiepida che sapeva di arancia. C'era un bel sole luminoso, malgrado le nuvole verso ovest promettessero già pioggia. Un'oca in fondo alla collina starnazzava rumorosamente, ed era l'unico suono oltre al chiacchiericcio lieve di Hanako ed al sibilo della spada.
Poi, la tosse. Un colpo rauco, soffocato, e poi un altro ed un terzo, sempre più annaspanti, urgenti, perché gli mancava l'aria, a Itachi, e il suo corpo non voleva saperne di collaborare per ingerirne. Hanako si voltò verso di lui, sorpresa e poi inorridita nel vedere che non aveva le mani bianche, premute contro la bocca, ma rosse e viscide, e quel liquido vischioso che colava sapeva di ruggine e di metallo e di morte, sangue, un odore che prendeva allo stomaco.
- Itachi! -
Gli volò incontro, protendendo le mani per cercare di afferrarlo. Il ragazzo fece un gesto come per respingerla, bruscamente, ma gli accessi di tosse gli impedivano di reagire come avrebbe voluto: si piegò in due, spezzato dai conati che la carenza d'ossigeno gli causava, sforzandosi disperatamente per tirare un respiro, almeno uno.
Lei gli strinse i gomiti per sorreggerlo, e sentì il terrore invaderla nel sentirlo tremare.
- Itachi! - Di nuovo, in un gemito; e poi, subito dopo, con disperazione: - Kisame! Aiuto! -
Ad Hanako sembrava che la vita le fluisse via da sotto le dita, sfuggendole, perché lo sentiva debole come quella prima volta che l'aveva visto, Itachi, debole e straziato. Il ragazzo perse conoscenza e le finì addosso: Hanako lo afferrò prima che cadesse, concentrando il chakra nelle braccia e nelle gambe per impedirsi di lasciarlo andare, e poi fece fluire il vento per spingere sé stessa e lui versol'alto.
Si infilò attraverso la finestra della propria camera e lo sdraiò sul letto con delicatezza infinita. Itachi era pallido come la neve. Respirava debolmente: quando aveva perso i sensi si era rilassato, sciogliendo gli spasmi dolorosi che gli avevano serrato i polmoni, e adesso l'aria fluiva nella bocca e nella gola con un risucchio sibilante e schiumoso. C'era del liquido nei polmoni, valutò Hanako. Lottando a fatica per soffocare il terrore, guidò il chakra per incanalarlo attraverso le dita e nella sua pelle, dritto giù nel torace per controllare, per vedere...
Le sfuggì un verso a metà tra un lamento e un mugolio, spezzato, che coprì il rumore che fece Kisame entrando dalla finestra:
- Come sta? -
Hanako si rannicchiò addosso a Itachi, spingendogli dentro il proprio chakra per cercare di sanare e rimediare, per tenergli allargati i polmoni e per tentare di disperdere la schiuma che gli serrava la gola. Accovacciata a quel modo, con la testa premuta contro lo sterno del ragazzo, si girò per guardare Kisame con una specie d'accusa addolorata, rabbiosa, negli occhi grigi:
- Tu lo sapevi? -
Una scrollata di spalle da parte dell'uomo, vaga e distratta. Teneva la spada in spalla, la punta dell'arma che sfiorava quasi il soffitto della stanza, e guardava verso Itachi con un'espressione bizzarra che Hanako non riuscì bene a definire.
- Non aveva... - Hanako inghiottì a vuoto, per non farsi scappare un secondo singulto. - ... intenzione di dirmelo? -
- Chiediglielo quando si sveglia, Tagliavento. Perché avrei dovuto parlartene, io? - E poi, senza darle il tempo di ribattere o di rispondere, le domandò di nuovo: - Come sta? -
- Ha... ha cose nei polmoni. Grumi. Gli premono sul petto. -
- Puoi toglierli? -
Respirare era faticoso. Pensare era faticoso.
- No. Non so. Io... non so, e... - Singhiozzò, adesso, un suono secco che si spense senza pianto. - Da quanto va avanti? L'altra volta non stava così. -
- Un po'. -
Un attimo come di stordimento inerte, prima che la consapevolezza si facesse orrore. Era per questo che non tornava...? Perché non voleva che lo sapessi? Guardò Kisame come in cerca d'aiuto, supplichevole, con l'angoscia che si serrava in una morsa d'acciaio attorno al suo petto, comprimendole il cuore. Faceva male. Male da morire, perché quello sul letto era Itachi, e quelle cose che aveva nei polmoni lo facevano soffrire, ad Itachi, e lei non credeva di poterle levare da lì. C'era bisogno di un medico: uno vero, uno che sapesse dove e come mandare il chakra sotto la pelle per dissolvere il dolore. C'era bisogno di qualcuno che lo salvasse.
Kisame parve leggerle nel pensiero, perché scosse la testa, tutto ad un tratto: non ghignava, ed era strano vedergli il volto aspro e marcato privo del sogghigno che di solito era immancabile e immutabile, come una mascherata alzata a nascondere qualunque altra cosa.
- Fa' quello che puoi, ragazzina. Tutto il resto, lascialo perdere. -
E, più che un ordine, sembrava un consiglio.

Consiglio che Itachi ribadisce, quella notte, dopo aver ripreso conoscenza.
- Lascia perdere. -
Hanako adora Itachi. Hanako adora Itachi in una maniera che non riesce a descrivere a parole, un po' come i suoi polmoni non sarebbero in grado di descrivere la propria adorazione per l'aria, una maniera che è insieme bisogno fisico e necessità dell'anima. Hanako adora Itachi, ma lo strangolerebbe volentieri, al momento, potendo.
- Un accidente. - Non usa mai quel tono con lui... non usa mai quel tono con nessuno, a dire il vero... ed ha la soddisfazione di vedere Itachi sgranare un poco gli occhi, sorpreso. - Non posso lasciar perdere. Stai male. Stai morendo. Stai morendo e non me l'hai detto. -
- Non muoio così, Hanako. -
- Ti serve un medico. Un medico vero, non me. -
- Hanako... basta. -
In genere è sufficiente quel basta a concludere le loro discussioni, perché oltre all'amore c'è anche la gratitudine, sempre, che è un debito da saldare: Hanako è in debito con Itachi, che può ordinarle tutto quel che vuole, lo sa lei, lo sa lui, e Itachi, anche se disapprova, certe volte se ne approfitta. Stasera, però, Hanako non ha intenzione di dargliela vinta:
- A che ti serve lasciarti morire? -
Itachi ha un lieve sussulto: per la seconda volta in una serata mostra pienamente d'essere umano, e Hanako non sa se esserne felice o terrorizzata. Forse ha perso d'importanza anche quello, anche l'orgoglio, davanti al pensiero della morte che arriva.
- Non mi lascio morire, Hanako. - Mormora Itachi, quietamente. - Ho ancora cose da fare. -
- Tu non... -
- Io non ho intenzione di continuare oltre questa discussione. Hanako. Per favore, basta. -
Come è accaduto per Kisame quel pomeriggio, non è un ordine ma altro: un consiglio, una preghiera. Hanako gli si rannicchia addosso, le braccia attorno al ventre e la testa sul suo petto, e sente una delle mani di Itachi, dopo una breve esitazione, passarle tra i capelli.
- Non muori? - Gli domanda, in un bisbiglio.
- Hanako... -
Lei vorrebbe dirgli che ha bisogno di lui, che non deve morire,
per favore, ti prego, non morire, per piacere, ma poi c'è la sensazione opprimente di non avere il diritto, semplicemente, di domandarglielo: perché Itachi ha altre cose da fare, lei lo sa, e il pensiero di quelli che ha ucciso e di quelli che ucciderà come un fardello, tutto per il suo dovere, tutto per Sasuke.
Vorrebbe ricordargli che lo ama, lei, e che se anche questo non le dà diritti, be', che almeno Itachi sia sempre consapevole di quanto la sua vita ha valore, preziosa, preziosissima, più del vento e della libertà. Dirglielo ora sarebbe un ricatto, però, se ne rende conto: un ricatto morale, e Itachi è disperatamente nobile anche in cose come questa.
Non fa altro che cacciargli il naso nello sterno, fiutandolo disperatamente; e dopo un po' sente anche l'altro braccio del ragazzo stringerlesi attorno, e le sue mani tirarsela addosso, sul bacino e sul ventre.
Dimostrare le cose così è sempre stato più facile che parlarne: è lo stesso anche per Hanako, che lo capisce, perciò, e l'aiuta a spogliarla e a spogliarsi, sfilandogli i vestiti con leggerezza e stringendogli le ginocchia contro i fianchi. Anche quella volta è esplorarsi, ma con cautela, far piano per non far stancare Itachi, che ogni tanto annaspa ed ha bisogno d'aria, ed è Hanako a soffiargliela con forza tra le labbra. E' tenere il chakra sempre in movimento, perché lei non s'arrende:
lo salverò, lo pensa disperatamente mentre il calore le invade il ventre e la testa, lo salverò, mentre la bocca del ragazzo le disegna lo sterno e il seno, lo salverò, mentre le mani, calde, morbide, profumo d'arancia, le stringono la vita snella, esilissima, tanto sottile che la si può tenere tra due mani. Esplorarsi una volta, due, poi tre, con l'alba che preme grigia alla finestra, esplorarsi sino ad esserne esausti ed a cadere addormentati l'uno accanto all'altro. Senza riuscire a cancellare neanche per un attimo, stringendolo, la sensazione d'avere le dita piene di polvere.





Note

L'autore di Naruto deve avere forti propensioni al sadismo, comunque. Più rileggo certi capitoli e più ne sono convinta.
Quando ho trovato l'originale dell'immagine di questa volta, che potete vedere qui, mi è preso un colpo. Cambiate loro il colore degli occhi e sono Hanako e Mizuki a tredici anni, Hanako a destra, quella più piccola con la veste rosa e viola e i capelli chiari, e Mizuki a sinistra, bruna con l'abito azzurro.
Un grazie a Salice, la mia correttrice preferita, e a Rohchan che sta adottando Tagliavento. *_* Anche se ce l'ha con me quando la storia prende pieghe tristi: giuro che ha fatto tutto Kishimoto, io sono per i coniglietti rosa e gli orsacchiottini morbidosi. Carini e coccolosi, ragazzi.

Un grazie a chi passa e legge.


Rohchan: Dopo questo profluvio fiorito di complimenti che posso fare, a parte strusciare il piedino a terra? *_* Maggrazie!


fonte immagine: The_Twin_Stars_by_tickledpinky

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** 26. dono ***




26. dono



Pioveva un po': lievemente, delicatamente, una pioggia sottile come un velo che si deponeva sulla terra in uno strato di limo bruno. Era tiepida, e tiepido era anche il vento che smuoveva le fronde intorno alla casa. Camminando sul sentiero senza curarsi di nascondere il proprio arrivo, Itachi poteva ascoltare lo strato di foglie cadute scricchiolare sordamente, in un suono liquido e increspato. Camminava così perché lei lo sentisse arrivare.
Hanako si affacciò infatti sulla porta di casa quando lui era ancora lontano: malgrado la distanza a Itachi parve di poter sentire tintinnare le campane del vento che aveva appeso nel portico, mentre la ragazza correva avanti, sotto la pioggia, verso di lui. Vestiva di verde pallido; su quel colore il biondo chiarissimo dei suoi capelli sembrava farsi argento, la pelle candida come la madreperla. La pioggia le scorreva intorno più che addosso, adesso, perché doveva essere così felice di vederlo da non controllare nemmeno più il proprio chakra; che si espandeva, ondeggiando, incanalando piccoli flussi di vento che le danzavano a fior di pelle.
Gli volò tra le braccia, e Itachi la strinse. Affondando il volto tra i suoi capelli, per un attimo gli sembrò di potersi dimenticare del mondo.
- Bentornato. -
Mondo che però era lì, incombente, e portava con sé un carico di dolore che gli parve intollerabile, adesso, in quel momento, con Hanako stretta contro il petto a bisbigliargli quel saluto, bentornato, tremendamente sentito, e il suo calore a fargli credere di essere pieno, ricolmo, completo. Itachi represse a stento il tremito feroce che gli era nato dal petto, costringendosi a restare perfettamente immobile, perfettamente inerte, mentre Hanako gli passava le mani sulla schiena.
- Stai meglio? -
Non stai bene, ma stai meglio. Era una domanda un poco meno angosciosa: una domanda alla quale Itachi avrebbe potuto rispondere senza mentire troppo, dopotutto, se proprio non fosse stato così necessario mentire.
Ma lo era.
- Sì. Hai avuto problemi? -
Era divenuta una frase ricorrente, quella, ogni volta che Itachi arrivava alla casa del muschio.
- Nessun problema. Si sono affezionati a me. Mi hanno invitato alla festa del villaggio, sai? Dopodomani. -
Le alzò il viso con due dita, per guardarla in viso:
- Vengo con te, vuoi? -
Hanako parve stupita, per un attimo, prima che il suo viso si illuminasse:
- Resti fino a dopodomani? -
- Resto per qualche giorno. -
Tenersi sul vago, si raccomandò, tenersi molto sul vago. Ma, nel guardare la gioia pura che le trasfigurava il volto a quella promessa di qualche giorno, Itachi non riuscì a fare a meno di ricambiare e sorridere.

