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Autore: sese87    18/05/2012    1 recensioni
«Per questo credi di meritare una punizione? La saggezza va costruita: scegliere di fare la cosa giusta, nonostante non la si condivida, è già un piccolo passo verso di essa.» L’anziana lo accompagnò alla porta. «La cattiveria può nascondersi anche dietro la verità: Tamlen deve ancora impararlo. Ora va’, dal’en. Se vuoi potrai accompagnare tuo fratello durante la caccia».
Questa è la prima storia di una serie che proseguirà con DA:Awakening, e il DLC DA:Witch Hunt. I quali però non saranno presenti in questa avventura, quindi niente spoiler per il momento. ^-^ Inoltre, molti degli avvenimenti, soprattutto nella prima parte, sono di mia invenzione e non seguirò fedelmente la trama del videogioco. Questi primi capitoli erano già stati pubblicati, li ripropongo corretti fino all'arrivo degli inediti. Buona lettura :)
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Incontri inaspettati

 L’istinto detta il dovere e

L’intelligenza il pretesto per eluderlo
 

 

«Però prima dobbiamo uscire da qui».
Proferì Tamlen, ruotando le pupille per l’ampia sala circolare.
«E come facciamo, l’entrata è bloccata», constatò Teras, avvicinandosi all’amico; sul pavimento si disegnarono le impronte dei suoi passi: probabilmente erano secoli che nessuno calpestava quelle pietre ricoperte di muschio e polvere. E nulla lasciava intendere il contrario.
Persino le piante erano state impietose con quel luogo, diroccando le pareti con le proprie radici.
«Potremmo usare una di quelle, che ne dici?», suggerì Tamlen, sollevando l’estremità di quello che sembrava uno spesso nastro di seta, piangente dal soffitto.
«Che roba è?», promulgò l’altro, non avendo difficoltà a vedere nel buio grazie alla vista elfica.
«Non lo so, però è resistente!» Tamlen ispezionò lo strano nastro. «Potremmo arrampicarci da qui; salire su quell’enorme radice e raggiungere l’uscita.»
«Uhm.»
Teras affettò con lo sguardo il biondo, non molto convinto da quell’idea: odiava arrampicarsi poiché soffriva di vertigini. E quando gli altri fratelli dalish lo sfidavano a raggiungere la cima degli alberi più alti, riusciva sempre a esimersi con le scuse più attendibili; però questa volta sapeva di non poterlo farlo. A meno che, non avesse proposto un’alternativa più valida ma, in quel momento, non gli veniva nient’altro: la testa doleva al punto da non farlo ragionare.
Deglutì, seguendo con lo sguardo la fine della corda: era davvero molto in alto.
«Allora?», incalzò Tamlen.
«Va bene».
«Sicuro?»
«Sì perché?» promulgò, così velocemente da palesare la menzogna.
E Tamlen se ne accorse; sorrise a mezza bocca e rimarcò:
«Guarda che… se credi possa crearti fastidio, pensiamo ad altro.»
Trovava divertente mettere in difficoltà l’amico; soprattutto perché erano davvero poche le occasioni in cui poteva mostrarsi più forte di lui e, a quanto pareva, questa era una di quelle.
«Affatto», sentenziò con fermezza, «però vai prima tu.»
L’amico gli rivolse uno sguardo di sfida: «E perché mai?» domandò fintamente incuriosito.
«Perché l’idea è stata tua.»
«D’accordo, basta che lo ammetti.»
«Cosa?»
«Che… soffri di vertigini!», ridacchiò Tamlen.
 Se solo Merril, la sua Merril, avesse potuto vedere la scena; se solo avesse saputo la verità, sicuramente avrebbe smesso di considerarlo il più valoroso dei due e avrebbe scelto lui, anziché Teras.
Tamlen strizzò gli occhi, in attesa di una risposta.
Il rosso si portò una mano in fronte, sulla vallaslin; l’amico, come al solito, l’aveva scoperto e aveva iniziato a torturarlo. Tuttavia, non aveva intenzione di dargli soddisfazioni.
Così, pur di non ammettere la propria inadeguatezza, afferrò la corda; la annodò su una mano e, aiutandosi con l’altra, s'issò a mezz’aria, sforzandosi di non pensare al vuoto sotto di sé.
