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Autore: Elos    28/04/2012    29 recensioni
La casa di Ron non era come da ragazzo l'avrebbe immaginata. [...]
A sedici anni Ron aveva sognato la sua grande casa, che a quel punto non importava fosse veramente ricca, da dividere con Hermione; e aveva sognato che la casa di Harry fosse proprio accanto alla loro – la casa di Harry e di Ginny – e che anche i loro piccoli bambini avessero i capelli rossi, e che... e che fossero come fratelli. Anche loro.
Perché lui ed Harry erano stati come fratelli.
Era per questo che era stato così terribile, poi.

Prima Classificata al concorso "Le tragedie greche" indetto da Ray08.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Ron Weasley
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
- Questa storia fa parte della serie 'Undici giorni verso Hogwarts' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Il tempo che occorre



La casa di Ron non era come da ragazzo l'avrebbe immaginata.
Quand'era stato bambino aveva sognato una grande casa molto ricca, con molte stanze che non avrebbe dovuto dividere con nessuno dei suoi numerosi fratelli e porte che si sarebbero potute chiudere tutte a chiave e niente che sbattesse le catene in soffitta. La casa di Ron sarebbe stata la casa di un uomo benestante, e non ci sarebbero stati mobili rotti che nessun incantesimo era più in grado di riparare – perché c'era un limite a quel che la magia poteva fare per rimediare alla povertà discreta di qualcuno che lavorava molto e guadagnava poco – né gradini sconnessi che cigolavano quando qualcuno ci saliva sopra.
Aveva sognato dapprima una grande casa molto ricca e poi una casa un po' meno ricca, forse, ma che fosse anche la casa di Hermione.
Quelli erano stati i sogni dei suoi sedici anni: una casa dove ci sarebbe stata una stanza piena di libri... stanze su stanze piene di libri, perché una sola camera non poteva contenere tutto quel che Hermione sapeva... e un'altra stanza dove lei e lui avrebbero trascorso insieme ogni notte della loro vita, così vicini che le loro pelli si sarebbero mescolate, i loro odori sarebbero diventati uno solo, e al mattino si sarebbero svegliati senza riuscire a distinguere dove cominciava l'uno e dove finiva l'altro. Aveva sognato una grande casa non proprio ricca, perché nel sogno c'erano i bambini: tantissimi bambini, bambini con i capelli ricci e bambini con i capelli rossi, e tutti molto intelligenti – perché quella era una cosa che era meglio che i piccoli prendessero da Hermione, davvero. Li avrebbero viziati. Avrebbero comprato loro tutto quel che mai avrebbero potuto desiderare, e non ci sarebbero stati vestiti di seconda mano per i suoi bambini, né libri usati o vecchie bacchette malmesse quando fossero finalmente entrati ad Hogwarts, non se Ron poteva fare qualcosa per impedirlo, nossignore.
La sua casa non sarebbe stata ricca perché – esattamente come nella casa di suo padre e sua madre – tutto quel che sarebbe stato guadagnato sarebbe andato a loro. Ai bambini di Hermione.

Ron veniva da una famiglia di sette persone, sette fratelli che per tanti anni erano stati come un fronte unito, e nessun litigio era riuscito mai a spezzare davvero quel che erano: perché Percy era tornato tra loro, quando la guerra era iniziata e le cose si erano fatte veramente brutte, perché George e Fred lo avrebbero spalleggiato qualunque sciocchezza, errore ed orrore avesse commesso, perché... perché Bill o Charlie o Ginny avrebbero fatto lo stesso, e i loro genitori li avevano cresciuti così, era impensabile fare diversamente.
Anche lui ed Harry erano stati come fratelli. Era per questo che quel che era successo era stato così terribile, poi.
A sedici anni Ron aveva sognato la sua grande casa, che a quel punto non importava fosse veramente ricca, da dividere con Hermione; e aveva sognato che la casa di Harry fosse proprio accanto alla loro – la casa di Harry e di Ginny – e che anche i loro piccoli bambini avessero i capelli rossi, e che... e che fossero come fratelli. Anche loro.
Perché lui ed Harry erano stati come fratelli.
Era per questo che era stato così terribile, poi.

