Midnight Train
II
«Buongiorno,
Tom.» Appena entrai nella sala dei dipendenti, trovati Tom seduto su
una poltrona ad allacciarsi le scarpe. Indossava già la maglietta
bordeaux da impiegato di Costa Caffè. Lui alzò lo sguardo e mi
sorrise, sventolando poi la mano.
«Ciao, Daf. Pronta per questo
intenso venerdì pomeriggio?» Disse con una risata e io non potei
fare a meno di sorridere. Il suo sorriso era sempre così contagioso.
«Come sempre, Tom. Mi conosci.» Ridemmo insieme, mentre io mi
toglievo la felpa, restando solamente con la stessa t-shirt del mio
collega. Conoscevo Tom dagli inizi di agosto quando, dopo che mia
madre aveva perso l'ennesimo lavoro, avevo trovato impiego a Costa
Caffè: ben pagato e letteralmente di fronte l'entrata principale
della London School of Economics, la mia università. Tom studiava
cinema alla Queen Mary, vicino Mile End, ed era un ragazzo genuino,
un vero amico, in grado di sollevare l'umore più nero con un paio di
parole, una semplice carezza.
Erano passate due settimane da
quella notte a Brighton e, volente o nolente, il ricordo di Nathan
tardava ad abbandonarmi. Non ne avevo parlato con nessuno, non avevo
raccontato a nessuno di come avevo sbattuto la porta di casa,
lasciando mia madre sconvolta, seduta sul divano con il suo nuovo
compagno e una birra fredda fra le mani.
Quella notte mi aveva
fatta tornare in vita, aveva risvegliato ogni singolo capillare, ogni
singolo nervo, anche il più nascosto, il più piccolo. Mi aveva
aiutato a tornare a respirare, a ragionare con la mente cristallina,
pulita, non condizionata. Lui mi aveva fatta tornare in vita e poi
era scomparso, lasciando un solco dentro di me.
Riuscivo ancora a
ricordare la sabbia intrappolarsi fra le mie dita, il vento
scompigliarmi i capelli, il profumo di salsedine, il cioccolato
Kinder sciogliersi nella mia bocca, le sue dita sul mio viso, i miei
piedi bagnati dall'acqua dell'oceano, il suono delle sue risa
cristalline, le sue labbra sulle mie, quel bacio, quell'infinito
bacio che aveva fermato il tempo lì a King's Cross.
Prima di
quel giorno avevo collegato ricordi solo legati a mio padre e Matt a
Brighton, malgrado ci fossi stata centinaia di volte. Ora invece ero
in grado di collegarci non solo mio padre e Matt, ma anche Nathan.
Nathan e il suo portamento elegante, il suo accento snob, i suoi
capelli scuri, i suoi occhi blu come la notte e come il maglione di
papà...
«Pronta?» Alzai lo sguardo, incrociando quello di
Tom. Mi ero nuovamente incantata, perdendomi nei miei pensieri.
Annuii, scrocchiandomi le dita e seguendo Tom verso il bar. Eravamo
arrivati giusto in tempo per dare il cambio a Gemma e Chris, le
ragazze che avevano il turno dalle 11 fino alle 17. Mi sistemai alla
macchinetta del caffè, mentre Tom andò alla cassa, cominciando
immediatamente a prendere i primi ordini.
Quel lavoro per certi
versi mi rilassava: era quasi sempre meccanico. Le persone ordinavano
sempre qualcosa a base di latte e/o caffè. Espressi, cappuccino,
caffè americani, caffè latte... Raramente, soprattutto durante
l'inverno, si presentavano clienti desiderosi di bere Frappuccini o
caffè o tè freddi. L'inverno a Londra obbligava a bere bevande
calde.
Nell'arco di quaranta minuti avevo preparato almeno una
ventina di espressi e altrettanti caffè latte. Io e Tom eravamo
sempre stati un'ottima squadra: lui era chiaro nel passarmi gli
ordini ed era ordinatissimo alla cassa, mentre io ero veloce e abile
alla macchinetta del caffè. Il nostro servizio soddisfaceva sempre i
clienti ed il nostro manager tendeva a darci turni nelle ore in cui
il negozio tendeva ad essere più pieno.
