Film > Pirati dei caraibi
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Autore: Laura Sparrow    10/11/2006    5 recensioni
Due giovani donne sole in uno sperduto paesino dei Caraibi, ma determinate ad inseguire i loro vecchi sogni di libertà, l'incontro con un pirata prigioniero che cambierà la vita di entrambe. Mentre un bizzarro gioco del destino riporta a Laura Evans una nave nera che sembrava solo un ricordo di infanzia e una minacciosa maledizione torna da un passato che sembrava dimenticato, Will sceglie di infrangere per una e una sola volta la promessa che lo lega a Calipso per rivedere Elizabeth ancora una volta. Laura Evans e Faith Westley si trovano davanti ad una svolta: voltare le spalle a tutto ciò che è stato e seguire l'unica strada di chi rifiuta le regole: la pirateria. (ULTIMO RINNOVAMENTO COI FATTI RIALLACCIATI AD AWE)
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo



E finalmente, dopo circa tre anni da quando questa storia è apparsa, neonata e ancora impacciata, sui fogli del mio quablock che periodicamente portavo da leggere alle mie amiche, riesco a correggerla ed aggiornarla in modo da darle una trama e una forma soddisfacente!
In tutto questo tempo il mio stile (ma anche il mio modo di pensare e soprattutto il mio rapporto con Capitan Jack Sparrow) si sono evoluti e sono maturati, e col il fondamentale esempio e insegnamento delle bellissime fanfiction su POTC che ho letto in questi anni ho deciso che era tempo anche per la mia semplice storiella di crescere e diventare la degna fanfiction che avrei voluto scrivere per Capitan Jack Sparrow e per me, anche perché è stata solo la prima puntata di una lunga serie, e il balzo di qualità fra questa prima e le ultime che ho scritto è agghiacciante.
Altro inghippo piuttosto spinoso che ha ostacolato la riscrittura: l'uscita del sequel.
A parte il fatto che quel secondo film mi ha uccisa (non una ma ben quattro volte...), c'era il fatto che una nuova storia si era intrecciata a quella che già conoscevamo, e il peggio è che ancora non si sapeva come sarebbe andata a concludersi. Quindi, dato che la mia storia è ambientata circa quattro anni dopo il primo film (Elizabeth e William hanno già un figlioletto) cosa avrei dovuto fare? Fingere che gli avvenimenti del secondo film semplicemente non fossero esistiti; darli per realmente accaduti e conclusi; o lasciare nel dubbio?
Queste ff le ho scritte molto prima dell'uscita del sequel anche se prendono vita solo adesso, infatti tutte hanno subito una forte riscrittura per inserire nuove idee che potevano sia migliorare la storia sia riallacciarla agli avvenimenti avvenuti nel sequel, quindi mi arrovellai per trovare una sorta di incastro: Laura e Faith hanno conosciuto Elizabeth da ragazzine e si sono lasciate mentre lei era fidanzata con William e ad un passo dal matrimonio(perciò dopo il primo film e appena prima del secondo), quindi sono state mandate a Redmond, dove hanno passato lavorando al servizio della Marina locale circa quattro anni. In quel lasso di tempo a Jack, Will ed Elizabeth è accaduto quel che è accaduto (che io conto come un anno fra il primo e il secondo film, e tre anni dopo la conclusione del terzo film, naturalmente senza contare la scena dopo i titoli di coda) e infine il magico gruppo si è riunito in questa mia prima ff.
Ho corretto e aggiornato la mia storia man mano che si aggiungevano idee e particolari, ma aspettavo l'uscita del terzo per approntare i dettagli definitivi, e chi ha seguito fin dal principio questa storia può notare che questa è ben la terza riscrittura che faccio.
Il finale del terzo è stato una mazzata in pieno stomaco che ha ribaltato completamente la situazione.
Subito non avevo accettato il finale scelto per William ed Elizabeth, una coppia che ho sempre amato e sostenuto fedelmente fin dal primo film, e soprattutto non avevo idea di come poter usare loro due nelle mie storie senza dovermi vedere costretta a cambiare il finale, cosa a cui avevo pensato ma che non ho fatto in nome dell'affetto e dell'ammirazione che nutro per i film della trilogia dei Pirati: solo dopo ho raggiunto un compromesso, decidendo di tenere il finale del terzo film in tutto e per tutto, per riunire Elizabeth e Will proprio nella mia ff, tre anni dopo la loro separazione: sì, odio le separazioni decennali.
Quindi cancellate la scena dopo i titoli di coda del terzo... almeno per il momento. Non si sa mai che trovi il modo di allacciare una scena simile alla conclusione di tutta la saga, heeee he he!