A Tamlen, la mascella serrata, deluso dallo sviluppo degli eventi, non restò che seguirlo.
Tuttavia, i due non percorsero molta strada che sentirono il suono sommesso di uno strappo.
Teras sgranò gli occhi; l’altro s’immobilizzò.
Questo fu tutto ciò che riuscirono a fare, prima di rovinare a terra da tre metri di altezza.
Qualcos’altro, però, cadde con loro: un corpo mummificato, avvolto in un bozzolo fibroso.
Teras e Tamlen scivolarono all’indietro sul pavimento, fino al muro alle loro spalle; pietrificati alla vista di quella cosa che stava loro di fronte. Poi, si voltarono e, specchiandosi l’uno nell’espressione di terrore dell’altro, scoppiarono a ridere.
«Ah ah, dovresti vedere la tua faccia, lethallin» dissero all’unisono e scoppiarono a ridere ancora più forte, più per inquietudine che per vero diletto.
Teras fu il primo ad alzarsi per ispezionare il bozzolo, rigirandolo con il piede.
Strabuzzò, quando scorse una figura umana: «Ѐ… è…»
Riprese fiato: «Sembra… il bozzolo… di un enorme…»
«Ragno!» Finì Tamlen per lui, urlando e indicando un punto dietro le spalle di Teras.
Quest’ultimo però non fece in tempo a voltarsi che si sentì sollevare da terra.
Il respiro gli si mozzò in gola vedendo il pavimento allontanarsi dai suoi piedi.
Iniziò a tastarsi il torace per afferrare una lama dalla cartucciera, ma era talmente agitato che quando ne prese una gli scivolò dalle mani.
Poi il buio più totale: il ragno lo stava trascinando lungo un cunicolo nel muro.
Tamlen  afferrò prontamente il pugnale caduto a terra, e si gettò all’inseguimento dell’animale, che vedeva nitido grazie alla propria vista elfica. Non fu arduo nemmeno distinguere il suo corpo bestiale da quello di Teras che individuò tra le sue zanne.
Quest’ultimo gridò il suo nome, allungando un braccio cui Tamlen si aggrappò.
Teras si sentì strattonare in avanti, lacerandosi i fianchi, sui quali forzava la presa del ragno.
Talmen, in una mano il braccio del fratello, nell’altra il pugnale, sferrò un colpo contro la pancia della bestia che guaì di dolore.
I colpi cessarono solo quando il mostro smise di gemere, in un mare di liquido viscoso e appiccicoso.
I ragazzi, ansanti, si poggiarono contro la parete del tunnel.
«Grazie », soffiò Teras «mi hai salvato la vita.»
«Figurati, lethallin
«Sul serio, quando torneremo al campo », fece una pausa deglutendo, «lo racconterò a Merrill.»
Il cuore di Tamlen mancò un battito, a sentire quel nome.
«Perché?» Domandò strozzando il fiato.
Perché. Per cominciare Teras aveva ormai capito di non essere interessato a Merrill, almeno non tanto quanto lei lo fosse di lui. Quindi, concedendola avrebbe dimostrato all’amico la sua gratitudine e lei, nel caso fosse riuscito a convincerla di scegliere Tamlen, non se la sarebbe presa più di tanto con lui.

«Da qualche parte dovrai pure iniziare», disse infine.
Il biondo arricciò la faccia in una smorfia, sbattendo la nuca contro il muro. «Oh accidenti, Teras, come hai fatto a capirlo?»

«Ultimamente la guardi spesso e in modo strano », sbuffò un risolino, che fece sentire Tamlen incredibilmente imbarazzato, oltre che in colpa: solo un attimo prima aveva provato invidia nei confronti dell’amico.
«Oh lathellin, mi dispiace: ti ho mancato di rispetto», ammise, sorprendendo l’altro che raramente aveva sentito delle scuse dalla bocca orgogliosa di Tamlen.
«Non scusarti; avrei dovuto lasciarti campo libero da un pezzo», cercò la sua spalla e la strinse; poi, insieme, sgattaiolarono fuori dal cunicolo fino al punto di partenza.
«Come facciamo adesso?» asserì il biondo.
Teras fece spallucce: «Non ci resta che trovare un’altra uscita.»
«Ci sarà?»
«Al limite torniamo qui e troviamo un’altra soluzione» sperò di non doversi alzare di nuovo in aria. Così, contento di sentire la terra sotto di sé, svoltò a destra, in un corridoio semibuio.