Itachi era dimagrito ancora. Hanako se ne accorse quando, seduti sul pavimento, lui se la fece sedere tra le gambe, il dorso contro il proprio petto, e prese ad accarezzarle i capelli, districando le ciocche con le dita. Sembrava di potergli contare le costole attraverso la maglia: si era sfilato la sopravveste non appena aveva messo piede in casa, e il coprifronte con la foglia spezzata era rimasto sul tavolo, dimenticato.
Lei gli appoggiò il viso alla spalla, respirandogli contro il collo.
- Ho visto Sasuke. -
Hanako provò una fitta di gelosia a quel nome, perché l'amore nella voce di Itachi che lo pronunciava era pieno ed assoluto, orgoglioso; ma poi se ne vergognò. Era Sasuke, suo fratello, quello di cui parlava, suo fratello Sasuke. Come avesse da farsi perdonare qualcosa, gli baciò il collo con gentilezza.
L'ultima cosa da fare con Itachi, quando si decideva a parlare di qualcosa, era cercare di spronarlo: bisognava solo stare in silenzio ed aspettare che si decidesse spontaneamente a vuotare il sacco.
- E' cresciuto. E' più alto. -
- Ti assomiglia? -
Lui reclinò il capo per affondarle il viso tra i capelli.
- Abbastanza. - E poi, la voce soffocata: - Ha gli occhi di mia madre. -
La madre di Hanako era morta di parto, suo padre era stato, per quei pochi anni che lei aveva trascorso nella casa degli Hoshikaze, più un fantasma che persona vera: quando era cresciuta abbastanza da poter essere utile a Suna era stata messa in coppia con Mizuki, la cosa più simile ad una famiglia che Hanako avesse mai conosciuto. Per cui non capiva, non poteva capire, l'intensità assurda, dolorosa e felice della voce di Itachi. Capiva solo che il pensiero era calore, per lui, e lo faceva star bene: e, di riflesso, stava bene anche lei.
- Se ti assomiglia, è bello. -
- Io sono bello...? -
Hanako ebbe voglia di ridere a quella domanda tanto candida: ma, se avesse riso, Itachi si sarebbe probabilmente offeso. Aveva un certo senso dell'umorismo, Itachi, sufficiente a cogliere le battute di spirito e a capirle, ma non a replicare ad esse. Ed era, tra l'altro, un po' troppo orgoglioso per riuscire a ridere di sé.
- Tu sei molto bello. - Preferì rispondergli in piena sincerità, alzando il viso quel tanto che serviva per baciargli le labbra.
Itachi l'assecondò, e per un po' se ne stettero zitti. Poi, quando una delle gambe di Hanako aveva ormai trovato comoda posizione sopra ad una delle sue, le dita di Itachi intrecciate dietro la sua schiena, e lei era riuscita a fargli il nido contro il petto, la voce del ragazzo riemerse lenta:
- Era bella anche Mikoto. Ho sempre sperato che Sasuke le assomigliasse. - E poi, con un mezzo ghigno che era quasi una risata, e ad Hanako piaceva, da morire, quel ghigno, quel sorriso: - Era un cucciolo di infame, Sasuke, da bambino. Passava il suo tempo a corrermi dietro. Una volta per cercare di seguirmi è finito nello stagno. -
Hanako fece riemergere il viso dalla sua spalla, alzando gli occhi grigi per poterlo guardare in viso:
- Racconti...? - Bisbigliò dopo un attimo, esitando.
E Itachi lo fece.

Continua a farlo, anzi, per tutta la notte. Racconta e racconta e racconta come si svuotasse, racconta e fa gocciare in lei tante storie come schegge di vita, un'altra vita, quella in cui Itachi già era un assassino, perché, ninja, lo si è dal proprio primo morto, ma ancora non aveva il peso orrendo di uno sterminio sulle spalle.
La voce del ragazzo è gentile e quieta, come le sue mani, che le accarezzano ancora la testa.
Cambiano posizione, ogni tanto, cercando di smuovere le membra intorpidite, e dopo un po' Hanako si trova con la testa di Itachi sulle ginocchia, le proprie mani sepolte tra i suoi capelli e l'odor d'arancia che sembra farle vibrare lo stomaco e il cuore. Itachi racconta guardandola in viso, adesso, e le parla di Mikoto e di Sasuke, le sue pozze di gioia, e poi Fugaku, che era una pozza pure lui, anche se venata di buio.
Racconta della notte della strage, e ad ogni nome di morto sovrappone un ricordo di quel che erano stati, per lui, da vivi: zii e cugini, parenti e amici, vicini. Hanako si chiede se gli faccia davvero bene, parlarne, ma ad ogni parola Itachi sembra un poco più leggero, un poco più sereno, più intorpidito per il sonno, e lei ascolterebbe per giorni interi, per mesi, pur di vederlo sempre più leggero.
Le racconta la verità sullo sterminio, tutta la verità, nient'altro che la verità, quella piena, completa e cruda, quella che aveva promesso di portarsi dietro nella tomba: ma dirla ad Hanako è come dirla a sé, perché lei tace e non giudica, e ascolta solo.
Ed è così che Hanako impara a conoscerli, tutti: Sasuke meraviglioso e goffo, Mikoto dolcissima, Fugaku l'oroglioso, Shisui, Shisui che l'avrebbe salvato, Itachi, se Madara l'avesse permesso, Shisui, il primo caduto della strage, quello a cui Itachi aveva affidato la propria vita. Le parla di una donna con un nome come sospeso, un nome di gioia, scelta per lui dalla sua famiglia, e quella è una storia che Hanako si chiude dentro, nel cuore, al sicuro con tutte le altre, senza gelosia né tristezza. Li può conoscere solo attraverso la sua voce, perché quasi tutti quelli di cui parla sono già morti, e quelli che restano sono lontani, distanti, attraverso lo spazio e i pensieri.
Si chiede per un attimo perché Itachi si sia deciso a raccontarle tutto questo, ma poi sente il suo respiro contro la testa, sibilante, affaticato, e conta le costole con le dita sul torace. Smette di farsi domande e pensa: sono un dono.
Racconta sino al mattino, Itachi: l'alba arriva e si affaccia su di loro che si sono appena addormentati, abbracciati l'uno all'altra, le braccia, le gambe e i capelli mescolati in un gioco spezzato di scuro e di chiaro.


Come aveva promesso, Itachi rimase. Come aveva promesso, l'accompagnò alla festa del villaggio, due sere dopo. C'era un'atmosfera leggera ed entusiasta per le strade: avevano appeso lampioni di carta colorata ad ogni angolo, e nella luce ambrata del pomeriggio i lumi ancora spenti oscillavano dolcemente; le bancarelle si erano moltiplicate, ed esponevano un carico di frutta dai colori chiassosi, vestiti e pettini e gioielli di fattura semplice, ombrelli variopinti, ventagli, giocattoli, mentre un odore forte e speziato di cibo si spandeva dappertutto.
Stavolta fu Hanako a fermarsi per comprare due spiedini di polpette ed a cacciarne uno tra le mani di Itachi con un sorriso raggiante. Per una volta, una sola, la prima, Itachi non vestiva di nero. Lei era corsa a comprargli abiti puliti, il giorno prima, dopo che nella notte un accesso di tosse violenta gli aveva lordato la maglia di sangue: erano blu scuro, di seta, ed era bellissimo vedercelo dentro.
Indulgente, Itachi tollerava che Hanako gli svolazzasse intorno, troppo allegra e su di giri per riuscire a star ferma più di qualche secondo di fila. Passava da un banco all'altro, e tutti la salutavano con una parola, un gesto, qualche ringraziamento: per aver abbassato la febbre di un nipote, per il mal di schiena della nonna che era passato, per una gamba rotta rimessa a posto.
Se anche sono un mostro, pensò Itachi tutto ad un tratto, questo almeno sono riuscito a farlo di buono: lei, almeno lei, l'ho salvata.
C'era anche Sasuke da salvare, adesso. Questione di giorni.
Si limitò a gettare ad Hanako un'occhiata un poco sbieca, quando la vide tornare verso di lui con un palloncino di carta tra le mani: la ragazza ci soffiò dentro e poi prese a giocarci, facendoselo saltare da una mano all'altra, mentre affiancava il compagno. Itachi ringraziò in silenzio quel qualcuno, chiunque fosse, che gli stava dando Hanako, quel qualcuno che gliel'aveva data da sempre, perché la ragazza era stata una costellazione di giorni perfetti.
Odiava tutti quelli che le avevano messo le mani addosso; tutti quelli che le avevano fatto del male, che l'avevano ferita, umiliata, tutti quelli che avevano messo in pericolo Hanako, sorriso raggiante, profumo di miele, dita gentili. Odiava il pensiero che di quei giorni perfetti non ce ne sarebbero stati più, a breve, questione di giorni, e odiava sé stesso per averle permesso di arrivargli tanto vicino, perché sarebbero stati feriti in due, così. Ma poi Hanako si girò, smettendo di giocare, e gli sorrise: e tutto l'odio andava via in quel sorriso, lavato, e ne valeva la pena di dimenticarsi del mondo, pensò Itachi, solo adesso, solo un altro po', per stare ancora un poco con lei.

Guardarono i fuochi d'artificio far esplodere il cielo, a notte fonda, in una cascata di luci gemmate. Sdraiati sotto un olmo nodoso, aspettarono l'alba.

- Ho bisogno che tu mi rimetta insieme un'altra volta. - Le mormora Itachi in un orecchio, stringendola.
La tiene sulle gambe, perché non stia in mezzo all'erba umida e non prenda freddo. Hanako ha un brivido, rannicchiandoglisi addosso, ma non dice niente: assente solo, annuendo e tremando contro il suo collo. Itachi la culla delicatamente, come ricorda d'aver cullato una volta Sasuke, con dolcezza, per mandare via gli incubi e il dolore:
- Andrà tutto bene. - Cerca di rassicurarla, adesso. - E' l'ultima volta che serve. -
Che Hanako capisca o meno quel che significa quella frase, non replica. Mormora invece:
- Mi diresti una cosa, solo? -
Itachi le domanda, guardingo:
- Che cosa? -
- Non ti chiederò nulla che tu non possa dirmi, io lo giuro. -
- Dimmi. -
Lei non accenna ad alzare la testa: al contrario, gli si aggrappa alle spalle come avesse paura di cadere, seppellendogli la fronte contro il collo in una morsa che sarebbe quasi dolorosa, se non fosse semplicemente tanto fresca, tanto disperatamente piacevole.
- Se le cose fossero diverse, resteresti, tu, qui? - E poi, subito dopo: - Non serve che tu risponda. Mi basta solo un... un cenno. Che tu annuisca. Che tu scuota la testa, non... non devi parlare. -
E' quasi infantile in quel modo ingenuo di spiegargli che se Itachi non risponderà lei capirà: lo conosce abbastanza bene da capirlo, e per questo comprenderà, e le andrà bene lo stesso.
Itachi pensa a Fugaku. Pensa di non voler assomigliare a Fugaku, non adesso, perché assomigliare a Fugaku sarebbe stupido, inutile, vista la situazione. Non solo stupido, anzi: sarebbe crudele.
Alza la testa per guardare il cielo. Si rende conto solo ora di quanto sia bello, tutto quel blu limpido con le punte di stella a farlo luminoso. Non c'è luna, e questo è un peccato: vorrebbe che ci fosse e che fosse piena, perché i cattivi ricordi delle notti di luna è stata Hanako a levarli con una notte sola, la prima, bellissima e pulita.
- Avrei voluto essere nato in un posto diverso. -
E questo posto diverso avrei voluto averlo con te.
- Perciò sì, Hanako. Sì. -

C'è vento, quando Itachi se ne va, ed è Hanako quel vento: lei che non può seguirlo se ne sta in mezzo al sentiero e tende dita d'aria perché gli vadano dietro.
La bacia, lui, ed è un bacio che parte dolce e casto e non lo resta, perché è l'ultima volta, pensa Itachi, e vuole portarsene via il ricordo, l'ultima volta, Hanako lo sa, non vuole conservare memoria di nient'altro.
Hanako si ricorda del giorno che ha lasciato Idomizu: la sensazione del panico è la stessa, sconvolgente, peggiorata dalla consapevolezza che nessuno li salverà, stavolta, non ci sarà nessuna speranza che si rivedano in questa vita, nessun ragazzo dai capelli rossi a graziarla per rimandarla da lui.
Itachi non torna. Itachi non tornerà, mai più. Niente più baci, mai più racconti la notte, niente più fondere odore, sudore e colori, mescolandosi l'uno nell'altra, perdendosi, ritrovandosi poi nel corpo sbagliato, in quello dell'altro, con la sensazione che sia quello giusto. Niente più Itachi.
Stai con me! Glielo vorrebbe urlare. Stai con me!
Invecchia con me.
Invece lo bacia e poi gli dice:
- Buon viaggio. -
Sembra così normale, quell'augurio, perché non se lo sono detti chiaramente, che è l'ultima volta, e, anche se entrambi lo sanno, preferiscono fingere ancora per un po' che di volte ce ne saranno altre.
Tante cose che dovremmo dirci, invece di questa, tante cose che avrei dovuto dirti prima.
Itachi deve ricordarsi di quella prima mattina in cui gliel'ha augurato,
buon viaggio, a lui ed a Kisame, nella più assurda delle situazioni: perché sorride, e sembra contento. E' questa l'ultima immagine che Hanako ha di lui, il suo sorriso, su quel volto così pallido ed affilato, mentre Itachi le dà le spalle e si allontana. L'ultima volta.
Il vento lo segue, e Hanako vi sussurra dentro
ti amo, sto con te e ti amo, e poi di nuovo e di nuovo, quel ti amo come una litania, ti desidero e ti amo, sapendo che il vento le porterà via con sé, quelle parole, perché gli facciano compagnia durante il viaggio e anche oltre.


