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Autore: Daphne S    30/05/2012    1 recensioni
Nathan, figlio di una potente famiglia londinese, decide di evadere dalla falsità della sua vita.
Dafne, schiacciata dal peso dei ricordi e dalla perdita del padre, sopporta ben poco le mille luci di Londra.
Le loro vite si incrociano sul treno per Brighton della mezzanotte.
«Credi nel destino?» Mi guardò intensamente negli occhi.
«Credo che l'uomo crei il proprio destino.» Ribattei. I suoi occhi brillarono ed io mi sentii arrossire.
«Quindi credi che sia stato puro caso il fatto che ci siamo ritrovati seduti nello stesso vagone, sullo stesso treno, diretti entrambi a Brighton perché stanchi della nostra vita a Londra?» Mi morsi il labbro, abbassando nuovamente lo sguardo.
«Credo sia stata fortuna.» Sussurrai. Lui mi sentì, come sempre, e portò due dita sotto il mio mento, costringendomi a guardarlo negli occhi. «E spero di essere così fortunata ancora una volta.» Aggiunsi.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Magari qualcuno si ricorda ancora di questa FF che scrissi circa un anno fa. La lasciai a metà, perché ebbi problemi di vario genere, perché mi sentivo noiosa nello scrivere, carente di idee. Però ultimamente l'ho riletta e ho voluto riscriverla: stesso inizio, stessi personaggi, ma storie diverse, location diverse. Spero la leggerete. Spero mi appoggerete. Non vi abbandonerò di nuovo, perché so che è nella scrittura che trovo me stessa, non importa cosa succeda nella vita reale.

S.


Midnight Train


Just a small towngirl
Livin' in a lonely world
She took the midnight train goin'anywhere

Just a city boy
Born and raised in south London
He took the midnight train goin' anywhere.


La verità è che a noi essere umani piace andare dietro a ciò che ci avvolge, che ci stuzzica, che ci appare difficile. La verità è che nessuno si accontenta di ciò che fila liscia come l'olio, di ciò che non ha problemi, di ciò per cui non bisogna lottare e farsi sanguinare le mani. Scoprii quella verità durante il mio primo anno di università a Londra e, dopo che l'ebbi scoperta, capii perché il mio cuore non aveva mai battuto all'impazzata, perché le mie mani non erano mai tremate tanto da far cadere una tazza, perché non avevo mai rischiato, restando attaccata alla mia vita da ottima studentessa, ragazza carina ma “niente di particolare”, AKA fantasma.


