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Autore: fragolottina    31/05/2012    15 recensioni
"Ogni sei mesi tutti i ragazzi di tutte le scuole dello stato, di età compresa tra i diciassette ed i venti anni, venivano sottoposti ad un test.
Tutti i test erano spediti direttamente alla sede centrale dell’ADP a Vernon, dove erano analizzati, smistati e valutati.
C’erano tre responsi possibili: il primo, ragazzo normale, potevi continuare la tua vita come se niente fosse successo; il secondo, potenziale Veggente, non eri arrestato – od ucciso, come ebbi modo di scoprire in seguito – come un Veggente attivo, ma ad ogni modo eri obbligato a sottoporti a test clinici per valutare la tua resistenza al Mitronio, per calibrare una cura su misura; il terzo, potenziale Vegliante, un soldato, una risorsa del governo, da quel giorno la tua missione era quella di dare la caccia ai Veggenti attivi.
A quanto pareva, io ero una potenziale Vegliante."
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Synt'
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Mitrono
fragolottina's time
non avete idea di quanto mi avete fatto contenta!
mi rivolgo a tutte, sia quelle che hanno semplicemnte letto, che chi è stato così coraggioso da mettermi nelle seguite, ricordate e preferite per tornare a leggermi...
non vi arrabbiate se mando un bacio a chi mi ha recensito, grazie per aver perso cinque minuti a scrivermi!
ma procediamo signore e signori!
abbiamo un pubblico, la protagonista ed il figo della situazione... sarà il caso di uscire da quella gabbia di due metri per tre? ma direi anche di sì...
2.
Synt

    Non uscii da quella celletta grazie alle suppliche o alle promesse di Zach di portarmi in bagno, a mangiare qualcosa di buono, a recuperare le mie cose. «Non sei impaziente di contattare il tuo fidanzato?» mi chiese con la faccia più gentile del mondo, il ragazzo che aveva condannato la mia giovane vita ad una morte prematura e probabilmente violenta.
    «E dirgli di prepararsi a fare due minuti di silenzio per commemorarmi quando morirò?» ribattei sarcastica, ma avevo ancora la voce tremante e troppo acuta, isterica perfino alle mie orecchie.
    Jean alzò gli occhi al cielo, stranita ed annoiata per quella perdita di tempo, e mi lanciò un’occhiata. «Zach, accidenti!» era nervosa, l’incontro con il suo ex Responsabile l’aveva resa impaziente di andarsene. «Non peserà nemmeno cinquanta chili, prendila e portala fuori.» gli ordinò pratica.
    «Esco.» annunciai quando lo vidi fare un passo per entrare. Poteva somigliare quasi ad un suicidio, ma era comunque meno umiliante di farmi caricare in spalla e trascinare. “Piccola, ma agguerrita”.
    Non appena fui fuori, Jean mi prese il polso e mi mise in mano un fazzoletto di carta, senza staccare gli occhi dai miei. «Dignità.» mormorò. «In treno avrai una cuccetta tutta tua e potrai consumarti di lacrime e disperazione.» promise solenne.
    La fissai, orgogliosa, decisa, e cercai di immaginarmela anni prima alla sua Asta. Mi sembrava quasi impossibile che lei fosse stata me, preoccupata, spaventata e con il viso bagnato di lacrime, non era il tipo.
    «Ma adesso…» continuò con gli occhi fissi nei miei cercando di essere persuasiva. «Ce ne andiamo con dignità e senza pianti. Per quel che mi riguarda abbiamo già attirato troppo l’attenzione.» terminò dopo aver scoccato un’occhiata velenosa a Zach.
    Ci dirigemmo verso destra. Mentre camminavamo osservai tutte le cellette che superavamo, alcune già vuote, altre ancora piene. Davanti ad elementi particolarmente promettenti – come un ragazzo con la circonferenza dei bicipiti praticamente uguale a quella della mia vita – si era formata la folla e diversi Responsabili si contendevano un ragazzo o una ragazza a suon di rialzi. Zach camminava alla mia sinistra con le mani in tasca, meno interessato di me a tutto quel mondo, del quale, fino a quel momento, avevo soltanto sentito parlare. In fondo, quella non era la prima Asta a cui partecipava a differenza di me.