La casa di Ron, adesso, era una casupola che avrebbe reso orgoglioso Aberforth Silente... se Aberforth Silente fosse stato ancora vivo per poterla vedere, certo. Aberforth era morto una quarantina d'anni prima, nel pieno della sua serenissima vecchiaia e tra le sue capre e i suoi cavoli, dopo aver lasciato la gestione della Testa di Porco a Fred e George, che erano stati felicissimi di rilevarla. Era morto da solo, ma tutti sapevano che la sua misantropia non era qualcosa di fittizio, qualcosa alla... qualcosa alla ho bisogno di tanta comprensione e di tanto amore ma non so come chiederli, più qualcosa sul genere di toglietevi dai piedi, tutti, e parlo sul serio. Era stato accontentato. Tutti si erano tolti dai piedi: ma, lo stesso, tutti sapevano che Ariana doveva essere venuta a prenderlo, quand'era stato il suo momento, perché Aberforth era stato trovato seduto sui gradini di casa con un gran sorriso sulle labbra.
La casa di Ron, adesso, era una casupola che avrebbe reso orgoglioso Aberforth Silente: strillava lasciatemi in pace da ogni mattone crepato, da ogni finestra con le imposte di legno scuro, da ogni porta dagli infiniti chiavistelli. Al pianterreno c'era un soggiorno dove la polvere si depositava come un tappeto sull'impiantito di legno. La poltrona di cuoio – l'unica poltrona di tutta la casa – aveva lo schienale rivestito da una coperta a quadri che doveva aver visto giorni migliori; le quattro gambe del tavolo avevano quattro lunghezze e quattro angolature diverse, perché Ron poteva aver appreso come si costruiva un tavolo con chiodi e martello, alla Babbana, sicuro, ma certo non aveva la destrezza necessaria a comprendere i sottili meccanismi dietro al funzionamento del filo a piombo. C'erano due sedie, e su una delle due non ci si era mai seduto nessuno. C'era una libreria dove una scansia era stata riempita da una fila di libri di scuola religiosamente conservati, spolverati e accuditi, e tutte le altre erano vuote: perché con cosa avrebbe potuto riempirle, lui?
Lui non era Hermione.
Il piano di sopra recava tracce del probabile passaggio di Molly Weasley: un soprammobile, uno scendiletto dal rivestimento lavorato all'uncinetto, una sovraccoperta dai colori caldi. Ma erano tracce evidentemente di vecchia data.
C'era una fotografia accanto al letto: nella fotografia tre ragazzi di tredici anni avevano le braccia buttate l'uno attorno alle spalle dell'altro e sorridevano alla macchina come non avessero avuto un pensiero al mondo. Non era così, ovviamente: già ai tempi di quella foto Harry aveva cominciato a soffrire di gran mal di testa che gli spaccavano la cicatrice, e lui ed Hermione avevano salvato Sirius, avevano affrontato i Dissennatori, e loro tre insieme avevano salvato la Pietra Filosofale, aperto la Camera dei Segreti, Allock aveva cercato di Obliviare Harry e Ron e Ginny era quasi morta per questo... C'erano stati pensieri, nella testa di tutti e tre, che erano già pensieri da vecchi. Un anno più tardi Voldemort avrebbe fatto ritorno. Tre anni più tardi sarebbe scoppiata la guerra. Otto anni più tardi uno di loro sarebbe morto.
Era una fotografia che mentiva, ma Ron l'amava così com'era.
Ad ogni modo, l'interno della casa era più ospitale dell'esterno, poco ma sicuro, con i suoi mattoni crepati, le imposte di legno, le porte e i chiavistelli. E se non fosse bastato l'aspetto stesso della casa a scoraggiare i visitatori, be', ci avrebbe pensato la locazione.
La casa di Ron era da qualche parte nel Galles. Non aveva niente, attorno, se non colline, colline, ancora colline, uno stagno, alberi e altopiani erbosi. Il villaggio più vicino era a mezz'ora di macchina. La città meno lontana... be', erano tutte lontane. C'era una stradina che portava fino in cima alla collina. Sterrata. Tutta curve. Senza staccionata. Nessuna indicazione. Ron aveva girato parecchio per riuscire a trovare un posto così, e ne era stato estremamente soddisfatto.
La casa di Ron non era per niente come da ragazzo l'avrebbe immaginata.
Innanzitutto, era la casa sola di un uomo solo.