Tom mi sorrideva
incoraggiante ogni volta che mi diceva di preparare qualcosa, si
comportava con dolcezza estrema nei miei confronti. Io e Victoria, la
mia migliore amica, avevamo pensato diverse volte che lui avesse una
cotta per me, che i suoi sentimenti fossero ben distanti da una
semplice amicizia, ma poi Evan, che era il mio amico più stretto e
studiava alla stessa università di Tom, mi aveva raccontato di come
non mi nominava mai e andava dietro diverse ragazze di medicina della
Queen Mary.
«Io non capisco certe persone: come si fa
preferire andare a prendere una birra al Maddox? Cioè, stiamo
parlando del Maddox, non del Jewel di Piccadilly Circus.» Nonostante
il rumore del latte che veniva schiumato, riuscii a sentire una voce
fin troppo alta e acuta fare il suo ingresso nella caffetteria.
Decisi di non alzare lo sguardo, concentrandomi sul non rovesciare
neanche una goccia di cappuccino fuori dall'orlo del
bicchiere.
«Potrei avere un doppio espresso e un tè verde medio,
per piacere?» Eppure quella seconda voce maschile sembrava
familiare: avrei potuto giurare di averla sentita prima. Quando Tom
mi comunicò l'ordine, mi sistemai una ciocca di capelli ed alzai lo
sguardo, curiosa di vedere chi avesse parlato.
Il mio cuore si
congelò non appena i miei occhi incrociarono la traiettoria di
quelli di Nathan. Era lì, in piedi dietro il bancone dove io stavo
lavorando, che mi guardava con le labbra schiuse, apparentemente
tanto sorpreso quanto me. Indossava una camicia azzurra, un maglione
blu scuro che si intonava ai suoi occhi, un cappotto pesante e jeans
scuri. Gli occhiali dal sole era incastrati nello scollo della
camicia e i capelli castani erano leggermente scompigliati dal vento.
Deglutii, cercando di preparare in fretta e furia il doppio espresso
ed il tè verde, servendoli immediatamente dopo.
«Possiamo
andarcene da questo posto adesso?» La voce fastidiosa apparteneva
alla biondina in piedi vicino Nathan. La riconobbi immediatamente:
Claudia Delacroix, figlia del console francese, puzza sotto al naso,
studentessa di Storia alla mia stessa università. Nathan annuì, non
staccando gli occhi da me.
«A che ora stacchi?» Mi domandò
sottovoce, mentre Tom mi passava l'ennesimo ordine.
«21.»
Sillabai.
Nathan non aggiunse altro e, sorseggiando il suo
espresso, si allontanò insieme a Claudia dalla caffetteria, mentre
il mio cuore ricominciava a battere con fatica. C'erano centinaia, se
non migliaia, di Costa a Londra: ad ogni angolo c'era un Costa,
accompagnato da Starbucks, Caffè Nero, e decine di altre catene...
Per quale assurdo scherzo della vita era entrato proprio in quel
Costa, quel venerdì, a quell'ora? Perché c'ero proprio io a servire
il caffè? Perché, nuovamente, aveva scelto quel Costa spiaccicato
fra la LSE e il King's College sulla Strand?
Mi ricordai che non
sapevo nulla di lui: non sapevo dove studiava, quale fosse il suo
cognome. Però frequentava Claudia Delacroix: le loro famiglie
dovevano essere legate dall'alta borghesia, o magari erano compagni
di corso... Se fossero stati compagni di corso avrebbe voluto dire
che lui frequentava la LSE come me e non lo avevo mai visto
prima...
«Daf, è pronto il caffè?» Mi resi conto di essermi
incantata nuovamente e cercai di recuperare il ritmo sotto lo sguardo
attento sia di Tom che dei clienti. Non potevo rallentare il ritmo,
perdere il lavoro per colpa del mio continuo pensare a Nathan.
Mi
tolsi la maglietta di Costa, con il cuore che batteva ancora mille
da quando Nathan era entrato a prendere un caffè. Erano le 20.55 ed
io gli avevo detto che staccavo alle 21. Non potevo vederlo, non
potevo lasciare che il mio cuore collassasse a cause di tutti quei
battiti, di tutte le emozioni che lui mi procurava.
Perché
incendiava il mio corpo e la mia mente con tanta facilità?
Perché
gli bastava entrare, ordinare un caffè per fottere totalmente la mia
mente?
Perché aveva quell'effetto su di me?
Era uno
sconosciuto, un totale sconosciuto di nome Nathan.
Un totale
sconosciuto che frequentava persone tanto snob quanto il suo
accento.
Persone come Claudia Delacroix e le sue borse di Louis
Vuitton.
