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Autore: Calipso__    14/05/2012    4 recensioni
L'Oltretomba è irraggiungibile: gli dei non riescono ad accedervi e Ade sembra essere sparito nel nulla. Robby è una nuova mezzosangue, ma il suo ritrovamento non è stato casuale: due profezie la obbligano a partire per un'impresa alla ricerca della verità. Insieme a Nico, figlio di Ade e Paul, figlio di Apollo, Robby partirà per la volta di Los Angeles, ma durante questo viaggio qualcuno tenta di ostacolarli in tutti i modi possibili: sembra proprio che Ade sia prigioniero del suo stesso regno. Riusciranno i tre mezzosangue a intervenire prima che per Ade e per tutto l'Oltretomba sia troppo tardi?
Alla mia migliore amica Chiara,
che ha veramente consacrato
la sua vita per quello in cui crede.
E ai miei amici
che per me ci sono sempre,
pure in questo racconto.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Robby e gli dei dell'Olimpo'
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Wherever I Go 1

 

 

 

 

 

1

La mia macchina

è distrutta da degli uccelli

 

I

 
mmaginatevi di trovarvi in una piovosa notte di aprile: l’acqua scende dal cielo scuro e voi con la vostra automobile state tornando a casa dopo una serata tranquilla con gli amici, radio moderata, occhi fissi sulla strada, dita che picchiettano sul volante al ritmo di musica. Era proprio quello che stava succedendo a me, niente di strano fino a qui. Spostai gli occhi verso il cielo nero e tempestoso, e sospirai: quella notte per l’ennesima volta avevo sognato quella ragazza dai corti capelli castani e dagli occhi azzurri; era da parecchio tempo che la sognavo, e l’immagine di lei imprigionata in quella stanza buia non voleva uscire dalla mia testa neppure quando ero sveglia. Era quasi come se mi ci fossi affezionata, anche se non avevo la benché minima idea di chi fosse.

Ero immersa nei miei pensieri, quando all’improvviso accadde l’impensabile; provate a immaginare di sentire un forte tonfo e il rumore di un vetro rotto provenire da dietro di voi. Vedendo dallo specchietto il vetro posteriore dell’auto distrutto, qualunque persona con un briciolo di cervello, fermerebbe l’auto sul ciglio della strada per vedere i danni e per capire se si tratta di un qualche atto di vandalismo. Immaginatevi invece di vedere da quello specchietto non solo il vetro distrutto, ma un enorme uccello dal becco affilato volare seguendo la vostra auto. Pazzia? Ebbene, che ci crediate o meno, queste cose sono da sempre state parte della mia vita, ed è proprio da questo episodio che finalmente le mie disavventure iniziarono ad avere un senso.

Chi sono io? Mi chiamo Roberta, ho 20 anni e abito in Italia. Cosa c’è di strano in me? Beh, saranno forse i numerosi anni passati in terapia con gente che mi prendeva per un’indemoniata perché vedevo delle strane creature attaccarmi di tanto in tanto... la gente inoltre prendeva le mie ferite per semplice autolesionismo. Ho sofferto molto per questo. Io sono da sempre stata convinta che quello che mi succedeva fosse reale, ma dopo una vita che continuano a ripetere ai tuoi genitori “vostra figlia non solo soffre di un deficit dell’attenzione, non solo è dislessica, ma ha dei problemi mentali”, finisci per crederci pure te.