Il giorno terribile in cui Ron ed Harry avevano litigato era stato lo stesso che tutto il Mondo Magico avrebbe festeggiato, poi, come il giorno dell'Ultima Battaglia.
Avevano avuto cinque anni di guerra orribile e oscena, e ne avrebbero portato sempre le cicatrici addosso: e alcune sarebbero state visibili, i segni della tortura sulla schiena di Ron, quella volta che Greyback e i suoi erano riusciti a mettergli le mani addosso, l'ustione sul braccio destro dove si era preso un Incendio per cercare di proteggere la McGranitt, il taglio sul petto che era l'ultimo ricordo orribile di Peter Minus; altre di quelle cicatrici, invece, nessuno avrebbe potuto mai vederle – ma sarebbero state sempre lì. Sarebbero rimaste loro dentro.
Il giorno terribile in cui Ron ed Harry avevano litigato era stato quello dell'Ultima Battaglia. Era stato anche l'ultimo giorno in cui Ron aveva visto Harry, l'ultimo giorno in cui loro due si erano coperti le spalle, l'ultimo giorno in cui avevano avuto – in cui tutti avevano avuto – Hermione ancora viva, respirante, e al loro fianco.
Quel giorno Ron era sceso nelle strade di Diagon Alley convinto che non sarebbe sopravvissuto per vedere il sole tramontare: i Mangiamorte erano stati come un'orda nera, più fitta e folta e numerosa di quella dei Dissennatori – ed anche di Dissennatori ce n'erano tanti, troppi, e divoravano la speranza che una vittoria potesse essere possibile – e quelli dell'Ordine erano rimasti in pochi.
Ma poi la gente di Diagon Alley era calata nelle vie per combattere, tutti, uomini e donne e vecchi, perfino i ragazzini, i bambini, quelli troppo piccoli per battersi, tutti con una bacchetta in mano perché quel giorno si decideva il destino del Mondo Magico e nessuno voleva permettere che fosse Voldemort a stabilirlo. Erano arrivati gli abitanti di Hogsmeade. Gli elfi domestici, in massa, erano sciamati da Hogwarts e avevano cominciato a far volare pentole piene d'olio bollente sulle teste dei Mangiamorte, scope che li inseguivano come dotate di vita propria e li picchiavano sulle teste e sugli stinchi; erano venuti armati di coltelli da cucina ed erano rimasti in tanti sul terreno, tra i Maghi e i Babbani... perché c'erano stati anche i Babbani, lì. Cinque anni di guerra non avevano risparmiato neanche loro – e ne sarebbero occorsi dieci, di anni, poi, per cancellare tutte le memorie, ripristinare uno strato di ricordi fasulli, rimettere in piedi e in funzione lo Statuto di Segretezza Internazionale. I Babbani erano arrivati con le loro armi che non sempre funzionavano contro i Maghi e con il coraggio dato dalla disperazione, perché se non avessero vinto oggi non ci sarebbe stato nessun domani, mai più, non per loro.
Ron aveva ritrovato la speranza: aveva creduto che avrebbero potuto farcela e che, se anche non ce l'avessero fatta, forse qualcuno sarebbe sopravvissuto, forse qualcuno sarebbe riuscito a scappare, a mettersi in salvo, e a riprendere la guerriglia il giorno dopo. La speranza era stata come una tazza di cioccolata calda dopo una camminata nel mezzo dei Dissennatori, come la luce del mattino, come la prima boccata d'aria buona dopo essere riemerso dal lago di Hogwarts. Era stato magnifico.
Ma nel mezzo di tutta quella speranza che si era levata come un'onda da ciascuno di loro, con i Patronus che brillavano come stelle scese in terra e le grida e le urla e le esplosioni, Harry Potter aveva attraversato Diagon Alley ed era andato a mettersi proprio di fronte a Voldemort. Aveva tenuto una strana pietra scura tra le mani ed aveva camminato con la testa inclinata da una parte, aveva avuto una strana espressione vacua e persa sul viso pallido e affilato, e tutti quelli che lo stavano guardando avevano tremato davanti all'impressione tremenda che stesse ascoltando i morti. Non aveva fatto niente per difendersi, non aveva alzato la bacchetta, non si era... non si era ritratto, non aveva cercato di...
Avevano urlato tutti.
E poi Harry era caduto.

Quella era la prima cosa per la quale Ron l'aveva odiato. Per essere caduto.

L'aveva accusato di tutto, dopo. Di non essersi fidato di loro e di aver tenuto tutto per sé, il segreto confidatogli da Severus Piton, ex-Mangiamorte e spia, meno di un'ora prima che l'Ultima Battaglia iniziasse, la storia dell'ultimo Horcrux, il suo ridicolo piano per arrivare davanti a Voldemort e farsi uccidere da lui – solo da lui. Di aver fatto l'eroe ancora una volta, di aver ucciso Hermione. E poi, la cosa più oscena di tutte, l'aveva accusato di essere sopravvissuto, di essere rimasto in vita – di respirare, ancora, quando Hermione non respirava più.
L'aveva accusato di tutto, dopo, tranne dell'unica cosa che fosse vera.
Che Harry fosse andato a morire, e che ci fosse andato senza di lui.

Mentre Ron lo accusava e lo incolpava, mentre gli scaricava sulle spalle il fardello di tutte le cose che erano andate male, Harry era sbiancato. Era stato pallido e ferito, e Ron l'aveva odiato orribilmente.
Aveva pensato che il sangue di Hermione era sulle sue mani, e che non c'era niente che avrebbe potuto rimettere a posto le cose, adesso, niente che avrebbe potuto restituire il respiro al petto di Hermione e la vita ai suoi occhi e la pace a tutti e tre, e senza di lei erano come una cosa rotta, una sedia senza una gamba.
Il viso morto di Hermione fissava il cielo, il suo cadavere sdraiato sul selciato a pochi passi da loro, mentre Ron scrollava Harry e lo respingeva. Lo aveva guardato con disgusto, lo aveva guardato dall'alto verso il basso. Harry si era coperto il viso e lo aveva pregato d'andarsene, e poi non ce l'aveva fatta più: Ron non lo sapeva ancora, allora, che con la morte di Voldemort Harry era stato riempito da tutto il suo potere, come una massa di piombo fuso e nero che gli era colata dentro e che si era mescolata alla magia con la quale era nato. Il dolore di Harry era stata come una miccia accesa sulla polvere da sparo – e c'era n'era stata parecchia da accendere – e il cratere che era risultato nel mezzo di Diagon Alley era stato grosso come il Paiolo Magico.
Tutto sommato, era un miracolo che nell'esplosione non fosse morto nessuno.
Dentro di sé Ron l'aveva odiato anche per quello: perché anche nel mezzo del suo orribile, orribile dolore – perché Harry doveva essere stato pieno di dolore, ce l'aveva avuto scritto in viso, negli occhi – era stato in grado di non far male a nessuno.
Quando Ron, invece, avrebbe voluto solo ucciderli tutti, loro che osavano respirare quando Hermione non poteva più.