C'è una brezza piacevole oggi, pensa Itachi.
Gli disegna la strada.

E sa di miele.





Note

Oh, via, ma che colata di buonismo e zucchero!
Tutto ciò va letto in funzione di un momento di romanticismo inconsulto e (fortunatamente) irripetibile. Tra l'altro quel che io romanticavo il manga devastava con le sue dosi abbondanti di depressione e frustrazione.

Questo è il capitolo più legato a Il Giardino dei Mandorli di Salice (ne approfitto per i consueti ringraziamenti per la lettura e le correzioni). Ci sono affezionata anche per questo.

Un grazie a chi legge e a chi commenta.


abcdefghilm: Ben ritrovata! ^^ Sono contenta che il capitolo ti sia piaciuto!


fonte immagine: Happy_New_Year__SasuSaku_by_Erin_goes_rawr

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** 27. inseguitori ***




27. inseguitori



- Che vuoi dire? Perché Sasuke non ritorna al villaggio ora che Orochimaru è morto?! -
- Sasuke è ossessionato dalla vendetta. Ha intenzione di avvicinarsi ad Alba per uccidere suo fratello, Itachi Uchiha. -
- Che cretino! Ancora con quella storia?!
... Merda! -

- D'ora in poi saremo una squadra il cui nome sarà Serpe. -

- Formeremo subito una squadra e partiremo anche noi! La missione della caccia ad Alba è ancora valida, no?! -
- Sì. -
- Allora daremo la caccia al membro di Alba che avrà la più alta probabilità di incontrare Sasuke! -

- Il nostro unico bersaglio è... -

- In pratica prenderemo di mira... -

Il cielo è nero come il piombo, e i fulmini che scorrono in quel mare di nubi hanno il giallo carico della tempesta.
- Sta cominciando a piovere. - Afferma Kisame.
E' così: gocce pesanti e livide, che quasi fanno male contro il viso levato. Sente bruciare i polmoni malandati, Itachi, ma guarda ancora verso l'alto. Sotto la pioggia percepisce più vicino anche il vento, come un soffio lieve che passa attraverso le vesti zuppe, accarezzando la pelle d'oca che si forma per il freddo.
- Sembra che si scatenerà un temporale. -
E' un temporale, sì, quello che inizia.
1


Una voce. Notevolmente esagitata.
- Maestro Kakashi, accidenti! Non possiamo andare un po' più veloci? -
Un'altra voce. Vagamente esasperata.
- Di così? -
Altre due voci, perfettamente uguali alla prima:
- Da questa parte? -
- Di qua! -
La seconda voce che si faceva un po' più che solo vagamente esasperata, andando a sfumare sull'impaziente andante:
- Naruto, puoi smettere di tirar fuori copie? -
- Perché? -
- Perché? -
- Perché mi coprono la visuale, ecco perché... Ed è inutile andare più veloce di così: rischiamo di perderci tracce alle spalle! -
- M-maestro? - Questa non era né la prima né la seconda voce: ed era una vocina tutta sottile ed incerta che veniva tirata fuori in un balbettio.
- Che c'è, Hinata? -
- Buru si s-sposta verso nord. -
- E...? -
- Abbiamo quasi superato i cinque chilometri. - La vocina sottile arrancava nel tentativo di andare più veloce del balbettio. - D-dovremo tornare indietro. -
- Ah, di nuovo! - Questa era la voce esagitata. - Facciamo meglio a proseguire! -
- Naruto... -
- C'è l'odore di Itachi Uchiha, da questa parte. - Quest'altra voce aveva poco o niente d'umano: era una voce troppo profonda, come uscisse fuori da un paio di polmoni sproporzionatamente grossi, e tanto forte da far vibrare i rami del bosco.
- Davvero? - La voce esagitata suonò, per quanto sembrasse assolutamente impossibile, ancora più esagitata, ansiosa, impaziente. - Che facciamo, maestro Kakashi? -
- ... proseguiamo. Hinata, dicci dove stiamo andando. -

Il sentiero aveva l'aria di non essere battuto troppo di frequente: l'erba cresceva spontanea in mezzo alla terra morbida, bruna per l'acqua che l'appesantiva. Si era vicini al confine con il Paese della Pioggia, lì, e, malgrado il sole chiaro e il cielo terso, c'era un'aria umida e fresca, satura d'acqua, satura di vento. Avevano dovuto lasciare il bosco, quando questo era bruscamente terminato pochi chilometri più in basso, e adesso seguivano su per il dosso l'enorme cane che li guidava.
Ad una prima occhiata formavano uno strano terzetto: davanti a tutti, con un'andatura che era un correre più che un camminare, c'era un ragazzo con una gran massa di capelli biondissimi che parevano discordare l'uno con l'altro sulla direzione da prendere, perché se ne stavano tutti dritti e tutti sparati ciascuno per conto suo; dietro di lui, praticamente affiancati, un uomo molto, molto alto dalla testa d'un argento pallido e brillante, il volto mezzo nascosto da una maschera e dal coprifronte con il segno della foglia, ed una ragazza pallida e graziosa, infagottata tra strati e strati di felpe violette e grige.
In cima alla salita si stagliava una casa dall'aspetto dimesso, le fondamenta di pietra velate da uno spesso strato di muschio vellutato, posta accanto ad un pozzo e ad un riquadro di terra coltivata; nei solchi cresceva una piccola, variopinta ed ordinata piantagione rigogliosa dall'aspetto un poco selvatico, con minuscoli fiori azzurri o gialli e foglie odorose.
Accanto al pozzo, seduta sul basso muricciolo con un secchio tra le mani, c'era una donna giovane e chiara, quasi una ragazza, che li guardava con intensa curiosità.
- Vi siete persi? - Li interrogò quando furono a portata di voce. Aveva una voce molto gentile, dolce e sottile, e un sorriso intensamente malinconico. - Se cercate il villaggio, dovete tornare al bivio e svoltare a sinistra. -
Il ragazzo biondo guardò prima lei, poi la casa, e infine il cane: che continuava a fiutare qua e là, il muso piantato sul sentiero, accostandosi un po' alla volta all'abitazione.
- Non ci siamo persi! - Esclamò alla fine, con una punta d'impazienza nella voce. - Cerchiamo una per... mff! -
Quel mff conclusivo era stato causato da una delle mani dell'uomo che lo seguiva, che si era affrettato a cacciargliela sulla bocca e ad ammutolirlo con pronta disinvoltura. Sorrise alla ragazza, che lo guardava un poco perplessa, con gli occhi che si chiudevano e le labbra che disegnavano la forma del viso al di sotto della maschera sottile:
- Ci dispiace disturbarvi. -
- Nessun disturbo. - Lei si alzò in piedi, scansandosi dal pozzo e andando loro incontro con il secchio in mano, l'espressione serena. - Non capita mai nessuno da queste parti. Posso aiutarvi? -
- Potreste dirci chi abita qui? -
- E' casa mia. - Rispose la ragazza, docilmente. - Ci abito io. -
- E nessun'altro? -
La ragazza inclinò il capo da una parte, fermandosi di fronte a loro:
- Ci sono solo io. - Confermò, con la medesima, immutata gentilezza.
Guardò verso il cane, che ancora fiutava nella direzione della casa e che, arrivato ai primi gradini che salivano il portico, si era fermato e seduto sulle zampe posteriori.
- Cercate qualcuno? - Si informò quietamente.
Il ragazzo biondo riuscì a tirar fuori la testa dalla mano dell'uomo e, appena preso fiato, ne approfittò per esclamare:
- Cerchiamo Itachi Uchiha! -
Lei non parve sorpresa. Continuò a guardare il ragazzo, per un attimo, poi si girò a fissare il cane seduto sulla porta della casa. Infine, alzò il viso verso l'uomo con la maschera:
- E perché lo cercate qui? -
Era così serena e così gentile che veniva difficile risponderle in un qualunque tono che non fosse almeno altrettanto quieto:
- Perché Buru... - Un cenno del capo nella direzione del cane. - ... ha seguito il suo odore e ci ha portati qua. -
Annuì, lei, dopo un attimo di silenzio. Sorrideva ancora con malinconia, senza alcuna paura, alcuna tensione, anche se sarebbe stato ragionevole che ne provasse. La ragazzina timida se ne stava nascosta per metà alle spalle dell'uomo mascherato, il capo ripiegato su una spalla e le mani giunte di fronte al petto, sporta appena per poter guardare verso di lei. Il ragazzo biondo alternava uno sguardo stupito tra l'uomo che aveva alle spalle e la ragazza chiara che aveva davanti, e non sembrava capirci molto di quel che stava succedendo. Alla fine la ragazza si sistemò meglio il secchio tra le braccia, sollevandolo con ambo le mani, ed esclamò:
- Stavo per preparare del tè. Volete prenderne con me? - E poi, subito dopo, con una punta d'ironia che parve fare il sorriso più luminoso, più vivo, lo sguardo, sino a quel momento un poco perso, più sveglio: - Mi piacerebbe mostrarvi la casa. -

Era un modo carino per dire che potevano controllare, guardarsi intorno, fare quel che volevano: un gentile eufemismo, in un certo senso, delicato e un poco bizzarro.
C'erano campane del vento dappertutto, nei posti più assurdi, nel portico e nella sala, sulla scalinata che portava al piano di sopra, sul lavello della cucina. Quella appesa sopra al tavolo sul quale il tè venne servito era semplicemente enorme: fatta di vetro trasparente e di piccoli pezzetti di legno bianco, ruotava e tintinnava ad ogni soffio di vento.
Kakashi approfittò della temporanea assenza della loro ospite, occupata in cucina con la teiera, per rivolgersi alla ragazza timida:
- Hinata. -
Questa annuì, lentamente, levando verso di lui occhi di un azzurro tanto pallido da parere bianco, occhi dove l'iride sembrava spersa in un mare di latte, circondati da una ragnatela di capillari sottilissimi che pulsavano e si ispessivano a fior di pelle. Mosse le labbra senza dar voce alle proprie parole, rispondendo all'uomo: non c'è nessuno in casa.
- Hai degli occhi bellissimi. -
Hinata sussultò bruscamente a quell'affermazione inaspettata, volgendosi verso la ragazza che entrava e che l'aveva appena pronunciata: e che le sorrise gentilmente, andando senza aggiungere altro in proposito a inginocchiarsi di fronte al basso tavolinetto per riempire le tazze. Il ragazzo biondo, che fino a quel momento era stato sollevato in punta di piedi in un angolo della sala, intento ad osservare con estrema curiosità una campana del vento fatta con bucce secche d'arancia e limone, tornò ad accostarsi agli altri:
- Chi sei? -
Netto e diretto, non c'era da discutere. Più che scortese pareva semplicemente impaziente, come per una vena di angoscia che, in qualche modo, sembrava opprimerlo e rendergli intollerabile l'attesa. Lei si presentò, quietamente:
- Mi chiamo Hanako Hoshikaze. -
- Tagliavento. - Esclamò l'uomo, guardandola con improvvisa attenzione.
Le mani della ragazza ebbero un sussulto brusco e violento che le fece spandere sul tavolino un po' del tè che stava versando in una tazza. Si affrettò a tamponarlo con un tovagliolo, ma l'uomo glielo sfilò dalle dita e provvide al posto suo. Lei posò la teiera per evitare altri incidenti, appoggiandosi le mani sulle ginocchia.
- Non mi piace essere chiamata così. - Affermò pianamente. - Tagliavento è morta a tredici anni, e ne sono passati tanti, nel frattempo. Io sono Hanako. Solo Hanako, per cortesia. -
Alzò gli occhi grigi a guardare l'uomo, che aveva appena finito d'asciugare il tavolo e la fissava con una sorta di neutra, inesplicabile attenzione, e gli disse:
- Non desidero sapere perché cercate Itachi. Ma lui non è qui e non... - Un respiro breve come un sibilo, rotto come un ansimo: - ... tornerà più qui. E non ho modo, io, d'aiutarvi a trovarlo. -
Il ragazzo biondo, che fino a quel momento s'era limitato ad alternare lo sguardo dall'uno all'altra, perplesso e stupito, interrogò l'uomo direttamente, ora:
- Tu la conosci, maestro Kakashi? -
- E' una ninja di Suna, Naruto. - Spiegò lui in tono piano.
- Sono una disertrice di Suna. - Lo corresse Hanako, dolce, alzando gli occhi per guardare in viso il ragazzo: - Facevo parte delle squadre speciali, ma poi sono scappata. -
Il ragazzo, Naruto, parve esterrefatto:
- E perché? -
Lei gli sorrise, solo, alzando le spalle in un gesto insieme di lieve impotenza e di resa, come se non sapesse bene cosa dire, o come spiegare, o come se quel che avrebbe dovuto dire e spiegare fosse tanto ovvio da non necessitare di parole.
Kakashi affermò placidamente:
- Itachi Uchiha è un traditore e un assassino. Lo stiamo seguendo da giorni. Se sapete qualcosa su dove si trovi, ora, o... -
- Non lo so. - Lei non aspettò che concludesse, per interromperlo così e poi proseguire in tono neutro: - Itachi Uchiha è un traditore, un assassino, tutto quel che la brava gente vuole: ma io sono stata salvata da due assassini, due traditori, e nessuna brava persona di passaggio ad Idomizu si era mai preoccupata di rivolgermi un'attenzione superiore a quella necessaria per ordinarmi di allargare le gambe. -
Vide distintamente la ragazza timida dall'altra parte del tavolo avvampare bruscamente, come se qualcuno le avesse sparso sulle guance pallide una colata di colore rosso, mentre il ragazzo biondo arrossiva e spostava bruscamente lo sguardo, incerto, verso l'uomo. Quest'ultimo non ricambiò l'occhiata, affermando invece in tono un poco più duro:
- Lo cerchiamo per impedire che trovi suo fratello prima di noi. Se lo conoscete, sapete di cosa sto parlando. -
Fu la volta di Hanako di arrossire: non di vergogna od imbarazzo, ma di piacere. Alzò gli occhi, che aveva abbassati sul tavolino, per guardare verso Kakashi con il viso rischiarato da una specie di contentezza luminosa e sorpresa:
- Voi cercate Sasuke? -