I


La stazione di King's Cross era sempre un vero e proprio bordello.
Non ci ero stata molte volte, a dire il vero, ma in quelle poche volte, avevo sempre quasi perso testa nel tentativo di capirci qualcosa. Avevo letto che la stazione di trafficata fosse considerata Waterloo: cosa diventava quel posto se già King's Cross era così confusionaria?
Erano le 23.53. Probabilmente era l'ora esatta: il tabellone delle stazioni non sbaglia mai, giusto? Osservai quei quattro numeri per un istante, prima di abbassare lo sbaglio e guardare il biglietto che stringevo fra le mie mani: London King's Cross – Brighton. Tirai un lungo respiro e tornai a cercare con lo sguardo un tabellone, questa volta quello delle partenze; appena lo trovai cercai Brighton e vidi che partiva alle 23.57, fra esattamente quattro minuti, dal binario 6. Mi incamminai con passo sostenuto nella direzione indicata dalle frecce e vidi lo scintillante treno blu e rosso della compagnia South West Trains. Non molti viaggiavano a novembre inoltrato verso la spiaggia probabilmente, ma a me non interessava: Brighton era il mio posto sicuro. La brezza marina cancellava i miei cattivi pensieri, cancellava tutta quella negatività che mi portava lentamente ad implodere, ad andare via dalla popolosissima Londra e dalle sue mille domande, dai suoi mille perché...
«Benvenuti a bordo di South West...» Non finii di ascoltare l'annuncio, perché non appena presi posto vicino al finestrino, infilai le cuffie nelle mie orecchie e mi aggomitolai su me stessa, osservando la banchina del binario 7 con scarso interesse.
La prima volta che ero andata a Brighton avevo dodici anni e ci ero andata con mio padre e Matt. Lo ricordavo ancora allora come il giorno migliore di sempre. Era luglio, faceva caldo, uno dei giorni più caldi di quell'estate. Io indossavo un vestitino rosso, comprato da mia madre pochi giorni prima, e avevo un cerchietto rosso fra i miei capelli. Matt era ridente, era la prima volta che andava verso la costa: indossava una t-shirt bianca, semplice, jeans e sandali: non mi sarei mai dimenticata come brillavano i suoi occhi quella mattina. Mio padre aveva ottenuto un permesso per tornare dall'Iraq e aveva deciso di portarmi al lunapark di Brighton: a suo avviso era il migliore in assoluto.
Mentre cercavo di richiamare il sapore dello zucchero filato che io e Matt avevamo mangiato insieme, mentre bagnavamo i piedi nell'oceano, qualcuno urtò la mia gamba, costringendomi a svegliarmi bruscamente dai ricordi e tornare a contatto con la realtà. I miei occhi incrociarono quelli di uno sconosciuto. Le sue labbra parvero pronunciare uno “scusa”, prima che lui si sedesse sul sedile davanti al mio, guardando a propria volta fuori dal finestrino.
Il treno partì due secondi contati dopo ed il binario 7 fu velocemente fuori dalla portata della mia vista, come lo fu anche King's Cross, e come sperai che lo fosse altrettanto in fretta Londra. La musica suonava impetuosa nelle mie orecchie e me ne compiacei: mi aiutava a tenere il mondo fuori dai miei confini. In più non c'era nessuno che si potesse eventualmente lamentare del volume, e il ragazzo davanti a me, non sembrava curarsene più di tanto, intento anche lui ad ascoltare musica.
Decisi di osservarlo, curiosamente. Aveva capelli scuri, media lunghezza, che li coprivano leggermente la fronte. Gli occhi sembravano scuri, persi nella contemplazione del paesaggio che si mostrava ai passeggeri del treno fuori dal finestrino. Era ben vestito: sciarpa firmata, camicia stirata, giacca elegante, jeans di buona qualità, scarpe di pelle. La sua mano sinistra sorreggeva il suo mento, quella destra stringeva l'iPhone. Notai le sue dita affusolate non appena cominciò a tamburellare con l'indice sullo schermo nero del telefono.

Aveva un qualcosa di particolare, un qualcosa di affascinante.
Forse era il modo in cui sedeva, composto nel suo essere incomposto.
Forse era il modo in cui il suo respiro si infrangeva sul vetro del finestrino appannandolo.

