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Autore: Douglas    29/04/2012    2 recensioni
Rivistazione della storia della BBC. Dopo aver perso l'aereo John Watson decide di tornare a casa dalla sua famiglia invece di recarsi direttamente a Londra. Scherlock intanto si impegnerà al massimo per cacciare ogni conquilino che il fratello gli procura finchè un giorno, durante una rapina in banca, incontra un soldato che gli salva la vita.
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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I dubbi te li crea la libertà

(Jim Morrison)

 

L'effetto del mix di antidolorifici che mi sono stato somministrati qualche ora fa stava a poco a poco svanendo, permettendo al buio in cui ero sprofondato di diradarsi lentamente.

Quel maledetto proiettile, oltre ad un profondo lembo di pelle, si era portato via anche parte del mio autocontrollo e il dolore mi tormentava da mattino a sera.

Erano giorni ormai che non riuscivo a rimanere quieto nel mio letto nemmeno nelle ore notturne, così il corpulento dottore afgano dell'ospedale aveva avuto la brillante idea di mettermi sotto sedativi per placarlo.

L'inevitabile sonno in cui ero piombato seppur pesante e innaturale, aveva permesso ad ogni muscolo del mio corpo di rilassarsi, lasciando che la mente vagasse nelle macerie di ricordi lontani.

Vagavo senza meta in un sogno ma non c'era nulla di fantastico o fuori dal comune lì dentro, soltanto puri e semplici ricordi di un passato che avevo quasi archiviato in qualche meandro della mia mente: mia madre, mio padre e mia sorella erano ovviamente i soggetti preferiti ma si alternavano anche i visi dei miei migliori amici e di qualche ex.

I primi ricordi erano legati alla mia infanzia tranquilla mentre gli ultimi, i più recenti, arrivavano sino al giorno prima della partenza per l'Afghanistan: erano, però, scene talmente veloci che non aveva tempo nemmeno per godermele: compleanni, anniversari, viaggi e giorni ordinari si mostravano nella mia mente come una strana presentazione al computer in cui oltre ai suoni si andavano ad aggiungere odori e sensazioni.

Dopo l'infanzia comparvero sporadiche immagini della mia “turbolenta” gioventù: le feste liceali, i primi baci dati di nascosto dai genitori, le sbornie e le serate con gli amici fino alla cerimonia del diploma mi cullarono dolcemente verso il mio risveglio.

Era da secoli che non sognavo: la guerra mi aveva totalmente tolto la forza per farlo.

Per otto angosciosi anni, il mio subconscio sembrò non aver voglia di rivivere quello che era accaduto durante la giornata: dormire era l'unica occasione per far riposare quella ripugnante sensazione d'ansia che si aggrappava sulle spalle ogni mattina prima di una missione.

Oggi, però dormo profondamente, quasi quanto un bambino in culla che sogna ciò che più ama: la propria casa.

Mancavano esattamente poche ore alla mia partenza, e poi avrei cancellato dalla mia mente ogni traccia di quel territorio dimenticato da Dio stesso: niente più nemici, niente più bombe, solo vicini di casa fastidiosi e tranquilli pomeriggi di relax.

Tornavo a casa quella mattina stessa, dopo più di un mese di pura sofferenza e 8 anni di ansia arretrata.

Infatti, dopo una breve ma onorata carriera da soldato, non me la sentivo più di rischiare la pelle per degli ideali che, a volte, nemmeno condividevo: ci avevo quasi dimesso la mia gamba destra per L'Inghilterra e non le avrei permesso di portarmi via anche la salute mentale.

Probabilmente, mi sono girato proprio sul fianco durante un ricordo movimentato perché una fitta lanciante che parte dalla gamba, attraversa tutto il fianco destro del mio corpo un po' martoriato e arriva al cervello mi fa svegliare di scatto.

Ci vuole qualche secondo prima che io sopprima tutta l'angoscia provocata dall'ultimo sogno: le nubi scure inglesi che ho lasciato dietro di me durante il viaggio in aereo fino a Kabul di 8 anni fa che si trasformavano nelle nubi scure provenienti da uno dei fuoristrada dell'esercito inglese che era stato fatto saltare da una delle cellule terroristiche più conosciuto di Kabul ci misero molto a sparire dai miei pensieri.

