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La
mia macchina
è
distrutta da degli uccelli
I |
Ero
immersa nei miei pensieri, quando all’improvviso accadde l’impensabile; provate
a immaginare di sentire un forte tonfo e il rumore di un vetro rotto provenire
da dietro di voi. Vedendo dallo specchietto il vetro posteriore dell’auto
distrutto, qualunque persona con un briciolo di cervello, fermerebbe l’auto sul
ciglio della strada per vedere i danni e per capire se si tratta di un qualche
atto di vandalismo. Immaginatevi invece di vedere da quello specchietto non
solo il vetro distrutto, ma un enorme uccello dal becco affilato volare
seguendo la vostra auto. Pazzia? Ebbene, che ci crediate o meno, queste cose
sono da sempre state parte della mia vita, ed è proprio da questo episodio che
finalmente le mie disavventure iniziarono ad avere un senso.
Chi
sono io? Mi chiamo Roberta, ho 20 anni e abito in Italia. Cosa c’è di strano in
me? Beh, saranno forse i numerosi anni passati in terapia con gente che mi
prendeva per un’indemoniata perché vedevo delle strane creature attaccarmi di tanto in tanto... la gente inoltre prendeva le mie ferite per
semplice autolesionismo. Ho sofferto molto per questo. Io sono da sempre stata
convinta che quello che mi succedeva fosse reale, ma dopo una vita che
continuano a ripetere ai tuoi genitori “vostra figlia non solo soffre di un
deficit dell’attenzione, non solo è dislessica, ma ha dei problemi mentali”,
finisci per crederci pure te.
Potevano
darmi della pazza quanto volevano ma, mentre guidavo con le lacrime agli occhi,
pigiando l’acceleratore fino in fondo, mi dissi che era impossibile che i
medici e i miei genitori potessero trovare una scusa a quello che era successo
all’automobile. Dietro di me notai che non c’era solo un uccello, ma ce n’erano
addirittura tre: erano enormi, di un rosso molto scuro e gli occhi quasi
incandescenti; avevano un becco di un arancio sporco, molto lungo e acuminato,
e un’apertura alare veramente impressionante, per non parlare delle piume, che
sembravano brillare sotto la luce dei lampioni. La pioggia non sembrava turbare
minimamente il loro volo. La strada di fronte a me era tutta libera, non
c’erano auto in circolazione, il che era da una parte una fortuna, perché così
potevo andare di gas senza preoccuparmi, ma dall’altra un problema, perché
nessuno poteva accorgersi che io in quel momento ero in pericolo; forse però la
cosa non faceva differenza: mai nessuno riusciva a vedere i mostri che vedevo
io. Improvvisamente l’auto sbandò, a causa dell’acqua planning, e ribaltai in
un fosso alla mia destra. Chiusi gli occhi terrorizzata mentre ribaltavo, e
sentii gli air-bag aprirsi. Quando aprii gli occhi mi ritrovai praticamente al
contrario, con la testa in basso e le gambe per aria; avevo parecchie ferite
sulle braccia, sulle gambe e sul viso, ero circondata da pezzi di vetro, sanguinavo,
ma per lo meno ero ancora viva. Non sapevo cosa fare: una parte di me avrebbe
voluto uscire da quella carcassa il prima possibile, ma l’altra parte di me
sapeva benissimo che, se fossi uscita, avrei reso le cose più semplici a quegli
uccelli perché, io lo sapevo, loro cercavano me. Non so perché lo facessero, ma
era inevitabile: da sempre mi ritrovavo in situazioni inspiegabili con serpenti
a due teste e capre troppo feroci.
Incrociai
le dita e sperai che quei dannati uccelli se ne andassero, ma dovetti subito
ricredermi, quando sentii i loro becchi affilati infilarsi letteralmente nella
carcassa dell’automobile. Non potevo starmene lì senza via di scampo a farmi
sbranare. Nello schianto, il freno a mano si era staccato e vedendolo decisi di fare qualcosa: lo presi, lo
infilai nell’apertura che si era creata nella mia portiera e, con i piedi,
cercai in tutti i modi di fare leva, come se fosse un piede di porco, il che
non era per nulla semplice.
Dopo
parecchie spinte con i piedi, la portiera si staccò letteralmente ed io pensai
che sarebbe stato da stupidi uscire dall’auto e mettersi a correre con degli
stupidi uccelli maledetti alle calcagna. Presi la portiera staccata, e la
trascinai con me, di modo che potesse farmi da scudo da quelle creature, ma
sapevo bene che se si fossero alzate sopra di me, sarebbe stata la fine.