    «Non ho fatto niente.» si schermì.
    Io seguii il consiglio della sua Responsabile, della mia Responsabile, e mi asciugai occhi e viso. Capivo a cosa si riferiva quando parlava di dignità e trovavo che avesse ragione, non c’era davvero alcun motivo di dare in pasto agli squali la propria disperazione, quando mi aspettava la solitudine di una cuccetta.
    «Hai disobbedito agli ordini.» gli ricordò, lui alzò gli occhi al cielo, ma non rispose.
    «Come se Wood non cercasse soltanto una scusa per farti sbriciolare da qualcuno.»
    «So difendermi, Jean, li avrei distrutti. Tutti e due. Ed avrei dato un pugno in faccia a Wood, così avrebbe avuto la prova che sono “davvero un ottimo elemento”.» sbottò secco. Ce l’avrebbe fatta davvero? Certo, i Veglianti erano molto più forti e preparati dei normali cittadini – di me in particolare – ma i due ragazzi che accompagnavano Wood, erano Veglianti anche loro e mi erano sembrati piuttosto combattivi.
    La donna si massaggiò la fronte esasperata e si lasciò andare ad un lungo sospiro, senza allentare nemmeno per un secondo la presa sul mio polso. Iniziavo a sentirmi un po’ una bambina troppo vivace, più che una potenziale Vegliante.
    «Grazie tante, sarebbe stato proprio bello da parte tua, costringermi a sedarti ed offrirti alla punizione che avrebbe sicuramente ritenuto necessaria.» strinse di più il mio braccio, ma non lo fece apposta, solo un riflesso involontario, tutti i suoi muscoli si tesero. «Courtney non mi avrebbe parlato per una settimana e…» si bloccò. Inizialmente non capii per quale motivo, poi, oltre il chiasso che regnava, oltre il brusio assordante di milioni di voci, riconobbi il trillo acuto della suoneria standard di un cellulare, evidentemente del cellulare di Jean. Lo recuperò da una tasca e rispose. Non capii praticamente niente della conversazione, lei disse davvero poche parole mentre guardava con rammarico Zach. Li osservai con la coda dell’occhio, attenti entrambi, lei per nascondere, lui per scoprire. Per qualche motivo, del quale ero all’oscuro, non voleva che lui sentisse o capisse. La telefonata si chiuse con un “Arrivo subito”.
    «Che succede?» domandò Zach fissandola.
    «”Jean Roberts, il suo mentore, il signor Wood, ci ha fatto notare che non è stato ancora consegnato un rapporto dettagliato sulla morte di Joshua Lanter. Sarebbe così gentile da venirci a ragguagliare di persona?”» ripeté e sospirò ancora. «La prossima volta porto Nate con me.» afferrò il braccio di Zach, ma senza il possesso o la presunzione dell’altro responsabile; mise la mia mano nella sua e ci fissò alternativamente. «Non voglio che stiate qui senza di me.» affermò decisa, poi estrasse una schedina di plastica dalla tasca interna della sua giacca. «Salite sul treno per casa il prima possibile.» ordinò porgendogliela.
    “Casa”, sicuramente avevamo due idee diverse per quella parola.
    Come se mi avesse letto nel pensiero, Jean mi appoggiò le mani sulle spalle. «Lo so, che è brutto.» disse sincera, i suoi occhi neri sembravano dispiaciuti, comprensivi, quasi affettuosi. «Ci sono passata io, ci è passato lui. Però credimi se ti dico che non siamo il peggio che ti potesse capitare.»
    Non risposi, non pensavo stesse mentendo. Una parte di me, nonostante tutto, era ancora convinta che ad Amy fosse toccata la sorte peggiore, ma quei due volevano fare di me un’esca, mentre questo Wood mi avrebbe addestrata, sicuramente con metodi duri, ma la mia dipartita sarebbe stata meno prevedibile.
    «Lui si prenderà cura di te, se puoi cerca di prenderti cura di lui.»
Quello fu il primo ordine che mi diede.

