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Autore: loryl84    10/05/2012    1 recensioni
Stava calando la sera.
Il cielo si andava tingendo di rosso. Tutto era immobile, statico.
In lontananza, il rumore di un ruscello che seguiva il suo corso...
Salve! sono nuova di questa sezione, ho deciso di postare anche qui questa storia, postata già in un altro sito. Spero davvero che possa piacere! A presto, Lory
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kaori/Greta, Ryo Saeba/Hunter
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: City Hunter
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Anni ’70 – Un punto imprecisato dell’America centrale


Stava calando la sera.

Il cielo si andava tingendo di rosso. Tutto era immobile, statico.

In lontananza, il rumore di un ruscello che seguiva il suo corso.

Gli uccelli, dopo un ultimo volo, si andavano a ritirare nei loro nidi. Gli insetti e le mosche ronzavano intorno, si attaccavano addosso con fastidiosa insistenza.

Il ragazzo diede uno sguardo sul paesaggio di fronte a sé. Il panorama era bellissimo, superbo, ma lui sapeva bene quanto potesse essere insidiosa la giungla.

Alle sue orecchie arrivava il sommesso frastuono dei suoi compagni. Stavano festeggiando, l’ultimo attacco all’esercito governativo era stato un vero successo. E adesso si ritrovavano insieme, a bere e a cantare sguaiate canzoni, accompagnati dalle procaci ragazze che avevano fatto venire dalla città.

Come se non fosse successo niente. Come se non avessero ammazzato uomini come loro, che combattevano come loro.

Il ragazzo si guardò le mani. Anche lui ce le aveva sporche di sangue. Anche lui aveva ucciso. Aveva solo sedici anni, ma già la lista degli uomini a cui aveva tolto la vita era molto lunga. Infinita.

Un guizzo di rabbia contrasse i tratti del suo bel viso.

Alzò lo sguardo sulla valle davanti a sé, stringendo i pugni. Se tutto andava come aveva previsto, quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto quel paesaggio.


 
La sera aveva lasciato il posto ad una notte stellata. La luna, pallida e silenziosa, rifletteva i suoi deboli raggi sulla fitta boscaglia.

Il ragazzo osservò lo spettacolo che aveva di fronte. I suoi compagni erano quasi tutti stesi al suolo, ubriachi fradici, alcuni sonnecchiavano, altri si erano ritirati nelle loro tende con le ragazze, altri ancora russavano rumorosamente.

I falò, che avevano acceso nel tardo pomeriggio, si andavano via via spegnendo. Intorno, bottiglie di rhum vuote, avanzi di carne arrostita sparsi qua e là, armi, lasciate incustodite, contornavano la scena.

Scavalcò uno dei suoi compagni, che si era addormentato con una bottiglia tra le mani, bloccando il passaggio. Silenziosamente prese la sacca con i pochi effetti personali, che aveva preparato, all’insaputa degli altri. Gettò uno sguardo sulla tenda più grande, quella del capo. Quella di suo padre.

Anche lui si era ritirato presto, stanco dalle fatiche del combattimento, ma non aveva tralasciato di portare con sé una giovane ragazza per fargli compagnia. Gli aveva lanciato uno sguardo significativo e ammiccando, era scomparso dietro la tenda. I gemiti soffocati che giungevano dall’interno, non lasciavano adito a dubbi.

Certo, non si sarebbe mai aspettato che al risveglio, lui non ci sarebbe più stato.

Un lampo di odio balenò nel suo sguardo. Quel bastardo, quel traditore, voleva utilizzarlo per i suoi luridi scopi. Ancora.

Sapeva bene che, pur essendo giovane, lui era molto più forte e più astuto della maggior parte dei suoi uomini messi insieme.

Lo aveva sentito mentre parlava con Pedro. Voleva fargli assaggiare ancora il suo “gioiellino”. Come se non fosse già stato abbastanza, tre anni prima. Per la miseria, era solo un bambino! Eppure non aveva esitato a drogarlo, a renderlo debole, alla sua mercè, per fargli fare quello che voleva.

Era sopravvissuto per miracolo. E adesso voleva ritentare la sorte. Ma questa volta non glielo avrebbe permesso. Aveva giocato già abbastanza con la sua vita.

Aprì la sacca, prese la pistola che era diventata la sua muta e silenziosa compagna. Una Phiton 357 Magnum. Apparteneva al primo uomo che aveva ucciso. Suo padre gli aveva permesso di tenerla. D’altronde erano quelle le regole del gioco, in guerra.

La sistemò nella cintola dei pantaloni, poi furtivamente, si inoltrò nella giungla.

Incominciò a correre, per mettere più distanza possibile, tra lui e quello che, fino ad allora era stato il suo mondo. Correva, nonostante i rami degli alberi gli graffiassero il volto. Ad un certo punto si fermò, per riprendere fiato. Si appoggiò al tronco di un albero, con i sensi all’erta. Gli era sembrato di aver udito un rumore, non voleva che avessero già scoperto la sua assenza. Ascoltò più attentamente.

Era un rumore strano, debole, sommesso.

Indeciso se accertarsi di che si trattava o continuare la sua corsa verso la salvezza, optò per la prima ipotesi. Piano si avvicinò al luogo da cui proveniva il lamento.

Districandosi tra le fronde degli alberi, cercando tuttavia di essere il più silenzioso possibile, arrivò in una zona dove la vegetazione era più fitta.

Sbattè le palpebre diverse volte, per abituarsi all’oscurità. Grazie all’aiuto dei fiochi raggi lunari, intravide qualcosa. Sembrava una carcassa. Un esame più accurato, gli fece capire che si trovava di fronte ai resti di un aereo.

