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Autore: almeisan_    19/05/2012    1 recensioni
E se Elena Gilbert, l’ultima doppelgänger Petrova, stretta in un triangolo fatale, avesse una sorella gemella, totalmente dissimile da lei? E se questa sorella, Nicole, fuggita da Mystic Falls anni prima e di cui non si hanno più notizie, fosse una strega discendente da una delle più importanti dinastie di Salem? E se Klaus, l’ibrido invincibile, proprio per questo cercasse il suo appoggio?
Questa storia si ambienta nella terza stagione, per cui ci sono spoiler per chi dovesse ancora vederle, dall’episodio 3x03 e ha come protagonisti prevalentemente la famiglia Gilbert e quella degli Originari, come sfondo la cittadina di Mystic Falls attraversata dalle morti e dagli scontri soprannaturali e i suoi abitanti.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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16 cap

Capitolo 16

Past never dies


Mikael scomparve velocemente, sollevando il vento e facendo oscillare gli steli smeraldini dei piccoli fiori lilla del giardino ben curato di sua nonna. Era l’unica a non aver voluto optare per un prato inglese. Diceva sempre che era troppo austero e di voler colore nella sua vita, un panorama armonioso in una cittadina tranquilla del Sud. Nicole, quand’era bambina, pensava fosse più che giusto e adorava rincorrere le minuscole farfalle che giocavano coi petali. Poi era cresciuta e aveva imparato che la magia si sprigiona direttamente dalla natura, da ogni suo elemento. Il mondo era magico. Era quella la più grande verità che sua nonna le aveva insegnato quando aveva cominciato ad apprendere di essere una strega, a credere che potessero esistere delle creature sovrannaturali, che la stessa Mystic Falls fosse abitata da streghe e, in passato, quando il Consiglio non si era ancora del tutto formato, anche dai vampiri. Sua nonna le aveva raccontato che li avevano bruciati nella vecchia cripta dei Fell e che furono banditi dalla città. V’erano degli attacchi, ma marginali. Il Consiglio era sempre stato in grado di distruggerli e insabbiare tutto, facendo credere che fossero stati i lupi presenti nella zona per il loro sostentamento. Nicole era ancora capace di ricordare che, a soli quindici anni, sapeva già che il mondo non era quello che lei aveva conosciuto. Tremava per quella consapevolezza e sua nonna aveva fatto un passo indietro, sorridendo e rassicurandola che avrebbe potuto scegliere di dimenticare e continuare la sua vita normale, da consueta teenager americana, oppure accettare la sua natura e accogliere la magia dentro di sé, lasciando che l’irradiasse con i suoi raggi luminosi. Nicole Gilbert aveva scelto la seconda opzione e non se n’era mai pentita.

Tornata al presente, la giovane strega sospirò, scosse il capo e chiuse per un attimo gli occhi limpidi. Rimuginare sul passato la faceva soffrire perché quella calma pacatezza, quel mite candore, non sarebbe mai più tornato nella sua vita oramai costellata dalla magia, dalle doppleganger, dai vampiri, dai cacciatori. Dagli ibridi. Soprattutto dagli ibridi. Arrossì inconsapevolmente e sorrise, una live increspatura delle labbra sottili e a cuore. Dinanzi a sé rivide gli occhi meravigliosi di Klaus, le sue labbra che lambivano dolcemente le proprie, i suoi sorrisi, quegli appellativi ironici che prima l’avevano tanto irritata e indispettita mentre, conoscendolo meglio, essendosi avvicinata a lui, la facevano avvampare per l’imbarazzo e per qualcos’altro, qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. Però, invece, era ben presente nel suo animo e una parte di lei ne era felice. Le parole di Mikael l’avevano scossa nel profondo perché rispecchiavano quella che era anche la sua realtà. Klaus non era l’unica persona sola e bisognosa d’amore. V’era anche lei. La sua vita era vuota e, allo stesso tempo, colma di afflizione proprio come quella dell’immortale e Nicole sapeva di aver bisogno di lui, di legarsi a qualcuno che non fosse la sua famiglia e che non fossero i suoi amici. Aveva necessità di altro, di qualcosa che fosse in grado di riempire quel vuoto che quei due anni le avevano lasciato in eredità. Scosse nuovamente il capo e spalancò lo sguardo. Non era bene che lei pensasse a certe cose, come se fosse una ragazzina. Oramai era adulta e doveva cavarsela da sola, sebbene la solitudine fosse la condizione che più aberrava. Non v’era mai riuscita, ad essere sola. Dopo tutto quello che le era accaduto, dopo essere fuggita da Mystic Falls in quella notte di primavera, ventosa e uggiosa, carica di nubi colme di pioggia, pianto del cielo stesso, era tornata due mesi dopo sulla porta della casa di John a Richmond, con le lacrime che le rigavano il viso pallido e sin troppo magro, che celava le sue solite forme rotonde, e una supplica negli occhi chiari. Voleva che la riprendesse con sé, che le donasse quell’affetto di cui si erano entrambi privati per troppo tempo. Ricordava ancora che suo padre, senza dir nulla, nemmeno sorridendo, l’aveva abbracciata, stringendola a sé e dicendole che oramai era al sicuro. Era a casa. La vibrazione del telefono la fece riaffiorare da quel nero oblio che era diventata la sua mente. Scosse il capo ed estrasse il cellulare. Non facendo attenzione a chi fosse l’interlocutore, accettò la chiamata.