Probabilmente non erano creature molto intelligenti, perché non lo fecero. I
tre enormi uccelli se ne stavano di fronte a me, e vidi dai loro corpi uscire
delle lame metalliche. Riuscii a coprirmi dietro la portiera in tempo, ma
rimasi ancora più terrorizzata quando notai che era successo: le cose
metalliche che erano schizzate fuori dal loro corpi erano le loro piume, ed
avevano perforato la portiera.
Ok, se devo morire in questo modo,
speriamo almeno che siano veloci a farmi fuori! Pensai terrorizzata con le lacrime
agli occhi, e chiusi gli occhi, accucciandomi su me stessa dietro la portiera
mezza distrutta mentre quegli enormi uccelli si preparavano ad un attacco
diretto.
Poi
accadde una cosa che non mi aspettavo proprio: sentii un botto e gli uccelli
lamentarsi. Alzai lo sguardo e vidi che di fronte alla portiera c’era un
ragazzo alto, dai capelli nero corvino che mi dava le spalle. Teneva qualcosa
di fronte a sé, una specie di scudo, che aveva fermato i tre mostri:
stranamente quell’aggeggio a differenza della portiera dell’automobile non si
era distrutto. Mentre i tre uccellacci si stavano riprendendo dal dolore, il
ragazzo si girò verso di me preoccupato e, restando in posizione di difesa, mi
domandò: - Are you ok? –
Non
capii perché stesse parlando in inglese, ma annuii debolmente, tremando e non
sapendo né cosa fare né se mi potessi fidare di quel ragazzo… poi mi resi conto
della realtà: quel ragazzo mi aveva salvata! Anche lui vedeva quei giganteschi
mostri! Allora non ero io ad essere pazza! Dopo anni passati con gente che
cercavano di convincermi che avevo dei problemi, ora avevo la certezza di
essere sana di mente! Non ebbi tempo di fare delle domande, perché i tre
uccellacci stavano per riattaccare. Solo in quel momento notai che il ragazzo
non solo teneva uno scudo con una mano, ma nell’altra aveva… una spada.
Il
ragazzo tentò parecchie volte di colpire le creature, ma quelle si alzavano e
si abbassavano in volo e passavano subito all’attacco con le loro piume
micidiali, i loro becchi affilati e i loro artigli. Il ragazzo se la stava
cavando comunque benissimo, e ad un certo punto finalmente la sua spada riuscì
a trapassare il corpo metallico di una delle creature che, con uno strillo raccapricciante,
si dissolse in polvere. Gli altri due mostri non sembravano felici della
scomparsa del loro compare, e i loro occhi lampeggiarono rabbiosi verso il
ragazzo, che dovette mettercela tutta per difendersi. Ormai i due esseri malefici erano
concentrati solo sul ragazzo, come se si fossero dimenticati di me; mi
sentivo impotente di fronte a quella scena, avrei voluto aiutarlo anch’io a far
fuori quei cosi, anche se non sapevo come. Ad un certo punto uno dei due
uccelli, nel tentativo di beccare in pieno il ragazzo, stava per planare dritto
con il suo becco addosso a me, ma lo sconosciuto con un salto
mi fece abbassare e mi protesse con il suo scudo. Nel momento stesso in cui lo
fece mi lanciò un accendino rosso fuoco dicendomi in inglese: - Prendi Exusía!
– e tornò alla lotta. Guardai l’accendino senza capire: cosa dovevo farci con
un accendino?! Accendermi l’ultima sigaretta prima di lasciarci le penne?!
Vedendo con la coda nell’occhio che fissavo l’accendino senza capire, mentre
parava l’ennesimo doppio attacco dei due mostri, il ragazzo urlò: - Accendi! -
Non
riuscivo proprio a capire a cosa potesse servire, ma lui sembrava saperne molto
più di me, quindi gli diedi ascolto; con il pollice feci scattare l’accendino,
che si accese, ma la fiamma si allugò di almeno sessanta centimetri, e sentii
nella mia mano destra l’accendino allungarsi. Quando aprii gli occhi mi
ritrovai in mano anch’io una spada, e rimasi a bocca aperta: era lucida, aveva
il pomolo incastonato di piccoli smeraldi rossi e sull’impugnatura vidi una
scritta, ma non ebbi tempo di leggere
che uno dei due mostri mi attaccò.
Senza
pensarci un secondo di più, sferrai un colpo al mostro, tranciandogli la testa
di netto: questo si dissolse immediatamente in polvere con un verso dolorante.