«Ehi, hai sentito?» fece a un tratto Teras, bloccandosi nel bel mezzo del corridoio.
Un lamento sommesso, quasi un singulto, raggiunse le loro orecchie appuntite.
«Che cosa pensi che sia?»
«Non lo so, ma proviene da là.»
Tamlen indicò un grande portone in legnoferro, incastonato in una loggia.
I due amici si scambiarono un'occhiata, prima di avvicinarsi.
Schiacciarono una guancia contro la testata, per ascoltare meglio.
«Sembra… un pianto? Forse è qualcuno che ha bisogno di aiuto!» Arguì Teras, sputando la polvere che dal portone gli era entrata in bocca.
A quelle parole Tamlen s’irrigidì; tutto ciò che desiderava era tornare a casa, e chiunque ci fosse stato oltre quella porta non gli interessava: aveva già compiuto la sua buona azione quotidiana e non avrebbe allungato il soggiorno in quelle maledette rovine.
«Coraggio, andiamo », disse afferrando Teras per allontanarlo da lì, il quale però si divincolò contrariato.
«Non possiamo» protestò con tono serio.
Tamlen sbuffò: «Certo che possiamo: un passo dopo l’altro », terminò sarcastico, mimando due gambe con le dita.
L’altro però non si mosse e lo guardò contrariato con le braccia incrociate.
«Oh accidenti, lethallin, voglio andarmene da questo posto: sono stanco; tra poco sarà buio e inoltre, ti assicuro che gli dei ti perdoneranno se per una volta non farai l’eroe.»
Teras non desiderava affatto fare l’eroe; semplicemente voleva dormire sonni tranquilli, senza che nessuno spirito infestasse i suoi sogni, rinfacciandogli di non essere stato salvato.
«Vorresti davvero tornare a casa, sapendo di averlo lasciato morire?»
«Sì, ebbene sì: non me ne importa niente!» Sbottò il biondo. «Non capisco per quale motivo dovrei fare il contrario! Senza contare che, probabilmente, si tratta di uno sh’am o magari chissà, è solo un'altro di quei dannati ragni.»

«Come fai a esserne sicuro?», s’impuntòTeras.
«Perché non mi risulta che qualcuno del nostro clan sia disperso!»
«Non se nel frattempo ci sono venuti a cercare.»
Tamlen impastò la lingua nella bocca: perché doveva essere sempre così difficile persuaderlo?«Nessuno sh’am rischierebbe la vita per uno di no» tentò ancora, per dare vigore alla propria tesi.
Teras liberò i polmoni; girò sui tacchi e ghignando disse: «D’accordo, fa’ come vuoi: torna pure all'accampamento; non sarò io a trattenerti.»
E tornò al portone, deciso a restare: non avrebbe sopportato il senso di colpa.
Iniziò, così, a seguirne i contorni con i polpastrelli, che si annerirono a causa dello sporco.
Soprattutto, se si fosse trattato veramente di uno sh’am, avrebbe rinfacciato a se stesso di non aver fatto tutto il possibile per semplice razzismo; comportandosi esattamente come chi odiava: gli umani.
Ecco, mettersi al loro livello era ciò che più di tutto detestava, perché avrebbe voluto dire perdere il diritto di biasimo nei loro confronti e la legittimità di insultare chi aveva ucciso la sua gente.
Restando, invece, avrebbe onerato gli sh’am di un altro debito.
«Lathellin, aspetta!» Lo chiamò Tamlen, che aveva riconsiderato la propria posizione di fronte all’idea di dover rimanere da solo tra quei corridoi lugubri.
Teras si fermò, in attesa del seguito che non tardò ad arrivare: «Facciamo così: torniamo all’accampamento…»
«Non…»
«Aspetta, informiamo gli altri e ritorniamo con loro: sarebbe più sicuro.»
«Ma non sarebbe la scelta giusta. Potremmo non tornare in tempo!»