« Pronto,» esclamò con la voce arrochita, come se non l’avesse utilizzata da innumerevoli attimi.
« Nicole, dove sei? Per favore, torna a casa,» sussurrò sua sorella. Sembrava sconvolta e piangeva. Schiuse le labbra, sorpresa da quel tono di supplica, e annuì sebbene non potesse vederla.
« Sì, tesoro. Adesso torno. Cos’è successo? Ti senti bene? Jer sta bene?» domandò preoccupata, aprendo lo sportello ed entrando in macchina.
« Ha tagliato la testa di un ibrido con una mannaia, Nicole. Lui non sta bene,» esclamò, la voce inframmezzata da dei singhiozzi trattenuti a stento e dei respiri troppo profondi. Nicole chiuse gli occhi e si abbandonò nel vano tentativo di respirare normalmente. Una lacrima le rigò il volto. Non era possibile. Non doveva permetterlo. Era la sua famiglia e nessuno doveva avere il potere di mutarla. Jeremy non era un assassino, Elena non era quella ragazza che aveva al telefono. Sua sorella non piangeva, sua sorella era forte, ragionevole, buona, gentile. Suo fratello era sensibile e dolce, creativo e con la risata pronta, divertente e introverso. E lei era quella combina guai, quella sincera, alle volte anche troppo onesta e ingenua, fiduciosa e sempre pronta ad aiutare la comunità. Non era possibile che fossero cambiati così tanto in quel minuscolo lasso di tempo.
« Non va bene, sorellina, lo so. Adesso faremo una bella riunione di famiglia e parleremo, tutti quanti, tutti insieme come una volta. Troveremo una soluzione. Insieme possiamo sistemare tutto. Te lo prometto, Elena,» sussurrò dolcemente, imprimendo in quelle parole una forza tale da farla sembrare vivide persino a lei. Si immaginò il sorriso appena accennato di sua sorella e il segno d’assenso. Chiuse la comunicazione senza un’altra parola e poggiò il telefono sul sedile del passeggero. Mise in moto e guidò per le vie poco trafficate di Mystic Falls mentre la sera copriva con il suo manto il panorama della cittadina, rendendola quasi una dimora incantata, come quella delle fiabe. A quell’ora la città pareva un luogo pacifico e a un estraneo sarebbe parsa una semplice e consueta cittadina del Sud come tante altre, quelle per le quali si era combattuto tanto per l’indipendenza dai Nordisti, come la piantagione di Tara in Via col Vento. Non era così. Chi vi abitava aveva imparato a conoscerlo bene. Non erano solo i vampiri e gli esseri soprannaturali a renderla anomala. Mystic Falls era differente perché era nata nel sangue dei vampiri e delle streghe. Sospirò. Quella città attirava morte e distruzione e non sarebbe mai cambiato. Parcheggiò nel vialetto e osservò il portico. V’erano ancora tracce di sangue che Elena stava lavando via. La porta era aperta e si poteva scorgere la luce che rischiarava il corridoio e la cucina. Poteva percepire delle voci. Una apparteneva a sua sorella, piangente e tremante nel tentativo di controllare le proprie emozioni. L’altra, probabilmente, se aveva inteso bene, era di Damon. Avanzò verso casa, attenta a non sporcarsi le scarpe e li vide in cucina, vicino al lavabo. Damon stava carezzando il volto di Elena, rassicurante, e le dava le spalle. Sua sorella avrebbe potuto vederla, ma il suo sguardo era tutto rivolto al vampiro dalla giacca di pelle nera. Non importava cosa dicesse, Nicole ne era sicura: Elena lo amava, e anche di più, a suo avviso, di quanto avesse amato Stefan. Solo non voleva ammetterlo, neanche a se stessa, perché sapeva cosa avrebbe comportato quella scelta. Non si trattava di lei, propriamente, ma dei due fratelli. L’uno avrebbe escluso l’altro e nessuno mai avrebbe mai potuto permettere che una famiglia si sciogliesse. Così Elena faceva finta e continuava ad andare avanti, ingaggiando la stessa battaglia che Katherine, a suo tempo, non aveva neanche provato a combattere. Lei li aveva amati ambedue, allo stesso tempo, ma non si era preoccupata di analizzare i propri sentimenti, non aveva avuto bisogno. Era una vampira immortale, non una ragazzina di diciotto anni appena compiuti. Era sempre stato Stefan per lei, sebbene la passione per Damon fosse potentissima. Aveva saputo scindere amore e desiderio. Poi aveva scelto entrambi, però non era quello il punto, almeno secondo lei. Sorrise timidamente quando gli occhi color nocciola di sua sorella si posarono su di lei. Elena ricambiò il sorriso e Damon si scostò dolcemente per poi volgersi verso di lei.
