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Autore: Angel666    04/05/2012    3 recensioni
“E’ solo un gioco per te?” chiese lei.
“Esatto. Non è nient’altro che una partita; e io sono disposto a tutto pur di vincerla.”
Il caso del Serial Killer di Los Angeles raccontato dal punto di vista di un ostaggio molto speciale. Cosa lega la ragazza all'assassino? Quali piani ha in mente per lei? Quando giochi in nome della giustizia si trovano sempre pedine sacrificabili, l'importante è conoscere le regole del gioco e non venire eliminati. Please R&R!
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri personaggi, Beyond Birthday, L
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Ryuzaki era fuori con Naomi Misora sulla scena del secondo omicidio.
Rumer si aggiustò meglio contro la parete e guardò fuori dalla finestra: era all’incirca metà pomeriggio; non sapeva quando sarebbe rientrato, ma cominciava ad avvertire una certa fame. Si guardò le gambe, magrissime e graffiate, piene di lividi. Non aveva il coraggio di pensare come appariva il resto del suo corpo: non era mai stata bella, sempre troppo magra, sempre poco curata. In quei giorni di prigionia però doveva aver toccato il fondo; poi si sorprendeva se neppure un folle come Ryuzaki la trovasse desiderabile.
Chissà com’era Naomi Misora? Sicuramente bellissima, il nome lo suggeriva.
Batté un paio di volte la testa contro il muro alle sue spalle e chiuse gli occhi.
C’era dei momenti in cui, a causa del caldo asfissiante, avrebbe dato qualunque cosa per una bella birra ghiacciata. Era quasi un mese ormai che non toccava un goccio d’alcool. I primi giorni era stata troppo spaventata per farci caso, ma poco alla volta il suo corpo aveva iniziato a reclamarlo.
Rumer non aveva osato chiederlo a Ryuzaki, anche perché era convinta che non ne avesse in casa; ma soprattutto per fargli vedere che poteva vivere senza, al contrario di quanto pensava lui.
Era curioso quanto riuscisse a farsi condizionare da quel ragazzo a volte.
Aveva sempre pensato che le cliniche di disintossicazione servissero solo a spillare via i soldi, invece stare un mese legati ad un muro senza poter bere sembrava un metodo piuttosto efficace.
Ridacchiò tra sé e sé: un’altra cosa di cui avrebbe dovuto ringraziarlo alla fine.
Quando aveva iniziato a bere? Non se lo ricordava bene nemmeno lei. Tutta la sua vita era un sogno sfumato, che ogni tanto si confondeva con una realtà troppo brutta per essere ricordata.
Se non sapeva il quando sapeva sicuramente il perché: dimenticare.
Era piuttosto banale a ben pensarci, ma si sposava così bene con la maschera da fallita che si era cucita addosso!
La perdita della famiglia, l’infanzia in orfanotrofio, le notti passate per la strada in cerca di un riparo decente e un lavoro per poter mangiare, e infine il rapimento. Sembrava uscita da un romanzo di Dickens: era tutto così assurdamente cliché, che perfino lei si vergognava a raccontarlo. Era forse per questo non aveva mai avuto amici? Per paura di essere giudicata da qualcuno?
Il suo pensiero, come spesso accadeva ultimamente, ritornò a Ryuzaki.
Anche lui non aveva avuto una vita facile e questo lo aveva trasformato in un mostro. Eppure perfino lui aveva un obbiettivo da raggiungere. A volte si chiedeva se lo stesso motivo per cui era rimasto in vita così a lungo, lo avrebbe ucciso.
Con queste domandi, senza accorgersene, scivolò lentamente in un sonno agitato.
 
La pioggia battente non smetteva di cadere dalla sera prima.
Avevo la pelle ghiacciata, coperta solo da una leggerissima giacca di pelle, e non sentivo più la punta delle dita.
 Era il giorno del mio compleanno e stavo vagando sola per le strade di New York. Mi veniva quasi da ridere a pensare quanto ci si può sentire soli in mezzo a 9 milioni di persone.