Mi ha addolorato molto dover depennare completamente personaggi come Norrington e il governatore Swann, ma così ha voluto la crudeltà degli sceneggiatori... Una cosa che invece sono stata felicissima di aggiungere è stata la scimmietta pestifera e... Barbossa! Dopo averlo semplicemente adorato in POTC 3 sono entusiasta di poterlo utilizzare anche nei miei deliri scrittorici! Non sperateci troppo però, per esigenze di copione avrà solo un ruolo marginale in questa prima ff... per adesso.
Spero che questa storia vi piaccia, apprezzo moltissimo i commenti, suggerimenti e critiche costruttive! Buona lettura!

Capitolo 1
The caribbean dream



La prigione era umida e scarsamente illuminata; ogni volta che vi entravo desideravo fosse l'ultima volta. Ma sapevo che il giorno dopo vi sarei dovuta tornare, distribuendo il cibo ai carcerati che mi guardavano storto, sorvegliata da una guardia armata perché ai prigionieri non saltassero in testa strane idee. Non era un lavoro solito ad una giovane ventitreenne, ma era l'unico che io, Laura Evans, ero riuscita a trovare in quella piccola città. Io e la mia migliore amica, Stephanie, lavoravamo in quella sudicia prigione ormai da quasi un anno. Ero nata in un anonimo paesino portuale: mio padre faceva il pescatore e il ferramenta, spesso mi portava con lui a pescare, salivamo sulla sua barchetta e ci spingevamo a largo del porto, dove le onde allegre facevano dondolare la nostra imbarcazione. Quando non tenevo la canna da pesca mi sdraiavo sul fondo della barca e chiacchieravo placidamente con mio padre, guardando il cielo terso dei Caraibi punteggiato dai gabbiani, godendo della carezza del mare finché papà non riponeva la canna e, con i secchi pieni di pesce, remava fino al porto per fare ritorno a casa. Amavo quei momenti di quiete dove tutto attorno a noi era solo lo scroscio delle onde, le strida dei gabbiani e, spesso, il motivetto fischiettato da papà: continuai ad uscire a pescare con lui per molto tempo.
Non avevo fratelli, né sorelle, ma una persona per me fu come una sorella. Il paese era piccolo e tutti conoscevano tutti, erano molti i bambini che furono miei compagni di giochi nella mia infanzia, ma una in particolare rimase con me per tutti gli anni a venire: Stephanie Faith Westley.
Capelli lisci e neri perennemente intrecciati dietro la testa, grandi occhi scuri e un sorriso contagioso, io la chiamavo semplicemente Faith: da sole eravamo ragazze riservate, insieme nulla ci poteva fermare.
Eravamo entrambe inguaribili sognatrici e non facevamo che fare progetti: a quindici anni, parlando del più e del meno, ci ritrovammo a discutere del nostro futuro, di cosa avremmo fatto una volta entrate nell'età adulta. - Io non voglio rimanere qui. - dissi una sera che mi trovavo con lei, seduta sul muretto dinanzi a casa mia. - Molte si accontentano di rimanere del posto dove sono nate, trovare un impiego, sposare uno dei giovanotti della città... Io non voglio questo. -
Gli occhi di Faith si illuminarono di un guizzo di meraviglia e interesse. - Cosa vorresti fare allora?-
Scrollai le spalle, senza rispondere, ma in realtà serbavo già un progetto nel mio cuore. Prendere il mare, salpare dalla mia città, viaggiare e... trovare un posto speciale in cui vivere. Sapevo che si trattava di fantasie audaci, sogni irrealizzabili, e allora spesso mi mettevo a tacere da sola, mi dicevo di non fare voli di fantasia. Ma subito mi accorgevo che le mie parole assomigliavano spaventosamente a quelle delle anziane pettegole della città, le stesse che per anni ci avevano fatto la paternale ripetendo che una brava ragazza deve essere ubbidiente, sposarsi presto e fare felice il marito. All'idea di diventare un giorno come loro, che ti guardavano dall'alto in basso, che parlottavano fra loro guardandoti come se tu fossi stata qualcosa di sbagliato, un torto che andava raddrizzato, mi montava la rabbia in corpo, e alimentavo ancora di più le mie fantasie, in una decisa ribellione contro quella detestata mentalità chiusa e bigotta, che tracciava il tuo destino fin da quando eri in culla e non ti lasciava scampo. Lo sguardo di Faith richiedeva una risposta, così azzardai: - Non sarebbe male girare un po' il mondo. -
La mia amica sorrise, e in quel momento capii che condivideva quel sogno. - Viaggiare, eh?- disse, alzando gli occhi verso la strada per il porto: il mare non si vedeva, ma entrambe stavamo immaginando quella via aperta davanti a noi. - Sarebbe difficile, ci vogliono molti soldi per viaggiare... ma dove andresti?-
Di nuovo mi strinsi nelle spalle. - Vorrei vedere tutti quei posti meravigliosi di cui parlano tanto i marinai!-
- Sposerai un capitano di ventura!- replicò Stephanie ridendo, io le lanciai un'occhiata complice. - Tu no?- Ridacchiammo insieme, poi tornammo silenziose, ponderando la possibilità di una vita lontana dai posti che conoscevamo, nelle isole esotiche e nelle affollate città della costa. - Sarebbe bello. - disse infine Stephanie, voltandosi a guardarmi in faccia. - Ma sarebbe ancora più bello viaggiare insieme. -
- Certo che viaggeremo insieme. - risposi con sicurezza. - Qui ci vuole un giuramento. - le porsi la mano in modo teatrale e con voce impostata dissi: - Saresti disposta a lasciare questo paese, la tua casa e la tua vita tranquilla per imbarcarti con me per viaggiare insieme per i Caraibi e trovare un posto dove fare fortuna?-
- Sono disposta!- Stephanie mi strinse vigorosamente la mano. - Il patto è concluso!- annunciai, e ci sorridemmo complici. Non era altro che un tacito accordo, il sogno comune di due adolescenti, eppure in qualche modo mi sentivo rafforzata da questo reciproco giuramento: saremmo rimaste insieme e insieme ci saremmo inoltrate nel mar dei Caraibi.