« Dov’è lui? » sussurrò imbarazzata, poggiandosi allo stipite della porta della cucina mentre anche Alaric entrava nella stanza, a braccia conserte, preoccupato dalla situazione.
« In camera sua,» le comunicò Elena avanzando verso di lei e sfiorandole l’avambraccio, « Perdonami per questa mattina. Io non pensavo veramente ciò che ho detto,» sussurrò dispiaciuta, la fronte contratta e gli occhi dolci pieni d’afflizione. Sua sorella sorrise e scosse il capo, carezzandole il volto.
« Invece sì, ma non importa perché siamo sorelle e tu hai ragione,» mormorò, interrompendola con un lieve sorriso negli occhi tristi e mesti, pieni di lacrime trattenute, « Sono tornata per John, non per Grayson e Miranda, e nemmeno per Isobel,» aggiunse a malincuore, volgendo lo sguardo verso Alaric che l’osservava assorto, « Non ti ho nemmeno salutata quel giorno. Dopo il funerale me ne sono semplicemente andata, come una codarda, meschina, una piccola idiota,» esclamò incredula dinanzi alla sua stessa viltà. Non le aveva nemmeno domandato come si sentisse dopo il sacrificio, se avesse bisogno di un abbraccio, se volesse mandarla al diavolo per quello che aveva fatto. Elena scuoteva il capo mentre lei parlava e piccoli suoni di diniego fuoruscivano dalle sue labbra schiuse.
« Non è vero, Nicole. E anche se fosse chi sono io per giudicarti? Volevi bene a John e, in tutta onestà, posso benissimo capirti. Avrei dovuto scusarmi con lui, prima che morisse per me. Gli ho chiuso la porta in faccia senza nemmeno tentare di comprenderlo e mi dispiace così tanto,» esclamò tremante mentre una lacrima sfuggiva al suo controllo percorrendo la guancia olivastra e perdendosi lungo la linea del collo sino alla scollatura per nulla marcata della sua maglietta semplice. Nicole annuì e chinò il capo, lo sguardo sulle scarpe per non dover incontrare quello della gemella.
« Lui ti voleva bene, ci voleva bene, e…,» si bloccò. Non riusciva più a parlare. Le lacrime nostalgiche e pregne di dolore le velarono gli occhi e doveva ricacciarle indietro. Percepì le braccia di Elena cingerla dolcemente e si abbandonò al suo abbraccio delicato e lieve poggiando le mani sulla sua schiena.
« Dobbiamo occuparci di Jer adesso,» le sussurrò all’orecchio. Nicole annuì e si scostò debolmente, sorridendole.
« Cos’hai in mente? » domandò tranquilla. Elena deglutì e si morse il labbro inferiore arretrando di un passo per lasciarla libera.
« Allontanarlo da qui. Solo per un po’,» aggiunse quando sua sorella la guardò smarrita e sofferente, come se l’avesse appena pugnalata alle spalle. Nicole si allontanò e scosse il capo con foga.
« No, non puoi. Non accetterà mai di lasciarci e non puoi soggiogarlo, Elena. Ci odierà se lo verrà a sapere,» esclamò irata mentre meste lacrime le rigavano il volto. Elena scosse il capo e avanzò, sfiorandole il braccio, ma Nicole si scansò.