Ricordo perfettamente l’atmosfera grigia, tipica delle fredde mattine di Novembre, e le gocce d’acqua che si infiltravano nel colletto della giacca, lungo la schiena, facendomi rabbrividire.
Avevo finito le sigarette, e non avevo più neanche 5 dollari in tasca.
Ero stata licenziata dal bar sulla 54 ma non avevo voglia di trovarmi subito un lavoro, quella era la mia giornata e me la sarei presa tutta per me. Tutto intorno era ovattato: i contorni delle persone, il rumore del traffico metropolitano…ogni cosa era ricoperta da una patina grigia di pioggia. Lo stomaco era vuoto e la testa girava come sempre in quei giorni, da quando la vodka era diventata la mia migliore amica; estraniandomi ancora di più dalla realtà circostante e narcotizzando il dolore onnipresente nel petto.
Improvvisamente vidi una chiesa in cima ad una scalinata. Non ero mai stata una persona religiosa, e le chiese mi ricordavano terribilmente la cappella dell’orfanotrofio, con quel terribile odore di incenso che saturava l’aria, rendendola irrespirabile.
Eppure quella mi apparve diversa: era semplice, bianca.
Non seppi perché mi trascinai fino al suo ingresso. Forse la pioggia era diventata insopportabilmente fredda.
L’interno era buio, la poca luce filtrava dalle finestre con vetri colorati, rendendo l’atmosfera solenne e sospesa. C’era solo una persona dentro, seduta al primo banco, stranamente rannicchiata. Sicuramente stava pregando, al contrario di me che mi guardavo in giro curiosa.
Fui colta da un giramento di testa improvviso, così decisi di sdraiarmi su una delle panche in fondo alla navata.
Con la fronte poggiata sul legno fresco, avevo gli occhi fissi sulla grande croce d’oro al lato del pulpito, sull’altare, che emetteva strani bagliori nel buio. Al suo fianco c’era la statua del Cristo che mi fissava con occhi colmi di pietà. Volevo  piangere: già mi facevo abbastanza pena da sola, senza che qualcuno me lo sbattesse in faccia così.
Sentii delle gocce d’acqua rigarmi le guancie. Ero all’interno di una chiesa, quindi non poteva essere la pioggia. Stavo piangendo e non me ne ero resa conto. Gli occhi bruciavano e la testa mi faceva male. Probabilmente mi ero beccata la febbre: questo spiegava la mia suggestione per una semplice statua. Mi resi conto di essere terribilmente stanca. Tutto quello che volevo era restare li, su quella scomoda panca di legno, addormentarmi e magari non svegliarmi mai più. In fondo era il mio compleanno, non avevo diritto ad un desiderio da esprimere?
Un cappotto caldo mi venne posato sul corpo scosso dai brividi. Delle voci in lontananza sussurravano qualcosa, il mio nome forse.
Guardai la statua sorridendo: e così mi aveva mandato una specie di angelo? Che tempismo perfetto. Non riuscivo mai ad ottenere quello che volevo davvero.
Qualcuno mi prese tra le braccia e finalmente riuscii a vedere in faccia il mio salvatore. Occhi neri e profondi, come il buio. I suoi occhi. Doveva essere la febbre a farmi delirare. In quello sguardo non c’era pietà, ma solo tanto incondizionato affetto. Un sentimento che non vedevo da troppo tempo sul viso di qualcuno nei miei confronti. Provai a parlare, a dire il suo nome, ma il mio corpo non rispondeva più alle mie azioni, e presto scivolai in uno stato di incoscienza.
Quando mi svegliai mi ritrovai in ospedale. Era stato tutto solamente un sogno.
L’infermiera disse che ero stata portata lì da un prete quella mattina e che sarei dovuta restare almeno tre giorni per ricoverarmi da una forte influenza.
Quando mi dimisero venne a trovarmi lo stesso prete che mi aveva salvata. Mi consegnò una busta bianca, sigillata.