Ed è un nome che le risuona nella testa con piacere, quello, Sasuke: il nome che rischiarava gli occhi di Itachi, riempiendoli di luce, il nome che pronunciava con un disperato calore che pareva tracimargli attraverso la voce, rendendo inutile il modulato tono neutro dietro al quale si sforzava di nascondere tutto quell'amore, Sasuke, il suo fratellino, la sua cosa preziosa. La ragione del suo dovere. La ragione per cui mai più Hanako avrà Itachi, mai più, mai più.
Dovrebbe odiarlo, Sasuke, solo per questo: ma era, è, la cosa preziosa di Itachi, e lei che ha avuto Mizuki e l'ha persa capisce benissimo.
Non lo odia, Sasuke. E' contenta che lo cerchino.


- Certo! Lo riporterò a Konoha! - Il ragazzo dai capelli biondi era un miscuglio di entusiasmo, determinazione, foga e ostinazione. Era piacevole guardarlo: con quella testa d'oro, con quel modo vibrante d'agitarsi, sembrava di guardare il sole. - A casa! -
Hanako abbassò gli occhi sulla tazza di tè che le si freddava tra le mani. Sorrise tra sé e sé, di nuovo, commentando quietamente:
- E' una cosa carina da dire. - E ' una cosa meravigliosa da dire. - Sei suo amico? -
- Sì! -
Le piaceva, tutto quell'entusiasmo. Era trascinante. Era tutto quel che lei non era: deciso, sicuro, fiducioso, travolgente, tutto quel che Hanako non era né era mai stata, perché Tagliavento era stata neutra, chiusa e spaventata, Hanako dell'Heya docile e indifferente, Hanako della casa del muschio vulnerabile e malinconica, un po' troppo presa dalla propria gioia dolce per riuscire ad imporsi su qualunque cosa. Hanako sedeva, anche adesso, con le ginocchia tirate verso il petto per proteggersi. Solo con Itachi era riuscita ad essere forte, certe volte: se non per sé stessa, per lui. Lui le metteva voglia di essere coraggiosa, di essere determinata.
- Come ti chiami? - Gli chiese, osservandolo di sottecchi e pensando che l'azzurro che il ragazzo aveva negli occhi era precisamente quello del cielo, limpido e splendente, dove le ombre erano solo nuvole delicate, nuvole di tristezza che non riuscivano, però, a spegnere la luce.
- Io sono Naruto Uzumaki! -
Lei alzò la testa per poterlo guardare in viso, sorridendo sempre, contenta:
- E' bello che tu sia suo amico. - E poi, mentre scuoteva piano la testa: - Mi dispiace non potervi aiutare. Se potessi, se sapessi qualcosa, vi aiuterei a trovare Sasuke. Ma non so dove sia. E non so dove sia Itachi. E questa... - Spostò gli occhi da lui a Kakashi, dall'altra parte del tavolo: - ... è la verità. -

Tutto sommato, malgrado quel che s'era francamente aspettata, pareva le avessero creduto sulla parola; e pareva anche non volessero altro da lei. La ragazza con i capelli neri, Hinata, aveva cominciato ad inchinarsi, mormorando ringraziamenti e scuse con il viso ancora rosso, non appena s'era messa in piedi; Kakashi aveva ringraziato per il tè, gentilissimo e sorridente, mentre Naruto cominciava già a strepitare impaziente sulla soglia di casa.
Anche Hinata le piaceva, stabilì Hanako, ed anche Kakashi. Non volevano farle del male, poi, e stavano cercando Sasuke, erano amici di Sasuke. Le sembrava che il pensiero le formasse uno strano, denso fondo di calore che le si depositava poco a poco nello stomaco. Sasuke, la cosa preziosa di Itachi, aveva degli amici. Amici che lo cercavano. Itachi ne sarebbe stato contento.
Hanako era scappata via in casa, lasciandoli sulla porta a guardarla sorpresi, ed era tornata mezzo minuto dopo, trafelata e sorridente, con una sacca piena tra le mani:
- Ci ho messo qualcosa da mangiare per la strada. - Spiegò, cacciando il tutto tra le mani di Naruto, che era il più vicino. Intercettò l'occhiata di Kakashi ed ebbe il buonsenso di interpretarla correttamente. Spostò il sorriso su di lui, affermando con serenità: - Non è avvelenato, se non considerate veleno la mia non buona cucina. Mi spiace molto che non vi possiate fermare per cenare. -
E poi, dovendosi chinare appena, perché lei s'era alzata solo di poco, divenendo adulta, mentre il ragazzo che aveva davanti prometteva di divenire con il tempo un uomo alto e forte, dalle spalle larghe, depositò su una tempia di quella testa bionda ed arruffata un bacio lievissimo:
- Ti auguro di riuscirci, Naruto. - Mormorò piano. - Ti auguro tanta fortuna. Sii buono con lui, quando lo trovi. -
Devi esserlo, per favore, perché è Sasuke, ed è il fratellino di Itachi. Itachi non tornerà mai più qui, per Sasuke, io non lo avrò mai più, per Sasuke. Che almeno lui sia felice, sì? Che non sia stato tutto dolore sprecato.





Note

(1): Dialoghi e scene sono tratti dal capitolo 352, numero 39 di Naruto, edizione italiana.

Mi sono fatta due conti e non ci siamo con le tempistiche. La squadra di Naruto, Hinata e Kakashi non gira da sola abbastanza a lungo per permettere questo capitolo: però era una scena che mi girava in mente sin da quando ho iniziato a scrivere il pezzo della partenza dall'Heya, e Kakashi, be', è sempre Kakashi. Io adoro il Kakashi che sorride a Sasuke parlandogli dei propri morti e quello che solleva Zabuza e lo fa sdraiare vicino ad Haku; mi piacciono tutti i Kakashi, ma questi due in particolar modo.

Ho dimenticato la volta scorsa di segnalare che Tagliavento ha raggiunto e superato le 1000 visite. Un grazie a tutti voi che passate, leggete e commentate. Un grazie a Salice, oltre che per la sua opera instancabile di correzione e rimaneggiamento anche per aver commentato in un colpo solo sei capitoli. Un giorno mi spiegherà perchè lo fa, visto che lei non solo se l'è già letta tutta, la storia, ma ha anche contribuito alla stesura della stessa: nel frattempo, però, grazie.

Il giorno gioiglorioso è finalmente giunto: Florilegio (la nostra raccolta di storie su Itachi, Shisui, Sasuke, Hanayuki e Hanako) è finalmente online con Cacciatori di stelle, di Salice, sul nostro account, Elosaliceverso. La prima storia è una cosina deliziosa e leggera firmata da lei. La prossima sarà una cosina depressa e desolante firmata da me.
Sì, un giorno mi rivolgerò a un buon psicologo.


Salice: Non fornificherò mai Kisame, mia Sal. Me adora Kisame. E' un mito. Ho già detto che è un mito? L'ho già detto, mi sa. Ho già detto quanto mi piace in coppia con Gai? Anche questo l'ho già detto, mi sa... Per quanto riguarda Itachi non è colpa mia! Ha fatto tutto l'autore, giuro. Fosse per me coniglietti rosa, orsacchiottini di peluche e tutte quelle graziose cose lì.

Gweiddi at Ecate: Non so se dispiacermi (io sono una debole donnicciola, uh, non serve che una storia mi commuova per piangere, basta anche solo che mi strizzi un po' il cuore) o essere contenta per il tuo commento. Grazie a te, davvero!

fonte immagine: WOLFY_-_Kakashi_in_the_window

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** 28. fratello ***




28. fratello



- Facciamola finita, Sasuke. -
Non pioveva più, dopo quella mostruosa tecnica tirata fuori inaspettatamente da Sasuke, come un coniglio dal cappello, che aveva squarciato la terra e il rifugio segreto, devastando ogni cosa sul suo percorso e costringendo Itachi ad adoperare Susanoo ed a perdere anche il suo secondo occhio, quello che Amaterasu aveva risparmiato, per evitare di finire in cenere; non pioveva più, ma l'aria era ancora densa, satura d'elettricità e di umidità che si preparava, erano i tuoni in lontananza ad annunciarlo come colpi di tamburo, a riversarsi di nuovo sul mondo.
Il mondo di Itachi, ora, era una nebbia confusa di figure che non avevamo forma precisa, ma solo vaghi colori, luci, ombre. Aveva visto a malapena Orochimaru, quand'era disgustosamente saltato fuori dalle fauci di uno di quei serpenti che se n'erano stati buoni buoni, fino a quel momento, nascosti nel corpo di Sasuke. Era riuscito a stento a vederlo, ma aveva ferocemente, lucidamente gioito al pensiero che quella era l'ultima volta che si trovava la sua faccia davanti, perché Orochimaru non poteva fare niente, era inutile, non avrebbe mai più potuto fare niente a Sasuke, e quei tre anni appena trascorsi a tremare per suo fratello erano finiti e vendicati, così.
L'aveva visto sciogliersi e liquefarsi sotto il suo colpo, gemere per l'orrore incredulo, e si era augurato in silenzio che qualunque fosse il posto che all'inferno avevano destinato per lui, Itachi, non fosse lo stesso in cui stava andando Orochimaru. Non credeva di aver fatto niente di così terribile da meritare quello.
Sasuke era finito in ginocchio, svuotato, esausto e, malgrado fosse evidente lo sforzo che faceva per controllarsi, spaventato. Una parte di Itachi ebbe l'impulso di farla finire lì. Finirla così, perché era da un po' che tossiva, ad ogni modo, e sentiva nei polmoni grumi di sangue premere contro i suoi bronchi, impedendogli di respirare bene. Un'altra parte di lui desiderava andare vicino a Sasuke, chinarsi ed abbracciarlo, confortarlo, passargli le mani sulla fronte e fiutarlo per sentire se ancora sapeva di casa, Sasuke, se ancora aveva l'odore buono che aveva avuto da bambino.
Stava morendo. Moriva. Voleva morire con quell'odore in testa.
Una terza parte in Itachi aveva ancora ben chiaro avanti a sé il proprio dovere. Si disse per un attimo che tutta la sua vita era ruotata attorno a quella parola, dovere, ma poi realizzò che non era quello a muoverlo, non più, da anni, e che adesso era Sasuke il perno di ogni cosa. Lo era non dalla prima volta che l'aveva visto, quando era nato, una specie di implume pulcino tra le braccia di sua madre, né dalla prima volta che l'aveva imboccato e la zuppa farinosa era finita a ridipingere uniformemente le pareti della cucina perché Sasuke, anche da bambino, era stato capriccioso e suscettibile, ma dalla prima volta che aveva sorriso, Sasuke, e il mondo di Itachi era parso rischiararsi.
Sasuke non sorrideva, adesso, perché Itachi aveva contribuito a rovinargli la vita: ma lui sperava che Sasuke avrebbe sorriso di nuovo, prima o poi, quando lui fosse morto e quando le cose si fossero sistemate in un modo o nell'altro. Per quel sorriso ne valeva la pena di morire. Valeva la pena di morire due volte.
Così si fece avanti, lento, trascinando stancamente gambe esauste e polmoni malandati, attraverso la nebbia bianca che gli annebbiava lo sguardo:
- Ora i tuoi occhi sono miei. -
E poi, con voce crudele, ad alimentare odio e terrore perché non avesse rimpianti, poi, Sasuke, perché pensasse che la sua morte era stata la migliore delle cose e che lui non aveva avuto colpa, dopotutto, che non aveva agito nemmeno per vendetta, ma solo per autodifesa, per puro e semplice desiderio di vivere:
- Voglio godermi al massimo questo momento. -