Guardandosi allo specchio, adesso, tutto quel che Ron vedeva era un uomo grigio e cupo. Non aveva più i capelli rossi, ed era stempiato, proprio come suo padre era stato. I suoi anni di grazia erano svaniti in una nuvola di fumo, molti anni prima, all'ombra verde di un'Avada Kedavra.
Che fosse stato Peter Minus a scagliarla forse non aveva veramente importanza. Ron l'aveva ucciso, poi, Minus, ma questo non era servito a riportare indietro Hermione. Niente poteva.

Ron aveva odiato Harry, al principio.
L'aveva odiato per non essersi fidato di loro, per aver tenuto tutto segreto, per aver fatto l'eroe, perché Hermione si era messa in mezzo tra lui e la bacchetta di Peter Minus ed era morta al posto suo, perché era sopravvissuto ancora una volta. Perché era andato a morire senza Ron. Per essere potente, per essere forte, per essere davanti a lui in tutto, per respirare ancora quando Hermione non respirava più, per aver fatto dire e pensare a Ron cose orribili e oscene, pensieri gonfi d'invidia e di amarezza.
Ron aveva odiato Harry, al principio: e poi aveva preso ad odiare sé stesso, e le ragioni per le quali si era odiato erano le medesime, perché non si era fidato di Harry, perché gli aveva tenuto nascosto i suoi orribili, osceni pensieri invidiosi e amari, perché Harry aveva fatto l'eroe e Ron, invece che spalleggiarlo, l'aveva accusato, perché c'era stata Hermione a mettersi tra Harry e la bacchetta di Peter Minus, e non Ron, perché Harry era sopravvissuto e Ron, invece che ringraziare Dio e Merlino e tutti i santi dei quali conosceva i nomi per averlo tirato fuori dalla morte ancora una volta e riportato da loro vivo e intero, aveva sputato su quell'infinito, incredibile dono.
Si era odiato per tutto quel che gli aveva detto. Perché Harry era sbiancato, ed era stato pallido e ferito.

Gli erano occorsi anni per arrivare a comprendere l'orribile errore che aveva commesso: tutti quegli anni li aveva trascorsi nella sua casa nel Galles, pagata dall'indennizzo di guerra generosamente conferitogli dal Ministero insieme alla sua medaglia, Ordine di Merlino, Prima Classe, che era immediatamente finita a fare compagnia al limo nel fondo dello stagno dietro casa. Harry non era neanche andato a ritirare la sua, di medaglia. Non era andato neanche al funerale di Hermione – o, se c'era andato, Ron non l'aveva visto. Forse Harry aveva avuto paura di incontrarlo.
Tramite sua madre, che era stata l'unica, in famiglia, a parlare ancora con Ron dopo il giorno dell'Ultima Battaglia, lui aveva scoperto che Harry era scomparso per quasi due settimane, per poi ricomparire ad Hogwarts; era lì che Luna Lovegood l'aveva intercettato. La McGranitt gli aveva offerto dapprima il lavoro di custode, per sostituire Gazza, morto durante la guerra, e qualche anno più tardi un posto da insegnante – Difesa delle Arti Oscure, ad occupare la cattedra che un tempo era stata di Remus.
Ron non riceveva lettere da nessuno che non fosse Molly. Non voleva leggere i giornali. Non aveva una radio, in casa, non aveva niente che potesse collegarlo al mondo esterno. Il mondo era morto con Hermione. Lui era morto con Hermione: stava solo aspettando che arrivasse il momento giusto, per lei, di venirlo a prendere.
Tutte le sue notizie giungevano tramite Molly, ed erano notizie ingentilite, raddolcite, notizie che cercavano di spronarlo a tornare da loro, a parlare con Harry, a spiegare ad Harry, a capire Harry, perché sembrava che Harry faticasse a muoversi in un universo dove sul terreno non ci fossero le ombre di Ron ed Hermione proprio accanto alla sua.
Ma a Ron erano occorsi anni interi per arrivare a comprendere l'orribile errore che aveva commesso, lunghissimi anni trascorsi nella casa nel Galles, senza parlare con nessuno se non con sua madre e con il fantasma che dimorava nel suo giardino, nelle sue stanze, nello stagno.
Quando Ron aveva compreso, finalmente, le lettere di Molly avevano smesso di arrivare da un pezzo; era Arthur a scrivergli, adesso, perché Molly era andata a far compagnia ad Hermione sotto il peso lieve della terra verde. Era stata vecchia ed era stata stanca ed era morta circondata dai nipoti, dai figli, dalle nuore e dal genero, con l'unico dolore di quel figlio lontanissimo che viveva come un'isola in mezzo al niente.
Quando Ron aveva compreso, finalmente, lui stesso aveva doppiato il traguardo dell'età adulta e si muoveva nei terreni della mezza età; ed Arthur gli scriveva di aver cominciato ad avviarsi serenamente verso la morte, di aver vissuto anche troppo a lungo, di non desiderare null'altro, adesso, se non di ritrovare la madre dei suoi figli in qualunque posto ci fosse ad attenderlo dopo.
Quando Ron aveva compreso, finalmente, erano passati tanti di quegli anni che aveva pensato fosse troppo tardi. Era troppo tardi, troppo tardi.
Aveva capito tutto troppo tardi.