Non mi volle dire chi gliel’aveva consegnata, ma dentro trovai 1.000 dollari e un biglietto di sola andata per Los Angeles.
L’idea che quel giorno mi avesse salvata mio fratello non mi aveva neppure sfiorata, fino ad oggi.
 
Quando si svegliò sentì che Ryuzaki era rientrato in casa.
Si alzò a sedere e si accorse di avere le guancie bagnate dalle lacrime. Le asciugò in fretta su una spalla, prima che lui potesse entrare e scorgerle. Non voleva mostrarsi debole davanti a lui.
Il ragazzo arrivò pochi istanti dopo con la cena; accucciandosi davanti a lei la scrutò per alcuni secondi, ma poi decise di non fare commenti.
L’espressione del suo viso era neutra come sempre, al contrario dei suoi occhi pieni di vita.
“Ora che ci penso non ti ho mai raccontato della prima volta che ti ho visto.” Disse improvvisamente, attirando la sua attenzione e distogliendola dai ricordi lasciati dal sogno.
“Mi ero messo sulle tue tracce da almeno quattro mesi. Sapevo che da New York ti eri trasferita a Los Angeles, così iniziai a girare per ospedali e alberghi di bassa categoria.
Con me avevo solo una foto rubata al tuo vecchio orfanotrofio, in cui avevi all’incirca tredici anni, ma di certo non mi basavo su quella per cercarti.
Erano più di venti giorni che giravo a vuoto tra Hollywood e Downtown; ovviamente non immaginavo di incontrarti per strada, ma dopo più di due settimane temevo che avessi cambiato di nuovo città.
Una notte, a causa della pioggia, entrai in un locale nei pressi di Santa Monica e finalmente ti trovai: stavi cantando su un piccolo palco. Non ebbi bisogno di controllare la fotografia per sapere che eri tu. Te lo leggevo letteralmente scritto in fronte. Ricordo perfettamente che quando la musica cessò ti avvicinasti ad uno dei tavoli sotto al palco e ti sedetti con dei ragazzi. Credo che fosse una festa perché non facevate altro che ridere e brindare. Alla chiusura del locale usciste tutti insieme. Naturalmente vi seguii e mi ritrovai sulla spiaggia. Aveva smesso di piovere e stava albeggiando.”
Rumer ricordava perfettamente quel giorno: era il compleanno di Thomas, il fratello di Ed, e tutti insieme avevano fatto il bagno nell’Oceano nonostante fossero i primi di Febbraio, incuranti del freddo pungente. Era talmente presa a giocare con loro sulla spiaggia che non si era accorta che qualcuno li stesse spiando.
“Sembravi incredibilmente felice quel giorno mentre scherzavi con gli altri; hai quel tipo di risata di chi non si lascia andare spesso, liberatoria e trascinante, ed io ho pensato che sarebbe stato bello ridere così almeno per una volta.”
Rumer lo fissò a bocca aperta. Se chiudeva gli occhi poteva risentire la sabbia bagnata sotto i piedi e la gola secca per il freddo e il troppo urlare. Era stata una delle poche volte in cui si era sentita completamente in pace con il mondo, ebbra di gioia. E quello era stato il giorno in cui aveva incontrato per la prima volta  il suo assassino.
“Tu eri lì?”
“Si. Mi sei sembrata diversa da come ti avevo immagina attraverso i fascicoli che avevo letto sul tuo conto. Per un secondo ho pensato che se L ti avesse visto in quel momento sarebbe stato geloso di tutta la tua libertà.”
Sorrise amaramente. Le sarebbe piaciuto riprovare la stessa sensazione di quella notte.
Tornò a guardare fuori dalla finestra “Non ti ho mai visto al Dragonfly. Non che guardassi la clientela del locale, in genere.”
“Penso che tu abbia davvero una bella voce.” Se ne uscì lui improvvisamente.
“Ti ringrazio.” Rispose Rumer sorpresa.
