Recensione scritta per il Reviews Exchange 2.1vr - Collection of Starlight
Dato che domani si parte per un pochino di vacanze, eccomi qui: la prima, credo! E argh, che prima scomoda che sono!
Ero parecchio dubbiosa se scegliere la via della neutralità oppure della critica, ma alla fine mi è sembrato giusto optare per quest’ultima. Non tanto per una questione di atteggiamento nei tuoi confronti - non ho di certo intenzione di demolire te o il tuo modo di scrivere, tutt’altro – quanto per il fatto che se all’inizio del capitolo ero piuttosto incerta su come muovermi riguardo a questo racconto, una volta giunta alla fine ho davvero sentito la necessità di sottolineare il difetto – unico, in realtà, ma incredibilmente possente – della tua narrazione.
È troppo. Troppo in ogni direzione, in ogni sfumatura del tuo stile.
Non prendermi nel modo sbagliato: io ADORO le metafore, adoro le similitudini, adoro l’incedere ritmato dalle immagini retoriche e adoro la presentazione poetica. Dunque non ti parlo da amante di uno stile secco e conciso, piuttosto il contrario: per darti un’idea, io e le poesie di Rimbaud e in generale della totalità dei Poeti Maledetti abbiamo vissuto una lunga e soddisfacente relazione amorosa, tanto da farmi giungere a essere qualificata da una vecchia insegnante “una scrittrice bulimica di parole”, per quanto sfruttavo – e talvolta abusavo – di questo tipo di espedienti.
È questo che vedo in questo capitolo: abuso, e soprattutto abuso celebrativo.
Ti riporto un passaggio, giusto per potermici riferire in modo diretto e inequivocabile ;)
“Occhi grigi come il mercurio liquido, profondi come l'abisso, indescrivibili come la Terra di Mezzo e con l'iridescenza del cristallo, uno sguardo di quelli che lasciano basiti ad annaspare aria.
Solo poche persone riuscivano a fissare lo sguardo in quegli occhi senza affogare, e capivano che chi affogava lì dentro non aveva guardato, scrutato e osservato attentamente, perché non si affogava in quegli occhi ma ci si perdeva proprio nel loro interno, tanto che tempo e spazio divenivano irrilevanti e, solo allora, ci si accorgeva che non erano grigi: erano aria, cielo e acqua insieme. Cambiavano con la luce, con l'umore e con il tempo; pietre e prismi di assoluto splendore, gioielli di rarissima bellezza e materia divina. Pagliuzze di cielo, scorci di mare e fili d'aria.”
La descrizione degli occhi – lo sguardo che ammalia, lo sguardo che rapisce, stupisce, cattura – è un elemento piuttosto comune nelle fanfictions, e nessuno dice che debba smettere di esserlo, ma l’attenzione che tu vi dedichi in questo capitolo è troppa. Non è un focus contestualizzato, ma meramente espositivo. La particolarità degli occhi di Tristan non traspare da un gesto, una frase, una situazione qualsiasi. Nel presentare questo personaggio al lettore ci tieni a sottolineare il fatto che abbia degli occhi mozzafiato, ma l’enfasi è troppa per una semplice parentesi descrittiva. Oltretutto, è il modo attraverso il quale esalti questo dettaglio che non convince. Analizzando il frammento immagine per immagine:
- grigi come il mercurio liquido [è un paragone piuttosto sfruttato, ma sì, può ancora avere un proprio fascino];
- profondi come l’abisso [paragone DECISAMENTE molto sfruttato. Le profondità dell’oceano sono ormai state depredate da un numero incredibile di queste similitudini ;)];
- indescrivibili come la Terra di Mezzo [qui il problema è più che altro logistico. Una delle caratteristiche principali della narrazione Tolkieniana è proprio l’estrema descrittività, quindi forse la Terra di Mezzo È descritti bile, no? ;)];
- con l’iridescenza del cristallo [il livello di “masticazione” del cristallo è più o meno equivalente a quella del mercurio, ma fermiamoci un attimo: un’immagine semi-abusata affiancata a un’altra immagine semi-abusata non crea un effetto troppo soddisfacente!];
- affogare/perdersi negli occhi [anche questa espressione è già vista, così come qualsiasi altra esplorazione/smarrimento che abbia luogo tra un battito di ciglia e un altro].
Poi, proseguendo velocemente, occhi come:
- pietre e prismi di assoluto splendore;
- gioielli di rarissima bellezza e materia divina;
- pagliuzze di cielo;
- scorci di mare;
- fili d’aria.