Io lavoravo da Costa, loro consideravano Costa un
postaccio.
Nascosi la t-shirt e la felpa nella borsa e indossava
una camicetta bianca e un cardigan blu scuro, pettinandomi poi
velocemente i capelli. Dovevo uscire da quel posto e se lui fosse
stato lì fuori mi sarei dovuta comportare da persona matura. Infondo
non potevo negare che avessi sognato centinaia di volte di
incontrarlo nuovamente, di baciare nuovamente le sue labbra... Ed i
miei sogni si erano avverati stranamente, qualcuno aveva udito le mie
preghiere.
Quando spinsi e mi chiusi alle spalle a chiave la
porta presi un lungo respiro e lo vidi in piedi, davanti l'ingresso
della caffetteria. Lo guardai, nuovamente paralizzata, senza muovermi
di un centimetro, senza riuscire a fare più niente. In una mano
stringevo le chiavi del negozio, nell'altra il brownie che avevo
preso di nascosto. Le mie orecchie fischiavano e lui era lì, fermo,
proprio davanti a me. Sembrava un film, un meraviglioso film, dove
l'attrice aveva serie difficoltà motorie però.
Lui accennò un
sorriso, ma non disse nulla, limitandosi a camminare lentamente verso
di me. Si muoveva piano, come se avesse paura di spezzare
l'incantesimo che si era creato fra di noi. Si muoveva con cautela,
misurando ogni passo, ogni gesto. Quando fu a meno di mezzo metro da
me, tese la mano nella mia direzione ed io, leggermente titubante, la
afferrai.
Fui nuovamente invasa da mille brividi, ognuno collegato
ad una diversa sensazione, una diversa emozione. Il mio cuore aveva
smesso nuovamente di battere, e non ero neanche più tanto sicura del
fatto che io stessi respirando.
Come potevo avere paura di tutto
ciò?
Come potevo tirarmi indietro solo a causa di mie fisime
sulle classi di appartenenza?
Eravamo nel XXI secolo ed io parlavo
in termini coniati da Marx.
Quel contatto non poteva portare a
qualcosa di sbagliato se tutte le emozioni che scaturiva erano
decisamente positive?
Lo guardai per qualche istante negli occhi e
mi parve di sentire parte di me ordinarmi di tuffarmici dentro. Erano
di un blu talmente intenso, talmente ipnotico, che non riuscivo a
dire parola, non riuscivo a forzarmi a spezzare quel silenzio.
Poi
lui sorrise, sorrise con leggerezza, infondendomi sicurezza,
infondendomi calore.
Fece un altro passo nella mia direzione,
sciolse il legame delle nostre mani e mi abbracciò, semplicemente mi
abbracciò. Era più alto di me, nascosi il viso nell'incavo fra la
sua spalla ed il suo collo, sentendo la sua clavicola spingere contro
il mio zigomo. Passai le mani dietro la sua schiena e lo strinsi a
me, mentre il mio cervello veniva metto totalmente K.O dal suo
profumo. Dio, quanto era buono il suo profumo.
La sua mano destra
andò dietro la mia nuca, quella sinistra sulla mia schiena. Mi
stringeva infondendomi sicurezza: mi sentivo protetta fra le sue
braccia, lì davanti al Costa della LSE. Come avevo potuto solo anche
pensare a rinunciare a quel contatto?
Ci allontanammo dopo un po':
non sapevo quanto fosse passato. Secondi, minuti, ore... Il tempo si
era solamente fermato, come il mio cuore, come il mio respiro. Lo
guardai coraggiosamente negli occhi, convinta di essere rossa come un
peperone.
«Che ci facevi in questo Costa?» Mormorai con la voce
puntualmente roca.
«Ci vengo spesso di mattina, solitamente,
studio al King's College.» Wow. Per poco la mia mandibola non cadde
nuovamente a terra, come quando lo avevo visto entrare per ordinare
il suo doppio espresso. Studiava al King's College, che era situato
sulla strada parallela alla LSE. «Tu quindi lavori?» Aggiunse, io
deglutii.
«Studio alla LSE.» Vidi il suo sorriso allargarsi, poi
scoppiò a ridere ed io lo seguii a ruota.
«Quindi fammi capire,
studiamo attaccati l'uno all'altro e non ne avevamo idea.» Scossi la
testa.
«Infondo non ne avevamo mai parlato.»
«Giusto ma...