Si ricordò che il giorno prima, Pedro aveva parlato di un aereo che era caduto nei dintorni. Aveva pensato di fare un giretto, ma i preparativi per la guerriglia non gliene avevano dato il tempo. In seguito, aveva completamente dimenticato quell’incidente.

Dal groviglio di lamiera, usciva ancora un piccolissimo filo di fumo. Era palese che l’impatto era stato duro, non aveva lasciato superstiti.

Cautamente, si avvicinò. Udiva chiaramente un debole lamento, un pianto sommesso.

Alzò le fronde degli alberi, che gli impedivano una chiara visuale. Mosse pochi passi, fino a trovarsi davanti allo sportellone principale. Infilò la testa all’interno, notando subito i corpi esanimi dei passeggeri.

Il pianto era sempre più vicino. Con un balzo, entrò in quello che era stato il corridoio. Il movimento causò un cigolìo, che fece cessare il pianto.

Il ragazzo avanzò piano, guardando tra i sedili. L’aereo era stato distrutto per metà, i comandi erano andati in tilt, dal motore colava un denso liquido ambrato. Sembrava incredibile che non avesse ancora preso fuoco.

All’improvviso si fermò. Aveva notato un leggero movimento alla sua destra, un fruscio impercettibile. Si chinò per osservare meglio sotto il sedile, stendendo la mano per afferrare ciò che aveva causato il rumore.

Un piccolo grido si levò nell’aria.

Con sorpresa, il ragazzo mollò la presa. Ciò che aveva davanti lo lasciò senza fiato.

Un bambino, di cinque o sei anni, lo fissava con gli occhi sbarrati. Gli occhi erano umidi, le guance bagnate dalle lacrime. Indossava una salopette di jeans, scarpe da ginnastica e in testa aveva un cappellino. Teneva tra le sue, la mano di una giovane donna, visibilmente morta.

Il ragazzo capì al volo. Doveva essere sicuramente sua madre.

Nonostante la drammaticità della situazione, non potevano rimanere lì.

Se non si fosse sbrigato, la sua fuga sarebbe stata scoperta, e la sua possibilità di rifarsi una vita altrove sarebbe sfumata.

Con un sorriso, porse la mano al bambino, che, esitante, l’afferrò.

Il ragazzo lo prese in braccio, uscendo velocemente da quel groviglio di macerie.

Doveva pensare. Se avesse deciso di portare con sé il bambino, questo gli avrebbe rallentato la fuga. Senza contare che non sapeva ancora se sarebbe riuscito a scappare e giungere sano e salvo al confine. Non poteva rischiare di mettere in pericolo la vita di quell’innocente.

D’altra parte, se tornava indietro avrebbe perso un sacco di tempo. Tempo prezioso per la sua fuga. Alzò gli occhi al cielo. Ancora poche ore, e al campo la sua assenza sarebbe stata notata.

Diede uno sguardo al bambino, non sapendo cosa fare. Lo guardava con gli enormi occhi spalancati, comprensibilmente terrorizzato.

Lanciò un’imprecazione, poi con un sospiro, si voltò e rifece il percorso a ritroso.

Il bambino era appoggiato sulla sua schiena, le piccole braccia gli cingevano il collo.

Quando arrivò ad un paio di centinaia di metri dall’accampamento, si fermò, ansimando.

Posò il bambino a terra, che ancora non aveva detto una parola.

Si abbassò alla sua altezza, mettendogli le mani sulle spalle.

“Allora, ragazzino, adesso farai come ti dico, d’accordo?”

Il bambino lo guardò, muto.

“Le vedi quelle tende?” disse, indicando il campo. Vedendolo annuire, continuò. “Bene, quando io te lo dirò, tu comincerai a correre e andrai laggiù, intesi? Troverai alcuni uomini, non ti spaventare, non ti faranno del male”

Il bambino continuava a rimanere in silenzio.

“Dì un po’ Sugar Boy, non ti avranno forse tagliato la lingua?”

Non ricevendo risposta, il ragazzo alzò le spalle.

“Fa un po’ come ti pare, io adesso devo andare”

E si girò per andarsene.

Ma una debole presa intorno al braccio lo bloccò. Si girò e vide che il bambino lo stava fissando.

“Posso venire con te?” chiese con una vocina, rotta dai singhiozzi.

Il cuore del ragazzo si strinse. Accidenti, no che non poteva andare!

Si inginocchiò accanto a lui.

“Non mi hai ancora detto come ti chiami”

Il bambino fece un sorriso dolcissimo, poi si tolse il cappello, e, una cascata di lunghi capelli color mogano, fece capolino.

“Io sono Kaori” disse, tendendogli la mano educatamente.

Il ragazzo moro fece un sorriso, sorpreso, poi gli arruffò delicatamente i capelli.

“Piacere Kaori, io sono Ryo” disse stringendogli la mano “Ora ascoltami. Non puoi venire con me, è troppo pericoloso. Laggiù starai più al sicuro” disse deciso.

Sperava che fosse così. Probabilmente suo padre avrebbe fatto in modo di lasciarla da qualche parte in città, e qualcuno si sarebbe preso cura di lei.

“Devi farmi una promessa. Promettimi che non dirai a nessuno che mi hai visto, dirai che sei arrivata qui da sola. Hai capito?”

La bimba aveva gli occhi colmi di lacrime, ma annuì.

Il ragazzo sorrise, soddisfatto.

“Bene, Sugar. Ti prometto che un giorno tornerò e ti porterò via di qui” disse solennemente.

Poi, mosso da un improvviso senso di tenerezza e protezione, si chinò e le diede un leggero bacio sulla guancia.

“Vai ora” le intimò.

Kaori lo guardò ancora una volta, poi le lacrime lasciarono il posto ad un’espressione fiduciosa.

Annuì e cominciò a correre verso il campo.

  
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