Potevano darmi della pazza quanto volevano ma, mentre guidavo con le lacrime agli occhi, pigiando l’acceleratore fino in fondo, mi dissi che era impossibile che i medici e i miei genitori potessero trovare una scusa a quello che era successo all’automobile. Dietro di me notai che non c’era solo un uccello, ma ce n’erano addirittura tre: erano enormi, di un rosso molto scuro e gli occhi quasi incandescenti; avevano un becco di un arancio sporco, molto lungo e acuminato, e un’apertura alare veramente impressionante, per non parlare delle piume, che sembravano brillare sotto la luce dei lampioni. La pioggia non sembrava turbare minimamente il loro volo. La strada di fronte a me era tutta libera, non c’erano auto in circolazione, il che era da una parte una fortuna, perché così potevo andare di gas senza preoccuparmi, ma dall’altra un problema, perché nessuno poteva accorgersi che io in quel momento ero in pericolo; forse però la cosa non faceva differenza: mai nessuno riusciva a vedere i mostri che vedevo io. Improvvisamente l’auto sbandò, a causa dell’acqua planning, e ribaltai in un fosso alla mia destra. Chiusi gli occhi terrorizzata mentre ribaltavo, e sentii gli air-bag aprirsi. Quando aprii gli occhi mi ritrovai praticamente al contrario, con la testa in basso e le gambe per aria; avevo parecchie ferite sulle braccia, sulle gambe e sul viso, ero circondata da pezzi di vetro, sanguinavo, ma per lo meno ero ancora viva. Non sapevo cosa fare: una parte di me avrebbe voluto uscire da quella carcassa il prima possibile, ma l’altra parte di me sapeva benissimo che, se fossi uscita, avrei reso le cose più semplici a quegli uccelli perché, io lo sapevo, loro cercavano me. Non so perché lo facessero, ma era inevitabile: da sempre mi ritrovavo in situazioni inspiegabili con serpenti a due teste e capre troppo feroci.

Incrociai le dita e sperai che quei dannati uccelli se ne andassero, ma dovetti subito ricredermi, quando sentii i loro becchi affilati infilarsi letteralmente nella carcassa dell’automobile. Non potevo starmene lì senza via di scampo a farmi sbranare. Nello schianto, il freno a mano si era staccato e vedendolo decisi di fare qualcosa: lo presi, lo infilai nell’apertura che si era creata nella mia portiera e, con i piedi, cercai in tutti i modi di fare leva, come se fosse un piede di porco, il che non era per nulla semplice.

Dopo parecchie spinte con i piedi, la portiera si staccò letteralmente ed io pensai che sarebbe stato da stupidi uscire dall’auto e mettersi a correre con degli stupidi uccelli maledetti alle calcagna. Presi la portiera staccata, e la trascinai con me, di modo che potesse farmi da scudo da quelle creature, ma sapevo bene che se si fossero alzate sopra di me, sarebbe stata la fine. Probabilmente non erano creature molto intelligenti, perché non lo fecero. I tre enormi uccelli se ne stavano di fronte a me, e vidi dai loro corpi uscire delle lame metalliche. Riuscii a coprirmi dietro la portiera in tempo, ma rimasi ancora più terrorizzata quando notai che era successo: le cose metalliche che erano schizzate fuori dal loro corpi erano le loro piume, ed avevano perforato la portiera.

Ok, se devo morire in questo modo, speriamo almeno che siano veloci a farmi fuori! Pensai terrorizzata con le lacrime agli occhi, e chiusi gli occhi, accucciandomi su me stessa dietro la portiera mezza distrutta mentre quegli enormi uccelli si preparavano ad un attacco diretto.

Poi accadde una cosa che non mi aspettavo proprio: sentii un botto e gli uccelli lamentarsi. Alzai lo sguardo e vidi che di fronte alla portiera c’era un ragazzo alto, dai capelli nero corvino che mi dava le spalle. Teneva qualcosa di fronte a sé, una specie di scudo, che aveva fermato i tre mostri: stranamente quell’aggeggio a differenza della portiera dell’automobile non si era distrutto. Mentre i tre uccellacci si stavano riprendendo dal dolore, il ragazzo si girò verso di me preoccupato e, restando in posizione di difesa, mi domandò: - Are you ok? –

Non capii perché stesse parlando in inglese, ma annuii debolmente, tremando e non sapendo né cosa fare né se mi potessi fidare di quel ragazzo… poi mi resi conto della realtà: quel ragazzo mi aveva salvata! Anche lui vedeva quei giganteschi mostri! Allora non ero io ad essere pazza! Dopo anni passati con gente che cercavano di convincermi che avevo dei problemi, ora avevo la certezza di essere sana di mente! Non ebbi tempo di fare delle domande, perché i tre uccellacci stavano per riattaccare. Solo in quel momento notai che il ragazzo non solo teneva uno scudo con una mano, ma nell’altra aveva… una spada.