C'è Sasuke che cerca d'arrampicarsi su un albero: una grossa, alta, ruvida e nodosa quercia dalla corteccia screpolata, che alza rami verdi e bruni verso un cielo limpido d'autunno. Itachi gira attorno al tronco per poterlo tener d'occhio mentre s'arrampica, allo sgorbietto, che non metta il piede in fallo.Non riesce a trattenersi, vedendogli poggiare la punta del piede su una chiazza di muschio, dal raccomandargli:
- Fa' attenzione! -
Shisui, sdraiato accanto a loro in mezzo all'erba, sghignazza senza troppo ritegno:
- Ma ti sei sentito, Itachi? Neanche mia madre ha mai usato quel tono con me! -
Itachi cerca d'incenerirlo con lo sguardo, ma con Shisui è fatica persa: le occhiatacce sembrano cadere nel vuoto, e il sorriso dell'altro si mantiene immutabile e invincibile.
- Itachi! - La voce di Sasuke, sulla cima dell'albero, è entusiasta: - Vieni a vedere, Itachi! C'è un nido! -
Itachi scatta su per il tronco, tra i rami, approfittando del richiamo di Sasuke per potergli correre dietro: con una mossa da maestro riesce a incastrare sé stesso tra il bambino e il vuoto, con noncuranza, come se la sua posizione fosse assolutamente casuale e non voluta.
- Sono uova di passero. E' strano, in questa stagione. -
Sasuke si sporge, eccitato, cercando d'avvicinarsi un altro po' al nido: punta un piede nel nulla ed Itachi lo acchiappa per la collottola un attimo prima che precipiti dal ramo. Sasuke neanche ci bada, fiduciosamente, lasciandosi reggere dal fratello e deporre al sicuro di fronte al nido.
- Sasuke! - Grida Shisui dal basso, allegramente. - Se ci sono uova buttane giù un paio! -
Sasuke rivolge gli occhioni sgranati su Itachi:
- Non si fanno male, le uova, se le facciamo cadere? -
Itachi maledice silenziosamente Shisui, sporgendosi dal ramo quel tanto che serve per promettere all'amico con lo sguardo una morte lenta e dolorosa. Il sorriso di Shisui si fa un soffio più ampio, trasformandosi in un aperto sogghigno:
- Avanti, Sasuke! Loro si fanno male, ma noi ci facciamo una frittata! -
- Itachi? -
- Shisui... - Più che un nome, è un ringhio.
- E dai, Itachi... non essere così rigido... rilassati! -
- Sasuke, lo facciamo un gioco? -
- Sicuro, Itachi! -
- Adesso scendiamo di qui e giochiamo a saltare sulla pancia di Shisui. Vince chi fa più salti. Ti piace l'idea? -
E' la volta di Shisui di rivolgergli un'occhiataccia, dal basso verso l'alto: e Itachi, serafico, sorride.


Su Susanoo si infransero i kunai che Sasuke lanciava in un ennesimo, rabbioso tentativo di distruggere il fratello, di tenerlo lontano da sé, di salvarsi. Le esplosioni della cartabombe parvero assordare Itachi, mentre fiammate brevi e fumose esplodevano oltre la barriera e davanti ai suoi occhi.
Erano gli ultimi scoppi di Sasuke, quelli, le ultime armi che aveva: e faceva compassione lo spavento evidente negli occhi del ragazzo, che però si mordeva le labbra e, senza volersi dichiarare vinto, ancora pensava a battersi. Itachi dovette fare violenza a sé stesso per fare un passo avanti, e poi uno ancora, tendere una mano verso Sasuke e mormorare:
- Quelli sono i miei occhi. -
Il ragazzo serrò i denti, sfoderò la spada e, con un balzo, gli fu addosso. Il suo tentativo si spezzò sulla barriera: il contraccolpo gli strappò l'elsa liscia dalle mani e lo lanciò indietro, lontano, scaraventandolo contro un muro.

- Dev'essere stata la seconda fetta di torta. - Azzarda Mikoto, compassionevole, sedendo accanto al suo pulcino e abbracciandolo forte nella speranza di fargli dimenticare almeno un po' il mal di pancia.
- O i dodici pasticcini. - Propone Fugaku, con uno sprazzo di insolita ed improvvisa ironia.
O il mezzo sformato di verdure che Sasuke si è spazzolato prima del dolce, pensa Itachi: però non lo dice, non è il caso di rincarare la dose. In genere Sasuke mangia come un uccellino: un boccone, un cinguettio, un tentativo di scappar via. Quando però ci sono in tavola i suoi piatti preferiti si scopre improvvisamente goloso: è tanto piacevole veder mangiare quella specie di esserino minuscolo, delicatissimo, che Fugaku si dimentica d'essere un orso brontolone, Itachi si scorda di essere ragionevole e moderato e, se non fosse per Mikoto e il suo sempiterno buonsenso, a Sasuke sarebbe permesso di ingozzarsi fino a scoppiare.
- Lo vuoi un po' di tè, Sasuke? Un po' di tè caldo, fa passare il mal di pancia... -
- Bicarbonato. - Bofonchia Fugaku, senza guardare né lei né il figlio minore, quasi si vergognasse di trovarsi lì, in cucina, intento a trattare di un simile argomento.
- Un po' di tè con il bicarbonato. - Acconsente serenamente Mikoto.
Fugaku alza finalmente la testa, inorridito:
- Il bicarbonato non va nel tè! -
Ride, Mikoto, probabilmente divertita per essere riuscita a far sollevare il capo al suo orgoglioso marito, e poi si china a tirare piano una guancia del più piccolo tra i suoi preziosi bambini:
- Allora facciamo che il tè te lo metto in una tazza e il bicarbonato in un bel bicchiere, eh, Sasuke? -
Si alza in piedi e Fugaku la imita bruscamente, bofonchiando di una qualche questione fondamentale della quale deve occuparsi immediatamente.
All'una di notte, pensa Itachi, esasperato, molto credibile, papà. E' proprio da Fugaku: in grado d'affrontare i peggiori nemici con la fronte alta e un sorriso orgoglioso e di darsi alla fuga di fronte alla prospettiva del mal di pancia di suo figlio.
Restano soli, così, lui e Sasuke: e Itachi non ci pensa su neanche per un attimo prima di prendere il bambino e metterselo sulle ginocchia. Gli tiene la schiena con un braccio e con la mano libera gli massaggia la pancia. Si ricorda che Mikoto faceva così con lui: piano e gentile, senza forza.
- Fa ancora male, Sasuke? -
Il bambino pare molto più placido, molto meno pallido e decisamente meno dolorante: ma si rannicchia un altro po' tra le braccia del fratello, cacciandogli la fronte contro il collo.
- Un po'... - E poi, subito dopo, con signorile indifferenza, quasi la buttasse lì come per caso: - Posso dormire con te, stanotte, se mi fa ancora male la pancia? -
Itachi ha un mezzo ghigno:
- Dormire con me non ti fa passare il mal di pancia. -
Il bambino esita solo per un attimo, prima d'affermare con buffa, intensa serietà:
- Fa meno male, adesso. -
Itachi non sa se essere divertito da tutto ciò o puramente intenerito, ma sa che tenere in braccio Sasuke è piacevole, e che dopotutto non c'è problema, e che se lo sgorbietto vuole dormire con lui può farlo, sicuro, tutte le volte che vuole.
- Come vuoi tu, Sasuke. -


E lo guardava, adesso, Itachi, perché era abbastanza vicino da poterlo vedere, finalmente, da poter vedere il viso di Sasuke attraverso la nebbia. Si era fatto grande, e forte, e bello. Aveva un po' di Fugaku e un po' di Mikoto, equamente distribuiti su quella faccia candida e affascinante, un po' da nuvola e un po' da pietra: era sparito il sorriso, ma ad Itachi pareva di poterlo vedere ancora, lì, come sospeso, luminoso e candido e perfetto. Gli ricordò Hanako. Il pensiero era dolore, bruciante, ma anche piacere, perché Hanako era stata una costellazione di giorni felici, Sasuke solo un ricordo dolce della miglior cosa che Itachi avesse fatto in tutta la sua vita, risparmiarlo, e Hanako e Sasuke sembravano mescolarsi nella sua testa, adesso, come polvere splendente oltre la cecità, oltre il buio.
Sasuke era spaventato. Si vedeva dagli occhi, si capiva dalle labbra dischiuse e dal respiro affannato. Itachi si sentiva morire. Sentiva i polmoni dolergli, straziati, il cuore battere con foga per cercare di rianimargli le braccia deboli, le gamba stanche, ma il sangue colava dalle ferite e si addensava nella sua gola, soffocandolo. Non pioveva, ma percepiva ancora la pioggia intridergli la tunica, acqua, e l'aria fredda al contatto era come un bacio, vento.

- Sasuke, andiamo a casa. -
Lo sgorbietto fa una faccia infelice ed irritata:
- Avevi detto che mi avresti insegnato una nuova tecnica di shuriken. -
- Domani ho una missione importante e dovrei prepararmi. -
Sasuke dondola la testa, bofonchiando:
- Bugiardo. -
Sospira, Itachi, prima di tirar fuori un mezzo sorriso e fargli segno di avvicinarsi. L'irritazione e l'infelicità scompaiono come per magia dalla faccia di Sasuke, che gli si accosta entusiasta... solo per venir fermato, a un passo di distanza dal fratello, da due dita tese che gli urtano la fronte neanche troppo delicatamente:
- Ahia! -
- Perdonami, Sasuke. - Picchietta su quella fronte liscia, Itachi, divertito: - Ti insegnerò la prossima volta. -
Il bambino fa una faccia non troppo contenta che, lungi dal risultare minacciosa o preoccupante, è solo buffa, e tanto. Itachi ne resta sorpreso, per un attimo, ma poi Sasuke si piega in quella sua guardia gli dei solo sanno dove imparata, e...
- Itachi, guardami! -


E lo guardava, Itachi, anche adesso, anche morendo.
Sasuke gli era di fronte e non si muoveva, come pietrificato. Susanoo si stava dissolvendo, perché lui non aveva più la forza necessaria a trattenere la barriera. Si fermò davanti al fratello e respirò forte: oltre il sapore di sangue, aspro e ruvido, che gli riempiva la bocca, la testa, il naso, c'era il profumo dolce di Sasuke, l'odore di casa e fratello, buono e caldo.
Era l'odore di Shisui e della radura verde, quello, l'odore degli abbracci di Mikoto e della voce di Fugaku, delle notti passate dormendo con Sasuke. Il vento gli carezzava la schiena, ed aveva il tocco delicato delle mani di Hanako. Le due dita che aveva allungato come artigli contratti verso uno degli occhi scuri di Sasuke si distesero, lentamente, sollevandosi piano. Sorrise al ragazzo che aveva di fronte e sorrise al bambino che aveva nella testa, Sasuke, ed erano la stessa persona, ora:
- Perdonami, Sasuke. - Ti voglio bene, Sasuke. - Questa è l'ultima volta. -
Gli vide sgranare gli occhi come ad un colpo ricevuto, sussultare, e gli poggiò la punta delle dita sulla fronte: picchiettò piano, e la pelle di Sasuke era liscia come quella del bimbo che Itachi si era caricato in spalla in uno degli ultimi pomeriggi che aveva avuto per essere solo sé stesso, fratello maggiore, Itachi.
Si sentì cadere e lasciò che le sue ginocchia lo trascinassero per terra. Percepì il freddo duro della pietra contro la fronte, e poi sulla schiena, e capì d'essere finito sdraiato. Aveva il cielo negli occhi, grigioazzurro, gli sembrava di poterlo vedere oltre la patina lattiginosa che gli faceva il mondo buio, e il freddo sembrò scomparire quando sentì il vento passargli addosso. Un tocco sul naso, gentile, e poi le labbra, mentre Hanako si chinava e lo baciava.
Buon viaggio.
La sentiva nella testa.
Buon viaggio.
Farfalla, stava inginocchiata con le sue ali di vesti viola e lo abbracciava, baciandolo, e bisbigliava:
Buon viaggio.

- Se le cose fossero diverse, resteresti, tu, qui? -
- Avrei voluto essere nato in un posto diverso. E questo posto diverso, Hanako, avrei voluto averlo con te. -


La pioggia faceva bene alla genziana e al cardamomo, ma non alla digitale: che, perciò, alle prime avvisaglie di temporale andava coperta. E se ne stava lì, Hanako, in mezzo alle sue piante odorose e con i teli tra le mani, quando tra i profumi caldi di spezie e quelli sottili dei fiori gliene arrivò uno che non s'aspettava di sentire, insieme dolce e lievemente aspro, forte, più forte degli altri.
Si volse verso il sentiero, stupita, le labbra e il naso che riconoscevano l'odore, arancia, gli occhi che frugavano la strada senza vedere nessuno, ma quell'odore, quell'odore, così forte, così presente, sembrava disegnare la figura nel vento.
- Itachi? -





Note

I dialoghi e le scene del capitolo sono tratti dal numero 43 di Naruto, edizione italiana, vari capitoli. Unica eccezione è fatta per i primi due pezzi in corsivo e per l'ultimo, quello con Hanako.

Scrivere questo capitolo è stato tutto un dolore. Masashi Kishimoto, ma perchè...? Lei aveva cominciato un manga tanto allegro, tanto felice, orfani a parte, perchè andare avanti così?