Iniziò a mangiare la sua cena con calma. Quella conversazione l’aveva momentaneamente distratta dal sogno, ma ora che il silenzio era risceso su di loro, non aveva nulla con cui distrarsi.
Improvvisamente si sentì pronta per quella domanda che tanto l’aveva tormentata all’inizio, così decise di lasciarsi andare.
“Ryuzaki, tu hai conosciuto mio fratello di persona vero?”
Il ragazzo ci pensò un po’ su, mangiucchiandosi la sua solita unghia.
“Ho incontrato L una volta soltanto in tutta la mia vita.” Disse infine.
“Non andavate nello stesso istituto?” chiese lei sorpresa.
“Quando entrai alla Wammy’s House lui se ne era già andato via da un anno. Nessuno inoltre sapeva chi fosse. Neppure io lo sospettai la volta in cui ci incontrammo. Solo dopo capii di aver parlato con il mio idolo.”
“Quando è successo?”
“Dopo il funerale di A.”
Rumer sapeva che quello non era un argomento di cui Ryuzaki parlava volentieri, eppure il suo viso era inespressivo come sempre.
“A fu il primo bambino a togliersi la vita dentro la House e la notizia ovviamente sconvolse tutti. Fu in quel momento che iniziarono a chiedersi se quello che stavano facendo fosse giusto o sbagliato. Dopo la sua sepoltura rimasi soltanto io accanto alla tomba. Avevo voglia di stare da solo a riflettere su quello che era successo. Stavo elaborando la mia vendetta quando sentii dei passi dietro di me.
Era un ragazzo, piuttosto giovane, che non avevo mai visto all’interno dell’istituto. Il funerale era stato a porte chiuse, quindi mi chiesi come fosse venuto a saperlo.
Lui si avvicinò senza dire nulla e rimase tutto il tempo accanto a me a fissare la lapide con le mani in tasca. Ne fui subito intrigato: era la persona più strana che avessi mai visto, e all’orfanotrofio ne giravano di tipi fuori dal normale, ma non per qualcosa in particolare, era l’insieme a risultarmi bizzarro. Se ne stava li curvo, a succhiarsi un lecca-lecca, mentre guardava la tomba di A con un espressione triste, come se lo conoscesse da una vita, come se si sentisse responsabile della sua morte.
Non gli chiesi chi fosse, dal momento che potevo leggere il suo nome, così ci limitammo a restare vicini per un tempo interminabile.
Quando calò la notte e scese il buio sul cimitero si voltò e si incamminò da dove era venuto. Ricordo che dopo pochi passi si fermò e, senza voltarsi, mi disse “Un uomo che medita la vendetta, mantiene le sue ferite sempre sanguinanti*. Bisogna essere in grado di trasformare la propria rabbia in forza, e metterla al servizio di un bene superiore; ricordalo sempre B.”
Restai sconvolto dalle sue parole. Non avevo mai visto quel ragazzo in vita mia, non gli avevo mai parlato neppure una volta, eppure lui sembrava aver capito perfettamente che cosa mi passasse per la testa. Non mi aveva detto parole di conforto per la perdita di un amico, perché sapeva che il corpo sepolto in quella tomba non significava nulla per me; bensì il suo gesto mi aveva aperto gli occhi sulle ingiustizie che ci venivano fatte.
Nei giorni seguenti ripensai spesso alle sue parole. Ero disposto davvero a vivere una vita nel rancore pur di appagare la mia sete di vendetta, rinunciando a tutti gli insegnamenti, la fatica e le ingiustizie subite fino a quel momento?
La risposta era si. E questo lo sapeva anche L. Me lo aveva letto negli occhi proprio come io avevo letto il suo nome sulla fronte. Se non altro quell’incontro mi servì a chiarirmi una volta per tutte le idee.”
Rumer si chiese per quale motivo suo fratello non lo avesse fermato allora, quando ancora era un bambino e non aveva commesso tutti quegli omicidi.
