Capitolo 16
Past never dies
Mikael scomparve velocemente, sollevando il vento e facendo
oscillare gli steli smeraldini dei piccoli fiori lilla del giardino ben curato
di sua nonna. Era l’unica a non aver voluto optare per un prato inglese. Diceva
sempre che era troppo austero e di voler colore nella sua vita, un panorama
armonioso in una cittadina tranquilla del Sud. Nicole, quand’era bambina,
pensava fosse più che giusto e adorava rincorrere le minuscole farfalle che
giocavano coi petali. Poi era cresciuta e aveva imparato che la magia si sprigiona
direttamente dalla natura, da ogni suo elemento. Il mondo era magico. Era
quella la più grande verità che sua nonna le aveva insegnato quando aveva
cominciato ad apprendere di essere una strega, a credere che potessero esistere
delle creature sovrannaturali, che la stessa Mystic Falls fosse abitata da
streghe e, in passato, quando il Consiglio non si era ancora del tutto formato,
anche dai vampiri. Sua nonna le aveva raccontato che li avevano bruciati nella
vecchia cripta dei Fell e che furono banditi dalla città. V’erano degli
attacchi, ma marginali. Il Consiglio era sempre stato in grado di distruggerli
e insabbiare tutto, facendo credere che fossero stati i lupi presenti nella
zona per il loro sostentamento. Nicole era ancora capace di ricordare che, a
soli quindici anni, sapeva già che il mondo non era quello che lei aveva
conosciuto. Tremava per quella consapevolezza e sua nonna aveva fatto un passo
indietro, sorridendo e rassicurandola che avrebbe potuto scegliere di
dimenticare e continuare la sua vita normale, da consueta teenager americana,
oppure accettare la sua natura e accogliere la magia dentro di sé, lasciando
che l’irradiasse con i suoi raggi luminosi. Nicole Gilbert aveva scelto la
seconda opzione e non se n’era mai pentita.
Tornata al presente, la giovane strega sospirò, scosse il
capo e chiuse per un attimo gli occhi limpidi. Rimuginare sul passato la faceva
soffrire perché quella calma pacatezza, quel mite candore, non sarebbe mai più
tornato nella sua vita oramai costellata dalla magia, dalle doppleganger, dai
vampiri, dai cacciatori. Dagli ibridi. Soprattutto dagli ibridi. Arrossì
inconsapevolmente e sorrise, una live increspatura delle labbra sottili e a
cuore. Dinanzi a sé rivide gli occhi meravigliosi di Klaus, le sue labbra che lambivano
dolcemente le proprie, i suoi sorrisi, quegli appellativi ironici che prima
l’avevano tanto irritata e indispettita mentre, conoscendolo meglio, essendosi
avvicinata a lui, la facevano avvampare per l’imbarazzo e per qualcos’altro,
qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. Però, invece, era ben presente nel suo
animo e una parte di lei ne era felice. Le parole di Mikael l’avevano scossa
nel profondo perché rispecchiavano quella che era anche la sua realtà. Klaus
non era l’unica persona sola e bisognosa d’amore. V’era anche lei. La sua vita
era vuota e, allo stesso tempo, colma di afflizione proprio come quella
dell’immortale e Nicole sapeva di aver bisogno di lui, di legarsi a qualcuno che
non fosse la sua famiglia e che non fossero i suoi amici. Aveva necessità di
altro, di qualcosa che fosse in grado di riempire quel vuoto che quei due anni
le avevano lasciato in eredità. Scosse nuovamente il capo e spalancò lo
sguardo. Non era bene che lei pensasse a certe cose, come se fosse una
ragazzina. Oramai era adulta e doveva cavarsela da sola, sebbene la solitudine
fosse la condizione che più aberrava. Non v’era mai riuscita, ad essere sola.
Dopo tutto quello che le era accaduto, dopo essere fuggita da Mystic Falls in
quella notte di primavera, ventosa e uggiosa, carica di nubi colme di pioggia,
pianto del cielo stesso, era tornata due mesi dopo sulla porta della casa di
John a Richmond, con le lacrime che le rigavano il viso pallido e sin troppo
magro, che celava le sue solite forme rotonde, e una supplica negli occhi
chiari. Voleva che la riprendesse con sé, che le donasse quell’affetto di cui
si erano entrambi privati per troppo tempo. Ricordava ancora che suo padre,
senza dir nulla, nemmeno sorridendo, l’aveva abbracciata, stringendola a sé e
dicendole che oramai era al sicuro. Era a casa. La vibrazione del telefono la
fece riaffiorare da quel nero oblio che era diventata la sua mente. Scosse il
capo ed estrasse il cellulare. Non facendo attenzione a chi fosse
l’interlocutore, accettò la chiamata.