Forse era il modo in cui dondolava leggermente la testa a ritmo della musica.
Amavo osservare i passeggeri dei treni, degli aerei. I miei luoghi preferiti erano sempre stati gli aeroporti e le stazioni. Mi piaceva guardare il modo in cui la gente portava le proprie valigie, consegnava il passaporto, si guardava intorno. C'erano i viaggiatori solitari e timidi, quelli solitari e pieni di sé, quelli che spendevano milioni nelle librerie, quelli che si ammazzavano di caffeina e nicotina... C'erano quelli che prendevano i viaggi come una questione di comfort, presentandosi in tuta e scarpe da ginnastica, c'erano quelli che consideravano viaggiare come la donna/uomo del secolo, presentandosi quindi all'appuntamento al top dell'eleganza, sfoggiando le borse, le scarpe migliori.
Lo sconosciuto davanti a me che viaggiatore era?
Io che viaggiatrice ero?
Mi vedevo come una fuggitiva. Appena un problema emergeva ero lì sul mio treno per Brighton, ero lì diretta lontana. Ero lì che scappavo dalla London School of Economics, dalla mia laurea in relazioni internazionali, dalla mia coinquilina asiatica, dalla miriade di libri che avrei dovuto leggere ma che non avevo ancora toccato... Scappavo. Ero la viaggiatrice fuggiasca, o forse meglio: viaggiatrice codarda.
Lo sconosciuto si alzò improvvisamente. Notai che il suo telefono si era illuminata: una chiamata in entrata. Forse si era alzato per rispondere. Forse era la sua fermata. Forse era uno di quelli a cui piaceva parlare camminando.
«È libero questo posto?» La malasorte volle che lo stacco fra una canzone e l'altra fosse proprio in quell'istante in cui un signore che odorava come una distilleria, toccò la mia spalla, attirando la mia attenzione. Lo guardai, con le labbra leggermente schiuse, e scossi inconsciamente la testa. Non era vecchio, avrà avuto si e no trent'anni. Tornai a guardare fuori dal finestrino, cercando di capire dove ci fossimo fermati, ma il mio sguardo non fu abbastanza sveglio. Lo sentii nuovamente toccare la mia spalla. Mi girai, togliendomi una cuffia.
«La posso aiutare?» Domandai cortesemente, cercando di non far trapelare il mio reale stato interiore.
«Solo se è single.» Disse sfacciato. Abbassai lo sguardo e mi voltai dall'altra parte. Ignorare ignorare ignorare. Ecco ciò che dovevo fare, ma lui mi tocco nuovamente la spalla e io mi voltai nuovamente. «È single, signorina?»
«Non credo sia affar suo.» Borbottai fredda.
«Sei carina.» Ribatté lui, posando una mano sulla mia coscia. Rabbrividii al contatto per il disgusto ma non riuscii a muovermi. Ero congelata per il terrore. «Sei carina e credo che tu sia single.» Portò l'altra mano alla mia sciarpa e tirò con decisione il mio volto verso il suo. A nulla servirono i miei tentativi di oppormi, la sua stretta era decisa, e la sua forza era tanta. L'odore di alcol era forte, non riuscivo a respirare, e vedevo il suo volto, la sua barba non fatta, essere sempre più vicini a me, al mio viso, alle mie labbra...
«Concordo sul fatto che sia carina.» Una terza voce lo fece scattare di scatto e mollare la presa. Mi alzai prontamente in piedi e guardai il mio salvatore: lo sconosciuto. «Però non è single. Se non le dispiace, quindi, la inviterei a cercarsi un altro posto a sedere prima che io chiami la sicurezza.» La sua voce era calda, ferma, senza un'ombra di indecisione. Il suo accento era tipicamente inglese, delle ricche famiglie del centro città: le sue vocali erano ben marcate, ben calcate... Lo immaginavo perfettamente a giocare a polo sul cavallo di razza migliore.
L'ubriaco si alzò e si allontanò in fretta, non alzando lo sguardo da terra. Solo quando si fu distanziato mi sedetti nuovamente, con lo sconosciuto davanti a me. Lo osservai e lui ricambiò il mio sguardo con sicurezza.
«Grazie.» Mormorai. Mi accorsi che la mia voce era rocca, la mia gola secca. Non avevo capito l'impatto che quell'approccio a base alcolica avesse avuto sui miei nervi fino a quel momento. Lui si limitò a sorridere, inclinando leggermente il capo.
«Qual'è il tuo nome?» Mi domandò improvvisamente ed io mi schiarii la voce, questa volta, prima di rispondere.
«Dafne.» Risposi, cercando di rendere la mia voce ferma, non tremolante come mio solito nel momento imbarazzati. «Tu come ti chiami?»
«Nathan.» Ci sorridemmo e sembrò che l'eternità si fosse congelata in quei sorrisi.