La risposta era che non si potevano prevenire certi tipi di crimini e incolpare una persona ancora legalmente innocente. Oramai Ryuzaki aveva preso le sue decisioni, ma se solo L avesse messo più impegno nel cercare di fargli cambiare idea, forse nessuno di loro adesso si sarebbe trovato in quella situazione.
Era un terreno di pensiero scomodo, oltre che perfettamente inutile, quindi Rumer decise di cambiare argomento.
“Ho risolto il tuo enigma.”
“Sapevo che ci saresti riuscita.” Constatò tranquillo.
La ragazza glielo illustrò passo passo, riportando anche gli errori che aveva fatto e le date che aveva preso in considerazione prima del 22.
“Ho indovinato?” chiese infine.
Lui per tutta risposta si tolse una polaroid dalla tasca dei jeans e gliela poggiò delicatamente di fronte.
Rumer stentò a credere che la stessa persona che ora stava seduta accanto a lei avesse potuto compiere un tale scempio.
Stavolta però era preparata, così non diede segni di sconvolgimento.
La foto ritraeva una giovane donna completamente vestita, sdraiata supina sul pavimento, senza il braccio sinistro e la gamba destra.
Tentò di deglutire a vuoto “Non sapevo che le avessi tagliato anche la gamba.” Gracchiò.
“Quella l’ho dovuta lasciare sul luogo del delitto, altrimenti la polizia ci avrebbe messo troppo tempo a capire la soluzione.”
“Vuoi dirmi che finora ha capito qualcosa?” fece lei sarcastica.
“No, ma Misora non è così male. Credo che con un piccolo sforzo lei potrebbe arrivarci.”
Rumer ignorò il commento e tornò a guardare la fotografia. Bastava solo pretendere che fosse finta: un fotogramma di un film splatter. Cominciò a ragionare.
“Se hai lasciato loro la gamba e hai portato via il braccio volevi che si focalizzassero su quest’ultimo. Allora perché tagliare via anche la gamba?”
“Perché non serviva attaccata al corpo.” Rispose lui.
“Come diavolo hai fatto? Insomma ti ci sarà voluto un sacco di tempo, e non oso immagine l’enorme quantità si sangue lasciata in giro. Com’è possibile che non se ne sia accorto nessuno?” chiese stupita.
“La vittima viveva momentaneamente sola, in quanto l’altro coinquilino si trova in vacanza dall’altra parte del globo; e prima di mutilarla l’ho narcotizzata. In pratica, anche se è morta per dissanguamento, dormiva.”
Questo spiegava l’assenza di urla e la facilità di muoversi in quella casa avendo tutto il tempo che voleva a disposizione, ma “Perché l’hai rivestita? Insomma potevi lasciarla così.”
“Perché questo avrebbe distolto l’attenzione sulla vera funzione del cadavere.”
Ryuzaki aveva sempre usato le sue vittime come indizio principale per l’omicidio successivo.
Se a Quarter Queen aveva tolto gli occhi a Becky Bottomslash avevo amputato degli arti.
La gamba non era importante, ma il braccio si.
“Il braccio…” sussurrò.
Ricordò quando Ryuzaki lo aveva portato al magazzino e ficcato in una busta di plastica. Quello che l’aveva colpita era il bell’orologio legato al polso.
Questo le accese una scintilla; ricordò di aver visto un fatto simile in un film horror molto tempo prima, e la cosa l’aveva colpita.
Guardò il corpo nella foto: era sistemato in una posizione innaturale per un cadavere, per quanto potesse sembrare naturale una donna senza un braccio e una gamba.
“Ho capito, l’ho già visto in un film! Questa donna rappresenta un orologio: la testa indica la lancetta delle ore, il braccio i minuti e la gamba i secondi. E’ sistemata in modo troppo studiato per un cadavere. Ma sei lei è l’orologio, che cosa rappresenta il quadrante?”
“Non puoi cadermi sul più facile.” disse Ryuzaki.
Nella fotografia era ritratto solo il cadavere, quindi non sapeva cosa stesse puntando di preciso la testa della vittima. “La stanza…” azzardò la ragazza.