« Pronto,» esclamò con la voce arrochita, come se non
l’avesse utilizzata da innumerevoli attimi.
« Nicole, dove sei? Per favore, torna a casa,» sussurrò sua
sorella. Sembrava sconvolta e piangeva. Schiuse le labbra, sorpresa da quel
tono di supplica, e annuì sebbene non potesse vederla.
« Sì, tesoro. Adesso torno. Cos’è successo? Ti senti bene?
Jer sta bene?» domandò preoccupata, aprendo lo sportello ed entrando in
macchina.
« Ha tagliato la testa di un ibrido con una mannaia, Nicole.
Lui non sta bene,» esclamò, la voce inframmezzata da dei singhiozzi trattenuti
a stento e dei respiri troppo profondi. Nicole chiuse gli occhi e si abbandonò
nel vano tentativo di respirare normalmente. Una lacrima le rigò il volto. Non
era possibile. Non doveva permetterlo. Era la sua famiglia e nessuno doveva
avere il potere di mutarla. Jeremy non era un assassino, Elena non era quella
ragazza che aveva al telefono. Sua sorella non piangeva, sua sorella era forte,
ragionevole, buona, gentile. Suo fratello era sensibile e dolce, creativo e con
la risata pronta, divertente e introverso. E lei era quella combina guai,
quella sincera, alle volte anche troppo onesta e ingenua, fiduciosa e sempre
pronta ad aiutare la comunità. Non era possibile che fossero cambiati così
tanto in quel minuscolo lasso di tempo.
« Non va bene, sorellina, lo so. Adesso faremo una bella
riunione di famiglia e parleremo, tutti quanti, tutti insieme come una volta.
Troveremo una soluzione. Insieme possiamo sistemare tutto. Te lo prometto,
Elena,» sussurrò dolcemente, imprimendo in quelle parole una forza tale da
farla sembrare vivide persino a lei. Si immaginò il sorriso appena accennato di
sua sorella e il segno d’assenso. Chiuse la comunicazione senza un’altra parola
e poggiò il telefono sul sedile del passeggero. Mise in moto e guidò per le vie
poco trafficate di Mystic Falls mentre la sera copriva con il suo manto il panorama
della cittadina, rendendola quasi una dimora incantata, come quella delle
fiabe. A quell’ora la città pareva un luogo pacifico e a un estraneo sarebbe
parsa una semplice e consueta cittadina del Sud come tante altre, quelle per le
quali si era combattuto tanto per l’indipendenza dai Nordisti, come la
piantagione di Tara in Via col Vento. Non era così. Chi vi abitava aveva
imparato a conoscerlo bene. Non erano solo i vampiri e gli esseri
soprannaturali a renderla anomala. Mystic Falls era differente perché era nata
nel sangue dei vampiri e delle streghe. Sospirò. Quella città attirava morte e
distruzione e non sarebbe mai cambiato. Parcheggiò nel vialetto e osservò il
portico. V’erano ancora tracce di sangue che Elena stava lavando via. La porta
era aperta e si poteva scorgere la luce che rischiarava il corridoio e la
cucina. Poteva percepire delle voci. Una apparteneva a sua sorella, piangente e
tremante nel tentativo di controllare le proprie emozioni. L’altra,
probabilmente, se aveva inteso bene, era di Damon. Avanzò verso casa, attenta a
non sporcarsi le scarpe e li vide in cucina, vicino al lavabo. Damon stava
carezzando il volto di Elena, rassicurante, e le dava le spalle. Sua sorella
avrebbe potuto vederla, ma il suo sguardo era tutto rivolto al vampiro dalla
giacca di pelle nera. Non importava cosa dicesse, Nicole ne era sicura: Elena
lo amava, e anche di più, a suo avviso, di quanto avesse amato Stefan. Solo non
voleva ammetterlo, neanche a se stessa, perché sapeva cosa avrebbe comportato
quella scelta. Non si trattava di lei, propriamente, ma dei due fratelli. L’uno
avrebbe escluso l’altro e nessuno mai avrebbe mai potuto permettere che una
famiglia si sciogliesse. Così Elena faceva finta e continuava ad andare avanti,
ingaggiando la stessa battaglia che Katherine, a suo tempo, non aveva neanche
provato a combattere. Lei li aveva amati ambedue, allo stesso tempo, ma non si
era preoccupata di analizzare i propri sentimenti, non aveva avuto bisogno. Era
una vampira immortale, non una ragazzina di diciotto anni appena compiuti. Era
sempre stato Stefan per lei, sebbene la passione per Damon fosse potentissima.
