Film > Sherlock Holmes
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Autore: Ephi    21/05/2012    0 recensioni
[Storia al momento ferma, causa altro lavoro in corso. Tornerà, Holmes, eccome se tornerà.]
- Sarà che forse, lavorando di testa, si vive di più.
- Mi sta dicendo che sarà immortale, quindi.
- E chi può dirlo – conclusi, ironico.
Sherlock Holmes alle prese con qualcosa che, nemmeno lui, saprà controllare.
Genere: Comico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Avevo la netta sensazione di non essere troppo all'altezza per la rustica casa di campagna di quello che era ormai da una vita il mio compagno e fedele amico. Fratello forse era il termine più adatto, ma nessuno lo aveva mai usato, se non una signora, una fattucchiera, tempo addietro, in un momento che ora fatico a ricordare, forse perché il nodo della sciarpa mi stava facendo tribolare non poco.
Mi legai la camicia e mi guardai allo specchio per tentare di mettere apposto quei capelli neri e ribelli che mi trovavo.
Quanto tempo era passato dall'ultima volta che avevo visto Watson? Sette, forse otto o nove. Il giornale del mattino mi aveva fatto intuire che eravamo in pieno marzo, dunque nove anni esatti dall'ultima volta che passai del tempo al suo fianco.
Poco male. Si era sposato, con Mary, alla fine aveva vinto lei, ma andava bene così, avevano avuto una bella bambina, Mary Jane, come simbolo dell'unione eterna del loro amore.
Romanticone, il dottor Watson.
L'avevo visto proprio in occasione della nascita della bambina, bella e paffuta, e poi in seguito ben poche volte, dati i suoi impegni costanti e i miei pochi e rari, eppure intensi passatempi.
- Mrs Hudston, mia cara, chiuda la porta e non faccia entrare nemmeno il cane.
- Come vuole lei, signor Holmes, ma la prego, non mi faccia entrare lì dentro.
- Nessuna costrizione, nessun invito, chiuda solo la porta.
Salutai con un inchino la mia padrona di casa e lasciai Baker Street con la calma più calma di questo mondo, dirigendomi alla stazione dei treni.
Troppa gente mi faceva quasi soffocare, l'idea di condividere lo scompartimento con qualcuno ancora di più. Avrei ammazzato Watson con le mie mani appena arrivato, ovviamente dopo aver pranzato, si intende.
Il treno prese velocità in pochi secondi da quando mi sedetti e accesi la pipa mentre il mio sguardo si concentrava sulla cittadina londinese che via via scompariva, lasciando spazio a grandi prati terrosi e color grano.
Notai il fumo dei camini che si lasciava andare in braccio alla leggera brezza mattutina, la foglie che si agitavano alla velocità del treno, le nubi in cielo pronte a far spazio ad un pallido sole, che piano prendeva piede, lasciando sperare una piacevole, mite giornata.
Io dal canto mio adoravo la campagna. Per quanto la mia casa fosse perfetta per me, piena di cose mie, addobbata con cose mie, ordinata a modo mio, l'unico altro posto in cui potevo stare bene era lontano dalle persone. E la campagna desolata andava non bene, di più.
Ad un fischio del treno più forte di altri, mi svegliai di soprassalto, accorgendomi di essermi appisolato e, con grande sorpresa, che nessuno si era accomodato di fronte a me, soprattutto nessuna.
Non avevo mai adorato la compagnia, la compagnia femminile in maniera particolare. Non che io le trovi brutte o che le trovi disprezzabili, è che proprio tra me e loro non c'è contatto intellettivo, credo, anzi sono sicuro, che il motivo sia questo.
Una volta sola, una di esse, era quasi potuta arrivare a toccare parti di me che, vi assicuro, solo Watson può dire di aver visto. Non è stata una bella esperienza. Spero solo che io non debba essere costretto a trovarmi di nuovo in quello stato. L'imbarazzo non fa parte di me, come nemmeno l'essere impacciato. Al suo fianco, potevo sentirmi così, con un pizzico di vulnerabilità.
Non posso permettermelo. La mia mente potrebbe riscontrare danni irreversibili. Una scusa, dite? Oh ma a voi che importa, buon dio.
La stazione del piccolo paese sperduto dimora di mister Watson apparve nel folto di un'ampia zona collinare. Il grande lago brillava alla luce del sole ora del tutto sorto. Si prospettava una piacevole giornata all'insegna di innumerevoli susseguirsi di eventi: i saluti, i ritrovi, le presentazioni e la cosa positiva che mi tratteneva, i pranzi.
Scesi dalla carrozza e infilai la pipa nella giacca, guardandomi intorno, e riconobbi subito la figura esile del mio amico di una vita.
John Watson portava il suo solito cappello e completo da gentil signore borghese, il viso era steso, rilassato, segno che la vacanza stava andando davvero bene, buon per lui. Nulla lasciava trasparire in lui un qualsiasi dolore, nemmeno gli occhi, azzurro accesi, come pochi se ne vedono ancora, così. I baffi curati accentuavano questo suo entusiasmo alla vita, spolverati solo da una leggera sfumatura grigia, impercettibile agli occhi, ma non ai miei.
