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Autore: CricetoBilly    07/04/2012    1 recensioni
Salve!Questa è la prima volta che mi cimento nell’impresa di scrivere, o almeno pubblicare qualcosa.
Spero di ricevere tante recensioni, che mi permettano di crescere e migliorare.
Quindi è ben accetta ogni sorta di critica!
Adoro indiscutibilmente le canzoni di De Andrè, così ho deciso di abbinarle al piacere della scrittura, traendo da esse la traccia per la mia storia: “La città vecchia”.
Nella città vecchia s’intrecciano le vite di miserabili straccioni, da Bocca di rosa a Michè, da Nancy a Marinella, e di tanti altri piccoli drammi familiari che hanno come sfondo la Genova vecchia del 900.
I personaggi sono quindi quelli delle canzoni, le loro storie sono puro frutto della mia immaginazione. La città vecchia è una raccolta, ogni capitolo (massimo due o tre) sarà dedicato ad un personaggio, che potrà comunque sempre tornare in futuro.
Spero di avervi incuriosito!
Billy.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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barbara

Barbara


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Via del Campo, una stradina stretta e tortuosa nel cuore di Genova, appartiene a quella rete di vicoli dove mai e poi mai puoi incontrare la Gente.


Con Gente mi riferisco agli altolocati, agli aristocratici, e a tutti coloro che storcono il naso e voltano la vista quando uno straccione pulcioso qualunque gli passa accanto.

Loro ignorano e vanno oltre, guidano le loro autovetture e la mattina, appena svegli, fanno colazione sfogliando un quotidiano con gli amici.

A loro il pane non manca mai, hanno domestiche in divisa che svolgono ogni sorta di servizio, mentre le loro mogli, bellissime dame ricoperte d’oro e di vestiti all’ultima moda, li accompagnano per le strade, nei teatri e nei più suntuosi ristoranti con quel sorriso meraviglioso e perenne stampato sul volto.

E perché mai dovrebbero confondersi con noi, la Gentaglia?

Quelli che tirano avanti giorno per giorno, che mangiano pane duro e raccolgono le molliche sotto il tavolo, quelli che dormono il più stretti possibile, non per affetto, né per amore, ma per il freddo che ogni notte entra nelle ossa e fa tremare i cuori.

Ogni figlio che arriva porta nuove braccia per lavorare, e se la povertà cresce oltre, diviene anch’esso una maledizione.

E questa è la Gentaglia, vestita di stracci e miseria, che si sente a suo agio solo dove il sole non batte, dove l’aria è spessa e carica d’odori.

Ed io ne faccio parte, con i miei sedici anni e gli occhi già troppo stanchi, di una vita ricca di dolore, perdita e povertà.

Provengo da una famiglia umile e quel poco che resta di essa siamo mia madre e me.

Viviamo alla giornata, tirando avanti con poco di quello che riesco a racimolare, il resto serve per le medicine. Mia madre si ammalò poco dopo la morte di mio padre, ha bisogno di cure e di affetto, eppure nemmeno quelli riescono a bloccare o arrestare l’avanzare della malattia.

Così a dodici anni ho dovuto porre fine all’età dei giochi, dove è permesso  perfino sognare.

Ho abbandonato Nancy, la mia bambola di pezza e ho smesso di andare a scuola.

Sulle mie spalle da bambina, da allora, grava la responsabilità della mia famiglia.

Prima della morte di mio padre non ho mai conosciuto cosa realmente fosse la miseria, non abbiamo mai navigato nell’oro  -certo- eppure lui spezzandosi la vecchia schiena da muratore ci ha sempre garantito un tetto sopra la testa, il pane in tavola e nelle giornate di festa un po’ di manzo di seconda scelta con un po’ di vino annacquato. Mi sono sempre vestita degli stracci usati di mia sorella, ogni buco ed ogni macchia sono segni indelebili degli anni trascorsi. A dieci anni ricevetti da Emilia, mia sorella più grande, una camicetta blu. Qualche giorno dopo si sposò e da allora la vidi sempre più raramente, quando ci veniva a trovare, fra un turno e l’altro in lavanderia. Mi raccontò con un certo rossore sulle guance che quella stessa camicetta blu fu testimone del suo primo bacio, dato al figlio della lavandaia che dopo pochi anni chiese la sua mano a nostro padre.

Ricordo la mia invidia, lei felice e innamorata aveva coronato il suo sogno d’amore, e sposandosi con l’uomo che amava si era conquistata la libertà, lasciandosi dietro quella casa piccola e ammuffita.

Quanto mi sbagliavo.

Ma come biasimarmi, ero solo una bimba ignara del mondo fuori quelle quattro mura che mi avevano visto nascere e crescere.

Cosa ne sapevo degli stenti e delle fatiche necessari a tirare avanti una famiglia?Dei debiti, del lavoro, della miseria?

Neanche per Emilia è una vita facile, passa le ore fra il lavoro e le cure domestiche, passava a trovarci ogni fine mese per contribuire, con quel poco che riusciva a mettere da parte per se stessa, alle cure mediche per la mamma. Ma si tratta ormai di qualche anno fa.

Iniziò pian piano a stancarsi della situazione, insistette per rinchiudere nostra madre in un centro anziani statale credendo che ciò avrebbe reso migliori le vite di tutte e tre.

Ma io non volevo, ho sempre saputo che dietro quella facciata da donna vissuta, appassita, stanca e apatica, c’era ancora quella dolce e meravigliosa creatura che mi aveva sempre donato tutto l’amore di cui era capace.

Sapevo anche cosa si dice di quei centri, dove gli anziani vivono affollati e abbandonati, dove vengono fatti morire di fame, umiliati e derisi. Conosco persone rinchiuse la dentro e morte dopo pochi mesi.

Forse ciò che sento dire di questi luoghi sono sciocche dicerie, forse quelle persone erano ormai senza speranza, eppure ho considero il dubbio e ho tenuto mia madre stretta.

Con quale cuore avrei potuto abbandonarla?

Emilia e suo marito, Piero, minacciarono di non aiutarci più e dopo qualche tempo ci abbandonarono a noi stesse. Ma come biasimarli?

Fra il bambino che stava per nascere e i debiti per mettere su casa erano con l’acqua al collo, e di conseguenza io e mia madre eravamo l’ultimo dei loro pensieri.

Avevo solo quattordici anni e più nessun appoggio esterno al nostro piccolo dramma familiare.

Ho dovuto rimboccarmi le maniche, ma nessun lavoretto poteva permettermi di sostenere me e mia madre, né potevo affaccendarmi tutto il giorno lasciandola sola.

Così ho seppellito la bambina casta, pura e piena di sogni in un angolino remoto del mio essere, e ho fatto l’unica cosa che mi avrebbe consentito di tirare avanti nella mia situazione.

Non ho scelto chi diventare, ma ho dovuto esserlo per colpa di un destino ingiusto e crudele.

Avrei iniziato a vergognarmi di me stessa, ad abbassare gli occhi di fronte a qualsiasi altro pezzente incontrato per strada e disonorato il mio nome.

E cosa peggiore, non avrei mai conosciuto il vero amore, chi avrebbe perso più del tempo dovuto con una donnaccia? Non avrei, forse, mai conosciuto quel nobile sentimento puro e sincero di cui mia sorella mi aveva tanto parlato.

Dovetti così vendere il mio corpo, divenire poco più di un oggetto.

Ma cos’altro potevo fare?

 

 

 

  
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