“Esattamente.”
Ryuzaki saltò in piedi e prese a camminare avanti e indietro “Becky Bottomslash era una ragazza piuttosto infantile nonostante la sua età; infatti possedeva molti pupazzi. Li ho sistemati in modo che ciascuna parete indichi un orario preciso.” Con il solito pennarello scrisse dei numeri ai quattro lati della fotografia.
“Le ore 6, 15 minuti e 50 secondi.” Lesse Rumer. Eppure qualcosa non quadrava in quella situazione.
“Ryuzaki, in tutti gli omicidi hai sempre lasciato un indizio preciso che indicasse la vittima successiva: o il nome, o l’indirizzo con le iniziali. Questa volta, che ti sei accanito così tanto sul cadavere, perché sei stato così vago? Insomma, la vittima potrebbe indicare sia le sei di mattina che quelle di pomeriggio…e poi un orario è troppo poco per capire qualcosa sull’ultimo omicidio.”
“Le tue constatazioni sono più che lecite, ma se ci pensi bene la successione di numeri non indica semplicemente l’ora, ma anche il posto preciso dove avverrà l’omicidio.” Spiegò il ragazzo.
Il posto preciso? 06-15-50 o 18-15-50.
“Mi dispiace, ma non mi viene in mente nulla. Né un distretto, né un indirizzo preciso qui a Los Angeles.”
“Tu pensi troppo in grande, devi restringere il tuo campo d’azione. 061550 è il codice catastale di un condominio a Pasadena. A mente è impossibile da capire, ma facendo delle ricerche, soprattutto se si è in polizia e se si hanno database di ricerca appositi a disposizione, risulta piuttosto semplice trovarlo.”
“Quindi in questo condominio, alle 6 o alle 18 del 22 Agosto ci sarà l’ultimo omicidio.”
“Esattamente. Peccato, stavo proprio iniziando a divertirmi con le indagini.”
La ragazza gli lanciò uno sguardo di rimprovero “Non mi hai raccontato che cosa è successo oggi sul luogo del secondo delitto.” Disse, tornando all’argomento principale.
 “E’ stato…interessante.” Rispose Ryuzaki “Forse ti farà piacere sapere che avuto un piccolo scontro con la signorina Misora questa mattina.”
“Scontro? Di che genere?”
“Ho tentato di ucciderla.”
Il boccone le andò di traverso, tanto che dovette trangugiare mezza bottiglietta di succo di frutta.
“Per quale motivo? Non hai detto che lei ti serve?”
“Certamente. Sapevo che non sarebbe morta, ma avevo bisogno di testare le sue capacità. Adesso so che è una donna in grado di affrontarmi, e capace di difendersi benissimo da sola. Credo che abbia praticato per qualche tempo la capoeira.”
Fantastico, anche tecniche di combattimento esotiche! Ce le aveva proprio tutte questa Naomi Misora.
“Ti ha riconosciuto?” chiese.
“No, l’ho attaccata alle spalle, ed avevo il volto coperto da una maschera. Non mi ha fatto nulla, praticamente sono fuggito subito e lei non mi ha inseguito, proprio come avevo previsto.”
“Ha risolto gli enigmi del secondo omicidio quindi?”
“Si; tutto grazie ad un buon caffè.” Rispose lui enigmatico. “Ormai manca un ultimo incontro prima del gran finale. Ti senti pronta Rumer?”
La ragazza lo guardò di sottecchi “Ryuzaki, c’è ancora una cosa che non mi è chiara. Se le iniziali delle vittime coincidono in qualche modo ai giorni di distanza degli omicidi la B corrisponde al 9 e la Q al 4. Avendo appurato che l’ultimo delitto si svolgerà dopo 9 giorni da quello precedente la vittima dovrà per forza avere le iniziali B.B. , giusto?”
Ma le sue iniziali erano R.L.
Un ghigno malvagio si aprì sul volto pallido del ragazzo. “Ancora una volta mi sorprendi con le tue intuizioni Rumer. Ma lascia che ti dica una cosa: la vita quasi sempre è fatta di scelte.”
