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Autore: Daphne S    31/05/2012    2 recensioni
Nathan, figlio di una potente famiglia londinese, decide di evadere dalla falsità della sua vita.
Dafne, schiacciata dal peso dei ricordi e dalla perdita del padre, sopporta ben poco le mille luci di Londra.
Le loro vite si incrociano sul treno per Brighton della mezzanotte.
«Credi nel destino?» Mi guardò intensamente negli occhi.
«Credo che l'uomo crei il proprio destino.» Ribattei. I suoi occhi brillarono ed io mi sentii arrossire.
«Quindi credi che sia stato puro caso il fatto che ci siamo ritrovati seduti nello stesso vagone, sullo stesso treno, diretti entrambi a Brighton perché stanchi della nostra vita a Londra?» Mi morsi il labbro, abbassando nuovamente lo sguardo.
«Credo sia stata fortuna.» Sussurrai. Lui mi sentì, come sempre, e portò due dita sotto il mio mento, costringendomi a guardarlo negli occhi. «E spero di essere così fortunata ancora una volta.» Aggiunsi.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Midnight Train

II


«Buongiorno, Tom.» Appena entrai nella sala dei dipendenti, trovati Tom seduto su una poltrona ad allacciarsi le scarpe. Indossava già la maglietta bordeaux da impiegato di Costa Caffè. Lui alzò lo sguardo e mi sorrise, sventolando poi la mano.
«Ciao, Daf. Pronta per questo intenso venerdì pomeriggio?» Disse con una risata e io non potei fare a meno di sorridere. Il suo sorriso era sempre così contagioso.
«Come sempre, Tom. Mi conosci.» Ridemmo insieme, mentre io mi toglievo la felpa, restando solamente con la stessa t-shirt del mio collega. Conoscevo Tom dagli inizi di agosto quando, dopo che mia madre aveva perso l'ennesimo lavoro, avevo trovato impiego a Costa Caffè: ben pagato e letteralmente di fronte l'entrata principale della London School of Economics, la mia università. Tom studiava cinema alla Queen Mary, vicino Mile End, ed era un ragazzo genuino, un vero amico, in grado di sollevare l'umore più nero con un paio di parole, una semplice carezza.

Erano passate due settimane da quella notte a Brighton e, volente o nolente, il ricordo di Nathan tardava ad abbandonarmi. Non ne avevo parlato con nessuno, non avevo raccontato a nessuno di come avevo sbattuto la porta di casa, lasciando mia madre sconvolta, seduta sul divano con il suo nuovo compagno e una birra fredda fra le mani.
Quella notte mi aveva fatta tornare in vita, aveva risvegliato ogni singolo capillare, ogni singolo nervo, anche il più nascosto, il più piccolo. Mi aveva aiutato a tornare a respirare, a ragionare con la mente cristallina, pulita, non condizionata. Lui mi aveva fatta tornare in vita e poi era scomparso, lasciando un solco dentro di me.
Riuscivo ancora a ricordare la sabbia intrappolarsi fra le mie dita, il vento scompigliarmi i capelli, il profumo di salsedine, il cioccolato Kinder sciogliersi nella mia bocca, le sue dita sul mio viso, i miei piedi bagnati dall'acqua dell'oceano, il suono delle sue risa cristalline, le sue labbra sulle mie, quel bacio, quell'infinito bacio che aveva fermato il tempo lì a King's Cross.
Prima di quel giorno avevo collegato ricordi solo legati a mio padre e Matt a Brighton, malgrado ci fossi stata centinaia di volte. Ora invece ero in grado di collegarci non solo mio padre e Matt, ma anche Nathan. Nathan e il suo portamento elegante, il suo accento snob, i suoi capelli scuri, i suoi occhi blu come la notte e come il maglione di papà...

