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Autore: Hullabaloos    22/04/2012    5 recensioni
"Quel che voglio far capire, è di non considerare i personaggi come graziose bambole che danzano nel vostro teatrino. Può darsi che quanto racconterò stia accadendo anche su questa terra, chissà. Dopotutto, questa è solo la storia di anime perse in questo spazio e tempo indefinito, che intrecciano la loro esistenza seguendo un sottile filo comune, così facile da spezzare. Tutto quello che chiedono è di essere ascoltate"
Genere: Azione, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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Era iniziato tutto con quelle poche e semplici parole.

-Non sembriamo proprio una famiglia?-

Ricordo che tutti si voltarono verso il piccolo Peter, in piedi sulla panca su cui era seduto fino a pochi secondi prima. Da quale misterioso affranto della sua  piccola mente fosse uscita quella bizzarra domanda, non lo sapevamo. L’inglesino osservò ogni singolo viso dei presenti al tavolo, gli occhi azzurri grandi e brillanti e le braccia spalancate. Non ottenendo risposta, per cercare conferma alla propria teoria, si voltò verso il timido sorriso di Tino.

Dopo un breve silenzio di perplessità una fragorosa risata ci riscosse tutti. Mathias posò il boccale di birra con un tonfo e batté più volte le mani come un bambino eccitato.

-Si! Mi piace, mi piace come idea!-

Colpì più volte i palmi delle mani sul tavolo producendo un fracasso infernale. Alcuni membri dell’Aletheia si voltarono verso di noi. Vidi la donna dai lunghi capelli sorridere alla nostra direzione tirando la manica al proprio marito. Il pianista incrociò il mio sguardo, aggrottando lo sguardo in segno di disapprovazione. Adocchiai anche quello strano ragazzino che percorreva sempre i corridoi della sede coperto da quella enorme sciarpa. Qualcuno accanto a lui lo ammonì con un forte accento orientale.

-Ivan, non è buona educazione fissare le persone!-

Il bambino distolse gli enormi occhi viola dal loro gruppo per correre dietro alla figura dai capelli corvini.

D’un tratto, un lampo mi distolse da quella contemplazione. Vidi il pugno di mio fratello abbattersi con violenza inaudita sulla zucca di Mathias.

Sommerso dall’urlo di dolore del danese captai la voce di Niels sussurrare seccata:

-Comportati da adulto-

Il fratellone fece scomparire immediatamente quella minima traccia di emozione. Si rimise composto, le braccia posate sulle cosce.

-Idiota-, aggiunse tranquillamente.

-Niels, ma che ho fattoooo?-, piagnucolò Mathias, arruffandosi i capelli.

-Cretino-

-Ma Niels!-

-Insomma!-

Peter gonfiò le guance cercando di attirare nuovamente l’attenzione.

-Facciamo la famiglia si o no?-

Mathias balzò di nuovo in piedi.

-Niels farà la vecchia scorbutica, tanto per corporatura siamo proprio l-

Un nervo sulla fronte del fratellone. Brutto segno. Un tonfo e il danese si ritrovò piegato in due. Mi aveva sempre sorpreso questa sua vena autolesionistica.

-Uffaaaaa! Mi volete ascoltareee!-, piagnucolò Peter.

Con grande sorpresa di tutti noi, Berwald si mosse: si voltò lentamente e posò una mano sulla spalla di Tino con la sua solita espressione cupa.

-Mh-

Il finnico parve tanto stupito quanto intimorito.

-Tu sarai mia moglie-

Il viso del ragazzo passò per tutte le variazione di rosso e di viola. Tentò a divincolarsi e a torcersi per sottrarsi dalla presa dell’altro, lanciando contemporaneamente alti lamenti carichi d’imbarazzo.

Mathias lanciò loro uno sguardo allusivo. Ormai per nessuno era un mistero cosa ci fosse tra i due. Peter lì fissò imbambolato per poi ridere allegro. Si buttò fra i due abbracciandoli entrambi al collo.

-E allora sarò il vostro bambino!-

Mathias applaudì, deliziato.

-Si, si! E io sarò il fratellone!-

Seguì una piccola baruffa tra il danese e l’inglesino per decidere chi avrebbe dormito quella sera insieme ai genitori.

Sorrisi, osservando quella strana combriccola seduta intorno a quel tavolo.

Niels, il fratellone che mi aveva consolato e mi aveva stretto a sé in quella notte di tanti anni fa in cui una barca di Jardin ci rapì dal nostro villaggio a Nord.

Mathias, il capitano della barca che ci raccolse in mare dopo che l’imbarcazione degli zombi era affondata.

Tino, il cui vero Dono era stato quello di aver fatto sorridere per la prima volta Berwald.

Berwald, l’uomo cupo che aveva rischiato la vita per salvare Tino dall’attacco dei Jardin.