La stazione era dall’altra parte della strada rispetto al fabbricato dell’Asta. Provai per tre volte a cercare di staccare la mia mano dalla sua inutilmente, Zach non mi guardò neppure, non sono neanche sicura che se ne accorse. La sua presa non era troppo stretta o fastidiosa, ma era ferrea, anche perché la mia manina stava tutta nella sua. Avrei dovuto tagliargli un braccio per costringerlo a lasciarmi e non mi sembrava un’idea praticabile. Mi sarebbe piaciuto fargli capire che non potevo avere intenzione di scappare; avevo visto diverse guardie all’entrata della stazione, ce ne sarebbero state altre sulla banchina e controlli rigorosi sul treno: una Vegliante minorenne doveva avere con sé il permesso della sua responsabile per spostarsi. Mi avrebbero beccata e mi avrebbe riportata da Jean senza particolari difficoltà. Quindi avrebbe anche potuto lasciarmi.
    Alla fine mi arresi, anche perché iniziai a notare, con disagio crescente, come le persone si aprissero intorno a noi, quasi avessero paura di toccarci. Sapevo che era a causa di Zach, del capotto verde che portava, di quello che rappresentava. Quante volte mia madre, incrociando un Vegliante per strada, mi aveva strattonata più vicina a lei? Erano pericolosi, lavoravano per noi, per proteggerci, ma erano pericolosi. Erano gli unici in grado di catturare, o all’occorrenza uccidere un Veggente, volendo mi avrebbe spezzata come un ramoscello.
    Ero pericolosa?
    Lanciai un’occhiata a lui, non sembrava accorgersi di niente: teneva la testa alta e la mia mano stretta, tutto il resto non lo vedeva. O forse fingeva di non vederlo. Come si sentiva un ragazzo normale ad essere trattato come un mostro? Con rispetto certo, ma un rispetto tanto carico di terrore non era un vero riconoscimento. Per me era diverso, io mi sentivo come le condannate a morte dei film in costume, trascinate attraverso la folla sulla gogna. Chiunque, studiandomi, doveva intuire che non avrei retto a lungo; non riuscivo a fare a meno di chiedermi se la mia morte sarebbe davvero servita a migliorare le cose.
    «Hai bisogno di qualcosa prima che saliamo sul treno?» mi domandò abbassandosi su di me. C’era chiasso, bambini che strillavano, persone che parlavano, un altoparlante che ricordava l’arrivo o la partenza di qualche treno. I suoi occhi erano davvero molto verdi e molto grandi.
    «Il bagno.» risposi, dopo qualche secondo di troppo che probabilmente lui archiviò come timidezza.
    Annuì e mi guidò attraverso gruppi di persone e trolley custoditi con poca attenzione, fino alla toilette per signore. Feci per entrare, ma non mi lasciò la mano, anzi mi strattonò per farmi voltare verso di lui. «Non fare scherzi. Sono veloce, se scappi ti prendo.»
    Mi morsi la lingua per impedirmi di chiedergli dove credeva potessi andare. Avevo già valutato le mie possibilità di fuga, erano praticamente nulle. Se pensava che avrei iniziato a correre come una pazza, senza una briciola di piano ed almeno una piccola percentuale di riuscita, aveva capito decisamente male: non ero stupida. Dignità.
    Scrollai il braccio e lui mi lasciò entrare. Non c’era la fila, solo una donna che si controllava davanti allo specchio ed una signora con troppo profumo che liberò una toilette al mio ingresso. Sentii i loro occhi seguire i miei movimenti, io mi impegnai ad evitare di far capire loro che le vedevo.
    «Povera piccola, ha visto che faccia? Deve venire dall’Asta.»
    «Mio Dio.» esclamò la signora sottovoce – ma non abbastanza – chiusa la porta. «Potrebbe essere mia nipote.»
    «O mia figlia.» continuò la donna. «Come si fa a dire ad una liceale “Cresci, prendi un coltello e cattura più Veggenti che puoi”?»
    Mi lasciai scivolare con la schiena contro la porta della toilette. Se mi avessero dato un coltello mi sarei tagliata un dito, prima ancora di provare a colpire un Veggente.
    Una delle due aprì l’acqua. «Dicono che tra i diciassette ed i venti sette anni siano più portati, hanno più probabilità di rimanere in vita.»
