1_capitolo primo
Un suono insistente, quasi perforante, che pareva stringerlo
in una morsa lottando per tirarlo fuori da quella bella sensazione.
Impossibile far finta di nulla…
Stropicciandosi gli occhi ancora stanchi, un ragazzo biondo,
piuttosto arruffato dai cambi di posizione durante il sonno, si tirò su,
decidendosi infine ad abbandonare quel calore così accogliente che solo un
piumone o un altro essere umano ad tuo fianco può dare. (più il piumone,
però!XDndA =.= ndTutti)
Spense quell’aggeggio infernale più comunemente chiamato
sveglia, e rimase circa trenta secondi seduto sul morbido materasso, nella
penombra, tentando di schiacciare il sonno definitivamente.
Infine, stiracchiandosi e rabbrividendo appena per il cambio
di temperatura improvviso provocato dall’uscita dal letto, si avvicinò alla
finestra e sbirciò attraverso le fessure della serranda. Osservò attentamente
le luci brillanti dai colori fosforescenti che illuminavano la città notturna,
infrangendosi incuranti sulla sua pelle brunita dai bei lineamenti dolci e un
po’ infantili. Lineamenti solcati da una vena d’insicurezza…
Un’insolita espressione di nostalgia…
Si sentiva strano.
Sapeva che quella era casa sua, ma non la riconosceva in
tutto e per tutto.
A stento ricordava chi era…
Tuttavia, quasi inconsciamente, sapeva di essere in ritardo,
in ritardo per qualcosa di importante…essenziale…
Era a conoscenza di dov’era l’armadio con i vestiti…quale
lato della credenza doveva aprire per trovare il caffè…
Si preparò in fretta, guardandosi intensamente allo
specchio, con gli occhi azzurri puntati in quelli perfettamente simmetrici del
suo riflesso, si allacciò al collo una catena dagli anelli leggermente larghi,
alla quale era attaccato uno strano ciondolo.
Discretamente grande, pesantuccio, e con una forma
abbastanza singolare:
una croce rovesciata, simbolo proibito per molti, guardato
con perplessità da altri, alla fine del braccio più lungo della quale, uno
pseudo-cerchio che la faceva sembrare in tutto e per tutto un ventaglio non
pieghevole giapponese dalla strana impugnatura anomala.
Singolare, inutile dirlo, ma percepiva chiaramente la sua
importanza.
Con passo svelto, aprì la porta e, afferrato al volo lo
zaino che aveva precedentemente preparato, uscì di casa, scendendo infine in
strada.
Ancora quella sensazione di sdoppiamento…
Una parte di lui conosceva alla perfezione quel luogo, per
l’altra, al contrario, esso era del tutto sconosciuto.
Un’unica sensazione accomunava entrambe, nello strano limbo
dei sensi in cui sembravano trovarsi tutte e due:
la tensione.
Quel luogo avrebbe messo in agitazione chiunque, anche la
persona col sangue più freddo esistente, data l’atmosfera di pericolo che
aleggiava ovunque.
La strada sembrava letteralmente inghiottita dalle tenebre,
così profonde da apparire innaturali.
Vapori si alzavano dai buchi delle fognature e, seppur
illuminata dalle insegne al neon dei locali, che garantivano una discreta
visibilità, a quell’ora così tarda ad ogni passo si sentiva sempre più
barcollante…più titubante…più inghiottito da quel buio…
Eppure lui ricordava la luce che di giorno si rifletteva sui
vetri dei palazzi di una grande e viva città.
Nella sua mente poteva senza fatica ritrovare le immagini
del traffico, della gente frettolosa per strada, brulicante come api operaie in
un alveare, dei suoi pochi neo-compagni di scuola, della sorridente vecchietta
che gli aveva affittato quel modesto appartamento in cui viveva ora, e che di
tanto in tanto veniva a sincerarsi del suo buono stato di salute.
Ma in quel momento la strada era affollata di ben altri
individui.
Nell’arco di dodici ore tutto cambiava, persino il nome dei
quartieri.