Il ragazzo tentò parecchie volte di colpire le creature, ma quelle si alzavano e si abbassavano in volo e passavano subito all’attacco con le loro piume micidiali, i loro becchi affilati e i loro artigli. Il ragazzo se la stava cavando comunque benissimo, e ad un certo punto finalmente la sua spada riuscì a trapassare il corpo metallico di una delle creature che, con uno strillo raccapricciante, si dissolse in polvere. Gli altri due mostri non sembravano felici della scomparsa del loro compare, e i loro occhi lampeggiarono rabbiosi verso il ragazzo, che dovette mettercela tutta per difendersi. Ormai i due esseri malefici erano concentrati solo sul ragazzo, come se si fossero dimenticati di me; mi sentivo impotente di fronte a quella scena, avrei voluto aiutarlo anch’io a far fuori quei cosi, anche se non sapevo come. Ad un certo punto uno dei due uccelli, nel tentativo di beccare in pieno il ragazzo, stava per planare dritto con il suo becco addosso a me, ma lo sconosciuto con un salto mi fece abbassare e mi protesse con il suo scudo. Nel momento stesso in cui lo fece mi lanciò un accendino rosso fuoco dicendomi in inglese: - Prendi Exusía! – e tornò alla lotta. Guardai l’accendino senza capire: cosa dovevo farci con un accendino?! Accendermi l’ultima sigaretta prima di lasciarci le penne?! Vedendo con la coda nell’occhio che fissavo l’accendino senza capire, mentre parava l’ennesimo doppio attacco dei due mostri, il ragazzo urlò: - Accendi! -

Non riuscivo proprio a capire a cosa potesse servire, ma lui sembrava saperne molto più di me, quindi gli diedi ascolto; con il pollice feci scattare l’accendino, che si accese, ma la fiamma si allugò di almeno sessanta centimetri, e sentii nella mia mano destra l’accendino allungarsi. Quando aprii gli occhi mi ritrovai in mano anch’io una spada, e rimasi a bocca aperta: era lucida, aveva il pomolo incastonato di piccoli smeraldi rossi e sull’impugnatura vidi una scritta, ma non ebbi tempo di  leggere che uno dei due mostri mi attaccò.

Senza pensarci un secondo di più, sferrai un colpo al mostro, tranciandogli la testa di netto: questo si dissolse immediatamente in polvere con un verso dolorante. Mi stupii della mia bravura visto che in vita mia non avevo mai tenuto in mano una spada. Mi avvicinai al ragazzo affiancandolo, ed entrambi ci mettemmo in posizione di difesa di fronte all’ultimo mostro rimasto, che sembrava scrutarci come a valutare quale fosse il modo più doloroso possibile per ucciderci.

- Non appena scende in volo su di noi, tu buttati da parte – mi sussurrò piano il ragazzo. – e quando mi sta per colpire, sferragli un fendente da dietro dritto nel collo. -

Annuii agitata, tenendo entrambe le mani sull’impugnatura della spada, e presi un grosso respiro: dovevo concentrarmi e stare tranquilla, quel ragazzo sapeva come cavarsela, potevo farcela pure io. Come aveva previsto, il mostro planò in picchiata su di noi; io mi buttai a sinistra, la spada ben stretta tra le mie mani, ma mi alzai in piedi subito: il mostro era praticamente a poca distanza dal ragazzo, e questo se ne stava immobile, lo scudo alzato e la spada pronta a difendersi. Non mi feci attendere un secondo di più: con un coraggio che nemmeno io credevo di avere, mi buttai sulla schiena dell’uccellaccio, alzai la spada con entrambe le mani, la lama rivolta verso il basso e glie la conficcai dritta nel collo. Il mostro sorpreso urlò e si dileguò sotto di me, facendomi cadere a terra con le ginocchia, mentre la spada si conficcava nel terreno, a un paio di centimetri di distanza dal ragazzo.