 «Ѐ probabile che accada, ma ragiona: sarebbe più conveniente!» 
«Va bene, allora va' a chiamare gli altri; io, intanto, resto qui.» Si intestardì.
Tamlen si voltò, fece un passo in avanti; poi un altro. Tornò indietro sbuffando.

«Non ti lascio qui da solo!»
«Allora, convieni anche tu che questa sia la scelta giusta.»

 
Il sole era calato da un pezzo, mentre una leggera bruma s'insinuava tra i fili d’erba e i cespugli del bosco. E c’era un assordante silenzio nell’aria.

Il cavallo nitrì, impuntando a terra gli zoccoli appesantiti dal fango.
«Te ne sei accorto anche tu, eh, vecchio mio: c’è troppo silenzio!» Constatò Duncan guardandosi intorno; annodò la briglia in una mano e con l’altra accarezzò il dorso color ciliegia del purosangue nordico, «ma dobbiamo restare calmi, Paladin», sussurrò all’orecchio peloso dell’animale.
L’uomo aguzzò i sensi per ispezionare anche il più recondito angolo della foresta.
Niente: forse era arrivato troppo tardi, poiché di prole oscura nemmeno l’ombra; solo una scia di morte a testimoniare il loro passaggio per quelle terre.
L’atmosfera, infatti, era pesante e ristagnava in un olezzo di sangue putrido e di cadaveri.
Duncan strattonò il cavallo per convincerlo a proseguire; la bestia riprese a trottare, nolente e timorosa.
Eppure, rifletté il cavaliere, avverto la loro presenza.
Fu alla fine di quel pensiero che scorse, ai piedi di un albero… il corpo di un uomo?
Difficile dirlo da quella distanza.
Scese dalla sella e si avvicinò al corpo dall’armatura sbrindellata e la carne lacerata da innumerevoli morsi e ferite.
«Buon Dio!» esclamò, poiché nonostante si trovasse in quelle condizioni, un flebile movimento del torace indicò che c’era ancora vita tra quelle ossa.
Repentino, recuperò dalla bisaccia una fiaschetta d’acqua e, inginocchiandosi sul terreno fangoso, la portò alle labbra di colui che gli sembrò essere un dalish, date le orecchie appuntite e i segni sulla fronte.
Il ragazzo tossì il liquido sulle gambe di Duncan; schiuse leggermente gli occhi e, con voce soffocata, biascicò alcune parole in elfico.
Era febbricitante: la sua fronte scottava più di un tizzone ardente e la sua bocca non riusciva a trattenere la saliva, che gli schiumava sul collo.
«Mi dispiace…» asserì sincero il cavaliere, immaginando il limbo di dolore in cui si trovava quel giovane sventurato: quei morsi non potevano che essergli stati inferti dalla prole oscura, per cui, senza dubbio, il cancro della corruzione scorreva già nelle sue vene.
Tuttavia, per lui poteva esserci ancora una speranza di salvezza, finché il suo organismo avrebbe risposto all’infezione con la febbre.
Con cautela, issò il ragazzo sul cavallo, deciso ad aiutarlo: se la fortuna avesse voluto, avrebbe trovato il suo accampamento.
Dopo alcune miglia, attraversate sotto la pioggia che lenta batteva sulla sua armatura di ghisa, Duncan scorse un fumo nero e denso: proveniva dalle ceneri di un falò, al centro di una radura coronata da capanne.
Scese a valle, col ragazzo moribondo caricato sul cavallo.
Più si avvicinava, più le immagini diventavano nitide; e quelli che sembravano spaventapasseri, altro non erano che teste mozzate e corpi mutilati.
Tutti morti. Nessun escluso.
L’uomo si guardò intorno, con il volto contrito dal rammarico di non essere giunto in tempo.
Disperse un sospiro nella pioggia, che via, via, diventava più fitta: anche il cielo partecipava a quel dolore.
Duncan passò il palmo di una mano sul viso di una donna per chiuderle gli occhi neri.
Non aveva armi con sé, ad eccezione di un lungo bastone di frassino: doveva essere stata una giovane maga.
Avrebbe voluto seppellirla; avrebbe voluto seppellirli tutti. Uno di quegli elfi, però, era ancora vivo, seppur moribondo sul suo cavallo.
Così infilò il piede sullo sperone d’ottone e tornò in sella; avrebbe pregato per la vita di quel giovane: non c’era tempo per i morti.
Trottò attento a non calpestare i cadaveri.
E chissà per quanto erano riusciti a resistere, i “guerrieri dipinti”, all’orda demoniaca che li aveva sorpresi nel sonno; sotto un indifferente spicchio di luna.
E chissà, ancora, se il ragazzo che aveva salvato era scappato, tentando una via di fuga, o aveva lottato fino allo stremo delle proprie forze.
Si voltò a guardarlo.
Aveva lottato, ne era sicuro.
Di strano, però, c’era il fatto di averlo trovato lontano dal suo accampamento: perché?
Inoltre era da solo, senza nemmeno la compagnia delle spoglie della prole oscura.
Duncan raggiunse un’altura e, per l’ultima volta, si voltò verso l’accampamento ormai in cenere; la pioggia aveva spento anche l’ultima fiamma del falò.
Tirò le briglie e riprese il cammino; strinse lo sguardo all’orizzonte: i demoni si stavano dirigendo a ovest. Erano in troppi.
Scosse la testa. E a malincuore, si diresse a sud, verso Ostagar e verso il suo re.
In fondo erano questi gli ordini.