Finalmente riesco a spalancare gli occhi ma la luce del sole che penetra dalle persiane semi-serrate mi impone di chiuderli di nuovo.

Sbuffando, mi giro sul fianco giusto e provo di nuovo a prendere sonno ricordando a me stesso che avrei avuto bisogno di forze se volevo affrontare un viaggio di sola andata per Londra.

Questa volta non c'è bisogno di una scossa per farmi svegliare di soprassalto: mi basta semplicemente l'asfissiante sensazione di essere in un ritardo mostruoso.

-Maledizione!- grugnisco scostando in malo modo le coperte in cotone grezzo che mi graffiano le gambe.

Con un gesto rapido, spalanco le persiane lasciando che gli occhi vengano feriti dal inondante luce del incessante sole afgano e finalmente, quando metto a fuoco il paesaggio pulsante della città e le vesti lunghe che arrivano sino a terra dei passanti, mi accorgo di quanto sia dannatamente tardi.

- Cristo Watson, serra quell'affare.- mugugna dall'altro lato della stanza una voce impastata dal sonno e, imbarazzato, mi ricordo del mio compagno di stanza, il soldato White.

É una storia bizzarra quella del nostro incontro: io e il mio compagno di stanza siamo stati trasportati in ospedale in due date completamente differenti l'uno dall'altro, esattamente l'uno a distanza di tre mesi dall'altro.

L'assegnazione della camera in comune, seppur del tutto casuale, ha creato non ben pochi inconvenienti al personale del ospedale: ci assomigliamo più del dovuto a livello fisico: gli stessi capelli biondi tendenti al castano, gli stessi lineamenti marcati e persino la stessa età. Inoltre, entrambi abbiamo combattuto in fanteria durante la guerra afgana e ricoprivamo lo stesso ruolo all'interno dell'esercito.

Avevamo persino lo stesso nome di battesimo: John Watson e John White e questo sembrava mettere in crisi anche i dottori che si consultavano vari minuti prima di assegnare i medicinali adeguati alle nostre diverse condizioni di salute.

A differenza di me, White faceva parte di un plotone altamente specializzato, implicato per lo più in missioni suicida in cui il livello di preparazione richiesto era assai elevato. Occorrevano non solo sangue freddo e disciplina, ma anche una credenziale in più che rendesse il singolo superiori agli altri: la mira eccezionale era ciò che lo distingueva da noi altri soldatini di stagno.

Si vantava spesso di far parte di quel gruppo di spedizione che è riuscito a stanare ben 14 cellule terroristiche in un solo mese eppure è evidente che non un uomo vanitoso per natura.

Gli anni passati nell'esercito, avevano sviluppato in lui più che chiunque altro, un sorta di rigido autocontrollo: era una persona molto riflessiva e taciturna e preferiva stare con il naso incollato alle pagine di un libro che conversare.

Inoltre, era un uomo molto orgoglioso che teneva molto alla sua dignità e alle sue origini quasi più della sua stessa vita: sua nonna era tedesca e lui ne aveva ereditato tutti i caratteri.

A John, però, quell'uomo così difficile e scostante, piaceva e anche il soldato apprezzava la compagnia del dottore.

D'altronde, ciò era dovuto molto al buon carattere del dottore: non c'era una sola persona nel suo plotone che non considerasse John Watson un santo più che un medico.

C'era chi lo prendeva in giro dicendo che, in mancanza di un santino, durante le missioni più pericolose, si portava dietro l'immagine del loro compagno.

Era un uomo abbastanza colto e un cecchino piuttosto dotato ma era conosciuto soprattutto per la passione e la pazienza con cui curava soldati e civili: in molti lo avevano visto stare intere ore al capezzale di un suo paziente in attesa che si risvegliasse.

Anche lui aveva i suoi buoni difetti come la tendenza all'irascibilità quando veniva provocato ma per il resto era davvero una pasta d'uomo.

-Scusami White, mi ero dimenticato che ci sei anche tu!- esclamo serrando le persine mentre il brontolio sommesso della massa informe sotto le coperte si trasforma in parole di senso compiuto.

-Troppo tardi, sono sveglio ormai.- esclama conciso togliendosi le coperte umide di dosso. A quanto pare neanche lui ha passato delle nottate tanto piacevoli in questi ultimi tempi visto le grosso occhiaie violacee che gli contornano gli occhi e tagliano i due di netto i suoi zigomi.