Aveva saputo scindere amore e desiderio. Poi aveva scelto entrambi, però non
era quello il punto, almeno secondo lei. Sorrise timidamente quando gli occhi
color nocciola di sua sorella si posarono su di lei. Elena ricambiò il sorriso
e Damon si scostò dolcemente per poi volgersi verso di lei.
« Dov’è lui? » sussurrò imbarazzata, poggiandosi allo
stipite della porta della cucina mentre anche Alaric entrava nella stanza, a
braccia conserte, preoccupato dalla situazione.
« In camera sua,» le comunicò Elena avanzando verso di lei e
sfiorandole l’avambraccio, « Perdonami per questa mattina. Io non pensavo
veramente ciò che ho detto,» sussurrò dispiaciuta, la fronte contratta e gli
occhi dolci pieni d’afflizione. Sua sorella sorrise e scosse il capo,
carezzandole il volto.
« Invece sì, ma non importa perché siamo sorelle e tu hai
ragione,» mormorò, interrompendola con un lieve sorriso negli occhi tristi e
mesti, pieni di lacrime trattenute, « Sono tornata per John, non per Grayson e
Miranda, e nemmeno per Isobel,» aggiunse a malincuore, volgendo lo sguardo
verso Alaric che l’osservava assorto, « Non ti ho nemmeno salutata quel giorno.
Dopo il funerale me ne sono semplicemente andata, come una codarda, meschina,
una piccola idiota,» esclamò incredula dinanzi alla sua stessa viltà. Non le
aveva nemmeno domandato come si sentisse dopo il sacrificio, se avesse bisogno
di un abbraccio, se volesse mandarla al diavolo per quello che aveva fatto.
Elena scuoteva il capo mentre lei parlava e piccoli suoni di diniego
fuoruscivano dalle sue labbra schiuse.
« Non è vero, Nicole. E anche se fosse chi sono io per
giudicarti? Volevi bene a John e, in tutta onestà, posso benissimo capirti.
Avrei dovuto scusarmi con lui, prima che morisse per me. Gli ho chiuso la porta
in faccia senza nemmeno tentare di comprenderlo e mi dispiace così tanto,»
esclamò tremante mentre una lacrima sfuggiva al suo controllo percorrendo la
guancia olivastra e perdendosi lungo la linea del collo sino alla scollatura
per nulla marcata della sua maglietta semplice. Nicole annuì e chinò il capo,
lo sguardo sulle scarpe per non dover incontrare quello della gemella.
« Lui ti voleva bene, ci voleva bene, e…,» si bloccò. Non
riusciva più a parlare. Le lacrime nostalgiche e pregne di dolore le velarono
gli occhi e doveva ricacciarle indietro. Percepì le braccia di Elena cingerla
dolcemente e si abbandonò al suo abbraccio delicato e lieve poggiando le mani
sulla sua schiena.
« Dobbiamo occuparci di Jer adesso,» le sussurrò
all’orecchio. Nicole annuì e si scostò debolmente, sorridendole.
« Cos’hai in mente? » domandò tranquilla. Elena deglutì e si
morse il labbro inferiore arretrando di un passo per lasciarla libera.
« Allontanarlo da qui. Solo per un po’,» aggiunse quando sua
sorella la guardò smarrita e sofferente, come se l’avesse appena pugnalata alle
spalle. Nicole si allontanò e scosse il capo con foga.
« No, non puoi. Non accetterà mai di lasciarci e non puoi
soggiogarlo, Elena. Ci odierà se lo verrà a sapere,» esclamò irata mentre meste
lacrime le rigavano il volto. Elena scosse il capo e avanzò, sfiorandole il
braccio, ma Nicole si scansò.
« È stato lui a dirmi di voler andare via da questa città,
Nicole,» affermò con voce acuta e piena di afflizione, pregandola di riuscire a
comprenderla. Nicole scosse nuovamente il capo e assottigliò lo sguardo, più
indispettita. Non avrebbe mai mandato via suo fratello, il suo Jeremy, non
quando si erano appena ritrovati.