    «Lo spero per lei.»
    Sospirai. Quante probabilità avevo di rimanere in vita?
    Aspettai che se ne furono andate prima di uscire, il bagno era piacevolmente deserto. Mi fermai davanti al lavandino ed aprii l’acqua per darmi una rinfrescata, ma mi persi a studiare il mio riflesso nello specchio. Quando ero piccola e piangevo per una sgridata di mia madre o mio padre, mi rifugiavo nel mio riflesso. Stavo lì, a fissarmi negli occhi ed a sussurrarmi mentalmente parole di conforto. Perché ero una Vegliante? Quale problema avrei potuto creare ad un qualsiasi Veggente? Possibile che fossi una Vegliante solo per poter essere usata come esca e permettere a “Zachy” di diventare un eroe?
    «Non dovresti sprecare tutta quell’acqua.»
    Spostai gli occhi dal mio riflesso a quello di Zach, appoggiato allo stipite della porta, mi chiesi da quanto mi stesse guardando.
    Non risposi, mi sciacquai velocemente le mani sotto il getto poi chiusi il rubinetto. Strappai con fin troppo enfasi un paio di asciugamani di carta riciclata dal dispensatore, mentre, lanciandomi di tanto in tanto un’occhiata allo specchio, mi intimavo di stare zitta e buona.
    «Perché io?» chiesi senza riuscire a controllarmi.
    Scrollò le spalle. «Non lo so.»
    Feci una sorriso amaro scuotendo la testa.
    «Però lo scopriremo, sta tranquilla.»
    «Tranquilla?!» ribattei fulminandolo. «Come faccio a stare tranquilla? Sono un’esca!» esattamente come i vermetti che mio padre teneva in un barattolo ed usava per le gare di pesca al lago.
    Zach si lanciò un’occhiata alle spalle per controllare che non ci fosse nessuno. «Se Wood avesse capito che Jean voleva davvero te, avrebbe cercato di prenderti.» iniziò a mormorare. «È molto più ricco, potente ed influente di lei. In più è…»
    Lo guardai ridere pensandoci su, come ricordando un aneddoto divertente. Come poteva esserci un aneddoto divertente legato ad un uomo tanto spaventoso?
    «Piuttosto contrariato perché gli ha portato via Josh e tre anni fa ha lottato con le unghie e con i denti per aggiudicarsi me all’Asta.»
    Continuai ad osservarlo senza dire niente.
    «Lui ti avrebbe usato come esca.» precisò. «Jean mi ammazzerebbe anche solo se pensassi, che varrebbe la pena sacrificare qualcuno per raggiungere un obbiettivo. A Synt non lavoriamo così.»
    Persi colore, parole, fiato, tutto insieme: forse era meglio fare l’esca. «Synt.» sillabai senza voce. Mi schiarii la gola «Siete la squadra stabile di Synt?» domandai incredula e, questa volta, in modo udibile.
    Lui annuì ed allungò una mano verso di me. «Dobbiamo andare.»
    Synt era il centro del mondo da quando l’emergenza Veggenti era iniziata.
    Fino a mezzo secolo prima non era nemmeno una città, solo un distretto industriale popolato per la maggior parte da pendolari, che vi si recavano a lavorare ogni mattina. Con il tempo però gli impiegati e gli scienziati, che ogni sera tornavano dalle proprie famiglie, avevano iniziato ad avere paura di essere seguiti. Sicuramente paranoia, ma nessuno si era permesso di prendere alla leggera le loro sensazioni, perché nelle fabbriche di Synt non si producevano automobili, non si produceva nemmeno il plexiglass delle celle delle Aste, si produceva Mitronio. I blindati che rifornivano i Veglianti di tutto lo Stato partivano da lì.
    C’erano ovvi motivi perché i Veggenti tentassero ritorsioni verso chi vi lavorava.
    L’ADP, per tranquillizzare i propri lavoratori, aveva fatto costruire un complesso residenziale ad una ventina di chilometri dalle fabbriche, dove chiunque fosse coinvolto nel progetto potesse vivere in pace con la propria famiglia e dormire sonni sereni sotto il controllo di una squadra di Veglianti permanenti appositamente scelta. Erano sicuri di poter tenere una piccola città al sicuro, visto che riuscivano a farlo con un enorme metropoli come Los Angeles.