Ciò vuol dire che sei sempre stata a due passi da me.» Schiusi le
labbra, sentendo che non dovevo ribattere, perché aveva altro da
dire. «Ciò mi farà sembrare uno psicopatico ma... Io ti ho cercata
in queste settimane, ti ho cercata con lo sguardo ovunque andassi...
Ti ho cercato nella metropolitana -tutti usano la metropolitana!-, ti
ho cercata nei musei, ti ho cercato nelle discoteche... Sì, lo so
che Londra è grande ma ci sono posti dove tutti vanno almeno una
volta ed io speravo che il calcolo delle probabilità fosse a mio
favore.»
«E sei finito con il trovarmi dentro un Costa
Caffè...» Che parole stupide! Ma erano le uniche che ero riuscita a
dire, totalmente ammaliata dal suo parlare, dalla sua confessione.
«Fortuna che sono venuto ad un orario totalmente insolito per
me.»
«Vuoi un pezzo di brownie?» Lui mi guardò esterrefatto
ed io realizzai che potevo vincere un premio per le “frasi più
inopportune da dire”. Sorrisi, arrossendo, e gli porsi il brownie
che avevo preso in negozio. «Non è avvelenato.» Anche lui sorrise,
staccandone un pezzo.
Cominciò così a parlarmi, dicendomi tutte
quelle cose che non ci eravamo detti quella notte perché avevamo
deciso di essere senza passato e senza futuro.
Scoprii così che
studiava giurisprudenza, che era al suo secondo anno, che amava il
corso e che era tanto diverso da ciò che la sua famiglia avrebbe
voluto che facesse, senza però dire cosa avrebbe voluto la sua
famiglia.
Scoprii che abitava in una palazzina che affacciava su
Hyde Park, presto capii che l'intera palazzina era fosse della sua
famiglia. Nuovamente la mia fiducia cominciò a scemare e la mia
voglia di scappare aumentare.
Giocava a polo, guidava una
mini-cooper, faceva di cognome Crawford.
Crawford come i politici
di destra radicati da secoli nel parlamento e che avevano titoli
nobiliari.
Era lo scapolo d'oro, si capiva ad ogni parola che
diceva, ad ogni sorriso che indirizzava nella mia direzione. Non
faticavo ad immaginare la fila di ragazze che si creava solo per
parlare con lui, solo per stare sedute vicino a lui durante una
lezione.
Mentre lui continuava a parlare, osservai il mio riflesso
nella vetrina di Costa. Avevo lunghi capelli castani, leggermente
mossi, particolarmente banali. Il mio volto era perennemente
ricoperto da lentiggini e non portavo il minimo velo di trucco. I
miei vestiti erano tanto semplici quanto la mia fisionomia. Come
potevo affrontare quella schiera di ragazze che sarebbero morte per
parlare con lui?
«Sono davvero felice di averti incontrata di
nuova.» Disse ad un certo punto ed io decisi di non mentire.
«Anche
io. Davvero.» Infondo non avevo armi per lottare per lui. E
fondamentalmente non ero la tipica ragazza che lottava per ottenere
un uomo. Dovevo semplicemente essere me stessa: magari mi avrebbe
accettata nonostante la mia semplicità, nonostante il fatto che
abitassi in un appartamento preso in affitto nell'Est più sporco di
Londra; magari sarebbe fuggito e, a quel punto, avrei imparato la
lezione.
«E dobbiamo ancora raccontarci il perché della fuga a
Brighton.» Mi ricordò, facendomi l'occhiolino. Io sorrisi,
prendendo un lungo respiro e guardandolo più
coraggiosamente.
«Accompagnami a casa, capirai.» Non so con
quale forza dissi quelle parole, ma quello era il mio tentativo più
grande di fargli spazio in me: nei miei pensieri, nelle mie paure,
nel mio passato, nei problemi... Semplicemente tornando a casa, gli
avrei potuto mostrare parti di Londra che raccontavano la mia storia,
il mio passato, il perché di quella improvvisa notte a Brighton. Lui
si limitò ad annuire, prendendo poi gentilmente una mia mano e
baciandola.
«Okay. Guidami.»
Sorrisi e lui mi sorrise
nuovamente.
Perché ero disposta a lasciarmi andare così con
lui?
Sì, ora non potevo più definirlo uno sconosciuto.
Sapevo
molto più io di lui che lui di me.
Eppure ci conoscevamo da
neanche 24 ore tutto sommato.