« E tu gli credi? Elena, siamo nati e cresciuti qui. Questa
casa è nostra. Questa città è nostra,» si corresse incredula dinanzi a quella
decisione così sciocca e insensata, « Cosa credi che cambierebbe in un’altra
città? Non riusciremmo mai a dimenticare,» sussurrò più calma, tentando di
farla ragionare. Toccò a Elena arrabbiarsi
e nei suoi occhi sempiternamente calmi apparve una furia inimmaginabile
che l’avrebbe fatta arretrare se si fossero trovate in un’altra situazione e
fosse stata meno testarda e orgogliosa.
« Dimenticare? Tu parli di non riuscire dimenticare?
Davvero? Non ci credo, Nicole. Non detto da te. Per due anni ti sei scordata
della tua famiglia. Ci hai abbandonati proprio come fece Isobel, » esclamò
inviperita come mai l’aveva sentita prima di quel momento. L’aveva appena
paragonata a Isobel, alla madre che non aveva voluto occuparsi di loro e le
aveva date in adozione quando erano solamente in fasce. Nuove lacrime le
velarono gli occhi, ma, fiera, le ricacciò indietro, « Non avrei mai creduto di
potertelo dire, ma davvero, Nicole, sei identica a nostra madre. E questo non è
affatto un complimento,» aggiunse malevola e torva. Nicole serrò le labbra, gli
occhi colmi delle fiamme dell’Inferno. La sua parte più ragionevole e pura
ordinò alla sua magia di non intervenire per non far del male a sua sorella,
però quella più passionale avrebbe voluto ferirla per farla soffrire proprio
come stava patendo lei. Serrò i pugni e Alaric si mise tra le due, guardando
dall’una all’altra per farle ragionare.
« Fai quello che vuoi, Elena. Ma quando tornerà a casa, è te
che odierà e non me. Poi non venire a piangere tra le mie braccia. Io non ci
sarò per te. Non ci sarò mai più. Mi hai ferita e non ho intenzione di starti
ad ascoltare un secondo di più, » esclamò indispettita e mesta, « Io non ti ho
abbandonata, non l’ho fatto con Jeremy. Credi quello che vuoi, » aggiunse
quando la sentì sbuffare sonoramente, « Io sono stanca di te,» affermò prima di
volgersi e avanzare verso l’uscita della casa, senza voltarsi indietro. Non
l’aveva richiamata, nessuno l’aveva fatto, né Alaric né Elena. Non le importava
più nulla di Nicole. Per Elena era come se fosse morta due anni prima. Non era
che un’estranea ai suoi occhi e non l’avrebbe turbata oltre con la propria
presenza. Sapeva comprendere quand’era indesiderata, Nicole, e non voleva
essere un peso per nessuno, soprattutto per la sua famiglia. Se di famiglia si
poteva ancora parlare. Se Elena avesse mandato via Jeremy, non l’avrebbe mai
perdonata, anzi si sarebbe vendicata. Non le importava più ciò che suo padre le
aveva fatto promettere in punto di morte. Lui avrebbe capito se fosse stato lì
con lei, l’avrebbe appoggiata. Lei non poteva scegliere per tutti come se fosse
stata la mamma. Guardò la macchina. Apparteneva a Elena. Scosse il capo con
foga e si avviò a piedi, camminando per la via illuminata dalle luci dei
portici, le mani nelle tasca della felpa. Faceva freddo quella sera autunnale e
percepiva il gelo penetrarla sin dentro le ossa. Chinò il capo e si strinse
maggiormente. Stava camminando senza una meta precisa, per la strada che
conduceva al cimitero. Di sera aveva un’aria ancora più lugubre di quella che
si ricordava. Posò la mano sul cancello, che cigolò sinistro, poi camminò verso
la tomba dei suoi genitori adottivi, timorosa, guardandosi intorno. Se qualcuno
l’avesse vista a quell’ora di notte, avrebbe sicuramente pensato male e
aggravato una situazione che già di per sé non era molto felice nella città.
Non v’era nessuno. Le lapidi, per la maggior parte di marmo bianco dalle
scritte nere ed eleganti, brillavano come fari in quella notte illuminata da
una luna meravigliosa. Tra qualche giorno sarebbe stata del tutto piena, la
magia della natura catalizzata al massimo delle proprie possibilità, le
creature delle tenebre libere di mostrarsi per ciò che erano. Le piaceva la
Luna piena, soprattutto quando era più vicina alla Terra, la faceva sentire più
sollevata e rinfrancata. Sorrise di quel pensiero e si accomodò sulla basa
dell’angelo di marmo bianco di fronte alla tomba.