Rimasi inginocchiata per terra ancora per un paio di secondi, le mani intorno all’elsa della spada: ero troppo traumatizzata per dire qualcosa, e non sapevo se scoppiare a piangere dal sollievo o urlare di gioia. Mi lasciai andare indietro e mi appoggiai a terra con le mani, osservando dal basso il ragazzo che stava finalmente lasciando la posizione di difesa e mi osservava con un sorriso soddisfatto.

- Te la sei cavata proprio bene! – si complimentò mentre il suo scudo si rimpiccioliva fino a diventare un polsino di borchie e pelle nera attorno al suo polso sinistro. – Non tutti alla prima occasione riuscirebbero a fare fuori due Stinfalidi in quel modo…! -

Riportai le mani sull’elsa della spada, per aiutarmi ad alzarmi, visto che le gambe mi cedevano dall'emozione per quello che era appena capitato.

- Stinfalidi? Si chiamano così quei cosi? – domandai in inglese, togliendo la spada dal terreno. Lui annuì e spiegò: - Sono dei mostri carnivori. –

Beh, su questo non avevo alcun dubbio… pensai ironica, dopo di che continuando a guardare il ragazzo, finalmente gli posi la domanda che avrei voluto porgli già all’inizio: - Perché posso vedere questi mostri? E perché sino ad ora tu sei l’unico oltre a me che può vederli? –

Il ragazzo ripose la spada nel fodero e senza rispondermi mi suggerì: - Spingi verso il centro due estremità opposte della guardia. –

Scoprii quindi che la guardia era quella parte tra l’impugnatura e la lama, ma prima di fare quello che mi aveva detto, osservai meglio la spada, per leggere quella scritta che poco prima non avevo avuto il tempo di leggere: c’era scritto χιλλεύς. Non avevo studiato greco al liceo, ma lo riconoscevo e mi stupii di riuscire a leggere e a capire chiaramente quella scrittura: c’era scritto Achille.

- M-ma… qui c’è scritto… - balbettai e il ragazzo annuì.

- Quella si chiama Exusía, un tempo era la spada del prode Achille – mi spiegò.

Scossi la testa sconvolta e dissi: - No, scusa… non credo di essere così pessima in inglese… ma hai veramente detto che questa era veramente la spada di Achille?! –

Il ragazzo annuì; io strinsi sconvolta le due estremità opposte della guardia verso il centro, come mi aveva detto lui e la spada sembrò rimpicciolirsi fino a tornare un comune accendino.

- No! – esclamai mettendomi le mani tra i capelli e camminando avanti e indietro agitata come non lo ero da molto tempo. – Com’è possibile tutto questo?! Sono anni che me lo domando, ma nessuno a parte me crede in quello che vedo… nessuno mai ha mai visto quello che vedo io, tu sei l’unica eccezione! -

- E’ colpa della foschia. – spiegò lui calmo. – La foschia è una magia che copre gli occhi dei mortali facendo loro sembrare normale qualcosa che normale non è. Per questo loro non possono capire cosa ti accade realmente. –

Mi voltai ferma verso di lui, e osservando quei suoi occhi scuri, neri e così profondi, riuscii leggermente a calmarmi: lui era così quieto che non potevo non esserlo pure io.

- Parli di mortali come se tu non lo fossi… - gli feci notare.

- Come se noi non lo fossimo – mi corresse, e vedendo la mia espressione accigliata, sorrise e mi disse: - Che ne dici di dirigerci a piedi verso casa tua? Io e te dobbiamo parlare, e poi ovviamente dobbiamo parlarne con il tuo genitore… ti spiegherò dopo – aggiunse vedendo la mia faccia straniata dal fatto che io e lui dovevamo parlare con i miei. Fortunatamente non eravamo tanto distanti da casa mia, e ci incamminammo nel buio della notte, bagnati fradici dalla pioggia che era appena finita.