    Era stata una pessima idea.
    Synt vantava un gruppo di Veggenti molto più organizzato e motivato di quelli che si limitavano a sporadiche scorrazzate notturne a Los Angeles. Erano molti i ricercatori che avanzavano l’ipotesi che, proprio come il Mitronio, gli ordini che organizzavano i Veggenti di tutto il paese partissero da lì. Al telegiornale arrivavano continuamente notizie di attacchi, rapimenti, rappresaglie, scontri, tutti a Synt.
    La decisione più saggia da prendere sarebbe stata il trasferimento di chiunque vivesse lì verso altri luoghi, oppure lasciare che il lento abbandono la trasformasse in un città fantasma. Il problema era che Synt cresceva, costantemente.
    Dopo i primi anni quasi tutte le famiglie degli impiegati se ne erano andate e non erano più tornate, eppure Synt non era morta, anzi la popolazione aumentava di anno in anno. Il numero di spostamenti superava di gran lunga quello delle fughe.
    Mi chiedevo perché vivere lì ogni volta che la sentivo nominare. Io non avrei mai accettato di abitarci e di certo avrei tenuto i miei figli il più lontano possibile da quelle fabbriche. Perché andare a cercare guai?
    Ancora non potevo sapere che, rispondere a quella domanda, avrebbe significato cambiare il mondo e lasciare Zach ai Veggenti.

Ci mettemmo in fila davanti ad una biglietteria automatica, nonostante non rilasciassero biglietti da più di dieci anni, tutti continuavano a chiamarli allo stesso modo. Quando fu il nostro turno, Zach infilò la scheda che gli aveva consegnato Jean nell’apposita fessura ed attese alcuni secondi tamburellando con le dita sul vetro dello schermo. Io lo studiai mentre era tutto concentrato a spingere tasti per prenotare la nostra corsa, chissà quanti anni aveva? Certo, era impossibile fare un paragone tra me e lui, ma mi chiedevo per quanto fosse sopravvissuto.
    Sbuffò. «Niente cuccette libere.» si lamentò. «Dovremo accontentarci di un compartimento.»
    Da bambina, quando io ed i miei genitori partivamo per un viaggio, mio padre mi prendeva in braccio e faceva prenotare me indicandomi quali tasti premere. Li avrei rivisti?
    «Ogni quanto si può tornare a casa?» domandai.
    Lui si voltò verso di me e mi guardò per la prima volta come se capisse la mia inquietudine. Mi studiò tutta per quella che ero: Rebecca Farrel, diciassette anni, riserva delle cheerleader. Nessun potenziale, nessuna dote utile alla sopravvivenza, piccola, bassa, bionda.
    «Una settimana ogni tre mesi.» disse e recuperò la scheda.
    Mentre ci dirigevamo verso il vagone io contavo. Per rivedere mia madre e mio padre dovevo rimanere viva per novantatré giorni, non erano pochi, ma forse era possibile. Non ero più un’esca, le mie probabilità di sopravvivenza erano improvvisamente aumentate e, se quello che Zach diceva era vero, che la sua Responsabile non voleva morti inutili, non mi avrebbero mandata là fuori di notte appena arrivata a Synt; sarebbe stato un omicidio bello e buono ed avrei potuto compromettere la sicurezza di qualche altro componente della squadra. Dovevo sopravvivere per meno di novantatré giorni. Forse in tre mesi mio padre avrebbe trovato il modo di tenermi a casa, la mia vera casa.
    Fece salire me per prima sul treno, probabilmente per paura che con uno strattone ben assestato al momento giusto avrei potuto liberarmi della sua presa e scappare, iniziavo a pensare che non avesse affatto un’alta considerazione di me.
    Una volta che le porte scorrevoli si furono chiuse alle nostre spalle comunque, Zach mi lasciò finalmente la mano.