« È stato lui a dirmi di voler andare via da questa città, Nicole,» affermò con voce acuta e piena di afflizione, pregandola di riuscire a comprenderla. Nicole scosse nuovamente il capo e assottigliò lo sguardo, più indispettita. Non avrebbe mai mandato via suo fratello, il suo Jeremy, non quando si erano appena ritrovati.
« E tu gli credi? Elena, siamo nati e cresciuti qui. Questa casa è nostra. Questa città è nostra,» si corresse incredula dinanzi a quella decisione così sciocca e insensata, « Cosa credi che cambierebbe in un’altra città? Non riusciremmo mai a dimenticare,» sussurrò più calma, tentando di farla ragionare. Toccò a Elena arrabbiarsi  e nei suoi occhi sempiternamente calmi apparve una furia inimmaginabile che l’avrebbe fatta arretrare se si fossero trovate in un’altra situazione e fosse stata meno testarda e orgogliosa.
« Dimenticare? Tu parli di non riuscire dimenticare? Davvero? Non ci credo, Nicole. Non detto da te. Per due anni ti sei scordata della tua famiglia. Ci hai abbandonati proprio come fece Isobel, » esclamò inviperita come mai l’aveva sentita prima di quel momento. L’aveva appena paragonata a Isobel, alla madre che non aveva voluto occuparsi di loro e le aveva date in adozione quando erano solamente in fasce. Nuove lacrime le velarono gli occhi, ma, fiera, le ricacciò indietro, « Non avrei mai creduto di potertelo dire, ma davvero, Nicole, sei identica a nostra madre. E questo non è affatto un complimento,» aggiunse malevola e torva. Nicole serrò le labbra, gli occhi colmi delle fiamme dell’Inferno. La sua parte più ragionevole e pura ordinò alla sua magia di non intervenire per non far del male a sua sorella, però quella più passionale avrebbe voluto ferirla per farla soffrire proprio come stava patendo lei. Serrò i pugni e Alaric si mise tra le due, guardando dall’una all’altra per farle ragionare.
« Fai quello che vuoi, Elena. Ma quando tornerà a casa, è te che odierà e non me. Poi non venire a piangere tra le mie braccia. Io non ci sarò per te. Non ci sarò mai più. Mi hai ferita e non ho intenzione di starti ad ascoltare un secondo di più, » esclamò indispettita e mesta, « Io non ti ho abbandonata, non l’ho fatto con Jeremy. Credi quello che vuoi, » aggiunse quando la sentì sbuffare sonoramente, « Io sono stanca di te,» affermò prima di volgersi e avanzare verso l’uscita della casa, senza voltarsi indietro. Non l’aveva richiamata, nessuno l’aveva fatto, né Alaric né Elena. Non le importava più nulla di Nicole. Per Elena era come se fosse morta due anni prima. Non era che un’estranea ai suoi occhi e non l’avrebbe turbata oltre con la propria presenza. Sapeva comprendere quand’era indesiderata, Nicole, e non voleva essere un peso per nessuno, soprattutto per la sua famiglia. Se di famiglia si poteva ancora parlare. Se Elena avesse mandato via Jeremy, non l’avrebbe mai perdonata, anzi si sarebbe vendicata. Non le importava più ciò che suo padre le aveva fatto promettere in punto di morte. Lui avrebbe capito se fosse stato lì con lei, l’avrebbe appoggiata. Lei non poteva scegliere per tutti come se fosse stata la mamma. Guardò la macchina. Apparteneva a Elena. Scosse il capo con foga e si avviò a piedi, camminando per la via illuminata dalle luci dei portici, le mani nelle tasca della felpa. Faceva freddo quella sera autunnale e percepiva il gelo penetrarla sin dentro le ossa. Chinò il capo e si strinse maggiormente. Stava camminando senza una meta precisa, per la strada che conduceva al cimitero. Di sera aveva un’aria ancora più lugubre di quella che si ricordava. Posò la mano sul cancello, che cigolò sinistro, poi camminò verso la tomba dei suoi genitori adottivi, timorosa, guardandosi intorno. Se qualcuno l’avesse vista a quell’ora di notte, avrebbe sicuramente pensato male e aggravato una situazione che già di per sé non era molto felice nella città. Non v’era nessuno. Le lapidi, per la maggior parte di marmo bianco dalle scritte nere ed eleganti, brillavano come fari in quella notte illuminata da una luna meravigliosa. Tra qualche giorno sarebbe stata del tutto piena, la magia della natura catalizzata al massimo delle proprie possibilità, le creature delle tenebre libere di mostrarsi per ciò che erano. Le piaceva la Luna piena, soprattutto quando era più vicina alla Terra, la faceva sentire più sollevata e rinfrancata. Sorrise di quel pensiero e si accomodò sulla basa dell’angelo di marmo bianco di fronte alla tomba.