Il treno si fermò. La voce metallica annunciò l'arrivo a Brighton. Ed io mi svegliai.
Ricordavo come io e Nathan avevamo parlato di tutto e di niente. Della musica. Dei film. Non di noi. Ma del mondo. Era come se entrambi volessimo lasciare noi stessi fuori dalla conversazione, da quella sera... Le nostre vite erano lontane, il presente invece di presentava come una tabula rasa che potevano usare a nostro piacimento. Poi mi ero addormentata e, a giudicare dai suoi stiracchiamenti e dai suoi sbadigli, lui aveva fatto lo stesso.
Ci alzammo e ci incamminammo silenziosamente verso l'uscita del treno, verso i tornelli, e in men che non si dica ci ritrovammo all'aria fredda. Non ero mai venuta a Brighton a novembre, ma era decisamente molto, ma molto più fredda di Londra in quel periodo, soprattutto a causa del forte vento.
«Vuoi passare questa notte con me?» Mi domandò all'improvviso. Io sbarrai gli occhi e lui scoppiò a ridere. «Vuoi stare con me questa notte, mentre aspettiamo il primo treno, non in un letto e non facendo cose a base sessuale?» Riformulò la domanda ed io risi con un tono ancora più alto e squillante.
«Sì.» Mormorai infine in un soffio, leggera. Ma ero convinta che lui sentii quel leggero mormorio, perché i suoi occhi sorrisero, come fece la sua bocca, come fecero le sue labbra. «Sì.» Ripetei, scuotendo leggermente la testa, imbarazzata, ma felice. Lui allungò la mano, invitandomi a stringerla, ed io lo feci, sentendomi girare la testa a quel contatto, a quella stretta. «Solo ad una condizione però.» Dissi all'improvviso, poco prima che ci incamminassimo. Lui si voltò nella mia direzione e mi guardò intensamente negli occhi.
«Qualsiasi essa sia.» Le sue parole mi spiazzarono e mi persi nuovamente nei suoi occhi. Solo in quel momento realizzai che fossero blu: blu come l'oceano, blu come la notte, blu come il maglione di mio padre in cui dormivo ancora. Blu.
«Non parliamo delle nostre vite. Non parliamo di chi siamo. Io sono Dafne. Tu sei Nathan. Punto, nient'altro. Siamo due persone senza passato, senza futuro. Conta solo il presente.» Dissi tutto d'un fiato, cercando di non sciogliermi a causa del suo sguardo su di me. Quando finii di parlare, lui fece un passo verso di me, poggiando le mani sul mio viso e costringendomi a guardarlo fermamente negli occhi.
«Ragazza senza passato e futuro, ma che vive solo nel presente, spero che ti piaccia la spiaggia, perché voglio portarti nel mio posto preferito.» Detto ciò tornò a stringere sicuro la mia mano e mi condusse per le strade di Brighton, lontano dalla stazione, lontano dai locali pieni di vita, lontano dalle luci, dai profumi di fish 'n chips, lontano da tutti... Verso la spiaggia, verso quel profumo di sale, quel profumo di mare che aveva inebriato le mie narici con quella intensità solo quando portavo il mio vestito rosso, solo quando mio padre mi comprò lo zucchero filato, solo quando Matt mi costrinse a salire sulle montagne russe, solo quando la vita sembrava bella e colorata come Brighton in piena estate. Pensavo di non poter più sentire quell'odore in quel modo, pensavo di non poter essere più felice e rilassata con quel luglio del 2004, pensavo, pensavo... ma pensavo male, perché un semplice sconosciuto dall'accento snob e dagli occhi blu come il mare, era riuscito a scuotere il mio cuore, risvegliarlo, e farlo battere come se impazzito. Brighton non era mai stata così bella.


Il posto preferito di Nathan era sotto il pontile, in un angolo dove i caratteristici sassi che componevano la spiaggia, avevano lasciato spazio per un paio di metri ai granelli di sabbia. L'odore di salsedine lì era fortissimo, ma il vento era leggero, rispetto alle altri parti della città. Mi spiegò che da lì si potevano fare le foto migliori, specialmente all'alba e al tramonto: capii così che amava fare fotografie, immortalare in centinaia di scatti la realtà, catturare l'essenza più vera di taluni momenti.

Ci sedemmo sul telo da mare che mi ero portata da casa, e lui mi strinse con dolcezza a sé, passandomi un braccio intorno le spalle. Mi guardava, mi toccava, mi trattava con dolcezza, come se fossimo legati da sempre, come se lo saremmo sempre stati. Eppure più lo osservavo, più ascoltavo la sua voce, più mi rendevo conto di quanto lui fosse distante da me, dalla mia vita, da tutto. Ci eravamo promessi di non raccontarci nulla su di noi, sulla nostra provenienza, ma quando lo sentivo parlare di cose futili, di piccoli interessi, capivo che viveva nel centro più ricco di Londra, che aveva hobbies costosi come il golf. Non parlare di noi faceva comodo solamente a me, perché avevo paura che si sarebbe allontanato, che avrebbe perso l'interesse per me, se avesse scoperto che vivevo nell'Est di Londra, quello stesso Est tanto criticato e denigrato da tutte le famiglie ricche o benestanti. Volevo tenerlo lì, vicino a me, solo quella sera, solo lì, a Brighton, solo quelle ore... Poi io sarei scomparsa, lui avrebbe fatto lo stesso, saremmo tornati alle nostre vite, saremmo tornati alla normalità, e quello sarebbe stato solamente un ricordo, un dolce ricordo autunnale. Lo guardai un'ultima volta negli occhi, rivolgendogli un amaro sorriso, prima di scivolare in un sonno profondo, carezzato dalla brezza marina, avvolta fra le sue braccia, con la testa abbandonata sul suo petto.