Vorrei intanto ringraziare, non sapendo precisamente dove farlo, tutti coloro che hanno commentato Questione di tempo. Grazie davvero. ^^
Ne approfitto per segnalare ancora il primo capitolo di Florilegio, Cacciatori di Stelle.


Salice: L'immagine di me a quattro zampe che inseguo scodizolante la depressione, naso a terra, mia Sal, non è bella per niente. xD

abcdefghilm: Non sono per niente brava a trovare canzoni che si colleghino a quel che leggo o che scrivo (e chi mi sta sopportando mentre cerco di tirare fuori associazioni sensate per una storia lunga che sto buttando giù per un concorso lo sa anche troppo bene xD), però a novembre, scrivendo, ascoltavo questi tre pezzi:
Eramaan Viimeinen - Nightwish feat.Jonsu
Umlahi - Mediaeval Baebes
Breakout - Feet of Flames

Ma, se dovessi suggerire un pezzo solo, ho sempre pensato che il tema principale di Pride & Prejudice (la versione più recente, quella del 2005 di Joe Wright) rendesse benissimo l'atmosfera:
Liz on Top of the World - Jean-Yves Thibaudet
Per quanto riguarda msn, purtroppo dopo una bruttissima esperienza con lo stesso ho smesso di adoperarlo: soprattutto perchè, al momento di reinstallarlo dopo aver cambiato l'hard disk, ho avuto problemi con il programma. Mi spiace!
Ti ringrazio davvero tanto per i complimenti, mi fanno sciogliere di piacere... ^^


fonte immagine: google immagini

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** 29. nebbia ***




29. nebbia



Hanako rimase sorpresa, ma poi neanche troppo, quando si vide ricomparire sul sentiero l'uomo dalla maschera e dai capelli d'argento, Kakashi. Lei risaliva il viottolo del pozzo con un secchio d'acqua tra le braccia, e Kakashi le venne incontro e glielo tolse dalle braccia:
- Date, lo porto io. -
Lei chinò il capo:
- Grazie. -
Camminarono in silenzio fino alla porta di casa, e fu solo lì, mentre attraversavano la soglia, che l'uomo mormorò quietamente:
- Non dovreste portare pesi. -
Hanako gli rivolse un'occhiata interrogativa, ma Kakashi era già passato oltre, muovendo verso la cucina. Le lasciò il secchio sul pianale del tavolo, badando a non spandere l'acqua tutt'attorno. Le campane del vento tintinnavano delicatamente, con un suono dolce come cristallo. Hanako mise il bollitore sul fuoco e portò nel soggiorno le tazze:
- Ho della torta al miele, se vi piace. - Propose in tono mite, svitando il barattolo delle foglie di tè. Era blu, così com'era blu il vassoio, la teiera, com'erano blu i cuscini e le ciotole: Hanako adorava il blu dalla sera in cui l'aveva visto indosso ad Itachi. - Ho capito solo l'altro giorno quante dosi di zucchero ci vanno per non trasformare l'impasto in una specie di collante al caramello. - Kakashi sorrise, al di sotto della maschera, e lei proseguì allegramente: - Ottimo per attaccare i vasi che si rompono in giardino, ma sfortunatamente anche eccellente per saldare i denti insieme ad ogni morso. Adesso però è venuta bene. Davvero. -
Kakashi scosse la testa:
- Vi credo. - E poi, senza più sorridere, la maschera che si distendeva senza formare pieghe sopra le labbra: - Non volevo disturbare. Ma passavo di qui, ed ho preferito fermarmi. -
Hanako si chinò per versare una spolverata di foglie di tè in ogni ciotola.
- Non è un disturbo. E' stato molto cortese da parte vostra. - Affermò, mitemente.
- Itachi Uchiha è morto. -
La mano che adoperava il cucchiaio si bloccò a mezz'aria, sospesa sopra ad una tazza, mentre gli occhi che avevano seguito sino a quel momento la caduta delle foglie si facevano tutto ad un tratto fissi e vacui, sfocati.
Hanako rimase perfettamente immobile per un lungo istante, mentre Kakashi, dall'altra parte del tavolo, pareva essersi trasformato in una statua di pietra. Il cucchiaio si abbassò, lentamente, posandosi piano sul bordo della tazza. Hanako intrecciò le mani in grembo, sulle ginocchia piegate, e affermò senza alzare il capo:
- Lo so. - Aveva una voce molto quieta, ma limpida, pulita, senza incrinature. - Lo sapevo già. -
- Lo sapevate anche l'altra volta. -
Non era una domanda, quella di Kakashi, ma Hanako annuì lo stesso. L'uomo le domandò:
- Come facevate a saperlo? -
Lei alzò gli occhi, adesso, guardandolo con una strana, bizzarra espressione di bisogno: aprì bocca e la richiuse, poi di nuovo e ancora, a vuoto, le labbra che si muovevano senza emettere voce. Infine scosse il capo, chinandolo nuovamente contro il petto, e rispose con un tono vecchio, esausto, svuotato:
- Era malato. Molto.... molto malato. Stava morendo. - Le mani deposte in grembo si serrarono, contraendosi, ma il viso rimase placido e disteso. - Avete trovato Sasuke? -
- No. -
- E' stato lui? -
Kakashi assentì brevemente. Hanako rimase immobile ancora per un attimo, prima di alzarsi in piedi. Rivolse all'uomo un sorriso di scuse e un mezzo inchino:
- Vi prego di scusarmi. Ho lasciato il bollitore sul fuoco. -

Andò di là e smosse le braci per attizzarle. Le fiamme lambirono il recipiente di metallo, e Hanako usò una presina di panno per aprirlo e guardare l'acqua.
Itachi è morto.
Rimise al suo posto il coperchio, staccò il bollitore dal treppiede.
Niente più Itachi.
Doveva poggiare il bollitore sul piano di legno, adesso, al sicuro. Era un gesto di una semplicità sconvolgente, ma si rese conto che c'era qualcosa che non andava. Non ci riusciva. Le mani le tremavano troppo forte per riuscire a centrare il bordo del tavolo. L'acqua scivolava dal beccuccio ad ogni brivido, spandendosi per terra fumante.
Mai più Itachi, mai più. Mai più svegliarsi la mattina con Itachi, mai più. Mai più tenergli le mani tra i capelli, mai più. Mai più dormire insieme, dormire, mescolare odore e calore, sentire l'arancia nella pelle, mai più.
Le scappò un singhiozzo, e poi un altro, e tirò su una mano per soffocarli, schiacciandosene il dorso contro le labbra. Il bollitore risultò tutto ad un tratto troppo pesante per poter essere sorretto da una sola delle sue braccia tremanti, e sarebbe finito per terra se qualcuno non l'avesse afferrato per il manico prima che cadesse, deponendolo al sicuro.
Lei si vergognò di farsi trovare così, di farsi vedere così, proprio dal ninja che, compassato e seminascosto dietro la sua maschera, adesso la guardava senza parlare.
- Mi dispiace. - Bisbigliò.
Si rese conto di avere il viso bagnato, umido. Sentiva le lacrime scorrere, ma aveva paura di alzare le dita e asciugarsi la faccia: perché una mano doveva tenerla sulla bocca per chiuderla e non farsi sfuggire i singhiozzi, e l'altra se la premeva sulla pancia, con forza, ché faceva male. La gola chiusa, serrata, non riusciva a respirare.
Mai più Itachi. Mai più labbra di Itachi, voce di Itachi, mani di Itachi, pelle di Itachi. Mai più Itachi, mai più.
Kakashi se ne stette per un po' con le mani lente lungo i fianchi, immobile e silenzioso, prima d'affermare:
- Dovreste sedervi. -
Lei pensò che se si fosse mossa sarebbe finita in pezzi come un vetro incrinato. La sola ipotesi di sollevare un piede era dolore, fuso e liquido, allo stato puro, e dolore aveva pure nella testa che pulsava, nella gola, nel petto, quello al petto era atroce, intollerabile, come fuoco, perché ogni passo l'avrebbe fatto in un mondo dove Itachi non c'era, ora, e mai più ci sarebbe stato.
- Mi dispiace. - Disse ancora, staccando la mano dalla bocca quel tanto che serviva per far filtrare la voce. - Sapevo... io lo sapevo già, ma non riesco... - ... a capirlo, io, questo, non riesco a capire che Itachi adesso non c'è più. - Mi dispiace. -
Kakashi scosse la testa, come se con quel diniego volesse respingere il suo tentativo di scusarsi:
- E' suo? -
La mano sulla pancia si serrò con un po' di forza in più, ed Hanako riuscì ad alzare gli occhi verso di lui, finalmente, sentendo le palpebre gonfie e pesanti come il piombo per tutte le lacrime che ancora premevano per venir fuori:
- Si vede già così tanto? -
Kakashi alzò le spalle e ripeté, semplicemente:
- Fate meglio a sedervi. -
E gli obbedì, Hanako: si fece accompagnare nell'altra stanza e mettere su una sedia, e poi pianse un altro po', perché il pianto sembrava svuotarla e lenire un poco la sensazione di dolore fisico e di oppressione. Non poteva tirar su le ginocchia, adesso, perché la pancia era piena e aveva paura di fargli male, a lui, a lei, nella pancia, aveva paura di danneggiarlo in qualche modo, lui o lei, che era la sola cosa che rendeva ancora sopportabile il pensiero che Itachi non ci sarebbe stato, mai più, ma lei aveva la pancia piena di Itachi, che era un po' come pensare di poterlo far vivere ancora. Faceva un po' meno male, così.
Fuori pioveva, piano e leggero. Le campane del vento, nella casa, tintinnavano senza sosta.


A venire, qualche mese più tardi, fu anche Kisame Hoshigaki. Apparve una mattina poco prima dell'alba, risalendo il sentiero con il suo passo lento fatto un poco ondeggiante, come sempre, dal peso della Samehada che si portava in spalla, e la parte di Hanako che ancora era una guerriera e che si era svegliata nel sentirlo arrivare le diede modo di osservarlo mentre percorreva gli ultimi metri che lo separavano dalla casa.
Era così triste vederlo arrivare da solo che le venne da rannicchiarsi con la testa tra le ginocchia e piangere, ancora e ancora, come aveva pianto di fronte a Kakashi, piangere fino a sentirsi male, fino a sentirsi vuota; invece si vestì con cura, si annodò i capelli dietro la nuca e scese ad aprire la porta.
Kisame le rivolse il suo miglior sorriso da squalo, vedendola:
- Tagliavento. -
- Bentornato, Kisame. -
Il sorriso da squalo si affievolì, per un attimo, prima di spostarsi tutto da una parte e farsi sghembo.
- Bentornato. - Le fece eco, divertito. - Già. -
Lei abbassò il capo, davanti a quegli occhi scuri e indecifrabili, omogenei come pasta di vetro, prima di offrire:
- Vuoi del tè? - E poi, con un abbozzo di quello che poteva essere un sorriso, quasi, ma non era per nulla felice come avrebbe dovuto essere: - Ho del sakè, se preferisci. -
Kisame ghignò.
- Sakè, Tagliavento. Sakè. -

Aveva un altro carico con sé, notò lei versandogli il liquore nella ciotolina, oltre alla Samehada: era un sacco, non molto grande, di panno scuro e cerato. Kisame si accorse della sua curiosità e, con l'ennesimo mezzo sogghigno, batté contro la sacca due colpi lievi con il palmo della mano:
- Più tardi, Tagliavento. Qui dentro c'è un regalo per te, ma intanto voglio sapere... - Gli occhi dell'uomo si posarono sul ventre della ragazza che, teso e arrotondato, premeva contro le vesti di seta viola. - ... come vanno le cose lì dentro. -
Lei si inginocchiò con cautela di fronte al tavolino e sorrise: un sorriso quasi del tutto completo, stavolta, illuminato nel fondo.
- Mancano un paio di mesi, ancora, ma va tutto bene. Credo sia maschio. -
- Maschio. - Kisame parve assaporare la parola con gusto e lentezza; fece schioccare le labbra una volta, come faceva dopo aver mandato giù un sorso di sakè, e si informò: - Come lo chiami? -
Hanako si passò una mano sulla pancia, delicatamente.
- Shisui. - Rispose poi, con un altro sorriso.
Non sapeva cosa e quanto Kisame sapesse di Konoha e della vita che Itachi vi aveva vissuto, ma non credeva che gli fosse mai stato raccontato nulla di veramente personale, nulla di familiare. Kisame, ad ogni modo, non fece domande né disse nulla in proposito.
- Shisui Uchiha? - Chiese invece.
- Shisui e basta. -
L'uomo rise forte:
- Be', Tagliavento. Lo vuoi, adesso, il tuo regalo? -
Lei adocchiò il sacco con un miscuglio di perplessità e curiosità, dubbiosa:
- Mi hai davvero portato un regalo, Kisame? -
L'uomo prese la sacca per i lembi. Sciolse il nodo che chiudeva la stoffa, scostandola e andando ad afferrare qualcosa che era dentro, sul fondo: qualcosa che emise un suono viscido e molle, e prima apparvero fili che non erano fili, riconobbe Hanako inorridita, ma capelli, e poi una fronte, un naso, labbra ed un collo.
Il tatuaggio dell'ideogramma felice copriva ora un occhio sbarrato e vitreo, pietrificato dalla morte: non sorrideva più, l'uomo che l'aveva torturata nell'Heya, ma aveva un'espressione di orrore violento impressa in viso. Sotto al collo non aveva più nulla, troncato via da una lama che, per niente affilata, aveva lasciato appesi alla testa brandelli di carne filamentosa.
Hanako si aggrappò al bordo del tavolo, il fiato mozzo:
- Kisame... - Mugolò, stupefatta.
- Itachi non avrebbe voluto. - Il ghigno sul volto dell'uomo c'era ancora, ma lui non sembrava ridere: non era divertito, non era felice, era tremendamente serio dietro a quel ghigno, e tremendamente feroce. - Ma l'ho trovato sul confine qualche tempo fa, Hanako. Era veramente un piccolo vigliacco. - Commentò con noncuranza, girando la testa per poter guardare il viso deformato dal terrore. - Mi è più simpatico così. -
Lei bisbigliò con un fil di voce:
- Nemmeno io avrei voluto che tu lo facessi, Kisame. -
- No, Tagliavento. -
Kisame aprì la sacca e ci cacciò di nuovo dentro la testa, malamente, con incuria. Alzò gli occhi per guardarla, lei, e adesso non c'era più nemmeno l'ombra, nemmeno la maschera, del ghigno. Concluse con calma, lentamente:
- Ma lo volevo io. -