« Mamma, papà, » li salutò mestamente, sfiorando i loro nomi con la punta dei polpastrelli. La lapida era gelida e lacrime amare le velarono gli occhi. Tentò di trattenere, ma, traditrici, le rigarono il volto. Si portò l’altra mano sulle labbra per soffocare i singulti che le stavano squassando il petto. Non avrebbe più ricevuto risposta, non un sorriso, non un saluto, non una raccomandazione. Nulla. Quella consapevolezza le investì l’animo, stringendole il cuore in una morsa di pura afflizione. Non avrebbe mai più rivisto quel sorriso sghembo e timido che le rivolgeva sempre suo padre quando lo abbracciava. Non avrebbe più sentito la bella voce di sua madre, la sua risata di gioia, capace di rischiarare ogni giornata uggiosa. Non esistevano più. Era morti e non erano che polvere oramai, vane ceneri e ossa di quelle che erano state le due persone che le avevano voluto il più puro bene del mondo. Non avrebbe mai più potuto dir loro quanto bene nutrisse nei loro confronti, ringraziarli per essere stati dei così splendidi genitori sebbene lei ed Elena non fossero propriamente le loro figlie. Non aveva potuto dir loro addio. L’ultima parola che aveva pronunciato dinanzi a loro era stata un suono di assenso quando le avevano chiesto di tornare presto a casa perché quella sera era troppo fredda. Il gelo non aveva ancora abbandonato l’aria oramai primaverile di due anni prima, portando con sé una fitta coltre di neve alla fine di Febbraio. Nicole non sarebbe mai riuscita a dimenticare il bacio lieve di sua madre, l’ultimo che avrebbe mai ricevuto. Era quello consueto e la Nicole del passato non vi aveva nemmeno fatto caso. Aveva preso la porchette nera ed era uscita al fianco di Bonnie, Elena e Caroline, il tubino nero, di lana morbida, quello che aveva comperato a Richmond, che ben aderiva al suo corpo ancora puerile per certi versi fermandosi appena sotto il ginocchio. Lo zio John l’aveva portata nel più bel negozio di tutta la città e glielo aveva regalato per il suo ultimo onomastico. L’aveva indossato anche il giorno di Natale e lo zio le aveva rivolto un sorriso luminoso, quello che poche volte appariva sul suo viso ancora giovane. Quella luce occupava anche gli occhi azzurrini, i suoi stessi, quelli che aveva ereditato dalla nonna. V’era anche lei quel giorno. Era stato l’ultimo anno in cui tutta la famiglia si era riunita nella loro bella villa al lago. A nessuno importava se le sue acque si erano oramai ghiacciate e che il vento soffiasse gelido. Si erano riscaldati con il calore del camino e avevano trascorso lì una delle serate più felici che la Nicole del presente poteva serbare nella propria memoria. La mamma aveva preparato il tronchetto di cioccolato, del quale Jeremy aveva mangiato ben tre porzioni. La zia Jenna, la meravigliosa zia Jenna, giovanile e sempre pronta ad aiutare, nonostante la propria naturale goffaggine, aveva portato il vino rosso che Nicole aveva assaggiato, l’unica dei tre fratelli, trattenendo a stento una smorfia e un tremolio. Era davvero troppo forte. Non era in grado di comprendere come lo zio John riuscisse a berlo con cotanta facilità, sebbene le sue guance stessero divenendo più rosse del solito. Sembrava triste, lo zio John, come se avesse tanto desiderato essere in un altro luogo piuttosto che lì con loro. Nicole gli aveva domandato cos’avesse e suo padre aveva assottigliato lo sguardo, pensoso e meditabondo, annuendo alle parole della figlia. John aveva scosso il capo, poi aveva sorriso e l’aveva rassicurata sfiorandole la mano in una timida carezza. Elena, poi, appena dopo la cena della Vigilia, aveva cominciato a intonare le carole con la sua bella voce acuta e melodiosa. Tutti si erano stretti intorno a lei, seduti sul lungo tappeto dinanzi al camino colmo di legna scoppiettante, e la ragazza era arrossita. Nicole le aveva