Quando riaprii gli occhi il sole stava sorgendo e il rumore delle onde coccolava il mio torpido stato di risveglio. Lo guardai, era sveglio e mi guardava a sua volta con un dolce sorriso.
«Buongiorno.» Mormorai.
«Buongiorno.» Rispose, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Non hai avuto freddo?» Domandò gentilmente. Io scossi la testa, nascondendo poi uno sbadiglio dietro la mano. «Bene.»
«A che ora è il prossimo treno?» Domandai, sentendo poi una diffusa tristezza prendere piede dentro me. Stava per finire tutto, stava per finire tutta quella perfezione, e tutto ciò che sapevo di lui era che amava la fotografia, il gol, si chiamava Nathan, era di Londra, e a valutare dall'accento era della zona Chelsea.
«07.46» Rispose, controllando l'orologio. «Abbiamo mezz'ora. Ci incamminiamo?» Annuii, alzandomi in piedi e pulendomi i jeans dalla sabbia. Lui mi seguì, passandosi una mano tra i capelli e sbadigliando a propria volta. Non faceva freddo, il vento era docile, come lo erano le onde, e la luce era soffusa, tipica dell'alba, colorata da sprazzi di rosso.
«A quest'ora il mare è stupendo.» Mormorai. Lui mi sentì, avvicinandosi a me, con le scarpe strette in una mano.
«Voglio immortalare questo istante. Guardami.» Eseguii il suo ordine, e mi resi conto che aveva nelle mani il cellulare, pronto a fare una fotografia. Inizialmente nascosi il viso fra le mani, ma poi sorrisi, convinta da quel venticello, convinta da quell'odore di mare, convinta dai suoi occhi... Lui sorrise soddisfatto e si avvicino a me, mostrandomi il risultato. Era splendida. Una fotografia scattata con il cellulare che era semplicemente splendida... La luce cadeva perfettamente sulla mia figura, illuminandomi il volto. I miei lunghi capelli castani erano spettinati elegantemente dal vento e miei occhi azzurri brillavano nel mezzo delle mie mille lentiggini.
«È bella.» Sussurrai.
«Tu sei bella.» Rispose, facendomi arrossire. «Ed io sono bravo.» Scoppiammo a ridere insieme, ed io mi sciolsi dall'imbarazzo creatosi dopo il suo complimento. Mi prese poi per mano e cominciò a correre: presto mi trovai costretta a seguirlo, con i piedi bagnati dall'acqua gelida, e i primi passanti che ci guardavano curiosi dal pontile.
Ricordavo ancora come ero corsa lì con Matt e mio padre, cercando di non essere la prima ad essere buttata in acqua. Ricordavo come mio padre mi aveva sollevata, facendomi fare un giro a 360 gradi sopra la sua testa. Ricordavo il suono delle mie risate, il suo sorriso, i suoi occhi che brillavano, i suoi occhi che avevano ripreso vita dopo l'Iraq.
«Andiamo, voglio farti assaggiare il croissant più buono di Brighton prima che ce ne andiamo.» Nuovamente mi tirò per la mano ed io lo seguii correndo. Raggiungemmo la strada, indossammo le scarpe, e continuammo a correre leggeri, ridenti, felici, come se fosse estate, come se la vita fosse uno scherzo, come se Londra, come se l'università fossero lontano, come se fossimo all'interno di un film perfetto, dove lei ama lui e lui farebbe qualsiasi cosa per lei... Leggeri come l'acqua, come le onde dell'oceano che si erano infrante sui sassi di Brighton... Leggeri come l'aria. Entrammo in un piccolo bar, caratterizzato da migliaia di fotografie dei Beatles e dai loro vinili appesi sulle pareti. Le mie narici furono invase dal dolce odore di cornetto, lui mi sorrise soddisfatto.
«Ti piace il Kinder?» Mi domandò ed io annuii. Tornò a guardare il proprietario. «Mi dia due croissant con il Kinder, per favore.» L'uomo sorrise e dopo un paio di secondi tendeva il braccio con una busta bianca stretta in mano. Nathaniel la prese e diede tre sterline all'uomo. «Grazie, buona giornata.» Uscimmo e lui mi porse un croissant.
«Grazie.»
«Grazie a te per la notte.» Ci scambiammo uno sguardo e poi decisi che forse fosse meglio addentare la mia colazione. «Vengo in questo bar da dieci anni circa. La prima volta mi ci portò mio zio.»
«È delizioso.» Mormorai, mentre il cioccolato Kinder si scioglieva nella mia bocca fondendosi con il burroso sapore del croissant. Altri sorrisi. Altri sguardi. Arrivammo alla stazione, comprammo i biglietti, e ci lasciammo Brighton alle spalle, con anche i ricordi di quella notte, i croissant, l'acqua sui miei piedi...