Sognava Hermione tutte le notti.
Sognava le mani bianche di Hermione, il modo in cui avevano girato il tè nella tazza, dita lunghe ed eleganti strette attorno al cucchiaio – mentre lo batteva, nervosamente, sull'orlo del piattino. Era stata sempre molto nervosa durante gli ultimi anni, Hermione, con la testa sempre piena di pensieri, piani e progetti, di idee, di tutto quel che potesse contribuire a vincere e a salvare.
Sognava il viso di Hermione incorniciato dalla sciarpa rossa di Grifondoro – l'aveva vista così tutti gli inverni per sei lunghi anni, sei inverni, ed era il modo di lei che aveva più familiare, quello con il sapore dei tempi più buoni – e la schiena di Hermione curva sotto il peso di una cartella piena di libri. La schiena dritta di Hermione il giorno del Ballo del Ceppo, come alla luce delle candele i suoi capelli si erano fatti di miele e d'oro contro il blu luminoso del vestito.
Ron aveva passato la vita a rimpiangere quel che aveva avuto, un poco, per un poco. Aveva passato tutta la vita a rimpiangere.
E aveva odiato Harry, al principio, ma poi aveva preso ad odiare sé stesso: ed era stato difficile smettere, dopo.

Certe volte camminava fino allo stagno, zoppicando per quel dolore all'anca che l'aveva preso in vecchiaia e che non sembrava volersene andare, e seguiva il ruscello fin quando questo non andava unirsi all'altro torrente, quello più grosso, più bello e più limpido, sul dorso della collina accanto alla sua. Era pieno di lontre, lassù, lontre dal pelo lucido nell'acqua bassa e splendida come il vetro, verde come i sogni dei suoi giorni di Hogwarts.
C'erano state volte in cui aveva camminato fino allo stagno, e da lì fino al torrente, e tra le lontre scure gli era sembrato di vederne una bianca: ma era un'illusione, era stata sempre un'illusione. Vedeva quel che desiderava vedere.



Erano stati come fratelli, lui ed Harry. L'aveva abbandonato nel momento del bisogno. Gli aveva lasciato il peso del sangue sulle spalle, quando quel peso era stato da distribuire, da condividere: Hermione l'aveva saputo, questo. Lei, il suo fardello, se l'era caricato in spalla.
Se c'era un girone per gli imbecilli, Ron pensava che un posto lì doveva essere stato previsto per lui – sempre che non gliene avessero riservato uno due gironi più in basso, nel settore dei traditori. Dopotutto, lui era stato poi molto meglio di Peter Minus?
Entrambi avevano tradito nel momento del bisogno.
Gli erano occorsi anni per capire che emerito, sommo, disastroso imbecille fosse stato, ma adesso lo comprendeva: la vecchiaia aveva stemperato l'odio, tutto, quello per Harry e quello per sé, l'orrore dei giorni della guerra, l'atroce dolore per le cose che aveva perduto. Era rimasto il rimpianto amarissimo del tempo sprecato, dei sogni scivolati via uno alla volta.
Dicono che gli uomini orgogliosi imparino in vecchiaia ad essere saggi. Tutto l'orgoglio che era rimasto a Ron, tutto l'orgoglio che l'aveva reso invidioso, che l'aveva riempito di rabbia, che l'aveva reso cieco e avventato per un orribile, orribile, orribile momento di troppo, ebbene, tutto quell'orgoglio se n'era andato un po' alla volta: se n'era andato nel riflesso della luce sull'acqua verde dello stagno, nel silenzio della casa quieta e deserta, nel sibilo del vento tra le imposte sbarrate. Se n'era andato ogni volta di più in tutti i giorni in cui aveva ripensato al viso pieno di dolore di Harry e si era sentito morire per il senso di colpa.
Le colline del Galles possono essere un posto molto triste e molto sgombro per stare da soli. Possono lasciare molto tempo per pensare. Molto tempo per la colpa.