Eppure i suoi occhi blu mi
chiedevano di fargli spazio.
I suoi occhi blu brillavano come
quelli di mio padre.
I suoi occhi blu, maledettamente blu...
«Non
so quanto ti convenga accompagnarla a casa.»
Quella voce spezzò
tutto.
Spezzò il tempo che si era fermato, spezzò il legame fra
le nostre mani.
Conoscevo quella voce, la conoscevo fin troppo
bene.
«Claudia, che ci fai qui?» Domandò Nathan, inarcando un
sopracciglio.
«Ero andata a stampare un paio di cose per la
lezione di lunedì.» Si sistemò una ciocca dorata dietro l'orecchio
e si strinse nella sua pelliccia -sperai vivamente fosse finta quasi
quanto sperai che lei scomparisse dalla mia vita-, guardandomi con il
naso arricciato. «Comunque dicevo, non credo di convenga
accompagnarla a casa.»
«Perché non dovrebbe convenirmi?»
Nathan la guardava scettico; le sue mani erano scivolate in tasca e i
suoi lineamenti erano improvvisamente diventati duri, mentre i suoi
occhi si erano rabbuiati.
«Non credo ti interessi mettere piede
nella feccia dove abita.» Sorrise maligna. «Il posto dove abita è
stato definito la peggior area residenziale nel 2006: Hackney,
giusto?» Mi guardò, ed il suo sguardo fu accompagnato anche da
quello di Nathan.
«Sì, abito ad Hackney.»
«In più credo
che tu e quella drogata di tua madre affittiate una casa...» Si
avvicinò pericolosamente a me. «Hai cominciato a farti di eroina
anche tu? Vedo delle belle occhiaie qui...» Mi toccò il viso ed io
mi scostai, come se toccata da una scossa elettrica.
Nathan era
fermo lì, accanto a lei e mi guardava.
Era silenzioso,
immobile.
Nessuno dei suoi lineamenti si era addolcito.
I suoi
occhi non si erano illuminati...
Sembrava un incubo.
Tutta la
mia speranza, tutto il mio coraggio, erano stati sovvertiti da un
paio di frasi pronunciate dalla perfetta e stronza Claudia Delacroix,
e dal comportamento di Nathan. Non diceva niente, assolutamente
niente. Era lì, fermo, che la ascoltava insultare il luogo dove
vivevo, mia madre, la ascoltava accusare me di essere una drogata.
Il
mio cuore era tornato a battere forte, il mio respiro era diventato
pesante. Lei continuava a parlare, osservando languida Nathan, ed io
non la sentivo, non li sentivo più, le mie orecchie fischiavano
nuovamente e la mia testa girava.
La salvezza apparve in un
secondo.
Vidi la fermata dell'autobus, vidi l'autobus passare e
cominciai a correre.
Corsi semplicemente, verso quella salvezza a
quattro ruote.
Non sapevo in che direzione andasse, ma sapevo che
sarebbe andato lontano dalla Strand.
Lontano da Costa.
Lontano
da Claudia che toccava la spalla di Nathan mentre gli parlava della
mia vita disagiata.
Sentii il mio nome essere chiamato mentre
salivo sull'autobus, mostrando il biglietto all'autista.
Decisi di
non voltarmi. Dovevo andarmene. Dovevo... Sparire.
Sparire.
Non
so quanto ci misi ad andare a casa.
Non so quanto tempo rimasi su
quell'autobus, con il viso nascosto nelle mie mani.
Avevo
conosciuto Claudia Delacroix durante il mio ultimo anno di scuola.
Io
frequentavo la Christ's Hospital School, una scuola resa gratuita per
le famiglie meno agiate. Lei frequentava la Westminster School, una
delle migliori scuole private dell'intera Inghilterra. Ci eravamo
entrambe ritrovate a un torneo interscolastico di tennis.
Ero
sempre brava a giocare a tennis e quella era la semifinale.
Vincere
la semifinale avrebbe significato molto. Molto più di quanto già
significasse essere riuscita ad arrivare fino a quel punto, avendo
battuto decine di figlie di papà che avevano a propria disposizione
i migliori maestri del paese.
Lei era sempre stata altezzosa,
servita e riverita dalla madre e dal padre. Io invece ero lì sola,
con solo mia zia Eloise fra gli spalti. Mia madre era in un centro di
recupero, mio padre era morto in Iraq.
Non ci eravamo mai
scontrate verbalmente, ma a tennis la battei, andando in finale.