*

La nostra cittadina tanto tranquilla era diventata la meta preferita del governatore di Port Royal, Weatherby Swann e sua figlia: avevano un'elegante villa appena fuori dalla città e vi venivano in villeggiatura per due o tre mesi l'anno. Quando incontrai per la prima volta Elizabeth Swann avevo diciassette anni, e lei ne dimostrava altrettanti: stava passeggiando presso la spiaggia, accompagnata dalla sua dama di compagnia; io e Faith ci trovavamo proprio lì vicino e vedendola avvicinarsi la salutammo con un educato: - Buongiorno miss Swann. - sapevamo chi fosse poiché dal giorno del suo arrivo praticamente ogni donna del paese non faceva che parlare della figlia del governatore.
Lei sembrò felice di avere incontrato qualcuno della sua età e si trattenne a parlare con noi, prima ci scambiammo convenevoli in tono piuttosto formale, poi pian piano il ghiaccio fra noi cominciò a rompersi: smisi di vedere una nobildonna e vidi una ragazza della mia età in cerca di compagnia.
Infatti, al di là del suo aspetto impeccabile e delle sue maniere squisite scalpitava una ragazza volitiva e forte, appassionata e spiritosa, con cui era piacevole parlare per ore: e come le si illuminavano gli occhi quando si discuteva del nostro argomento preferito: le antiche leggende del mare, i racconti dei pirati più famosi, storie agghiaccianti che si raccontavano la sera in cupe osterie.
Noi due ed Elizabeth diventammo amiche, quando ci incontravamo non perdevamo mai un'occasione per scambiare quattro chiacchiere e raccontarci gli ultimi avvenimenti: anche quando se ne andò a Port Royal continuammo a tenerci in contatto via lettera, e quando fece ritorno l'anno successivo fu come se il tempo non fosse passato affatto.
Ci raccontavamo tutto ciò che era successo durante i mesi di lontananza, lei parlava della sua città, Port Royal, di un noioso capitano della Marina Britannica che frequentava regolarmente casa sua, e di un suo caro amico, William Turner, un fabbro con cui aveva stretto una profonda amicizia. Io e Stephanie ci divertivamo a canzonarla insinuando che forse la loro non era affatto una semplice amicizia e, pur ridendoci sopra, io ne ero convinta.
L'espressione del suo viso, la dolcezza e l'ammirazione nei suoi occhi quando ci raccontava di lui erano inequivocabili.
Infatti, diverso tempo dopo, quando ormai le sue visite si erano fatte più che mai rare e discontinue, Elizabeth ci comunicò per lettera il suo imminente matrimonio proprio con lui, il fabbro William Turner. Disse che il loro fidanzamento era stato deciso in seguito a circostanze un po' avventurose eppure, per una ragione o per l'altra, si rifiutò di fornirci ulteriori spiegazioni. Lo stesso anno, a pochi mesi dal loro matrimonio, vennero a farci visita entrambi e finalmente potemmo fare la conoscenza del suo fidanzato: William Turner era un giovane attraente e un vero gentiluomo, ma bastò poco per capire cosa in lui affascinasse così tanto Elizabeth; quel giovane apparentemente pacato aveva il fuoco dentro, le scintille del ferro stesso che forgiava con le sue mani. Fin dal primo momento in cui lo conobbi sentii che non c'era da sottovalutare quel giovane uomo, proprio per niente.
Fu l'ultima volta che li vidi: quello stesso anno morì mia madre.