Nell’arco di quattro/sei righe (a seconda della dimensione della finestra e dello schermo) hai caratterizzato gli occhi NOVE volte. Hai attribuito loro ben nove connotazioni differenti, senza neppure contare le azioni che li coinvolgono. E non si tratta di connotazioni collegate, ma del tutto slegate tra di loro: una specie di elenco di tratti distintivi il più variegati possibili, perché uno, due, tre, non bastano. Il problema è che una sola immagine non basta non perché gli occhi di Tristan siano infinitamente meravigliosi, ma perché nessuna di queste immagini è di per sé sufficientemente originale e inconfondibile da trasmettere al lettore la vera impressione di quanto questo sguardo sia unico nel proprio genere. Sono similitudini e metafore già viste, già usate, così che da sole non riescono a rendere al meglio l’idea: il lettore ci è abituato, quindi le prende sottogamba. Affiancandole l’una all’altra hai senza dubbio amplificato la sensazione che Tristan possa uccidere con uno sguardo, ma l’hai fatto in modo pesante, disconnesso, frammentario.
La cucina più raffinata è generalmente servita in porzioni piccole: non perché la società odierna si basa su un regime alimentare dietetico, ma perché la nouvelle cuisine vuole insegnare a gustare e assaporare lentamente ogni singola forchettata, così da dare modo al palato di cogliere ogni sfumatura di gusto.
Non servono mille immagini di media diffusione per esaltare un concetto, ne basta una, che sia innovativa, efficace, individuale. Una che il lettore non possa prevedere, non possa ignorare: una sulla quale non si debba soffermare troppo tempo, ma che nemmeno passi inosservata, sommersa da un fiume di sorelle gemelle.
E in generale il ragionamento che ho fatto per questo piccolo paragrafo vale per l’intero capitolo: c’è troppa poca narrazione, e troppa celebrazione. Ogni singolo dettaglio di ogni singolo personaggio è eccezionale, tanto che l’eccezione diventa la regola e non emoziona più.
Un’altra piccola stranezza che ho notato: all’inizio la narrazione è condotta da un punto di vista esterno (tant’è che assistiamo alla celebrazione dell’aspetto fisico di Tristan, che di certo non è autocelebrativo), poi invece entriamo nella mente dello stesso Tristan, con quel “In quell’abbraccio Tristan si perse”. Il passaggio non è netto, e non è giustificato ;)
Talvolta poi ti dimentichi di qualche virgola, o ne posizioni una di troppo [per quanto riguarda il primo caso, ad esempio: “Felician imbracciò la sua Gibson bianca e con una semplicità mostruosa, iniziò a suonare” (dopo la “e” sarebbe il caso di inserire una virgola), mentre per quanto riguarda il secondo: “Di certo, Tristan, non era un ragazzo qualsiasi” (perché quelle virgole prima e dopo “Tristan”? Forse potrebbe essere giustificata giusto la prima, anche se potrebbero benissimo essere assenti entrambe). A volte poi sarebbero necessarie pause più lunghe, periodi leggermente più brevi e ordinati. Ad es: “Ed era vero, Tristan quando si sentiva soffocare dalla tristezza che lo attanagliava, prendeva al volo i lavori che gli venivano offerti anche dall'altra parte del mondo, e partiva ed ogni volta tornava sempre a casa, più forte e rifocillato, ricucito di toppe nuove quando le precedenti iniziavano a cedere, da Drew, dal suo migliore amico, il fratello che non aveva mai avuto e che rappresentava il suo mondo.”, che io vedrei meglio “Ed era vero: quando Tristan si sentiva soffocare dalla tristezza che lo attanagliava accettava al volo i lavori che gli venivano offerti – anche dall’altra parte del mondo – e partiva. E ogni volta tornava sempre a casa, più forte e rifocillato, ricucito di toppe nuove quando le precedenti avevano cominciato a cadere. Tornava a casa, da Drew: il suo migliore amico, il fratello che non aveva mai avuto e che rappresentava tutto il suo mondo”.
Insomma, gli espedienti per migliorare la fluidità del periodo sono molti e vari ;)
I miei consigli sono tre:
- lavorare su una costruzione più originale e personale delle immagini;
- non lasciarsi fuorviare troppo dalla perfezione dei personaggi (e dunque non esagerare con le glorificazioni) , che alla lunga può stancare e smettere di risultare interessante;
- cercare di rendere il più naturale possibile la narrazione, limitando le strutture del periodo troppo artificiose e dando modo al lettore di fermarsi a respirare, ogni tanto.
Le potenzialità ci sono TUTTE, la passione anche (solo chi scrive con passione è in grado di sciorinare un numero simile di figure retoriche): direi che hai tutte le carte in regola.
[Ammazza, che papiro.]
In bocca al lupo! Baci,
Acardia. (Recensione modificata il 14/07/2011 - 09:10 pm) |