 
Ostagar è uno sputo di pietre sulla sommità di una collina, ai confini delle selve Korcari.
La fortezza, antico orgoglio dell’Impero Tevinter, si erge in alto a graffiare il cielo.
Duncan arrivò dopo una notte e un giorno di viaggio.
«Chi va là?» Urlò la sentinella da sopra i bastioni.
«Duncan, il custode grigio comandate del Ferelden.»
Dopo alcuni istanti, il ponte levatoio si abbassò, accompagnato dal rumore ferroso delle catene degli argani.
Subito, Duncan lo oltrepassò tuonando:
«Ho bisogno di aiuto: questo ragazzo è ferito!»
E uno stuolo di servitori accorse, senza fare domande.
«Occorrono cure immediate: portatelo dai guaritori», ordinò, scendendo da cavallo, bagnato dalla luce forte del sole di mezzogiorno.
«Si, signore», si congedarono all’unisono, trasportando il moribondo, chi per i piedi e chi per le spalle.
Duncan li seguì con lo sguardo, augurandosi che non tutto fosse perduto. Aveva una strana sensazione riguardo quel dalish; inoltre, se non si fosse ripreso, non avrebbe potuto conoscere la sua storia.
Durante il viaggio, aveva fatto diverse congetture su quel fortuito incontro, concludendo che quel ragazzo doveva essere stato il primo ad incontrare quei barbari, data la sua posizione rispetto all’accampamento; ma com'era riuscito a sopravvivere, che lo avessero catturato e poi perso per i cespugli?
Sbuffò via quel pensiero insieme alla propria stanchezza: difficilmente la prole oscura perde i propri prigionieri, anche se si tratta di demoni senza intelletto, poco avvezzi finanche alle strategie di guerra. Sebbene, la loro forza aumentasse di secolo in secolo, si trattava solo di questo: soldati senz’anima, manipolati dal sovrumano spirito dell’Arcidemone.
Tuttavia, quella volta era diverso: diretto ad Ostagar aveva sentito la loro presenza solo in prossimità della foresta, come se fossero sbucati dal nulla; né, prima, aveva trovato loro tracce.
Doveva esserci una spiegazione; sicuramente il dalish avrebbe saputo rispondere, una volta guarito: il re non poteva permettersi lacune nei propri piani di battaglia.
Duncan levò il capo verso la finestra smerigliata dello studio di re Cailan; ancora una volta, il custode si augurò che il sovrano fosse all’altezza del compito, e non soltanto un giovane che giocava alla guerra, in cerca della grande battaglia. Come altri sostenevano.
«Il re è arrivato?» Chiese a una guardia.
«Non ancora comandante, mancano tre giorni di marcia.»
«Bene», tagliò corto e si congedò, diretto alla torre dei guaritori.