Fu sulla porta di casa che lei glielo disse, appoggiandosi ad uno stipite e tenendo la testa bassa perché si vergognava di dirglielo guardandolo:
- Io ti sono molto grata, Kisame, per tutto quello che hai fatto per me. -
Si aspettava che l'uomo sogghignasse o ridesse, si aspettava una battuta: e invece lui allungò una mano, enorme, le strinse il mento tra due dita e glielo sollevò, senza malgarbo, senza violenza, quasi gentilmente.
- Sai, Tagliavento... - Commentò distrattamente, osservandole il viso. - ... se c'è una cosa che mi manca, da quando ho lasciato Kiriga, è la sensazione d'essere trattato come un uomo. Tu sei stupida, fondamentalmente. Non hai istinto d'autoconservazione, e l'hai dimostrato, perchè tu sei una donna incinta che viene ad aprirmi la porta di casa per offrirmi del tè. - Dopo un attimo di pausa soggiunse, con una lieve scrollata di spalle: - Ed è stato piacevole, Tagliavento, finché è durato. -
Lei arrossì, avvampando. Avrebbe voluto che lui le lasciasse la testa, per poterla chinare e nascondere, e invece si costrinse a fissarlo per chiedergli:
- Non torni più? -
Kisame Hoshigaki ghignò:
- Non in questa vita, Tagliavento: non ho voglia di metterti nei guai, ora che Itachi non c'è più per tirartene fuori. E nella prossima vita io e te finiremo in due posti diversi: perché oltre ad essere una ninja stupida tu sei anche una ninja sbagliata, e mi domando come diavolo abbia fatto, tu, a conquistarti la tua fama. La mia, invece... - Terminò in tono divertito: - ... è meritatissima. -
La lasciò andare, finalmente, girandosi e incamminandosi lungo il sentiero senz'altro saluto. Hanako rimase sulla soglia come incerta, immobile e silenziosa per un lungo istante. Poi aprì bocca e lo richiamò:
- Kisame! -
Senza girarsi, l'uomo voltò la testa quel tanto che serviva per guardarla. Le mani di Hanako torturavano il bordo della veste di seta, sotto la pancia tonda, mentre lei parlava, decisa e quieta, sicura, guardandolo con fermezza improvvisa:
- Se quando muori, poi, tu finisci all'inferno, è lì che voglio venire anche io: perché tu e Itachi mi avete salvata, avete salvato me, e se io sono qui adesso è solo grazie a voi. E per questo io voglio ringraziarti anche dopo, anche all'inferno. Anche da morta. -
Non poteva giurarlo, perché di Kisame vedeva solo un profilo e non tutto il volto, ed era difficile dire con certezza che espressione ci fosse sopra: ma, per un attimo, ebbe la sensazione fosse rimasto sbalordito. Fu davvero solo un istante, tuttavia, prima che l'uomo le desse le spalle e per l'ennesima volta ghignasse.
- Quando quel cosino che ti porti nella pancia diventa grosso, Tagliavento... - Esclamò con noncuranza. - ... mandalo a cercarmi. Se è bravo abbastanza gli insegno la spada. -
Stavolta fu Hanako a ridere, portandosi una mano davanti alla bocca per nascondere il viso ed il piacere che aveva provato a quelle parole, lieve e sereno, candido e pulito, più forte del dolore, della nostalgia e di quella specie di stanchezza che si sentiva dentro al pensiero d'essere sola, adesso, di nuovo. Però c'era il bimbo, Shisui, nella sua pancia. Shisui che era suo e di Itachi.
Con lo sguardo seguì Kisame, senza perderlo di vista fino a quando la figura massiccia non fu che un'ombra lontana che la nebbia d'alba inghiottì, fagocitandolo, come uno spettro.

Hanako Hoshikaze e Kisame Hoshigaki non si sarebbero mai più incontrati in quella vita: esattamente come lui le aveva promesso.





Note

Il titolo scelto inizialmente (e mantenuto sino a domenica sera) era Figlio: ma mi è sembrato che rovinasse qualunque tipo di sorpresa il capitolo potesse mantenere sino ad un certo punto.
Una precisazione sulle scelte di linguaggio, che ho dimenticato di segnalare in coda al capitolo 27: ho scelto di far usare a Kakashi il voi invece che il tu nel rivolgersi ad Hanako in quanto desideravo che lo stesso attribuisse alla ragazza una connotazione da donna adulta, un'estranea... a maggior ragione in quanto e quando donna incinta. Al contrario, ho lasciato il tu in Naruto, che usa sempre un linguaggio più colloquiale, all'interno del manga, e ha un modo di rivolgersi alla gente molto più informale. Sia messo agli atti che Salice avrebbe preferito che anche Kakashi non adoperasse il voi, ed io non le ho dato retta.

Entro la fine della settimana Tagliavento vedrà conclusa la propria pubblicazione: il capitolo 30 sarà infatti l'ultimo, e svolge al contempo funzione di epilogo. Per gli amanti della melassa, buone notizie: lì ho abbondato. Giuro. Cola miele e buoni sentimenti.
Rimando a domenica sera, quindi, i saluti e gli ultimi ringraziamenti.

Nel frattempo continuo a segnalare a tutti coloro ai quali piacciono e sono piaciute le ambientazioni e i personaggi di Tagliavento che nella raccolta Florilegio, sull'account che io e Salice abbiamo in comune, saranno pubblicate presto anche storie su Hanako, Itachi, Kisame, Shisui (quello piccolo, ma anche quello grande), oltre che su Hanayuki e, ovviamente, Sasuke... e la mia Sal ha in progetto (ma questo è un segreto, msì? U.u) di scrivere un pezzo su un possibile incontro futuro tra Kisame e Shisui. Andate lì e spronatela a farlo, vi prego, perchè io lo voglio leggere.
Kisame merita sempre.
Ancora grazie a tutti coloro che passano, leggono, lasciano una recensione.


Gweiddi at Ecate: I tuoi commenti fanno sempre malissimo al mio ego e benissimo alla mia salute. Male al mio ego perchè poi ingrassa e ingrassa e ingrassa e mette su ciccia, e prima o poi imploderà in un piccolo buco nero. Benissimo alla mia salute perchè la contentezza fa sempre bene al cuore, ed allo stomaco, alla milza, ai reni, al cervello... La storia di Itachi com'è raccontata in Naruto è terribile, una botta al cuore; e di sensi di colpa, tra l'altro, per chi per 42 numeri e mezzo non ha fatto altro che odiarlo per il povero Sasuke. 42 numeri e mezzo a disprezzarlo, ad augurargli peste e corna, che Naruto lo ammazzi, che Sakura lo ammazzi, che Kakashi lo ammazzi, che Sasuke - soprattutto Sasuke - lo ammazzi, che Orochimaru si riprenda e lo ammazzi... E poi, bum, tutto capovolto, era lui la vittima, il capro espiatorio, una specie di martire per amor di pace (e di fratello). Come ho già detto io mi commuovo a fontana sopra a libri, film, fumetti, quadri, immagini, per cui capisco benissimo... Sono contenta che ti siano piaciuti i ricordi, i pezzi in corsivo; mi faceva sentire tristissima scriverli, consapevole di quel che sarebbe stata la fine del capitolo.
Sì, la digitale è un rimedio bretone e anglosassone contro le fate! xD E' anche un veleno mortale, che causa scompensi cardiaci in dosi anche relativamente ridotte; ma, in questo caso, Hanako la coltiva per gli effetti positivi che ha sul cuore se assunta in piccole quantità. E' una pianta presente anche in Asia, ma necessita di un clima non troppo umido per poter crescere bene.

Salice: Mia Sal, ma me ti ama...! ç.ç

wari: Cuore peloso rinforzato in titanio? Sono in vendita? Ne voglio uno! Io sono per lo squartaviscere in abbondanza, uno si compra i fumetti d'azione soprattutto per quelle, per cui sono felice davvero che ti piacciano. *_* Come ho già detto a qualcuno, io per Hanako ho non troppo vaghe antipatie: è passiva per tutta la storia, è inerte, se non fosse per Itachi e Kisame non troverebbe la forza di prendere e salvarsi. Cribbio, almeno di provarci! Però sono contenta come non mai che tu la trovi un bel personaggio... Avremo un club, per Kisame, e avremo le tessere. *_* Un cattivo senza menate mentali. Cioè, un cattivo come dev'essere un cattivo, allegro e feroce e privo di scrupoli. Kisame!
(Cribbio, ventitrè capitoli in una botta sola... O_o Io non mi assumo responsabilità penali in proposito, eh!)

fonte immagine: google immagini

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** 30. vento - epiloghi ***




30. vento - epiloghi



Il futuro è un cielo di giorni che sembrano piccole stelle, tutti, qualcuno più brillante, qualcuno scuro e nuvoloso, ma c'è sempre Shisui, lì con Hanako, che rende anche le nuvole lievi. E poi c'è Itachi, Hanako lo ha scoperto con il tempo, che non è andato da nessuna parte ed è ancora con lei, con loro, non va mai via, non la lascia mai sola.
S'era sbagliata a pensarlo: non è mai da sola.

La pappa di avena non piace a Shisui, che lo dimostra, mancandogli un dizionario sufficiente ad esprimere a parole il proprio dissenso, sputacchiandola e ridipingendo così uniformemente una parete della cucina, la faccia di sua madre e la manica sinistra della sua veste azzurra. Hanako si lascia scappare un mezzo sospiro esasperato prima di scoppiare a ridere di fronte alla buffa faccia contrita del bimbo: che ha occhioni neri, un nasino alto e sottile e un musetto da far venire voglia di mangiarselo di baci.
- Shisui! La pappa deve andare giù nel tuo stomaco, non sulla parete! - Rialza il cucchiaio pieno, avvicinandolo alla bocca del bimbo. - Riproviamo, d'accordo? Apri la bocca, avantiiii... -
- Ma'ma! -
Hanako rimane con il cucchiaio sollevato, gli occhi sgranati e il fiato mozzo. Per un attimo crede di aver sentito male, di aver capito male, di aver interpretato con troppo entusiasmo quello che sicuramente era solo uno dei soliti cinguettii del bambino; che, invece, sceglie proprio quel momento per esibirsi ancora nel suo nuovissimo numero:
- Ma'ma! -
Manca una lettera, lì in mezzo, ma eccola lì, la parola, la prima: piena, perfetta e completa.
Mamma. E il cucchiaio cade dalle mani di Hanako.

Il futuro è farlo crescere, Shisui, rimpinzarlo di torte e crostate che le vengono sempre meno collose e sempre più dolci, fargli il bagno, insegnargli prima a camminare, poi a parlare, tenerlo per mano e poi raccontargli tutte le sere una storia nuova. Impara a raccontare, Hanako, che non era mai stata brava a farlo; impara a canticchiare, se non proprio a cantare, cercando di ricordare tutte quelle piccole melodie che a Mizuki piacevano tanto, ché aveva una bella voce, Mizuki, dolce e sottile.
Veder diventare grande Shisui e ricordarsi con orgoglio che Kisame ha detto d'essere disposto a fargli da maestro, Kisame Hoshigaki, Kisame che ha contribuito a salvare la vita di Hanako e quasi non si ricorda, lei, che Kisame è anche un assassino.
Il futuro è un Naruto Uzumaki qualche anno più grande che torna da Konoha con una ragazza dagli occhi di prato e i capelli di pesca e con un altro ragazzo, un terzo, che è pallido e bello e con una chioma scomposta di capelli scuri, e il cuore di Hanako ha un guizzo nel vederlo, perché il volto del ragazzo pallido è uguale a quello di Itachi.
E' Sasuke.
Il futuro sono loro che tornano, una, due, tre volte, e Sasuke dapprima guarda Shisui come se non sapesse bene che farci, che dirgli, perché Sasuke, basta osservarlo per un po' per capirlo, non è molto bravo a trattare con l'umanità: ma già dalla seconda volta il bambino gattonando gli finisce accidentalmente vicino alle gambe, e la terza volta è sulle sue ginocchia che si appollaia, Shisui, suo nipote, facendo il nido contro il petto dello zio.
Sasuke è stanco e ferito, di quella stanchezza, di quelle ferite, che sono nel petto e nella testa, non nel fisico. Ha la vista appannata e, proprio come Itachi, vede attraverso una nebbia. E' brusco e scostante, irritabile e suscettibile, orgoglioso e caparbio, con un carattere da schifo e tracotanza bastante da riempirci la stiva di una nave: ma qualche volta Naruto, che nel frattempo si è fatto alto come Hanako immaginava, ed ha conservato il sole sulla testa e negli occhi, riesce a strappargli quello che, be', non è proprio un vero sorriso, però c'è, più nello sguardo che sulle labbra, quasi invisibile.
Il futuro, pensa Hanako guardandoli, siamo noi che guariamo.