sorriso, incoraggiante, pregandola di continuare ed Elena aveva annuito, riprendendo quel mite canto. Tutti sorridevano. La mamma dolcemente orgogliosa, il papà timido, osservando la figlia come se fosse stato un Angelo appena sceso sulla Terra per portare la pace. Lo zio John quasi rapito come la zia Jenna che aveva poggiato le mani giunte sulle labbra. Jeremy con gli occhi chiusi, pronto per addormentarsi cullato da quella dolce nenia. Neanche quell’anno avrebbe resistito per vedere Babbo Natale discendere giù dal camino e poggiare i doni sotto l’abete illuminato a festa. Nicole serena, godendo di quella voce calorosa. La nonna semplicemente felice di vedere la propria famiglia così unita. Era stata una notte unica e aveva scostato lo sguardo da Elena solo per osservare la gemella bionda dai lunghi capelli dorati che discendevano come onde sulle esili spalle. Era l’immagine dell’innocenza, Nicole Gilbert, quello era certo per Elizabeth Bishop e per tutti quelli che l’avevano mai conosciuta. Però nessuno, a parte lei, era consapevole della magia che scorreva nelle vene della giovane, nemmeno Nicole stessa, teneramente inconsapevole del proprio destino. Era l’ultima discendente delle Bishop, di Bridget Bishop, la prima strega di Salem a essere condannata a morte per impiccagione, pur non essendo partecipe dei crimini di cui veniva accusata a Salem Village. Elizabeth avrebbe dovuto proteggerla a ogni costo, sebbene non fosse convinta che la stregoneria fosse la scelta migliore per una ragazza come Nicole. Quel mondo, irto di ostacoli e colmo di pericoli, non avrebbe mai dovuto essere conosciuto da un’anima pura come quella della sua nipote maggiore. Però la discendenza doveva continuare. A qualsiasi costo. E così era stato. Nicole aveva accettato la propria natura e non era stato un peso per la sua giovane mente, anzi sembrava quasi che le avessero fatto un dono di splendido valore. Elizabeth ne si era rallegrata e in cuor suo aveva sospirato per la gioia di quella decisione, sebbene potesse vedere quanto la sua piccola Nicole si allontanasse ogni giorno, sempre di più, da quella che era stata la sua vita. Le liti con il giovane Lockwood, il silenzio con la dolce Miranda, il poco tempo che trascorreva con le sue amiche. Stava perdendo quelle che erano state le persone più importanti ed Elizabeth sapeva che quello era uno sbaglio, ma aveva taciuto e le aveva offerto tutto quell’amore di cui necessitava. Era divenuta una guida per lei, un punto di riferimento, e John aveva notato quel cambiamento, pur da lontano. Si era nuovamente trasferito a Mystic Falls per star vicino a quella figlia a cui aveva dovuto dire addio prima ancora che venisse al mondo. Voleva esserle vicino, più di quanto avrebbe potuto fare Grayson stesso, ignaro che lui fosse il suo vero padre. Solo sua madre lo sapeva e le aveva fatto giurare di non dirlo ad alcuno, tantomeno alle due bambine. Era meglio così, le aveva detto una volta quando Elizabeth gli aveva domandato se non fosse più giusto raccontarlo, almeno a Grayson e Miranda.

Tutta quella lunga storia Nicole l’aveva appresa da John stesso che dopo molto tempo si era confidato con lei, non volendo che ci fossero ulteriori segreti tra di loro. Nicole gliene era stata grata e aveva sorriso. La nonna si era preoccupata troppo per lei. Non era stata colpa sua se aveva detto addio a Tyler, al suo vecchio rapporto con la mamma, all’allontanamento tra lei e le sue amiche. Non era stata colpa di nessuno. Era stato il Destino a volerlo e Nicole aveva accettato anche quello, sorridendo e andando avanti con la propria vita, tenendo duro. Non importava se qualche volta dovesse cadere e dovesse farsi male, quella era la vita, quello era il mondo reale e doveva accettarlo per come era. Nulla di più e nulla di meno. Proprio come avevano fatto tutti prima di lei.