-Quante ore hai dormito questa notte?- domando apprensivo studiando il viso stropicciato in una smorfia di dolore mentre con fatica riesce ad appoggiarsi sui gomiti, alzando così il torace e il viso in mia direzione per potermi squadrare meglio.

-un ora, due al massimo. Per il resto del tempo di ho ascoltato mentre mugugnavi frasi senza senso logico. Chi è Harry?- domanda incuriosito stendendo il viso in un sorriso malizioso.

-Mia sorella. Però è off-limites per te.- gli dico consapevole della sua lunga sfilza di ex-ragazze. Harry è già problematica di suo, non ha bisogno di un lattin lover che le faccia la corte.

-Peccato...- bofonchia scoraggiato mentre mi osserva vestirmi e mettere tutto in valigia in fretta e furia. Un movimento fin troppo brusco della gamba destra riesce a bloccarmi in una posizione quasi statica al centro della stanza mentre con un braccio vado alla ricerca del mio fidato bastone senza fare un passo: sono stato sprovveduto e ho dimenticato del dolore alla gamba così adesso rischio quasi di cadere a terra prima di riuscire ad afferrare la stampella ortopedica che provvederò a sostituire con pratico bastone da passeggio.

Mi scrollo via dai miei pensieri ricordandomi della critica situazione in cui mi ero cacciato: l'aereo sarebbe partito fra meno di un ora e non avevo nemmeno chiamato un taxi.

-E queste... le lasci come mancia alle infermiere- riprende White ridacchiando e indicando un paio di mutande rimaste nel cassetto del comodino che ha appena aperto.

Infastidito, gliele strappo dalle mani e, senza troppo ritegno, verso tutto il contenuto del cassetto nella valigia.

Mentre mi muovo frettolosamente fra il caos della nostra stanza, White prende il mio cellulare dal comodino e chiama il servizio di taxi della città: lo sento mormorare frasi fluide nella lingua locale e mi sento quasi imbarazzato dalla mia totale ignoranza verso la cultura con cui spesse volte sono venuto a contatto.

White ha imparato quasi subito il dialetto locale, mentre io arranco ancora a pronunciare un semplice buongiorno: sorrido pensando che il mio compagno ha imparato l'afgano sopratutto per approcciarsi con le affascinanti donne di Kabul: un bel rischio a giudicare della pallottola che quasi si è beccato una volta per aver tentato di baciare la figlia di uno dei classici padri rudi afgani.

Provo ad intuire il senso del discorso mentre chiudo definitivamente la valigia e mi accorgo che riesco soltanto ad intuire che taxi sta per arrivare sotto l'ospedale a prendermi: rimango sorpreso della mia stessa capacità.

Mi impongo di pensare al futuro in maniera razionale mentre preparo il biglietto aereo nella tasca dei jeans che ho appena indossato.

Era così sicuro della mia decisione fino a qualche giorno fa ma poi, con l'arrivo di una lettera che mi diceva che Harry ha avuto un ennesima ricaduta sono davvero combattuto.

I dubbi te li crea la libertà” penso con fare sconsolato.

-Il taxi arriverà tra dieci minuti.- esclama White dopo aver concluso la chiamata e porgendomi il mio vecchio catorcio, “regalo” della mia cara sorellina.

Lo squadro per qualche minuto mentre i miei dubbi si fanno ancora più marcati.

-Credo di aver preso tutto...- dico guardandomi intorno in cerca di qualcosa di mio: l'unica cosa che ho lasciato è un bicchiere d'acqua che stagna sopra il comodino del letto ormai vuoto.

-Tranquillo, se trovo qualcosa di tuo lo invierò a casa dei tuoi genitori.- esclama Kelso mentre mi siedo ai piedi del suo letto semi-vuoto: lo guardo un secondo con fare nostalgico ma lui mi restituisce solo un freddo sorriso di cortesia mescolato ad una occhiata significativa.

-Sei ancora deciso ad evitare le smancerie?- esclamo ridendo fra me e me mentre lui si acciglia ulteriormente e indietreggia sul letto come se stessi per saltargli addosso invece che “infierirgli” una pacca amichevole.

-Certo. Siamo soldati, non signorine- aggiunge incrociando le braccia al petto in una perfetta imitazione di una qualche statua greca.