- Cavoli, che scemo! – esclamò lui all’improvviso. – Le circostanze mi hanno impedito di presentarmi…- allungò la mano verso di me e si presentò: - Io mi chiamo Nico Di Angelo. – gli strinsi la mano sorridendogli e mi presentai: - Roberta, ma chiamami Robby… –

Notai subito che aveva un cognome italiano, nonostante parlasse inglese. Però non avevo tempo di chiedergli vita, morte e miracoli sulle sue origini: quello che interessava a me era sapere il motivo per cui mi succedevano sempre quelle cose assurde.

- Tu… stavi dicendo che non siamo mortali? – ripresi il discorso continuando a camminare, scrocchiandomi le dita nervosa.

- Lo siamo in parte. – mi corresse. – Tu vivi sola con un tuo genitore, vero? –

Scossi la testa, e abbassai lo sguardo: tra i tanti problemi che avevo, avrei dovuto raccontargli anche quello…

- Io… sono stata adottata. – raccontai con una voce fine. – Vivo con i miei… beh, in pratica sono loro i miei genitori. Ho così tanti problemi che non mi sono mai chiesta chi fossero realmente i miei genitori, e non ho nemmeno voglia di saperlo… -

Nico sospirò e annuì.

- E’ un po’ più complicato di quello che accade di solito, ma… sappi solo che la causa dei tuoi problemi è proprio uno dei tuoi veri genitori. - Lo guardai accigliato, ma lui continuò: - Sei dislessica, vero? E iperattiva, esatto? -

Ancora una volta non potevo crederci: come faceva a sapere tutte quelle cose di me?!

- Sì, ma… come fai a saperlo?! – gli domandai. Non era mai facile raccontarlo alla gente, specialmente con dei quasi sconosciuti. Era come ammettere di valere meno di una persona normale, cosa che in terapia mi facevano sempre pesare involontariamente e, credetemi, se non è bello quando la gente vi dice che non siete normali, lo è ancora di meno quando siete voi a doverlo ammettere. Ma Nico lo sapeva già, sembrava sapere tutto di me, il che aveva dell’incredibile, ma nell’ultima ora cosa c’era stato di non incredibile?

Lui sorrise e continuò: - Tu non sei dislessica, e meno che meno iperattiva, Roberta! Ricordi poco fa? Sei riuscita a leggere quella scritta anche se era in greco: il tuo cervello è impostato sul greco antico, per questo quando tenti di leggere nella tua lingua le lettere iniziano a roteare – rimasi ad ascoltarlo a bocca aperta: era tutto così assurdo…

- E l’iperattività? – domandai.

- Sono i tuoi riflessi da guerriera. – mi spiegò lui.

- Guerriera? E perché dovrei essere una guerriera? E cosa centrano i miei genitori naturali in tutto questo? – chiesi senza capire.

Nico sospirò, poi mi domandò: - Tra tutte le situazioni assurde che hai vissuto… ti è mai capitato di sentire una forte sensazione di calore dritta nello stomaco? –

Rimasi in silenzio: sì, mi era capitato. Non stavo facendo nulla di strano quando mi era successo: mi ero semplicemente svegliata da un sogno strano con quella sensazione calore di cui parlava Nico…

- Io… sono andata a vedermi allo specchio in quel momento, mi sentivo strana… - gli confidai; lui annuì e mi chiese: - E ti è apparso un simbolo, vero? -

Lui, per qualche strano motivo, sapeva tutto. Mi tirai su la manica destra e gli mostrai la parte interna del polso, dove avevo tatuato un fulmine.