Nicole sospirò, le lacrime le inumidivano ancora le gote arrossate, ma gli occhi ne erano oramai privi. Li riaprì e il suo sguardo, leggermente ottenebrato sia dall’oscurità che dal batticuore, si posò nuovamente sulla lapide. Si era alzato un vento gelido che la fece stringere nelle spalle e battere i denti. Percepiva dei rumori inconsueti tra le fronte degli alberi, movimenti che a quell’ora non avrebbero dovuto trovar luogo. Erano come quelli che causavano i passi mentre calpestavano le foglie secche. Si issò in piedi e si guardò intorno. Non vide che lapidi, angeli di marmo e le strade vuote oltre i cancelli. Doveva esserseli solamente immaginati, eppure erano così reali da farle venire i brividi. Il battito le si accelerò e risuonò nella sua mente come il suono di mille bacchette che percuotevano un tamburo. Si mosse su se stessa attirata da altri suoni e trattenne il fiato, trovandosi dinanzi una figura nera. Arretrò di un passo quasi cadendo e si portò la mano sul cuore impazzito.
« Ehi, biondina, sembra tu abbia visto un mostro,» esclamò una voce conosciuta. Ci mise qualche secondo a comprendere che era stata la figura dinanzi a lei a pronunciarla. Damon Salvatore. Impossibile non riconoscere i suoi occhi azzurrini e furbi. Le sorrideva, ironico e divertito da quella reazione, e Nicole assottigliò lo sguardo, serrando le labbra esangui.
« Tu sei folle. Mi stavi facendo morire di paura, idiota,» urlò terrorizzata, tentando di calmarsi. La risata di Damon la irritò, ma servì per darle un contegno. Erano stati quei ricordi a turbarla molto più del dovuto. Pensare ai suoi genitori adottivi quando aveva appena litigato con Elena non era stata una buona scelta, soprattutto per dove l’aveva condotta quel flusso che non aveva saputo interrompere. La nonna Elizabeth, suo padre, la zia Jenna. Tutte le persone che aveva perduto in quei due anni maledetti che avrebbe voluto poter cancellare dalla sua memoria, dalla sua mente, dallo stesso universo.
« È vero, è un po’ inquietante trovarsi dinanzi un vampiro nel bel mezzo del cimitero. Dovrei scusarmi, ma non lo farò. La tua faccia era troppo buffa. Non apparirei per nulla credibile,» le confessò con ancora l’ombra di un sorriso sul bel volto candido. Nicole sbuffò. Era certa di essere arrossita per il batticuore e la vergogna per essere stata così sciocca da arretrare dinanzi a quello che era lo spasimante di sua sorella. Si sfiorò l’avambraccio, tremando per il freddo, e percepì Damon avvicinarsi. Le stava porgendo la sua giacca di pelle con un sorriso appena accennato, non più baldanzosamente sarcastico come quello che le aveva rivolto poco prima, bensì quasi dolce e fraterno, in qualche modo, « Tieni. Fa freddo questa notte. L’inverno è alle porte e quella felpa è troppo fina per riscaldarti a dovere,» mormorò assorto nei propri pensieri. Nicole annuì e se la poggiò sulle spalle, stringendola. Non era calda, però presto l’avrebbe riparata. Damon le fece un cenno col capo, domandole di uscire dal cimitero, e la ragazza lo seguì, standogli accanto, chinati gli occhi sullo strati di foglie che ricopriva il suolo.
« Che ci facevi qui? » gli chiese incuriosita, sollevando lo sguardo, quand’erano appena arrivati dinanzi al cancello. Damon alzò le spalle, lo schiuse e le permise di passare per prima, da vero gentiluomo dell’Ottocento.
« Ti stavo cercando, in verità. Tua sorella mi è parsa molto triste dopo la vostra lite e, sebbene non l’abbia chiesto, mi sono sentito in dovere di parlarti,» le comunicò avanzando sull’asfalto bianco del marciapiede, lo sguardo dritto dinanzi a sé. Non la guardava, Damon, mentre Nicole non riusciva a smettere di farlo. Sbuffò e chinò il capo, dopo averlo scosso con decisione.
« Mio padre si sbagliava. Strano, non ha mai perso un colpo durante tutti questi anni, eppure con te…,» si interruppe meditabonda, divertita, passandosi l’indice sulle labbra sottili. Toccò a Damon sbuffare, sarcastico, mentre la risata più disinvolta e arrogante nasceva nel suo animo colmo di sfaccettature.
« Senza offesa, ma tuo padre era un grande idiota,» esclamò. Nicole rise, lievemente, scuotendo il capo.