« Mamma, papà, » li salutò mestamente, sfiorando i loro nomi
con la punta dei polpastrelli. La lapida era gelida e lacrime amare le velarono
gli occhi. Tentò di trattenere, ma, traditrici, le rigarono il volto. Si portò
l’altra mano sulle labbra per soffocare i singulti che le stavano squassando il
petto. Non avrebbe più ricevuto risposta, non un sorriso, non un saluto, non
una raccomandazione. Nulla. Quella consapevolezza le investì l’animo,
stringendole il cuore in una morsa di pura afflizione. Non avrebbe mai più
rivisto quel sorriso sghembo e timido che le rivolgeva sempre suo padre quando
lo abbracciava. Non avrebbe più sentito la bella voce di sua madre, la sua
risata di gioia, capace di rischiarare ogni giornata uggiosa. Non esistevano
più. Era morti e non erano che polvere oramai, vane ceneri e ossa di quelle che
erano state le due persone che le avevano voluto il più puro bene del mondo.
Non avrebbe mai più potuto dir loro quanto bene nutrisse nei loro confronti,
ringraziarli per essere stati dei così splendidi genitori sebbene lei ed Elena
non fossero propriamente le loro figlie. Non aveva potuto dir loro addio.
L’ultima parola che aveva pronunciato dinanzi a loro era stata un suono di
assenso quando le avevano chiesto di tornare presto a casa perché quella sera
era troppo fredda. Il gelo non aveva ancora abbandonato l’aria oramai
primaverile di due anni prima, portando con sé una fitta coltre di neve alla
fine di Febbraio. Nicole non sarebbe mai riuscita a dimenticare il bacio lieve
di sua madre, l’ultimo che avrebbe mai ricevuto. Era quello consueto e la
Nicole del passato non vi aveva nemmeno fatto caso. Aveva preso la porchette
nera ed era uscita al fianco di Bonnie, Elena e Caroline, il tubino nero, di
lana morbida, quello che aveva comperato a Richmond, che ben aderiva al suo
corpo ancora puerile per certi versi fermandosi appena sotto il ginocchio. Lo
zio John l’aveva portata nel più bel negozio di tutta la città e glielo aveva
regalato per il suo ultimo onomastico. L’aveva indossato anche il giorno di
Natale e lo zio le aveva rivolto un sorriso luminoso, quello che poche volte
appariva sul suo viso ancora giovane. Quella luce occupava anche gli occhi
azzurrini, i suoi stessi, quelli che aveva ereditato dalla nonna. V’era anche
lei quel giorno. Era stato l’ultimo anno in cui tutta la famiglia si era
riunita nella loro bella villa al lago. A nessuno importava se le sue acque si
erano oramai ghiacciate e che il vento soffiasse gelido. Si erano riscaldati
con il calore del camino e avevano trascorso lì una delle serate più felici che
la Nicole del presente poteva serbare nella propria memoria. La mamma aveva
preparato il tronchetto di cioccolato, del quale Jeremy aveva mangiato ben tre
porzioni. La zia Jenna, la meravigliosa zia Jenna, giovanile e sempre pronta ad
aiutare, nonostante la propria naturale goffaggine, aveva portato il vino rosso
che Nicole aveva assaggiato, l’unica dei tre fratelli, trattenendo a stento una
smorfia e un tremolio. Era davvero troppo forte. Non era in grado di
comprendere come lo zio John riuscisse a berlo con cotanta facilità, sebbene le
sue guance stessero divenendo più rosse del solito. Sembrava triste, lo zio
John, come se avesse tanto desiderato essere in un altro luogo piuttosto che lì
con loro. Nicole gli aveva domandato cos’avesse e suo padre aveva assottigliato
lo sguardo, pensoso e meditabondo, annuendo alle parole della figlia. John
aveva scosso il capo, poi aveva sorriso e l’aveva rassicurata sfiorandole la
mano in una timida carezza. Elena, poi, appena dopo la cena della Vigilia,
aveva cominciato a intonare le carole con la sua bella voce acuta e melodiosa. Tutti
si erano stretti intorno a lei, seduti sul lungo tappeto dinanzi al camino
colmo di legna scoppiettante, e la ragazza era arrossita. Nicole le aveva
sorriso, incoraggiante, pregandola di continuare ed Elena aveva annuito,
riprendendo quel mite canto. Tutti sorridevano. La mamma dolcemente orgogliosa,
il papà timido, osservando la figlia come se fosse stato un Angelo appena sceso
sulla Terra per portare la pace. Lo zio John quasi rapito come la zia Jenna che
aveva poggiato le mani giunte sulle labbra. Jeremy con gli occhi chiusi, pronto
per addormentarsi cullato da quella dolce nenia. Neanche quell’anno avrebbe
resistito per vedere Babbo Natale discendere giù dal camino e poggiare i doni
sotto l’abete illuminato a festa. Nicole serena, godendo di quella voce
calorosa. La nonna semplicemente felice di vedere la propria famiglia così
unita. Era stata una notte unica e aveva scostato lo sguardo da Elena solo per
osservare la gemella bionda dai lunghi capelli dorati che discendevano come
onde sulle esili spalle. Era l’immagine dell’innocenza, Nicole Gilbert, quello
era certo per Elizabeth Bishop e per tutti quelli che l’avevano mai conosciuta.