- Holmes, mio caro Holmes! - mi disse, avvicinandosi gaio.
Gli sorrisi di rimando, tenendogli la mano. - Watson, Waston, quale piacere!
- Ero convinto che avrebbe declinato l'invito.
- Lo avrei quasi fatto, non fosse che era troppo tempo che non incrociavo la sua faccia.
- Non menta, le mancava l'arrosto di Mary.
- Beccato in pieno.
Camminammo fino a raggiungere la sua auto, raggiungemmo la sua villetta in campagna parlando di quanto fosse facile perdersi in giro per quei boschi, di quanto Mary Jane fosse cresciuta, di quanto Londra fosse rumorosa, di quanto fosse allettante la possibilità di trasferirsi lì, in campagna.
- Però il mio lavoro non mi agevola, Holmes. All'ospedale, a Londra, hanno ancora bisogno di me, e finché non occuperanno il mio posto, non potrò trasferirmi all'ambulatorio del paese.
- Allettante davvero, come proposta. Mary si trova bene qui?
- Oh benissimo! Adora curare i fiori, ha un piccolo spazio verde tutto per sé. E Mary Jane, lei, lei passa tutti i pomeriggi a cavalcare. Ormai ha finito gli studi secondari e cominciato quelli universitari, vuole diventare fisica.
- Fisica? - chiesi sorpreso – Sono ben poche le donne che intraprendono quella via. Oserei dire, tale padre...
- Tale padre, esatto, Holmes – dichiarò lui, ridendo – Ma vieni, la devi vedere, è molto curiosa di conoscerti. Da bambina le raccontavo spesso i casi da lei risolti.
- Da noi risolti, vorrà dire.
A lui parve piacere questa precisazione, tanto che mi sorrise vivamente contento, fermando l'auto. Mi diede una mano con i bagagli, mentre ammiravo l'intima e semplice casa loro.
- Mary! Mary! Sherlock è qui!
Sulla soglia della porta, poco tempo dopo, apparve una donna dai capelli ancora color grano, il volto curioso che poi si distese in un sorriso felice. Mary era ancora bella, bella come il primo nostro incontro finito male, ma che ancora, per fortuna poteva ripetersi.
- Signor Holmes! - mi disse allegra, mentre si avvicinava – Quanto piacere rivederla!
Mi baciò due volte sulle guance, come mai aveva fatto, ma le sorrisi, stavolta deciso a stare zitto.
Incredibile quanto una famiglia potesse modificare le persone, nel loro caso, evidentemente in positivo. Notai il colore acceso degli occhi della moglie del mio fedele amico, brillanti era l'unico modo per descriverli, uguali a quelli di Watson, della stessa intensità.
Il vestito color lillà era appena spolverato da un sottile strato di farina, segno che era stata distratta dalla voce del marito mentre aiutava i domestici in cucina: una bella nobile donna come lei grazie a lui e a sua figlia, aveva riscoperto il piacere di fare con le proprie mani qualcosa per loro.
Smisi giusto in tempo di seguire il flusso logico e descrittivo dei miei pensieri, seguendo Mary dentro casa.
- Cara, dov'è Mary Jane?
- Oh è fuori a cavallo, tesoro, arriverà a momenti.
- E i suoi studi?
- Tesoro, oggi veniva il signor Holmes, studierà quando sarà il momento più consono. Le ho dato il permesso per questa mattina, dato che oggi pomeriggio non potrà per via del nostro ospite.
- Mary, cara Mary, nessuno deve smettere di dilettarsi per causa mia – intervenni, prendendo un bicchiere di vino offerto da lei.
- Lei è sempre gentile, signor Holmes, ma ritengo molto più cortese che lei stia con noi.
Passò una mezzora buona, nella quale io ascoltai Watson con notevole stanchezza, mentre mi parlava dell'ultimo paziente a cui aveva salvato un occhio. Non trovavo molto interessante la scienza, eppure la capivo fin troppo bene. Non sarei mai riuscito a salvare la vita a qualcuno chirurgicamente, forse, solitamente avevo altri mezzi.
Mi accorsi di nuovo di stare cominciando a seguire il corso dei miei pensieri, fino a non sentire quasi più la voce del mio amico, tanto che se ne accorse.
- E' stanco, Holmes? Vuole riposarsi?
- Volentieri, se non le dispiace, fino all'arrivo di Mary Jane andrei a darmi una rinfrescata.
Watson annuì con un cenno di capo e mi indicò le scale. - Ultima porta a sinistra, è la sua stanza.
Appena entrai nella stanza un leggero profumo di lavanda mi investì. Si intonava talmente bene con l'ambiente semplice ma elegante che non mi azzardai nemmeno a prendere la pipa, sedendomi sul letto, giusto il tempo di prendere il mio violino e dilettarmi qualche secondo, prima di appisolarmi.