«Pronta?» Alzai lo sguardo, incrociando quello di Tom. Mi ero nuovamente incantata, perdendomi nei miei pensieri. Annuii, scrocchiandomi le dita e seguendo Tom verso il bar. Eravamo arrivati giusto in tempo per dare il cambio a Gemma e Chris, le ragazze che avevano il turno dalle 11 fino alle 17. Mi sistemai alla macchinetta del caffè, mentre Tom andò alla cassa, cominciando immediatamente a prendere i primi ordini.
Quel lavoro per certi versi mi rilassava: era quasi sempre meccanico. Le persone ordinavano sempre qualcosa a base di latte e/o caffè. Espressi, cappuccino, caffè americani, caffè latte... Raramente, soprattutto durante l'inverno, si presentavano clienti desiderosi di bere Frappuccini o caffè o tè freddi. L'inverno a Londra obbligava a bere bevande calde.
Nell'arco di quaranta minuti avevo preparato almeno una ventina di espressi e altrettanti caffè latte. Io e Tom eravamo sempre stati un'ottima squadra: lui era chiaro nel passarmi gli ordini ed era ordinatissimo alla cassa, mentre io ero veloce e abile alla macchinetta del caffè. Il nostro servizio soddisfaceva sempre i clienti ed il nostro manager tendeva a darci turni nelle ore in cui il negozio tendeva ad essere più pieno.
Tom mi sorrideva incoraggiante ogni volta che mi diceva di preparare qualcosa, si comportava con dolcezza estrema nei miei confronti. Io e Victoria, la mia migliore amica, avevamo pensato diverse volte che lui avesse una cotta per me, che i suoi sentimenti fossero ben distanti da una semplice amicizia, ma poi Evan, che era il mio amico più stretto e studiava alla stessa università di Tom, mi aveva raccontato di come non mi nominava mai e andava dietro diverse ragazze di medicina della Queen Mary.

«Io non capisco certe persone: come si fa preferire andare a prendere una birra al Maddox? Cioè, stiamo parlando del Maddox, non del Jewel di Piccadilly Circus.» Nonostante il rumore del latte che veniva schiumato, riuscii a sentire una voce fin troppo alta e acuta fare il suo ingresso nella caffetteria. Decisi di non alzare lo sguardo, concentrandomi sul non rovesciare neanche una goccia di cappuccino fuori dall'orlo del bicchiere.
«Potrei avere un doppio espresso e un tè verde medio, per piacere?» Eppure quella seconda voce maschile sembrava familiare: avrei potuto giurare di averla sentita prima. Quando Tom mi comunicò l'ordine, mi sistemai una ciocca di capelli ed alzai lo sguardo, curiosa di vedere chi avesse parlato.
Il mio cuore si congelò non appena i miei occhi incrociarono la traiettoria di quelli di Nathan. Era lì, in piedi dietro il bancone dove io stavo lavorando, che mi guardava con le labbra schiuse, apparentemente tanto sorpreso quanto me. Indossava una camicia azzurra, un maglione blu scuro che si intonava ai suoi occhi, un cappotto pesante e jeans scuri. Gli occhiali dal sole era incastrati nello scollo della camicia e i capelli castani erano leggermente scompigliati dal vento. Deglutii, cercando di preparare in fretta e furia il doppio espresso ed il tè verde, servendoli immediatamente dopo.
«Possiamo andarcene da questo posto adesso?» La voce fastidiosa apparteneva alla biondina in piedi vicino Nathan. La riconobbi immediatamente: Claudia Delacroix, figlia del console francese, puzza sotto al naso, studentessa di Storia alla mia stessa università. Nathan annuì, non staccando gli occhi da me.
«A che ora stacchi?» Mi domandò sottovoce, mentre Tom mi passava l'ennesimo ordine.
«21.» Sillabai.
Nathan non aggiunse altro e, sorseggiando il suo espresso, si allontanò insieme a Claudia dalla caffetteria, mentre il mio cuore ricominciava a battere con fatica. C'erano centinaia, se non migliaia, di Costa a Londra: ad ogni angolo c'era un Costa, accompagnato da Starbucks, Caffè Nero, e decine di altre catene... Per quale assurdo scherzo della vita era entrato proprio in quel Costa, quel venerdì, a quell'ora? Perché c'ero proprio io a servire il caffè? Perché, nuovamente, aveva scelto quel Costa spiaccicato fra la LSE e il King's College sulla Strand?
Mi ricordai che non sapevo nulla di lui: non sapevo dove studiava, quale fosse il suo cognome. Però frequentava Claudia Delacroix: le loro famiglie dovevano essere legate dall'alta borghesia, o magari erano compagni di corso... Se fossero stati compagni di corso avrebbe voluto dire che lui frequentava la LSE come me e non lo avevo mai visto prima...
«Daf, è pronto il caffè?» Mi resi conto di essermi incantata nuovamente e cercai di recuperare il ritmo sotto lo sguardo attento sia di Tom che dei clienti. Non potevo rallentare il ritmo, perdere il lavoro per colpa del mio continuo pensare a Nathan.