« Te lo concedo. Lo diceva sempre anche lui, però poi si è saputo riscattare, non credi? Ha dato la vita per le sue figlie, in maniere differenti, però l’ha fatto,» rimuginò tra sé. Damon la guardò, aggrottando le folte sopracciglia nere, ma non le domandò alcuna spiegazione e la giovane gliene fu grata. Non avrebbe saputo rispondergli se le avesse chieste perché la verità era troppo dolorosa per poter essere raccontata. E quella notte non le andava di soffrire ancora.
« Dove vuoi che ti accompagni? » le domandò, invece, sottovoce, « A casa? » continuò quando non la sentì rispondere. Nicole scosse il capo, con foga e veemenza, e strinse di più gli angoli della giacca di pelle nera e profumata.
« No, a casa no. Sono arrabbiata con lei. Non avrebbe dovuto dirmi una cosa del genere. Dormirò a casa di mia nonna questa notte e non c’è bisogno che tu ti dia pensiero. So dov’è la strada e, nonostante la mia proverbiale sfortunata, spero di arrivarci illesa. Puoi dire a Elena che se davvero manderà via Jeremy da Mystic Falls, può scordarsi il mio perdono. Se le importa qualcosa di me,» aggiunse incerta mentre nuove lacrime le velavano gli occhi limpidi e stanchi, spossati da tutti quei sentimenti contrastanti. Avrebbe solo voluto far ritorno a casa, farsi una bella doccia calda, guardare un film e addormentarsi, sperando che il giorno successivo fosse migliore del precedente. Damon la prese per le spalle, facendola voltare senza gentilezza o cortesia, arrabbiato, mentre ombre scure occupavano quel mare chiaro e bellissimo che erano i suoi occhi.
« Non parlare di tua sorella come se fosse un mostro, Nicole,» le ordinò perentorio, serio come mai lo aveva sentito. Nicole schiuse le labbra, incredula e confusa, mentre assottigliava lo sguardo assorta. Damon, come preso dal rimorso, la lasciò e arretrò di un solo passo, chinando per un istante in capo, « Lei ti vuole bene e so che tu provi lo stesso. Due fratelli non dovrebbero litigare,» aggiunse malinconico mentre i ricordi di quel passato troppo lontano per essere rivissuto riaffioravano nella sua mente antica. Nicole chiuse gli occhi e annuì mentre un’espressione sofferente le inaspriva i lineamenti poco marcati del volto. Si sfilò la giacca, spalancando lo sguardo limpido, e gliela porse delicatamente, ringraziandolo con un impercettibile sorriso.
« Non credo lo ripeterò mai più, ma Elena è fortunata ad avere una persona che l’ami e la protegga come fai tu,» sussurrò prima di volgersi verso la strada e avanzare verso la casa di sua nonna. La voce di Damon la richiamò quando era in procinto di svoltare l’angolo. Non si girò, però si fermò per ascoltarlo.
« Tuo fratello non andrà da nessuna parte e penso dovresti parlare con tua sorella, chiarirvi. Torna a casa. Questa notte non dovresti stare da sola,» le comunicò atono. Nicole si voltò, stranita da quella frase apparentemente senza significato. Damon non c’era più, era scomparso in una folata di vento gelido, lasciandola sola in quella strada vuota e solitaria. Tremò impercettibilmente. Forse aveva ragione. Il buonsenso le ordinò di obbedire e cambiò strada, avanzando verso casa sua, non incontrando anima viva. Camminò meccanicamente, lo sguardo fisso sull’asfalto, il capo chino, la mente assorta in pensieri più grandi di lei. Forse quella frase non voleva dir nulla o forse non l’aveva nemmeno pronunciata. Forse era stata solo un gioco della sua mente stanca eppure lei sapeva di non dover restare sola, non quella notte. Si ritrovò davanti al portico di casa sua, le luci oramai spente. Dovevano già essere andati a letto e tremò impercettibilmente, il cuore stesso scosso dai battiti troppo energici e vigorosi. Non voleva entrare, era sbagliato. Il giorno dopo avrebbe chiarito con Elena, le avrebbe parlato e si sarebbero riconciliate, ma quella notte aveva bisogno di lui. Di Klaus. Quella consapevolezza la fece tremare maggiormente. Rivide i suoi splendidi occhi azzurri dinanzi ai propri, due mari meravigliosi e profondi. Deglutì e sorrise, avvampando sebbene nessuno potesse vederla. Aveva bisogno di sentire le sue braccia forti e accoglienti stringerla con calore. Aveva bisogno dei suoi baci, delle sue labbra posate dolcemente sulle proprie. Necessitava di lui. E non era un problema. Non più.

  
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