Non so bene quanto tempo dopo, ma un rumore ritmico e appena accennato provenne dal piano di sotto, passi di stivali. I passi si fermarono a parlare con qualcuno, Watson, la voce di quei passi poi rise, prima di tacere, muovere mezzo passo ancora e oltrepassare il mobile che prima avevo visto, salendo le scale. I passi salirono poi le scale stesse, potevo avvertire il respiro leggero ma affaticato di chi li guidava, ma nel dormiveglia non mi accorsi di quanto fossero vicini.
Sgranai gli occhi e posai il violino che avevo per istinto abbracciato, avvicinandomi piano alla porta della mia stanza. Da una piccola fessura notai che i passi, gli stivali, entrarono nella porta esattamente di fronte alla mia sparendo non appena si furono tolti dai piedi di chi li possedeva.
Sentii un leggero scorrere di acqua, calda, un leggero canticchiare sommosso, poi un immergersi altrettanto leggero, poi più nulla.
Decisi di smetterla ancora, quella giornata sarebbe dovuta essere diversa. Mi sistemai il gilet e mi preparai a scendere, nonostante nessuno mi avesse ancora chiamato.
- Ah Holmes! Ben svegliato, tra poco pranzeremo, avrei mandato Mary Jane a chiamarla, ma ha fatto tutto da solo – disse Watson, seduto in poltrona a leggere il giornale
- Rapido e indolore, tutto per i pranzi di Mary – gli dissi, uscendo fuori a fumare la pipa.
- Mary è ben contenta di cucinare per te, credimi – disse, sorridendomi – Me lo lasci dire, lei non sembra invecchiato di una virgola.
Il suo commento mi fece destare qualche pensiero che, fino a poco prima, forse non avrei nemmeno sfiorato. Mi voltai verso uno dei vetri delle finestre e mi specchiai, notando come il nero corvino dei miei capelli fosse quasi intatto, a differenza del biondo appena spento del mio amico. Il viso, inolte, sembrava sempre lo stesso, rivestito della mia solita barba incolta quasi accennata e poi nulla più.
- Sarà che forse, lavorando di testa, si vive di più.
- Mi sta dicendo che sarà immortale, quindi.
- E chi può dirlo – conclusi, ironico.
Lui parve un po' confuso da queste parole, ma non ebbe il tempo di replicare, poiché Mary entrò in salotto, poggiando alcune stoffe.
- Mary Jane, vieni, il nostro ospite è arrivato! - disse poi, voltandosi verso le scale.
- Arrivo mamma.
Non seppi perché, non seppi come, ma il suono di quella voce mi scosse un poco. Mi sentii quasi agitato all'idea di vedere quella che era la figlia del mio più caro amico, forse non all'altezza della figura che lei aveva immaginato fin da bambina, quella dell'investigatore coraggioso e po' matto che di sicuro Watson aveva sottolineato bene.
- Holmes è agitato?
- Io? Mai – dissi concludendo in fretta, mentre mi sbrigavo a mettere via la pipa.
Fu allora che udii i passi leggeri, gli stessi dei movimenti nell'acqua di poco tempo prima, scendere le scale con una cadenza musicale, fino a raggiungere lo specchio proprio di fronte all'entrata del salotto.
La sagoma esile, perfettamente bilanciata del suo corpo, si fermò davanti ad esso e si specchiò, sistemando una forcina nei capelli scuri, raccolti in un ampio chignon. Alcune ciocche sembravano non voler stare apposto, ricadevano leggere sul collo bianco della ragazza vestita in azzurro che stava davanti a me, e che per poco dimenticai chi fosse.
La cosa che meglio ricordo è il suo volto. Le labbra rosee rimasero serie e composte per i primi istanti che i nostri occhi si incontrarono, ma dopo un poco si schiusero in un sorriso pulito, come tutto il suo viso, ornato solo di un piccolo neo sotto l'occhio sinistro. Mi si avvicinò con passo sicuro e fermo, tendendomi poi la mano.
- Signor Holmes – mi disse, stingendola forte – Finalmente la conosco come si deve.
Le sorrisi, non sapendo cosa dire.
- Mary Jane, molto lieta, ma credo che già lo sapesse. Mio padre dice che mi avete vista quando ero più piccola, ma mi perdoni se le dico che non lo ricordo nemmeno vagamente.
Watson rise al suono di quelle parole e Mary fece lo stesso, mentre Mary Jane non scostava il suo sguardo dal mio. Era come se non aspettasse altro che quel momento, da tanto tempo.
Mi era bastato quello, per capire che la persona che avevo davanti non era la candida bambina che la mia mente aveva lasciato da parte, troppo occupata a pensare a chissà cosa. La mia mente, di fronte a lei, si trovava per la prima volta spenta, concentrata solo su quegli occhi scuri e profondi che dicevano tante, troppe cose, pure per me che, di cose, ne sono pieno fino alle scarpe.
Mi lasciò la mano non appena la madre la chiamò per aiutare in cucina. Ne seguii l'andatura leggera sparire dietro la porta, avendo la sua fotografia bene impressa sopra ogni altra immagine della mia mente.
Non avrei mai scordato la perfezione del disegno del suo viso. Per la prima volta, ero anche disposto ad ammetterlo.

  
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