Mi tolsi la maglietta di Costa, con il cuore che batteva ancora mille da quando Nathan era entrato a prendere un caffè. Erano le 20.55 ed io gli avevo detto che staccavo alle 21. Non potevo vederlo, non potevo lasciare che il mio cuore collassasse a cause di tutti quei battiti, di tutte le emozioni che lui mi procurava.
Perché incendiava il mio corpo e la mia mente con tanta facilità?
Perché gli bastava entrare, ordinare un caffè per fottere totalmente la mia mente?
Perché aveva quell'effetto su di me?
Era uno sconosciuto, un totale sconosciuto di nome Nathan.
Un totale sconosciuto che frequentava persone tanto snob quanto il suo accento.
Persone come Claudia Delacroix e le sue borse di Louis Vuitton.
Io lavoravo da Costa, loro consideravano Costa un postaccio.
Nascosi la t-shirt e la felpa nella borsa e indossava una camicetta bianca e un cardigan blu scuro, pettinandomi poi velocemente i capelli. Dovevo uscire da quel posto e se lui fosse stato lì fuori mi sarei dovuta comportare da persona matura. Infondo non potevo negare che avessi sognato centinaia di volte di incontrarlo nuovamente, di baciare nuovamente le sue labbra... Ed i miei sogni si erano avverati stranamente, qualcuno aveva udito le mie preghiere.