- Quel giorno ho visto un simbolo come questo – gli dissi. – So che può sembrare assurdo, ma quando mi sono vista allo specchio l’ho visto proprio brillare proprio sopra di me, e dopo quel momento… non so… è come se fosse stato più forte di me, appena ho potuto sono andata e me lo sono fatta tatuare qui. -

Nico rimase basito per un attimo, poi si portò una mano tra i capelli e commentò: - La cosa è sempre più complicata di quanto credevo che fosse… -

- Allora?! – lo interruppi esasperata. – Mi vuoi dire che c’è che non va?! -

- Mi sembra ovvio, no? – mi chiese guardandomi cauto. Il suo sorriso si era forse un po’ spento, sembrava un po’ più intimorito di prima. – Tu sei figlia del divino Zeus. –

Ci eravamo fermati di fronte alla porta di casa mia, ma ancora non avevo preso le chiavi dalle tasche. Era veramente troppo incredibile. Impossibile. Ma Nico continuava a fissarmi serio come non mai.

- Zeus?! – domandai dopo parecchi secondi, o forse minuti, di totale silenzio. Lui annuì, ed io continuai: - Ma gli dei dell’Olimpo non esist… - lui mi mise una mano sulla bocca per impedire che finissi la frase, e mi disse: - Se non vuoi morire fulminata dal tuo stesso padre evita di pronunciare quella frase, ok? -

Gli tolsi la sua mano dalla mia bocca, ed esclamai: - E’ semplicemente assurdo! –

- C’è forse qualcosa nella tua vita che non lo è stato?! – mi fece notare lui, e allora mi zittii: tutto quello che mi aveva detto avere un senso, era incredibile, ma dopo anni ero riuscita a darmi una ragione alternativa al fatto che fossi da manicomio. - Ti sei tatuata sulla pelle un simbolo che hai visto apparire sulla tua testa: sai che è importante, è per questo che l’hai fatto anche se all’inizio non avevi capito per quale motivo. -

Rimasi ancora parecchio tempo in silenzio, sconvolta.

- E cosa dovrei fare allora? – chiesi tristemente.

- Vieni con me. – disse lui tranquillo, e finalmente sul suo volto tornò un sorriso. – Al Campo Mezzosangue. E’ un campo per ragazzi che hanno un genitore divino e uno umano, ragazzi ‘mezzosangue’, appunto: ci si allena a combattere i mostri che sono attratti dal nostro odore e a sopravvivere senza problemi. Io sono al Campo da quattro anni. –

Un campo per persone come me? Sentii il cuore battermi forte nel petto: per la prima volta mi stavano proponendo di andare in un posto che non era il manicomio, un posto nel quale certamente, mi sarei sentita a mio agio con persone che sapevano cosa voleva dire ‘essere diversi’. Una parte di me però esitava ad accettare; non dubitavo delle parole di Nico, lui aveva indovinato troppe cose di me, questo non poteva essere un caso e mi aveva salvato la vita… quello che mi faceva esitare era l’idea di lasciare i miei genitori. Sì, la mia vita non era mai stata normale, non lo sarebbe mai stata, ma senza i miei genitori, senza la mia piccola sorellina, avrei azzerato la mia normalità: erano una parte importante della mia vita.

Ero così presa dai miei pensieri che mi ricordai solo dopo di chiedergli: - Ma quindi anche tu sei un figlio… hem… di Zeus? –

Dal cielo partì un fulmine, e sia io che Nico alzammo lo sguardo spaventati, poi lui tornò a me, come se una reazione simile da parte del cielo fosse nella normalità.

- Credo che Zeus non abbia gradito questo tuo commento – disse lui con un sorriso ironico e un sopracciglio alzato. – Non tutti quelli al Campo Mezzosangue sono figli di Zeus: esistono anche altri dei e dee, sappilo. -

Io allora gli posi quella fatidica domanda che vorticava da un bel po’ nella mia testa senza trovare risposta: - Allora tu di chi sei figlio? –

Mi sorrise tetro e i suoi occhi neri sembrarono accendersi, diventando ancora più profondi.

- Io sono figlio di Ade, il dio dei morti -

  
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