Non aveva avuto bisogno di Sibilla Cooman, il giorno in cui si era svegliato e aveva sputato nel lavandino un grumo di sangue grosso come un pugno, per capire che i suoi giorni erano agli sgoccioli: lo aveva sentito nel tempo disarmonico della sua gamba debole, negli scricchiolii della sua anca dolorante, in quel grumo vivo che gli cresceva nello stomaco e sembrava voler risalire verso il petto. Se si toccava la pancia, premendo con la punta delle dita, gli pareva quasi di poterlo percepire.
Suo padre Arthur se n'era andato da otto anni. Era stato vecchio, vecchissimo. Aveva avuto una vita lunga. Molti nipoti. Sua moglie gli mancava orribilmente, e Ron era sorpreso che non se ne fosse andato prima, per raggiungerla, per stare con lei. Dio solo sapeva se lui non avrebbe voluto poter fare lo stesso – ma il posto dove ora era Hermione non era lo stesso in cui sarebbe andato Ron. Certo non c'era stato un girone degli imbecilli per lei, ancor meno quello dei traditori. Hermione si era caricata il suo fardello. Hermione aveva capito prima di chiunque altro.
Ron sapeva da sempre che sarebbe morto lì, sulle colline del Galles, e che sarebbe morto da solo: ma saperlo e saperlo erano due cose diverse e... e faceva male. Faceva malissimo.
Aveva cacciato e respinto i suoi fratelli, anni e anni e anni prima, e non sarebbero più tornati da lui. Avrebbe potuto cercarli – ma per cosa? Per rovinare loro la vita con il peso di un vecchio storpio e morente che in quei decenni di silenzio era diventato poco più che uno sconosciuto? Nossignore, no. Non se Ron poteva fare qualcosa per impedirlo. Aveva fatto abbastanza per ferirli, tutti, e così come non aveva avuto il diritto di cercare Harry, ebbene, non avrebbe cercato neanche loro.
Le lettere avevano smesso di arrivare con la morte di Arthur. L'ultima era stata quella con cui a Ron era stata annunciata la data del funerale, firmata da Ginny e da Bill.
Non era andato al funerale. Non aveva neanche risposto. Che cosa avrebbe potuto dire? Era stato lui a respingerli.
Ron aveva pulito il grumo di sangue nel lavandino e aveva messo il pensiero della morte imminente da una parte. Forse Poppy avrebbe potuto guarirlo – ma Poppy Chips era morta prima dell'Ultima Battaglia, una vita prima. C'era sempre il San Mungo... ma non ne valeva davvero la pena. Tutta quella strada. Tornare nel mondo, tornare fuori. Per cosa? Ron non sarebbe mancato a nessuno. Non aveva mai fatto niente per meritare di essere rimpianto.
Perciò, da una parte.
Era andato avanti con la sua vita e aveva continuato a fare lunghe passeggiate sulle rive del torrente, a riparare meglio che poteva le vecchissime imposte di legno della sua casa in penombra, a cercare la lontra bianca nell'acqua dello stagno. Quando il dolore si faceva troppo forte prendeva una Pozione a base di camomilla e papavero che per un po' sembrava dare sollievo: c'era un dottore in un paese a un paio d'ore di cammino, dove Ron andava a fare la spesa con quel che restava del generoso indennizzo ministeriale ricevuto alla fine della guerra, ma per andare da un medico e farsi prescrivere antidolorifici servivano documenti, un'identità, certificati, tutte cose che Ron non aveva nel mondo Babbano. Le opzioni che restavano erano camomilla e papavero.
Arrivò il mattino in cui dovette fabbricarsi un bastone, perché l'anca gli doleva come fosse rotta e posare il piede a terra, così, era pura tortura: usò la bacchetta per scortecciare un ramo, e le dita e un coltello per ripulirlo dalle asperità. Il risultato forse non era esteticamente bellissimo, ma sicuramente era funzionale: serviva ad aiutarlo a trascinarsi da una stanza all'altra, e dalla casa allo stagno. Per raggiungere il paese poteva Smaterializzarsi e zoppicare per gli ultimi metri di strada: la gente del posto lo guardava sempre con un po' di curiosità – ma l'avevano guardato così per anni. Era tutto nella norma.
Era andato avanti con la sua vita e aveva aspettato che arrivasse il giorno giusto per morire.