Quando spinsi e mi chiusi alle spalle a chiave la porta presi un lungo respiro e lo vidi in piedi, davanti l'ingresso della caffetteria. Lo guardai, nuovamente paralizzata, senza muovermi di un centimetro, senza riuscire a fare più niente. In una mano stringevo le chiavi del negozio, nell'altra il brownie che avevo preso di nascosto. Le mie orecchie fischiavano e lui era lì, fermo, proprio davanti a me. Sembrava un film, un meraviglioso film, dove l'attrice aveva serie difficoltà motorie però.
Lui accennò un sorriso, ma non disse nulla, limitandosi a camminare lentamente verso di me. Si muoveva piano, come se avesse paura di spezzare l'incantesimo che si era creato fra di noi. Si muoveva con cautela, misurando ogni passo, ogni gesto. Quando fu a meno di mezzo metro da me, tese la mano nella mia direzione ed io, leggermente titubante, la afferrai.
Fui nuovamente invasa da mille brividi, ognuno collegato ad una diversa sensazione, una diversa emozione. Il mio cuore aveva smesso nuovamente di battere, e non ero neanche più tanto sicura del fatto che io stessi respirando.
Come potevo avere paura di tutto ciò?
Come potevo tirarmi indietro solo a causa di mie fisime sulle classi di appartenenza?
Eravamo nel XXI secolo ed io parlavo in termini coniati da Marx.
Quel contatto non poteva portare a qualcosa di sbagliato se tutte le emozioni che scaturiva erano decisamente positive?
Lo guardai per qualche istante negli occhi e mi parve di sentire parte di me ordinarmi di tuffarmici dentro. Erano di un blu talmente intenso, talmente ipnotico, che non riuscivo a dire parola, non riuscivo a forzarmi a spezzare quel silenzio.
Poi lui sorrise, sorrise con leggerezza, infondendomi sicurezza, infondendomi calore.
Fece un altro passo nella mia direzione, sciolse il legame delle nostre mani e mi abbracciò, semplicemente mi abbracciò. Era più alto di me, nascosi il viso nell'incavo fra la sua spalla ed il suo collo, sentendo la sua clavicola spingere contro il mio zigomo. Passai le mani dietro la sua schiena e lo strinsi a me, mentre il mio cervello veniva metto totalmente K.O dal suo profumo. Dio, quanto era buono il suo profumo.
La sua mano destra andò dietro la mia nuca, quella sinistra sulla mia schiena. Mi stringeva infondendomi sicurezza: mi sentivo protetta fra le sue braccia, lì davanti al Costa della LSE. Come avevo potuto solo anche pensare a rinunciare a quel contatto?
Ci allontanammo dopo un po': non sapevo quanto fosse passato. Secondi, minuti, ore... Il tempo si era solamente fermato, come il mio cuore, come il mio respiro. Lo guardai coraggiosamente negli occhi, convinta di essere rossa come un peperone.
«Che ci facevi in questo Costa?» Mormorai con la voce puntualmente roca.
«Ci vengo spesso di mattina, solitamente, studio al King's College.» Wow. Per poco la mia mandibola non cadde nuovamente a terra, come quando lo avevo visto entrare per ordinare il suo doppio espresso. Studiava al King's College, che era situato sulla strada parallela alla LSE. «Tu quindi lavori?» Aggiunse, io deglutii.
«Studio alla LSE.» Vidi il suo sorriso allargarsi, poi scoppiò a ridere ed io lo seguii a ruota.
«Quindi fammi capire, studiamo attaccati l'uno all'altro e non ne avevamo idea.» Scossi la testa.
«Infondo non ne avevamo mai parlato.»
«Giusto ma... Ciò vuol dire che sei sempre stata a due passi da me.» Schiusi le labbra, sentendo che non dovevo ribattere, perché aveva altro da dire. «Ciò mi farà sembrare uno psicopatico ma... Io ti ho cercata in queste settimane, ti ho cercata con lo sguardo ovunque andassi... Ti ho cercato nella metropolitana -tutti usano la metropolitana!-, ti ho cercata nei musei, ti ho cercato nelle discoteche... Sì, lo so che Londra è grande ma ci sono posti dove tutti vanno almeno una volta ed io speravo che il calcolo delle probabilità fosse a mio favore.»
«E sei finito con il trovarmi dentro un Costa Caffè...» Che parole stupide! Ma erano le uniche che ero riuscita a dire, totalmente ammaliata dal suo parlare, dalla sua confessione.
«Fortuna che sono venuto ad un orario totalmente insolito per me.»
«Vuoi un pezzo di brownie?» Lui mi guardò esterrefatto ed io realizzai che potevo vincere un premio per le “frasi più inopportune da dire”. Sorrisi, arrossendo, e gli porsi il brownie che avevo preso in negozio. «Non è avvelenato.» Anche lui sorrise, staccandone un pezzo.
Cominciò così a parlarmi, dicendomi tutte quelle cose che non ci eravamo detti quella notte perché avevamo deciso di essere senza passato e senza futuro.
Scoprii così che studiava giurisprudenza, che era al suo secondo anno, che amava il corso e che era tanto diverso da ciò che la sua famiglia avrebbe voluto che facesse, senza però dire cosa avrebbe voluto la sua famiglia.
Scoprii che abitava in una palazzina che affacciava su Hyde Park, presto capii che l'intera palazzina era fosse della sua famiglia. Nuovamente la mia fiducia cominciò a scemare e la mia voglia di scappare aumentare.
Giocava a polo, guidava una mini-cooper, faceva di cognome Crawford.
Crawford come i politici di destra radicati da secoli nel parlamento e che avevano titoli nobiliari.
Era lo scapolo d'oro, si capiva ad ogni parola che diceva, ad ogni sorriso che indirizzava nella mia direzione. Non faticavo ad immaginare la fila di ragazze che si creava solo per parlare con lui, solo per stare sedute vicino a lui durante una lezione.
Mentre lui continuava a parlare, osservai il mio riflesso nella vetrina di Costa. Avevo lunghi capelli castani, leggermente mossi, particolarmente banali. Il mio volto era perennemente ricoperto da lentiggini e non portavo il minimo velo di trucco. I miei vestiti erano tanto semplici quanto la mia fisionomia. Come potevo affrontare quella schiera di ragazze che sarebbero morte per parlare con lui?
«Sono davvero felice di averti incontrata di nuova.» Disse ad un certo punto ed io decisi di non mentire.
«Anche io. Davvero.» Infondo non avevo armi per lottare per lui. E fondamentalmente non ero la tipica ragazza che lottava per ottenere un uomo. Dovevo semplicemente essere me stessa: magari mi avrebbe accettata nonostante la mia semplicità, nonostante il fatto che abitassi in un appartamento preso in affitto nell'Est più sporco di Londra; magari sarebbe fuggito e, a quel punto, avrei imparato la lezione.
«E dobbiamo ancora raccontarci il perché della fuga a Brighton.» Mi ricordò, facendomi l'occhiolino. Io sorrisi, prendendo un lungo respiro e guardandolo più coraggiosamente.
«Accompagnami a casa, capirai.» Non so con quale forza dissi quelle parole, ma quello era il mio tentativo più grande di fargli spazio in me: nei miei pensieri, nelle mie paure, nel mio passato, nei problemi... Semplicemente tornando a casa, gli avrei potuto mostrare parti di Londra che raccontavano la mia storia, il mio passato, il perché di quella improvvisa notte a Brighton. Lui si limitò ad annuire, prendendo poi gentilmente una mia mano e baciandola.
«Okay. Guidami.»
Sorrisi e lui mi sorrise nuovamente.
Perché ero disposta a lasciarmi andare così con lui?
Sì, ora non potevo più definirlo uno sconosciuto.
Sapevo molto più io di lui che lui di me.
Eppure ci conoscevamo da neanche 24 ore tutto sommato.
Eppure i suoi occhi blu mi chiedevano di fargli spazio.
I suoi occhi blu brillavano come quelli di mio padre.
I suoi occhi blu, maledettamente blu...