Arrivammo a King's Cross in perfetto orario. I treni inglesi erano la puntualità fatta a... treno, per l'appunto. Scendemmo dal vagone e ci incamminammo in silenzio lungo il binario. Nathan stringeva dolcemente la mia mano, come se non volesse lasciarmi, come se come me volesse aggrapparsi a quelle ore di perfezione passate insieme... Avevo dimenticato tutto in quelle ore, tutti i problemi che mi avevano spinta ad andare via dalla grande metropoli, tutti i volti da cui mi ero distanziata, tutti, e tutto. Ci ritrovammo vicino all'uscita e lo guardai, sentendo il mio cuore aumentare drasticamente i battiti.
«Un giorno mi racconterai il perché di questo viaggio?» Mi domandò. Io abbassai lo sguardo, guardandomi le punte degli stivali. Non ci saremmo mai rivisti, e lo sapevo perfettamente.
«Facciamo così: se ci incontriamo casualmente, di nuovo come oggi, ti racconterò tutto di me, non sarò più senza passato e futuro.» Risposi e lui annuì. Sembrava soddisfatto della mia risposta.
«Credi nel destino?» Mi guardò intensamente negli occhi.
«Credo che l'uomo crei il proprio destino.» Ribattei. I suoi occhi brillarono ed io mi sentii arrossire.
«Quindi credi che sia stato puro caso il fatto che ci siamo ritrovati seduti nello stesso vagone, sullo stesso treno, diretti entrambi a Brighton perché stanchi della nostra vita a Londra?» Mi morsi il labbro, abbassando nuovamente lo sguardo.
«Credo sia stata fortuna.» Sussurrai. Lui mi sentì, come sempre, e portò due dita sotto il mio mento, costringendomi a guardarlo negli occhi. «E spero di essere così fortunata ancora una volta.» Aggiunsi.
Fu tutto improvviso. Nathan si abbassò sul mio volto e mi baciò. Le sue labbra erano morbide, gentili, mi baciavano con dolcezza, mentre le sue mani passavano dai miei fianchi alla mia schiena, sfiorandomi appena, ma bruciando ogni centimetro di me anche da sopra i miei vestiti.
Afferrò poi il mio viso con entrambe le mani e approfondì il bacio, schiudendo le labbra. La mia lingua intrecciò la sua e mi sentii totalmente inebriata dal suo buon profumo, dal suo tocco, dalla intensità di ogni suo gesto. Le mie ginocchia erano gelatina, mi sentivo totalmente in balia di lui e dei suoi gesti. Le mie mani strinsero la sua camicia, come se fosse l'unica salvezza dallo sprofondare nel baratro, nel vortice delle mie emozioni. Tutte quelle emozioni erano nuove, intense, il mio stomaco si stava rigirando e mi sentivo andare a fuoco. Avevo sottovalutato con quanto ardore avessi desiderato quel bacio.
Quando si allontanò, mantenne le mani sul mio viso e io le mie mani sul suo petto. Ci guardammo negli occhi e notai che anche il suo volte era arrossato.
«Devo andare ora.» Mormorò. Io annuii, ancora scombussolata da tutti quei brividi.
«A presto.» Fu tutto ciò che riuscii a dire.
«A presto, Daf.» Mi baciò sulle labbra e poi sulla fronte, scomparendo velocemente dalla mia vista. Rimasi lì, ferma, per lunghi istanti, mentre pian piano la realtà tornava a infrangersi contro la mia pelle: sentivo nuovamente freddo e sentivo come le frettolose persone che occupavano la stazione mi urtavano nel tentativo di raggiungere al più presto il proprio treno.
Nathan.
Il suo nome, il suo sorriso, i suoi occhi blu.
La sua immagine sarebbe rimasta a lungo impressa, stampata in me.
Nathan.
L'unico, a parte mio parte, che aveva fatto vibrare la mia anima lì, a Brighton, in quel modo.

   
 
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