Le cose per me precipitarono: mio padre ne uscì distrutto e ci mise mesi per riprendersi, così che toccò a me assumere precipitosamente il ruolo che era stato di mia madre di padrona di casa e portare avanti la vita per tutti e due. Devastata dalla perdita, mi sorse anche il timore che mio padre decidesse di disfarsi di me: allora raddoppiai i miei sforzi per rendermi utile in famiglia, per anticipare i suoi bisogni, qualunque cosa per dimostrargli che non sarei stata un peso morto sulle sue spalle, che volevo restare con lui. Avevo appena diciannove anni, e tutto quell'improvviso carico di responsabilità sulle mie spalle mi fece quasi tagliare i ponti con Faith, paradossalmente proprio nel momento in cui avevo più bisogno di sostegno.
Poi fu mio padre a stupirmi: una sera, davanti alla cena, dopo lunghissimi istanti di silenzio sollevò gli occhi su di me e ad un certo punto cominciò: - Ascoltami... lo sai che le cose non sono più state le stesse da quando tua madre se ne è andata. - diceva sempre così: “andata”. A me aveva sempre dato fastidio, non le rendeva giustizia e faceva della sua morte qualcosa di vago e innominabile mentre per me era un vuoto reale e doloroso: comunque rimasi ad ascoltarlo. - E' evidente che per te non c'è futuro qui: non sei sposata né promessa, non hai una posizione, e io non posso più occuparmi di te se devo lavorare. -
Posai immediatamente il cucchiaio senza osare più portarmelo alla bocca: avevo la gola annodata. Stava succedendo, infine: mi stava cacciando via, mi avrebbe mandata ad accasarmi con qualche vecchio mercante perché non gli gravassi più sulle spalle e se ne sarebbe andato via col suo lavoro di pescatore. - Non mandarmi via, padre!- esclamai, presa da un impeto di panico. - Non ti sarò d'intralcio! Continuerò a lavorare in casa per te, mi darò da fare, lo giuro!-
- Laura... - mio padre sospirò, ma io lo interruppi di nuovo, stavolta piantando i pugni sul tavolo e alzandomi dalla sedia. - Non ti voglio lasciare!- il tono della mia voce aveva ormai abbondantemente superato il livello della decenza. - Farò tutto quello che vorrai, mi renderò utile, non sarò un peso! Ti prego, non voglio finire a marcire nella casa di qualche... -
- Laura!- lui mi zittì con veemenza, e lentamente tornai a sedere. Non avrei dovuto perdere il controllo a quel modo, mi rimproverai mentre chinavo gli occhi sul mio piatto, probabilmente mi ero giocata qualsiasi speranza di fargli cambiare idea, se mai ne avevo avuta alcuna.
Mio padre rimase a guardarmi e addolcì il tono di voce: - Non intendo darti per moglie a nessuno che tu non voglia. - disse con dolcezza, e a quelle parole mi sentii come se un grosso peso mi fosse stato tolto dal cuore. - Ma viene il tempo in cui una fanciulla deve lasciare la casa di suo padre: questo non è più posto per te, e se non sono riuscito a trovarti un marito almeno sono riuscito a trovarti un impiego. Nel mio ultimo viaggio per vendere il pesce ho preso contatti con la milizia di Redmond, un'isola a poche leghe da qui: hanno bisogno di donne di servizio che si occupino del forte. Vivrete e lavorerete al forte, sotto la responsabilità e la protezione del corpo militare di Redmond. -
Sgranai gli occhi mentre sollevavo lo sguardo verso mio padre: quello che mi stava dicendo era troppo incredibile per essere vero. Una cosa ancora non mi era chiara. - “Lavorerete”? Perché hai parlato al plurale?-
- Tu e la tua amica: Stephanie Westley. - concluse mio padre, e finalmente un sorriso gli illuminò il volto barbuto. Per dieci secondi buoni rimasi seduta senza sapere come reagire e senza il coraggio di muovere un muscolo, infine come in sogno mi alzai, girai attorno al tavolo e gettai le braccia al collo di mio padre sentendomi salire le lacrime. - Grazie... - mormorai col fiato corto per l'emozione. - Grazie, grazie, grazie. -

