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Autore: Mile_YOLO    19/05/2012    2 recensioni
Un'estate passata in compagnia di 5 adolescenti belli quanto pazzi, migliori amici egocentrici, serate dimenticate a causa dell'alcol, mare cristallino e villa da plurimiliardari con vista Sarasota, una delle spiagge più belle della Florida.
Questa è la storia di Jude, che a causa di un ananas, il suo senso dell'orientamento su cui non bisogna contare e una chitarra a tre corde scoprirà che la felicità ha i ricci, le fossette e gli occhi verde smeraldo.
...o no?
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo #1 - Jude

Tutto è cominciato l'estate di tredici anni fa. Ero solo una bambina alla quale piacevano le bambole e il rosa pastello. Contavo i miei anni a malapena sulle dita di una mano eppure la gente distrusse la mia innocenza come un vaso di ceramica che scivola di proposito dalle mani di una persona che non ha cura delle cose delicate. Ero nel giardino dell'asilo Sunny Village, uno dei pochi presenti nella zona dove abitavo, nel South Dakota, prima di trasferirmi in Canada; avevo le mani sporche di vernice lavabile color cobalto e giallo limone, i capelli biondi e fini raccolti in due minuscoli codini e strappavo margherite insieme al mio fidanzatino. Ad un tratto, come un fulmine a ciel sereno ci raggiunse Claire, una bimbetta poco più grande di me, e con voce squillante disse al mio principe:
- La tua sposina è sola perchè non ha più il papà!
e mi stampò l'impronta della sua mano sporca di verde sul petto, lasciandomi il segno sia sul vestitino a quadretti che indossavo che nel cuore che perse un battito:
- Io non la voglio una sposina senza papà!
disse quella che allora era la mia felicità e mi lanciò le margherite, che avevamo accuratamente scelto fra tante, sui piedi nudi:
- Stai mentendo Claire! Il mio papà è in un posto lontano perchè vuole vedere il mare!
risposi con le guance paonazze e gli occhi colmi di lacrime salate. Ed era così. 

Mio padre lavorava come fotografo e giornalista. In quel periodo il meteo in tutto il continente americano era impazzito, così decise di recarsi in Florida per fotografare e documentare il cambiamento e le caratteristiche dell'oceano, dal quale era terribilmente affascinato, in una delle spiagge più belle del mondo, Sarasota. Così, con un gruppo di amici e colleghi, prese il primo volo e si recò in quel posto a me sconosciuto. Non era mai riuscito a vedere la penisola. l'aveva sempre ammaliato ma appena prenotava un volo con quella destinazione accadeva un imprevisto. Aveva anche organizzato di portarci mia madre per la luna di miele ma poi nacqui io e il loro viaggio fu annullato. Quindi quello che stava vivendo era un sogno, anche se la sua famiglia non era lì con lui era felice, fino a che non appoggiò i piedi a terra. Scesero dall'aereo, in ritardo di circa un'ora, ritirarono i bagagli e chiamarono un taxi per essere portati presso l'hotel dove avrebbero riposato (se avessero trovato il tempo) ma appena entrarono nel centro della città un camion di circa 15 tonnellate che trasportava carne in scatola andò a schiantarsi contro la macchina che si scaraventò addosso ad un pulmino di ragazzi stranieri in gita. Ci furono esattamente 91 persone compresi i pedoni, coinvolte in quell'incidente di cui 67 illesi, 21 feriti superficiali, 1 frattura e 2 morti: l'autista del pulmino e mio padre. Il giornale e i media dissero che le vittime morirono entrambi sul colpo ma secondo i medici mio padre morì in ambulanza a causa di un'emorragia. Questo è quello che mi raccontò tempo dopo mia madre, senza peli sulla lingua. Divenne fredda e insensibile con chiunque le offrisse aiuto e sostegno morale, era sotto shock e l'ultima cosa che mi disse riguardo l'incidente di papà mi resterà impresso per sempre:
- Poco prima che il camion sgretolasse il taxi, Lui vide il mare, il riflesso del sole che si nasconde dietro la linea dell'orizzonte, scattò una sola fotografia che ritraeva quello scorcio limpido. Era felice, non sapeva quello che lo aspettava. Ricordiamolo come un uomo che viveva ogni giorno della sua vita come se fosse stato l'ultimo, come un artista che impressionava le sue emozioni sulla pellicola di una macchina fotografica.
Quella fu l'ultima volta che parlammo di papà.