Peter, il misterioso ragazzino strappato dalla propria famiglia londinese e portato al sicuro all’Aletheia.

-Eirik, Eirik! Mi stai ascoltando?-

Tante storie, tanti ricordi, tanti dolori. Eppure ci trovavamo tutti i giorni lì a quel tavolo, come una piccola riunione di amici e parenti, ridendo, scherzando, dimenticando, riempiendo gli spazi vuoti del nostro cuore con un po’ di calore ed affetto.

-Insomma, Eirik! Vuoi rispondere?-

Sorrisi. Non era quello che in effetti faceva una famiglia? Sostenersi a vicenda?

Guardai ogni loro singolo viso, i miei amici, i miei compagni, i miei fratelli.

Calò il sole. Per l’ultima volta.

Le macerie della sede dell’Aletheia erano bagnate dal sangue del mio sangue. Quel poco di calore che avevano trovato i nostri cuori si dissolse nel freddo gelo dell’alba.

 

-Torneranno? Non è un bel po' che stai aspettando?-

-Non ti rendi conto che non c'è nessuno qui a parte noi? E se ci fossero, perché dovrebbero tornare per un fantasma?-

-...fantasma...?-

-...cosa stai dicendo...?-

-...io non sono morto...-

-...e loro torneranno...-

 

Arthur era seduto sul letto, la schiena poggiata contro il muro e le gambe incrociate, tenendo tra le mani l’amata chitarra elettrica. Le dita scivolavano lungo i tasti, stranamente impacciate. Tentava di concentrarsi solamente sulla sensazione dei polpastrelli che percorrevano le corde metalliche, ma dallo strumento provenivano solamente accenni di musiche, accordi stonati, melodie interrotte di botto.

Sospirando, lasciò perdere. Poggiò con delicatezza la chitarra accanto a sé. Portò le ginocchia al petto e li circondò con le braccia. Sbuffò nervosamente. Provò a voltarsi verso l’armadio.

Era ancora lì.

Distolse subito lo sguardo. Fece sprofondare il viso tra le braccia incrociate e, cercando di non farsi vedere, sbirciò nuovamente verso l’alto.

Era sempre seduto lassù. Era così da giorni. Precisamente da quello strano incontro con Alfred. Ricordava perfettamente il momento in cui l’americano si era allontanato, finalmente consapevole della strana posizione in cui si trovavano. Rivide quel sorriso impacciato e quel cenno di saluto, poi lo scatto della porta che si chiudeva dolcemente. Ripensava anche a se stesso, a come rimase fermo, intorpidito da uno strano calore che gli percorreva il corpo e da un piacevole e tiepido disordine nella testa. Lentamente si alzò, sentendosi un poco stordito. Poi lo vide.

Trasalì. Dal buio degli alti angoli della stanza, due occhi lo stavano fissando. Due sfere opalescenti che emersero con lentezza estenuante dall’oscurità. Prima il viso, il petto, poi le braccia e le gambe. Il fantasma fluttuò un poco, sospeso nell’aria come un ritaglio di carta. Iniziò a muoversi, trasportato da un vento inesistente. Danzò nel vuoto come una foglia di autunno e con la stessa tristezza graziosa di adagiò sopra l’armadio.

Qualcosa non andava. Arthur guardò nuovamente quegli occhi. Specchi di luce opaca. Pezzi di vetro incastonati in un viso di bambola. Lì il fantasma si lasciò andare e lì rimase immobile per giorni. Appena scorgeva l’inglese entrare nella stanza incatenava il suo sguardo al viso dell’altro, muovendo lentamente la testa in totale silenzio. Quelle pozze liquide così distanti perse in un lontano passato.

Arthur si portò una mano davanti agli occhi. Perché tornava in quella stanza? Non sopportava quello sguardo. Era terribile, non voleva diventare così. E si sentiva in colpa per quello che aveva detto.

“Davvero non sapeva di essere morto?”

Aveva un brutto presentimento. Un qualcosa gli stava sfuggendo, eppure sapeva che doveva assolutamente capire. Tutti i muscoli erano all’erta, sentiva le spalle dolergli per la tensione. Lanciò uno sguardo al ragazzino.

Un altro particolare lo inquietava maggiormente. La figura del fantasma non era più definita come un tempo. Adesso appariva come quelle fioche ombre evanescenti che lo avevano sempre seguito dalla sua nascita. I fini capelli argentati, le piccole narici, le labbra serafiche non erano più dettagli perfettamente cesellati da uno scultore. I tratti del viso erano smussati, come se le intemperie lo avessero consumato. Le linee delicate del piccolo corpo ondeggiavano rendendo il fantasma simile a un semplice riflesso dell’acqua. Da esso piccole gocce luminose si staccavo e fluttuavano come bolle di latte. Quelle piccole particelle si erano sparse per la stanza e sembravano piccole mani che lo carezzavano e bocche che sussurravano e sospiravano.