«Non so quanto ti convenga accompagnarla a casa.»
Quella voce spezzò tutto.
Spezzò il tempo che si era fermato, spezzò il legame fra le nostre mani.
Conoscevo quella voce, la conoscevo fin troppo bene.
«Claudia, che ci fai qui?» Domandò Nathan, inarcando un sopracciglio.
«Ero andata a stampare un paio di cose per la lezione di lunedì.» Si sistemò una ciocca dorata dietro l'orecchio e si strinse nella sua pelliccia -sperai vivamente fosse finta quasi quanto sperai che lei scomparisse dalla mia vita-, guardandomi con il naso arricciato. «Comunque dicevo, non credo di convenga accompagnarla a casa.»
«Perché non dovrebbe convenirmi?» Nathan la guardava scettico; le sue mani erano scivolate in tasca e i suoi lineamenti erano improvvisamente diventati duri, mentre i suoi occhi si erano rabbuiati.
«Non credo ti interessi mettere piede nella feccia dove abita.» Sorrise maligna. «Il posto dove abita è stato definito la peggior area residenziale nel 2006: Hackney, giusto?» Mi guardò, ed il suo sguardo fu accompagnato anche da quello di Nathan.
«Sì, abito ad Hackney.»
«In più credo che tu e quella drogata di tua madre affittiate una casa...» Si avvicinò pericolosamente a me. «Hai cominciato a farti di eroina anche tu? Vedo delle belle occhiaie qui...» Mi toccò il viso ed io mi scostai, come se toccata da una scossa elettrica.
Nathan era fermo lì, accanto a lei e mi guardava.
Era silenzioso, immobile.
Nessuno dei suoi lineamenti si era addolcito.
I suoi occhi non si erano illuminati...
Sembrava un incubo.
Tutta la mia speranza, tutto il mio coraggio, erano stati sovvertiti da un paio di frasi pronunciate dalla perfetta e stronza Claudia Delacroix, e dal comportamento di Nathan. Non diceva niente, assolutamente niente. Era lì, fermo, che la ascoltava insultare il luogo dove vivevo, mia madre, la ascoltava accusare me di essere una drogata.
Il mio cuore era tornato a battere forte, il mio respiro era diventato pesante. Lei continuava a parlare, osservando languida Nathan, ed io non la sentivo, non li sentivo più, le mie orecchie fischiavano nuovamente e la mia testa girava.
La salvezza apparve in un secondo.
Vidi la fermata dell'autobus, vidi l'autobus passare e cominciai a correre.
Corsi semplicemente, verso quella salvezza a quattro ruote.
Non sapevo in che direzione andasse, ma sapevo che sarebbe andato lontano dalla Strand.
Lontano da Costa.
Lontano da Claudia che toccava la spalla di Nathan mentre gli parlava della mia vita disagiata.
Sentii il mio nome essere chiamato mentre salivo sull'autobus, mostrando il biglietto all'autista.
Decisi di non voltarmi. Dovevo andarmene. Dovevo... Sparire.

Sparire.
Non so quanto ci misi ad andare a casa.
Non so quanto tempo rimasi su quell'autobus, con il viso nascosto nelle mie mani.
Avevo conosciuto Claudia Delacroix durante il mio ultimo anno di scuola.
Io frequentavo la Christ's Hospital School, una scuola resa gratuita per le famiglie meno agiate. Lei frequentava la Westminster School, una delle migliori scuole private dell'intera Inghilterra. Ci eravamo entrambe ritrovate a un torneo interscolastico di tennis.
Ero sempre brava a giocare a tennis e quella era la semifinale.
Vincere la semifinale avrebbe significato molto. Molto più di quanto già significasse essere riuscita ad arrivare fino a quel punto, avendo battuto decine di figlie di papà che avevano a propria disposizione i migliori maestri del paese.
Lei era sempre stata altezzosa, servita e riverita dalla madre e dal padre. Io invece ero lì sola, con solo mia zia Eloise fra gli spalti. Mia madre era in un centro di recupero, mio padre era morto in Iraq.
Non ci eravamo mai scontrate verbalmente, ma a tennis la battei, andando in finale. Quando ci eravamo strette la mano a fine partita lei mi aveva sussurrato: «Se mai incontrerò te, feccia, di nuovo, ti renderò la vita impossibile.», scoppiando poi a piangere e correndo ad abbracciare la famiglia.
Ovviamente la sorte aveva voluto che andassimo alla stessa università e che io conoscessi il suo amico (?), Nathan Crawford.