L'ultimo giorno d'agosto il tempo era bello, la temperatura mite. L'aria calma del pomeriggio aveva una luminosità tersa che rendeva il cielo trasparente, le nuvole come cascame di cotone bianchissimo: affacciandosi dalle finestre della casa sembrava di poter far spaziare lo sguardo all'infinito. Ron prese il bastone e prese la strada dello stagno.
Trascorse quel che restava del pomeriggio seduto su uno sgabello che aveva preso l'abitudine di lasciare lì anni prima, quando sedersi sul terreno – rialzarsi dopo essersi seduto, specialmente – aveva cominciato ad essere un'impresa. Lo sgabello aveva ormai le gambe rivestite di muschio, e l'umidità aveva spaccato lo schienale in due, ma svolgeva ancora egregiamente la propria funzione. Ron passò il tempo ad osservare i girini, piccole virgole d'inchiostro nero nell'acqua scurissima e trasparente, e le ranocchiette appollaiate sulle foglie cadute. Ce n'erano tantissime, ed erano minuscole, più piccole dell'unghia del suo pollice.
Quella notte si era svegliato in un bagno di sudore freddo. Era riuscito a malapena a raggiungere il bagno, prima che le contorsioni del suo stomaco impazzito lo facessero rimettere: e c'era stato sangue nel vomito, molto più del solito.
Era così che si annunciava la fine, pensò, con una chiazza di sangue più grossa nel lavandino.
Prese in considerazione l'ipotesi di seguire il corso del fiume – ma si stava facendo buio. Sarebbe calata la sera, presto, e lui aveva ancora una cena da preparare.
Lasciare lo stagno fu più difficile di quanto avesse pensato, perché la fine si era annunciata, era prossima e vicina, avrebbe potuto arrivare da un giorno all'altro, da una notte all'altra. Ogni visita poteva essere un'ultima visita. Ron risalì il dorso della collina lentamente, trascinando la gamba debole, e si incamminò lungo il sentiero inondato dalla luce rossastra del tramonto.
Era il trentuno d'agosto, pensò. Il giorno dopo sarebbe stato il primo settembre, e ci sarebbe stato un treno, a King's Cross, che avrebbe portato i nuovi studenti ad Hogwarts. Era così da sempre; c'era stata una breve pausa negli anni della guerra, quando Hogwarts era rimasta chiusa perché tutti gli insegnanti erano impegnati a combattere al fianco dell'Ordine e la scuola stessa aveva sbarrato le proprie porte ai Mangiamorte, ma si era tornati alla normalità subito dopo. Era una delle poche ricorrenze che Ron rammentasse: era come l'anniversario dei suoi ricordi migliori, una data che aveva il profumo dei capelli d'Hermione, il viso da bambino di Harry.
Perso nei suoi pensieri, e con il sole in faccia, Ron non si accorse della figura in piedi accanto ai gradini di casa se non quando se la trovò ormai di fronte, a pochi passi di distanza, netta e chiara e minuta.
Non era una figura familiare: era un uomo dai capelli striati di grigio e dal viso affilato, piuttosto basso; molto più basso di Ron, ad ogni modo, che al principio lo guardò e non lo riconobbe. Ma tra quei capelli striati di grigio c'erano tracce di nero scurissimo, e le ciocche erano caotiche e arruffate come un nido in primavera, e... e poi lo sconosciuto alzò gli occhi, guardò Ron, e non era uno sconosciuto, non era uno sconosciuto, era Harry.
Harry guardò Ron e Ron sentì la testa girargli. Il fiato gli mancò. Era così che arrivava la fine? Con un fantasma antichissimo di rimpianti sulla soglia di casa? Avevano mandato lui a prenderlo...? Perché? Perché non Hermione, se proprio doveva essere uno di loro, Hermione che non era vissuta così a lungo da assistere all'orribile, orribile errore di Ron? Era... era morto, anche Harry era morto? Anche lui?
Ma la figura di Harry gettava un'ombra lunga, sul sentiero, che era innegabilmente terrena. I suoi occhi, verdi come l'acqua trasparente dello stagno, scintillavano così come avevano fatto quand'era stato ragazzo, ma erano più gravi e più profondi, ora, venati dalla patina polverosa di tutte le cose alle quali dovevano aver assistito nel frattempo; e sotto a quei capelli striati di grigio – i capelli di un uomo vecchio – c'era un viso lavorato dagli anni.
Era Harry, sempre uguale a sé stesso, ma non quello che Ron ricordava. Non un fantasma, realizzò.
Si fermò di colpo e l'incredulità lo colse, più forte della nausea e dello stupore e della paura provata per un attimo al pensiero che il momento di morire fosse arrivato.
Era Harry. Sempre uguale a sé stesso. Non un fantasma. Era Harry, ed era sulla porta di casa sua.
Harry gli rivolse un piccolo, cauto sorriso.
“Ciao, Ron.”
A Ron occorse un lungo, lunghissimo istante di troppo, prima di riuscire ad aprire bocca e a replicare, la voce rauca:
“Ciao.”
Il saluto parve accendere una scintilla di luce sul viso di Harry.
“Mi spiace per essermi presentato così tardi,” disse lui. Anche la sua voce era cambiata, così come tutto il resto: ma, in profondità, Ron riusciva ancora a sentire la voce dell'Harry ragazzo, Harry bambino, che era stato il suo migliore amico. Più che un amico: come un fratello. “Ginny non sapeva precisamente dove fosse la casa, ed ho dovuto cercare su e giù per tutto il Galles per riuscire a trovarti.”
Per riuscire a trovarlo. Era venuto a cercarlo, pensò Ron. Una parte del suo cervello – tutto quel che nel suo cervello non era impegnato a bearsi della presenza assurda ed aliena di Harry – si stava muovendo freneticamente, tentando di trovare un senso, un ordine, all'impossibile presenza di Harry lì davanti a lui. Forse era un sogno. Forse era un'allucinazione – forse stava morendo. Forse vedeva quel che voleva vedere.
Dio, lasciami vedere quel che voglio vedere, supplicò. Non ricordava di aver mai desiderato niente con la stessa, feroce violenza: che Harry fosse lì, che fosse venuto a cercarlo. La speranza di non morire da solo come un cane rifiorì, per un attimo, ed aveva un sapore dolcissimo.
Avrebbe meritato di morire da solo, ma non voleva. Dio, non lo voleva.
Adesso Luna Lovegood insegnava Divinazione, gli raccontò Harry. Ad Hogwarts. E, uh, lei ed Harry erano stati sposati per trent'anni: questo Molly doveva aver deciso di non dirglielo, a Ron, o, se l'aveva fatto, lui se n'era scordato. Erano stati sposati per trent'anni, gli spiegò Harry. Era stata lei a dirgli di venirlo a cercare, ora, subito, prima che fosse troppo tardi.
Era già troppo tardi, pensò Ron. Ma poi si disse che, anche se così fosse stato, a questo punto non importava molto.
Non morire da solo.
Harry era venuto a trovarlo.
“Non sapevo se avresti voluto vedermi,” stava mormorando Harry. “Ma non potevo non provarci neanche.”
E Ron pensò che aveva un milione di cose da dirgli. Un milione di cose: se anche Harry non fosse stato... non fosse stato vero, ma solo un'illusione, un parto della sua mente agonizzante – e, Dio, Dio, Dio, Ron voleva che non lo fosse come non aveva voluto null'altro, mai, da anni e anni e anni! – lui avrebbe voluto comunque dirgliele tutte. Sarebbe stato come dirle a sé stesso, di nuovo, come la conta dei suoi lunghissimi errori. Gli avrebbe detto che gli dispiaceva di non essersi fidato di lui, di avergli tenuto nascosti i suoi orribili, osceni pensieri invidiosi e amari, di averlo accusato di fare l'eroe invece che stare al suo fianco, di non essere morto al posto di Hermione, di non avergli detto quant'era pieno di gioia per averlo visto sopravvivere alla guerra. Di aver sputato sull'infinito dono che era Harry.
Pensò di cominciare subito, là fuori, senza neanche perder tempo a mettersi seduti perché la conta degli errori era lunga e ingarbugliata e forse non c'era tempo a sufficienza per recitarla tutta; ma poi guardò bene la faccia di Harry e decise che era meglio cominciare diversamente:
“Vuoi entrare?” gli chiese così.
Non l'aveva mai chiesto a nessuno.
Harry gli sorrise, di nuovo e con più gioia, e parve insieme sollevato e felice. Aveva un viso come un libro aperto, come una nuvola, non c'era niente che ci si potesse nascondere veramente dietro. Ron gli andò incontro ed Harry protese una mano e gliela posò gentilmente sul dorso: nel punto in cui le dita lo toccavano sembrò diffondersi una strana, lievissima sensazione di calore che parve togliere il dolore, l'affanno. Per la prima volta da settimane, Ron si sentì in grado di trarre un respiro a pieni polmoni.
Boccheggiò e sgranò gli occhi; e la contentezza irradiata da Harry era come viva, vibrante, filtrava nel tocco del suo potere – quello che era passato da Voldemort in lui, ma più luminoso e più vivo e più puro, come se tutti quegli anni trascorsi nel corpo di Harry fossero serviti a mutarne la natura – e pareva vibrare contro il grumo. Respirare era più facile. Il dolore era scomparso.
Uguale a sé stesso, uguale a quel che Ron ricordava – anni e decenni di ricordi e rimpianti che si erano mescolati in un pesante composto, ma alla fine Harry era venuto, malgrado tutto, era venuto a cercarlo, perché era Harry e perché era fatto così e perché era vissuto tre volte senza mai cambiare veramente, neanche Voldemort nella testa e Voldemort nelle ossa e l'Horcrux nell'anima erano mai riusciti a fare niente in proposito – Harry gli sorrise:
“Speravo proprio che me lo chiedessi.”