Corsi via a cercare qualcuno, chiunque, per chiedergli spiegazioni, ma tutto ciò che scorgevo nella mia corsa era sfocato e confuso dietro la pioggia di lacrime e polvere che scavarono le mie guance infantili da allora fino all'estate di 3 anni dopo.

Dopo le vacanze estive, pochi giorni dopo la fine delle scuole, mia madre decise che il South Dakota non era più un posto adatto a noi e ci dovettimo trasferire in un luogo sconosciuto vicino al New Jersey. Eravamo rimaste sole dopo la morte di mio padre e voleva trovare qualcuno che la rendesse felice più di quanto potesse fare una bambina di poco più di sette anni, ancora sconvolta. Lavorava come segretaria presso un'agenzia di moda ma aveva sempre sognato il mondo del cinema, i paparazzi e la locandina di un film famoso con il suo nome in grassetto. Durante la cena per festeggiare la promozione di un collega conobbe Steve, uno scrittore italo-americano che aveva pubblicato numerosi volumi inerenti all'astronomia, roba noiosissima che tuttavia aveva riscosso successo. Steve (per me il Sig. Brown) frequentò mia madre per qualche anno finchè non le chiese, a sorpresa di tutti, di sposarla. Accettò. Dopo il matrimonio i due decisero di comune accordo di trasferirsi nuovamente, questa volta nella capitale del Canada, Toronto; comprarono una villa troppo perfetta, un golden retriver che chiamarono Ginevra e sfornarono due gemelli, Thomas e Steve Junior. Insomma, una vita perfetta per una donna di quasi trentotto anni che aveva perso il marito in un'incidente d'auto. Io? Mi chiusi in me stessa.
Quando il Sig. Brown cominciò ad uscire con mia madre mi sembrava una bella idea quella di ricominciare una nuova vita, insieme, quasi come una famiglia normale, ma capii in fretta che io non ero nei loro piani. Feci capire la sofferenza e la solitudine che provavo dando fuoco ad un tendone di tulle bianco durante il taglio della torta nuziale. Ero una bimba di soli dieci anni ma pensavo di essere grande abbastanza per sapermela cavare in qualsiasi situazione e volevo che il mondo ruotasse attorno a me. Tuttavia la giovane età e l'egocentrismo che covavo in quel periodo non giustificarono la mia azione da aspirante piromane e rovinai il matrimonio agli sposi e agli invitati. Infatti non furono mia madre o il Sig. Brown a sgridarmi per aver distrutto un un tendone e una festa, ma ci pensò una signora in carne di cui non sapevo nemmeno il nome ma che probabilmente doveva trattarsi di unaa cugina  di Steve:
- Tua madre e Steve sarebbero perfetti se solo non ci fossi tu. Non vuoi bene alla tua mamma? Non capisci quanto ha sofferto per la morte di tuo padre? Certo... Sei solo una bambina, non puoi capire certi sentimenti.
mi disse fredda:
- Se tieni davvero al loro futuro, alla loro vita, allora stanne fuori. Sei l'ultimo dei loro problemi. E poi immagino tu sia grande abbastanza per poterti aggiustare a modo tuo, no? Fai questa promessa alla zia Gisephine, tesoro.
e mi baciò sulla fronte lasciandomi la sagoma delle sue labbra sottili rosso porpora. Zia? Zia di chi? E perchè mi aveva detto quelle cose? Chi era per dirmi che sarei diventata grande? Sapevo di esserlo ma non volevo sentirlo dire da lei e tanto meno da mia madre. Se era così non avrei più avuto bisogno di qualcuno che si fosse preso cura di me; se così la pensava mia madre, così la pensava chiunque, no?
Quando ci trasferimmo in Canada ricominciai la scuola ma non feci amicizia con nessuno. Appena ebbi tredici anni mi tinsi i capelli di rosso e li rasai da una parte, cominciai a colorare il contorno degli occhi di nero e a vestirmi come una musicista punk e andai ad un corso di chitarra. Fu lì che conobbi Will, sedici, aspirante bassista, con un piercing al labbro che odiavo, ed ebbi la prima esperienza in quello che si può definire "amore". Andando in scuole differenti era difficile vedersi, così marinavamo la scuola e andavamo a rifugiarci sotto una quercia cresciuta in cattività nel parco vicino a casa sua. Fu lui che instaurò nella mia testa il vizio di tagliarsi i polsi e l'avambraccio, per sfogo, per diventare più forti, per qualsiasi motivo. La prima volta che una lametta ssquarciò la mia pelle fu dolorosissimo: incisi sull'avambraccio sinistro "Will <3" e sentii un bruciore indescrivibile indescrivibile che non prendeva solo il braccio ma anche le dita, la spalla, il collo, le tempie e si scatenò come un'esplosione di colori. Era una sensazione quasi piacevole, a dir la verità.
Mi chiamava Effy, diceva che era un bel nome e si addiceva a me più di Judith; a me non dispiaceva.