Quando ci eravamo strette la mano a fine partita lei mi aveva
sussurrato: «Se mai incontrerò te, feccia, di nuovo, ti renderò la
vita impossibile.», scoppiando poi a piangere e correndo ad
abbracciare la famiglia.
Ovviamente la sorte aveva voluto che
andassimo alla stessa università e che io conoscessi il suo amico
(?), Nathan Crawford.
Quando rientrai a casa trovai mia madre
sul divano, che allattava Julie, la bambina nata dalle sue continue
scopate con il suo nuovo compagno, Rick, seduto accanto a lei. Lui
beveva la birra e guardava la televisione, accendendosi di tanto in
tanto una sigaretta. Tanto viveva a spese mie e di mia madre, tanto
mangiava gratis, tanto spendeva i suoi guadagni da benzinaio di
sigarette e birra... Ed io avrei voluto portare lì Nathan, poche ore
prima. Con quale forza? Con quale coraggio? Lo avrebbe probabilmente
derubato delle sue costose scarpe, della sua sciarpa di
Burberry.
«Com'è andata a lavoro, tesoro?» Mi domandò mia
madre, guardandomi. Vedevo dolcezza nei suoi occhi, vedevo il
fantasma dell'amore di cui brillavano i suoi occhi quando mio padre
era ancora vivo.
«Bene, sono solo un po' stanca.» Mormorai,
abbozzando un sorriso che lei ricambiò entusiasta.
«Julie, dillo
anche tu a tua sorella che deve andarsi a riposare ora...» Sorrisi
nuovamente, facendo 'ciao' con la mano alla piccolissima bambina che
mia madre stringeva al seno.
«Fai veloce a passare che sta per
arrivare la parte migliore del programma.» Sputò Rick. Obbedii,
annuendo semplicemente, continuando a ripetermi di non insultarlo,
perché altrimenti lui avrebbe convinto mia madre a cacciarmi via di
casa. Cercavo di non pensare al fatto che il cinquanta percento di
ciò che guadagnavo finiva nelle mani di mia madre per sfamare quel
perdente, cercavo di non pensare al disgusto sul volto di Claudia,
cercavo di non pensare, mentre mi chiudevo la porta della mia stanza
alle spalle.
Un'altra giornata era finita. Ero sopravvissuta.
Ero
veramente sopravvissuta?
Perché il mio petto faceva così male
allora?
Perché non riuscivo a trattenere le lacrime?
Perché
le mie mani tremavano?
Perché il mio cuore si stringeva ogni
volta che ripensavo all'abbraccio che mi ero scambiata con
Nathan?
Nathan.
Dovevo cancellarlo dalla mia mente.
Dovevo
smettere di pensare.
Chiusi la porta a chiave, mi sedetti sul
letto, aprii un cassetto del comodino e tirai fuori una bustina piena
di erba. Mi ero ripromessa di smettere di fumare centinaia di volte,
ma avevo capito presto che non riuscivo ad addormentarmi senza. Non
riuscivo a smettere di pensare a mia madre, di pensare a Rick, di
pensare a mio padre, a Julie... ed ora c'era anche Nathan.
Girai
velocemente una canna ed uscii dalla finestra sulla scala di
emergenza del condominio, accendendola. Ad ogni tiro la mia mente era
più leggera ed i pensieri meno importanti. Abitavamo al deciso piano
e riuscivo a vedere Londra, notturna e piena di luci... Dio, quanto
odiavo quella città e quanto l'idea di Brighton restava la più
allettante che toccasse la mia mente.
*
Ok,
sono d'accordo con chi criticherà dicendo che questo capitolo è
deprimente e forse un po' troppo negativo, soprattutto considerando
il personaggio di Dafne. Però è per questo che c'è Nathan, no? Per
salvarla! Basta stereotipi di ragazze perfette e ragazzi
problematici, questa volta ho deciso di sfatare il mito e mettere
come personaggio problematico/violento/drogato una donna, che allo
stesso tempo però studia in una delle università migliori del mondo
e che si spacca la schiena per aiutare la madre e la famiglia.
Vivo
a Londra da un anno e ho imparato che la realtà di Dafne è la
realtà di moltissime persone che studiano anche con me. Padri morti
in Iraq, pregiudizi contro la parte “snob” di Londra, ect. E
quelli della Londra bene sono veramente insopportabili, pieni di sé,
immersi nel Polo: Nathan è una eccezione.
Alla prossima <3