    Lo guardai sorpresa della novità e lui si strinse nelle spalle. «Sei in un tubo di acciaio sigillato, che tra pochi secondi inizierà a correre ad una velocità media di trecento chilometri orari.» ridacchiò. «A meno che tu non sappia volare, non c’è modo che possa scapparmi.» mi spiegò.
    «Perché prima potevo?» domandai sarcastica.
    Scrollò le spalle. «Non si può mai sapere.» disse incamminandosi lungo il corridoio.
    Per alcuni secondi rimasi a guardarlo da lontano, la sua camminata era composta, come se fosse sempre stato abituato a marciare invece che passeggiare. Mi morsi le labbra, incerta, poi iniziai a seguirlo. Non c’era molto altro che potessi fare.
    Si fermò davanti al compartimento numero quarantatré, inserì la scheda nell’apertura ed aprì la porta. I compartimenti erano sicuramente meno comodi delle cuccette – due panche di plastica, una di fronte all’altra ed uno smart table nel mezzo – ma comunque più tranquilli dei posti economici comuni.
    Sfiorai con la punta delle dita il tavolo liscio che si illuminò immediatamente. L’avevo anche nella mia cameretta, avevo dovuto lottare tanto con i miei genitori per convincerli a sostituirlo con la mia vecchia scrivania e ed il mio computer. Alla fine ero riuscita a strapparlo loro come regalo di compleanno per i miei quindici anni, promettendo solennemente di tenerlo spento mentre facevo i compiti.
    Era una schermo full touch con funzionalità praticamente illimitate; di norma, con quelli sui mezzi pubblici per lunghi tragitti, era possibile ascoltare la musica – attraverso apposite cuffie monouso – guardare film ed approfittare di una serie di mini-giochi per tutte le fasce di età. Tutto il necessario per non farti annoiare, anche se finivi per annoiarti comunque.
    Zach si sfilò la giacca, sotto aveva soltanto una maglietta a maniche corte nera, e si sdraiò sulla sua panca di schiena. Nel farlo la maglia gli scoprì la cintura dei pantaloni, dove era attaccato un coltello nel fodero. Un coltello grande, un coltello con il quale io mi sarei ferita sicuramente, sarebbe stato saggio non darmi qualcosa di così pericoloso. Distolsi lo sguardo, perché sembrava che stessi guardando lui e la strisciolina di pelle oltre il bordo dei pantaloni che si era scoperta.
    «Quindi ora mi porti a Synt, fra tre mesi posso tornare a casa per una settimana…» lo guardai. «E in questi tre mesi che succede?» mi sedetti sull’altra panca, davanti a lui.
    Era quasi completamente nascosto sotto il tavolo, riuscivo a vedere soltanto la sua gamba destra perché era ripiegata. «Diventi una Vegliante attiva. In tre mesi cambierai molto.»
    Mi guardai le mani, lo smalto viola come la divisa delle cheerleader, chiusi il pugno per nasconderlo. «Tu sei cambiato?»
    «Quanto chiacchieri…» ridacchiò. «Non avrei dovuto dirti che non saresti stata usata come esca, così saresti rimasta terrorizzata e silenziosa.»
    Arrossii. «Scusa.» rimasi zitta per appena un istante. «Quanto dura il viaggio?» gli domandai.
    «Sei ore, arriveremo che è già notte.» sbadigliò. «Se mi addormento mi svegli alle sei? Ordiniamo la cena.» questo era un ottimo modo per ordinarmi di stare zitta.
    Cercai sul mio tavolo la funzione “Sveglia” e la programmai per le sei. Per alcuni secondi rimasi ferma, immobile, indecisa su cosa fare per le prossime sei ore, se avessi recuperato il mio cellulare, invece di scappare in fretta e furia come aveva ordinato Jean, avrei potuto chiamare i miei o Taylor. Toccai l’icona con l’elenco delle funzioni di base per scoprire se era possibile effettuare telefonate tramite lo smart table e sospirai, ovviamente no. Mi sorpresi però di trovare il portale turistico di Synt, quale pazzo decideva di fare una vacanza a Synt?
    Curiosa, spulciai l’elenco delle attività consigliate: proponevano di intrattenersi nel centro sportivo, l’esplorazione della riserva naturale nel bosco ai limiti della città, la visita guidata alla fabbrica di Mitronio. Storsi il naso, non era esattamente un’attività alla quale avrei voluto partecipare.