“Non capisco.” Disse accigliata.
“Io invece credo proprio di si. Hai tutti gli elementi per tirare le somme adesso. Chi pensi sarà l’ultima vittima del caso di Los Angeles?”
La ragazza lo guardò frastornata. L’ultima vittima era B.B. e questa cosa era stata decisa fin dall’inizio, dal momento che sarebbe stato a 9 giorni di distanza dall’ultimo caso.
Ma che motivo aveva Ryuzaki di fermarsi così all’improvviso?
Il doppio senso dell’ideogramma 4? Se era stato adottato per le bambole, magari era valido anche per le vittime. Forse Ryuzaki temeva di essere catturato, ora che L era finalmente sceso in campo. Eppure lui aveva affermato che fin dall’inizio il detective sapesse chi fosse l’assassino, e Ryuzaki non sembrava tipo da spaventarsi di fronte ad un ipotesi del genere.
Se c’era una cosa di cui Rumer era assolutamente certa era che il ragazzo avrebbe voluto battere suo fratello a qualsiasi costo.
Questo pensiero la colpì improvvisamente.
Ryuzaki avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di superarlo, anche morire.
I suo occhi saettarono in quelli cremisi di lui, troppo scioccata per assimilare l’ipotesi che lei stessa stava formulando.
Lo aveva sempre saputo: Ryuzaki era stato il secondo successore di L dopo A. Questo automaticamente faceva di lui B.
Ecco che la vittima veniva a coincidere con l’assassino. Dunque era in questo che consisteva il suo caso irrisolvibile!
No.
Non poteva crederci.
Per tutto questo tempo lui aveva mirato soltanto a quello.
Il ragazzo sorrise vedendo la consapevolezza farsi strada nei suoi occhi.
Ingannare L, facendogli credere di aver cessato gli omicidi, quando invece era morto.
E anche se suo fratello lo avesse capito, non avrebbe potuto dimostrarlo in alcun modo; non avrebbe consegnato il criminale alla giustizia, e questo lo avrebbe automaticamente fatto perdere, garantendo la vittoria a B.
Il primo caso irrisolto del grande detective L. Ma che razza di gloria poteva mai esserci in una follia del genere?
“Non è possibile. Tu?” esalò con voce strozzata.
“Proprio io: B.”
“Ma che senso ha fare una cosa del genere?”
“Voglio dimostrare che esiste qualcuno in grado di batterlo. Te l ho detto: gli obiettivi esistono per essere superati. Schiacciati. E’ quello che ho intenzione di fare con lui: il criminale vincerà sul detective.” Sbottò a ridere in modo meccanico, senza gioia alcuna; i suoi occhi rimasero fermi e freddi.
“Ma morire non è come perdere, in fondo? Hai vissuto tutta la vita solo per questo? Chi se ne importa chi vince alla fine, non potrai certo gioirne da morto!”
“Non c’è altro modo.” Rispose deciso.
Portò lentamente una mano fredda sulla sua guancia, poggiandola delicatamente “Perché stai tremando Rumer?” sussurrò, socchiudendo le palpebre.
Non se n’era accorta. Si impose la calma, fallendo miseramente “Hai parlato di scelta.”
“E’ vero, lui dovrà scegliere tra catturare l’assassino o salvare sua sorella. Chi vincerà: la giustizia o il cuore? Finora ero certo che L non sarebbe intervenuto, perché sapeva che non ti avrei ucciso. Ma presto dovrà decidere se catturarmi prima che io compia l’ultimo delitto o venire qui a salvarti. Ovviamente lui non sa come ho architettato le cose, anche se potrei giurare che si è fatto un’idea ben precisa. Ti posso assicurare che ci sarà un finale col botto!” stavolta la sua risata fu spontanea e terrificante; le si attaccò dentro ghiacciandole lo stomaco dalla paura.
 
 
*citazione di Francis Bacon
 

   
 
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