Mi stupii della mia bravura visto che in vita mia non avevo mai tenuto in mano
una spada. Mi avvicinai al ragazzo affiancandolo, ed entrambi ci mettemmo in
posizione di difesa di fronte all’ultimo mostro rimasto, che sembrava scrutarci
come a valutare quale fosse il modo più doloroso possibile per ucciderci.
-
Non appena scende in volo su di noi, tu buttati da parte – mi sussurrò piano il
ragazzo. – e quando mi sta per colpire, sferragli un fendente da dietro dritto
nel collo. -
Annuii
agitata, tenendo entrambe le mani sull’impugnatura della spada, e presi un
grosso respiro: dovevo concentrarmi e stare tranquilla, quel ragazzo sapeva
come cavarsela, potevo farcela pure io. Come aveva previsto, il mostro planò in
picchiata su di noi; io mi buttai a sinistra, la spada ben stretta tra le mie
mani, ma mi alzai in piedi subito: il mostro era praticamente a poca distanza
dal ragazzo, e questo se ne stava immobile, lo scudo alzato e la spada pronta a
difendersi. Non mi feci attendere un secondo di più: con un coraggio che
nemmeno io credevo di avere, mi buttai sulla schiena dell’uccellaccio, alzai la
spada con entrambe le mani, la lama rivolta verso il basso e glie la conficcai
dritta nel collo. Il mostro sorpreso urlò e si dileguò sotto di me, facendomi
cadere a terra con le ginocchia, mentre la spada si conficcava nel terreno, a
un paio di centimetri di distanza dal ragazzo.
Rimasi
inginocchiata per terra ancora per un paio di
secondi, le mani intorno all’elsa della spada: ero troppo traumatizzata per dire qualcosa, e non sapevo se scoppiare
a piangere dal sollievo o urlare di gioia. Mi lasciai andare indietro e mi
appoggiai a terra con le mani, osservando dal basso il ragazzo che stava
finalmente lasciando la posizione di difesa e mi osservava con un sorriso
soddisfatto.
-
Te la sei cavata proprio bene! – si complimentò mentre il suo scudo si
rimpiccioliva fino a diventare un polsino di borchie e pelle nera attorno al
suo polso sinistro. – Non tutti alla prima occasione riuscirebbero a fare fuori
due Stinfalidi in quel modo…! -
Riportai
le mani sull’elsa della spada, per aiutarmi ad alzarmi, visto che le gambe mi
cedevano dall'emozione per quello che era appena capitato.
-
Stinfalidi? Si chiamano così quei cosi? – domandai in inglese, togliendo la
spada dal terreno. Lui annuì e spiegò: - Sono dei mostri carnivori. –
Beh, su questo non avevo alcun dubbio… pensai ironica, dopo di che
continuando a guardare il ragazzo, finalmente gli posi la domanda che avrei
voluto porgli già all’inizio: - Perché posso vedere questi mostri? E perché
sino ad ora tu sei l’unico oltre a me che può vederli? –
Il
ragazzo ripose la spada nel fodero e senza rispondermi mi suggerì: - Spingi
verso il centro due estremità opposte della guardia. –
Scoprii
quindi che la guardia era quella parte tra l’impugnatura e la lama, ma prima di
fare quello che mi aveva detto, osservai meglio la spada, per leggere quella
scritta che poco prima non avevo avuto il tempo di leggere: c’era scritto Ἀχιλλεύς. Non avevo studiato greco al liceo, ma lo riconoscevo e mi
stupii di riuscire a leggere e a capire chiaramente quella scrittura: c’era
scritto Achille.
- M-ma… qui c’è
scritto… - balbettai e il ragazzo annuì.
-
Quella si chiama Exusía, un tempo era la spada del prode Achille – mi spiegò.
Scossi
la testa sconvolta e dissi: - No, scusa… non credo di essere così pessima in
inglese… ma hai veramente detto che questa era
veramente la spada di Achille?! –
Il
ragazzo annuì; io strinsi sconvolta le due estremità opposte della guardia
verso il centro, come mi aveva detto lui e la spada sembrò rimpicciolirsi fino
a tornare un comune accendino.
-
No! – esclamai mettendomi le mani tra i capelli e camminando avanti e indietro
agitata come non lo ero da molto tempo. – Com’è possibile tutto questo?! Sono
anni che me lo domando, ma nessuno a parte me crede in quello che vedo… nessuno
mai ha mai visto quello che vedo io, tu sei l’unica eccezione! -
-
E’ colpa della foschia. – spiegò lui calmo. – La foschia è una magia che copre
gli occhi dei mortali facendo loro sembrare normale qualcosa che normale non è.