Però nessuno, a parte lei, era consapevole della magia che scorreva nelle vene
della giovane, nemmeno Nicole stessa, teneramente inconsapevole del proprio
destino. Era l’ultima discendente delle Bishop, di Bridget Bishop, la prima
strega di Salem a essere condannata a morte per impiccagione, pur non essendo
partecipe dei crimini di cui veniva accusata a Salem Village. Elizabeth avrebbe
dovuto proteggerla a ogni costo, sebbene non fosse convinta che la stregoneria
fosse la scelta migliore per una ragazza come Nicole. Quel mondo, irto di
ostacoli e colmo di pericoli, non avrebbe mai dovuto essere conosciuto da
un’anima pura come quella della sua nipote maggiore. Però la discendenza doveva
continuare. A qualsiasi costo. E così era stato. Nicole aveva accettato la
propria natura e non era stato un peso per la sua giovane mente, anzi sembrava
quasi che le avessero fatto un dono di splendido valore. Elizabeth ne si era
rallegrata e in cuor suo aveva sospirato per la gioia di quella decisione,
sebbene potesse vedere quanto la sua piccola Nicole si allontanasse ogni
giorno, sempre di più, da quella che era stata la sua vita. Le liti con il
giovane Lockwood, il silenzio con la dolce Miranda, il poco tempo che
trascorreva con le sue amiche. Stava perdendo quelle che erano state le persone
più importanti ed Elizabeth sapeva che quello era uno sbaglio, ma aveva taciuto
e le aveva offerto tutto quell’amore di cui necessitava. Era divenuta una guida
per lei, un punto di riferimento, e John aveva notato quel cambiamento, pur da
lontano. Si era nuovamente trasferito a Mystic Falls per star vicino a quella
figlia a cui aveva dovuto dire addio prima ancora che venisse al mondo. Voleva
esserle vicino, più di quanto avrebbe potuto fare Grayson stesso, ignaro che
lui fosse il suo vero padre. Solo sua madre lo sapeva e le aveva fatto giurare
di non dirlo ad alcuno, tantomeno alle due bambine. Era meglio così, le aveva
detto una volta quando Elizabeth gli aveva domandato se non fosse più giusto
raccontarlo, almeno a Grayson e Miranda.
Tutta quella lunga storia Nicole l’aveva appresa da John
stesso che dopo molto tempo si era confidato con lei, non volendo che ci
fossero ulteriori segreti tra di loro. Nicole gliene era stata grata e aveva
sorriso. La nonna si era preoccupata troppo per lei. Non era stata colpa sua se
aveva detto addio a Tyler, al suo vecchio rapporto con la mamma,
all’allontanamento tra lei e le sue amiche. Non era stata colpa di nessuno. Era
stato il Destino a volerlo e Nicole aveva accettato anche quello, sorridendo e
andando avanti con la propria vita, tenendo duro. Non importava se qualche
volta dovesse cadere e dovesse farsi male, quella era la vita, quello era il
mondo reale e doveva accettarlo per come era. Nulla di più e nulla di meno.
Proprio come avevano fatto tutti prima di lei.
Nicole sospirò, le lacrime le inumidivano ancora le gote
arrossate, ma gli occhi ne erano oramai privi. Li riaprì e il suo sguardo,
leggermente ottenebrato sia dall’oscurità che dal batticuore, si posò
nuovamente sulla lapide. Si era alzato un vento gelido che la fece stringere
nelle spalle e battere i denti. Percepiva dei rumori inconsueti tra le fronte
degli alberi, movimenti che a quell’ora non avrebbero dovuto trovar luogo.
Erano come quelli che causavano i passi mentre calpestavano le foglie secche.