 
Sashar, il primo curatore, aveva dato sfogo a tutte le sue conoscenze in campo taumaturgico, ma la febbre del giovane non accennava a scendere, e le ferite non si rimarginavano.
Le lenzuola del letto, sul quale era stato adagiato, erano intrise di sangue rosso e denso e l’aria della stanza era diventata irrespirabile.
Il guaritore sentì un alito freddo sul collo: qualcuno aveva avuto l’ardire di aprire la finestra.
 Si voltò verso una notte senza stelle; una notte che parava senza fine.
Si asciugò la fronte sudata e raccolse alcune sanguisughe da un barattolo, affinché succhiassero via il sangue infetto; almeno fino a quando non avrebbe trovato l’incantesimo giusto.
Tuttavia, più continuava a provare invano, più le probabilità di salvezza diventavano esigue; nonostante fosse un guaritore esperto, non riusciva proprio a venirne a capo e doveva agire prima che la corruzione arrivasse al sistema nervoso. Altrimenti, l’avrebbero perso per sempre.
Ai primi bagliori dell’alba, quando ormai erano state provate e riprovate tutte le cure, solo una sembrò quella giusta: uccidere il ragazzo.
Il vecchio Sashar si strizzò gli occhi celesti, appesantiti dal sonno mancato.
Sentiva già il fallimento gravare sulle proprie spalle; ma cos’altro avrebbe potuto fare, se non far cessare la sofferenza di quel povero ragazzo?
Poi, un’idea malsana si palesò nella sua mente.
Raccolse il bastone da terra, lo strinse tra le mani e si alzò, fissando Duncan, rimasto tutta la notte al capezzale dell’elfo.
«Non esistono cure», sospirò, «qualsiasi incantesimo non allevia il suo dolore che per pochi minuti, né il delirio febbrile accenna ad acquietarsi.»

Il custode incastonò gli occhi in quelli del mago e, con fermezza disse: «Non possiamo ucciderlo, Sashar: dobbiamo sapere come la prole oscura è apparsa nella foresta dal nulla.»
Il vecchio piegò leggermente il capo; l’ombra della sua figura si allungava fino alla parete.
«Comandate, credo che voi sappiate già come fare»
Gli occhi del custode si allargarono impercettibilmente e ruotarono dal mago, al malato delirante nel letto.
Il vecchio Sashar, tra i ranghi dei custodi da molto prima di lui, aspettava in silenzio il verdetto, stringendo nel pugno l’ultima speranza: l’Unione.
«Non è stato sottoposto all’iniziazione» constatò il comandante.
«Ma, mio signore, credo che questo giovane abbia sopportato abbastanza da potersi considerare degno.»
Duncan si affacciò alla finestra e ispirò l’odore fresco del mattino; un tiepido sole, velato da una coltre sottile di nubi rosate, illuminava il nuovo giorno.
Aveva trovato quel dalish nella foresta, avrebbe potuto lasciarlo morire; ma troppi interrogativi erano nati nella sua mente.
Le regole sono regole, ma non l’aveva raccolto da terra per poi ucciderlo in seguito: se avesse saputo, avrebbe messo fine alle sue sofferenze da un pezzo.
Si avvicinò al ragazzo: aveva i capelli rossastri appiccicati sulla fronte sudata; gli occhi serrati in una costante smorfia di dolore e le mani aggrappate alle lenzuola, come a trovare un appiglio alle convulsioni che non gli davano pace.
Perché ci teneva tanto a salvarlo?
Non era stato il primo, né sarebbe stato l’ultimo infetto. Tuttavia, sentiva di non dover lasciare quella vita.
«E sia, lo sottoporremo all’Unione; sperando che ciò non lo porti alla morte.»
«Morirebbe comunque, comandante.»
Il custode si lisciò i capelli neri, tirati in una coda dietro la nuca.
«Dite ad Alistar di radunare le altre reclute: andranno oggi stesso nelle selve. Non possiamo esimere anche loro dall’iniziazione», decise con tono autoritario.
Sulla soglia si fermò, corrugò la fronte: «Procederemo con il rito non appena saranno tornati; fino a quel momento, continuate ad occuparvi del malato»
Il vecchio Sashar scattò la testa in un segno d’assenso e tornò ai suoi doveri.

 

 

:)

Ringrazio tutti quelli che leggono o che passano di qua e chi si occupa del betaggio^^.

   
 
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