*

Così partimmo alla volta di Redmond: Faith portò con sé il suo fratellino, Michael Westley, che all'epoca aveva solo dieci anni; lei e i suoi genitori avevano pensato che avrebbe avuto più possibilità con noi in qualche grande città che non nel nostro paesino. Mio padre accompagnò tutti e tre sul bastimento che ci avrebbe portati a destinazione: con pochi bagagli e un po' di soldi in tasca, inizialmente tutti noi eravamo molto eccitati. Ogni cosa per noi era nuova, e con la prospettiva di una nuova vita in un nuovo posto, il mondo sembrava un libro aperto nelle nostre mani, pieno di opportunità che aspettavano solo di essere raccolte.
Il nostro arrivo al forte bastò a spazzare via in un colpo solo tutte le nostre illusioni: fummo ricevuto dal capitano del forte, un britannico dai lineamenti spigolosi e i modi affettati, che in due parole ci disse qualcosa in merito ai nostri compiti, la nostra paga e il nostro alloggio; quest'ultimo si rivelò essere un minuscolo casolare sulla strada del porto a poca distanza dal forte.
Mio padre ci aveva appena lasciate che due soldati ci scortarono rudemente per i corridoi dell'avamposto mostrandoci dove e come avremmo dovuto lavorare. Michael avanzava timidamente nascondendosi dietro alla sorella: uno dei soldati gli scoccò un'occhiata di sbieco e sentenziò in tono acido: - Il tuo bambino non può stare qui. -
Mi sentii subito infastidita per come ci dava irrispettosamente del tu, ma cominciavo a capire che in quel posto noi non eravamo altro che sguattere. Il nostro lavoro ci aveva fatte cadere più in basso di quanto mi sarei aspettata. - Non è il mio bambino, è mio fratello. Che cosa dovrei fare di lui, allora?- protestò Faith con uno sguardo di astio al soldato: quello si era stretto nelle spalle continuando a guardare Michael come se fosse stato uno scarafaggio nella minestra. - E' abbastanza grande per badare a sé stesso, dovrai lasciarlo a casa. Per la cronaca, ti consiglio di moderare i termini, sguattera. -
Entrambe ci trattenemmo a forza per non rispondergli a tono: quella fu la prima di innumerevoli volte che rimanemmo zitte davanti alle ingiurie dei soldati. Era umiliante, ma che potevamo fare? Eravamo individui di seconda classe. Avevano il diritto, se non quasi il dovere, di trattarci a quel modo.
Quando ci mostrarono le celle mi sentii male: vidi davanti a me interminabili corridoi di pietra, poca luce, aria viziata, e ovunque sbarre, sbarre, sbarre, dalle quali volti pesti e irriconoscibili di uomini imprigionati ci osservavano di sbieco. Lì era dove avremmo lavorato ogni giorno. Una prigione. La nostra prigione.
Non dissi una parola quando ci condussero per la prima volta in quel dedalo di corridoi angusti, ma sentii chiaramente che qualcosa dentro di me premeva per urlare fino a squarciarmi la gola.
Passammo in quel posto quattro anni.
L'unica notizia da persone amiche che ricevemmo in tutto quel tempo fu una brevissima lettera recapitata quasi per miracolo, sorprendentemente non da Port Royal ma da un paesino portuale chiamato Oyster Bay che da quanto sapevo sorgeva su un'isola non lontana dal nostro arcipelago, nella quale Elizabeth ci informavano della nascita del primogenito suo e di Will, David William Turner. Fummo felici per loro: se non altro loro erano riusciti a realizzare i loro progetti.
Così si concludeva il nostro brevissimo volo, il nostro viaggio in cerca di fortuna. Ma cosa dico, fortuna? Non avevamo avuto molta fortuna fino a quel momento: da quattro anni interi eravamo bloccate in quel paesino grigio come il mare d'inverno, con un lavoro di infima qualità.
Non era quello il futuro che tante volte avevo sognato.
Non era il giuramento che io e Faith ci eravamo scambiate quella volta sotto il tramonto del porto, non era questo il nostro sogno dei Caraibi.
  
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