Lots of things take time.
“Per un sacco di cose occorre tempo.”
Momo, M.ENDE








Note della storia: Partiamo dalle cose pratiche.

Innanzitutto, Il tempo che occorre si può leggere anche come una one-shot a sé stante e - spero - non perde niente. Ho cercato di renderla il più autonomamente comprensibile che fosse possibile. Tuttavia, è stata scritta per essere il seguito di Undici giorni verso Hogwarts, e il promesso punto di vista di Ron. Per cui, se volete sapere tutti i retroscena e cosa è accaduto a questo benedetto Harry prima di tutto ciò, potete trovarli lì.

Questa storia è nata per il concorso Le tragedie greche indetto da Ray08, classificandosi prima. Non vi so dire quanto la cosa mi abbia resa felice. Potete trovare i giudizi qui.
Avevo scelto il pacchetto Antigone, perché quanti di voi non hanno pianto leggendola o - peggio ancora - vedendola a teatro? Lo specchietto è il seguente:
Prompt: Amore fraterno;
Oggetti: Sciarpa, cartella, cucchiaio;
Citazione: Gli uomini orgogliosi imparano in vecchiaia ad essere saggi;
Luogo: Casa;
Avvertimento: Hurt/Comfort;
Divieto: Incesto esplicito;
Obbligo: Descrizione dell'ambiente.

La citazione finale - così come la canzone che trovate cliccando sul titolo (e che è la magnifica Teardrop rivista dai Civil Twilight. Anche io preferisco la versione originale, se è quel che volete dirmi, ma questa versione in particolare mi sembrava più appropriata alla storia) - sono state un'aggiunta in corso d'opera. Non ho bisogno di spiegare da dove venga la citazione, credo. Desideravo conservare la struttura e la grafica che avevo dato ad Undici giorni verso Hogwarts.

Ringrazio Ray08, una volta di più, per rapidità, gentilezza e completezza dei giudizi, oltre che per il meraviglioso concorso da lei indetto, e ringrazio roro per il banner stupendo. Ron, visto così, sembra davvero cattivo.
I miei complimenti a tutte le altre partecipanti al concorso, e in particolar modo a Gaea, classificatasi terza con la sua Scambio di persona e a MartyNic, la storia della quale, Remember When, è arrivata seconda. Le altre storie sono, nell'ordine, Ocean memories (eleonora isabelle), Là fuori sta cominciando una guerra (PotionFang), Liquorice (Piccola_Star), Se solo l'acqua potesse cancellare (Teresa.Elisir86), Rivelazione (saramichy) e Con una farfalla (Freddy16).

... e dopo queste note epocali (penso di averci messo più tempo a scrivere le note che non la storia O_o) finalmente chiudo.
  
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