Ho sempre odiato il mio nome, è troppo lungo e complicato. Lo scelse mio padre perchè voleva che gli amici mi chiamassero Jude, come il soggetto della famosa canzone dei The Beatles, "Hey Jude", ma probabilmente gli sfuggiva il fatto che quel Jude non era Judith bensì Julian, il figlio di John Lennon, e si era trasformato in Jude solo per motivi fonetici. Quindi se mi presentavo alla gente come Jude Miles questa poteva pensare che io avessi una crisi d'identità, dato che di fronte non aveva un ragazzo ma una signorina con lunghi capelli, voce flebile, vita stretta e vestiti graziosi (che troveremo più avanti). 
Dettagli, insomma...

Eravamo una coppietta di adolescenti che non andavano oltre ai baci a stampo ma Will era più importante per me di quanto lo fossi io per lui. Lo capii un giorno, o meglio una sera, quando passeggiando sola vicino al quartiere dove abitava lo sorpresi assieme ad una ragazza formosa che gli sfiorava continuamente il collo con la lingua e gemeva "ti amo". Quando i due si accorsero della mia presenza lui corse verso di me ma lo precedette la ragazza che mi afferrò con forza i polsi, quasi volesse bloccarmi la circolazione, e avvicinandosi sempre di più al mio viso pallido e spaventato disse di essere Effy, la ragazza di Will. Mi lasciò cadere a terra e continuò a fissarmi fin quando non ci raggiunse Will che le cinse la vita con un braccio:
- Scusa.
mormorò guardandomi dall'alto verso il basso e voltatomi le spalle se ne andarono nella direzione opposta alla mia. Rimasi sdraiata a terra per ore, al freddo, immobile e scioccata, non sapevo cosa fare, dove andare chi cercare, quando una macchina della polizia notò il mio corpo, mi accompagnò in un edificio grigio offrendomi un tazzone di cioccolata calda e una coperta di pile. Dopo circa un'ora accorse mia madre preoccupata, in lacrime, sembrava anche invecchiata e ringraziando i poliziotti premurosi mi riportò a casa, senza rivolgermi una sola parola. Presa dai sensi di colpa convinse il Sig. Brown e i due gemelli a traslocare, per l'ennesima volta, in un posto più lontano. Orlando, Florida.
Avevo quindici anni e nella mia testolina cominciò a maturare l'idea di ricostruire una vita anche per me stessa. Avevo testato che anche se mi infliggevo dolore fisico e psicologico a nessuno interessava, perciò perchè a me doveva importare degli altri? 
Cominciai a frequentare il liceo, a studiare e ad impegnarmi per prendere buoni voti. I miei adorabili capelli lisci tornarono biondi e li feci crescere fino a poco sopra il fondo schiena ricevendo, ancora oggi, complimenti da tutti. Diventai vegetariana, perchè la faccenda del camion di carne in scatola non riuscii proprio a digerirla. Decisi che avrei indossato vestiti graziosi color pastello e mi innamorai perdutamente delle stampe a fiorellini minuscoli. Continuai a migliorare le mie prestazioni con la chitarra e presi anche lezioni di canto. Tornò il sorriso sul mio viso che tanto ne sentiva la mancanza ed ero fiera di me. Eppure sentivo ancora qualcosa che mi mancava, un vuoto che non sapevo come colmare, come quando pensi di aver finito un puzzle da cinquecento pezzi ma ti accorgi che ti manca l'ultimo tassello.
Quel tassello l'avrei trovato in seguito, per colpa di uno stupido bicchiere di succo d'ananas.

Ma ancora non lo sapevo.

  
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