-Come vuoi, ma sei davvero un ingrato.- dico rimproverandolo come si fa ad un bambino ma so che lui preferisce il mio silenzio ai miei slanci d'affetto.

Mi guarda solo un secondo poi si muove sul letto avvicinando a sé una carrozzina volutamente nascosta nell'angolo fra l'armadio e il comodino.

-Credo di farcela da solo.- bisbiglia lui imbarazzato mentre scopre la parte inferiore del suo corpo: evito di fissarli per non farlo sentire a disagio ma sono ben consapevole che là, dove una volta c'erano le sue gambe, c'erano rimasti due monchi accuratamente fasciati da garze.

Me l'ha raccontata la sua tragica storia, alla fine.

Avevo sempre creduto che sarei tornato a casa senza nemmeno sapere cosa gli era accaduto, quel lontano giorno di settembre, ma ieri sera mi ha sorpreso raccontandomi il tutto fra un bisbiglio e l'altro.

Tutto era accaduto durante una normalissima missione di soccorso all'interno di un villaggio rurale quasi disabitato, dove nessuno di loro si sarebbe spettato nemmeno di sprecare un solo proiettile della loro munizione.

Una mina-antiuomo era l'incubo ricorrente di John White.

Una di quelle piccole, quasi camuffate da giocattolo, subdole e orribilmente congegniate per uccidere chiunque abbia la sfortuna di capitarci sopra.

Un singolo passo sopra di essa e il mondo era esploso con lui.

Inutile sarebbe descrivere la situazione in cui si è ritrovato il povero White: posso solo aggiungere che quando è stato portato in ospedale da uno dei suoi compagni aveva entrambe le gambe completamente maciullate e sanguinava talmente tanto da sporcare quasi completamente di sangue le divise del commilitone e l'interno della jeep con cui era stato portato all'ospedale.

Per fortuna, se di fortuna si può realmente parlare, White è riuscito a salvarsi dopo un interminabile operazione di sei ore che gli ha permesso solo di fermare l'emorragia.

I mesi successivi sono stati per lui anche peggio del dolore durante l'operazione: l'angoscia, la depressione e il tormento lo hanno accompagnato fedelmente notte e giorno, come echi lontani di cruente esperienze di guerra.

Spesso l'ospedale aveva dovuto affidargli degli infermieri che gli impedissero di fare qualche schiocchezza ma John White, seppur mutilato nell'anima e nel corpo, non era una schiocco e, grazie al suo benedetto orgoglio che questa volta gli aveva salvato la pellaccia, aveva dimostrato all'ospedale di che pasta era fatto un vero soldato.

Steel man, l'uomo d'acciaio, così lo chiamavano le infermiere dell'ospedale poiché, in meno di un mese, era riuscito a superare la sua crisi.

Scarrozzava qua e là per l'ospedale senza bisogno di alcun supporto.

Parte del merito un poco mi spettavo poiché ero riuscito, con non poca insistenza, a convincere il primario di chirurgia a delegarmi la custodia del soldato.

White, anche se all'inizio era stato abbastanza diffidente, si era affezionato lentamente a me sopratutto alla mia innata dote di mantenere la bocca chiusa sui suoi continui attacchi d'ansia.

Non era stato affatto facile: erano stato così tante le volte che ero dovuto rimanere sveglio per controllarlo che non avevo più tenuto più il conto da un bel pezzo.

Qualche settimana fa, avevo addirittura pensato di richiedere una proroga della mia destituzione per rimanere al suo fianco.

Una notte però, una delle tante afose di Kabul, in cui nemmeno una brezza di vento fluisce dalla finestra, John si era girarato in direzione della carrozzina che gli avevo avvicinato e, con una forte spinta sulle braccia, era riuscito a sedersi sulla carrozzina senza bisogno di un minimo supporto.

-Questa è la prova, Watson- aveva esclamato sorridendo soddisfatto di se stesso – ora puoi tornartene a casa senza avere sensi di colpa- aveva detto guardandomi dritto negli occhi, come se fosse consapevole delle mie riflessioni sul mio ritorno.

John non voleva la mia carità e io non volevo farlo sentire un essere totalmente dipendente dal mio aiuto.