- Mi odi? -
Sasuke non gliel'aveva chiesto né la prima né la seconda né la terza volta, ma dopo ancora, quando un'iniziale ostilità sospettosa era andata sfumando in una vaga tolleranza e, poi, in quella che simpatia non la si può definire, in tutta sincerità, ma almeno tacita accettazione sì.
Con il tempo Hanako ha compreso che il Sasuke dei racconti di Itachi, il bambino felice, ingenuo e adorante, dev'essersi perso nell'arco di quasi quindici anni di rancore, ostinazione e infelicità. E' normale che sia così, lo sa, ma spera proprio che Naruto e Sakura - la ragazza dai capelli di pesca si chiama così, Sakura, che è un nome dolce - riescano a tirar fuori di nuovo almeno una scheggia di quel bambino, almeno un barlume, ogni tanto.
La domanda di Sasuke, ad ogni modo, sembra raggelarla lì dov'è, in piedi nella cucina e con le mani sepolte nell'impasto della torta.
Shisui è in giardino con Naruto e Sakura: Shisui adora Naruto e impazzisce di gioia tutte le volte che Sakura, generalmente in uno dei raptus di irritazione improvvisa che ogni tanto la colgono a causa dei compagni, assesta un cazzotto a qualcosa, un sasso, un tronco, una sedia, riducendola in schegge.
Shisui adora Naruto, impazzisce per Sakura, ma, in realtà, il preferito del bambino è Sasuke: e Hanako trova indescrivibilmente divertente vedere Shisui fare giri concentrici e sempre più stretti attorno allo scostante zio, fino a capitargli, del tutto casualmente, ovviamente, in mezzo ai piedi. In genere Sasuke sbuffa esasperato, alza gli occhi al cielo per esattamente mezzo secondo e poi si china e acchiappa il nipote per la collottola, issandoselo addosso. Hanako si chiede quanto di quelle situazioni ricordi a Sasuke Itachi.
- No che non ti odio! - Esala infine, sconvolta. - Perché dovrei? -
- Per Itachi, no? -
Giocherella distrattamente con un cucchiaio, lui, che la domanda l'ha buttata lì con brusca noncuranza: sembra quasi non gliene importi nulla della risposta, e invece è evidente che gliene importa, eccome!
Hanako prova un moto di sofferenza, improvviso e violento, alla vista di quel ragazzo dalla pelle chiara, gli occhi neutri, con una maschera di porcellana scostante e un carico disperante, angoscioso, sbagliato, di rimorsi e angosce.
Le viene naturale lasciar perdere la torta e, con le mani sporche e appiccicose di impasto, la veste bianca di farina, aggirare il tavolo e andare ad inginocchiarsi di fronte alla sedia di Sasuke: che la guarda stupito e fa per alzarsi. Lei gli poggia una mano su un ginocchio per trattenerlo con un gesto paziente, come farebbe con un bambino, perché vorrebbe rassicurarlo, Sasuke, il fratellino di Itachi, che adesso è troppo vecchio per la sua età, esattamente com'era Itachi, ma lui ha la speranza di potersi godere un po' la vita se imparerà a farlo.
- Io non ti odio. Io non ti ho odiato mai, e non ho e non avevo ragione di odiarti. Se non fosse stato per te, Itachi si sarebbe ucciso la notte della strage ed io non l'avrei neanche mai conosciuto. - Gli sorride, ed è facile guardarlo in viso, perché lui assomiglia tanto a Shisui, stessa forma del viso, stessi colori, è meraviglioso osservarlo e pensare Shisui forse sarà così, da grande. - Qualche volta sono stata gelosa di te, ma mai a lungo. Itachi ti voleva molto bene. Come te ne voleva Itachi, anche io te ne voglio. Mi puoi credere se ti dico questo? -
Il ragazzo la guarda in silenzio per un attimo, prima di distogliere lo sguardo. Mugugna solo qualcosa di vago, e Hanako sorride, contenta. Stare con Itachi le ha insegnato a interpretare i mugugni: perché, qualche volta, anche dietro a quelli ci sono parole, e delle più care.


Il futuro è rifiutare le offerte di venire a vivere a Konoha: rifiutarle con immenso dispiacere, quando a offrirsi di trovarle una casa è Sasuke, Sasuke!, che pronuncia le parole come se gliele estorcessero dalla gola con una tenaglia, però nel frattempo la sbircia di sottecchi con un'espressione che è tutto meno che indifferente.
Ma Konoha è terra da ninja, spiega lei, e Hanako non è un ninja. E poi, e a quell'obiezione Sasuke non trova più niente da rispondere, la casa del muschio è casa sua e di Itachi, e le è preziosa per questo. E' lì che Itachi torna, sempre, a cercarla quando chiude gli occhi.

Davanti alla finestra le sembra di avere la pelle inondata di luce. Non le serve guardare fuori per sentire la luna passarle attraverso, bianca, bianchissima, trasforma la campana del vento appesa di fronte alla vetrata in un'iridescente composizione di cristalli sfavillanti.
Se ne sta lì, a braccia spalancate, e ci sono le mani di Itachi sulle sue spalle, poi sui suoi fianchi e sul ventre, lo stesso dove Shisui è cresciuto per nove mesi, e infine sul cuore. Sul cuore, nel cuore, le mani le sprofondano dentro.
Hanako non ha bisogno di girarsi per vedere Itachi sorridere: le basta cercare per trovarlo, quel sorriso, nei suoi ricordi.


Il futuro è anche dire a Sasuke che, se lo vorrà, potrà portare via Shisui con sé quando sarà più grande, per fargli vedere Konoha, la città, la casa di suo padre e di suo zio e di tutta quella sconfinata famiglia che non conoscerà mai e che adesso dorme e riposa sotto la terra lieve. Però Shisui ha ancora Hanako. Ha ancora Sasuke. Avrà altri, Shisui, per sé, per essere felice.
E il futuro è vedere Sasuke sorridere, a questa proposta, sorridere davvero, e si vede che è una cosa che non fa troppo spesso, ed è osservare attraverso quel sorriso il bambino amatissimo che Sasuke è stato.

Certe volte Hanako si ferma sul sentiero.
Nella terra morbida sembrano disegnarsi impronte lievi quanto ombre, a tratti, mentre l'erba si piega dolcemente come ad un passo familiare. Quando le vede, Hanako sorride.
C'è sempre un bel vento, sulla cima della collina, e ha un buon odore.

Arancia e miele.


Fine.





Note

Melassa avevo promesso e melassa fu. Spero che Rohchan ne sarà felice, così forse non mi minaccerà di morte e io conserverò la mia testa attaccata al mio collo. Mi piace tanto lì dov'è, è utilissima, tiene i capelli staccati dalle spalle. *_*

Qualche cosa d'altro su Tagliavento sarà raccontato su Florilegio, da me o da Salice: ma, nel frattempo, la storia di Hanako, Itachi, Kisame, Shisui, Hiroto, Noa e tutti gli altri può dirsi conclusa qui.
Hanako e Shisui nella loro casa, l'una a invecchiare come voleva, in un posto di vento pieno di ricordi e privo di sangue, e l'altro a crescere e - chissà? - a incontrare Kisame, raggiungere Konoha, fare di sè quel che vorrà.
Kisame sarà tornato a vivere la propria vita: che è una vita da cattivo come cattivo comanda, però, miseria, a me piace pensare che lui ad Itachi ci tenesse davvero, non solo per dovere. Anche i grandi cattivi possono permettersi di avere qualcosa che li renda amabili.
Hiroto e Noa avranno raggiunto Suna, probabilmente. Adesso serviranno ai tavoli - con grande disappunto di Hiroto, è presumibile, e infinita contentezza di Noa che, poverina, non abbiamo mai capito che cribbio ci facesse nell'Heya. Forse i genitori di Noa se la saranno ripresa, forse no, ma sicuramente Hiroto non l'avrà piantata in mezzo ad una strada. Hiroto, a differenza di Hanako, è una che non si è mai dimenticata di avere una spina dorsale.
Uh, l'Heya non è mai stato ricostruito. Idomizu, senza il suo locale, prima o poi andrà in rovina.

Inutile dire che questo capitolo è il più what if...? di tutti. Io ci spero ancora in un finale felice, felicissimo, con Sasuke di ritorno a Konoha in un momento in cui è ancora salvabile e tutti gli altri vivi e interi ad accoglierlo. Se voi avete altre informazioni in proposito non ditemelo, grazie: le vorrei scoprire leggendo il fumetto.


Partiamo con i ringraziamenti: un grazie, di cuore, a tutti voi che avete letto e seguito e commentato questa storia. Scrivere certi capitoli è stato tutto un dolore ma, a considerarla in quest'ottica, ne è valsa decisamente la pena.

Un grazie a Salice, per aver corretto Tagliavento quand'era ancora in fase di stesura e per averla supportata con un tifo spudorato quando non se la filava nessuno, neanche chi l'aveva scritta. E ancora grazie a lei per aver pensato di segnalare la storia per il concorso indetto da EFP sui personaggi originali. So che l'ha fatto solo perchè mi vuole bene, ma leggere la sua recensione in proposito mi ha fatto venire una stretta alla bocca dello stomaco.

Un grazie a Rohchan, per il suo meraviglioso disegno, innanzitutto, e poi perchè ha scritto tante bellissime cosine su Kisame. Che merita sempre.

Un grazie a abcdefghilm e ad _Ala_, che hanno seguito questa storia sin dall'inizio, per avermi lasciato le loro opinioni e i loro giudizi. Se mai deciderò di rimettere le mani su Tagliavento per correggerla sarà anche grazie a loro.

Un grazie a Gweiddi at Ecate: che ha contribuito a far ingrassare il mio ego con le sue meravigliose recensioni - di quelle che, miseria, farebbero venir voglia di scrivere anche agli analfabeti - e per aver spartito la sua Hana con me.

E infine un grazie anche a mangaka94, Niggle e a TaKari94 per aver recensito. Vorrei ringraziare uno per uno anche tutti quelli che hanno messo questa storia tra le Preferite, le Seguite o le Ricordate, ma siete veramente una marea!

Mi piacerebbe che tutti voi, silenziosi lettori, vi faceste sentire per un commento finale. E' sperare troppo?

E, nel frattempo, carini e coccolosi, ragazzi.


Gweiddi at Ecate: Non so se sospettare casi di telepatia dilagante o, banalmente, pensare che fosse la conclusione che un po', diciamocelo, ci fa tutte contente. Non potendo salvare - cribbio, neanche scrivendo! - lui direttamente, scarichiamo il bisogno sul bimbino. Non so se Hanako, non avendo Shisui, avrebbe scelto per sè la morte: probabilmente non si sarebbe trattato neanche di una scelta consapevole (Hanako non è personaggio da decisioni forti, è inerte, subisce), ma di una qualche fine da inedia, lenta e trascinata. Sarebbe stato davvero desolante. Sono in particolar modo felice che Kisame ti piaccia, e la maniera nella quale l'hai descritto è esattamente quella nella quale speravo di poterlo rendere: non so se sia perfettamente coerente con il personaggio del manga - per quel che posso vedere dalla stampa italiana sino ad ora, ai miei occhi lo è, o, almeno, non è in contraddizione con lo stesso - però mi è piaciuto tantissimo parlarne; e, quindi, sono contenta sia così. Mi piacerebbe molto leggere la tua storia, penso sarebbe davvero interessante! ^^
Sperando che la conclusione ti sia piaciuta, ti ringrazio ancora per il supporto e per i complimenti. Un bacio.

Rohchan: Uh, Nutella. *_* Anche io voglio Nutella. Ne hai un po'?
La canzone che mi hai segnalato mi ha fatto tristezza soprattutto per il ritornello, è vero, ad ascoltarne le parole è una botta al cuore. Uh, sì, Kakashi, è uno tra i miei preferiti. Volevo poterlo sfruttare ancora per un altro mezzo capitoletto, e così ne ho approfittato bellamente.
Cioè, sono riuscita a farti stritolare di coccole Kisame. Uno scrive per cose così, mica altro. xD Più che affezionato, io l'ho visto come una specie di bisogno: una necessità, come quella che Zabuka ha di Haku, la necessità di avere qualcuno accanto che si ricordi di te senza disprezzo nè odio, magari con piacere, con affetto, con amore. Una sorta di desiderio di possesso, di memoria, sapere che c'è anche una sola persona a questo mondo che non si schiferebbe di accoglierti in casa.
Miao, grazie, grazie, grazie, per tutti questi complimenti fantastici! *___* Un bacione!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=437424