Si issò in piedi e si guardò intorno. Non vide che lapidi, angeli di marmo e le
strade vuote oltre i cancelli. Doveva esserseli solamente immaginati, eppure
erano così reali da farle venire i brividi. Il battito le si accelerò e risuonò
nella sua mente come il suono di mille bacchette che percuotevano un tamburo.
Si mosse su se stessa attirata da altri suoni e trattenne il fiato, trovandosi
dinanzi una figura nera. Arretrò di un passo quasi cadendo e si portò la mano
sul cuore impazzito.
« Ehi, biondina, sembra tu abbia visto un mostro,» esclamò
una voce conosciuta. Ci mise qualche secondo a comprendere che era stata la
figura dinanzi a lei a pronunciarla. Damon Salvatore. Impossibile non
riconoscere i suoi occhi azzurrini e furbi. Le sorrideva, ironico e divertito
da quella reazione, e Nicole assottigliò lo sguardo, serrando le labbra
esangui.
« Tu sei folle. Mi stavi facendo morire di paura, idiota,»
urlò terrorizzata, tentando di calmarsi. La risata di Damon la irritò, ma servì
per darle un contegno. Erano stati quei ricordi a turbarla molto più del
dovuto. Pensare ai suoi genitori adottivi quando aveva appena litigato con
Elena non era stata una buona scelta, soprattutto per dove l’aveva condotta
quel flusso che non aveva saputo interrompere. La nonna Elizabeth, suo padre,
la zia Jenna. Tutte le persone che aveva perduto in quei due anni maledetti che
avrebbe voluto poter cancellare dalla sua memoria, dalla sua mente, dallo
stesso universo.
« È vero, è un po’ inquietante trovarsi dinanzi un vampiro
nel bel mezzo del cimitero. Dovrei scusarmi, ma non lo farò. La tua faccia era
troppo buffa. Non apparirei per nulla credibile,» le confessò con ancora
l’ombra di un sorriso sul bel volto candido. Nicole sbuffò. Era certa di essere
arrossita per il batticuore e la vergogna per essere stata così sciocca da
arretrare dinanzi a quello che era lo spasimante di sua sorella. Si sfiorò
l’avambraccio, tremando per il freddo, e percepì Damon avvicinarsi. Le stava
porgendo la sua giacca di pelle con un sorriso appena accennato, non più
baldanzosamente sarcastico come quello che le aveva rivolto poco prima, bensì
quasi dolce e fraterno, in qualche modo, « Tieni. Fa freddo questa notte.
L’inverno è alle porte e quella felpa è troppo fina per riscaldarti a dovere,»
mormorò assorto nei propri pensieri. Nicole annuì e se la poggiò sulle spalle,
stringendola. Non era calda, però presto l’avrebbe riparata. Damon le fece un
cenno col capo, domandole di uscire dal cimitero, e la ragazza lo seguì,
standogli accanto, chinati gli occhi sullo strati di foglie che ricopriva il
suolo.
« Che ci facevi qui? » gli chiese incuriosita, sollevando lo
sguardo, quand’erano appena arrivati dinanzi al cancello. Damon alzò le spalle,
lo schiuse e le permise di passare per prima, da vero gentiluomo
dell’Ottocento.
« Ti stavo cercando, in verità. Tua sorella mi è parsa molto
triste dopo la vostra lite e, sebbene non l’abbia chiesto, mi sono sentito in
dovere di parlarti,» le comunicò avanzando sull’asfalto bianco del marciapiede,
lo sguardo dritto dinanzi a sé. Non la guardava, Damon, mentre Nicole non
riusciva a smettere di farlo. Sbuffò e chinò il capo, dopo averlo scosso con
decisione.
« Mio padre si sbagliava. Strano, non ha mai perso un colpo
durante tutti questi anni, eppure con te…,» si interruppe meditabonda,
divertita, passandosi l’indice sulle labbra sottili. Toccò a Damon sbuffare,
sarcastico, mentre la risata più disinvolta e arrogante nasceva nel suo animo
colmo di sfaccettature.
« Senza offesa, ma tuo padre era un grande idiota,» esclamò.
Nicole rise, lievemente, scuotendo il capo.
« Te lo concedo. Lo diceva sempre anche lui, però poi si è
saputo riscattare, non credi? Ha dato la vita per le sue figlie, in maniere
differenti, però l’ha fatto,» rimuginò tra sé. Damon la guardò, aggrottando le
folte sopracciglia nere, ma non le domandò alcuna spiegazione e la giovane
gliene fu grata. Non avrebbe saputo rispondergli se le avesse chieste perché la
verità era troppo dolorosa per poter essere raccontata. E quella notte non le
andava di soffrire ancora.