Solo un folle, come gli era stato detto al suo arrivo,
avrebbe girato al calar del sole, poiché era sufficiente che esso calasse, privando
la città della sua luce calda e rassicurante, perché ceffi ben poco
raccomandabili uscissero come formiche dalle loro tane.
Non si sentiva decisamente ben accetto, in quella città…
Ogni sguardo che incontrava…
Per ogni strada nella quale passava…
Sentiva occhi su occhi, insistenti…
Quasi famelici…
Che si posavano su ogni centimetro del suo avvenente corpo,
dal fisico sapientemente modellato, quasi a volerlo divorare.
Ma, in questo percorso, in un modo o nell’altro,
irrimediabilmente, tutti loro si scontravano col pendaglio.
E lì ogni loro brama pareva dissolversi nel nulla, e quegli
stessi sguardi svoltavano subito altrove, velocemente, come a voler evitare
qualcuno potesse testimoniare che si erano soffermati un po’ troppo sulla sua
persona.
Non riusciva a ricordarsi lucidamente il motivo, ma quel
ciondolo lo teneva al sicuro, su questo non v’erano dubbi…
Ed oltre a questo…
Quel gioiello era importante…
Terribilmente importante per lui…
Le sue gambe, senza alcuna esitazione che, per come lui si
sentiva, avrebbero dovuto teoricamente avere, continuarono invece imperterrite
a percorrere la lunga via principale.
Il suo sguardo, che, leggermente, ma a ragione, guardingo,
incontrò tre figure a lui familiari.
“Kiba!”, pensò, quasi a volerlo esclamare ad alta voce.
Tuttavia il suo corpo non pareva della stessa opinione, e si guardò bene dal
seguire l’entusiasmo espresso dalla sua sorpresa.
Il castano camminava attorniato da lupi, al fianco della
madre e della bella sorella maggiore, al centro della strada deserta, incuranti
del possibile passaggio di qualsivoglia automezzo.
Sguardo sicuro, aria altezzoso di chi non teme nulla, come
se la giacca di pelle nera con le maniche tagliate e sfilacciate potesse
proteggerli da tutto e da tutti, come se il collo impellicciato e il lupo
ringhiava aggressivo nello stemma sulla schiena avesse la facoltà di mordere
sul serio, e allontanasse ogni malintenzionato.
Per un attimo, i loro volti s’incrociarono, ricambiando i
suoi occhi sperduti con un espressione di arrogante curiosità, che sembrò poi
tramutarsi in qualcosa che appariva tanto come complicità.
“il clan Inuzuka e i suoi famigerati lupi…” si ritrovò a
pensare, mentre continuava a camminare.
Guardandosi poi nuovamente intorno, notò altri due nuclei
familiari a lui noti, due esponenti dei quali erano intenti in una tranquilla e
disinteressata conversazione in un bar.
“il clan Nara, ammantata di nero, e il clan
Akimichi…storiche alleate, la cui fedeltà non ha mai vacillato…di loro mi posso
serenamente fidare…”
Si fermò, pochi minuti dopo, di fronte ad una abitazione;
contrariamente a tutte le altri circostanti, essa era di gusto tipicamente
giapponese.
Prese la cordicella abilmente intrecciata che pendeva da un
lato della tettoia di legno d’alta qualità sotto la quale si trovava, e suonò.
Attese.
Una giovane domestica, in kimono blu scuro, venne ad
aprirgli il grande portone d’ebano massiccio, sul quale troneggiava imponente
il simbolo della croce col ventaglio bianco e rosso.
Gettò un ultimo sguardo alla placca in ciliegio, sul quale
erano incisi e ripassati ad inchiostro nero, tre ideogrammi di hirigana: うさわ.
Gli si inchinò con molto rispetto, conducendolo attraverso
il giardino ben curato, in cui si sentiva il lontano scrosciare dell’acqua, che
probabilmente si trovava sul retro.