Per questo loro non possono capire cosa ti accade realmente. –
Mi
voltai ferma verso di lui, e osservando quei suoi occhi scuri, neri e così
profondi, riuscii leggermente a calmarmi: lui era così quieto che non potevo
non esserlo pure io.
-
Parli di mortali come se tu non lo fossi… - gli feci notare.
-
Come se noi non lo fossimo – mi
corresse, e vedendo la mia espressione accigliata, sorrise e mi disse: - Che ne
dici di dirigerci a piedi verso casa tua? Io e te dobbiamo parlare, e poi ovviamente
dobbiamo parlarne con il tuo genitore… ti spiegherò dopo – aggiunse vedendo la
mia faccia straniata dal fatto che io e lui dovevamo parlare con i miei.
Fortunatamente non eravamo tanto distanti da casa mia, e ci incamminammo nel
buio della notte, bagnati fradici dalla pioggia che era appena finita.
-
Cavoli, che scemo! – esclamò lui all’improvviso. – Le circostanze mi hanno
impedito di presentarmi…- allungò la mano verso di me e si presentò: - Io mi
chiamo Nico Di Angelo. – gli strinsi la mano sorridendogli e mi presentai: -
Roberta, ma chiamami Robby… –
Notai
subito che aveva un cognome italiano, nonostante parlasse inglese. Però non
avevo tempo di chiedergli vita, morte e miracoli sulle sue origini: quello che
interessava a me era sapere il motivo per cui mi succedevano sempre quelle cose
assurde.
-
Tu… stavi dicendo che non siamo mortali? – ripresi il discorso continuando a
camminare, scrocchiandomi le dita nervosa.
-
Lo siamo in parte. – mi corresse. – Tu vivi sola con un tuo genitore, vero? –
Scossi
la testa, e abbassai lo sguardo: tra i tanti problemi che avevo, avrei dovuto
raccontargli anche quello…
-
Io… sono stata adottata. – raccontai con una voce fine. – Vivo con i miei… beh,
in pratica sono loro i miei genitori. Ho così tanti problemi che non mi sono
mai chiesta chi fossero realmente i miei genitori, e non ho nemmeno voglia di
saperlo… -
Nico
sospirò e annuì.
-
E’ un po’ più complicato di quello che accade di solito, ma… sappi solo che la
causa dei tuoi problemi è proprio uno dei tuoi veri genitori. - Lo guardai
accigliato, ma lui continuò: - Sei dislessica, vero? E iperattiva, esatto? -
Ancora
una volta non potevo crederci: come faceva a sapere tutte quelle cose di me?!
-
Sì, ma… come fai a saperlo?! – gli domandai. Non era mai facile raccontarlo
alla gente, specialmente con dei quasi sconosciuti. Era come ammettere di
valere meno di una persona normale, cosa che in terapia mi facevano sempre
pesare involontariamente e, credetemi, se non è bello quando la gente vi dice
che non siete normali, lo è ancora di meno quando siete voi a doverlo
ammettere. Ma Nico lo sapeva già, sembrava sapere tutto di me, il che aveva
dell’incredibile, ma nell’ultima ora cosa c’era stato di non incredibile?
Lui
sorrise e continuò: - Tu non sei dislessica, e meno che meno iperattiva,
Roberta! Ricordi poco fa? Sei riuscita a leggere quella scritta anche se era in
greco: il tuo cervello è impostato sul greco antico, per questo quando tenti di
leggere nella tua lingua le lettere iniziano a roteare – rimasi ad ascoltarlo a
bocca aperta: era tutto così assurdo…
-
E l’iperattività? – domandai.
-
Sono i tuoi riflessi da guerriera. – mi spiegò lui.
-
Guerriera? E perché dovrei essere una guerriera? E cosa centrano i miei
genitori naturali in tutto questo? – chiesi senza capire.
Nico
sospirò, poi mi domandò: - Tra tutte le situazioni assurde che hai vissuto… ti
è mai capitato di sentire una forte sensazione di calore dritta nello stomaco?
–
Rimasi
in silenzio: sì, mi era capitato. Non stavo facendo nulla di strano quando mi era successo: mi ero semplicemente svegliata da un sogno strano con quella sensazione calore di
cui parlava Nico…
-
Io… sono andata a vedermi allo specchio in quel momento, mi sentivo strana… -
gli confidai; lui annuì e mi chiese: - E ti è apparso un simbolo, vero? -
Lui,
per qualche strano motivo, sapeva tutto. Mi tirai su la manica destra e gli
mostrai la parte interna del polso, dove avevo tatuato un fulmine.