« Dove vuoi che ti accompagni? » le domandò, invece,
sottovoce, « A casa? » continuò quando non la sentì rispondere. Nicole scosse
il capo, con foga e veemenza, e strinse di più gli angoli della giacca di pelle
nera e profumata.
« No, a casa no. Sono arrabbiata con lei. Non avrebbe dovuto
dirmi una cosa del genere. Dormirò a casa di mia nonna questa notte e non c’è
bisogno che tu ti dia pensiero. So dov’è la strada e, nonostante la mia
proverbiale sfortunata, spero di arrivarci illesa. Puoi dire a Elena che se
davvero manderà via Jeremy da Mystic Falls, può scordarsi il mio perdono. Se le
importa qualcosa di me,» aggiunse incerta mentre nuove lacrime le velavano gli
occhi limpidi e stanchi, spossati da tutti quei sentimenti contrastanti.
Avrebbe solo voluto far ritorno a casa, farsi una bella doccia calda, guardare
un film e addormentarsi, sperando che il giorno successivo fosse migliore del
precedente. Damon la prese per le spalle, facendola voltare senza gentilezza o
cortesia, arrabbiato, mentre ombre scure occupavano quel mare chiaro e bellissimo
che erano i suoi occhi.
« Non parlare di tua sorella come se fosse un mostro,
Nicole,» le ordinò perentorio, serio come mai lo aveva sentito. Nicole schiuse
le labbra, incredula e confusa, mentre assottigliava lo sguardo assorta. Damon,
come preso dal rimorso, la lasciò e arretrò di un solo passo, chinando per un
istante in capo, « Lei ti vuole bene e so che tu provi lo stesso. Due fratelli
non dovrebbero litigare,» aggiunse malinconico mentre i ricordi di quel passato
troppo lontano per essere rivissuto riaffioravano nella sua mente antica.
Nicole chiuse gli occhi e annuì mentre un’espressione sofferente le inaspriva i
lineamenti poco marcati del volto. Si sfilò la giacca, spalancando lo sguardo
limpido, e gliela porse delicatamente, ringraziandolo con un impercettibile
sorriso.
« Non credo lo ripeterò mai più, ma Elena è fortunata ad
avere una persona che l’ami e la protegga come fai tu,» sussurrò prima di
volgersi verso la strada e avanzare verso la casa di sua nonna. La voce di
Damon la richiamò quando era in procinto di svoltare l’angolo. Non si girò,
però si fermò per ascoltarlo.
« Tuo fratello non andrà da nessuna parte e penso dovresti
parlare con tua sorella, chiarirvi. Torna a casa. Questa notte non dovresti
stare da sola,» le comunicò atono. Nicole si voltò, stranita da quella frase
apparentemente senza significato. Damon non c’era più, era scomparso in una
folata di vento gelido, lasciandola sola in quella strada vuota e solitaria.
Tremò impercettibilmente. Forse aveva ragione. Il buonsenso le ordinò di
obbedire e cambiò strada, avanzando verso casa sua, non incontrando anima viva.
Camminò meccanicamente, lo sguardo fisso sull’asfalto, il capo chino, la mente
assorta in pensieri più grandi di lei. Forse quella frase non voleva dir nulla
o forse non l’aveva nemmeno pronunciata. Forse era stata solo un gioco della
sua mente stanca eppure lei sapeva di non dover restare sola, non quella notte.
Si ritrovò davanti al portico di casa sua, le luci oramai spente. Dovevano già
essere andati a letto e tremò impercettibilmente, il cuore stesso scosso dai
battiti troppo energici e vigorosi. Non voleva entrare, era sbagliato. Il
giorno dopo avrebbe chiarito con Elena, le avrebbe parlato e si sarebbero
riconciliate, ma quella notte aveva bisogno di lui. Di Klaus. Quella consapevolezza la fece tremare maggiormente.
Rivide i suoi splendidi occhi azzurri dinanzi ai propri, due mari meravigliosi
e profondi. Deglutì e sorrise, avvampando sebbene nessuno potesse vederla. Aveva
bisogno di sentire le sue braccia forti e accoglienti stringerla con calore.
Aveva bisogno dei suoi baci, delle sue labbra posate dolcemente sulle proprie. Necessitava
di lui. E non era un problema. Non più.