-Sono morto…-

Arthur alzò di scatto la testa. Quello che aveva sentito era davvero un sussurro?

-Io sono morto-

No, non si era sbagliato. Aveva visto le piccole labbra formare quelle due semplici parole.

Il fantasma sembrava testare quelle parole, come se ne assaporasse il gusto amaro sulla lingua. Si guardò le mani, forse capendo per la prima volta perché la propria pelle fosse così diafana.

-Sono morto-, ripeté con la voce leggermente rotta.

L’inglese vide con terrore gocce di luce rotolare da quegli occhi chiari. Lacrime?

-Fratello…-

Arthur si appiattì contro la parete. Le luci sospese nel vuoto iniziarono a vorticare sempre più velocemente. Sfrecciavano accanto al suo viso, lasciando dietro di sé una scia argentata. Sembravano riunirsi in quel punto sopra l’armadio.

-Fratello!-

Le particelle bianche sfrecciavano così veloci da produrre un fischio acuto. Il vento causato dal loro movimento sembrava quello di una bufera. Arthur guardò atterrito una piccola sfera crearsi davanti al fantasma. Adesso le comete si congiungevano lì, venendo inglobate da quella massa bianca. Man mano che le luci venivano assorbite, quel globo in miniatura aumentava di densità e rimpiccioliva.

La mente dell’inglese fu attraversata da un lampo di comprensione. Balzò in piedi e si lanciò disperatamente verso la porta.  Troppo tardi.

Il piccolo sole bianco implose. Un’enorme luce bianca si espanse avvolgendo tutto quello che incontrava.

Sentì nuovamente quella sensazione. Lui non esisteva. Lui era il Buio. Lui era il Nulla.

 

Alfred stava correndo verso la stanza di Arthur. Il cuore gli batteva all’impazzata, l’eccitazione che faceva vibrare ogni singola cellula del suo corpo. Feliciano era scappato e si era precipitato in un vespaio di Jardin. Un enorme sorriso comparve sul suo volto accaldato. Finalmente avrebbe avuto l’occasione di mostrare ad Arthur quanto valeva. Con un pizzico di perfidia pensò al dislivello tra loro due in campagna. L’inglese se la cavava, certo, ma quella era la sua prima battaglia!

Si perse in una fantasticheria in cui lui, l’eroe, salvava l’altro circondato da zombie.

D’un tratto, un urlo squarciò il silenzio. Il suo cuore si fermò per un istante.

Arthur. Quella era la voce di Arthur! E proveniva dalla sua stanza!

L’americano iniziò a correre più forte che poté.

-ARTHUR!-

Aprì con violenza la porta. Si bloccò.

-Cos…?-

Il varco della camera era completamente coperto da un portale. Non erano forse simile a quelli creati di Francis? Allungò una mano e la immerse con cautela in quello specchio. La ritrasse di scatto con una smorfia. Non c’erano dubbi: quella sgradevole sensazione era inconfondibile.        

Ma cosa diavolo ci faceva un portare nella stanza dell’inglese? Quella non poteva essere opera di Francis, sapeva che si era già precipitato in città insieme a Gilbert! Chi aveva allora creato quel varco?

S’agitò. Cosa doveva fare? Doveva raggiungere gli altri! Ma Arthur? Non si era sbagliato! L’urlo era di Arthur e proveniva proprio da dentro il portale! Gli era forse successo qualcosa? Era stato risucchiato dalla massa bianca?

-Ma la battaglia…-

Lui era l’eroe! Avrebbe dovuto salvare migliaia di persone! Eppure stava esitando lì davanti per il destino di una singola!

Si fermò. Guardò fisso la superficie lattea. Non poteva negare: nella sua mente sapeva già cosa fare. Trattene il fiato e si gettò tra quelle acque fredde.

Il perché una sola vita gli sembrò più importante di tutte quelle altre al mondo, beh, questo non se lo sapeva spiegare.

 

Feliciano sentiva il petto scoppiargli. Correva per i vicoli della città senza un percorso preciso da seguire. Strade, vicoli, svolte. Tutte queste gli passarono davanti agli occhi come un confuso ammasso di mattoni e calce senza senso. Era dentro un labirinto senza uscita. Ma non poteva fermarsi. Non poteva, non dopo aver sprecato così tanto tempo.

Urlò il suo nome.

Ogni respiro era una tortura, il fiato gli raschiava la gola, ma questo non lo avrebbe fermato.

-Lovino!-

Il suo grido si propagò nella via, ribalzò sulle pareti e lo colpì in tutta la sua disperazione.

Strade, strade e ancora strade. Tutte uguali, tutte, tutte!