-
Quel giorno ho visto un simbolo come questo – gli dissi. – So che può sembrare
assurdo, ma quando mi sono vista allo specchio l’ho visto proprio brillare
proprio sopra di me, e dopo quel momento… non so… è come se fosse stato più
forte di me, appena ho potuto sono andata e me lo sono fatta tatuare qui. -
Nico
rimase basito per un attimo, poi si portò una mano tra i capelli e commentò: -
La cosa è sempre più complicata di quanto credevo che fosse… -
-
Allora?! – lo interruppi esasperata. – Mi vuoi dire che c’è che non va?! -
-
Mi sembra ovvio, no? – mi chiese guardandomi cauto. Il suo sorriso si era forse
un po’ spento, sembrava un po’ più intimorito di prima. – Tu sei figlia del
divino Zeus. –
Ci
eravamo fermati di fronte alla porta di casa mia, ma ancora non avevo preso le
chiavi dalle tasche. Era veramente troppo incredibile. Impossibile. Ma Nico
continuava a fissarmi serio come non mai.
-
Zeus?! – domandai dopo parecchi secondi, o forse minuti, di totale silenzio.
Lui annuì, ed io continuai: - Ma gli dei dell’Olimpo non esist… - lui mi mise
una mano sulla bocca per impedire che finissi la frase, e mi disse: - Se non vuoi
morire fulminata dal tuo stesso padre evita di pronunciare quella frase, ok? -
Gli
tolsi la sua mano dalla mia bocca, ed esclamai: - E’ semplicemente assurdo! –
-
C’è forse qualcosa nella tua vita che non lo è stato?! – mi fece notare lui, e
allora mi zittii: tutto quello che mi aveva detto avere un senso, era
incredibile, ma dopo anni ero riuscita a darmi una ragione alternativa al fatto
che fossi da manicomio. - Ti sei tatuata sulla pelle un simbolo che hai visto
apparire sulla tua testa: sai che è importante, è per questo che l’hai fatto
anche se all’inizio non avevi capito per quale motivo. -
Rimasi
ancora parecchio tempo in silenzio, sconvolta.
-
E cosa dovrei fare allora? – chiesi tristemente.
-
Vieni con me. – disse lui tranquillo, e finalmente sul suo volto tornò un
sorriso. – Al Campo Mezzosangue. E’ un campo per ragazzi che hanno un genitore
divino e uno umano, ragazzi ‘mezzosangue’, appunto: ci si allena a combattere i
mostri che sono attratti dal nostro odore e a sopravvivere senza problemi. Io
sono al Campo da quattro anni. –
Un campo per persone come me? Sentii il cuore battermi forte nel
petto: per la prima volta mi stavano proponendo di andare in un posto che non
era il manicomio, un posto nel quale certamente, mi sarei sentita a mio agio
con persone che sapevano cosa voleva dire ‘essere diversi’. Una parte di me
però esitava ad accettare; non dubitavo delle parole di Nico, lui aveva
indovinato troppe cose di me, questo non poteva essere un caso e mi aveva
salvato la vita… quello che mi faceva esitare era l’idea di lasciare i miei
genitori. Sì, la mia vita non era mai stata normale, non lo sarebbe mai stata,
ma senza i miei genitori, senza la mia piccola sorellina, avrei azzerato la mia
normalità: erano una parte importante della mia vita.
Ero
così presa dai miei pensieri che mi ricordai solo dopo di chiedergli: - Ma
quindi anche tu sei un figlio… hem… di Zeus? –
Dal
cielo partì un fulmine, e sia io che Nico alzammo lo sguardo spaventati, poi
lui tornò a me, come se una reazione simile da parte del cielo fosse nella
normalità.
-
Credo che Zeus non abbia gradito questo tuo commento – disse lui con un sorriso
ironico e un sopracciglio alzato. – Non tutti quelli al Campo Mezzosangue sono
figli di Zeus: esistono anche altri dei e dee, sappilo. -
Io
allora gli posi quella fatidica domanda che vorticava da un bel po’ nella mia
testa senza trovare risposta: - Allora tu di chi sei figlio? –
Mi
sorrise tetro e i suoi occhi neri sembrarono accendersi, diventando ancora più
profondi.
-
Io sono figlio di Ade, il dio dei morti -