Insieme uscimmo dalla stanza, l'uno zoppicando e l'altro facendo ruotare le camere ad aria delle gomme della carrozzina, e cominciammo a percorre i corridoi semi-deserti che davano sulle altre camere dei pazienti dell'ospedale.

Ogni tanto, bussando discretamente ad alcune delle porte delle camere, cacciavo la testa nella stanza e salutavo quei pochi compagni di camerata che erano svegli a quell'ora.

La maggior parte di loro, anche se infastiditi dal brusco risveglio, mi salutavano con uno spirito carico di riconoscimento e mi auguravano buon viaggio.

Non potevo più sprecare il tempo in chiacchere così, in dieci minuti, avevo già esaurito il tempo per i convenevoli e, utilizzando il vecchio ascensore che gracchiava sinistramente ogni volta che si fermava ad un piano, arrivammo alla grande porta dell'ospedale affollata da un via vai di medici e paziente che entravano e uscivano frettolosamente.

-Questo è il mio capolinea- afferma Kelso quando le ruote della carrozzina raggiungono il margine delle ripide scale che conducono alla porta: la rampa per le carrozzine era ormai in fase di ultimazione.

Mentre alzo lo sguardo sull'arido paesaggio afgano rendendomi conto di quanto poco mi mancherà quella immensa distesa di sassi e rocce acuminate, faccio segno all'autista di attendere ancora qualche minuto.

-Cosa hai deciso di fare John?- mi domanda dopo qualche secondo di silenzio interrotto soltanto dal rumore dei nostri respiri che pare mescolarsi alla polvere della terra. So bene dove vuole andare a parare e io sarò irremovibile su questa decisione.

-Vivrò la vita che non ho mai vissuto. Per adesso sò solo che prenderò in affitto un appartamento a Londra e mi cercherò lavoro... un qualsiasi lavoro che non implichi l'uso di una pistola. Potrei sfruttare le mie conoscenze in campo medico per trovarmi un lavoro più che decente- non descrivo dettagliatamente la vita che mi prospetta, voglio lasciare volontariamente dei buchi che riempirò con una decisione che prenderò al momento giusto.

-E i tuoi genitori? Non credi che gradirebbero una tua visita? E tua sorella?- mi domanda rivolgendo totalmente il suo corpo e il suo sguardo verso di me: so che sta cercando di farmi “ragionare”.

Non gli rispondo direttamente, mi limito a sbuffare e a accennare ad una mia possibile visita durante il periodo di Natale.

-Sei loro figlio no? Chissà quante volte si saranno sentiti in pena per te- esclama rincarando la dose.

-Potrei fare una visita di una settimana al massimo ma per me sarebbe già troppo. Comincerei a sentirmi in colpa perché li sto abbandonando e finirei per stabilirmi stabilmente con loro- brontolo frustato io stesso dal mio cinico discorso.

-E tu quando rientrerai da questo inferno?- domando cercando di cambiare discorso.

- Fra una settimana mia moglie e i miei genitori mi verranno a prendere... Per intanto questa è l'unica certezza che ho- afferma distogliendo lo sguardo immerso in chissà quale profonda riflessione: in cuor mio, spero soltanto che gli venga data un seconda occasione per tornare a vivere una vita normale.

Il tassista, spazientito, suona il clacson interrompendo le nostre congetture.

Carico velocemente la valigia sul taxi sgangherato e chiudo il bagagliaio con più forza del necessario.

Torno dal mio amico, fregandomi delle imprecazione sconosciute che mi sta lanciando l'autista, e lo squadro di nuovo con lo stesso sguardo eloquente che gli ho lanciato in camera.

Lui nemmeno fa in tempo a contestare che gli ho già assestato un amichevole pacca sulla spalla destra e, mentre mi fiondo direttamente sul taxi sento l'eco della sua voce lontana.

-Se non fossi bloccato su questo stramaledetto affare, ti avrei già assestato un calcio in culo come si deve!- mi sta urlando mentre si sbraccia come per volermi strangolare.

Il taxi non ha nessuna esitazione e parte in fretta lasciando dietro di sé una scia di polvere molto spessa.

Quando si dirada, dal vetro del lunotto posteriore riesco ancora a vederlo seduto sulla sedia a rotelle, appostato come una vedetta su un faro, mentre i suoi gesti poco amichevole si trasformano in saluti.

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