Sentiva che le gambe avrebbero ceduto da un momento all’altro. Strinse i denti e continuò nella sua folle corsa. Non c’era più tempo, non poteva, non poteva!

-LOVINO!-

Nulla gli rispose, la sua voce si disperse tra onde che s’infrangevano sulle pietre del porto su cui era appena arrivato.

 

Antonio sollevò gli occhi: Lovino si era improvvisamente irrigidito e aveva alzato gli occhi dal suo piatto.

-Cosa c’è, Lovi?-

-Non lo hai sentito?-

L’italiano si alzò di scatto dalla sedia. Restò immobile, i muscoli tesi, gli occhi fissi davanti a sé.

-Sentito cosa?-

Lovino sembrò irritarsi, ma non rispose. Lo spagnolo si girò e cercò di intercettare cosa avesse catturato lo sguardo dell’altro. Non riuscì però a capire cosa trovasse di così interessante nelle crepe di una parete ammuffita. Lasciò vagare lo sguardo un po’ più avanti: figure losche lanciavano occhiate curiose interrogandosi sullo strano comportamento dell’italiano. Non osavano posare gli occhi sulla sua figura per poco più di qualche secondo e tornavano così a fissare il proprio boccale. Antonio si permise un piccolo sorriso: la fama dell’italiano lo precedeva.

Si voltò nuovamente, guardando l’altro: era sempre nella stessa posizione.

All’improvviso sentì il tavolo tremare per un attimo. Rivolse uno sguardo confuso al ragazzo: Lovino aveva gli occhi sgranati e il viso pallido.

-Lovi, cosa…?-

Poi lo sentì. Tese l’orecchio: un rumore, anzi, una voce. Una voce straziante che si prolungava per qualche secondo per poi ricadere nel vuoto. Gli sembrava così familiare, come se fosse di…

Capì.

-Lovino!-

Allungò una mano per afferrargli il braccio. Troppo tardi: Lovino si era già precipitato tra i tavolini della locanda, travolgendo chiunque intralciasse il suo cammino.

-No!-

Antonio si precipitò verso l’altro.

-Lovino, aspetta!-

L’italiano non si fermò, continuò a correre come un forsennato verso la lunga scala che lo avrebbe condotto all’esterno.

No, no, no!

-Lovino, fermati!-

Quella voce là fuori continuò a urlare.

Doveva fermalo! La città era piena di Jardin…! Smettila, smettila di urlare! Così li avrebbe attirati tutti fuori…! No…!

 

Lovino spalancò la porta ed emerse dalla buia locanda. La forte luce del giorno lo ferì. Si portò una mano a pararsi gi occhi. Cercò di lanciare uno sguardo al di là delle dita aperte.

Non poteva essersi sbagliato. Sentiva il battito nel cuore rimbombargli nella testa. Doveva essere lì, da qualche parte…!

-Lovino!-

Si voltò. Gli mancò il respiro. Era lui. Non un tratto familiare nel viso di uno sconosciuto, non un mantello sospetto che voltava velocemente un angolo della strada.

-Feliciano…-

Un sussurro quasi incredulo. Sentì gli occhi inumidirsi. Senza accorgersene, mosse lenti passi verso il fratello, per poi correre a perdifiato. Anche l’altro si slanciò nella sua direzione.

Voleva stringerlo a sé, sentire il suo corpo, scacciare quella stupida paura che insinuava malignamente nella sua mente che quello non fosse che l’ennesima ombra.

-Feliciano!-

Non lo avrebbe più perduto. Non sarebbe più scappato. Non lo avrebbe più lasciato andare. Avrebbero vissuto per sempre nella loro piccola soffitta romana.

D’un tratto, suo fratello si fermò di botto. Come se il tempo fosse rallentato, lo vide sgranare gli occhi, il sorriso risucchiato in un’espressione di puro terrore. Il suo braccio si alzò, il dito indicò qualcosa dietro le sue spalle. Ebbe appena il tempo di vedere quell’unica, terribile parola sulle sue labbra prima ancora del suono della sua voce. Sentì il grido di Antonio dietro di sé. Un forte odore di carne putrefatta colpì le sue narice.

-LOVINO, ATTENTO!-

 

 

Note d’Autrice

 

Ebbene sì, ci siamo.

La grande battaglia sta per iniziare.

Chi sono coloro che hanno attaccato alle spalle Lovino? Gli altri riusciranno a salvarlo in tempo? Tutto questo era nei piani di Heracles? E come è collegato Eduard in tutto questo?

E poi, cosa è successo nella camera di Arthur? Che fine ha fatto l’inglese e l’americano? Perché il portale è così simile a quello di Francis?

Tutto questo nella prossima puntata! :D

*l’Autrice scompare tra nuvole di fumo*

Ah, il nome del capitolo è preso dalla canzone Illuminated degli Hurts che consiglio di ascoltare leggendo il capitolo.

   
 
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