    Non c’era nessuna cartina della città, cercai ovunque, ma niente. E come ci si aspettava che mi spostassi?
    Per rimediare però, c’era una foto di gruppo dei Veglianti di Synt. Sorridevano, incredibilmente sembrava quasi la foto di una famiglia. “Dormite sonni tranquilli, con loro che vegliano per la vostra sicurezza”. Nell’immagine c’erano otto persone, cinque uomini e tre donne, tutte con il cappotto verde, una era Jean, quindi i Veglianti effettivi erano sette: una ragazza aveva i lineamenti asiatici, mentre l’altra sembrava una reginetta di bellezza; c’era Zach, un tipo biondo con il viso ricoperto di efelidi, un ragazzo altissimo e robusto, un altro tipo biondo più uomo che ragazzo ed un nerd occhialuto e magrissimo. Ricordai che la responsabile avrebbe dovuto fare rapporto per un deceduto, Josh, mi chiesi quali di loro fosse. Li studiai con cura uno per uno; non dovetti pensarci molto. Era triste, ma il nerd con gli occhiali sembrava avere le mie stesse probabilità di sopravvivenza. Josh doveva essere sicuramente lui.
    Lasciai che lo smart-table andasse in modalità stand-by e scivolai sulla panca per avvicinarmi al finestrino del treno e guardare fuori. Alberi, case e distese coltivate correvano davanti ai miei occhi in una massa confusa ed appena riconoscibile. Se fossi stata normale a quel punto sarei stata al telefono con Taylor, a ripeterle mille volte quello che Logan, il ragazzo carino che giocava a pallacanestro, mi aveva detto quando avevamo pranzato insieme; se fossi stata normale mia madre mi avrebbe chiamata dal piano di sotto chiedendomi di fare qualcosa per lei, io avrei sbuffato ed avrei promesso a Taylor di richiamarla più tardi; se fossi stata normale in quel momento non sarei stata nel compartimento di un treno, con un ragazzo bellissimo ed armato addormentato, a calcolare la mie possibilità di vita o di morte.
    Mentre ero tutta presa da quelle riflessioni, Zach si aggrappò al bordo dello smart-table come se ne andasse della sua stessa vita e balzò a sedere. Io sussultai e mi trattenni a malapena dall’urlare per lo spavento, con il cuore che mi rimbalzava nel petto quasi a volermi sfondare la cassa toracica. Lo schermo full touch impazzì in tutta una serie di avvisi rossi lampeggianti per il corretto utilizzo del dispositivo evitando pressioni eccessive, in effetti Zach stava stringendo il piano così forte che aveva le punte delle dita bianche, ma non sembrava accorgersene. Continuai a fissarlo ad occhi sgranati e con il ritmo cardiaco accelerato: era ansante e pallidissimo, terrorizzato. Come me, supposi.
    Girò il viso verso di me e quasi sobbalzò quando scoprì di non essere solo.
    «Rebecca Farrel, diciassette anni…» deglutii. «Riserva delle cheerleader.» gli ricordai, perché mi guardava come un potenziale bersaglio ed aveva un coltello alla cinta dei pantaloni.
    Scosse forte la testa ad occhi chiusi, come a scacciare tutto quello che gli riempiva la mente. «S-si, lo so…» prese un profondo respiro, mentre io rimanevo immobile a guardarlo. Lasciò la presa sul tavolo e si tirò indietro i capelli, nel farlo si scoprì per un attimo la fronte madida di sudore.
    «Stai bene?» domandai incerta, quando il mio cuore ebbe un po’ rallentato la sua folle corsa.
    Annuì. «Brutti sogni.» spiegò con voce roca per il brusco risveglio. «A che punto siamo?» mi chiese dopo essersi schiarito la gola.
    «Non sono nemmeno le sei.» continuai a fissarlo. «A scuola ho fatto un corso di psicologia lo scorso semestre.» gli raccontai senza un vero motivo, il silenzio mi spaventava a volte, mi faceva sentire sola.