Quando rientrai a casa trovai mia madre sul divano, che allattava Julie, la bambina nata dalle sue continue scopate con il suo nuovo compagno, Rick, seduto accanto a lei. Lui beveva la birra e guardava la televisione, accendendosi di tanto in tanto una sigaretta. Tanto viveva a spese mie e di mia madre, tanto mangiava gratis, tanto spendeva i suoi guadagni da benzinaio di sigarette e birra... Ed io avrei voluto portare lì Nathan, poche ore prima. Con quale forza? Con quale coraggio? Lo avrebbe probabilmente derubato delle sue costose scarpe, della sua sciarpa di Burberry.
«Com'è andata a lavoro, tesoro?» Mi domandò mia madre, guardandomi. Vedevo dolcezza nei suoi occhi, vedevo il fantasma dell'amore di cui brillavano i suoi occhi quando mio padre era ancora vivo.
«Bene, sono solo un po' stanca.» Mormorai, abbozzando un sorriso che lei ricambiò entusiasta.
«Julie, dillo anche tu a tua sorella che deve andarsi a riposare ora...» Sorrisi nuovamente, facendo 'ciao' con la mano alla piccolissima bambina che mia madre stringeva al seno.
«Fai veloce a passare che sta per arrivare la parte migliore del programma.» Sputò Rick. Obbedii, annuendo semplicemente, continuando a ripetermi di non insultarlo, perché altrimenti lui avrebbe convinto mia madre a cacciarmi via di casa. Cercavo di non pensare al fatto che il cinquanta percento di ciò che guadagnavo finiva nelle mani di mia madre per sfamare quel perdente, cercavo di non pensare al disgusto sul volto di Claudia, cercavo di non pensare, mentre mi chiudevo la porta della mia stanza alle spalle.
Un'altra giornata era finita. Ero sopravvissuta.
Ero veramente sopravvissuta?
Perché il mio petto faceva così male allora?
Perché non riuscivo a trattenere le lacrime?
Perché le mie mani tremavano?
Perché il mio cuore si stringeva ogni volta che ripensavo all'abbraccio che mi ero scambiata con Nathan?
Nathan.
Dovevo cancellarlo dalla mia mente.
Dovevo smettere di pensare.
Chiusi la porta a chiave, mi sedetti sul letto, aprii un cassetto del comodino e tirai fuori una bustina piena di erba. Mi ero ripromessa di smettere di fumare centinaia di volte, ma avevo capito presto che non riuscivo ad addormentarmi senza. Non riuscivo a smettere di pensare a mia madre, di pensare a Rick, di pensare a mio padre, a Julie... ed ora c'era anche Nathan.
Girai velocemente una canna ed uscii dalla finestra sulla scala di emergenza del condominio, accendendola. Ad ogni tiro la mia mente era più leggera ed i pensieri meno importanti. Abitavamo al deciso piano e riuscivo a vedere Londra, notturna e piena di luci... Dio, quanto odiavo quella città e quanto l'idea di Brighton restava la più allettante che toccasse la mia mente.



*


Ok, sono d'accordo con chi criticherà dicendo che questo capitolo è deprimente e forse un po' troppo negativo, soprattutto considerando il personaggio di Dafne. Però è per questo che c'è Nathan, no? Per salvarla! Basta stereotipi di ragazze perfette e ragazzi problematici, questa volta ho deciso di sfatare il mito e mettere come personaggio problematico/violento/drogato una donna, che allo stesso tempo però studia in una delle università migliori del mondo e che si spacca la schiena per aiutare la madre e la famiglia.
Vivo a Londra da un anno e ho imparato che la realtà di Dafne è la realtà di moltissime persone che studiano anche con me. Padri morti in Iraq, pregiudizi contro la parte “snob” di Londra, ect. E quelli della Londra bene sono veramente insopportabili, pieni di sé, immersi nel Polo: Nathan è una eccezione.
Alla prossima <3

   
 
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