Entrarono dentro la dimora vera e propria. La ragazza ebbe
appena il tempo di farlo accomodare nell’atrio, che sul gradino, che segnava
l’inizio della parte della casa nella quale si doveva evitare di entrare con le
scarpe, per non rovinare il parquet di legno pregiato, tipico di una casa
orientaleggiante come quella, comparve un ragazzo. Era bello quanto un
sogno...sarebbe stato inumano riuscire a soprassedere a quegli occhi neri e
profondi, a quei capelli corvini, perfettamente pettinati e acconciati col gel
in modo tale che stessero tutti all’indietro. Un kimono nero, lungo anch’esso,
gli fasciava il fisico allenato, e il colore che sembrava dominare in tutto il
suo vestiario faceva un contrasto quasi accecante con quella pelle bianca e
vellutata, del medesimo tono della morte. Lo stemma familiare troneggiava
infine sulla schiena, mentre la stoffa che avrebbe dovuto ricoprire il petto
era tenuta leggermente lenta, così che non ci si doveva sforzare più di tanto
per vedere gli splendidi pettorali.
Costui fissava l’appena sopraggiunto ospite con intensità
non comune.
«A-Ah…signorino Sasuke-san…» sussurrò la cameriera, colta di
sorpresa e forse un po’ intimorita dall’aria di superiorità innata del giovane.
«Grazie, Tatsumi…ora lasciaci» mormorò, con una voce
profonda che fece vibrare sia la giovane che il ragazzo.
Quando il moro ritenne che ella si fosse allontanata a
sufficienza, mentre la guardava dirigersi verso un’altra ala dell’enorme casa,
tornò a posare il suo sguardo su di lui, che si stava togliendo con calma ed
attenzione le scarpe.
«Sei in ritardo, Naruto…» lo rimproverò, sempre con la voce
bassa che lo contraddistingueva.
L’altro mugugnò.
Sasuke si leccò le labbra, cercando di trattenere la voglia
che lo stava invadendo.
In realtà,
solitamente, non si faceva più di tanti scrupoli…
Ma in casa sua…
Sotto l’autorità indiscussa di suo padre…
In quei momenti…
Ogni cosa gli appariva sbagliata…
Tentò di distrarsi, convincendosi che, se pensava ad altro,
poteva non sentirsi a quel modo.
Non appena il biondo ebbe finito, gli voltò le spalle con
l’estrema disinvoltura che lo contraddistingueva, e s’incamminò per i lunghi
corridoi, perfettamente lindi, della casa in legno.
«…allora…come va?...com’è la situazione» chiese Naruto,
impacciato e intimidito da tutto quell’sovrannaturale silenzio al quale non era
abituato.
Sasuke sospirò quasi con gravezza.
«male, purtroppo…solo nell’ultima settimana, abbiamo
ricevuto tre rivendicazioni.
I nostri nuclei operativi sono sparsi per tutto il nono
Girone…va sempre peggiorando, di ora in ora…
Il clan Hyuga del quinto girone è in crisi totale»
Un altro sospiro, prima di riprendere a parlare.
« da parte mia, temo fortemente che, prima o poi, vengano
meno al patto di Hel e si rinchiudano in sé stessi, come sono soliti fare in
situazioni che faticano a controllare...
mio padre, però tiene molto alla loro alleanza…dice che
dobbiamo restare uniti…»
Si fermò di fronte all’apertura dell’ennesimo shoji.
Si girò, guardandolo negli occhi azzurri, intristiti e
preoccupati per il suo racconto.
«…ho paura…per questo sei qui…» ammise, per poi voltarsi e
far scivolare la porta di carta di riso sul tatami.
Entrarono in uno dei numerosi salotti, che poteva vantarsi
di essere uno dei più belli.
«aspettami qui. Vado a chiamare mio padre…mi raccomando,
lascia parlare me, qualsiasi cosa accada…»
così dicendo lo superò, concedendosi un lieve intreccio tra
le loro dita, che si strinsero con dolcezza.
Le une fredde, le altre tiepide…
Si strecciarono però nel giro di qualche secondo, come si
confà giustamente ad ogni contatto mangiucchiato dal fuori norma.
Così il secondogenito, quasi fosse stato rincuorato da quel
contatto umano, andò a cercare il capoclan degli Uchiha.
………continua………