    «Ah sì?» rise. «E che significa quando sogni di precipitare da un grattacielo?» mi chiese. Le sue dita intanto si muovevano veloci sullo schermo dello smart-table – veloci, ma insicure, tremanti – finché non si fermarono sulla mappa che indicava il tragitto percorso dal treno e quello rimanente.
    «Freud direbbe che temi… ehm…» arrossii, scema, in quel discorso mi ci ero ficcata da sola.
    Zach scrollò le spalle, affatto in imbarazzo. «Non credo che Freud immaginasse una vita come quella di un Vegliante, una città come Synt ed un mondo come il nostro, quando spiegava le sue teorie.»
    Lo guardai senza rispondere: no, probabilmente no.
    «Come…»
    Alzò gli occhi su di me e per un attimo persi le parole. Bellissimo… cosa stavo per chiedere? Ah, sì… «Come è morto Josh?» mi stupii di me stessa, da dove mi era uscita una domanda del genere?
    Rise senza calore, il tipo di risata che nasconde un grido. Se di paura, di impotenza, di rabbia o di frustrazione ancora non potevo saperlo. «Precipitato da un grattacielo.»
    Trattenni il fiato.
    «Direi che hai le tue risposte.» commentò senza guardarmi.
    «Mi dispiace non…» mi interruppi. “Non volevo saperlo” mi avrebbe fatta apparire come una sciocca ragazzina che avrebbe voluto nascondere la testa sotto un cumolo di sabbia ed ignorare tutte le cose brutte che la circondavano. “Piccola, ma agguerrita”. «Mi dispiace per la vostra perdita.» ritrattai.
    Lui mi studiò attento. «Sconvolta come sembravi sei rimasta attenta, hai ricordato che qualcuno è morto, che quel qualcuno si chiamava Josh, che c’era tensione quando ne parlavamo… un sacco di informazioni per una cheerleader e basta.» le sue dita accarezzarono ancora il tavolo, questa volta con maggiore sicurezza. «Ed hai studiato tutto quello che hai trovato su Synt.» constatò controllando l’elenco di tutte le pagine visualizzate da quando eravamo entrati.
    Osservai tutto meravigliata. «Non credevo si potesse fare.»
    «Cos’hai? Una super memoria?» mi domandò ironico, anche se probabilmente avrebbe voluto sentirsi dire di sì.
    Mi strinsi nelle spalle. «Non credo di avere niente di super.»
    Incrociò le braccia sul tavolo e ci appoggiò sopra il mento. «A livello altamente strategico, anche se forse poco realista e decisamente ottimista, eri l’elemento migliore dell’Asta.» mi confidò. «Un mio vecchio amico ti avrebbe definita “un’incognita impazzita”. Un prezzo decisamente elevato, ma un profilo sicuramente basso.»
    Lo osservai. «Tu ci credi davvero, che io sappia fare qualcosa di super, non è vero?»
    Mi lanciò un’occhiata da sotto in su. «Non ti avrei comprata altrimenti.»
    «E se ti sbagli?» chiesi ad occhi bassi. «Io muoio.» feci scorrere la pagina del tavolo fino a trovare l’icona del menù del ristorante, anche se in quel momento non avevo proprio appetito.
    Quando tornai a guardarlo lui mi fissava. «Su certe cose non sbaglio mai e mi impegnerò a non farti morire, promesso.»
    Arrossii.
    Si raddrizzò. «Prendi della frutta, quella che ci mandano a Synt fa schifo.» fece una smorfia disgustata. «Approfittane, nei treni si mangia bene.»


in realtà, tra un po' - ok, tra un po' tanto - penserete a questi capitolo e direte "ah! eppure era ovvio, no?"... quindi, non maltrattate i miei capitolo noiosi... dai, è proprio soporifero?! mi fate venire le crisi di coscienza...
cmq, abbiate un pochina di pazienza... arrivati a Synt avremo troppo da fare per pensare alla noia!
vogliate bene a Josh, è un eroe... spero che più in là sarò abbastanza brava da farvi piangere la sua morte... che sembra una minaccia, ma non lo è!
spero che a qualcuno verrà voglia di farmi sapere che ne pensa e spero che non saranno tutti, tutti insulti, santo cielo!
baci


   
 
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